Antonino Pintacuda
LA FOLLIA
E LA
FILOSOFIA
Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
“follia”.
[...] Son dunque… che cosa?
Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.
Aldo Palazzeschi
2
Indice
0. Come cani di Pavlov. Quella che dovrebbe essere un’introduzione....................4
1. Cercando l’origine: Abbagnano e derive etimologico-letterarie..........................7
2. Quello che la letteratura ditta dentro..................................................................13
3. Appunti per un’iconologia della follia............................................................... 17
4. Un epilogo momentaneo.................................................................................... 26
Bibliografia............................................................................................................ 28
3
0. Come cani di Pavlov. Quella che dovrebbe
essere un’introduzione
Ieri volevo masticare chilometri sulla bici rossa lungo le curve della
litoranea, pioveva.
Sono rimasto un po’ di più a letto, guardando la copertina del
“Linguaggio del cambiamento”.
E pensavo di non alzarmi più, stare lì a rimaneggiare questo lungo
lungo anno passato a inseguire i professori con un retino per farfalle con
un buco troppo grosso. Alla fine me n'è scappato solo uno, ma 9 materie
sono abbastanza.
E così questa è la specialistica, almeno come l'ha progettata l'Università di
Palermo. Partiamo dal principio, ci siamo laureati in pochi, troppo pochi.
Manco uno stentato 10 % del totale.
Per fortuna, dico io. Dove ci piazzavano se eravamo più della dozzina di
neodottori in filosofia della conoscenza e della comunicazione?
Almeno qui ci hanno posteggiato nei vari dipartimenti, senza intralciare
l'addetto alla spartizione delle aule. Un problema in meno, almeno per
lui...
Poi la scomposizione: il 75% dei neodottori, dopo aver studiato
Wittgenstein a tignité1, ha preferito continuare a farlo e quindi ha scelto il
curriculum che pare - dall'esterno, almeno - una coraggiosa duplicazione
del piano di studi triennale, stessi professori, stessa aria, stesse promesse.
Bene, cambiamo tutto per non cambiare nulla. O più semplicemente è
sempre meglio seguire il vecchio adagio sui guai connessi alla scelta di
una strada diversa da quella conosciuta.
1
Espressione siciliana intraducibile che indica quantità tale da risultare indigesta.
4
Ho scelto il curriculum estetico per cercare, quantomeno, di
allargare gli orizzonti miei e dei miei neuroni studiando materie guidato
da facce nuove. Mi sono ritrovato solo ma almeno ho studiato cose di cui
sconoscevo quasi totalmente l'esistenza.
Poi da Praga è venuta pure una coraggiosissima compagna di sventura
che non temendo i 54 c.f.u. di debito (in quanto proveniente dal DAMS)
ha scelto di studiare quello che le sembrava più proficuo per cercare di
diventare un critico d'arte.
Gli altri hanno scelto di studiare il curriculum storico-filosofico o teoretico.
E forse hanno fatto la scelta migliore, nell'incognito abbraccio che ci
aspetta alla fine del prossimo anno, almeno hanno studiato un po’ di più
di filosofia di quanto abbiamo fatto noi.
Ho fatto il nomade in giro per Palermo, nell'inverno più freddo
dell'isola triangolare ho segato in due la città a forza di fare su e giù dalla
stazione all'università, dovendo arrivare in tempo per firmare e
testimoniare così a norma di legge pure la mia inequivocabile presenza,
come se potessero non accorgersi se io, unico novello estetologo, c'ero o
non c'ero.
Poi è iniziato pure il caldo e quando il purgatorio del primo anno
stava per finire, finalmente hanno attivato la penultima materia che
mancava, il professore di Psicologia è venuto a fine maggio con l'implicito
impegno di svolgere un programma in meno di un mese.
Le ultime due lezioni le abbiamo fatte io, la mia collega ceca, il prof.
Marchetta e la sua tirocinante nello studio del suddetto Professore, seduti
in belle e comode poltrone verde mare.
5
Forse c'è un messaggio nascosto in tutto questo. Mi sto
specializzando e sono finito a giugno sulla poltrona di uno psicologo...
Sono già impazzito e manco me ne sono accorto?
Questo era la domanda che mi teneva compagnia quando il
professore Marchetta mi ha affidato una tesina sulla follia in filosofia.
6
1. Cercando l’origine: Abbagnano e derive
etimologico-letterarie
Quello del professore sembrava un compito facile, uno di quelli che
si liquidano in due pomeriggi, magari cucendo una dozzina di citazioni
con quelle frasi fatte che pullulano in ogni tesi “come ha opportunamente
notato…”, “non possiamo non essere d’accordo con…”, “leggiamo in…” e
compagnia bella.
E invece sono qui, davanti a una pila di libri a cercare di capire
perché la filosofia ha attraversato la sua storia millenaria dedicando così
poco spazio a un tema così pieno di implicazioni.
