CORTE COSTITUZIONALE SERVIZIO STUDI LA PRASSI DEL CONTROLLO DI COSTITUZIONALITA’ NELL’ATTUALITA’: TIPOLOGIA DELLE DECISIONI “DI MERITO” NEI GIUDIZI SULLE LEGGI Incontro di lavoro con IL Supremo Tribunale Costituzionale (Brasilia 17 marzo 2008) *** Marzo 2008 1 INDICE 1. Il disegno del costituente. ..................................................................................................3 2. La dicotomia decisioni di accoglimento e di rigetto..........................................................4 3. Il dialogo con le magistrature. Decisioni interpretative di rigetto, decisioni correttive, decisioni interpretative di accoglimento.....................................................5 4. Decisioni di accoglimento parziale (testuale o interpretativo). ......................................11 5. Decisioni manipolative o paralegislative. Sentenze additive e sostitutive. Additive di garanzia e di prestazione. ......................................................................................12 6. Sentenze additive di principio, di meccanismo, di procedura. ........................................15 7. Modulazione degli effetti temporali delle decisioni della Corte. Sentenze monitorie, di incostituzionalità accertata ma non dichiarata, di costituzionalità provvisoria. Sentenze di incostituzionalità sopravvenuta o differita. ........................16 8. Dichiarazioni di illegittimità consequenziale. Rationes decidendi e obiter dicta. ..........18 2 1. Il disegno del costituente. Nella Costituzione italiana non v’è traccia della varia e complessa tipologia di decisioni che la Corte costituzionale può adottare nei giudizi di costituzionalità sulle leggi e sugli atti con forza di legge. La Carta fondamentale si limita a disciplinare (nell’articolo 136, integrato dall’articolo 30 della legge n. 87 del 1953) la dichiarazione di illegittimità costituzionale, i suoi effetti e le modalità di pubblicazione e comunicazione della decisione. L’apparente incompletezza del disegno costituzionale riflette – a ben vedere – l’originaria intenzione di attribuire alla Corte costituzionale soltanto il potere di accertare l’incostituzionalità della legge e reprimerla mediante un contrarius actus. Se nulla si dice degli effetti delle decisioni di rigetto, è perché alla Corte non è dato il compito di attestare la validità delle leggi1. E tanto meno quello di renderle costituzionalmente compatibili Nel disegno originario, il ruolo della Corte costituzionale è quello (kelseniano) di legislatore puramente “negativo”, vincolato alla rigida alternativa tra accoglimento e rigetto della questione. Il compito di attuare e svolgere a livello legislativo i principi costituzionali, quello di conformare ad essi la legislazione preesistente, così come di intervenire o meno a seguito delle dichiarazioni di incostituzionalità, sono riservati in positivo al Parlamento. Dal rigido schema accoglimento-rigetto e dal ruolo limitato che esso comporta, la Corte costituzionale si è fin dall’inizio distaccata. Per ragioni che emergeranno più avanti, la sua giurisprudenza ha progressivamente elaborato una ben più sofisticata tipologia di modelli decisionali2. L’analisi dei quali deve tuttavia necessariamente muovere dalla distinzione tra decisioni di accoglimento e di rigetto e dall’esame degli effetti che l’ordinamento ad essi ricollega. 1 Come si evince dalle parole di F. Gullo, in Ass. Cost., 28 novembre 1947, vol. V, 4231: “[…] perché la legge abbia vigore non c’è bisogno che la Corte la dichiari costituzionale. Il giudizio della Corte ha un valore in quanto afferma la incostituzionalità della norma … La Corte in tanto esplica il suo potere in quanto dichiara la incostituzionalità della norma”. 2 L’elaborazione di questa varia tipologia di pronunce è avvenuta soprattutto ai fini della soluzione delle questioni di legittimità costituzionale promosse in via incidentale, vale a dire sollevate nel corso di un giudizio ed aventi ad oggetto disposizioni legislative che i giudici sono chiamati ad interpretare e ad applicare per decidere controversie concrete riguardanti diritti e doveri dei singoli. L’uso dei tipi così elaborati è stata dalla Corte estesa alle questioni in via principale promosse dallo Stato nei confronti delle leggi regionali e dalle Regioni nei confronti delle leggi statali (o di altre Regioni). Tali questioni – caratterizzate da un maggior grado di astrattezza per l’assenza di un giudizio a quo e (normalmente) di interpretazioni giurisdizionali delle disposizioni censurate – sono finalizzate a stabilire il riparto della competenza legislativa fra lo Stato e le Regioni (pur se sovente finiscono per coinvolgere anche la garanzia di diritti fondamentali). 3 2. La dicotomia decisioni di accoglimento e di rigetto. Ove non sussistano motivi pregiudiziali di inammissibilità (i quali comportano l’adozione di pronunce meramente processuali), la Corte costituzionale valuta la sussistenza o meno del contrasto fra la norma legislativa censurata ed il parametro costituzionale di cui si assume la lesione. Nel primo caso essa perviene ad una decisione di accoglimento, con la quale dichiara l’illegittimità costituzionale. Nel secondo, ad una decisione di rigetto, con cui (a seconda della maggiore o minore difficoltà di soluzione) dichiara la non fondatezza o la “manifesta” infondatezza della questione. 