capitolo biotecnologie e piante geneticamente modificate

Gli OGM
Gli Organismi Geneticamente Modificati (OGM) sono organismi viventi (animali, piante
o microorganismi) il cui patrimonio genetico è stato modificato artificialmente
utilizzando le tecniche dell’ingegneria genetica. Facendo particolare riferimento agli
OGM vegetali, quindi Piante Geneticamente Modificate (PGM), uno o più geni presi da
altri organismi, anche filogeneticamente lontani, sono introdotti nel genoma della pianta
che si vuole modificare. Questa modificazione si realizza allo scopo di ottenere un
miglioramento nelle caratteristiche della pianta per renderla più utile all’uomo. Da ciò ne
consegue che le PGM non sono altro che il risultato dell’applicazione delle attuali
conoscenze nel settore del Miglioramento genetico delle piante.
Prima di fornire alcuni cenni sulle metodologie, risultati e risvolti concernenti le
PGM, riteniamo opportuno fornire alcuni informazioni di carattere generale sulle
Biotecnologie.
Nel senso più ampio possibile, con il termine Biotecnologia si intende qualsiasi
processo produttivo che preveda l’utilizzo di agenti biologici, cellule o parti di essi. Le
Biotecnologie attuali rappresentano il settore applicativo della biologia ed in essa
confluiscono numerose discipline tra cui la microbiologia, la biologia molecolare, la
chimica, la biochimica, la genetica, l’immunologia, la biologia cellulare, la fisiologia
vegetale e le discipline che si occupano delle tecnologie dei bioprocessi.
Cenni Storici
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Sulla base della definizione sopraddetta, risulta chiaro che le biotecnologie hanno
origini molto antiche: gli antichi egizi, ad esempio, pur senza conoscere l’esistenza dei
microrganismi, effettuavano la fermentazione sui cereali per produrre birra e pane. Nel
settore più strettamente agricolo, l’uomo modifica le piante coltivate da almeno 10.000
anni al fine di renderle sempre più adatte alle proprie esigenze. Le specie coltivate nel
sistema agricolo sono infatti il risultato, inizialmente inconsapevole, della selezione
empirica operata dall’uomo su genotipi di specie selvatiche, ovvero su varianti o mutanti
naturali,
che mostravano un migliore adattamento alle condizioni di coltivazione e
raccolta o possedevano migliori caratteristiche alimentari (es. organolettiche e di
digeribilità). L’acquisizione della consapevolezza da parte dell’uomo di interferire con il
processo di selezione naturale ha determinato la selezione di tutta una serie di genotipi
naturali che presentavano delle caratteristiche utili per l’uomo, dando inizio al processo di
domesticazione delle piante, riguardanti sia il ciclo di sviluppo della pianta che le
caratteristiche dei semi e frutti. In questo processo, la selezione intenzionale (selezione
artificiale) operata dall’uomo ha indirizzato e accelerato il processo evolutivo che ha
portato nel corso del tempo a profonde differenze fra le piante coltivate e i loro
progenitori (Figura 1).
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Figura 1. Un chiaro esempio dell’azione delle selezione (con metodologie classiche)
operata dall’uomo sulle piante selvatiche. Frumento selvatico (a sinistra) e frumento
coltivato (a destra).
Dopo una lunga fase in cui l’uomo ha operato come semplice selezionatore della
variabilità naturale, intorno al XVII-XVIII secolo, l’interesse per la conoscenza dei
meccanismi di riproduzione delle piante condusse le ricerche verso la produzione
controllata di ibridi, anche inter-specifici. Queste ricerche di base trovarono un forte
impulso applicativo nel settore agrario del miglioramento genetico delle varietà coltivate
dopo la riscoperta dei risultati di Mendel sulla teoria dell’ereditarietà. La continua
richiesta di variabilità genetica su cui operare la selezione di caratteri utili portò gli
ibridatori del XVIII-XX secolo a produrre tutta una serie di incroci intra- ed inter-
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specifici, forzando artificialmente, in quest’ultimo caso, il sistema genetico che presiede
all’integrità della ‘specie’.