Ho seguito l’esempio del professore, facendomi segnare la via da
una definizione autorevole del tema che cercavo d’agguantare. Ho preso il
dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano e ho iniziato a sfogliare, anche
qui una sorpresa: follia rinvia subito a pazzia.
Stessa cosa nell’enciclopedia Utet, quella allegata a Repubblica, che ho
comprato settimana dopo settimana in edicola, lì addirittura il rinvio è
doppio, da follia mi mandano a cercare pazzia e da lì psicosi.
Mentre seguivo questo valzer di rinvii ho ripensato alle etimologie che
tanto piacciono al professore e ho cercato di trovare qualche appiglio nel
Vocabolario Etimologico di Pianigiani.
7
Quindi l’etimologia rinvia a un’immagine potente, un uomo con la testa
vuota di senno, quello stesso senno che a voler credere alle belle bugie
dell’Ariosto sta sulla luna.
Abbagnano invece opera con rigore filologico e sventaglia la solita
dossografia, esattamente quello che m’aspettavo ancora prima d’aprire il
tomo.
Pazzia (gr. μορία; lat. Stultitia, ingl. Madness, franc. Follie; ted. Wahn).
I. Quella che Platone chiamava la Pazzia buona, cioè la P. che non è malattia o
perdizione, è stata intesa in due modi diversi e cioè:
I° come ispirazione o dono divino; 2° come amore della vita e tendenza a viverla
nella sua semplicità.
8
Il primo significato è quello che gli attribuì Platone nel Fedro.2
Platone elenca 4 modalità:
1) pazzia profetica
2) pazzia purificatoria
3) pazzia poetica o divina mania
4) pazzia amorosa
Leggiamo direttamente il vivacissimo discorso che Socrate fa al giovane
Fedro, in quel meriggio in cui “bisogna parlare e non dormire”:
Se infatti la follia fosse senz'altro un male, sarebbe stato detto bene. Invece, i beni
più grandi ci provengono mediante una follia che ci viene data per concessione
divina. Infatti, la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona, quando si
trovavano in stato di follia, procurarono alla Grecia molti e bei benefici sia in
privato sia in pubblico, mentre, quando si trovavano in stato di assennatezza, ne
procurarono pochi se non nessuno. E se dicessimo poi della Sibilla e degli altri
che avvalendosi della mantica di ispirazione divina, predicendo molte cose a
molte persone, li indirizzarono sulla retta via per il futuro, ci dilungheremmo nel
dire cose già note a tutti. Ma merita di venire addotto come testimonianza il fatto
che, anche fra gli antichi, coloro che hanno coniato i nomi non hanno considerato
la mania come cosa né brutta né vergognosa. In caso diverso, non avrebbero
chiamato “ manica “ la più bella fra le arti con la quale si prevede il futuro, dando
ad essa proprio questo nome. Invece, considerandola cosa bella, ancorché essa
sorga per sorte divina, le hanno imposto quel nome, mentre gli uomini di oggi,
ignari del bello, hanno introdotto una “t“ e l’hanno ridefinita “mantica”. In
effetti, anche la ricerca del futuro che fanno coloro che sono in stato di
assennatezza mediante uccelli e altri segnali, in quanto muovendo dalla ragione
procurano intelligenza e fondata conoscenza alla “oiesi“, o opinione umana, gli
antichi la chiamarono “oionistica“. E dunque, quanto più é perfetta e degna d'
onore la mantica rispetto all’oionistica, per il nome e per l’azione dell’una rispetto
al nome e all'azione dell’altra, tanto più, come attestavano gli antichi, la mania
che proviene da un dio é migliore dall'assennatezza che proviene dagli uomini.
Inoltre, alle malattie e alle sofferenze più gravi, che vi sono in alcune stirpi e che
provengono da non si sa quali antiche colpe, la mania insorgendo e
profetizzando in coloro che vi erano destinati, trovò uno scampo mediante il
ricorso alle preghiere e ai culti degli dei. Perciò la mania, grazie a riti di
purificazione e di iniziazione, preserva sia per il presente che per il futuro chi ne
é partecipe; infatti, per chi é invasato e posseduto da una giusta forma di mania,
essa ha trovato una liberazione dai mali presenti. Il terzo tipo di invasamento e di
mania proviene dalle Muse. Questa mania, dopo essersi impossessata di
un’anima sensibile e pura, la risveglia suscitando in essa ispirazione bacchica per
i canti e per gli altri generi di poesia e, attraverso la celebrazione di innumerevoli
2
Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, Utet, Torino 1971, p. 652
9
imprese degli antichi, educa i posteri. Invece, chiunque si presenti alle porte della
poesia senza essere ispirato dalla mania delle Muse, convinto che gli basterà la
tecnica per essere un bravo poeta, sarà un poeta mancato, perchè la poesia di chi
é in sé viene oscurata da quella di coloro che sono in preda a mania. Tanti sono i
begli effetti della mania proveniente dagli dei e ancora di più potrei dirtene. Di
conseguenza non dobbiamo temere questa condizione, né ci deve turbare un
discorso che cerchi di spaventarci dicendo che bisogna preferire l’amicizia di chi
é padrone di sé a quella di chi é preda della passione.