2.1. Le decisioni di accoglimento sono adottate sempre con sentenza. Dal giorno successivo alla pubblicazione di esse, le norme dichiarate incostituzionali “cessa[no] di avere efficacia” (articolo 136 della Costituzione) e “non possono avere applicazione” (articolo 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953). La dichiarazione di incostituzionalità ha valore erga omnes3 e produce (almeno indirettamente) effetti retroattivi4, nel senso che le conseguenze che l’ordinamento ad essa collega non operano solo pro futuro, ma riguardano anche i rapporti preesistenti, ad eccezione di quelli che – per ragioni di ordine processuale o sostanziale5 – siano già chiusi in modo irretrattabile o, come suol dirsi, “esauriti”. Secondo la ricostruzione prevalente in dottrina ed avallata dalla giurisprudenza costituzionale, la dichiarazione di illegittimità costituzionale è sostanzialmente assimilabile nei suoi effetti ad una decisione di annullamento6. La natura giuridica della sentenza di accoglimento appare però duplice: dichiarativa dell’invalidità (in quanto accerta l’antinomia tra la legge e la Costituzione, logicamente preesistente alla pronuncia); costitutiva, invece, quanto all’inefficacia della legge dichiarata incostituzionale7. 3 Da essa scaturisce infatti un obbligo generalizzato di disapplicazione della norma legislativa dichiarata incostituzionale. Con la conseguenza, tra l’altro, che al legislatore resta precluso di reintrodurre la norma dichiarata illegittima od altra identica nel risultato. 4 La retroattività della dichiarazione di incostituzionalità è stata dalla Corte affermata in più occasioni: si veda ad esempio la sentenza n. 3 del 1996, dove si legge che “è nella logica del giudizio costituzionale incidentale che - ferma restando la perdita di efficacia della norma dichiarata incostituzionale dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione, e la sua inapplicabilità nel giudizio a quo e in tutti quelli ancora pendenti, anche in relazione a situazioni determinatesi antecedentemente - la retroattività delle pronunce d’incostituzionalità trovi un limite nei rapporti ormai esauriti, la cui definizione - nel rispetto del principio di uguaglianza e di ragionevolezza - spetta solo al legislatore di determinare”. 5 Quali, ad esempio, l’esistenza di una precedente sentenza passata in “giudicato” o di una preclusione processuale, l’avvenuta decorrenza di termini di prescrizione o di decadenza, l’intervenuta stipula di una transazione. Il limite dei rapporti esauriti non vale in relazione alle sentenze penali di condanna, nei termini indicati dall’articolo 30, quarto comma della legge n. 87 del 1953. 6 In tal senso sono orientate le sentenze n. 127 del 1966, n. 58 del 1967 e n. 49 del 1970. 7 Il problema della qualificazione giuridica delle decisioni di accoglimento come sentenze di annullamento ovvero di accertamento di nullità è indotto dalla formulazione testuale dell’articolo 136 della Costituzione, 4 Quanto agli effetti che la dichiarazione di incostituzionalità produce sulle questioni ancora pendenti in ordine alla medesima norma, la giurisprudenza costituzionale ha mostrato qualche tentennamento, inizialmente ragionando in termini di manifesta infondatezza (e, dunque, di sopravvenuta insussistenza del vizio), poi di manifesta inammissibilità (per sopravvenuta inesistenza del suo oggetto), infine di necessità di restituire gli atti ai giudici a quibus (per il riesame della rilevanza della questione)8. 2.2. Le decisioni di rigetto (non fondatezza semplice o manifesta) escludono la sussistenza degli specifici motivi di incostituzionalità sottoposti all’esame della Corte. Esse non certificano uno status di legittimità costituzionale delle norme legislative scrutinate, le quali possono essere nuovamente sottoposte all’esame della Corte – e riconosciute illegittime – in riferimento a parametri o sotto profili diversi da quelli precedentemente dedotti. La decisione di rigetto non ha effetti erga omnes, ma inter partes. Essa, infatti, preclude la riproposizione della stessa questione nel medesimo giudizio (o secondo alcuni nello stesso stato e grado di giudizio). Non impedisce invece agli altri giudici (o allo stesso giudice in altri giudizi) di proporre nuovamente negli identici termini la questione già respinta. La quale può – soprattutto a distanza di anni – essere ritenuta fondata (vuoi per l’abbandono, re melius perpensa, della ratio posta a base della precedente decisione di rigetto9; vuoi per il mutamento del quadro normativo o della coscienza sociale in cui la norma si trova ad operare10). Con terminologia processualistica, si suol dire che le decisioni di rigetto non acquistano forza di “giudicato”, ma hanno quella del “precedente”. 3. Il dialogo con le magistrature. Decisioni interpretative di rigetto, decisioni correttive, decisioni interpretative di accoglimento. In base al disegno originario, la Corte costituzionale avrebbe dovuto – su iniziativa dei giudici, ovvero su ricorso dello Stato e delle Regioni – confrontare le norme e le il quale prevede che la illegittimità sia “dichiara[ta]” e che ciò determina la “cessazione dell’efficacia” della norma illegittima. 8 Quest’ultima soluzione non può ovviamente applicarsi ai giudizi di costituzionalità proposti in via principale. In essi le questioni ancora pendenti dopo la caducazione (in altro giudizio principale o incidentale) della norma impugnata potrebbero essere risolte con dichiarazione di manifesta inammissibilità (per sopravvenuto difetto di interesse all’impugnazione, piuttosto che per sopravvenuta inesistenza dell’oggetto) ovvero con dichiarazione di cessazione della materia del contendere (la quale, però, presuppone di regola l’inattuazione della norma impugnata e il carattere satisfattivo della sopravvenienza). 9 Si parla allora di decisione overruling. 10 Nel qual caso resta da verificare se tratti di un revirement o di una incostituzionalità sopravvenuta. 