La produzione di genotipi con caratteristiche desiderate dall’uomo ha avuto un
ulteriore forte impulso con la scoperta nel 1953 da parte di James Watson e Francis Crick
della struttura a doppia elica del DNA, la molecola dell’eredità. Sulla base di queste
conoscenze si sono concentrati gli sforzi a livello del DNA sviluppando metodologie in
grado di alterare più o meno drasticamente la ‘naturale’ organizzazione del genoma delle
specie nell’intento di produrre delle variazioni genomiche la cui manifestazione
fenotipica risultasse utile ai fini conoscitivi e/o applicativi. La mutagenesi, sia chimica
che fisica, rappresenta forse la metodologia più ‘drastica’ usata per alterare
l’organizzazione del genoma, in quanto completamente empirica e capace di causare
mutazioni multipli e casuali. L’applicazione di queste metodologie determinò un radicale
cambiamento nel settore del Miglioramento genetico, fin dagli anni ‘50-‘60, dove la
continua ricerca di nuova variabilità da cui selezionare caratteri utili favorì notevolmente
l’applicazione delle tecniche di mutagenesi. Da semplice selezionatore e successivamente
‘combinatore’ della variabilità naturale, l’uomo diventa ‘creatore’ di nuova variabilità su
cui operare per la selezione di caratteri utili. Circa 2000 varietà coltivate sono state
ottenute con questa metodologia (http://www.agbios.com/dbase.php?action=Synopsis).
La creazione di variabilità combinata con efficienti sistemi di selezione ha portato allo
sviluppo di colture di alto rendimento che insieme a un allevamento intensivo hanno
contribuito all’enorme crescita della produttività agricola conosciuta come rivoluzione
verde, registrata principalmente nei Paesi in via di sviluppo tra gli anni ‘60 e ‘80.
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Simultaneamente al periodo della rivoluzione verde, si aprì un decennio molto
importante per la biologia molecolare in cui si riuscirono a comprendere i processi base e
le molecole coinvolte nella replicazione ed espressione genetica, che poi diedero impulso
allo sviluppo delle tecniche del DNA ricombinante.e quindi alla Biotecnologia moderna.
In questo periodo, le conoscenze, soprattutto sui fitormoni, portarono allo sviluppo di
metodologie di Miglioramento genetico che utilizzano colture cellulari o di tessuti,
comprendenti la micropropagazione, la variazione somaclonale, le colture aploidi,
l’ibridazione somatica. La combinazione di queste conoscenze con quelle del DNA
ricombinante consentirono lo sviluppo delle metodologie di trasformazione genetica,
ovvero il trasferimento di informazione genetica da un organismo ad un altro senza
necessità di fecondazione. L’inserzione di un gene ben caratterizzato in cellule vegetali e
la successiva rigenerazione di piante fertili con un transgene integrato nel suo genoma
permise l’ottenimento delle prime piante trasgeniche.
Dal 1996 ad oggi si è avuto un progressivo aumento di piante GM sia nei Paesi
industrializzati che in quelli in via di sviluppo e che esso è dovuto principalmente alla
coltivazione di piante GM di soia, mais, colza e cotone (Figura 2). Da sole infatti queste
piante coprono quasi il 100% delle piante GM attualmente coltivate, mentre la minima
parte restante è rappresentata da altre 8 specie coltivate (patata, zucchine, papaya,
pomodoro, barbabietola, riso, lino e radicchio) alcune delle quali ritirate dal commercio
principalmente per le preoccupazioni delle ditte produttrici e dei coltivatori relative alla
loro commercializzazione. Alcuni prodotti GM sono stati legalmente autorizzati sul
mercato europeo e comprendono 12 varietà di mais, 6 di colza, 5 di cotone e una di soia.
Questi prodotti sono soggetti alle norme di etichettatura e tracciabilità cui sono sottoposti
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tutti i prodotti GM dall’entrata in vigore della nuova normativa UE (normativa N.
1829/2003 della Commissione europea).
AREA GLOBALE DELLE COLTURE TRANSGENICHE
Milioni di ettari (dal 1996 al 2011
Totale
29 Paesi con colture transgeniche
Paesi industrializzati
Paesi in via di sviluppo
Incremento dell’8%, 12 milioni di ettari tra il 2010 e il 2011
Figura 2. Andamento globale nel tempo delle colture transgeniche utilizzate nei diversi
Paesi.