Questo discorso per riuscire vincitore deve anche dimostrare, oltre a ciò, che
l’amore non é inviato dagli dei all’amante e all’amato per loro vantaggio. Noi
invece dobbiamo dimostrare il contrario, cioè che tale mania é concessa dagli dei
in vista della massima felicità. Certo la dimostrazione non sarà convincente per i
sottili ragionatori, ma lo sarà per i sapienti. Dunque bisogna innanzitutto
considerare la vera natura dell’anima, sia divina che umana, osservandone le
passioni e le azioni.3
La follia emerge in tutta la sua dirompente valenza positiva, addirittura è
la fonte primaria dell’ispirazione poetica, contestualizziamo: nella Grecia
del V secolo Omero è la massima autorità religiosa, è l’autore che ha dato
miti e costumi a un intero popolo. Quindi, dire che chi è toccato dalla
divina mania è il vero poeta, quello che non fa semplice mimesi ma
produce bellezza, quella stessa bellezza che risveglia in noi l’amore e che
ci fa simili agli dei. C’è una vistosa linea di continuità, come avremo modo
di constatare nel seguito di questo nostro lavoro: sin dalle origini la follia è
destinata a essere isolata – forse ghettizzata – nel campo della produzione
artistica, sia essa letteraria, poetica, o schiettamente pittorica. È lì che
dobbiamo cercare.
Continua Abbagnano:
Nel suo secondo significato la P. è infatti amore della vita nella sua semplicità,
contrapposta alla saggezza artificiosa ed arcigna e alla scienza di chi tutto sa
tranne che vivere e amare. L’elogio della pazzia (Stultitiae laus, 1509) di Erasmo
da Rotterdam è la più famosa difesa di questo secondo significato del termine.4
È la follia, lei in persona che parla, inizia dalla sua genealogia:
Non il Caos, né l'Orco, né Saturno, né Giapeto, né alcun altro di questi Dèi
decrepiti e fuori moda, fu mio padre, ma Pluto lui solo, [il dio della ricchezza],
padre degli uomini e degli Dèi, con buona pace di Esiodo, di Omero e dello stesso
3
4
Platone, Fedro 244 a -249 e in Id., Tutti i dialoghi, Bompiani, Milano 2001.
Nicola Abbagnano, Op. cit., p. 652.
10
Giove. Un suo cenno, ora come sempre, mette sottosopra cielo e terra. Il suo
arbitrio decide della guerra e della pace, degli imperi, dei consigli, dei giudizi, dei
comizi, dei matrimoni, dei trattati, delle alleanze, delle leggi, delle arti, delle cose
scherzose e di quelle serie; da lui dipendono tutti gli affari pubblici e privati degli
uomini. Senza il suo aiuto, tutta la folla degli Dèi, dei poeti, e, oserò dire, perfino
le stesse divinità maggiori, o non esisterebbero, o vivacchierebbero alla meglio, di
briciole. Chi incorre nella sua ira, neppure Pallade potrebbe aiutarlo. Chi, invece,
ne gode il favore, potrebbe trarre in catene lo stesso Giove col suo fulmine. Di tale
padre io mi glorio. E questo padre non mi generò dal suo cervello, come Giove la
fosca e crudele Pallade, ma dalla ninfa Neotete [la Giovinezza], di tutte la più
graziosa e lieta. E non mi generò nell'uggioso vincolo del matrimonio - in cui
nacque il famoso fabbro zoppo ma, ed è molto più dolce, in un amplesso
d'amore, come dice il nostro Omero. Né, a scanso d'equivoci, mi generò quel
Pluto di Aristofane, già mezzo morto e già cieco, ma quello in pieno vigore,
fervente di giovinezza, e non solo di giovinezza, ebbro soprattutto di schietto
nettare che aveva generosamente bevuto al banchetto degli Dèi.
8. Se poi volete anche sapere dove sono nata, visto che oggi nel valutare il grado
di nobiltà attribuiscono la massima importanza al luogo dove si sono messi fuori
i primi vagiti: ebbene, io non sono nata nell'errante Delo, non tra i flutti del mare,
non in grotte profonde, ma proprio nelle Isole Fortunate, dove tutto cresce senza
seme né aratro. Là non esiste fatica, vecchiaia, malattie; nei campi non asfodeli,
malva, squilla, lupini o fave, e simili piante da poco.
Da ogni parte ti accarezzano gli occhi e il naso moly, panacea, nepènte,
maggiorana, ambrosia, loto, rose, viole, giacinti - i giardini d'Adone. Nata fra
queste delizie, non ho cominciato la vita nel pianto; subito ho sorriso dolcemente
a mia madre.