5 disposizioni legislative con la Costituzione, e in caso di contrasto dichiarare l’illegittimità delle prime, in caso contrario rigettare la questione. Come già si è accennato, la rigida dicotomia tra decisioni di rigetto e di accoglimento è subito apparsa alla Corte costituzionale insufficiente rispetto alla funzione che essa era chiamata a svolgere ed al ruolo che intendeva assumere. E ciò sia per ragioni di ordine logicogiuridico, sia per le contingenze storico-politiche esistenti nel momento in cui la Corte costituzionale cominciò ad operare. Sul piano logico, occorre anzitutto considerare che la compatibilità delle disposizioni legislative con quelle costituzionali dipende (tranne il caso di vizi formali) dai significati alle une e alle altre attribuite11. Il giudizio di legittimità costituzionale sostanziale presuppone dunque un’operazione ermeneutica diretta a ricavare dal testo legislativo (dalla disposizione) la regola che esso esprime (la norma). Alla Corte costituzionale deve allora riconoscersi non solo il potere di interpretare la Costituzione (della cui interpretazione “vera” essa ha il monopolio), ma anche quello di interpretare autonomamente le disposizioni legislative sottoposte al suo sindacato12. Se così non fosse, essa sarebbe costretta a condurre la verifica di costituzionalità rispetto ad ognuna delle diverse (e contrastanti) interpretazioni che della stessa disposizione le vengano di volta in volta prospettate; e – a seconda che l’interpretazione proposta sia conforme o difforme dalla Costituzione – dovrebbe dichiarare l’incostituzionalità o assolvere la disposizione censurata. Nei giudizi di costituzionalità in via incidentale – quelli, cioè che sorgono nell’ambito e per la soluzione di un giudizio e che (almeno fino alla Riforma del Titolo V della Costituzione) hanno rappresentato il tipo assolutamente prevalente – il potere della Corte di interpretare le disposizioni legislative per giudicare della loro compatibilità costituzionale coesiste con il potere interpretativo che i giudici comuni esercitano – in piena indipendenza (articolo 101, secondo comma, della Carta) – per l’applicazione delle leggi al caso concreto e che caratterizza la funzione giurisdizionale 11 Il vero oggetto del giudizio di legittimità è dunque la norma, il significato desumile in via di interpretazione dal testo normativo. La disposizione (il significante) costituisce il tramite per l’accesso della questione all’esame della Corte e il necessario riferimento della valutazione operata dalla Corte: la quale – come si legge nella sentenza n. 84 del 1986 – “giudica su norme, ma pronuncia su disposizioni”. 12 Questo passaggio logico è desumibile dal confronto fra gli articoli 134 e 136 della Costituzione: il primo assoggetta al controllo di costituzionalità gli atti legislativi, il secondo riferisce la dichiarazione di incostituzionalità alle norme. 6 La coesistenza – non positivamente regolata, ma razionalmente desumibile – di poteri interpretativi aventi il medesimo oggetto (le leggi) postulava dunque un dialogo fra la Corte e le magistrature. Sul piano storico, il dialogo era tanto più opportuno quando la Corte iniziò ad operare. Nella sua prima sentenza (n. 1 del 1956), la Corte aveva infatti affermato di essere competente a sindacare anche le norme legislative precostituzionali e di poter dichiarare la illegittimità costituzionale di esse (così come di quelle successive) per violazione di qualunque previsione costituzionale, indipendentemente dalla distinzione fra norme costituzionali precettive e programmatiche13, utilizzata fino al 1956 (soprattutto) dalla Corte di Cassazione, per negare (quasi sempre) alla nuova Costituzione efficacia abrogativa della normativa preesistente. Per conseguenza, essa era chiamata a giudicare di leggi ispirate a valori diversi (e sovente antitetici) rispetto a quelli espressi dalla Costituzione repubblicana; e, al tempo stesso, doveva confrontarsi con le preesistenti interpretazioni giurisprudenziali, rimaste insensibili ai nuovi principi. Preoccupata della possibilità che un uso radicale delle decisioni di accoglimento provocasse vuoti e lacune nell’ordinamento – di fronte alle quali il legislatore avrebbe potuto restare inerte, creando situazioni di ancor maggiore incostituzionalità – la Corte scelse dunque inizialmente di dialogare soprattutto con le magistrature. E lo fece rivendicando il potere di interpretare autonomamente le leggi sottoposte al suo esame. Nell’esercizio di tale potere, la Corte si è sempre fatta portatrice – all’inizio applicandolo direttamente, poi richiamando costantemente al suo rispetto i giudici comuni14 – di un fondamentale canone ermeneutico: quello della ricerca e della preferenza per l’interpretazione compatibile con i valori costituzionali. Seguendo tale canone, quando la stessa la disposizione legislativa (e cioè la formula linguistica letterale adoperata dal legislatore) sia suscettibile di più interpretazioni alternative, deve essere scelta quella conforme a Costituzione: occorre cioè preferire la norma (il risultato interpretativo) costituzionalmente compatibile. E ciò perché, in base al principio di conservazione degli atti giuridici, applicabile anche nell’ambito degli atti fonte, “le leggi non 13 La “fatale distinzione” fra norme costituzionali precettive e programmatiche (queste ultime rivolte in modo esclusivo e non vincolante al legislatore) aveva caratterizzato il controllo “diffuso” di costituzionalità esercitato, in base alla VII disposizione transitoria, dai giudici comuni negli anni dal 1948 al 1956. 14 Fino a configurarlo nell’ultimo quindicennio come un preventivo onere per poter sollevare questioni incidentali di legittimità costituzionale. 7 si dichiarano incostituzionali se esiste la possibilità di dare loro un significato che le renda compatibili con i precetti costituzionali”. Si spiega così perché, già a partire dalla sentenza n. 8 del 1956, anziché ritenersi vincolata dall’interpretazione costituzionalmente incompatibile seguita dai giudici nel sollevare la questione, la Corte rifiuti di aderire ad essa e, in applicazione del predetto canone, indichi la possibilità di dare alla disposizione censurata un’interpretazione adeguatrice o correttiva, idonea ad evitare il contrasto con i parametri costituzionali invocati. 