Come si ottiene una pianta geneticamente modificata
Per l’ottenimento delle PGM si devono seguire diversi passaggi di preparazione
utilizzando le tecniche del DNA ricombinante. Questi passaggi consentono di ottenere un
costrutto genico composto, oltre che dal gene di interesse, da un promotore e un
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terminatore per la sua corretta espressione nei tessuti trasformati. Lo stesso costrutto
genico o in un altro con le stesse caratteristiche, deve contenere un gene il cui prodotto
consenta la selezione delle cellule trasformate (gene marcatore; ad esempio un gene che
codifica per una proteina che conferisce la resistenza ad un antibiotico - molto utilizzato
quello per la resistenza alla canamicina. Un altro gene marcatore molto utilizzato è
quello che codifica per una proteina che conferisce resistenza ad un erbicida – molto
utilizzato il gene bar che codifica per la fosfinotricina acetil transferasi (PAT) che
conferisce resistenza all’erbicida Bastar). A questo punto il gene di interesse è pronto per
essere trasferito nel genoma del tessuto o cellula ricevente, mediante uno dei
procedimenti di trasformazione genetica.
Le tecniche di transformazione genetica delle piante si basano su un prerequisito
molto importante che è quello di avere la possibilità di rigenerare un individuo completo
a partire da una cellula o un tessuto coltivati in vitro. Tuttavia, ogni specie o tessuto
risponde in modo diverso ed è, quindi, necessario la messa a punto di protocolli specifici
per la rigenerazione della pianta intera. Diverse procedure consentono l’integrazione di
DNA esogeno nelle cellule vegetali, tuttavia solo due di questi sono i più diffusi: il
metodo cosiddetto biologico, che utilizza i batteri del genere Agrobacterium come vettori
ed il metodo fisico o biolistico (Figura 3).
Il metodo biologico
La
tecnologia
mediata
da
Agrobacterium
utilizza
come
vettore
un
microorganismo presente comunemente nel suolo, l’Agrobacterium tumefaciens. Per
sopravvivere in natura, questo batterio sfrutta le piante nelle quali si insedia,
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modificandone il genoma delle cellule infette trasformandole in cellule tumorali dalle
quali ricava nutrienti. L’Agrobacterium possiede un solo cromosoma e normalmente dà
alloggio anche ad un frammento di DNA circolare chiamato plasmide Ti (dall’inglese
Tumour inducing), il quale è il responsabile diretto della trasformazione delle cellule sane
in cellule tumorali. Al momento dell’infezione, il batterio aderisce alla cellula vegetale
introducendo un frammento del plasmide Ti. Questo frammento, denominato T-DNA
(DNA di trasferimento) si accoppia perfettamente al DNA delle cellule infettate
diventando, da quel momento, parte integrante del loro patrimonio genetico.
L’informazione genetica contenuta nel T-DNA consente un dedifferenziamento delle
cellule vegetali e la loro proliferazione (in quanto contiene i geni per i fitormoni, auxina e
citochinina), nonché la produzione di particolari sostanze, le opine, utilizzate dal
patogeno come fonte selettiva di nutrimento.
L’ingegneria genetica sfrutta questo processo naturale per trasferire uno o più geni
alla pianta a cui si desidera conferire una certa caratteristica. Essenzialmente è stato
scoperto che l’unica parte del T-DNA indispensabile per il suo trasferimento alla cellula
vegetale, è rappresentato da delle brevi sequenze di DNA (circa 25 basi) poste alle sue
estremità. . Sulla base di questa conoscenza, il sistema è stato sfruttato rimuovendo tutti i
geni contenuti nel T-DNA, lasciando essenzialmente le estremità destra e sinistra
all’interno delle quali vengono inserite le sequenze geniche che controllano il carattere
che si desidera conferire alla pianta. La procedura classica di trasformazione genetica
tramite Agrobacterium è semplice. Si prelevano dei frammenti di tessuto vegetale (es.