Al sommo figlio di Crono non invidio la capretta nutrice; ad allattarmi con le
loro mammelle sono state due graziosissime ninfe, Mete l'Ebbrezza, figlia di
Bacco, e Apedia l'Ignoranza, figlia di Pan.
Continua, inarrestabile, in un crescendo, la disamina dei vantaggi dello
statuto di chi ha la fortuna di essere stato toccato dalla santa follia, sino ad
affermare che nessuno senza la sua guida può aspirare alla “rocca della
felicità”:
30. Quanto al resto, Dèi immortali, parlerò o tacerò? E perché mai dovrei tacere
cose più vere della verità? Ma forse, in così grave frangente, meglio sarebbe
chiamare in aiuto dall'Elicona le Muse che i poeti sono soliti invocare anche
troppo spesso per vere sciocchezze. Assistetemi dunque per un poco, figlie di
Giove, finché non dimostri che nessuno senza la guida della follia può accedere
alla sapienza, a quella che chiamano la rocca della felicità.
In primo luogo, è pacifico che tutte le passioni rientrano nella sfera della follia:
ciò che distingue il savio dal pazzo è che questi si fa guidare dalle passioni,
mentre il primo ha per guida la ragione. Perciò gli stoici spogliano il sapiente di
tutte le passioni come fossero delle malattie. Tuttavia questi elementi emotivi,
11
non solo assolvono la funzione di guide per chi si affretta verso il porto della
sapienza, ma nell'esercizio della virtù vengono sempre in aiuto spronando e
stimolando, come forze che esortano al bene. Anche se qui fieramente leva la sua
protesta Seneca, col suo stoicismo integrale, negando al sapiente ogni passione.
Ma così facendo distrugge anche l'uomo e crea al suo posto un Dio di nuovo
genere, che non è mai esistito e non esisterà mai; anzi, per parlare ancora più
chiaro, scolpisce la statua di un uomo di marmo, privo d'intelligenza e di
qualunque sentimento umano. Perciò, se lo desiderano, si godano pure il loro
saggio, che potranno amare senza rivali, e dimorino con lui nella Repubblica di
Platone, o, se preferiscono, nel mondo delle idee, o nei giardini di Tantalo.
Chi, infatti, non sfuggirà con orrore come spettro mostruoso un uomo così fatto,
sordo ad ogni naturale richiamo, incapace d'amore o di pietà, come “una dura
selce o una rupe Marpesia”? Un uomo cui non sfugge nulla, che non sbaglia mai,
ma che con l'occhio acuto di Linceo tutto vede, tutto pesa con assoluta precisione,
nulla perdona; solo di sé contento, lui solo ricco, lui solo sano, lui solo re, lui solo
libero. Per dirla in breve, lui solo tutto (e solo a suo giudizio); senza amici, pronto
a mandare all'inferno gli stessi Dèi, e che condanna come insensato e risibile tutto
ciò che si fa nella vita. Eppure quel perfetto sapiente è proprio un animale fatto
così. Ma, di grazia, se si dovesse decidere con i voti, quale città lo vorrebbe come
magistrato, quale esercito lo designerebbe come capo? Quale donna vorrebbe o
sopporterebbe un simile marito, quale anfitrione un simile convitato, quale servo
un padrone con questi costumi? Chi non preferirebbe un uomo qualunque, uno
della folla dei pazzi più segnalati, che, pazzo com'è, possa comandare o obbedire
ad altri pazzi, attirando la simpatia dei suoi simili, che poi sono tanti? Gentile con
la moglie, gradito agli amici, buon commensale; uno con cui si possa convivere,
che, infine, non ritenga estraneo a sé niente di ciò che è umano?5
È la fede, semplice, pura, lontana dai riti stereotipizzati che hanno fatto
perdere il senso stesso della religione e della carità.
Il secondo significato viene presto liquidato dal grande Abbagnano con un
secco “lo stesso che psicosi” con quella “v” puntata e tra parentesi che ci
allontana sempre di più dal fulcro. È inevitabile, per non perderci
dobbiamo seguire un’altra strada, ascoltare – con un evidente dantismo –
quello che la letteratura ditta dentro.
5
Erasmo da Rotterdam, Elogio della Follia, edizione digitale su www.liberliber.it
12
2. Quello che la letteratura ditta dentro
Proprio nella linea di confine tra filosofia e letteratura il rivoletto che
conduce all’oggetto della nostra ricerca sembra ingrossarsi sino a
diventare un fiume in piena.
