QUADERNI DEL CONSIGLIO REGIONALE DELLE MARCHE Giancarlo Galeazzi Conversazioni filosofiche al Castello a confronto su… Cielo, Desiderio, Stupore, Memoria e Tempo Conversazioni nella notte di San Lorenzo 2010-2014 alla corte del castello del Cassero a cura dell’Assessorato alla cultura del Comune di Camerata Picena QUADERNI DEL CONSIGLIO REGIONALE DELLE MARCHE “Nessuno mentre è giovane, tardi a filosofare; né, mentre è vecchio, si stanchi di filosofare; infatti, per acquistare la salute dell’anima, nessuno è immaturo o troppo maturo. E chi dice che non è ancora venuta l’età del filosofare o che è già passata, è come se dicesse che non è ancora giunta l’ora di essere felici o che è già trascorsa” (Epicuro, Lettera sulla felicità) Tra i compiti della Regione Marche un posto non secondario è da riconoscere alla valorizzazione di significative iniziative intraprese sul territorio dagli enti locali. I “Quaderni del Consiglio regionale delle Marche” sono, tra l’altro, finalizzati a documentare alcune di queste iniziative con lo scopo di allargarne e favorirne adeguato apprezzamento. Con tale spirito si pubblica ora un quaderno dall’invitante titolo Conversazioni filosofiche al Castello: sono le riflessioni svolte da Giancarlo Galeazzi, nella corte del Castello del Cassero la notte del 10 agosto da cinque anni a questa parte. Nella suggestiva cornice del monumento (il Castello del Cassero fu costruito a partire dal 1377 per volere del conte anconitano Nicolò Toriglioni, e oggi è adibito a centro per le attività culturali) si svolgono molteplici iniziative: artistiche, teatrali, musicali e anche filosofiche. Quest’ultime ad opera del prof. Galeazzi, ideatore di molteplici rassegne che da diciotto anni ad Ancona, da otto anni a Falconara Marittima e da cinque anni a Camerata Picena - sono tutte finalizzate all’esercizio del pensiero da parte di coloro che hanno voglia e gusto di saggiare le proprie capacità riflessive. Ci è parso allora utile e significativo documentare una di queste rassegne: quella di Camerata Picena si prestava particolarmente, dal momento che si tratta di cinque conversazioni in qualche modo legate alla notte di San Lorenzo: da cielo a desiderio, da stupore a memoria, a tempo, vengono presentate queste cinque tematiche come altrettanti tasselli di una rinnovata antropologia, frutto di una 5 riflessione che, di volta in volta, ha preso in considerazione quattro punti di vista: scientifico, artistico, religioso e filosofico, in modo da operare dei confronti tali da mettere in luce la complessità delle tematiche affrontate e in modo da ricomporre in unità la molteplicità delle letture. Dunque, non per dovere di apprendimento o di insegnamento, ma per piacere culturale si fa filosofia a questi incontri, ideati e coordinati dal prof. Galeazzi, direttore del Festival del pensiero plurale di Ancona; essi costituiscono ormai una bella tradizione nel contesto marchigiano con echi che vanno al di là della nostra regione. Non solo: pubblicare le Conversazioni filosofiche al Castello costituisce un modo di documentare una originale iniziativa organizzata da un Comune che alla cultura dedica attenzione in chiave promozionale, evidenziando la fecondità del binomio “cultura/turismo” che oggi rappresenta uno degli snodi fondamentali anche a livello di politica regionale. Vittoriano Solazzi Presidente dell’Assemblea legislativa delle Marche 6 Presentazione Da una idea del prof. Giancarlo Galeazzi è nata l’iniziativa denominata “A confronto su...” promossa dal Comune di Camerata Picena: si tratta di una serie di “conversazioni filosofiche” a carattere annuale che si tengono nella corte del Castello del Cassero nell’ambito del programma estivo predisposto dall’Assessorato alla cultura. In questi termini l’iniziativa appare come una delle tante manifestazioni culturali che anche d’estate si svolgono nella nostra regione, come in tutta Italia. Ma lo specifico di questi incontri sta nel fatto che essi si tengono nella notte di San Lorenzo, e quindi il 10 agosto da cinque anni - ecco la novità - un filosofo riflette su una serie di temi in una qualche maniera legati alla dimensione del cielo. Così Giancarlo Galeazzi, presidente onorario della sezione provinciale della Società Filosofica Italiana di Ancona, ha riflettuto sul cielo, sul desiderio, sullo stupore, sulla memoria e sul tempo; tutte questioni riguardate da diversi punti di vista: oltre quello specificamente filosofico, anche da quelli scientifico, religioso e artistico. In tal modo si è offerta la possibilità di cogliere la complessità dei temi di volta in volta trattati, e, insieme, di farne una trattazione unitaria, in quanto i diversi approcci sono stati ricondotti entro l’orizzonte propriamente antropologico ed etico. Il pubblico, che ha seguito queste conversazioni, ha mostrato vivo gradimento, a dimostrazione ancora una volta che l’esercizio del pensiero prescinde dalle competenze tecnicali della filosofia, e costituisce invece una esigenza, che trova seguito quando le persone sono coinvolte in una riflessione accessibile e organica. Ha certamente contribuito al successo dell’iniziativa la dimensione multidisciplinare delle questioni prese in considerazione, nonché la capacità espositiva del prof. Galeazzi, il quale non a caso da tempo porta avanti questa seria divulgazione filosofica sia ad 7 Ancona con il “Festival del pensiero plurale”, articolato nelle rassegne: Le parole della filosofia, Le ragioni della parola, Libri per pensare e La filosofia nella città, sia a Falconara Marittima con “L’ora felice” articolata nelle rassegne: Nel giardino del pensiero, Giornate mondiali e Letteratura e filosofia; a queste fortunate rassegne si è aggiunta quella di Camerata Picena “A confronto su...”, che rispetto a quelle si presenta con una duplice specificità: il carattere pluralistico (degli approcci al tema) e il carattere unitario (della continuità del relatore). Piace ricordare che questa iniziativa, per la quale ci siamo avvalsi della collaborazione del prof. Galeazzi, s’inserisce in una politica culturale cui da sempre presta attenzione l’amministrazione comunale di Camerata Picena: oltre alle numerose presentazioni di libri e di autori, vanno segnalate le manifestazioni - curate da Massimo Volponi - di “Arte a Castello”, cui lo stesso Galeazzi ha avuto modo di collaborare (per cui gli è stato consegnato un “attestato al merito”), le attività del “Laboratorio di recitazione” curato da Luca Violini e del “Laboratorio di poesia” curato da Fabio M. Serpilli e la “Master Class” di violino con il Maestro Horigome. A quest’ultimo riguardo vogliamo sottolineare che circostanze particolarmente felici ed uniche nel loro genere hanno fatto sì che nel 2013 una grande violinista di fama mondiale, Yuzuko Horigome, accettasse di tenere al Castello del Cassero di Camerata Picena una “Master Class” di alto perfezionamento musicale, di portata internazionale. Gli studenti della “Master Class” sono giunti dal Belgio, Francia, Germania, Giappone, Kazachistan, Italia, Slovenia e Spagna e sono stati ospitati in famiglie selezionate del piccolo borgo del Cassero. Alla luce del successo di critica e di pubblico, dell’accoglienza riservata dai membri di Residart e dalla cittadinanza ad artisti e allievi, la Signora Horigome ha accettato di ripetere questa esperienza nel 2014. Il significato per la nostra regione, non solo per il territorio di Camerata Picena, è straordinario; infatti, 8 oltre all’accesso ad una formazione professionale di valore incontestabile ed all’effetto trainante nell’educazione musicale, questa iniziativa permette al nostro territorio di emergere e di interagire con interlocutori regionali, nazionali ed internazionali di altissimo livello. Il nostro obbiettivo è di radicare nella nostra regione questa nicchia di eccellenza e farne - insieme con le altre qualificate iniziative - una bandiera di qualità civile e culturale. Paolo Tittarelli, sindaco di Camerata Picena Agnese Tramonti, assessore alla cultura 9 Castello del Cassero a Camerata Picena, sede delle conversazioni filosofiche tenute annualmente dal prof. Giancarlo Galeazzi 10 INTRODUZIONE Nella notte di San Lorenzo è il cielo stellato a costituire il riferimento obbligato: dal punto di vista astronomico (per il fenomeno delle stelle cadenti: la Terra attraversa in quei giorni lo sciame meteorico delle Perseidi), dal punto di vista poetico (la nota lirica di Giovanni Pascoli, intitolata appunto “X agosto”), dal punto di vista religioso (il diacono Lorenzo è un santo molto popolare e venerato per il suo martirio), dal punto di vista etico (siamo in presenza di una simbolica con portata anche antropologica). Così le conversazioni che si sono tenute la sera del 10 agosto, promosse dall’assessorato alla cultura del Comune di Camerata Picena, hanno avuto il cielo stellato come filo conduttore, e di anno in anno è stato messo a tema un aspetto, riguardato da molteplici punti di vista: filosofico, scientifico, teologico, artistico. Per questo “A confronto su...” s’intitola la rassegna, ospitata al Castello del Cassero, più precisamente nella corte, sotto il cielo stellato appunto. Tenendo presenti i quattro approcci accennati, si è tuttavia di volta in volta sottolineato l’aspetto antropologico nella sua valenza etica. Così, il primo anno, trattando del cielo come realtà e come metafora, lo si è riguardato soprattutto quale luogo della apertura, cioè del trascendimento (verticale e orizzontale); il secondo anno, quando il cielo ha portato a fare riferimento al desiderio, si è riguardata questa dimensione come bisogno e come aspirazione in rapporto all’odierna crisi (individuale ed epocale); il terzo anno il cielo si è configurato specialmente come un luogo dello stupore (sia come cielo stellato sopra di me sia come cielo morale dentro di me); il quarto anno il cielo è stato collegato alla memoria (alle sue dimensioni mnemoniche e memoriali) nella prospettiva della identità (individuale e collettiva); il quinto anno, infine, il cielo ha posto la questione del tempo, per cui si è cercato di chiarire se il tempo (inteso come dissolvimento o come donazione) sia da considerare 11 nemico o compagno della nostra vita Ebbene - parlando di cielo, desiderio, stupore, memoria e tempo - si è voluto, a ben vedere, individuare alcune strutture portanti della condizione umana, in diverso modo legate alla categoria di “apertura”. L’intento è stato quello di delineare una concezione antropologica, che presenta l’uomo come animale “incompiuto”, “desiderante”, “interrogante”, “memoriale” e “indugiante”: tutte caratterizzazioni che contribuiscono a delineare un umanesimo personocentrico, alternativo ad ogni forma di riduzionismo, che appiattisce l’uomo su una sola dimensione: oggi si propende per quella meramente fisica, presentata come “naturale”, quando invece è artificiale, essendo astrattamente elaborata. Di contro alle ricorrenti tentazioni di rappresentare l’uomo a una dimensione (cambia la dimensione ma non cambia la unilateralità) si è voluto esprimere l’esigenza di misurarsi con la persona umana colta nella sua unità, unicità e unitarietà di aspetti, una complessità all’insegna della “specificità”, della “differenza”, della “eccedenza”, del suo “proprio” (per utilizzare espressioni usate da noti pensatori contemporanei), senza peraltro concessioni allo specismo. Dunque, no ad un antropocentrismo animato da violenza dominatrice, ma no, anche, ad un ecocentrismo caratterizzato dalla cassazione della originalità e autenticità umane; si, invece, al personocentrismo che legge la specificità umana in termini di dovere e di servizio, di vocazione e di responsabilità: il che richiede una molteplicità di verbi da coniugare secondo il paradigma di persona. È con tale spirito che le cinque edizioni della rassegna “A confronto su...” hanno rappresentato un invito a riflettere su alcuni temi alla luce di diversificati approcci, ma con un taglio prevalentemente filosofico, che tuttavia si è tenuto ad un livello accessibile, come si conviene ad una serata di intrattenimento estivo. Nella notte di San Lorenzo sono numerose le iniziative che un po’ dappertutto si tengono per festeggiare questa notte agostana incentrata sul cielo. 12 L’iniziativa, che si è svolta nella corte del Castello del Cassero, si è distinta per originalità: non ha carattere astronomico né folcloristico, né festaiolo, ma culturale, anzi propriamente filosofico. Si tratta, quindi, di una rassegna, che si aggiunge alle altre da me ideate per i comuni di Ancona (Festival del pensiero plurale) e di Falconara Marittima (L’ora felice), per la Regione Marche e la Prefettura di Ancona (Le Marche del pensiero), e per istituzioni culturali (Giornata filosofica) ed ecclesiali (Giornate dell’anima): così si è fatto filosofia a Teatro (Sperimentale), al Palazzo (della Prefettura), alla Mole (Vanvitelliana), nel Giardino (di Falconara Alta), per limitarci ad alcuni luoghi emblematici: in ogni caso, al di fuori delle aule scolastiche e universitarie nella convinzione che, se studiare filosofia è un dovere di alcuni (studenti e docenti), fare filosofia è un diritto di tutti, perché l’esercizio del pensiero è un fattore di crescita tanto per la persona, quanto per la società, e una vitale democrazia ha a cuore lo sviluppo dell’una e dell’altra. Con questo spirito, cinque anni or sono, ho proposto al Comune di Camerata Picena la rassegna annuale “A confronto su...” e l’amministrazione comunale ha saputo dare alla manifestazione il giusto rilievo, che ora trova espressione in una pubblicazione, che raccoglie integralmente i testi delle conversazioni, corredati da bibliografie. Queste, articolate secondo i diversi approcci, forniscono un ampio quadro (che ho provveduto anche ad aggiornare) degli studi sui cinque temi, offrendo così un’idea della complessità e attualità delle questioni affrontate, e indicando gli strumenti per eventuali approfondimenti. Per questo vogliamo operare una serie non formale di ringraziamenti. Ringrazio l’assessore alla cultura del Comune di Camerata Picena, Agnese Tramonti, per aver accettato di realizzare questa rassegna culturale e averne seguito con cura l’organizzazione. Insieme ringrazio il sindaco di Camerata Picena, Paolo Tittarelli, per aver voluto presenziare, ogni volta che gli è stato possibile, alle 13 serate: con brevi ma significative parole ha presentato gli incontri, chiarendone il senso e la novità. Ringrazio inoltre la stampa che ha voluto presentare questa rassegna nel contesto delle iniziative culturali che si tengono nelle Marche in occasione della giornata del 10 agosto, mettendo in evidenza la specificità della iniziativa, la cui peculiarità sta nel porre a confronto - su un tema (in qualche modo legato alla serata) - letture diverse, in particolare quelle della filosofia, della religione, dell’arte e della scienza. Ringrazio, ovviamente, il pubblico, che è stato sempre numeroso e interessato: il che non può non fare piacere, dal momento che è ulteriore conferma che la cultura e la filosofia costituiscono un buon richiamo anche in tempo di vacanza. D’altronde alcune recenti iniziative estive da me organizzate per il Comune di Falconara (la rassegna Nel giardino del pensiero nell’ambito del contenitore culturale L’ora felice) e per il Comune di Ancona (la rassegna Le ragioni della parola nell’ambito del contenitore culturale Amo la Mole e del Festival Adriatico/Mediterraneo) lo provano inequivocabilmente. Ringrazio infine il presidente dell’Assemblea Legislativa delle Marche, Vittoriano Solazzi, che ha voluto dedicare a queste “conversazioni filosofiche” uno dei Quaderni del Consiglio regionale delle Marche, permettendo così di fruirne a un più vasto pubblico: un modo efficace di documentare una originale iniziativa organizzata da un Comune che alla cultura dedica particolare attenzione anche in chiave promozionale. Giancarlo Galeazzi Presidente onorario della Società Filosofica Italiana di Ancona Direttore scientifico del Festival del Pensiero plurale di Ancona 14 A confronto su ... conversazioni filosofiche di Giancarlo Galeazzi 15 Giancarlo Galeazzi, ideatore della rassegna di conversazioni filosofiche “A confronto su ...” (Foto di Davide Pazzaglia) 16 IL CIELO come realtà e metafora A Ginevra Virginia Premessa Prende il via con una conversazione su “il cielo” la rassegna “A confronto su...” che si tiene nella notte di San Lorenzo, e quindi il tema del cielo era d’obbligo. L’intento è quello di mettere “a confronto” punti di vista diversi: da quello teologico a quello filosofico, a quello scientifico, senza peraltro trascurare quello artistico e popolare, allo scopo di mostrare la polisemia di questa parola, che infatti rientra nel vocabolario degli scienziati, dei teologi, degli scrittori, dei pittori e dei filosofi. Si tratta di una molteplicità di significati che, tuttavia, sono riconducibili a due fondamentali, vale a dire: il senso reale e il senso metaforico; in altri termini, un conto è il cielo degli astronomi, e un conto è il cielo dal punto di vista religioso e artistico; la filosofia è chiamata al riguardo a operare una duplice operazione: epistemologica per un verso, ed assiologica per l’altro, in modo da evidenziare la legittimità della multivocità della parola, e, insieme, la sua valenza umanistica, che alla parola deriva proprio dal fatto che vale in molteplici campi a condizione che in ogni campo ne sia chiarito il senso. Occorre peraltro aggiungere che nei diversi campi si può fare un duplice uso dell’idea di cielo, concependolo in termini di chiusura ovvero di apertura: si determina la prima posizione se essa è escludente, mentre si ha la seconda posizione se essa è includente, rivendicando la validità del pluralismo semantico, come anche della connotazione, per così dire, “trascendentistica” del cielo, non solo 17 perché può rinviare a una dimensione propriamente trascendente, ma soprattutto perché può aiutare ad andare al di là dell’orizzonte comune, aprendo alla originalità di scenari inediti. La relazione si struttura in due parti: la prima è volta a individuare i diversi approcci al cielo, e la seconda a puntualizzare gli approcci propriamente scientifici, filosofici e religiosi, per evidenziare infine due acquisizioni e una consapevolezza, che ne rivelano la complessità. Parte prima Significati del cielo Il cielo tra magia e arte Mitologia e astrologia Da una credenza popolare si potrebbe partire, proprio perché siamo nella notte di San Lorenzo, e al cielo si guarda per vedere magari qualche “stella cadente” ed esprimere allora un desiderio: “leggenda”, si dirà, certo, ma non da oggi al cielo si collega qualcosa di magico, e nel rituale del 10 agosto c’è qualcosa di magico che non guasta, se non è preso troppo sul serio. D’altra parte, fin dall’antichità, per la mitologia le stelle cadenti erano lacrime di divinità, che piangevano per disastri avvenuti o annunciati; e anche nella tradizione cristiana torna l’idea delle stelle cadenti come pianto celeste. Specificamente cristiana è la leggenda secondo cui il diacono Lorenzo fu arrostito vivo su una graticola di ferro dai romani il 10 agosto 258, e da allora le sue lacrime infuocate continuano a diffondersi nel cielo come scintille, e quanti ammirano quelle scintille e ricordano il martirio di san Lorenzo, possono chiedere una grazia, esprimere un desiderio. 