dischi fogliari) e si infettano con i batteri ingegnerizzati contenenti il frammento di DNA
di interesse. Durante il contatto con le cellule, i batteri trasferiscono il DNA ricombinante
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costituito dalle terminazioni del T-DNA, il promotore, terminatore e il gene o geni di
interesse che si desiderano trasferire. Dopo alcune ore di co-coltivazione, il batterio si
elimina utilizzando degli antibiotici (es. ampicillina) che non danneggiano le cellule
vegetali. Anche se l’efficienza di Agrobacterium è relativamente alta, non tutto il tessuto
vegetale sottoposto a trasformazione verrà effettivamente trasformato. Per ovviare a
questa limitazione, insieme al gene di interesse viene trasferito anche un cosidetto gene
marcatore, il cui prodotto conferisce alle cellule vegetali riceventi una qualche
caratteristica selezionabile. Classicamente sono stati utilizzati geni i cui prodotti
conferiscono resistenza agli antibiotici o agli erbicidi. Grazie a questo accorgimento,
ponendo il tessuto sottoposto
a trasformazione in un terreno di coltura contenente
l’agente selezionante (es. l’antibiotico canamicina), si consentirà la crescita soltanto dei
germogli che hanno acquisito il gene marcatore, ed il gene di interesse ad esso associato
nel costrutto genico, mentre gli altri muoino in presenza dell’antibiotico.
Nelle prime PGM sviluppate, questi geni marcatori rimanevano per sempre nel DNA
della pianta ma, con i continui progressi della tecnologia, oggi è possibile eliminarli al
termine del processo di selezione. L’integrazione del T-DNA è un processo relativamente
preciso ed il segmento di DNA trasferito si inserisce intatto nel genoma della pianta.
Tuttavia, talvolta il segmento di DNA trasferito subisce dei riarrangiameti che
determinano la mancata esoressione del transgene.
I caratteri introdotti nelle piante con questa tecnica hanno mostrato di essere stabili nel
corso delle generazioni e ciò rappresenta una caratteristica molto importante per la
commercializzazione delle piante transgeniche.
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Il metodo fisico o biolistico
Il
metodo
di
trasformazione
biolistico
è
l’alternativa
al
sistema
dell’Agrobacterium per molte specie vegetali, soprattutto per le monocotiledoni che
presentano una bassa suscettibilità all’infezione del batterio. Con questo metodo è anche
possibile inserire DNA esogeni all’interno degli organelli cellulare come i cloroplasti
(transplantomica). Il metodo biolistico prevede l’introduzione di DNA esogeno
direttamente nel genoma della cellule vegetali, utilizzando come vettore di trasporto delle
particelle di metallo inerte come l’oro e il tungsteno. Queste particelle, che hanno un
diametro approssimativo di 0,4 - 2 μm, vengono ricoperte con il costrutto genico
contenente il gene di interesse, corredato di promotore e terminatore. L’adesione del
costrutto genico sulle particelle avviene grazie ad una procedura che favorisce la
precipitazione del DNA sulle particelle stesse. Le particelle così rivestite vengono
letteralmente sparate sul tessuto vegetale, ad una velocità che può raggiungere i 400 m/s.
La velocità impressa alle particelle è tale da consentirne il passaggio attraverso la parete
cellulare e raggiungere il nucleo. Molte delle cellule colpite perdono di vitalità, mentre
altre subiscono l’ingresso delle particelle senza essere danneggiate. Tra queste ultime,
alcune incorporeranno il DNA esogeno nel loro genoma, risultando così trasformate con
il transgene utilizzato. Il mezzo di propulsione delle particelle è un dispositivo speciale
che consente l’instaurarsi di una elevata pressione, tramite l’utilizzo di un gas inerte come
l’elio, che in seguito ad un suo repentino rilascio imprime una notevole velocità ai
microproiettili che vengono cosi veicolati sul tessuto vegetale da trasformare.
I tessuti utilizzati in questa procedura possono essere pezzi di foglia, cotiledoni, calli,
embrioni immaturi, in alcuni casi persino polline. Come nella pocedura che utilizza
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Agrobacterium, anche nel metodo biolistico si utlilizza un gene marcatore, per la
resistenza agli antibiotici o agli erbicidi, che consente la selezione delle cellule
trasformate. Nonostante questa tecnica sia stata perfezionata nel tempo, presenta diversi
svantaggi tra cui,l’integrazione di molte copie del transgene che può anche provocare il
silenziamento genico, ma soprattutto la sua bassa efficienza,. Uno dei vantaggi che invece
offre questo metodo, è la possibilità di evitare completamente l’uso di DNA esogeno per
veicolare il transgene (come ad esempio il bordo destro e sinistro nel sistema
Agrobacterium) che è alla base della produzione delle piante cis-geniche (vedi oltre).