3.1. Viene in tal modo a delinearsi il primo modello di decisione pretoria: quella delle sentenze interpretative di rigetto, con le quali la Corte accredita un significato costituzionalmente legittimo diverso da quello che dalla medesima disposizione il giudice a quo aveva ricavato. Il dispositivo di tali sentenze dichiara la questione “non fondata, [ma] nei sensi di cui in motivazione”, avvertendo che si tratta di un rigetto per così dire “condizionato”, che la disposizione è compatibile con il parametro costituzionale, ma solo se ed in quanto ad essa venga data un’interpretazione diversa (quella suggerita dalla Corte, o comunque un’altra immune dai vizi ipotizzati) rispetto a quella in base alla quale la questione incidentale è stata sollevata. La finalità delle interpretative di rigetto è dunque di evitare di dichiarare l’incostituzionalità quando la reductio ad legitimitatem possa essere realizzata in via interpretativa dagli stessi giudici comuni; e al tempo stesso di far penetrare i valori costituzionali nelle aule giudiziarie come (fondamentale) criterio ermeneutico. La funzione storica di tali decisioni è di realizzare l’adeguamento della legislazione precostituzionale ai nuovi valori attraverso la collaborazione dei giudici, sollecitati ad abbandonare le interpretazioni costituzionalmente incompatibili. Si tratta tuttavia – ed è questo il loro limite – di decisioni di rigetto, che non hanno effetti erga omnes e che non impediscono ai giudici – se non a quello che ha sollevato la questione15 – di riaffermare l’interpretazione rifiutata dalla Corte16. 15 Per il giudice a quo sembra sussistere non già un vincolo positivo di interpretazione (obbligo di conformarsi all’interpretazione adeguatrice somministrata dalla Corte), ma un vincolo puramente negativo (divieto di seguire l’interpretazione ricusata dalla Corte, ma con facoltà di adottare una terza interpretazione, che lo stesso rimettente reputi esente da dubbi di incostituzionalità). 16 Secondo autorevolissima dottrina, ove i giudici ritengano che alla disposizione debba darsi l’interpretazione già dalla Corte rifiutata, sono tenuti a rimettere nuovamente alla Corte la relativa questione di costituzionalità. 8 La loro efficacia è meramente persuasiva e non obbligatoria, e finisce con l’essere vanificata dalla mancata adesione giudiziaria all’interpretazione adeguatrice enunciata dalla Corte. 3.2. Una diversa funzione delle interpretative di rigetto emerge a partire dagli anni ottanta, quando il tentativo della Corte di conformare l’attività interpretativa dei giudici subisce un ridimensionamento. Di fronte ad interpretazioni giurisprudenziali consolidate, la Corte rinuncia a proporre una propria interpretazione costituzionalmente orientata, accettando di giudicare la disposizione nel significato normativo in cui essa “vive” nella realtà giuridica. Questa “dottrina del diritto vivente” rappresenta in un certo senso il punto di sutura fra il potere della Corte e dei giudici di interpretare le leggi. La Corte accetta infatti di limitare la propria autonomia interpretativa non già a favore di quella dell’autorità giurisdizionale che ha sollevato la questione, ma dell’interpretazione del diritto scritto obbiettivamente consolidatasi nella prassi applicativa (e soprattutto nella giurisprudenza della Cassazione e del Consiglio di Stato)17. Ne consegue che le sentenze interpretative di rigetto non possono essere utilizzate per cercare di modificare l’interpretazione giurisprudenziale generalmente condivisa (alla cui incostituzionalità la Corte può reagire solo con la dichiarazione di illegittimità costituzionale, secondo i casi totale o parziale), ma per conformare gli indirizzi giurisprudenziali non ancora consolidati, orientandoli nel senso costituzionalmente compatibile. Negli ultimi decenni, l’uso delle interpretative di rigetto postula, dunque, l’assenza di un diritto vivente diversamente orientato. 3.3. Quando il diritto vivente – o comunque l’indirizzo interpretativo dominante nella giurisprudenza e nella dottrina – siano costituzionalmente compatibili, la Corte tende a confermarli e accreditarli mediante decisioni correttive, nelle quali la dichiarazione di non fondatezza è appunto basata sul richiamo all’interpretazione indicata dalla Corte Cassazione o dal Consiglio di Stato (o comunque prevalente in giurisprudenza e sostenuta da unanime dottrina). In tal caso la Corte non somministra (non essendovene necessità) una interpretazione adeguatrice propria. L’uso della correttiva in luogo dell’interpretativa di rigetto dipende in 17 Soprattutto alla giurisprudenza della Cassazione – cui spetta il potere di nomofilachìa – “si ricollega la stessa formazione, e perciò anche l’evoluzione nel tempo, del diritto vivente” (ordinanza n. 322 del 2001). Sovente esso è desunto dalla giurisprudenza amministrativa del Consiglio di Stato. Raramente dalla uniforme applicazione amministrativa e/o dalla unanime interpretazione dottrinale. 9 sostanza dalla maggiore o minore diffusione e stabilità dell’interpretazione costituzionalmente corretta. 3.4. Alla inosservanza da parte dei giudici (e soprattutto della Cassazione), delle decisioni interpretative di rigetto, la Corte ha nel primo decennio di attività fatto seguire decisioni interpretative di accoglimento (in senso stretto). Tali decisioni – riconoscibili dalla formulazione del dispositivo: “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo … nei sensi e nei limiti di cui in motivazione”; ovvero, “dell’articolo … interpretato nel senso …” – colpiscono la disposizione in quanto essa venga interpretata nel significato già dalla Corte rifiutato (ma senza effetti vincolanti) in una precedente interpretativa di rigetto. In tal modo la dichiarazione di incostituzionalità riguarda e preclude la possibilità che la disposizione venga interpretata nel significato dalla Corte già ritenuto incompatibile con i parametri costituzionali, anziché nel significato costituzionalmente adeguato. La