18 Un ruolo non secondario nel rapporto con il cielo ha giocato (e gioca?) l’astrologia, che in passato ha preceduto l’astronomia (in alcuni casi preparandola, in altri intrecciandosi con essa) e che oggi si traduce nella fortuna che hanno gli oroscopi, di cui c’informiamo, anche se non ci crediamo... Ed è diventato abbastanza usuale chiedere il segno zodiacale di una persona come elemento della sua identità: “di che segno sei?” si domanda spesso più o meno seriamente. La credenza nella influenza degli astri sulle vicende umane è certamente “residuale” almeno nella sua dimensione divinatoria, ma è pur vero che, al di là di tale connotazione, esiste un collegamento tra fenomeni “celesti” e “terrestri”, e non solo in termini di meteopatia. Letteratura e pittura Tornando alla notte di San Lorenzo e ai fenomeni astronomici che la caratterizzano, possiamo fare riferimento al cielo dei poeti. Infatti, come non ricordare la poesia X agosto di Giovanni Pascoli, il quale - del fenomeno delle stelle cadenti - dà una sua lettura poetica (che riprende la citata tradizione), considerandolo come il “pianto” del cielo per la malvagità del mondo (il 10 agosto 1867 era stato ucciso suo padre): San Lorenzo, io lo so perché tanto / di stelle per l’aria tranquilla / arde e cade, perché sì gran pianto / nel concavo cielo sfavilla / ... / E tu, Cielo, dall’alto dei mondi / sereni, infinito, immortale / oh! d’un pianto di stelle lo inondi / quest’atomo opaco del male”. È evidente che la poesia segue una logica sua, e il fatto che non abbia corrispondenza con la lettura astronomica, nulla toglie alla sua valenza poetica. Insomma, il cielo dei poeti non è il cielo degli astronomi e magari con questo contrasta; ancora un esempio: nel sonetto A Zacinto di Ugo Foscolo si parla di “limpide nubi”, una contraddizione in termini dal punto di vista scientifico: per definizione la nube non può essere limpida, eppure l’espressione foscoliana ha dal punto di vista poetico una efficacia straordinaria. 19 Altrettanto poeticamente efficace è il dialogo che Giacomo Leopardi intrattiene in alcune sue liriche con il cielo, in particolare con la luna; e il “parlare con la luna” non è il massimo della correttezza scientifica; eppure, almeno nel caso di Leopardi, ha un alto valore poetico. È la conferma, dunque, della possibilità di altre letture oltre quella scientifica, e non meno legittime di questa, a condizione ovviamente che non vengano contrabbandate come tale o ad essa siano considerate alternative. Analogamente si potrebbe dire del cielo degli artisti: pensiamo a certe opere pittoriche medievali quando il cielo sostituisce lo sfondo dorato, o a certe opere moderne all’insegna di multiformi rappresentazioni del cielo o a certe opere contemporanee nelle quali la rappresentazione del cielo non ha più nulla del cielo. Può essere interessante notare che nella lingua francese la parola cielo (ciel) è una parola che ha due plurali: cieux e ciels; mentre il plurale cieux è un termine solo religioso, il plurale ciels si usa solo in pittura quando si dice “i cieli” di un pittore, per dire la maniera in cui un pittore rappresenta il cielo. Ancora una volta sarebbe facile di fronte a certe rappresentazioni pittoriche del cielo “smentirle” dal punto di vista scientifico (astronomico o astrofisico), ma tale operazione non avrebbe senso, anzi ci priverebbe di una esperienza, quella estetica, e sarebbe veramente una perdita secca. Multivocità del cielo Approccio epistemologico Dunque, al cielo, come del resto a tante altre tematiche, ci si può avvicinare in molti modi; nel caso specifico si può affrontare il cielo dal punto di vista popolare, astrologico, poetico, pittorico (come abbiamo accennato), ovvero (ed è quello che in questa sede c’interessa) dal punto di vista religioso, filosofico e scientifico, su cui ora ci soffermeremo. 20 Diciamo che la nostra riflessione ha un taglio epistemologico, nel senso che vuole mostrare come la molteplicità delle letture possono essere legittime, e possono anche restituire il senso della complessità di un tema, mostrando così la ricchezza dei suoi significati, per cui la meraviglia è incrementata proprio dal riconoscimento di questa polisemia: il cielo è non solo oggetto della scienza (anzi di una molteplicità di scienze), ma anche della religione, della filosofia e dell’arte. Al riguardo è da precisare che questi approcci, già presenti prima della rivoluzione astronomica, risultano legittimi anche dopo la rivoluzione scientifica, ma - ecco il punto - in modo diverso, in quanto si diventa consapevoli che il cielo di cui parla la scienza e quello di cui parla la religione o la filosofia o l’arte non sono lo stesso cielo: un conto è il cielo “costruito” dalla scienza”, un conto è il cielo “rivelato” dalla religione, un conto è il cielo “ipotizzato” dalla filosofia, un conto è il cielo “immaginato” dall’arte. In tutti i casi c’è un partire dal cielo come lo configura l’esperienza, vale a dire il cielo come “volta celeste”, ma poi il significato o il senso che ad esso viene attribuito dai diversi approcci è molto diverso, come certe espressione sintetizzano bene: il “cielo stellato” (dell’astronomia), il “regno dei cieli” (della religione), il “cielo oltre il cielo” (della filosofia). La rivoluzione scientifica Queste diverse espressioni possono ben esemplificare il fatto che del cielo oggi non si può parlare in modo analogico (come avveniva nella premodernità) né in modo univoco (come sosteneva la modernità): sono, queste, due modalità rintracciabili rispettivamente prima della rivoluzione scientifica e con la rivoluzione scientifica; dopo questa si può dire che “cielo” diventa parola equivoca nel senso che si applica a realtà o costruzioni di realtà che sono tra loro eterogenee. 21 Infatti, prima della rivoluzione scientifica, la scienza, la religione e la filosofia intendono diversamente il cielo, ma si riferiscono alla stessa realtà celeste; a partire dalla rivoluzione scientifica (è del 1543 l’opera di Copernico, De revolutionibus orbium caelestium) è la realtà stessa del cielo che si diversifica, per cui la scienza parla del cielo in modo sperimentale e matematico, la religione in modo simbolico o allegorico, la filosofia in modo metafisico o metaforico. Insomma, il cielo è diventato un insieme di oggetti individuati da molteplici approcci: da quello scientifico (astronomico, meteorologico, astronautico) a quello religioso (mitologico, teologico, cristologico, mariologico), da quello filosofico (metafisico, ermeneutico, metaforico) a quello artistico (letterario, pittorico, musicale), tuttavia il termine non si riferisce più alla stessa realtà: il nome rimane, ma la realtà che esso indica è una realtà ben diversificata, come mostrano esemplarmente la religione, la filosofia e la stessa scienza. Parte seconda Il cielo tra scienza, filosofia e religione Tre approcci Scienza Con la scienza si rende evidente la “rivoluzione” che subisce il concetto di “cielo”. Infatti, nel momento in cui la scienza ha operato la “naturalizzazione” del cielo, gli ha fatto perdere proprio la sua connotazione “celeste”. Questa, paradossalmente, è conservata proprio in quegli ambiti in cui è venuto meno il riferimento al cielo fisico: è nella religione e nella filosofia che rimane il richiamo al cielo nel senso originario di “celeste” e di “celestiale”, cioè, con 22 altra terminologia, di “trascendente”, nel senso di ciò che è “altro” o che va “oltre” rispetto all’immanente, al mondano, al terrestre. Ecco perché il termine “cielo” usato nei diversi ambiti non può essere “univoco” (tale è, se si considera legittima la sola indagine scientifica), ma “multivoco” (se oltre alla scienza si ritiene legittimo parlare di cielo anche in altri settori). Prima della rivoluzione scientifica, infatti, con il termine “cielo” si faceva riferimento ad una realtà, che veniva spiegata attraverso diversi contributi: della teologia (precristiana e cristiana), della metafisica (greca e cristiana) e dell’astronomia (antica e medievale). Si potrebbe anche dire che del cielo si aveva una concezione ontologicamente unica, che però si specificava metodologicamente in diversi approcci, magari con prevalenza di un significato sugli altri. Questa impostazione cambia radicalmente con la rivoluzione scientifica, quando il cielo diventa uno degli oggetti di cui si occupa la nuova scienza, che lo configura come una realtà naturale da approcciare per via sperimentale e matematica. Dopo aver vinto le resistenze dei teologi e dei metafisici, la scienza finirà per apparire l’unico approccio legittimo tanto da far considerare come inutili o fuorvianti altri approcci. Filosofia Si tratta di una convinzione tanto diffusa che comunemente si considera impropria ogni altra modalità di accostarsi al cielo. A cominciare da quella filosofica. Così, per esempio, nella recente Enciclopedia filosofica di Bompiani si afferma che il cielo, dopo la rivoluzione scientifica, non è più tema su cui la filosofia possa esercitarsi. Siamo invece convinti che il cielo possa e debba costituire motivo di riflessione filosofica, e da più punti di vista, in particolare possiamo segnalare quello epistemologico (sul significato metateorico delle teorie astronomiche: pensiamo, per esempio, a Thomas Kuhn e a Paul Feyerabend) e quello metaforologico (sul significato 23 metaforico del cielo: pensiamo, per esempio, a Hans Blumenberg e a Jean - Luc Nancy), ma anche a quello metafisico, se opportunamente rinnovato (già Nicola Cusano e Giordano Bruno ebbero a esemplificare con riferimento al cielo una “metafisica” non più legata alla teoria tolemaica ma compatibile con quella copernicana). Dunque, è possibile un approccio filosofico, ma nuovo, alla tematica del cielo, rinnovata ontologicamente e semanticamente: il cielo può continuare a dare “da pensare” al filosofo. Religione Altrettanto può dirsi dal punto di vista religioso: anch’esso richiede un approccio nuovo, basato sulla consapevolezza che (come ha ricordato Nancy) “il cielo nel senso delle religioni non è il cielo che è lassù, il cielo che vediamo con i nostri occhi o con il telescopio e nel quale possiamo mandare delle sonde”. Pertanto, “quando le religioni parlano di cielo, dell’elevatezza del celeste, dell’Altissimo e del sommo, non parlano di ciò che sta sopra di noi. Del resto il nostro cielo non sta sopra di noi, perché sta anche sotto”. Dunque, “il cielo delle religioni significa un’altra cosa”, significa “un posto diverso dal mondo, dal mondo intero”. Ebbene, “questa idea religiosa del cielo non indica una cosa che si trova nel mondo, più in alto di tutto. Ma non indica neppure un altro mondo al di sopra del mondo”. Indica piuttosto “un posto diverso dal mondo intero, significa un posto diverso da tutti gli altri posti. Cioè un posto che non è un posto”, per cui il cielo “sarebbe piuttosto qualcosa che non è da nessuna parte, in nessun posto, ma che allo stesso tempo è anche dappertutto”. Insomma, qualcosa che non è una cosa né una persona: “qualcosa che appartiene quindi a un altro mondo e ha un modo d’essere diverso da quello di tutte le cose e di tutte le persone”, qualcosa o qualcuno, che “non è fuori del mondo, perché non c’è nessuno fuori del mondo”, ma che “è altro rispetto al mondo intero e a tutte le cose”. 24 Dal punto di vista propriamente cristiano, la tematica del cielo interseca la riflessione teologica, cristologica, pneumatologica, mariologica, angelologica ed escatologica: dal “Padre nostro che sei nei cieli” al “Regno dei cieli”, dalla “assunzione in cielo” di Gesù e di Maria ai “novissimi” del purgatorio e del paradiso, il cielo cui fa riferimento il cristianesimo non è quello astronomico: tolemaico o copernicano che sia. Aveva quindi ragione Galileo Galilei, quando sosteneva che la scienza si occupa di che cos’è il cielo, mentre la religione di come si va in cielo, ma ovviamente non nel senso di andarci (di ciò oggi si occupano l’aeronautica e l’astronautica) ma di meritarselo. In questo senso Galilei coglie nel segno quando in una lettera a Madama Cristina di Lorena, Granduchessa di Toscana (1615) scrive: “l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo”. Questo comporta che il cielo di cui parla la scienza e il cielo di cui parla la religione non siano lo stesso “cielo”. A voler usare l’immagine cara a Galilei, potremmo dire che il “libro del cielo fisico” va studiato in modo astronomico, mentre il “libro del cielo religioso” va considerato teologicamente: due libri, due alfabeti, e per leggere l’uno e l’altro libro, occorre conoscere entrambi gli alfabeti in cui sono scritti. Non solo: per quanto riguarda il cielo in senso teologico, occorre non confonderlo con quelli che Luigi Alici ha chiamato “cieli di plastica”, cioè quegli idoli che promettono felicità, ma ingannano e schiacciano l’uomo. Di fronte alla “eclisse dell’infinito nell’epoca delle idolatrie” (così suona il sottotitolo del libro Cielo di plastica), appare necessario smascherare molteplici cieli finti, per restituire il cielo a una fede autentica. 25 Due acquisizioni Cielo e celeste Si tratta di una impostazione che si può epistemologicamente connotare come all’insegna del distinguere per non confondere, e che permette di evitare la tentazione “concordista” che torna anche in uno scienziato come Newton ovvero la tentazione “riduzionistica”, ricorrente nella scienza moderna e che trova in Comte espressione compiuta. Dunque, la filosofia e la religione (come anche l’arte), quando usano il termine “cielo”, non fanno riferimento a ciò che è oggetto dell’astronomia, bensì assumono quel termine per significare ciò che è altro (non semplicemente “alto”): con valore simbolico, allegorico (la religione), metafisico, metaforico (la filosofia), immaginativo, emozionale (l’arte). Altro per dire trascendenza come altro dalla immanenza; altro per dire apertura come altro dalla chiusura; altro per dire emozione come altro dalla esattezza. “Cielo”, in tutti questi casi, diventa allora sinonimo di ciò che “eccede” la dimensione mondana, terrena, quantificabile. Da quanto detto consegue che dopo la rivoluzione scientifica si può usare il termine “cielo”, ma per indicare “entità diverse”: da una parte esso si configura come una realtà fisica, dall’altra esso si configura come una metafora, una allegoria, una immagine, per cui, a proposito del cielo fisico, dobbiamo aver chiaro che solo la scienza ne dà una descrizione fisica, mentre dal punto di vista teologico, filosofico e poetico si può parlare di cielo ma avendo altrettanto chiaro che non è quello astronomico, metereologico, astronautico, e nemmeno quello astrologico o ufologico; certo, dall’approccio scientifico, la filosofia, la religione e l’arte possono prendere motivo ma per autonomi sviluppi. È con la rivoluzione astronomica che la scienza moderna “naturalizza” il cielo, per cui il cielo perde il suo carattere “celeste”, e il “cielo” nel senso di “celeste” diventa appannaggio della religione, 26 della filosofia e dell’arte, ciascuna delle quali lo traduce nella sua logica propria. Pertanto non possiamo cercare nel cielo fisico ciò che al cielo viene attribuito dal filosofo (nel senso della metafisica o della metaforologia) o dal teologo (nell’ottica cristiana e non cristiana) o dall’artista (vuoi pittore vuoi poeta). Si potrebbe anche dire che per la scienza dobbiamo “misurare il cielo” come realtà fisica, e per la religione, la filosofia e l’arte dobbiamo “misurarci con il cielo” come realtà teologica, metafisica ed estetica. In tutti i casi siamo di fronte a una “costruzione”: all’insegna della investigazione in senso sperimentale e matematico, ovvero all’insegna della interrogazione in senso ontologico o fenomenologico o ermeneutico o metaforico, ovvero all’insegna della invocazione in senso teologico e soteriologico, ovvero all’insegna della emozione estetica in senso poetico e pittorico. Quindi costruzioni molto diverse. Addirittura la diversità torna anche all’interno di uno stesso approccio. Così nel campo della ricerca, diverso è il cielo di cui parla la scienza con l’astronomia (Margherita Hack, Antonino Zichichi, Cesare Barbieri...), dal cielo di cui parla la fantascienza con l’ufologia (Isac Asimov) o la pseudoscienza con l’astrologia. Così nel campo della riflessione filosofica e religiosa ed estetica, troviamo concezioni diverse: sia in senso diacronico sia in senso sincronico. In breve, possiamo dire che, dal punto di vista storico e concettuale e lessicale, occorre distinguere le diverse configurazioni che il cielo assume nei diversi ambiti: è, questa, una prima acquisizione che mi pare importante per fuoriuscire dai riduzionismi o dagli equivoci epistemologici. Il cielo interiore Ma c’è una seconda acquisizione che vorremmo segnalare, quella che porta ad aggiungere un ulteriore significato al cielo, vale a dire l’idea di “cielo interiore”. 