•Metodo Biologico
•Metodo Fisico
Figura 3. Metodi per la trasformazione genetica delle piante.
La finalità dell’uso delle Piante Geneticamente Modificate (PGM)
Il principio delle biotecnologie moderne nell’agricoltura consiste nel cercare di
non adattare l’ambiente alle piante, come si fa attualmente, ma adattare le piante
all’ambiente. Con questo proposito lavora la ricerca genetica che ha come primo
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traguardo la riduzione dell’uso di ‘correttori dei difetti ambientali’. L’ottenimento di
risultati in questa direzione è già cominciato da qualche anno con la diffusione
commerciale di diverse colture transgeniche, come ad esempio il mais Bt o la soia
Roundup ready, resistenti all’erbicida glifosato. Queste piante, anche conosciute come
piante GM di prima generazione, sono le più diffuse al momento. In questo caso, il
coltivatore è stato il primo beneficiario della loro introduzione, dal momento che
l’utilizzo di queste piante ha permesso la riduzione dei costi di produzione, grazie alla
diminuzione dell’uso di erbicidi e pesticidi ed alla semplificazione del lavoro di controllo
della coltura. In futuro non solo si otterranno altre piante resistenti a fattori biotici (insetti,
funghi, nematodi, virus, ecc.), ma anche tolleranti a molte avversità abiotiche come
siccità, gelate, eccesso d’acqua, salinità o metalli pesanti presenti nel suolo, ecc. Si
potranno avere piante in grado di fissare l’azoto atmosferico sfruttando associazioni
simbiotiche, oppure più efficienti nel processo fotosintetico. Con queste piante si
potranno utilizzare nuovi terreni di coltivazione, con lo sfruttamento delle zone aride e di
ambienti marginati; si potranno valorizzare piante che adesso non hanno alcun valore
agronomico e di moltissime altre piante non ancora destinate all’uso alimentare.
Mentre le piante GM di prima generazione sono una chiara realtà produttiva, con
le piante GM di seconda generazione si pretende di migliorare la composizione del
prodotto o il suo valore nutritivo cercando di aumentare il loro contenuto in vitamine,
favorire le eventuali proprietà medicinali, eliminare gli allergeni naturali, modificare il
contenuto o il tipo di proteine e acidi grassi, migliorare le caratteristiche organolettiche
(colore, sapore, tessitura), ecc. Caratteristiche che offriranno dei vantaggi direttamente al
consumatore. Alcune di queste piante sono già in commercio o in via di
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commercializzazione, come ad esempio i pomodori a maturazione controllata, il riso
dorato, arricchito con precursori della vitamina A, grano con maggior contenuto in fibra,
patate con più amido, ecc.
Mentre la ricerca attuale si sta orientando verso la seconda generazione di PGM,
le piante GM di terza generazione stanno diventando una concreta opportunità. Si tratta di
piante che saranno in grado di produrre composti ad alto valore aggiunto da utilizzarsi
nell’industria chimica o farmaceutica. Diventeranno bio-fabbriche per la produzione di
sostanze di interesse medico ed industriale approffitando del minore costo e della
maggiore resa che esse presentano, rispetto agli attuali sistemi produttivi. Uno dei primi
obiettivi sarà la produzione di medicinali, come ad esempio, insulina, vaccini, vitamine,
anticorpi, ecc. Dato l’ampio spettro di applicazioni potenziali che queste piante offrono, è
possibile anche un loro intenso sfruttamento per la produzione di prodotti di interesse
industriale, come ad esempio la produzione di enzimi per essere usati nei detersivi, nei
prodotti industriali (esempio la patata Amflora che contiene amido composto solo da
amilopectina, l’altro componente, l’amilosio, è assente) o nella produzione di alimenti.