Perché questo è un altro di quegli indizi che ci riportano all’origine,
sempre lì, nell’Atene del V secolo dove la cultura era un abbraccio totale,
che non prevedeva parcellizzazioni sterili e compartimenti stagni da
tenere sempre più separati, infilati in tabelle nosografiche: da una parte
quello che la letteratura ditta dentro e dall’altro la filosofia, che arriva a
come dice Hegel sul fare della sera, come la nottola, il rapace caro ad
Atena, quando già l’azione si è conclusa e ne tira le somme.
Esula dalla nostra indagine sezionare la progressiva e spasmodica
ricerca di scientificità che ha portato il filosofo ad allontanarsi dal percorso
della Poesia, salvo sporadiche tangenze etichettate troppo presto come
interessanti ma poco utili digressioni, pensiamo ad esempio al confronto
con la poesia di Paul Celan6 che ha impegnato Adorno, Gadamer, Deridda,
e lo stesso Heidegger.
La separazione è avvenuta quando Platone, il più poetico dei
filosofi ha bandito dalla sua città ideale la musa drogata, colpevole di
corrompere i cittadini savi con facili menzogne, lontane dalla verità che
riposava lì, nel mondo delle Idee, nella landa dell’Iperuranio.
Emerge un dato evidente, abbagliante: la filosofia ha deputato
l’indagine sulla follia alle sue figlie predilette, la letteratura e l’arte.
Prima di indagare questo circolo virtuoso, segnalo en passant che il
professore Cristiano Gaston, docente di Psichiatria e Psicologia dei Gruppi
6
Rinvio alla mia tesi Neve e silenzio. Paul Celan verso un’estetica della testimonianza, Palermo
2004. Disponibile in formato pdf http://asterione.org/files/neve_silenzio.pdf e qui
http://www.bombacarta.it/laboratori/neve_silenzio.pdf
13
a Roma Tre è giunto alla fase di beta testing di un laboratorio di lettura
riservato ai suoi pazienti. Laboratorio che si fonda sulla profonda
convinzione, forse figlia implicita della scia inaugurata dalla scuola di Palo
Alto, del ruolo privilegiato che alcuni schemi comunicativi hanno nel
setting terapeutico.
Sin dagli albori la follia ha imperversato nella letteratura mondiale
assumendo forme e valenze diverse; dagli antichi saltimbanchi ai romanzi
del Grande Russo o del nostro Pirandello, la follia non ha fatto altro che
puntare il dito, focalizzando l’attenzione del pubblico su qualcosa di
fondamentalmente universale: l’Io, i desideri e le espressioni più pure di
se stessi. Cos’è infatti l’atto o le parole di un folle se non una espressione
limpida, senza mediazioni raziocinanti, della propria mente, del proprio
sentire?
Una perdita del limite, uno spingersi oltre il comune sentire. L’arte ha
adottato questa libertà per mostrare l’Altro, l’esistenza di qualcosa al di là
della norma convenzionale sociale, alzando la sua polemica contro la
“conformità-a-tutti-i-costi” e il rifiuto per il diverso: basta leggere qualche
pagina del Sosia o delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, o l’ancor
più famoso Uno, nessuno, centomila di Pirandello, per rendersi conto della
profondità in cui scende l’analisi umana nella sincerità della follia.
La “Follia seria” ha così accolto su di sé il difficile compito di esprimere
l’angoscia, le ansie e il male di vivere dell’uomo; ma esiste anche un’altra
faccia della follia: quella “che ride”, la follia giocosa dei saltimbanchi che
nasconde dietro il suo riso le stesse inquietudini, che esorcizza i “mostri” e
l’Altro mostrandone le contraddizioni e le irrazionalità. Ma ciò non
significa che la sua sia un’opera di distruzione, al contrario, come scrive
anche Bergson, la follia in tal modo dà consistenza e valore ad un modello,
14
ad una determinata forma; che un personaggio, un avvenimento sia
bersaglio del riso, non è che il riconoscimento della forza e
dell’importanza di questo stesso.
Ariosto nell’Orlando Furioso mette in pratica proprio ciò: nella follia
d’Orlando, che vaga seminudo nel bosco vaneggiando parole senza molto
senso, che usa uomini a mo’ di mazza per colpirne altri e scorrazza per la
foresta simile ad un animale, c’è l’affermazione di quell’uomo e del suo
amore tanto grande da togliere il senno….. costringendo Astolfo ad
arrivare fin sulla luna per riportarlo in sé!
Così nel “Don Quijote” di Cervantes, dove tra le risate davanti agli
improbabili cavalieri e giganti sfidati, le gentildonne travestite da
contadine e popolane e le locande trasformate in castelli, non si può far a
meno di ammirare la forza d’animo e il coraggio con cui egli porta avanti
il suo ideale cavalleresco e i suoi sogni di una gloria d’altri tempi, ove il
cuore e la nobiltà d’animo erano i capisaldi di un grande uomo. Ciò
ovviamente non lo esonera dagli scherzi del suo scudiero, il quale anzi,
quando non è malconcio per le conseguenze delle avventure del cavaliere
suo padrone, lo incalza nella sua follia arricchendola di nuovi personaggi
e vicissitudini; ma la costanza e l’ammirazione con cui egli segue
comunque il cavaliere errante al suo fianco, mostrano tutta la stima e
l’elogio per un animo tanto grande.