27 A questo in qualche modo richiamava sant’Agostino quando scriveva: “noli foras ire: in te ipsum redi; in interiore homine habitat veritas” e la verità è Dio, e Dio è dunque presente in modo trascendente nell’intimo dell’uomo. La coscienza perciò rappresenta il nuovo cielo, dimora di Dio ma nell’interiorità più profonda dell’uomo, tanto da far dire che Dio è più intimo all’uomo dell’uomo stesso. Accanto al filosofo dell’illuminismo sacrale è da ricordare anche il filosofo dell’illuminismo secolare, Immanuel Kant, il quale nella Critica della ragion pratica ebbe a scrivere questa famosa frase: “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza”. Per questo possiamo parlare di due cieli: quello stellato (della natura) e quello interiore (della persona). Come il cielo del firmamento, così il cielo della coscienza ha le sue stelle, e per orientarsi servono entrambi i cieli. Sarebbe un gran guaio se ci interessassimo solo dell’universo fisico, astronomico, trascurando di occuparci dell’universo morale, valoriale: le stelle dell’uno e dell’altro universo, i loro punti cardinali, servono a orientarci: materialmente e moralmente, logisticamente ed eticamente. Per sensibilizzarci a questo universo morale occorre che la nostra intelligenza sia aperta alle dimensioni che scientifiche non sono, ma sono filosofiche, religiose e artistiche, e non per questo sono meno importanti. Occorre quindi che sappiamo meravigliarci e stupirci del cielo “sopra di noi”, ma anche del cielo “dentro di noi”; così il cielo porta con sé l’idea di “alto” e, insieme, di “profondo”, di “altro” e, insieme, di “oltre”, confermando ancora una volta la molteplicità dei suoi significati. 28 Una consapevolezza Il plurale è d’obbligo Da quanto detto consegue la consapevolezza che oggi non si può parlare di cielo, ma si deve parlare di cieli: c’è il cielo degli astronomi, e c’è anche il cielo dei teologi e dei filosofi, dei poeti e dei pittori. Infatti, diversamente dalla premodernità che aveva identificato il cielo come ciò che era al di sopra (alto) della terra, e diverso (altro) dalla terra, e come tale fatto oggetto di investigazione religiosa, scientifica e filosofica; e diversamente dalla modernità che, muovendo dalla scoperta del carattere naturale del cielo aveva finito col ritenerne legittimo solo uno studio scientifico, la postmodernità va oltre queste impostazioni, (ontologicamente monistica e metodologicamente pluralistica quella premoderna, e ontologicamente e metodologicamente monistica quella moderna), e propone una visione postmoderna del cielo in termini pluralistici e con una commistione di significati tra loro contrastanti. In estrema sintesi, si potrebbe allora affermare che nella premodernità il termine “cielo” ha una valenza “analogica”: più significati ma tra loro non contrastanti, perché accomunati dell’idea di cielo come altro dalla terra o come ciò che è oltre la terra; nella modernità, il termine “cielo” acquista una valenza “univoca” attraverso la sua naturalizzazione, che porta ad escludere significati che non siano quelli scientifici; infine, nella postmodernità il termine “cielo” perviene a una valenza “equivoca”, perché i significati sono tra loro non solo diversi ma addirittura contrastanti. La cosa non deve essere considerata come negativa, a patto che se ne sia consapevoli, per cui non si operino indebite identificazioni o eliminazioni: la legittimità del loro uso è data dalla correttezza e dalla coerenza con cui sono configurati dal punto di vista epistemologico. Una duplice accezione In questa ottica, i diversi significati potrebbero essere ricondotti 29 a due accezioni: quella del cielo come “luogo” (astronomico, astronautico, meteorologico, astrologico, ufologico...) e quella del cielo come “condizione” (antropologica e teologica, assiologica ed estetica). Ebbene, il cielo come “luogo” di cui si occupa la scienza è sempre meno celeste, e se qualcosa di celeste si vuole trovare, occorre rivolgersi alla religione, alla filosofia e all’arte, per le quali però il cielo non è più un luogo ma una “condizione”, che segnala ciò che trascende il terrestre, il naturale, il fisico, vale a dire ciò che eccede l’umano: in questo senso, “celeste” può considerarsi sinonimo di “eccedente”. Ma da Aristotele a Pascal a Maritain non è stato sottolineato che è proprio dell’uomo trascendere l’uomo? Con una battuta si potrebbe allora dire che l’uomo, “terrestre” quanto si vuole, se si apre al “celeste”, evita di diventare “terragno”, e la definizione di “animale terrestre e celeste” potrebbe sintetizzare bene la condizione dell’uomo o la sua aspirazione. Conclusione Per concludere, si può allora sinteticamente dire che non di “cielo” si dovrebbe parlare, bensì di “cieli”. La cosa peraltro risulta evidente fin dal punto di vista lessicale; infatti, nella lingua ebraica si distingue tra cielo (al singolare) come firmamento e cieli (al plurale) in senso religioso; nella lingua inglese si distingue tra cielo in senso scientifico (sky) e cielo in senso religioso (heaven); nella lingua francese si distingua tra cieli in senso religioso (cieux) e cieli in senso pittorico (ciels). In italiano, invece, cielo e cieli possono avere un uso astronomico (per indicare rispettivamente la concezione copernicana e quella tolemaica) e un uso religioso, filosofico o poetico: senza distinzioni lessicali. Dunque, il riferimento al “cielo” propriamente detto costituisce un richiamo a ciò che da sempre ha incuriosito, producendo una 30 molteplicità di spiegazioni, per cui il “cielo” è quello “visto” sopra di noi, ma anche quello immaginato dall’arte, quello metaforizzato dalla filosofia e quello simbolizzato dalla religione. Una tale diversità di significati costituisce un pluralismo non da superare ma da valorizzare, a condizione che sia correttamente impostato. Riteniamo che, anche per il cielo, debba essere evitato il riduzionismo, comunque sia connotato o mimetizzato e debba invece essere riconosciuta la complessità del tema. Non si può dirigere lo sguardo al cielo solo per studiarlo dal punto di vista astronomico; non è meno importante sollevare lo sguardo e rimanere incantati. In un editoriale su “Avvenire” un poeta come Davide Rondoni ha scritto un bel “pezzo”, che qui vogliamo richiamare: “il cielo sovrasta inevitabilmente gli uomini. Le stelle, per quanto ormai alcune avventure ci abbiano portato a vagar tra loro, continuano a essere distanti, misteriose. A essere l’altro da noi. E l’io di un uomo non prende coscienza di se stesso senza avere tale smisurata drammatica e felice coscienza di una alterità infinita che lo riguarda”. Tanto che questo scrittore giunge a dire: “se un uomo non guarda le stelle, avrà uno sguardo povero anche verso la storia. E verso il quotidiano”. È bene allora che ci sia posto per il “cielo sopra Talete” e per il “cielo sopra Berlino”, per il cielo che ha provocato la “caduta del protofilosofo” e per il cielo che ha portato il filosofo a “fuoriuscire dalla caverna”, per il cielo che “si scruta con i telescopi” e per il cielo che “si tocca con un dito”, per il cielo del “planetario” e per il cielo della “coscienza”, perché di tutti questi cieli abbiamo bisogno, e magari anche di altri cieli che riuscissimo a individuare come risposta alle nostre attese di esseri terrestri e, insieme, celesti. 31 Bibliografia sul Cielo Dal punto di vista scientifico Francesco Lucchin, Introduzione alla cosmologia, Zanichelli, Bologna 1990 Alberto Masani, La cosmologia nella storia fra scienza, religione e filosofia, La Scuola, Brescia 1996 Umberto Curi (a cura di), La cosmologia fra scienza e filosofia, Corbo, Ferrara 1989 Paolo Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Laterza, Roma-Bari 1997 George V. Coyne, Giulio Giorello e Elio Sindoni (a cura di), La favola dell’Universo, Piemme, Casale Monferrato, 1997 Cesare Barbieri, Astronomia perché, Compositori, Bologna 2007 Lisa Randall, Bussando alle porte del cielo. L’universo come non l’abbiamo mai conosciuto, Il Saggiatore, Milano 2012 Margherita Hack - Eda Gyergo, Così parlano le stelle. Il cosmo spiegato ai ragazzi, Sperling & Kupfer, Milano 2007 Zheng Wenguang - Xi Zezong, Le cosmologie cinesi, trad. ital., AstrolabioUbaldini, Roma 1979 Giuliano Romano, I Maya e il cielo. Astronomia, cosmologia e matematica, CLEUP, Padova 1999 Adriano Gaspani, I Veda alle origini dell’astronomia indiana, Fonte di Connla, Milano 2014 Galileo Galilei, Lettere, Einaudi, Torino 1978; Id., Lettera a Cristina di Lorena Sui rapporti tra l’autorità della Scrittura e la libertà della scienza, La Vita Felice, Milano 2013 Antonino Zichichi, Galilei divin uomo, Tropea, Milano 2009 Margherita Hack, Sette variazioni sul cielo, R. Cortina, Milano 1999; Ead:, Vi racconto l’astronomia, Laterza, Roma-Bari 2004; Ead. e Viviano Domenici, Notte di stelle, Sperling & Kupfer, Milano 2013 Marco Alloni, I piedi per terra. Dialogo con Margherita Hack, ADV, 2009 Antonino Zichichi, Scienza ed emergenza planetaria. I pericoli dell’uso nefasto della scienza nonostante le sue grandi conquiste, Rizzoli, Milano 2000 (SuperBUR) Jan Ridpath, Cielo stellato. Guida alla identificazione delle costellazioni, Vallardi, Milano 2014 Juri J. Gagarin, Non c’è nessun dio quassù, Red Star Press, Roma 2013 32 Paolo Nespoli, Dall’alto i problemi sembrano più piccoli. Lezioni di vita imparate dallo spazio, Mondadori, Milano 2012 Umberto Guidoni, Viaggiando oltre il cielo, Rizzoli, Milano 2014 (BUR) Dal punto di vista religioso George V. Coyne, Giulio Giorello e Elio Sindoni (a cura di), La favola dell’Universo, Piemme, Casale Monferrato, 1997 Luigi Alici, Cielo di plastica. L’eclisse dell’infinito nell’epoca delle idolatrie, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009 Giuseppe Pollano, Come in cielo. Cammino nel continuo amore di Dio, Effatà, Cantalupa 2009 Gianfranco Ravasi, Cielo, il Grande Codice della teologia, in “Avvenire”, 15/2/2009; Id., Il cielo tra fisica e metafisica, in “L’Osservatore Romano”, 14/10/2009 Dal punto di vista filosofico Hans Blumenberg, La caduta del protofilosofo (o La comicità della teoria pura), trad. ital., Pratiche, Parma, 1983 Id., La leggibilità del mondo, ediz. ital. a cura di Remo Bodei, Il Mulino, Bologna 1984 Jean-Luc Nancy, In cielo e in terra (Piccola conferenza su Dio), trad. ital., Sossella, Roma 2006 Enrico Berti, In principio era la meraviglia (Le grandi questioni della filosofia antica), Laterza, Roma-Bari 2007 Umberto Curi (a cura di), La cosmologia fra scienza e filosofia, Corbo, Ferrara 1989 Evandro Agazzi, Filosofia della natura. Scienza e cosmologia, Piemme, Casale Monferrato 1995 George V. Coyne, Giulio Giorello e Elio Sindoni (a cura di), La favola dell’Universo, Piemme, Casale Monferrato, 1997 Remo Bodei, Paesaggi sublimi (Gli uomini davanti alla natura selvaggia), Bompiani, Milano 2008 Frederic Gros, Andare a piedi. Filosofia del camminare, trad. ital., Garzanti, Milano 2013 Riccardo Dri, Le dodici malattie del cielo. Filosofia del disagio esistenziale. Sovera, Roma 2006 Alessandro Linguiti, Il cielo in Plotino, in Aa. Vv., Platone e la tradizione platonica, Cisalpino, Milano 2013 Roland Boer, Critica del cielo, critica della terra. Saggi su marxismo, religione e teologia, prefaz. di Sara R. Farris, postfaz. di Antonio Negri, Ombre Corte, Verona 2005 33 Kostas Papaioannon, Dalla critica del cielo alla critica della terra: l’itinerario filosofico del giovane Marx, a cura di Alessandro Sfrecola, Asterios, Trieste 2012 Ferruccio Franco Repellini, Cielo, Cieli, voce della Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano 2006, vol. II Dal punto di vista artistico Giovanni Pascoli, Myricae, Mondadori, Milano 1974 (Oscar) Davide Rondoni, Guarderemo ancora alle stelle per gridare a Dio, in “Avvenire”, 10/8/2010 Federico Moccia, Tre metri sopra il cielo, Feltrinelli, Milano 1992 Francesco Guccini, L’uomo che reggeva il cielo, Libreria dell’Orso, Alessandria 2005 Biagio Antonacci, Altre porte del mio cielo, Mondadori, Milano 2014 Roberto Baggio, Una porta nel cielo. Un’autobiografia, Limina, Arezzo 2005; Id., Una porta nel cielo. 10 anni dopo, Limina, Arezzo 2014 Domenico Modugno e Franco Migliacci, Nel blu dipinto di blu, 1958 (canzone) Rino Gaetano e Giusy Ferrero, Ma il cielo è sempre più blu, 2003 (canzone) 34 IL DESIDERIO dal bisogno all’aspirazione A Giulia Premessa Complessità di un’attitudine che può essere assunta a metafora della condizione umana: potrebbe così essere sintetizzato il risultato della riflessione che svilupperemo intorno al tema del desiderio, diventato oggi questione cruciale dal punto di vista individuale e sociale, e oggetto di molteplici approcci. Pertanto, operando qualche confronto, si possono realizzare delle approssimazioni al desiderio che aiutano ad affrontarlo, ferma restando la convinzione che, data l’articolata geografia del desiderio (i suoi “mille volti”), il desiderio non è una cosa semplice (per fare riferimento ai titoli di due libri), per cui si può ben parlare di enigma del desiderio (come s’intitola un altro libro a più voci). Se da sempre il desiderio è oggetto di studi e ricerche, oggi lo è in misura anche maggiore, perché attualmente la capacità di desiderare appare in crisi, tanto da far parlare di vera e propria emergenza, per cui si moltiplicano le ragioni per metterlo a tema di una riflessione multidisciplinare, che aiuti a superare quello che è stato chiamato il declino o l’eclissi del desiderio. La conversazione si struttura in due parti: nella prima si mettono in luce gli aspetti principali della questione, chiarendo i significati e la struttura del desiderio, nonché la sua ambivalenza presentando alcuni approcci significativi e alcune valutazioni che sono state date; nella seconda parte si pone l’accento sull’attualità del tema, attraverso il richiamo alla situazione presente, caratterizzata da una crisi del desiderio, e dalla possibilità di fuoriuscirne, puntan35 do sull’educazione del desiderio e al desiderio. Alla base di questa relazione c’è una convinzione di fondo, e cioè che l’insorgere dei desideri non dipende sempre da noi, ma la loro gestione sì, per cui si rende necessario conoscere le peculiarità del desiderare, per poterlo finalizzare alla crescita personale e sociale. Ecco: al “buon uso dei desideri” vuole contribuire la presente relazione, che, con riferimento al momento attuale, richiama una seconda convinzione, e cioè che c’è bisogno di “tornare a desiderare” ma altrettanto di “saper desiderare”. Parte prima Significati del desiderio Aspetti del desiderio Definizione Diamo in apertura una definizione di “desiderio”, quella di Agostino, il quale lo definì come “la brama di cose assenti”, e diciamo subito che è essenziale riconoscere il desiderio nella molteplicità dei suoi significati. Pertanto è da evitare la tendenza (sempre piuttosto diffusa e in particolare oggi) a identificarlo solo o soprattutto con il desiderio erotico sessuale, che pure è una forma importante di desiderio; accanto ad essa bisogna collocare altre forme di desiderio: così, oltre che pulsione erotica, il desiderio va considerato come tensione esistenziale, come apertura teoretica, etica ed estetica, come disponibilità religiosa e come virtù civile. Solo considerandolo in queste diverse espressioni, il desiderio può evitare di essere banalizzato, e rivelarsi per quello che effettivamente è, vale a dire metafora dell’esistenza umana, in quanto condensa nel paradosso della “presenza di un’assenza”, la condizione umana tra privazione e possesso secondo una circolarità ine36 sauribile, per cui si potrebbe ben definire l’uomo come “animal desiderans”. Etimologie Risulta allora opportuno precisare etimologicamente la parola desiderio; tuttavia, fin dalla sua etimologia, troviamo spiegazioni contrastanti, che ne evidenziano la complessità. Infatti, se per un verso è costante il riferimento alle stelle (sidus, sideris), per altro verso tale collegamento è letto in modi diversi: nell’ottica della “separazione” e quindi della “attesa”, ovvero nell’ottica della “somiglianza” e quindi della “nostalgia”. Più precisamente è da dire che il desiderio come attesa si è configurato come attesa di qualcosa: così gli aruspici che dalla osservazione degli astri traevano profezie: da qui la spiegazione del desiderio come “cessare di contemplare le stelle a scopo augurale” (cfr. Dizionario etimologico della lingua italiana) ovvero come attesa di qualcuno: così i soldati - desiderantes - che aspettavano sotto le stelle i compagni che, dopo aver combattuto, non erano ancora tornati (cfr. De bello gallico, secondo l’indicazione di Umberto Galimberti al Festival Filosofia 2003 di Modena: “stare sotto le stelle ad attendere”): in tutti i casi si fa riferimento all’attesa di qualcosa o di qualcuno che manca, che non è totalmente assente ma lontano, dunque mancanza come separazione. L’altra spiegazione del desiderio come nostalgia lo configura come uno stare appresso alle stelle, sottolineando così la somiglianza, per cui il desiderio appare come richiamo a una appartenenza, che comporta rimpianto: “noi siamo figli delle stelle” cantava Alan Sorrenti in una canzone di qualche anno fa (Figli delle stelle, 2008). In ogni caso la nozione di desiderio risulta legata alla nozione di privazione; da qui la tensione a colmare tale privazione, e quindi la nozione di godimento come soddisfacimento, appagamento. Ma la privazione può avere carattere congiunturale e allora può essere 37 superata: è la situazione di ricerca, che caratterizza specifiche richieste desiderative, o può avere carattere strutturale e allora non trova modo di essere colmata: è la condizione di struggimento che accompagna l’interrogazione sul senso della vita, il desiderio al di là di specifici bisogni. Struttura A prescindere da queste diverse spiegazioni, il desiderio può essere connotato per quattro caratteri - come ha sintetizzato il filosofo Carmelo Vigna nell’Enciclopedia filosofica - : è - senza contraddizione - originario e finalistico, libero e necessitato. Originario nel senso che il desiderio “è un elemento dell’esistenza originaria dell’essere umano: una coscienza umana è essenzialmente desiderio, già solo per il fatto che vive come coscienza; è una struttura permanente della soggettività”. Finalistico nel senso che il desiderio “è sempre desiderio di qualcosa”, strutturalmente indirizzato. Libero nel senso che il desiderio “non è necessitato da un suo oggetto determinato”, quindi almeno in senso negativo è libero. Invece, “diventa necessitato dal proprio oggetto, se (e solo se) è desiderio che termina nel tutto”. Fatte queste precisazioni, può tornare utile, per