Altri eventuali prodotti industriali derivati da tessuti vegetali includono le proteine
strutturali come l’elastina e il collageno, plastiche biodegradabili, che potrebbero essere
un’alternativa alla produzione di polimeri derivati dal petrolio, tossine contro parassiti
delle piante, zuccheri alternativi (trealosio), ecc. Di particolare interesse risultano le
colture trasgeniche con caratteristiche che faciliteranno la produzione di bio-energia,
come ad esmpio una particolare composizione o proprietà della parete cellulare. Esiste la
possibilità che le PGM di terza generazione possano intervenire anche sulle patologie
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della nostra società moderna, proponendo sul mercato, oltre che prodotti nutrizionali,
anche alimenti dietetici e più bilanciati.
Recentemente è stata proposta una nuova tecnica di breeding come alternativa alla
lenta e lunga procedura del breeding tradizionale: la cisgenesi. Questa tecnica utilizza la
tecnologia della trasformazione genetica ma dovrebbe suscitare minori critiche
nell’opinione pubblica. La cisgenesi è una via di mezzo tra il breeding tradizionale e la
transgenesi eliminando gli svantaggi dell’uno e le critiche dell’altra. Infatti, alla base
della produzione delle piante cisgeniche vi è l’utilizzo esclusivo di geni proveniente da
specie sessualmente compatibili. Questà peculiarità dovrebbe consentire di sfruttare al
meglio le tecniche di trasformazione genetica, per velocizzare i tempi per il trasferimento
di nuovi caratteri, piuttosto lunghi nel breeding classico, senza però incorrere nelle
critiche, essenzialmente di natura ambientalista, che esse suscitano quando utilizzate per
produrre le piante transgeniche. In quest’ultima procedura, infatti, i geni potendo
provenire da qualsiasi organismo (batteri, virus, animali, ecc.), data la natura comune
della molecola del DNA, crea delle critiche per il mancato rispetto delle barriere naturali
di specie. Le piante cisgeniche, pur essendo prodotte con le metodologie della
trasformazione genetica, rispettano la barriera naturale di specie e quindi sono
assimilabili alle piante prodotte per incrocio nell’ambito delle procedure classiche di
miglioramento genetico.
Per quanto specificato, le piante cisgeniche non dovrebbero essere considerate nel gruppo
delle piante GM e i prodotti alimentari derivati da esse non dovrebbero essere etichettati
come GM visto che non presentano i potenziali rischi di salute ed ambientali che vengono
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associati alla coltivazione di piante GM. Su questa base, recentemente è stata proposta la
modificazione della direttiva 2001/18/CE affinchè le piante cisgeniche siano anche
escluse dalla normativa che riguarda gli OGM e siano regolamentate come quelle
prodotte dal breeding tradizionale. Visto l’elevato potenziale che la cisgenesi offre per
sveltire i processi di miglioramento delle piante, questa decisione aumenterebbe
enormemente le prospettive economiche ed ambientali dell’agricoltura.
Problemi connessi all’uso delle PGM
Le Biotecnologie molecolari sono state applicate anche nel settore agrario dove
hanno prodotto notevoli benefici nel settore diagnostico molecolare, come, ad esempio,
nella selezione assistita mediante marcatori molecolari (Marked Assisted Selection,
MAS), ma anche enormi contrasti, quando queste tecnologie sono state utilizzate, insieme
alle metodologie delle colture in vitro di cellule e tessuti vegetali, per produrre PGM.
Questi contrasti non riguardano quindi tutte le biotecnologie molecolari, ma sono limitati
all’uso delle PGM e nascono principalmente dal fatto che queste, a differenza dei
microrganismi geneticamente modificati, prodotti e utilizzati nel sistema industriale,
crescono in un ambiente non confinato e quindi a contatto con tutti gli altri elementi che
caratterizzano il sistema agrario. Infatti, limitando le considerazioni sul piano scientifico,
ed escludendo quelle etiche e socio-economiche, le critiche all’uso delle PGM nel sistema
agrario sono essenzialmente di due tipi: ambientale e per la salute dell’uomo.