disposizione non viene dalla Corte caducata, né del tutto, né in parte, ma ad essa non è più ascrivibile il significato dichiarato incostituzionale. Come nelle interpretative di rigetto – delle quali le interpretative di accoglimento capovolgono lo schema, costituendone il reciproco – la motivazione entra a far parte del decisum, ma stavolta con effetti vincolanti per i giudici e con valore erga omnes. L’adozione della interpretativa di accoglimento si giustifica quando ed in quanto sia rimasta dalla maggioranza dei giudici inascoltata la precedente interpretativa di rigetto. All’inefficacia della quale, la Corte reagisce trasformandola in pronuncia di accoglimento. Questa tecnica della “doppia pronuncia” – nella quale c’è forse una contraddizione, dal momento che l’interpretazione contra constitutionem è dalla Corte prima rifiutata e poi (allo scopo di eliminarla) accettata – è venuta negli anni successivi a modificarsi, avendo la Corte preferito reagire all’inosservanza delle interpretative di rigetto mediante sentenze di incostituzionalità parziale o totale. Con la conseguenza – rimarcata dalla dottrina – che l’impiego delle interpretative di accoglimento è divenuto raro e recessivo. Tale conseguenza sembra però contraddetta dalla recentissima sentenza n. 78 del 2007, dichiarativa dell’incostituzionalità di disposizioni dell’ordinamento penitenziario “ove interpretat[e]” nel senso costituzionalmente incompatibile indicato nella medesima sentenza (e non in una precedente interpretativa di rigetto). Dal che si dovrebbe desumere che, in presenza di indirizzi interpretativi contrastanti della Corte di Cassazione, la Corte possa intervenire direttamente con una decisione interpretativa di accoglimento (non più legata in binomio con una precedente interpretativa di rigetto). 10 4. Decisioni di accoglimento parziale (testuale o interpretativo). Se il dialogo con i giudici consente di evitare la dichiarazione di incostituzionalità quando la reductio ad legitimitatem sia possibile sul piano interpretativo, un problema ulteriore si pone riguardo all’ampiezza della dichiarazione di illegittimità costituzionale quando essa debba essere comunque adottata. Sul piano logico-giuridico, le decisioni interpretative di rigetto e di accoglimento postulano la possibilità di scindere le norme (oggetto del giudizio) dalle disposizioni (oggetto dalla pronuncia). Questa possibilità si eleva a necessità quando manchi una univoca corrispondenza tra le une e le altre, non perché alla disposizione sono riconducibili più norme tra loro alternative, ma perché la disposizione esprime contenuti normativi plurimi e dunque è divisibile in più norme non escludentisi tra loro. Una rigida applicazione del principio in base al quale la dichiarazione di incostituzionalità deve comunque far riferimento a disposizioni individuate potrebbe tuttavia condurre alla caducazione totale di queste anche quando il contrasto con la Costituzione riguardi una sola delle norme veicolate dal testo legislativo. Il rimedio a questa incongruità non può essere che quello di riferire la dichiarazione di incostituzionalità alle sole norme costituzionalmente incompatibili contenute nella disposizione. Il principio di conservazione ed economia dei mezzi giuridici (utile per inutile non vitiatur) e quello della “soluzione meno incidente” postulano che, di fronte a disposizioni a contenuto normativo multiplo, la dichiarazione di incostituzionalità sia solo parziale, vale a dire limitata alla norma (corrispondente o meno ad una parte testuale della disposizione) che risulti non conforme a Costituzione. In questa prospettiva, l’utilizzazione di decisioni caducatorie di una intera disposizione si giustifica solo quando alla disposizione non sia riconducibile alcun significato (alcuna norma) costituzionalmente compatibile, vale a dire sussista (in base al diritto vivente, nei giudizi incidentali; in base all’interpretazione accolta dalla Corte, nei giudizi in via principale) una univoca e non frazionabile corrispondenza fra il testo e la norma incostituzionale. 4.1. Alla categoria delle decisioni di accoglimento parziale sono riconducibili tutte quelle che – senza caducare l’intera disposizione – colpiscono una parte dei contenuti normativi presenti in essa. A seconda che la dichiarazione di incostituzionalità si riferisca a 11 singoli segmenti della disposizione (brani, locuzioni o parole) o, prescindendo da qualsiasi riferimento al testo, direttamente a una delle norme desumibili dal testo, si parla di decisioni di accoglimento parziale testuale o di accoglimento parziale interpretativo. Le sentenze di illegittimità parziale testuale18 dichiarano l’illegittimità costituzionale di una disposizione “limitatamente alle parole [espressamente individuate e riportate tra virgolette]” che enunciano la norma costituzionalmente incompatibile. L’eliminazione della quale avviene dunque attraverso la riduzione del testo della disposizione, che sopravvive (ma) priva della parte (del segmento) in cui è veicolata la norma incostituzionale. La concreta praticabilità di questo tipo di pronunce – più o meno vantaggiose in termini di certezza del diritto – dipende dalla possibilità di dividere il testo in modo da escludere la sola norma incostituzionale. Le sentenze di illegittimità parziale interpretativa19 sono caratterizzate dalla dichiarazione di incostituzionalità della disposizione “nella parte in cui prevede” un certo contenuto normativo (o da formule equivalenti: “nella parte in cui si riferisce” a certe fattispecie). Esse lasciano inalterata la disposizione, ma ne riducono i contenuti normativi o l’ambito di applicazione. Viene cioé ad essere caducata una delle norme (non alternative) di cui quella disposizione era veicolo, senza incidere sull’applicabilità delle altre. Nella ablazione di frammenti testuali o di contenuti normativi v’è una modificazione dell’ordinamento legislativo ancora compatibile con il ruolo di legislatore “negativo” che il costituente aveva assegnato al Giudice delle leggi. Vero è che una manipolazione (testuale o interpretativa) dell’originario dato normativo è presente (e può far ritenere – come da alcuni ritenuto – che di nuova normazione pur sempre si tratti); tuttavia essa è riduttiva, non aggiuntiva di norme. 