mettere a fuoco il concetto di desiderio, operare - come è stato fatto - alcune distinzioni; ci limitiamo a quelle tra desiderio e volontà e tra desiderio e bisogno. Primo: ci può essere desiderio di qualcosa senza volontà di averlo, ma non ci può essere volontà di qualcosa senza averne prima avuto il desiderio. Secondo: il bisogno allude a una situazione di mancanza in modo marcato e, quanto al suo oggetto, è determinato, mentre il desiderio è meno marcato e non di rado resta vago, ma rivela in modo più acuto la tensione dell’esistenza. Al riguardo lo psicoanalista Jacques Lacan ha sottolineato che il desiderio di per sé esige un riconoscimento assoluto (apprezzamento, amore) e pertanto va distinto dal bisogno, che invece mira a un 38 oggetto specifico e si soddisfa con esso. La specificità del desiderio si palesa con chiarezza se prendiamo in considerazione i suoi elementi costitutivi, che sono l’attesa, la legge e l’appagamento: a diverso titolo, essi sono coessenziali, precisando che il terzo potrebbe avere una dimensione solo potenziale, cioè non trovare attuazione. Se dei tre elementi costitutivi del desiderio si privilegia proprio il terzo, per cui si subordina il desiderio alla sua realizzazione, tanto che il suo perseguimento porta ad annullare o evitare la norma, e a far perdere di senso all’attesa, si determina un corto circuito che squilibra il desiderio in termini edonistici e consumistici, individualistici e immediatistici. Tenendo presente tutto questo, si possono indicare alcuni fattori che favoriscono ed altri che ostacolano il desiderio. Sono fattori favorenti: la libertà, intesa come creatività o immaginazione, e il limite, inteso come legge o norma: questa duplice connotazione è ciò che rende “paradossale” il desiderio. Sono invece fattori ostacolanti: il narcisismo e il cinismo, il consumismo e l’edonismo, l’inettitudine e l’indifferenza. Valutazioni Occorre ora aggiungere che il desiderio è oggetto di diverse valutazioni, e occorre insistere sulla ambivalenza del desiderio, nel senso che il desiderio può avere una connotazione positiva ovvero negativa. Proprio questo rende consapevoli della complessità del desiderio che reclama conoscenza della genesi dei desideri e responsabilità nella loro gestione. L’ambivalenza del desiderio risulta di tutta evidenza da diversi punti di vista: ne prendiamo in considerazione quattro: teoretico, etico, estetico e mistico. Dal punto di vista teoretico, il desiderio ha una valenza positiva, quando si configura come desiderio di vero in termini di scienza e di sapienza; ha invece una valenza negativa, quando viene esaspe39 rato in termini di scientismo e di manipolazione. Dal punto di vista etico, il desiderio ha una valenza positiva, quando si configura come desiderio di bene, di misura all’insegna del rispetto (virtù morali e politiche); ha invece valenza negativa, quando l’agire non risulta rispettoso della dignità della persona: i cosiddetti vizi capitali si possono leggere come forme di desiderio in eccesso (gola, lussuria, avarizia, invidia, ira e superbia) o in difetto (accidia); detto altrimenti: è positivo desiderare il bene di qualcuno, è negativo desiderarne il male. Dal punto di vista estetico il desiderio ha una valenza positiva, quando si configura come desiderio di bello come simbolo legato al vero e al bene; ha invece una valenza negativa, quando il bello diventa simulacro e, separato dal vero e dal bene, porta all’estetismo. Dal punto di vista mistico, il desiderio ha una valenza positiva, quando si configura come desiderio di Dio in termini di santità e di salvezza; ha invece una valenza negativa, quando il desiderio di Dio si traduce in misticismo e fanatismo. Approcci al desiderio La molteplicità dei significati del desiderio si evidenzia nella molteplicità degli approcci; prendiamo in considerazione quelli religioso, filosofico, scientifico e artistico. Nella religione La religione (almeno nelle sue espressioni monoteistiche) appare da sempre caratterizzata dal desiderio come desiderio di Dio sia in senso oggettivo che in senso soggettivo. Il genitivo oggettivo indica il desiderio dell’uomo di conoscere Dio, di contemplarlo, di unirsi a lui: nella vita ultraterrena in maniera definitiva, e nella vita terrena attraverso l’esperienza mistica. Il genitivo soggettivo indica invece che l’uomo è il desiderio di Dio, per cui il monoteismo risulta la religione dell’Assoluto relati40 vo, cioè dell’Assoluto in relazione con il mondo, con l’uomo, con la storia; in particolare tale paradosso è evidente nel cristianesimo, secondo cui la relazione divina è ad extra: come creazione, rivelazione e addirittura incarnazione, e ad intra: come trinità. Dunque, seppure in diverso modo, le religioni abramiche risultano caratterizzate in maniera forte dal desiderio: a parte Dei e a parte hominis. Nella filosofia Anche la filosofia da sempre ha un rapporto privilegiato con il desiderio, che sta, per così dire, nel suo DNA, in quanto per definizione la filosofia si configura come “desiderio di sapere”, e nel tempo è diventata “sapere del desiderio”. A parte ciò l’attenzione dei filosofi nei confronti del desiderio è ricorrente, com’è facile rendersi conto prendendo in considerazione posizioni emblematiche quali sono quelle antiche di Platone (al quale risale la distinzione tra desiderio elevato che aspira alla bellezza e alla bontà soprasensibile e desiderio espressione dell’anima concupiscibile), Aristotele, Epicuro, Zenone, Cicerone; quelle cristiane di Agostino e Tommaso; quelle moderne di Cartesio, Spinoza, Locke; quelle contemporanee di Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger, Levinas, Nemo, Deleuze e Guattari. Limitandoci a Gilles Deleuze, questi ha evidenziato - come è stato sintetizzato - tutta la carica del desiderio, la sua energia propositiva, la sua funzione creatrice e destabilizzante; da qui la definizione dell’uomo come “macchina desiderante”, che segna incessantemente una frattura rispetto al mondo, una differenza e un’alterità che le strutture del potere tentano di reprimere. Nelle scienze Ma sono state le scienze - in particolare le scienze umane e, specificamente, quelle psicologiche e, oggi, soprattutto le neuroscienze - a produrre una vera e propria emergenza del tema. Il desiderio, 41 che può essere definito come il “moto psichico per conseguire un oggetto o una situazione raffigurata attualmente mancante”, è stato fatto campo di ricerche da parte della personologia (per esempio Maslow) e, soprattutto, da parte delle psicologie dinamiche, a cominciare dalla psicoanalisi, che (come ha sintetizzato Galimberti) lo considera fonte motivazionale dei processi psichici; più precisamente, per Freud (che è stato “il più grande teorico del desiderio”) il desiderio si origina come tentativo di ripristinare qualche situazione di appagamento, di cui è rimasta traccia nella memoria. Oltre a Freud sono da ricordare Melanie Klein, René Bion e, soprattutto, Jacques Lacan. Quest’ultimo, che ha sottolineato la centralità del desiderio in ogni essere umano, colloca - come è stato sintetizzato - il desiderio nella mancanza essenziale che il bambino sperimenta una volta separato dalla madre. Non potendo colmare questa mancanza, il desiderio si porterà su dei sostituti della madre che la legge del padre vieta per impedire la identificazione del bambino con la madre. Rimossa, la pulsione è sostituita da un simbolo che trova la sua espressione nella domanda di conoscere, di possedere. Le domande, sempre insoddisfatte, rinviano ai desideri sempre rimossi, e questi desideri tessono fra loro una trama senza fine di associazioni. Nell’arte Per quanto riguarda l’arte, ci limitiamo ad accennare alla letteratura. Al riguardo Alessandra Diazzi, in un suo saggio su Testo e narrazione: uno sguardo secondo il desiderio considera il desiderio quale strumento utile per un’analisi critico-teorica delle opere letterarie, cioè il desiderio quale lente d’ingrandimento per comprendere a fondo le dinamiche testuali e i movimenti delle trame e avvicinarsi alla complessità eterogenea del discorso letterario, superando un certo tipo di strutturalismo eccessivamente rigido. 42 Un desiderio paradigmatico Il desiderio in rapporto all’altro A questo punto, vogliamo richiamare l’attenzione sulla dimensione erotica del desiderio, in quanto riteniamo che permetta di riassumere la riflessione fin qui sviluppata. Infatti, il desiderio erotico non solo è il desiderio cui si fa più riferimento, ma anche quello che meglio esemplifica l’essenza del desiderio. Diciamo questo, non per operare una indebita riduzione, ma solo per significare che il desiderio erotico è in qualche modo paradigmatico di ogni desiderare (almeno nel senso che nel paradigma erotico si rende più evidente il dinamismo del desiderio) tanto che su di esso si possono coniugare le altre forme di desiderio. Ancora una volta, a conferma della complessità del tema, è da osservare che il desiderio erotico è diversamente interpretato: ci sono filosofi che lo valutano ed altri che lo svalutano; ci sono psicoanalisti che lo considerano negativamente e altri che lo considerano positivamente; ci sono teologi che lo apprezzano e altri che lo disprezzano. Qui vogliamo fare riferimento ad alcune impostazioni rappresentative di diversi orientamenti. Per la impostazione teologica, ci riferiamo a quella cattolica, per la quale il desiderio erotico ha una valenza positiva quando è desiderio dell’altro come soggetto di eterna attrazione (significato sponsale del corpo); ha invece valenza negativa quando è desiderio dell’altro come oggetto di concupiscenza carnale (soddisfa solo il bisogno sessuale del corpo come proprio oggetto). Da qui la considerazione dell’adulterio come distacco dal significato sponsale del corpo, cioè della persona, e quindi la condanna dell’adulterio commesso nel corpo (possedere) o commesso nel cuore (desiderare, o guardare per desiderare). Con riferimento alla nozione di desiderio nel nono comandamento (ma la cosa si può estendere al decimo), è da dire che qui (come puntualizzava Giovanni Paolo II nell’udienza generale del 43 17 settembre 1980) il desiderio non è inteso in senso psicologico quale intenso orientamento verso l’oggetto, ma in senso etico come “l’inganno del cuore umano nei confronti della perenne chiamata dell’uomo e della donna alla comunione attraverso un dono reciproco”; è, cioè, il desiderio come “attuazione della concupiscenza della carne”; in questo senso Giovanni Paolo II parlava di “riduzione intenzionale, quasi una restrizione o chiusura dell’orizzonte della mente e del cuore”. Per dirla con il benedettino Anselm Grun, “esiste un desiderio che rispetta l’altro, ma c’è anche un desiderio che approfitta dell’altro e lo sfrutta, che lo ferisce e offende”; c’è (come ha detto Radl) un desiderio che è un “sentimento” e c’è un desiderio come “un insieme di astuzie, subdole macchinazioni e disonesti espedienti intesi a intaccare in vari modi lo spazio di un’altra persona”. È in questo secondo significato che il nono comandamento chiede di non desiderare la donna del tuo prossimo. Come spiega Grun, il non desiderare la donna d’altri, significa “rispettarne la sua esclusività e indisponibilità”: tuttavia “io non devo respingere e sradicare da me ogni sentimento verso un’altra donna (un altro uomo), rinuncio però a volerne fare una mia conquista”. Il problema, allora, è “guardare con cuore puro e con occhio limpido a ogni donna e a ogni uomo da cui mi sento in una certa misura attratto”. Il desiderio e le due forme di amore Diversa è la concezione psicoanalitica. Secondo Freud (cfr. Contributi alla psicologia della vita amorosa), “dove amiamo non proviamo desiderio, e dove lo proviamo non possiamo amare”. Pertanto, mettendo a confronto amore e desiderio, il filosofo Umberto Galimberti (ne Le cose dell’amore) scrive: “privo di desiderio, l’amore garantisce tenerezza, intimità, sicurezza, ma non prevede l’avventura, la tensione e il senso del rischio che alimentano la passione. Dal canto suo, il desiderio senza amore è stimolante, ecci44 tante, vibrante, ma non ha l’intensità e il senso di un’elevata posta in gioco che rendono profonda la relazione. Non ci è dato, se non per brevi attimi di fare esperienza nello stesso tempo dell’amore e del desiderio verso la stessa persona. E questo perché l’amore, che nasce sotto il segno della stabilità e dell’eternità, vuole ciò che il desiderio rifiuta”. Chiarisce Galimberti: “il desiderio, a differenza dell’amore che vuole costruzione e stabilità, è un movimento verso un punto di perdita”, tant’è che nel suo impulso, il desiderio non predispone una risposta e non contiene una soluzione. Non si lascia presiedere da alcuna logica. Se mai è ciò che rompe la logica del discorso”. Infatti, “il desiderio si muove al di fuori di ogni contesto che lo imprigiona, e la sua erranza è perseguita come errore. Un errore che non è il contrario della verità, ma la sua rottura”; così, “ignorando il reciproco scambio sempre sotteso a ogni relazione d’amore, il desiderio conosce solo il furto e il dono. Per questo l’amore, che cerca sicurezza e stabilità, tende a spegnere i desideri, che teme come il suo negativo più profondo o a deviarli nella finzione dell’immaginario”. Aggiunge ancora Galimberti: “da qui il successo dell’amore on line. La fantasia di scatenare il proprio desiderio con una persona che non c’è o non è accessibile, con l’estraneo misterioso, offre non solo la possibilità di esplorare il proibito e il precario, ma anche l’opportunità di fantasticare sul proibito e sul precario da un luogo più sicuro rispetto alle nostre relazioni reali, nelle quali non intendiamo permettere a noi stessi di destabilizzarci”. In breve, secondo questa impostazione, “il desiderio non sa cosa vuole. È un atto infondato che trova insopportabile ogni gesto della ripetizione volto a confermare se stesso”. In realtà, permette di andare oltre questi schematismi del desiderio e dell’amore, il distinguere tra ripetizione e ripetitività. Al riguardo la filosofa Michela Marzano, a conclusione del suo libro 45 su La fedeltà o del vero amore, scrive: “fragile, perché mai al riparo dalla delusione, la fedeltà si alimenta di questa presenza vulnerabile (che è la prossimità): al suo interno il vicino e il lontano si mescolano, per suo tramite è possibile avvicinarsi all’altro e lasciarsi avvicinare. Si fonda (ecco il punto su cui richiamiamo l’attenzione come possibile risposta alla riflessione di Galimberti) sulla scelta di una prossimità amorosa che si è portati a ripetere ogni giorno, una presenza forse mancante e mai totale ma che, quando serve, è solida e permette a due individui di trovarsi, continuamente e per sempre”. Occorre allora sottolineare che ”la ripetizione (creativa e innovativa) è dunque il suo fondamento, ma non si tratta della ripetizione meccanica e obbligatoria (ripetitività) che porta a fare e rifare sempre gli stessi gesti, a dire e ridire sempre le stesse parole”. Infatti, “solo la ricerca infinita della novità inaridisce, perché in questo genere di ricerca si riproducono, con persone diverse, gli stessi gesti, senza capire che solo con le stesse persone i gesti possono essere sempre diversi.”. Pertanto la Marzano conclude, affermando che “il senso della fedeltà risiede proprio in questo: un progetto che si dispiega nello spazio dell’incontro, che rende possibile l’intimità della coppia e si radica nel presente, senza rinchiudersi nel rifiuto del richiamo del futuro per paura del cambiamento”. Abbiamo così posto a confronto due modi di concepire il desiderio: da una parte quello che lo ritiene incompatibile con l’amore - fedeltà e compatibile solo con l’amore - avventura; e dall’altra parte, al contrario, quello che ritiene il desiderio compatibile solo con l’amore fedeltà, e incompatibile con l’amore - avventura. 