La critica relativa alla salute umana è stata ampiamente vagliata, senza tuttavia
riscontrare alcuna differenza tra le PGM e le varietà di piante sviluppate con le tecniche
classiche. Ciò ha contribuito a sviluppare il concetto di ‘sostanzialmente equivalente’, che
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consiste nel fatto che, se le PGM superano i controlli predisposti per l’iscrizione al
registro varietale, devono essere considerare sostanzialmente equivalenti alle piante
sviluppate per via classica e quindi, in alcuni Paesi, come gli Stati Uniti, i prodotti da esse
derivati non necessitano di etichettature. Anche in Europa questo concetto è
essenzialmente accettato, tuttavia, per una scelta più consapevole da parte del
consumatore, si preferisce etichettare il prodotto derivato dalle PGM se questo supera il
limite dello 0,9% (Direttiva 49/2000/CE; Regolamento 1830/2003/CE)).
Per quanto riguarda la critica ambientale, essa è essenzialmente correlata alla capacità di
questa tecnologia di effettuare trasferimenti genici tra i più differenti organismi, animali
compresi, in quanto necessita del solo DNA come ‘mezzo di scambio’. Come
conseguenza di ciò le PGM potrebbero trasferire il proprio transgene a microrganismi del
suolo o a specie di piante affini (fenomeno noto come “trasferimento genico
orizzontale”). Secondo i sostenitori di questa critica, questa capacità, peraltro non nuova
in natura, costituisce un fatto di grande rilievo perché possiede le potenzialità di ‘alterare’
o ‘accelerare’ l’evoluzione di una specie.
Per superare queste critiche i ricercatori stanno cercando di migliorare alcuni
aspetti delle metodologie di trasformazione genetica. Tra queste è importante ricordare la
transplastomica (trasformazione genetica dei cloroplasti) per evitare l’eventuale
trasferimento genico orizzontale tramite il polline delle piante GM (i cloroplasti vengono
ereditati per via materna, per cui sono assenti nel polline), l’uso di procedure di selezione
delle piante GM prive di marcatori di selezione (in particolare quelli basati sulla
resistenza ad antibiotici) ed infine l’espressione del transgene limitatamente ai tessuti
dove è necessario l’effetto del prodotto proteico da essi codificato (es. espressione del
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transgene soltanto nelle radici per il controllo di un patogeno radicale). L’apice di questo
sforzo è culminato con lo sviluppo delle piante cisgeniche descritte precedentemente.
Infine, una critica che spesso viene associata all’uso delle PGM è l’incremento
dell’industrializzazione dell’agricoltura. E’ importante rimarcare che l’attuale sistema
agrario, anche senza le piante GM, è basato quasi esclusivamente sulle monocolture e
prevede un uso massiccio di pesticidi, diserbanti ed irrigazione per consentire le attuali
elevate rese delle specie coltivate, anche in ambienti non vocati. Questo tipo di
agricoltura industrializzata si è sviluppato durante la rivoluzione verde negli anni 19501970 ed è noto che esso ha contribuito fortemente alla degradazione dell’ambiente. Il
miglioramento genetico tramite le biotecnologie ha le potenzialità per offrire delle
possibili soluzioni agli attuali problemi ambientali e quindi può essere utile valutarne,
anche caso per caso, la sua applicazione e i conseguenti risvolti. Soltanto cosi facendo
potremmo mettere a frutto le attuali conoscenze, cosi come è stato sempre fatto nel corso
dell’evoluzione dell’uomo. L’impegno degli addetti ai lavori nel settore agricolo
dovrebbe quindi essere volto ad un ritorno verso un’agricoltura sostenibile basata su
un’attenta considerazione del sistema agricolo nella sua globalità e adattamento alle
specifiche condizioni ambientali utilizzando tutte le conoscenze disponibili per
raggiungere l’obiettivo di adattare le piante all’ambiente e non di adattare l’ambiente alle
piante.
Alcuni indirizzi utili
http://www.isaaa.org
http://www.isprambiente.gov.it/site/it-it/Temi/Natura_e_Biodiversit%C3%A0/OGM/Normativa_UE/
http://ec.europa.eu/food/food/biotechnology/index_en.htm
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http://www.efsa.europa.eu/it/topics/topic/gmo.htm
http://cera-gmc.org/index.php?action=gm_crop_database
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