Senza alcun dubbio ci sono delle differenze, e notevoli, tra i due
componimenti, mentre infatti la follia ariostesca investe solo un aspetto
ben preciso dell’opera e del carattere del suo protagonista, in Cervantes
questa sembra investire tutti, traendo nella sua ridente tela tutti i
personaggi,
trasformando
l’intera
opera
in
una
miscellanea
di
15
rocambolesche e divertenti circostanze; la follia sembra diventare la
normalità e tanta è la partecipazione del lettore che non si può far a meno
di fare il tifo per Don Quijote, sperando nella buona riuscita di almeno una
delle diverse imprese, e proprio qui c’è l’affermazione del modello, del
carattere del personaggio.
Il senso della follia che ride forse è proprio qui, nella partecipazione
emotiva e nella leggerezza d’animo che suscita nei lettori, rendendoli con
la magia del sorriso un po’ più consapevoli e più vicini all’Altro, chi mai
infatti, se non altro durante la lettura, non si è sentito un po’ Don Quijote,
senza sogni ad occhi aperti? Chi non ha mai lottato contro i mulini a
vento?
16
3. Appunti per un’iconologia della follia
E l’arte? L’altra protagonista di questa nostra cavalcata ha eluso ed
escluso sino ad un dato momento storico immagini e soggetti non riferibili
a quei criteri di regolarità, di equilibrio e di armonia attraverso i quali
contemplare la perfezione della natura.
La follia, intesa qui come alterazione della personalità umana, è stata
accolta nel grande repertorio figurativo dell’arte inizialmente come
Arcano, ovvero come immagine nella quale confluivano misteriosamente
componenti umane, elementi magici e astrologici ispirati all’antica scienza
della cabala.
La rappresentazione del folle, dell’uomo “fuori di senno” è, infatti, una
delle tante figure simboliche dei tarocchi. Come XII Arcano Maggiore il
matto, personaggio dal quale deriva il Jolly Joker (l’allegro burlone) del
mazzo di carte francesi, rappresenta la fina del gioco e quindi della vita, il
grado supremo della iniziazione e per la presenza del cane che lo morde,
l’espiazione.
17
La XLII carta dei Tarocchi Visconti (New York, Pierpont Morgan Library),
miniati intorno al 1460, mostra il Matto come un uomo scalzo, vestito di
stracci, con il capo coronato da penne di pollo, armato di una lunga
mazza. L’espressione ebete del viso è la peculiarità più evidente del folle,
di colui che non è “capace di passare attraverso tutti i rischi con quella
incoscienza e fortuna che sono, appunto, proprie dei pazzi, secondo
alcune tradizioni popolari vive in molte regioni d’Europa” (Mario
Bussagli).
È solo nel corso del Rinascimento che la follia diventa oggetto di
indagine speculativa, testimoniata da scritti, da trattati e da numerose
rappresentazioni.
Una significativa riflessione su questo argomento viene infatti prodotta,
tra la fina del 1400 e la soglie del secolo successivo, soprattutto nell’area
18
culturale del Nord Europa, percorsa da correnti di pensiero sia mistiche
che eretiche.
Nell’Elogio della follia, pubblicato nel 1508, Erasmo da Rotterdam
distingue due forme di pazzia. Una buona di chi assecondando le proprie
passioni e seguendo il proprio istinto, affronta quello che la vita gli
presenta, adattandosi alle situazioni e alle necessità, un po’ come il matto
dei tarocchi.
L’idea della mutevolezza dell’essere in armonia con la mutevolezza
della natura attraversa tutto il Cinquecento europeo e non manca di
esercitare il suo influsso anche in Italia Ludovico Ariosto, infatti, riprende
questo concetto nell’Orlando furioso, edito nel 1516. L’eroe da saggio che
era, diventa pazzo, perché si vota totalmente alla guerra e l’impatto con la
vita, rappresentato dall’innamoramento per Angelica, ne determina la
crisi:
Dirò d’Orlando in un medesimo tratto
Cosa non detta in prosa mai né in rima:
Che per amore venne in furore e matto,
D’uom che sì saggio era stimato prima.
Questo è il secondo aspetto della pazzia, di valenza negativa descritto
da Erasmo; è la follia che si può riconoscere nei maniaci, in coloro che
perseguono un solo scopo nella vita, non ne comprendono l’essenza
profonda consistente, appunto, nella sua varietà.
La follia, considerata per di più come una sorta di punizione inflitta
all’uomo per la continua caduta nel peccato e per il perseguimento di
piaceri personali, si manifestava, secondo l’opinione comune dell’epoca,
19
fortemente improntata ad un rigoroso moralismo, attraverso la perita della
ragione e l’alterazione dell’aspetto fisico.