46 Parte seconda Il desiderio tra crisi e educazione La crisi del desiderio La situazione attuale Fatte queste precisazioni, possiamo interessarci del desiderio nella società presente, e allora è facile constatazione e reiterata denuncia che attualmente siamo in presenza di una crisi del desiderio, nel senso che stiamo assistendo a quello che è stato definito un suo “declino” o, quanto meno, una sua “eclissi”, per cui si parla di “emergenza”. Oggi, infatti, prevale la logica del godimento sulla logica del desiderio, in quanto si punta al “soddisfacimento” immediato e a ogni costo di ciò che si desidera, facendo così venir meno la dimensione della “progettualità”. Potremmo anche dire che siamo in presenza di un predominio del godimento, una specie di “bulimia di desideri”, e di un deficit del desiderio, una specie di “anoressia del desiderio”. A voler usare un termine caro al sociologo Zygmunt Bauman, potremmo dire che nella postmodernità siamo di fronte al desiderio “liquido”, e il problema è che, in presenza della “liquefazione” dei desideri, cioè al venir meno di desideri solidi, si rischi la “liquidazione” del desiderio tout court. Detto altrimenti, il rischio attualmente è quello che il desiderio si riduca a piccole e inconsistenti voglie: Nietzsche in Così parlò Zarathustra parlava di “vogliuzze”: “una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte”. Se così è, siamo in presenza di quella che è stata indicata come una “emergenza”, nel senso che l’homo consumens (su cui ha insistito Bauman nell’omonimo libro) metterebbe in crisi l’homo desiderans. Il consumismo si configura come il fattore che mette a repentaglio la capacità di desiderare, squilibrandone gli elementi costitutivi: infatti l’imperativo è quello di “consumare i desideri” con il risultato che “i desideri consumano”; in altre parole, aumen47 tano i desideri e diminuisce il desiderio. Si può, allora, dire che sono in crisi quelli che abbiamo definito fattori favorenti del desiderio, vale a dire la libertà, intesa come creatività o immaginazione, e il limite, inteso come legge o norma, mentre sono in crescita i fattori che ostacolano il desiderio o, addirittura, ne determinano la crisi, vale a dire il narcisismo e il cinismo che, insieme, danno luogo attualmente a quello che è stato denominato “narcinismo”, il consumismo e l’edonismo che producono nuove forme di “conformismo” di massa, l’accidia e l’indifferenza, quest’ultima contrabbandata come tolleranza. Il caso Italia A causa di questa crisi del desiderio il 44° Rapporto CENSIS sulla situazione sociale del Paese (2010) paragona l’Italia a “un’ameba”, cioè un’entità informe e senza spina dorsale, ovvero a “un campo di calcio senza neppure il rilievo delle porte dove indirizzare la palla”. Tutto ciò per dire che siamo in presenza di un Paese in cui è in crisi la capacità di desiderare come tensione progettuale verso il futuro, della libertà di impegnarsi, della decisione ad agire. Da qui l’affermazione: “tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare una società troppo appagata ed appiattita”, nella quale “rimbalzano spesso sensazioni di fragilità sia personali che di massa che fanno pensare ad una perdita di consistenza (anche morale e psichica) del sistema nel suo complesso”. La denuncia trova conferma in modo specifico nei principali ambiti esistenziali; qui ci limitiamo a quelli indicati al IV Convegno ecclesiale nazionale di Verona (2006) sempre con riferimento alla situazione italiana. Nella vita affettiva il desiderio rischia di ridursi ad erotismo, e si perde la distinzione tra passioni, emozioni e sentimenti che comportano diversi tipi di desideri, e si cede alle esperienze genericamente definite “storie”, che perdono peraltro consistenza: “l’amore 48 è eterno finché dura”, s’intitola un recente film. Nel tempo del lavoro e della festa il desiderio del lavoro è compromesso dalla crescente precarietà lavorativa, e il desiderio della festa è banalizzato, per cui il tempo dell’uomo appare stretto nella morsa del produrre per consumare e del consumare per produrre: l’unidimensionalità, di cui già parlava Marcuse, porta ad una società “appiattita”, dove il desiderio (la capacità di desiderare) è atrofizzata, mentre i desideri (le piccole voglie) sono moltiplicati. Nelle esperienze di fragilità il desiderio di aiutare chi è diversamente abile si trova oggi ostacolato dalla crisi del welfare e dal diffondersi di una mentalità efficientistica per cui il successo è la misura di tutte le cose; non solo: il crescente numero di situazioni di svantaggio reclamano nuove competenze non sempre disponibili. Nell’esercizio di cittadinanza il desiderio di partecipazione è vanificato dalla impostazione di democrazia 1meramente procedurale ovvero dalla logica utilitaristica o aziendalistica, tanto da far parlare di “postdemocrazia”, in cui c’è sempre meno posto per il desiderio come virtù sociale, mentre si dilata il soddisfacimento dei desideri a carattere individualistico ed economicamente indotti. Nella trasmissione della tradizione il desiderio della testimonianza culturale e religiosa è sempre meno avvertito per i problemi conseguenti al carattere multiculturale e multireligioso della società, che appare sempre più tentata dal relativismo o dal fondamentalismo. Il desiderio e l’educazione Educare il desiderio Di fronte alla crisi che la capacità di desiderare sta attraversando nella società consumistica in generale e nella realtà italiana in particolare, bisogna saper accettare la sfida e rispondervi adeguatamente: l’educazione appare allora la risposta giusta, e in un duplice senso. In primo luogo occorre tornare a educare il desiderio: ciò com49 porta per un verso combattere i nemici del desiderio: il narcisismo, il cinismo, il consumismo, l’edonismo, l’accidia, l’indifferenza che producono “la distruzione del desiderio”, e le malattie del desiderio: le tossicodipendenze, l’anoressia (le due espressioni sono, rispettivamente, di Fabio Ciaramelli e di Fabrizio Turoldo). Educare al desiderio In secondo luogo occorre anche educare al desiderio: ciò comporta educare ad alcune capacità come la progettualità e l’immaginazione per un verso e la creatività e la criticità per l’altro. Da qui l’invito del gesuita Giacomo Costa, il quale - dopo aver rilevato che “nella società appiattita il desiderio ha perso la sua forza - ritiene che occorra tornare a impararlo, tornare tutti - in primo luogo i giovani - a educarci a desiderare”. Imparare a desiderare, dunque, e insieme, desiderare di imparare. Dice al riguardo p. Costa: si tratta di “un desiderio che vale per tutti, e non solo per i giovani”. Ne consegue la necessità di rendere consapevoli della diversificata tipologia e, insieme, dell’ambivalenza del desiderio; il che comporta un atteggiamento di scelta e di responsabilità nella genesi e nella gestione dei desideri. Al riguardo alcune distinzioni ci paiono particolarmente feconde dal punto di vista educativo. Il desiderio tra singolare e plurale Il desiderio al singolare Si può parlare di desiderio al singolare, nel senso che il desiderio rimanda ad una relazione con qualcosa che è fuori da sé e di cui si sente la mancanza, qualcosa a cui si tende ma che non si riesce a raggiungere: è una perenne tensione verso qualcosa che è sempre al di là e non può essere appagato (G. Costa). Il desiderio al singolare può essere inteso come desiderio di assoluto o d’infinito: il che viene valutato in modo positivo dal cristianesimo ovvero in modo negativo dal neopaganesimo. 50 Secondo alcuni autori rappresentativi del “neopaganesimo” (per dire neoaristotelismo o neostoicismo), sarebbe sempre negativo il “desiderio infinito”, cioè il “desiderio (che) oltrepassa i confini della terra e la caducità del tempo per ancorarsi all’eternità promessa”; che “vuole ciò che non possiede e spera di ottenere dall’amore di Dio”. Ma tale “desiderio illimitato di felicità conduce l’uomo all’accettazione incondizionata del dolore, a un altro mondo si rivolge il desiderio umano nel suo spasmodico tendere. Dio è per il cristiano il bisogno incontenibile di salvezza che orienta il desiderio e la pratica di vita”. Al riguardo il filosofo Salvatore Natoli non esita a parlare dell’infinito come “malattia” da cui bisogna guarire, riappropriandosi di una concezione neopagana della vita, una concezione “tragica” nel senso che non si fa illusioni e perimetra la vita entro il “limite” e la incentra sulla “misura”. Analogamente, il filosofo Umberto Galimberti ritiene che la felicità non vada intesa “come soddisfazione del desiderio né come premio alla virtù, ma virtù essa stessa, come capacità di governare se stessi per la propria buona riuscita, perché questa è la misura dell’uomo”; pertanto “l’uomo deve conciliarsi con la sua condizione di mortale, consegnando il suo desiderio al limite e il limite all’espressione del desiderio, concedersi incondizionatamente al desiderio o rassegnarsi perdutamente al limite significa disabitare la condizione umana e quindi soffrire quell’eccesso o quel difetto di misura”. Sia consentito dire che, a nostro parere, il desiderio di assoluto non va confuso con l’eccesso di desiderio, anzi ci sembra che il desiderio di Dio salvaguardi dalla tentazione di “desiderare di essere Dio”: in altre parole, il “desiderare Dio” come assoluto, comporta il non desiderare come assoluto nulla che sia relativo. In questa ottica, si potrebbe distinguere tra desiderio in senso fisiologico e desiderio in senso patologico. Fisiologico è il desiderare “di tutto” (pur sempre relativo) e desiderare “il tutto” (cioè l’assoluto). Pato51 logico, invece, è desiderare “tutto”, è cioè l’eccesso di desiderio, che si può identificare con l’ibris, intesa quale smodatezza di desiderio (il suo contrario è l’accedia, vale a dire la scarsità o l’assenza di desiderio). Dunque, la capacità di evitare la tracotanza (e l’accidia) è condizione per esercitare correttamente il desiderio, per cui va ribadito che il desiderio di Dio non va confuso con l’eccesso di desiderio, anzi il desiderio di Dio salvaguarda dalla tentazione di desiderare di essere Dio. Il desiderio al plurale Si può parlare di desideri al plurale con riferimento ai desideri di qualcosa: in senso universale (ideali, valori) o particolare (oggetti) e di qualcuno: in senso attivo (desiderare) e in senso passivo (essere desiderati) ovvero in senso oggettivo (l’altro desiderato: desiderare l’altro) e in senso soggettivo (l’altro desiderante: l’altro che desidera). Si potrebbe inoltre distinguere tra desiderio incentrato sull’oggetto (come desiderio di “qualcosa” o di “qualcuno”), e desiderio che invece è incentrato sul soggetto, per cui il desiderio non si esaurisce in nessun oggetto, ma si configura come “desiderio del desiderio”, un desiderare di desiderare. Al riguardo è da tenere presente l’osservazione di Lacan, secondo il quale il desiderio è desiderio dell’altro in senso oggettivo: nessun oggetto definito può colmare il desiderio, e in senso soggettivo: il desiderio consiste nel desiderare di essere desiderati (voluti, amati) dall’Altro (la madre, l’ordine simbolico). Anche per i desideri al plurale ci troviamo di fronte alla ambivalenza, su cui richiama l’attenzione la Chiesa cattolica, per la quale occorre distinguere tra desiderio di conoscenza e desiderio di concupiscenza. Nel primo caso “si manifesta nel soggetto come aspirazione e come tale si orienta sempre verso un fine, cioè verso un oggetto conosciuto sotto l’aspetto del valore”. 52 Nel secondo caso, invece, il desiderare si presenta come “un atto conoscitivo che suscita il desiderio nell’altro soggetto e soprattutto nella sua volontà e nel suo cuore”; in tal caso il desiderio è inteso come “l’inganno del cuore umano nei confronti della perenne chiamata dell’uomo e della donna alla comunione attraverso un dono reciproco”, è cioè il desiderio (per dirla con Giovanni Paolo II). come “attuazione della concupiscenza della carne” e, in quanto tale, costituisce una “riduzione intenzionale, quasi una restrizione o chiusura dell’orizzonte della mente e del cuore”, una “riduzione intenzionale e assiologica”. Richiamiamo, en passant, alla duplice impostazione: di apertura e di chiusura, sottolineando ancora una volta che è nell’apertura il senso più vero anche del desiderio. Desiderio e persona Si potrebbe sintetizzare quanto abbiamo detto, affermando che il criterio più fruibile e fecondo per valutare il desiderio è quello che lo commisura alla dignità della persona, per cui si distingue tra desideri rispettosi e desideri possessivi, tra desideri istintivi e desideri riflessivi, tra desideri all’insegna dell’apertura, dell’accoglienza, dell’accettazione e desideri all’insegna dell’avidità, della bramosia, della cupidigia. Questo si rende particolarmente evidente nel desiderio erotico, ma in realtà è presente in ogni forma di desiderio; per questo si potrebbe affermare che il desiderio erotico è emblematico dell’attitudine desiderativa. Una metafora potrebbe essere suggerita, per chiarire ulteriormente: quella che distingue tra “desideri motori” (che mettono in movimento e permettono di fare strada) e “desideri finestre” (che si aprono e si chiudono repentinamente); sono, rispettivamente, fuor di metafora, i desideri come “aspirazioni” e i desideri come “voglie”, i desideri che sono costruttivi e i desideri che sono dispersivi, i desideri che sono connaturali e i desideri che sono indotti, i desideri che sono autentici e i desideri che sono inautentici: tutte distin53 zioni che aiutano a comprendere in quale direzione debba muoversi l’educazione del desiderio e al desiderio di cui oggi si avverte un crescente bisogno di fronte alla crisi del desiderio nei suoi molteplici significati, non ultimo quello sociale. In questo orizzonte ci sembra pedagogicamente fondamentale educare al desiderio nelle sue molteplici forme, evitando cioè impostazioni riduttivistiche, unilaterali e parziali: il desiderio va considerato (come accennavamo fin dall’inizio) non solo come pulsione erotica (sessuale e amorosa), ma anche come tensione esistenziale (desiderio di realizzarsi), come apertura conoscitiva (desiderio di sapere), come aspirazione religiosa (desiderio di Dio) e come virtù civile (desiderio tra legge e soddisfacimento), sapendo che ciascuna di queste forme del desiderio così configurata ha una pregnanza umanistica, ma può assumerne un’altra che mette a rischio l’umanizzazione dell’uomo, quando ognuna di queste forme si assolutizza, cioè assume un carattere ossessivo. È, quindi. necessario essere preparati e operare delle scelte congruenti. Pertanto non basta tornare a desiderare, bisogna saper desiderare: il che reclama che ci si educhi al desiderio. Questo è tutt’altro che facile nella nostra società, che può definirsi la “società dei desideri”, ma non la “società del desiderio”, per dire che si sta perdendo il “senso del desiderio”, e rimangono solo (anzi si moltiplicano) i “piccoli desideri” che chiedono di essere consumati e che ci consumano. Proprio perché la nostra rischia di essere una società dei desideri ma senza desiderio, c’è bisogno che l’educazione si occupi e si preoccupi della capacità di desiderare prima ancora che delle cose da desiderare: il desiderio come atto prima ancora che come oggetto. Conclusione Per concludere, vorrei far mie le parole con cui Vito Mancuso chiude il suo volume su La vita autentica, affermando che, “alla 54 luce della nostra essenza di uomini, la vita autentica è quella vissuta all’insegna del bene (virtute) e dell’amore per la verità (canoscenza). Impostare tutte le relazioni sulla base di questi valori è la più grande fortuna che possa capitare nella vita”: ebbene, desiderare virtute e conoscenza è il modo giusto di esercitare il desiderio, di indirizzarlo verso ciò che è tanto umano da eccedere l’umano, perché da Aristotele a Pascal ci viene ricordato che l’uomo trascende l’uomo. E il desiderio (questo il senso di tutta la riflessione che abbiamo svolto) è proprio la tensione che testimonia il bisogno di trascendimento e di trascendenza dell’uomo, il bisogno di calarsi nelle profondità della persona e di elevarsi alle altezze dell’essere. Diversamente, per applicare al nostro tema una immagine usata da Bauman per la modernità liquida, rischiamo di essere solo dei “surfisti” del desiderare. Invece, riteniamo che ci sia richiesto di essere dei naviganti dell’isola che non c’è: l’utopia non è fuga dalla realtà, ma immaginazione che crea alternative alla realtà presente; ci è richiesto di essere abitatori della città non nei sogni ma con i sogni: non con i sogni notturni e solitari, ma con i sogni diurni e collettivi; ci è richiesto di contemplare le stelle per poter vedere meglio in noi stessi, perché il cielo stellato non è solo nel firmamento ma anche nella coscienza; ci è richiesto di essere dei “desiderantes” che sanno attendere, che sanno sperare, che sanno immaginare, che sanno tenere aperta la porta all’altro, che è in noi, fuori di noi e sopra di noi. Termino citando parte del testo di una canzone dedicata proprio a Il desiderio: ne è autore quello che definirei un “cantante filosofo”, cioè Giorgio Gaber, il quale l’ha inserita nella raccolta La mia generazione (2001): riteniamo che, nel suo genere, focalizzi bene la rilevanza del desiderio nella vita dell’uomo e serva a sottolineare alcuni aspetti su cui abbiamo richiamato l’attenzione: “(...) Il desiderio / è la cosa più importante / è l’emozione del presente / è l’esser vivi in tutto ciò che si può fare / non solo nell’amore / il 55 desiderio è quando inventi ogni momento / è quando ridere e parlare è una gran gioia / e questo sentimento / ti salva dalla noia. // Il desiderio / è la cosa più importante / che nasce misteriosamente / è il vago crescere di un turbamento / che viene dall’istinto / è il primo impulso per conoscere e capire / è la radice di una pianta delicata / che se sai coltivare / ti tiene in vita. (...) // Il desiderio / è la cosa più importante / è un’attrazione un po’ incosciente /è l’affiorare di una strana voce / che all’improvviso ti seduce / è una tensione che non riesci a controllare / ti viene addosso non sai bene come e quando / e prima di capire / sta già crescendo. // Il desiderio è il vero stimolo interiore / è già un futuro che in silenzio stai sognando / è l’unico motore / che muove il mondo”. 56 Bibliografia sul Desiderio Dal punto di vista storico Camille Dumoulié, Il desiderio. Storia e analisi di un concetto, trad. ital., Einaudi, Torino 2002 Giulia Sissa. Eros tiranno. Sensualità e sessualità nel mondo antico, Laterza, Roma-Bari, cap. su “Il desiderio” (Che cosa desiderano le donne - Filosofia del desiderio) Martha C. Nussbaum, Terapia del desiderio. Terapia e pratica nell’età ellenistica, trad. ital., Vita e Pensiero, Milano 1998 Jean Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio. 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Tuttavia, se volessimo dare una intitolazione in continuità con le precedenti edizioni, potremmo dire: “A confronto sullo stupore” o “A confronto sulla meraviglia”. Ed è, questo, il tema che svolgeremo questa sera di agosto, del 10 agosto, quando il cielo stellato la fa da padrone, e le stelle cadenti che si vedono nella notte di San Lorenzo possono essere considerate uno specifico motivo per contribuire a destare quel sentimento di meraviglia, di stupore, cui richiama il filosofo di Konisberg. Infatti, alla fine della Critica della Ragione pratica (A 287 - 290), Kant scrive: “Due cose riempiono l’animo con sempre nuovo e crescente stupore e venerazione, quanto più spesso e accuratamente la riflessione se ne occupa: “il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me”: ecco, lo stupore, la meraviglia come atteggiamento generato dalla riflessione e generatore di riflessione. Viene così riproposta da Kant una considerazione che era stata espressa da grandi filosofi dell’antichità e che tornerà in filosofi contemporanei. Per questo - sia detto en passant - lascia perplessi il fatto che la grande Enciclopedia filosofica Bompiani non abbia dedicato una specifica voce ai termini “stupore” o “meraviglia”, cui invece dedica una essenziale voce la piccola Enciclopedia della filosofia e delle scienze umane della De Agostini. 