5. Decisioni manipolative o paralegislative. Sentenze additive e sostitutive. Additive di garanzia e di prestazione. Il filo conduttore della ricerca di modelli decisionali intermedi e più sofisticati rispetto a quelli – paradigmatici – delle decisioni di puro e semplice rigetto o accoglimento è l’horror vacui, il timore di incidere il tessuto legislativo troppo profondamente creando scompensi e situazioni di maggiore incostituzionalità. Il self restraint della Corte non può tuttavia tradursi nel mancato esercizio della sua funzione di garante dei valori costituzionali ogni qual volta la reductio ad legitimitatem esiga un intervento integrativo della disciplina legislativa esistente. 18 Esempi sono offerti dalle sentenze n. 104, n. 174, n. 234, n. 255, n. 257 e n. 311 del 2006. 19 Esempi sono offerti dalle sentenze n. 190 e n. 266 del 2006. 12 La Corte si è spinta perciò ad adottare decisioni con cui incide sul tessuto legislativo non per rimuovere regole in esso già presenti, ma per introdurne di nuove, la mancanza delle quali rende la disposizione incostituzionale. Per raggiungere questo risultato la Corte trasforma, come nelle sentenze di accoglimento parziale, il vizio della legge (incostituzionale perché …) in una norma autonoma (incostituzionale nella parte in cui …). Malgrado la tecnica non nuova, la Corte assume così il potere di adeguare l’ordinamento legislativo alla Costituzione integrandolo in positivo, quando (ed in quanto) ciò sia possibile senza l’intervento del legislatore. Il che avviene soltanto quando l’integrazione non esiga scelte discrezionali, le quali restano riservate soltanto al legislatore. In tale categoria di pronunce – definite, per l’effetto che producono, manipolative (in senso stretto) o paralegislative – rientrano le decisioni additive e quelle sostitutive. Le decisioni additive (o aggiuntive)20 sono quelle che accolgono la questione 5.1. aggiungendo alla disposizione legislativa una norma omessa dal legislatore e non desumibile in via di interpretazione estensiva o di applicazione analogica (perché il tenore letterale lo impedisce, o perché il “diritto vivente” è ormai consolidato in senso negativo). Esse ampliano il contenuto normativo o la portata applicativa originariamente ascrivili alla disposizione, lasciandone il testo inalterato. La dichiarazione di incostituzionalità colpisce infatti la disposizione «nella parte in cui non prevede» un determinato contenuto, o «nella parte in cui non si applica» a fattispecie ulteriori, o «nella parte in cui non include» (tra i beneficiari di una prestazione) determinati soggetti, ovvero «nella parte in cui non equipara» determinati soggetti ad altri. La pronuncia additiva presuppone l’impossibilità di superare la “norma negativa” sul piano dell’interpretazione; ma anche l’esistenza di un’unica soluzione costituzionalmente obbligata. Ciò in quanto, anche a voler ritenere che formalmente l’additiva espunge dall’ordinamento legislativo una “norma negativa” che già c’era, sostanzialmente essa introduce una norma precisa che mancava (in ciò consiste appunto l’addizione) e che diviene suscettibile di immediata applicazione da parte degli organi giurisdizionali. È stato perciò osservato che la Corte svolge in concreto un ruolo legislativo (o paralegislativo). Ad evitare questa conclusione, la giurisprudenza costituzionale puntualizza – in guisa di massima21 – che un intervento di tipo additivo è alla Corte precluso quando comporti 20 21 Il primo esempio delle quali risale probabilmente, alla sentenza n. 24 del 1957. Ad esempio, nella sentenza n. 109 del 1986. 13 l’adozione di scelte discrezionali, come tali riservate al legislatore (articolo 28 della legge n. 87 del 1953); le è invece consentito quando l’addizione sia “a rima obbligata”, nel senso che la nuova norma è in qualche modo già presente al livello costituzionale e l’estensione a quello legislativo risulta logicamente necessitata, così che la Corte solo apparentemente svolge una attività legislativa. Quando non vi sia un’unica soluzione costituzionalmente obbligata, ma una pluralità di possibili soluzioni adeguatrici, la Corte declina la propria competenza, affermando che spetta al legislatore operare la necessaria scelta discrezionale, e dichiara la questione inammissibile. In osservanza del principio di legalità dei reati e delle pene (articolo 25, secondo comma, della Costituzione), le pronunce additive sono dalla Corte stessa ritenute non consentite nella materia penale, ove producano effetti in malam partem. A seconda che l’addizione determini l’estensione di garanzie o, invece, di prestazioni economiche e servizi facenti carico ai bilanci pubblici, la dottrina distingue additive di garanzia e additive di prestazione. Questo secondo tipo di pronunce può comportare (e in passato talvolta ha comportato22) problemi di copertura finanziaria, impegnando il Governo e il Parlamento (e in futuro le Regioni) a reperire le risorse finanziarie occorrenti per dare esecuzione alla pronuncia, in ottemperanza all’obbligo imposto dall’art. 81, quarto comma, della Costituzione. 5.2. - Le decisioni sostitutive23 sono caratterizzate dalla combinazione di una dichiarazione di incostituzionalità parziale e di una decisione additiva – o, se si preferisce, dalla compresenza di una parte demolitoria e di una parte ricostruttiva – l’una e l’altra agevolmente riconoscibili dalla formulazione del dispositivo della sentenza. Viene infatti dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione “nella parte in cui prevede” quel che incostituzionalmente è previsto [parte demolitoria], anziché prevedere quel che la Costituzione esige che sia previsto [parte ricostruttiva]. In tal modo, la Corte contestualmente crea e colma un vuoto legislativo, sostituendo alla norma incostituzionale quella conforme a Costituzione. 