Da questo punto di vista il pittore fiammingo Hieronymus Bosch
(1450-1516) può essere considerato un singolare interprete della follia. Una
assurda mescolanza di esseri umani con oggetti, animali e vegetali,
creature fantastiche e mostruose, popolano i suoi quadri in una delirante
atmosfera surreale. Sebbene il riconoscimento del significato dei soggetti
di Bosch incontri numerose difficoltà, denominatore comune della sua
pittura sembra essere la degenerazione dei costumi dell’epoca e la
rappresentazione della follia dell’umanità, perseverante nel vizio e nella
corruzione ed “inesorabilmente incamminata verso la perdizione” (E.
Cerchiari- L. De Vecchi).
Hieronymus Bosch dipinge tra il 1475 e il 1480 La cura della follia
(Madrid, Prado), una sorta di ironico commento delle ambigue capacità
curative dell’arte medica, che in quel periodo, vantava poteri superiori: Il
dipinto è accompagnato da una scritta in tedesco, che recita: “Maestro
cava fuori le pietre (della follia), il mio nome è lubbert das (letteralmente
bassotto castrato, vale a dire sempliciotto, credulone).
20
La follia, secondo una credenza popolare, era provocata da una serie di
pietre conficcate nella testa che un medico, con una semplice operazione,
poteva estrarre. Il chirurgo ritratto da Bosch, indossa una lunga veste ed
ha sulla testa un imbuto, mentre una donna che osserva la scena
appoggiata ad un tavolo, regge con il capo un libro. L’imbuto e il libro,
attributi tipici della sapienza utilizzati in maniera impropria, diventano
nella visione di Bosch motivi di derisione della pratica medica che solo la
stoltezza degli individui può ritenere capace della guarigione dalla follia.
Non a caso il tulipano palustre estratto dal medico, indicativo del denaro,
insieme al pugnale che trapassa la borsa del paziente, suggeriscono
chiaramente come l’intervento chirurgico abbia finito con lo spillare
denaro al credulone di turno.
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Bosch dedica alla follia un altro dipinto, da alcuni studiosi messo in
relazione con la pubblicazione nel 1494 del poema di Sebastian Brandt La
nave dei folli. La tavola conservata al Louvre di Parigi, reca lo stesso titolo
del testo e rappresenta una barca occupata da una allegra brigata di
gaudenti, secondo una interpretazione dell’insolito soggetto. Una monaca,
accompagnandosi con il liuto, intona un canto insieme ad un frate
francescano intorno ad una tavola sulla quale sono posati un piatto di
ciliege e un bicchiere. Numerose le altre figure affastellate nell’angusto
spazio dell’imbarcazione battente l’insegna dei lunatici. Sulla destra un
uomo, afferrandosi ad un tronco da cui penzola un pesce, vomita, mentre
sullo stesso tronco un matto vestito secondo l’uso dei tarocchi, beve
appollaiato su un ramo. Altri uomini cercano di addentare un dolce
sospeso ad un filo ignari, come qualcuno fa notare, che il pollo conficcato
all’albero maestro della barca, sta per essere sottratto da un ladro nascosto
dietro un cespuglio sulla riva del fiume.
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La scena sembra descrivere, più che un lauto banchetto, il magro pasto di
poveri folli. Il lasciarsi trasportare alla deriva dalla corrente, allude
metaforicamente alla punizione assegnati ai peccatori per Gola (uno dei
sette vizi capitali), sebbene la simbologia legata a molti elementi presenti,
come le ciliege (simbolo del piacere e della mancanza di pudore per
alcuni, emblema del paradiso per altri) o il vomito (indizio della
perdizione dei peccatori e della disgregazione del corpo), complichi il
significato del dipinto per più esigenti lettori.
Erede della pittura visionaria di Bosch, Pieter Bruegel il vecchio (15251569) trasferisce nella concretezza del mondo contadino e nel grottesco
realismo della popolazione dei Paesi Bassi del XVI secolo, le storie ispirate
ai vizi e alle virtù del suo tempo.
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Dulle Griet (Pazza Greta), (Anversa Museum Mayer van den Bergh)
riprende il tema della pazzia, caro a Bosch e alla speculazione intellettuale
olandese di quel periodo. Probabile allegoria dell’Avarizia (uno dei sette
vizi capitali), il dipinto rappresenta l’assalto a cui si prepara Greta la
pazza, armata di spada, di corazza, di guanto metallico e di un elmo che
risulta in realtà una scodella di metallo capovolta sulla testa. Il bottino,
racchiuso in un piccolo forziere che la donna stringe sotto il braccio, si
accresce di altri oggetti contenuti in due panieri e in una sacca: coppe,
padelle, un coltello e una cinghia. Personificazione della strega per alcuni,
la donna si incammina verso l’ingresso spalancato dell’Inferno: un monito
per quanti insistono nel vizio al punto da perdere la ragione.