61 La relazione si struttura in due parti: la prima fa riferimento alla filosofia, alla religione e all’arte, e la seconda si sofferma sul punto di vista scientifico e su quello morale: in tutti i casi appare chiaro che lo stupore è l’apertura per antonomasia dato il novum che lo costituisce e che costituisce l’uomo come “animal mirans”. e quindi “interrogante”. Parte prima Significati dello stupore L’approccio filosofico In ottica filosofica, alla meraviglia hanno richiamato filosofi della classicità (platonica e aristotelica), della modernità (cartesiana, kantiana e schellinghiana) e della contemporaneità; accenniamo ad alcuni di loro, rappresentativi dei vari periodi. Dalla classicità alla modernità Platone nel Teeteto (155 d) mette in bocca a Socrate le seguenti parole: “Ed è proprio del filosofo questo che tu provi, di essere pieno di meraviglia, né altro cominciamento ha il filosofare che questo”. Aristotele, dal canto suo, nella Metafisica (1, 2, 982 b 12 - 13) sostiene che “gli uomini, sia ora sia in principio, cominciarono a filosofare a causa della meraviglia”. Per questo Enrico Berti ha intitolato un suo libro su “le grandi questioni della filosofia antica”: In principio era la meraviglia, e, richiamandosi al suo maestro Marino Gentile, ha affermato: in questi momenti di stupore accade “di guardare il mondo con occhi greci ovvero con gli occhi dei greci”. Secondo Kant, il cielo stellato, cioè l’universo fisico, e la legge morale, cioè la coscienza etica sono questioni che generano continuamente e in misura crescente meraviglia e rispetto, ma - ecco il punto che ci fa capire che non si tratta semplicemente di un senti62 mento estetico, bensì di una attitudine esistenziale e conoscitiva - a condizione che la riflessione se ne occupi e se ne occupi in modo frequente e accurato. Non solo: aggiunge Kant che stupore e rispetto “possono spingere alla ricerca, ma non sostituirne la mancanza”, per dire che tale meraviglia, oltre che conseguenza della riflessione, è incentivo alla ricerca veritativa e valoriale, ma non ne prende il posto: la riflessione genera la meraviglia, che genera ricerca: ecco il circolo virtuoso che viene attivato. Nella contemporaneità Ernst Cassirer, in Linguaggio e mito, assegnava alla meraviglia espressa nell’interiezione l’inizio di quella peripezia della coscienza che sfocia nel linguaggio. Pavlev Florensckij, in Stupore e dialettica, riteneva che solo la filosofia si rivela in grado di tener dietro al ritmo temporale della vita, in virtù del suo metodo, la dialettica, che la radica nella mutevolezza dei fatti con tale forza da non poterne mai venire disarcionata; si tratta di un radicamento mobile consentito dall’altro elemento fondamentale del pensiero filosofico, quell’«acuto sentimento di apertura al novum» che è lo stupore: ecco la fonte più autentica della filosofia. Addirittura c’è stato chi, come Jeanne Hersch, ha riproposto lo sviluppo della filosofia occidentale a partire non dalle sue tesi fondamentali, bensì dalla sua stessa natura, dal suo manifestarsi primario, vale a dire lo stupore. Lo stupore è la capacità di interrogarsi su un’evidenza accecante che ci impedisce di vedere e capire il mondo più immediato. La prima di queste evidenze è che esiste l’essere, che esistono la materia e il mondo. A partire da questo problema è nata in Grecia una forma di riflessione che non ha mai cessato di stimolare lo sviluppo del pensiero: la filosofia, che è la storia di questo stupore, sempre ritrovato, sempre vivo, continuamente riformulato fino ai giorni nostri. 63 Al riguardo vorremmo citare due pensatori italiani. Salvatore Natoli è autore di un libro su “filosofia e verità” dal bel titolo: L’incessante meraviglia. E, soprattutto, Aldo G. Gargani, autore del volume Lo stupore e il caso, dove afferma che, per avere una visione del mondo, occorre liberarsi, almeno in parte, dagli schemi precostituiti della percezione e della comprensione che impediscono la meraviglia di fronte all’apparire casuale del nuovo che, altrimenti, non riconosceremmo affatto. Il caso - e lo stupore che produce - “è un varco che si apre nella fabbrica del simbolismo ben protetto e fondato, l’occasione fortuita che si dischiude entro una versione già predisposta del mondo”; precisa Gargani che “è una nuova attitudine etica quella che ci predispone a riconoscere il caso, il fortuito, cioè ad attribuirgli un valore, e quindi a rilevarlo, a metterlo in cornice, a dargli rilievo, accrescendo alla resa dei conti la nostra esperienza”. Si badi: non si tratta allora di scegliere una diversa versione del mondo, da contrapporre a quella cristallizzata della tradizione; non è questo il prodotto dell’apertura al caso e allo stupore, bensì una nuova relazione tra il soggetto e l’esperienza del mondo, anche tra il soggetto e se stesso, una relazione che trova nel discorso il suo compimento e la sua verità: “la verità che si estrinseca nel linguaggio e che vale come linguaggio, come relazione tra persone, contro quell’immagine della verità razionale che dirigeva invece verso oggetti (trascendenti, ideali oppure immanenti)”. Allora le diverse componenti della vita umana, del mondo, dell’esperienza stessa, non saranno più saldate in una connessione logico - analitica, di tipo causale, si troveranno invece all’interno di “una nuova logica [...] la logica della coesistenza, dello stare insieme, come quello degli uomini e delle querce, delle pulci e del pelo dei cani”. Una logica che inevitabilmente, in quella scheggia linguistica in cui ciascuno riesce a intagliare un provvisorio senso di identità, lascia buchi, lacune, salti, in definitiva enigmi: in questa dimensione insatura 64 forse ulteriori opportunità di future esperienze di stupore. Per molti si tratta di “esperienze inquietanti” - dice Gargani - “unicamente perché mostrano di non appartenere alla sfera del nostro possesso, di disattendere quell’identità di noi con noi stessi che è soltanto una chimerica aspirazione alla proprietà che vorremmo avere sulla vita prima ancora di viverla, questa vita”. Detto questo, occorre aggiungere che, tuttavia, nel nostro tempo, sembra che stia venendo meno questa capacità di meravigliarsi e di stupirsi, in quanto la scienza o, meglio, la tecnoscienza nelle sue diverse espressioni e applicazioni lascia poco posto o non ne lascia affatto allo stupore e alla venerazione, alla meraviglia e al rispetto che Kant provava per il cielo stellato e per la coscienza morale: si prova a spiegare lo stupore in modo neuroscientifico. Eppure, di fronte all’universo fisico e astronomico, e alla ragione etica e alla legge morale, avvertiamo l’inadeguatezza di tutte queste risposte, che, per quanto forniscano delle soluzioni, non eliminano il problema. Pertanto torna utile affrontarlo, tenendo presenti i diversi punti di vista da cui può essere riguardato. Quindi, nello spirito di questa rassegna, che intende proprio mettere “a confronto” su un tema, facciamo ora riferimento allo stupore secondo diversi approcci: religioso, artistico, scientifico ed etico. L’approccio religioso La ricerca teologica In ottica teologica, lo stupore si rintraccia nel rapporto con Dio nonché nello specifico orizzonte cristologico. Lo stupore caratterizza tutte e tre le modalità in cui teologicamente ci si rapporta a Dio: quando si parla di lui, quando si parla con lui, quando lo si fa parlare. Ci limitiamo a fare due riferimenti: a un teologo protestante tedesco del ’900, e a un teologo cattolico italiano vivente. Karl Barth (come ha ricordato Goffredo Scubba) ha testimoniato con grande umiltà il sentimento di stupore che l’autentica scoperta 65 del vero genera nel cuore e nella mente di chi sente di aver attinto a qualcosa di fondamentale: “Quando mi occupo di teologia [...] mi metto immancabilmente in relazione [...] con la realtà di Dio”. E proprio per questo “sono già divenuto un uomo stupito nel più profondo del suo essere”. Tale considerazione fa capire come non sia possibile fare teologia con distacco e freddezza, senza sentirsi profondamente e personalmente implicati in ciò che ci sta davanti, con questo Dio che ci affascina, ci interpella e ci impegna. È una meraviglia resa possibile da una specie di “accorta ingenuità”, capace di aprirsi all’accoglienza dell’inatteso, senza pregiudizi o gabbie ideologiche. L’incontro allora trasforma radicalmente la persona, genera stupore, conoscenza e amicizia; così l’incontro con Dio fa scaturire quella fede vitale, che rappresenta l’humus naturale della riflessione teologica e dell’amore che con essa è strettamente legato. “È questa la condizione per potersi accostare al Mistero di Dio lasciandosene sfiorare e guardandosi bene dalla tentazione di volersene appropriare. Il miracolo di Dio, del suo amore, indeducibile, inatteso, non riconducibile ai sentieri e ai pensieri dell’uomo, coglie sempre l’uomo di sorpresa e lo afferra nel profondo, illuminandolo con la luce dello Spirito, nella quale la persona trova la verità di se stesso e di tutto». Oggetto del pensiero riflesso della fede è il “mistero”. Così “la teologia è consapevole della perenne trascendenza di questo Oggetto puro, al quale sa di relazionarsi come povera e serva, nella condizione dello stupore e dell’adorazione”. E Barth non esita ad affermare nella sua Introduzione alla teologia evangelica: “A chi non provasse stupore, quando in un modo o nell’altro ha a che fare con la teologia - o a chi dopo un certo tempo non fosse più capace di stupirsi - o a chi non provasse tanto maggior stupore quanto più si occupa di teologia, bisognerebbe consigliare di prender qualche distanza da essa e di riflettere spregiudicatamente su che cosa essa sia, affinché possa ancora succedergli che lo stupore per la teologia gli rinasca dentro al punto da non abbandonarlo più e anzi di diventare sempre più forte in lui”. 66 Bruno Forte, in una sua riflessione inedita su Lo stupore della fede ha detto: “La fede è esperienza dello stupore dinanzi alla sorprendente novità con cui l’amore divino ci raggiunge: stupore della gratuità di questo amore, ma anche stupore della nostra indegnità a riceverlo, timore davanti all’Amato trascendente e sovrano che si china sulla Sua creatura. Lo stupore della fede è allora al tempo stesso coscienza della nostra finitudine, del dolore e del niente che siamo, e riconoscimento delle “meraviglie” che il Dio vivo viene a compiere fra noi e per noi; è apertura alle sorprese che la Sua promessa ci prepara ed è turbamento davanti all’umiltà con cui il dono più grande è stato offerto agli uomini nell’abbandono della Croce. Stupore di sé, stupore davanti a Dio: tali sono i tratti dello stupore della fede, nel suo nascere, nel suo svilupparsi, nel suo farsi comunicazione e dono di vita e di bellezza ad altri”. L’esperienza di fede Con riferimento alla cristologia, ci pare importante riportare una pagina di Luigi Giussani: “Il vero dramma della chiesa che ama definirsi moderna [il vero dramma dei cristiani che vogliono essere moderni] è il tentativo di correggere lo stupore dell’evento di Cristo con delle regole. È una mirabile frase di Giovanni Paolo I (sarebbe stato provvidenziale quel suo mese di pontificato, anche solo per questa osservazione, di cui non si trova altrove l’equivalente). Cristo è un evento, un avvenimento, un fatto, che innanzitutto riempie di stupore. L’irruzione di qualcosa di imprevedibile e di imprevisto - un avvenimento, un “evento” - desta innanzitutto stupore. E lo stupore è l’inizio di una reverentia, di un rispetto, di un’attenzione umile. Come in un bambino posto di fronte a una situazione nuova: in lui istintivamente si desta un senso di stupore e di rispetto umile e un po’ timoroso. Chi si sottrae allo stupore dell’avvenimento, e all’attenzione, alla venerazione, alla curiosità rispettosa e umile che l’avvenimento istintivamente suscita, diventa schiavo di regole. 67 Chi tenta di sottrarsi all’avvenimento si fa inevitabilmente schiavo di regole. Questo spiega molto bene la caratteristica del soggetto umano creato dalla mentalità moderna: grumo di segmenti, di particelle e di brandelli, come dicevamo. Ognuno di questi brandelli sussiste e procede perché segue delle regole: le regole dell’ufficio, della famiglia, le regole anche dell’andare in chiesa o in parrocchia. Quando ci si sottrae allo stupore, alla luce e al calore che l’avvenimento di Cristo accende, e in cui soltanto emerge la faccia o l’unità dell’io nei suoi vari aspetti (per cui essi arricchiscono l’unità e non la deprimono in divisione rappattumata), non si può evitare di assoggettare la propria vita, segmentata, alla schiavitù delle regole. Questa osservazione ci richiama a Cristo che ha dato la vita per salvare l’uomo dalle regole dei farisei, dal fariseismo”. Il senso dello stupore nei confronti del mistero cristologico si rivela in particolare con riferimento all’Eucaristia, cui ha dedicato un libro - intitolato proprio Stupore eucaristico - il gesuita Cesare Giraudo. E sullo stupore eucaristico è ritornato a insistere il XXV Congresso Eucaristico Nazionale di Ancona. I misteri in senso religioso Potremmo aggiungere che, teologicamente, lo stupore è generato dai misteri, ma ricordando che i misteri della religione (nello specifico quella cristiana) non sono da intendere come sono intesi dalla scienza e dalla filosofia: in un caso, sono problemi non ancora risolti (ignoramus sed non ignorabimus, avrebbe detto il positivista Herbert Spencer), e, nell’altro, sono ciò che va oltre i problemi e che ha un carattere insolubile (secondo “la metodologia dell’inverificabile” dell’esistenzialista Gabriel Marcel); i misteri, teologicamente parlando, sono invece delle verità che non attendono di essere spiegati, ma che, anzi, rendono possibile spiegare. In questa ottica, lo stupore che generano è generato non dalla mancanza o impossibilità di soluzione, ma proprio dalla soluzione 68 che fornisce e che, per la sua straordinarietà, è tale da sconvolgere i parametri ordinari, per cui si potrebbe parafrasare il titolo del libro di Gargani, parlando di “mistero e stupore”: è questo il binomio alla base del religioso, e in particolare di quel religioso cristiano incentrato sui misteri cristologici: dalla incarnazione alla resurrezione di Gesù Cristo. L’approccio artistico In ottica estetico - artistica, lo stupore o la meraviglia sono di casa, e in un duplice senso L’arte generata dallo stupore In primo luogo, perché l’arte si lega originariamente allo stupore. Konrad Fiedler: questo teorico e storico dell’arte dell’800, noto per la sua teoria della “pura visibilità”, ha sostenuto che “lo stupore è il primo inizio dell’arte come della filosofia”. L’arte generatrice di stupore In secondo luogo, perché - almeno certa arte, come quella barocca - è finalizzata a stupire: che il fine dell’arte dovesse essere lo stupore lo diceva chiaramente Giovanni Battista Marino con versi diventati per questo famosi: “È del poeta il fin la meraviglia, / parlo dell’eccellente e non del goffo, / chi non sa far stupir, vada alla striglia!” (da La Murtoleide: Fischiate). Può essere utile ricordare che una scrittrice del ’900, Ingeborg Bachmann (cfr. Gargani, nell’opera citata), affermava che lo stupore è “l’inizio di ogni filosofare e del diventare umani”, perché lo stupore spezza l’inconsapevole indifferenza verso ciò che indifferente ci circonda e soprattutto sconfigge la paura che sta alla base di ogni spiegazione razionalistica, scudo definitivo contro l’angoscia dell’ignoto. Pertanto, come è stato suggerito (da Federico Brunetti) “compito 69 della ricerca artistica contemporanea pare non essere tanto quello di saper illustrare le scoperte della scienza, tanto quello di saper mantenere l’immaginazione e la ragione aperte allo stupore dell’ignoto, pur accuratamente misurato dalle più grandi e complesse macchine fabbricate dall’umanità. Parte seconda Lo stupore tra scienza e coscienza Detto questo sullo stupore in rapporto alla filosofia, alla religione e all’arte, intendiamo ora soffermarci su due ambiti: quello scientifico e quello etico, cui fa riferimento Kant con la nota frase posta a titolo di questa conversazione. In ottica scientifica In ottica scientifica, si potrebbe ripetere il bel titolo che hanno dato al loro libro Marco Bersanelli e Mario Gargantini: Solo lo stupore conosce, nel quale hanno riportato la testimonianza di un centinaio di scienziati sul senso della “avventura della ricerca scientifica”. Scienziati credenti e atei Da parte nostra, ci limitiamo a una duplice citazione, relativa a due scienziati, credente uno e ateo l’altro, che - al di là di questa loro dichiarazione - sottolineano il valore dello stupore in riferimento sia all’oggetto che al soggetto della scienza. Antonino Zichichi, nel volume Perché io credo in chi ha fatto il mondo, sostiene che le conquiste della scienza non oscurano le leggi divine, ma le rafforzano, contribuendo a risvegliare lo stupore e l’ammirazione per il meraviglioso spettacolo del cosmo, che va dal cuore di un protone ai confini dell’universo. 