22 Emblematico il caso della sentenza n. 219 del 1975. Il primo sicuro esempio è offerto dalla sentenza n. 15 del 1969. Esempi recenti nelle sentenze n. 60 e n. 154 del 2006. 23 14 6. Sentenze additive di principio, di meccanismo, di procedura. La rinuncia tout court della Corte ad adottare decisioni additive in presenza di una pluralità di possibili soluzioni adeguatrici è stata, sul finire degli anni ottanta, temperata dalla introduzione di una nuovo genere di decisioni, che alla efficacia immediata delle additive coniugano il rispetto per la discrezionalità del legislatore. Si tratta delle additive c.d. di principio, di meccanismo e di procedura. 6.1. A differenza delle additive semplici, le decisioni additive di principio24 (o additive a dispositivo generico) non aggiungono alla disposizione una norma precisa e compiutamente determinata (non v’è infatti una “rima obbligata”, ma più possibili soluzioni per la reductio ad legitimitatem), bensì un principio che è il comune denominatore delle possibili soluzioni adeguatrici. Ad esempio, viene dichiarata l’incostituzionalità della mancata previsione di un congegno di adeguamento, perequazione o aggiornamento, senza specificare quale sia il congegno da applicare (la scelta del quale resta, per espresso riconoscimento della Corte, riservata al futuro intervento del legislatore). L’utilità delle additive di principio è che – dichiarando l’incostituzionalità della disposizione nella parte in cui non prevede il principio-comune denominatore – consentono ai giudici di far riferimento ad esso per individuare la regola da applicare ai casi concreti, fino a quando il legislatore non intervenga a determinarla. Il principio è così destinato a guidare sia il legislatore, sia, in attesa del suo necessario intervento, i giudici. L’uso di simili pronunce consente alla Corte in certo modo di evitare o superare la vana serie di pronunce di inammissibilità con moniti al legislatore; ma anche – come è stato osservato – di dare soluzione generale a situazioni di “microconflittualità” costituzionale. 6.2. Si parla invece di decisioni additive di meccanismo25 quando venga dichiarata l’incostituzionalità della mancata previsione di un meccanismo legislativo che realizzi, in tempi e modi precisi, la normativa necessaria alla reductio ad legitimitatem. Normativa che la Corte non può introdurre in via di mera addizione per la complessità tecnico-finanziaria dell’intervento. A differenza delle additive di principio, quelle di meccanismo non sono direttamente attuabili dal giudice comune, potendo questi, finché il legislatore non ottemperi al suo 24 25 Il primo esempio è offerto dalla sentenza n. 215 del 1987. L’esempio più rilevante rimane quello offerto dalla sentenza n. 243 del 1993. 15 compito, solo pronunciare “condanne generiche” (ed eventuali provvisionali) alla prestazione non ancora definita nel suo ammontare. 6.3. Vi sono infine decisioni manipolative di procedura, riscontrabili in più occasioni nei giudizi in via principale quando venga in rilievo il principio di leale collaborazione, e cioè quelle che – in forma additiva, sostitutiva o di principio – introducono un (nuovo) adempimento all’interno del procedimento finalizzato all’adozione di un atto giuridico. 7. Modulazione degli effetti temporali delle decisioni della Corte. Sentenze monitorie, di incostituzionalità accertata ma non dichiarata, di costituzionalità provvisoria. Sentenze di incostituzionalità sopravvenuta o differita. È evidente che la Corte, per assolvere la sua funzione istituzionale, debba rappresentarsi (come fin dall’inizio si è rappresentata) gli esiti delle sue decisioni di accoglimento. Esiti che non riguardano soltanto il risultato normativo che viene a determinarsi, ma anche l’impatto che esso può produrre a livello economico-sociale, sull’indirizzo politico o sull’attività giurisdizionale. L’esigenza di rinviare o attenuare questo impatto ha dato vita a modelli decisionali che incidono sugli effetti temporali della dichiarazione di illegittimità costituzionale, nel senso di modularli pro futuro (ritardando l’accoglimento della questione per dare tempo al legislatore di intervenire) o pro praeterito (ancorando la incostituzionalità della legge ad un dies a quo successivo alla sua entrata in vigore). 7.1. Fra le pronunce miranti a differire gli effetti delle pronunce di incostituzionalità verso il futuro rientrano le sentenze monitorie, con le quali la Corte provvisoriamente respinge (o dichiara inammissibile) la questione, invitando o ammonendo – nella sola motivazione – il legislatore ad intervenire per regolare diversamente la materia e rimuovere le incongruenze rilevate a carico della disciplina momentaneamente “assolta”. Si viene in tal modo ad instaurare un dialogo diretto della Corte con il legislatore, reso necessario dalla impossibilità per la prima di supplire in modo “chirurgico” all’inerzia del secondo. La minaccia di una possibile successiva decisione di accoglimento è variamente graduata e più o meno stringente ed esplicita, a seconda che la situazione di potenziale incostituzionalità rilevata dalla Corte sia più o meno ormai prossima all’estremo limite di 16 tollerabilità. Ciò si verifica, per esempio, quando precedenti inviti siano rimasti dal legislatore inascoltati e l’inerzia si protragga ormai da lungo tempo. In alcuni casi, pur rigettando o dichiarando inammissibile la questione per rispetto della discrezionalità, la Corte giunge ad affermare espressamente che la normativa sottoposta al suo esame è sicuramente incompatibile con i parametri costituzionali, dando