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Sotto un segno diverso viene affrontato il tema della follia nell’arte
dell’Ottocento. La sensibilità romantica, analizzando tutte le possibili e
varie manifestazioni dell’animo umano, fa rientrare nell’ambito della sua
indagine anche quelle derivanti da disturbi delle facoltà mentali.
Il quel periodo, infatti, un’opinione diffusa riteneva che le forti passioni
potessero originare la follia:
Théodore Gericault (1791-1824), pittore francese appartenente alla
corrente romantica, dipinge intorno al 1822 dieci ritratti di pazzi, dei quali
soltanto cinque sono giunti fino a noi. Il pittore fissò sulla tela i volti di
alcuni ricoverati presso l’Ospedale della Salpietère a Parigi, destinando i
quadri al dottor E. J. Georget come illustrazioni per un libro o per alcune
lezioni sulle malattie mentali.
La pittura assume quindi il valore di un documento, di una
testimonianza e rinunciando alle deformazioni grottesche che nei secoli
precedenti avevano contrassegnato i malati di mente, acquista un nuovo
significato per la volontà di penetrare, attraverso una realistica ed
oggettiva descrizione di questi sfortunati individui, un aspetto doloroso
della natura umana. Il pittore si sofferma così a riprendere attraverso la
mimica facciale e attraverso la contrazione dei muscoli del volto alcune
forme di monomania, ovvero di paranoia provocata dalla concentrazione
per un’idea fissa (la grandezza militare, il gioco, l’invidia).
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4. Un epilogo momentaneo
Emerge quindi lampante la dicotomia che ha scagliato il folle,
l’uomo dalla testa vuota di senno, nel limbo dell’anormalità: da un lato la
norma dei molti, dall’altro l’eccezionalità dei pochi che noi non riusciamo,
né vogliamo, capire e che quindi ingabbiamo in una tabella nosografia che
acceca il nostro senso critico ottundendo qualsiasi sforzo di capire.
Ed ecco che in libreria Roberto Alajmo ci offre addirittura un Nuovo
Repertorio dei Pazzi della città di Palermo, in cui tutti i tic dei nostri
concittadini gli fanno meritare quest’etichetta infamante per noi e per
loro.
Siamo giunti alla fine del nostro percorso, abbiamo cercato la
filosofia e siamo finiti in mezzo ai libri e tra le tele degli artisti. Platone
aveva ragione, solo a loro, solo a chi è toccato dalla divina mania
potevamo rivolgere la nostra attenzione. La migliora lezione - un pugno
nello stomaco a quelli che vogliono mettere a tacere quel relativismo che
non estremizzato ci aiuta a tenere gli occhi aperti – ce la offre
inaspettatamente un romanzo di vampiri che risale al 1955.
È l’ultima pagina di IO SONO LEGGENDA di Richard Matheson, in
una terra popolata da vampiri, l’ultimo uomo rimasto rappresenta
l’anomalia, adesso è lui il mostro. Quando alla fine i vampiri lo trovano,
una lancia gli trafigge il petto. Prima di morire ecco che pronuncia una
frase che dovrebbe farci partorire più di un interrogativo:
“Ora sono io l'anormale.
La normalità è un concetto di maggioranza,
la norma di molti,
e non la norma di uno solo”.
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Concludiamo allo stesso modo d’Erasmo, in quei corsi e ricorsi che qui
abbiamo cercato di delineare:
Vedo che aspettate una conclusione: ma siete proprio scemi, se credete che dopo
essermi abbandonata ad un simile profluvio di chiacchiere, io mi ricordi ancora
di ciò che ho detto. Un vecchio proverbio dice: “Odio il convitato che ha buona
memoria”. Oggi ce n'è un altro: “Odio l'ascoltatore che ricorda”. Perciò addio!
Applaudite, bevete, vivete, famosissimi iniziati alla Follia.7
7
Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, versione digitale su
http://www.liberliber.it/biblioteca/e/erasmus_roterodamus/elogio_della_follia/html/testo.htm
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Bibliografia
NICOLA ABBAGNANO, Dizionario di Filosofia, Utet, Torino, 1971.
ROBERTO ALAJMO, Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo,
Mondadori, Milano 2004
ERASMO DA ROTTERDAM,
www.liberliber.it
Elogio
della
follia,
edizione
digitale
su
digitale
su
RICHARD MATHESON, Io sono leggenda, Mondadori, Milano 1996
PLATONE, Tutti i dialoghi, Bompiani, Milano, 2001
VOCABOLARIO ETIMOLOGICO
www.etimo.it
DI
PIANIGIANI,
1907
edizione
Per la digressione letteraria e per quella iconologica è stata consultata la
monografia “La follia” su http://www.letterariamente.it/
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