70 Dal canto suo, Margherita Hack - nel volume Il mio infinito ha collegato lo stupore non solo al “forse infinito universo”, ma al soggetto che in questo universo è dotato di mente, e così ha scritto: “Quando mi capita di osservare quel bello spettacolo della natura che è un cielo stellato, mi meraviglio pensando come semplicemente analizzando la luce di quei deboli puntini luminosi che sono le stelle, semplicemente osservando i moti di quei puntini sulla volta celeste, da questo granello di sabbia che è la nostra Terra di fronte all’universo, nel giro di poche migliaia di anni, la nostra mente sia stata capace di comprendere, secolo dopo secolo, l’immensità dell’universo e i meccanismi che lo governano, e di come in questi ultimi due secoli, le leggi della fisica sperimentale nei laboratori sulla Terra, ci hanno rivelato non solo l’intima natura delle stelle, i misteri della loro formazione e fine, ma ci hanno anche permesso di ricostruire l’evoluzione dell’universo come un tutto a partire da quasi 14 miliardi di anni ad oggi”. Pertanto - aggiunge la Hack “l’enigma più grande e straordinario, ancora più che l’universo, è la nostra mente, di cui ancora sappiamo tanto poco, molto meno di quello che essa ha capito dell’universo”. Scienza e persona A questo punto torna allora utile ricordare un volume che, fin dal titolo, è estremamente significativo: La meraviglia di essere uomo; curato da Marcello Pera, raccoglie scritti di due scienziati: John Eccles (neurofisiologo, premio Nobel per la medicina) e Daniel Robinson (psicologo). In questo libro vengono esposte alcune tesi scientifiche che hanno sminuito il valore della persona umana e fatto sì che innumerevoli persone considerassero se stesse e la propria vita come insignificanti e inutili accidenti della natura materiale. Bisogna invece riconoscere che la scienza è una delle nostre creazioni più grandi e di certo una delle guide più fidate nell’avventura umana: merita di essere coltivata e rispettata perché è degna espres71 sione dell’abilità, della razionalità e delle speranze umane: ci aiuta a cogliere “la meraviglia di essere umano”. Ma bisogna nel contempo riconoscere che la scienza è anche soggetta a distorsioni e degradazioni. Molte volte si stabilisce una sinonimia tra vero e scientifico, ed è comune credere che ciò che non è scientifico non può essere vero. Cosi il profano si rivolge alla scienza del comportamento e alla scienza morale per trarne indicazioni utili alla sua vita quotidiana, nello stesso modo in cui potrebbe rivolgersi alla fisica e alla chimica per indirizzare la propria comprensione della natura. In ottica morale Proprio al libro di Eccles e Robinson vorremmo rifarci - e specificamente al capitolo su “Ragionamento morale ed evoluzionismo” - per affrontare la questione etica. Moralità e legalità Al riguardo, già Kant aveva avvertito che non si possono trattare come sinonimi termini morali e termini legali. Può, anzi, avvenire che si verifichi un conflitto tra legge e morale, e che si giudichino immorali certe leggi: da qui la distinzione tra doveri legali e doveri morali, e conseguentemente la rivendicazione della cosiddetta “obiezione di coscienza”, la quale presuppone la universalità degli imperativi morali, e il richiamo alla responsabilità personale, per cui siamo chiamati non semplicemente a obbedire a una legge o ad osservare una legge, ma avvertiamo la responsabilità della scelta che facciamo, cioè di accettazione o di rifiuto di una legge sulla base di una legge superiore, quella appunto della coscienza rispetto a quella dello Stato o di altra istituzione. In questa ottica, il relativismo etico contemporaneo appare inaccettabile per le contraddizioni che veicola, a cominciare dal fatto che i relativisti sostengono che le persone hanno il diritto di fare 72 qualsiasi cosa, e gli altri hanno il dovere di rispettare tale diritto o che la libertà sia considerata secondo criteri esclusivamente politici e sociali, di modo che si crede che chiunque appartenga ad una società libera sia libero di fare tutto ciò che non sia esplicitamente proibito dalla legge: la concezione popolare ha, quindi, spogliato la libertà di tutti i suoi attributi morali, riducendola a una pura e semplice convenzione che, a livello politico, è un sistema di governo. In tale prospettiva, si risolve l’agire umano nella legalità in quanto si dissolve la moralità, laddove (ed è il fulcro della lezione kantiana) la distinzione tra legalità e moralità, configurata come distinzione tra imperativi ipotetici o condizionati e imperativi categorici o incondizionati è essenziale per riconoscere il diverso valore dell’una e dell’altra. Etica e persona Anche Eccles e Robinson considerano la moralità come caratteristica unica dell’uomo e nell’uomo, quale capacità di saper discriminare il bene dal male: questa è la vera essenza della vita di quell’essere che è l’uomo, la cui meraviglia consiste nel valore morale che gli deriva dall’essere persona. Da qui la critica al riduzionismo, al determinismo, che ci allontana dalla vera natura dell’uomo come essere dotato di coscienza, di autocoscienza: prerogative uniche che segnalano una specificità non riconducibile ad alcuna spiegazione neuronale. Recentemente Paul Valadier ha parlato della eccezione umana, proprio per segnalare questa specificità che fa la differenza: il che non significa cedere all’antropocentrismo, ma nemmeno al biocentrismo o all’ecocentrismo; significa riconoscere (secondo l’indicazione che va da Aristotele a Blaise Pascal, da Jacques Maritain a Roger Garaudy), che l’uomo trascende l’uomo, ovvero che nell’uomo qualcosa eccede l’umano. Al riguardo torna utile richiamare un pensiero di Wittgenstein, secondo il quale (come ha sottolineato Luigi Alici) c’è un rapporto 73 stretto tra etica e religione: l’etica è una sorta di stupore originario dinanzi alla domanda ineffabile intorno al senso della vita, mentre per identificare il senso della vita con Dio occorre passare dalla originarietà dell’etico alla ulteriorità del religioso, affidato alla fede nella promessa salvifica di una rivelazione positiva. Conclusione Vorremmo concludere utilizzando una distinzione che è stata proposta (da Carlo Valerio Bellieni) nel campo della medicina, si potrebbe parlare di un’etica della paura che porta in medicina alla burocratizzazione e all’ economicismo e di un’etica dello stupore che apre davanti all’intero universo di chi abbiamo di fronte. Un’etica dello stupore - possiamo aggiungere - riesce forse a salvaguardare nella scienza e nella morale la loro dimensione umanistica, che oggi sembra messa in discussione dal neuroscientismo, che porta sia in ambito epistemologico sia in ambito etico ad un naturalismo conoscitivo e pratico. Occorre allora riflettere sulla neurognoseologia e sulla neuroetica (su cui hanno scritto Nicla Vassallo e Laura Boella), non per rifiutare il progresso delle scienze cognitive, ma per non considerare la spiegazione neuronale come una spiegazione totalizzante, perché questo finirebbe per configurarla come una spiegazione totalitaria. Riteniamo che, allora, possa risultare di grande interesse il saggio di Petrosino sullo stupore, dove offre un contributo originale alla comprensione dell’esperienza del vedere; infatti, interpreta lo stupore come una forma di risposta a “ciò che ci raggiunge nello splendore del suo apparire”, conducendoci nell’affascinante mondo dello “sguardo”, fino a portarci di fronte alla meraviglia dell’evento singolare che sempre ci interpella personalmente e davanti al quale “siamo chiamati a rispondere, prima ancora che con le parole, con i nostri stessi occhi”. 74 Bibliografia sullo Stupore Dal punto di vista filosofico Jeanne Hersch, Storia della filosofia come stupore, trad. ital., a cura di Alberto Bramati, Bruno Mondadori, Milano 2002; Ead., Lo stupore filosofico, trad. ital., Sansoni, Firenze Enrico Berti, In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma-Bari 2007 Francesco Bevilacqua, Elogio dello stupore. 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Testi di meditazione, trad. ital., Queriniana, Brescia 2005 Luigi Giussani, Lo stupore e le regole, in “Tracce” , febbraio 2000 Carlo Rocchetta, Briciole di tenerezza. Per educarsi allo stupore di essere, EDB, Bologna 2005 Cesare Giraudo, Stupore eucaristico. Per una mistagogia della messa “attraverso i riti e le preghiere”, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011 Giancarlo Galeazzi (a cura di), La quotidianità eucaristica: contesto e ambiti (per il XXV Congresso eucaristico nazionale), Città Nuova Roma 2011 Luigi Giavini, Ravie. Lo stupore dal presepe alla croce, Nomos, Busto Arsizio 2011 M. Gloria Riva, Nell’arte lo stupore di una Presenza, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005 Alexandr Filomenko, L’oceano del mistero, SEF, Firenze 2014 Dal punto di vista estetico Francesco Bevilacqua, Elogio dello stupore. Estetica, sacralità, etica della natura, postfaz. di Fulco Pratesi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001 Franco Ferrucci, Dante. Lo stupore e l’ordine, Liguori, Napoli 2007 Vittorio Sgarbi, L’Italia delle meraviglie: Una cartografia del cuore, Bompiani, Milano 2009 Dal punto di vista scientifico Marco Bersanelli - Mario Gargantini, Solo lo stupore conosce. L’avventura della ricerca scientifica, Rizzoli, Milano 2003 Bruno D’Amore, Matematica. Stupore e poesia (con contributi di vari autori), Giunti, Milano 2012 Albert Einstein, Il mondo come lo vedo io, Newton Compton, Roma 2012 Margherita Hack, Il mio infinito. Dio, la vita e l’universo nelle riflessioni di una scienziata atea, Dalai, Milano 2011 Antonino Zichichi, Perché io credo in chi ha fatto il mondo. Tra fede e scienza, Tropea, Milano 2009; Id., L’infinito. L’avventura di un’idea straordinaria, Tropea, Milano 2009 76 John Eccles - Daniel Robinson, La meraviglia di essere uomo, trad. ital., a cura di Marcello Pera, A. Armando, Roma 1988 Stephen Greenblatt, Meraviglia e possesso. Lo stupore di fronte al nuovo mondo, trad. ital., Il Mulino, Bologna 1994 Amedeo Balbi, Cercatori di meraviglia. Storie di grandi scienziati curiosi del mondo, Rizzoli, Milano 2014 Carlo Valerio Bellieni, Padroni della vita? Piccolo vademecum di bioetica, Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2006 Dal punto di vista educativo Rosette Poletti - Barbara Dobbs, Quaderno di esercizi per coltivare l’arte dello stupore, Vallardi, Milano 2012 Gianfranco Zavalloni, La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e solidale, EMI, Bologna 2008 Catherine L’Ecuyer, Educare allo stupore, trad. ital., Ultra, Roma 2013 77 Giancarlo Galeazzi, presidente onorario della Società Filosofica Italiana di Ancona (Foto di Federica Perilli) 78 LA MEMORIA per l’identità individuale e collettiva A Valerio Premessa Solo a scorrere i titoli della nutrita bibliografia sulla memoria, si può avere una idea della complessità del tema; si parla infatti de le molte facce della memoria (1990), de la memoria e i suoi segreti (1993), di vizi e virtù della memoria (2009), e la cosa riguarda non solo la memoria dal punto di vista individuale, ma anche quella da punto di vista sociale, per la quale si è parlato de l’enigma della memoria collettiva (2011). E già sant’Agostino ne Le confessioni (X, 27) lo aveva puntualizzato, scrivendo che “la facoltà della memoria è grandiosa. Inspira quasi un senso di terrore, Dio mio, la sua infinita e profonda complessità”. Una complessità che si è addirittura resa anche più evidente man mano che si sono sviluppate le ricerche in molteplici ottiche. Da sempre la memoria è oggetto della filosofia: da Platone ad Agostino, da Aristotele a Tommaso, da Locke a Hume, da Bergson a Heidegger, da Ricoeur a Ferraris. Per la letteratura, poi, la memoria ha rappresentato un elemento costitutivo; pensiamo a poeti come Leopardi e Pascoli, a scrittori come Pirandello, Levi e Calvino, ma è soprattutto in alcuni autori del ’900 come Proust, Kafka, Joyce e Borges che si è imposta in modo originale; senza peraltro dimenticare certa produzione cinematografica. La religione, dal canto suo, trova nella memoria un luogo teologico essenziale, specialmente nel monoteismo mediterraneo. Ma sono in particolare le scienze - da quelle psicologiche alle neuroscienze - ad aver esplorato in modo inedito la memoria, mettendo fine a certi luoghi comuni: così 79 si sono superate certe semplificazioni, anche se si corre il rischio di una naturalizzazione della memoria (come della persona). Tuttavia, tenendo presenti questi quattro approcci principali alla memoria, è possibile affrontare il problema, rispettandolo nella sua complessità, ed è, questa, la condizione per evitare indebiti riduzionismi. Vediamo allora nella prima parte i quattro approcci indicati; un tale confronto potrà far emergere meglio nella seconda parte la necessità di misurarsi con la memoria come dimensione essenziale della biografia delle persone e della storia delle collettività. Parte prima Significati della memoria Approcci alla memoria L’approccio filosofico L’approccio filosofico ha dato luogo a diversi paradigmi: due quelli principali. Il paradigma ontologico è presente in Platone come reminiscenza (anamnesi) dell’essere, in Agostino come nostalgia del divino, e in Heidegger come oblio dell’essere. Il paradigma antropologico è presente anzi tutto in Aristotele, che distingue tra memoria (il ricordare involontario) e reminiscenza (il ricordare volontario), e poi in Tommaso, e sarà successivamente riproposto nel nuovo contesto della soggettività moderna e, in chiave gnoseologica, porrà la questione della identità dell’io: così negli empiristi Locke e Hume. Una rinnovata riflessione caratterizzerà il ’900 con filosofi come Bergson, Ricoeur e Ferraris; su questi tre autori intendiamo ora soffermarci. Ne L’evoluzione creatrice (del 1907) Henri Bergson ha identificato memoria e coscienza, affermando che “il fondo della nostra esistenza cosciente è memoria”, e in Materia e memoria (del 1896) Bergson aveva investigato la funzione del cervello, e intrapreso una 80 analisi della percezione e della memoria, portando a prendere in considerazione i problemi sulla relazione tra corpo e mente. Il tentativo di Bergson è quello di andare oltre il realismo e l’idealismo, e si concretizza nella definizione della percezione come di una forma di coscienza che ingloba sia il soggettivo sia l’oggettivo; l’immagine si pone come saldatura fra la materia e la memoria. Bergson, analizzando il rapporto concreto fra percezione e memoria, ritiene che l’interazione fra il dato e il ricordo di esso si configura come un circuito, in cui il dato viene arricchito di apporti interiori che ne personalizzano la percezione. Alla fine, è il criterio pragmatico dell’utilità ad essere responsabile dell’evocazione di un determinato ricordo, che non è mai “puro” ma è sempre “impregnato” di percezione, così che il dualismo fra percezione estensiva e ricordo spirituale si risolve in una metafisica dei differenti livelli di realtà. Un’altra conclusione importante concerne la vita spirituale che, secondo Bergson, trascende i limiti del corpo e quindi, conseguentemente, della percezione e dell’azione, vincolate esse stesse al corpo. Dunque - ecco un punto di assoluta rilevanza - il dualismo corpo e spirito può trovare nella memoria una riformulazione, perché proprio nella memoria troverebbe uno strato di contiguità l’elemento materiale (la necessità della natura) e l’elemento spirituale (la libertà dello spirito). Per dirla con le sue stesse parole, “la memoria è qualcosa di diverso da una funzione del cervello e tra la percezione e il ricordo non c’è differenza di grado, ma di natura”, per cui la memoria (sottolineiamo questa considerazione) “non consiste affatto in una regressione dal presente al passato, ma al contrario in un progresso dal passato al presente”. In Ricordare, dimenticare, perdonare e precisamente nel primo saggio su L’enigma del passato (pubblicato nel 1998), Paul Ricoeur ripensa il passato in una più vasta dialettica delle tre dimensioni temporali, costruita grazie ad una libera meditazione sui testi di Agostino e Heidegger. Lo scopo di Ricœur è quello di mantenere 81 passato, presente e futuro allo stesso livello di originarietà, denunciando al tempo stesso l’impossibilità di una loro totalizzazione. Se Aristotele diceva che “la memoria è del passato”, Ricœur si chiede cosa significa del passato? Cosa significa “essere passato”? La scelta di considerare il passato indipendentemente dal futuro si rivela inadeguata, provocando la frammentazione dell’enigma iniziale. Viene posto in primo piano il problema della dualità tra l’”essente stato” e il “non essere più”. Ricœur sostiene il pari diritto di entrambe le definizioni. Il passato come “perduto”, “trascorso”, non va inteso soltanto come quel che non è più a portata di mano, ma anche come quel che abbiamo irrimediabilmente perduto, non però in un senso semplicemente privativo. L’idea di perdita, secondo Ricoeur, va riconsiderata: definire il passato come essente stato, “passa attraverso la prova della perdita e quindi attraverso il non esser più”; dunque l’oblio si pone quale condizione di possibilità della memoria e della storia: “solo a condizione della separazione la distanza diviene significativa e si pone l’essente stato”. Passando a Maurizio Ferraris, la sua tesi di fondo è che, diversamente da quanto sostenevano i postmoderni, il mondo sociale non è una sfera liquida ed evanescente; al contrario è fatto di oggetti sociali, intesi come “iscrizioni di atti”, cioè come la fissazione di rapporti che accedono alla dimensione della oggettività proprio attraverso la registrazione, il che spiega l’importanza dei documenti nel mondo sociale, e il fiorire di strumenti potenti e portatili di archiviazione, come appunto l’iPad. Computer, smartphone, tablet e via registrando sono macchine, che sono essenzialmente memorie, in cui si depongono e conservano tutti i contatti della nostra vita, tutti i pensieri e progetti, e anche le cose che abbiamo dimenticato, che restano lì, come in una specie di inconscio. Pertanto queste memorie sono una specie di supplemento d’anima o di anima di scorta, e in questa affermazione non c’è niente di sorprendente, se si considera che la rappresentazione tradizionale dell’anima, già 82 presso i Greci, era quella di una tabula, una tavoletta di cera in cui si imprimono discorsi, sensazioni, ragionamenti. Il tablet esterno, l’iPad, è dunque la protesi della tabula interna, ed è la più recente di tutte quelle altre protesi - archivi, documenti, promemoria, libri, appunti - con cui l’umanità ha cercato di rimediare alla finitezza della memoria e soprattutto della vita: fintanto che qualche memoria rimane da qualche parte, fosse pure solo in un iPad, resta (scrive Ferraris) un po’ di anima, mentre se la memoria se ne va si ha un bell’essere vivi, anche l’anima se ne è andata, ed è per questo che l’Alzheimer ci fa tanta paura. Ebbene, avvicinando anima e iPad (così nell’opera omonima del 2011) la complessità che inerisce al tema della memoria viene decisamente accentuata, e chiama in causa confronti, che sono stati appena avviati. L’approccio artistico L’approccio artistico alla memoria è rinvenibile in particolare nella letteratura e nella cinematografia. Tra i prosatori e poeti ci limitiamo a segnalare due nomi di poeti italiani: Giacomo Leopardi e Giovanni Pascoli, e, soprattutto, lo scrittore che ha legato il suo nome alla “ricerca del tempo perduto”, Marcel Proust. Il tema della rimembranza è centrale in Giacomo Leopardi: nel suo pensiero, nella sua vita e nella sua opera (solo la rimembranza è “poeticissima”): alla “rimembranza” del proprio passato Leopardi dedicò ad esempio alcuni Canti, tra i più struggenti: Alla luna (“O graziosa luna, io mi rammento...”), A Silvia (“Silvia, rimembri ancora ...”) e Le ricordanze (... “D’ogni mio vago immaginar, di tutti / I miei teneri sensi, i tristi e cari / Moti del cor, la rimembranza acerba”); nello Zibaldone il tema è connesso alla gioventù e alla poesia. Di una poetica della memoria accanto ad una poetica delle cose si parla per Giovanni Pascoli e poesie come X agosto (da Myricae) e L’aquilone (da Poemetti) possono bene esemplificare la sua posizione. 