così vita a decisioni di incostituzionalità accertata, ma non dichiarata, ovvero di rigetto o inammissibilità con accertamento di incostituzionalità. A giustificare il rinvio della caducazione è ancora una volta la ritrosìa a creare un vuoto legislativo che solo il legislatore potrebbe evitare o colmare. Nella medesima logica di differimento verso il futuro degli effetti della decisione caducatoria, la Corte ha utilizzato decisioni di costituzionalità provvisoria (o di “ancora costituzionalità”), dichiarando non fondata la questione allo stato o per ragioni di straordinarietà ed eccezionalità, ma condizionando il rigetto della questione al progressivo riordinamento legislativo o al perdurare della situazione di eccezionalità. Tali pronunce generalmente avvertono il legislatore che, qualora la disciplina esaminata perda il carattere di temporaneità e divenga definitiva – vale a dire non sia modificata entro tempi ragionevoli –, la Corte non potrà esimersi dal ritenerla costituzionalmente illegittima e procedere alla sua caducazione. 7.2. A limitare pro praeterito gli effetti retroattivi delle decisioni di accoglimento sono invece dirette le decisioni di incostituzionalità sopravvenuta. In una prima variante – basata sulla (suggestiva) possibilità di scindere in senso diacronico e non solo sincronico le disposizioni, per desumerne norme diverse nel tempo – l’incostituzionalità sopravvenuta corrisponde alla situazione di una norma che, originariamente compatibile con la Costituzione, divenga successivamente incostituzionale e debba perciò essere dichiarata tale solo dal momento in cui lo è divenuta. Tale momento – coincidente con la sopravvenienza, normativa o sociale (c.d. anacronismo legislativo), che ha determinato l’incostituzionalità – è talvolta indicato dalla Corte nel dispositivo della sentenza, talaltra risulta dalla sua motivazione. Questo tipo di pronunce è stato dalla Corte sperimentato a cominciare dal biennio 1988-1989 (paradossalmente, negli stessi anni in cui, con la sentenza n. 232 del 1989, essa rivolgeva un severo monito alla Corte comunitaria, la quale per l’appunto limitava l’effetto retroattivo delle proprie sentenze di annullamento). Una diversa variante di incostituzionalità sopravvenuta, più propriamente denominata incostituzionalità differita, si riscontra allorché la limitazione dell’efficacia 17 retroattiva avviene attraverso e per effetto di un bilanciamento tra i valori costituzionali che concretamente vengono in rilievo. Questa variante ha trovato di recente applicazione nella sentenze26 che, dichiarando l’incostituzionalità di disposizioni legislative dello Stato lesive delle competenze attribuite alle Regioni dal riformato Titolo V della Costituzione, hanno stabilito che le stesse disposizioni continuino ad essere applicabili fino all’entrata in vigore della nuova normativa regionale, facendo anche salvi i procedimenti amministrativi fondati su esse. E ciò per evitare una situazione di vuoto normativo che potrebbe compromettere la garanzia di diritti costituzionali. 8. Dichiarazioni di illegittimità consequenziale. Rationes decidendi e obiter dicta. Le rationes decidendi poste a base delle pronunce di merito della Corte assumono valore conformativo per la stessa Corte, per l’attività dei giudici e per quella del legislatore (e, in diversa misura, per quella delle Amministrazioni pubbliche e degli operatori giuridici privati). 8.1. Così, in alcuni casi la Corte estende la portata applicativa della ratio decidendi posta a base della decisione di accoglimento dichiarando, nella medesima sentenza, l’illegittimità costituzionale consequenziale di disposizioni differenti da quelle impugnate (ciò che le è consentito – in deroga al principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato – dall’art. 27 della legge n. 87 del 1953). Questa possibilità sussiste, ad esempio, quando la medesima “norma” ritenuta incostituzionale sia rinvenibile anche in disposizioni diverse da quella censurata; sussiste inoltre per le norme che sono in rapporto di strumentalità27 rispetto a quella per prima dichiarata incostituzionale o che dalla sua caducazione sono rese inoperanti. L’illegittimità consequenziale “esprime un principio di diritto processuale che è valido per tutte le questioni di legittimità costituzionale”, e dunque può essere dichiarata anche nei giudizi in via principale. 8.2. La ratio decidendi enunciata in una decisione può, in epoca successiva, essere posta a fondamento dell’accoglimento o del rigetto di questioni relative a norme diverse, per le quali il problema di costituzionalità si pone in termini analoghi a quelli già esaminati. 26 27 V. sentenze n. 370 del 2003, n. 13, n. 16, n. 49 e n. 423 del 2004. Ad esempio, nel caso della sentenza n. 166 del 2004. 18 8.3. Qualsiasi pronuncia della Corte, specie se incentrata su una particolare interpretazione o esplicitazione di un principio costituzionale, assume valore “condizionante” sia per l’attività interpretativa dei giudici, sia per l’attività legislativa. Per i giudici, le rationes decidendi e gli obiter dicta valgono a (e sono utilizzati per) dissipare o alimentare dubbi di costituzionalità riguardo alle disposizioni che essi sono chiamati ad applicare, oltre che per orientare la ricerca di interpretazioni costituzionalmente adeguate. Per il legislatore, l’insieme delle rationes decidendi del Giudice delle leggi (unitamente alla sua giurisprudenza monitoria, consiliatrice o direttiva) costituisce il necessario riferimento per la legislazione futura e per intervenire su quella esistente. Ciò è emerso in maniera evidente a seguito della Riforma del Titolo V della Costituzione. Le interpretazioni date dalla Corte al nuovo (e non del tutto lineare) riparto di competenze fra lo Stato e le Regioni costituiscono ormai un corpus pretorio di regole, cui la legislazione statale e quella regionale devono oggi conformarsi. 19