83 Per quanto riguarda Marcel Proust e la sua Ricerca del tempo perduto, ciò che distingue genialmente la sua prospettiva da produzioni apparentemente analoghe, fondate anch’esse sul ricorso al ricordo biografico, è l’intreccio fra memoria e oblio, tra veglia e sonno. Tutto in Proust comincia con il sapore, il profumo, il gusto di un biscotto - la madeleine - intinto nel tè a cui è conferito un potere evocativo di restituzione del passato perduto dell’infanzia, di cui va appunto in cerca. È, dunque, la memoria involontaria ben più di quella volontaria a strutturare l’esistenza. Secondo Proust (come ha ben sintetizzato Giorgio Manganelli in Cento libri) la nostra vita è paradossalmente all’insegna del tempo e poco cronologica, in quanto caratterizzata da tanti anacronismi, “depositari di emozioni, che nella vita ritornano e scompaiono con la predestinata insistenza del ritmo. Persistenze, memorie che Proust chiama involontarie, e pertanto autentiche, non prevedibili, e non rifiutabili, affidate ad una minima zona di realtà, a una sensazione isolata”. Per dirla con lo stesso Proust: “un’ora non è soltanto un’ora. È un vaso ricolmo di profumi, suoni, piani, climi. Quel che chiamiamo realtà è una certa relazione tra codeste sensazioni e le memorie che nello stesso istante ci circondano”. Altri autori che sarebbero da tenere presenti, ma che ci limitiamo solo a citare, sono Kafka, Joyce e soprattutto Borges (Finzioni), tra gli stranieri, e Pirandello, Italo Calvino (de Le città invisibili) e Primo Levi (de I sommersi e i salvati) tra gli italiani. Nell’ambito cinematografico ci limitiamo a segnalare due film. Blade Runner del 1982 è ambientato a Los Angeles nel 2019; liberamente ispirato al romanzo Il cacciatore di androidi di Philip K. Dick (ma il titolo del film è tratto dal romanzo The Bladerunner di Alain E. Nourse) ha ricevuto nel 1983 il Premio Oscar per la sceneggiatura e gli effetti speciali. Il film pone in termini fantascientifici delle questioni di carattere filosofico, relative alla identità dei cosiddetti “replicanti”, i quali sono androidi organici pressoché 84 indistinguibili dall’uomo con ricordi prefabbricati che i replicanti credono propri. Se mi lasci ti cancello è un film del 2004 firmato da Michel Gondry; il titolo originale Eternal Seinshine of the Spotless Mind (“Infinito letizia della mente candida”) è tratto da un verso dell’opera Eloise to Abelard del poeta inglese Alexander Pope. Vincitore del Premio Oscar 2005 per la sceneggiatura, questo film pone il problema della memoria in relazione alla identità personale, al senso della storia biografica di ciascuno. L’approccio religioso L’approccio religioso alla memoria può essere bene esemplificato dal monoteismo ebraico e cristiano. Nella tradizione ebraica (come ha puntualizzato S. Veca) l’esercizio memoriale gioca un ruolo eminente, perché l’assenza di memoria è un simbolo per eccellenza del disvalore e dell’antivalore. Essa suona come una minaccia alla persistenza stessa della durata della realtà degli esseri umani. Si può aggiungere (con G. Busi) che l’ebraismo ha sviluppato nei secoli una delle riflessioni più organiche sul bisogno di memoria non solo come tutela della autonomia culturale ma proprio come essenza della struttura del mondo. Nella cultura ebraica l’imperativo di ricordare si coniuga con quello del perdonare, e il cristianesimo insisterà su questa dimensione, che reclama la capacità di ricordare ma anche di dimenticare. Non solo, dal punto di vista cristiano si deve operare una distinzione importante, quella tra memoria relativa ai ricordi e memoria assoluta, cioè l’evento salvifico della morte e risurrezione di Cristo, per cui la memoria non è solo evocativa, ma anche e propriamente salvifica. L’approccio scientifico L’approccio scientifico alla memoria vede la psicologia del pro85 fondo e le scienze cognitive, le psicoscienze e le neuroscienze impegnate a rinnovare lo studio della memoria, e le novità sono tali da dar luogo anche a ipotesi fantascientifiche; valgano per tutti i citati film Blade Brunner e Se mi lasci, ti cancello. Ma, al di là della fantascienza, le questioni che sono suscitate dalle conquiste scientifiche, tecniche e tecnologiche pongono pure inediti interrogativi di carattere etico, nel senso che il “poter” fare certe cose porta a interrogarsi sul “dovere” di farle, per cui si entra nel campo della bioetica, cui dà inediti contributi la neuroetica. Tra le principali teorie sulla memoria segnaliamo (sulla scorta della sintesi operata da Umberto Galimberti nel suo Dizionario di psicologia alla voce “memoria”) quella iniziale della psicologia associazionistica che spiega la memoria in termini di nessi associativi; essa fu contestata dalla psicologia della forma che spiega la memoria in termini di organizzazione dell’insieme; a questa si oppose il comportamentismo che spiega la memoria in termini di condizionamento sul modello stimolo - risposta; ad esso replicò il cognitivismo che nega l’unicità del processo di memorizzazione, e distingue la memoria a lungo, a breve e a brevissimo termine. A parte va ricordata la psicoanalisi in riferimento alla psicopatologia della vita quotidiana e ai fenomeni di rimozione. Infine, nell’ambito della sociobiologia R. Dawkins ha ipotizzato come controparte del gene, il meme, ossia l’unità dell’ereditarietà culturale che avrebbe alcune proprietà dell’evoluzione biologica con possibilità di trasmissione culturale da individuo a individuo. In breve, grazie alla psicologia e alle neuroscienze si è determinato (avverte Brandimonte) per un verso il superamento della concezione secondo cui la memoria sia una facoltà unitaria della mente e per altro verso l’affermazione dell’idea che essa sia una costellazione di processi e di sistemi separati. In questo contesto vanno collocate la fisiologia e la patologia della memoria. 86 Va allora segnalata la tipologia della dimenticanza, che, a livello fisiologico, può presentarsi come temporanea, dovuta a distrazione o perdita temporanea della memoria, ovvero come più o meno duratura, che è l’oblio, ossia la scomparsa o sospensione del ricordo. Invece, a livello patologico, vanno segnalati due disturbi: l’amnesia, che è un disturbo della memoria a lungo termine episodica, e può essere retrograda e anterograda; e la ipermnesia, che è l’eccessivo sviluppo della memoria, cioè la ipertrofia della memoria, e può essere transitoria (p.e. nei depressi) e permanente (p.e. negli idiots savants). Un’alterazione qualitativa della memoria, che deforma i ricordi, è la paramnesia, la quale può configurarsi come reminiscenza (rievocazione senza riconoscimento) e pseudoreminiscenza (rievocazione errata). Infine va segnalato il fenomeno del deja vu (o falso riconoscimento: esperienze nuove percepite come già vissute) e simili: deja etendu, deja fait, deja pensée, e il fenomeno del jamais vu (o misconoscimento: esperienze note percepite come nuove). Forme della memoria Complessità della memoria Dunque, la riflessione filosofica, la tradizione religiosa, la immaginazione poetica e la ricerca scientifica danno contributi preziosi per la comprensione della memoria, e ne mettono opportunamente in luce la complessità. D’altra parte, della importanza della memoria facciamo esperienza tutti e tutti i giorni: sia nel senso dell’essere ricordati, sia nel senso del ricordare. Ciascun essere umano (ha detto Paolo Rossi Monti) ha il terrore di essere dimenticato: il nostro desiderio di immortalità, indipendentemente dal fatto che crediamo o meno all’anima immortale è comunque forte, e con il Foscolo “l’eredità di affetti” è motivo confortante per essere ricordati e immortalati (Dei sepolcri) o con il Manzoni “il cumulo delle memorie” è motivo devastante per la87 sciare “ai posteri l’ardua sentenza” (Cinque maggio). A parte questo, anche il riferimento alla più banale quotidianità ci richiama alla insostituibilità della memoria: che sarebbe della nostra vita, se non avessimo memoria: se non ci ricordassimo degli impegni e degli appuntamenti, se non ci ricordassimo di quello che abbiamo detto e fatto? Allora i diversi e specifici approcci alla memoria servono non tanto ad affermare l’importanza della memoria (di cui siano ben consapevoli) quanto a sottolineare la complessità, evidenziando le diverse funzioni - biografica e storica, protettiva e sovversiva - della memoria. Livelli della memoria A questo punto volendo operare delle distinzioni semantiche del concetto di memoria, possiamo parlare di memoria a tre livelli seguendo Ugo Perone. In primo luogo, come Contenuti (i ricordi), cioè come traccia (o relazione fra tracce) di accadimenti passati di tipo individuale (la memoria è depositata in una traccia) o di tipo sociale (la memoria si deposita in una traccia). In secondo luogo, come Capacità (la facoltà di ricordare), intesa o come contenitore (ricettacolo), ovvero come atto del pensiero (razionale, volontario, associativo). In terzo luogo, come Consapevolezza (cioè trattenimento della differenza), coglimento del vero (assoluto) nella condizione dell’umano (relativo), trattenimento di un assoluto (la verità) ma nella consapevolezza della differenza da quello che può essere solo ricordato (reminiscenza, rammemorazione). Un’altra classificazione della memoria, oltre a questa delle Tre C, può essere quella delle Tre R, secondo cui la memoria può essere considerata come: Ritenzione (memoria pura), Ricordo (memoria selettiva) e Reminiscenza (memoria veritativa). Queste ed altre specificazioni della memoria servono a evidenziare il superamento di concezioni tradizionali della memoria, che 88 dunque non va intesa come una facoltà specifica: essa ha un carattere sia volontario, sia involontario, sia cosciente, sia incosciente, secondo quanto evidenziato con i quattro approcci principali (filosofico, estetico, religioso e scientifico) alla memoria, cui abbiamo già fatto cenno per quanto sinteticamente. Tipologia della memoria Detto questo, possiamo specificare alcune questioni relative alla dimensione individuale e collettiva della memoria. Riguardo al problema della natura del ricordo, se esso cioè possa definirsi individuale o intersoggettivo, possiamo richiamare alcune impostazioni principali: c’è una tradizione riflessiva e intimistica da Agostino a Husserl; c’è poi la tesi del primato della memoria collettiva sostenuto da Maurice Halbwachs; c’è infine la posizione di Paul Ricoeur, secondo il quale va riconosciuta la costituzione reciproca e simultanea del ricordo soggettivo e di quello sociale: la memoria deve essere intesa non più come la memoria soltanto di un singolo, bensì come un intreccio costruito con gli altri. In questo contesto si colloca la distinzione tra memoria individuale e memoria collettiva, tra biografia di una persona e storia di una società: né l’una né l’altra sarebbe possibile ricostruire senza la memoria, della quale tuttavia dobbiamo sapere con Primo Levi (de I sommersi e i salvati) che è “uno strumento meraviglioso, ma fallace”. Più precisamente, per quanto riguarda la memoria individuale, è da dire che essa è stata intesa come un contenitore, cioè un ricettacolo di ricordi, mentre oggi viene concepita come atto del pensiero (razionale, volontario, associativo), che produce ricordi, ossia tracce (o relazioni fra tracce) di accadimenti passati. Anche la memoria collettiva è data dall’insieme di ricordi, cioè tracce (o relazioni fra tracce) di accadimenti passati, ma di tipo sociale. In ogni caso, la memoria ha una duplice dimensione: retrospet89 tiva, come ricordi che illuminano il nostro passato e connotano la nostra biografia (identità e storia), e prospettica, come ricordi che aprono al nostro futuro, per mettere a frutto le esperienze passate per prepararsi alle esperienze future. Questa seconda è quella praemeditatio malorum cui invitavano gli stoici antichi, e che è riproposta nel neopaganesimo di Salvatore Natoli. Anche dal punto di vista della storia, occorre rilevare con Ricoeur non solo la sua impostazione retrospettiva, ma anche l’effetto secondario dell’orientamento prospettico, verso il futuro, l’orizzonte di attesa, presente comunque nello storico, in quanto cittadino e uomo. Si apre così un quadro assai paradossale: nella rappresentazione storica si incrociano passato e futuro, influenzandosi reciprocamente. Lo mostrano infatti due esperienze: il limite della colpa e del perdono. La prima è “il fardello che il passato fa pesare sul futuro”. Il secondo invece è una re - interpretazione di quel che è accaduto, il cui senso non è fissato una volta per tutte. La memoria viene rivisitata dal progetto del futuro e offre un modello alla conoscenza storica. In tal modo la fedeltà della memoria aiuta la verità della storia e viceversa. Parte seconda La memoria tra identità e educazione Memoria e identità Memoria e persona Eccoci di fronte al problema del rapporto tra memoria e identità. Se definiamo la identità come lo specifico per cui qualcuno non è qualcun altro e da ogni altro si distingue nel suo fare esperienza dello stare al mondo in rapporto alla triplice dimensione della temporalità, possiamo dire che l’identità - a prescindere dalla sua costituzione ontologica, per cui permane nel divenire e diviene nel 90 permanere - si presenta costituita dalla memoria: “ogni coscienza di identità è intrinsecamente voltata all’indietro, cioè verso il tempo lungo o breve che è appena trascorso. Ogni forma di autocoscienza è riflessione su chi siamo stati, magari fino a un minuto prima, a un attimo fa. L’identità è memoria”, come scrive Giovanni Jervis (ne La conquista dell’identità), anche se la memoria non esaurisce l’identita: la memoria non è solo coscienza del passato, ma anche coscienza che impegna nel presente e che proietta nel futuro, e in entrambi questi casi risente della esperienza passata in termini di continuità o discontinuità. Dunque, la memoria, grazie alla quale gli esseri umani stabiliscono una connessione fra il passato e il presente, nonché con il futuro, è un ingrediente basilare della identità: tanto un individuo può sviluppare un’identità personale e mantenerla nel tempo grazie alla sua memoria, altrettanto una collettività è in grado di riprodurre la sua identità solo attraverso la memoria. Occorre aggiungere che il proprio presente di individuo o di collettività si può affermare attraverso la continuità con il passato, oppure attraverso una rottura radicale con esso, spingendosi fino all’oblio; tra questi due estremi si colloca una serie continua di possibilità intermedie. Dalla letteratura psicologica e psicoanalitica sono state evidenziate la complessità e l’importanza della costruzione del passato per l’identità della persona. Dalla letteratura storica e etnografica sono state evidenziate la complessità e l’importanza della costruzione del passato per l’identità di una collettività a livello di paese, città, nazione. E sia in senso individuale che sociale il tema dell’identità costituisce una questione nevralgica, che si è nel tempo diversamente configurata. Per esemplificare e semplificare, vorremmo parlare di tre concezioni della identità: c’è un’idea rocciosa della identità identificata con la struttura ontologica dell’individuo; c’è un’idea volatile della identità identificata con la condizione empirica dell’individuo; c’è una idea liquida della identità identificata 91 con la capacità adattativa dell’individuo: un’idea, questa, che insiste sul carattere processuale, plurale, proteiforme dell’individuo, È evidente che in rapporto a queste diverse concezioni (che non si escludono reciprocamente, ma che possono integrarsi legittimamente) si riconosce un diverso ruolo alla memoria, la quale però in tutti i casi rimane essenziale. Ancora una volta può tornare utile fare riferimento a Paul Ricoeur, il quale - in tema di identità personale - distingue tra “medesimezza” e “ipseità”, per indicare due modalità di persistenza nel tempo, e precisamente l’identità come medesimezza per cui un individuo è riconoscibile e riconosciuto come lo stesso (idem) per certi aspetti permanenti caratterologici e pubblici; e l’identità come ipseità che riguarda l’aspetto narrativo che si modifica ogni volta che il soggetto costruisce un racconto di sé e ha quindi una dimensione più privata, relativa a sé proprio (ipse); nella medesimezza l’invariante si lega al passato, nella ipseità l’invariante riguarda il futuro: per un verso il ricordo nella continuità, per altro verso l’impegno a mantenere la promessa. Una tale idea articolata di identità chiama in causa in diverso modo la memoria, mostrandone la complessa funzione. Dunque, di contro alla concezione secondo cui la memoria è vista come legata al passato, oggi si tende a non trascurare la dimensione del futuro, che permette di collegare la memoria alle categorie di responsabilità e di perdono. Memoria e società Sia in riferimento al passato, sia in riferimento al futuro, l’esercizio memoriale è chiamato a misurarsi con il principio responsabilità, che è tanto maggiore, quanto più la società è multiculturale, perché deve misurarsi con la compresenza di culture diverse che, proprio in nome delle diverse memorie, potrebbero ritenersi incompatibili e incomunicabili, per cui un impegno ormai improcrastina92 bile è quello di mostrare che, invece, si può e si deve andare oltre lo “scontro delle civiltà” come anche dello “scontro nelle civiltà”, realizzando “il dialogo fra le culture”: non dunque cancellandole o imponendone una sulle altre, ma permettendo che interagiscano, per cui si conservano e si modificano, dando magari luogo a nuove tradizioni. In questo contesto è da aggiungere che la memoria può avere anche una valenza sovversiva, sulla quale conviene richiamare l’attenzione, in quanto, diversamente dalle funzioni che sono di per sé evidenti e condivise, la dimensione rivoluzionaria della memoria appare tutt’altro che scontata. Così, di contro alla concezione, secondo cui la tradizione è fondata sulla ripetizione nella continuità, s’è fatta strada oggi la concezione per la quale la tradizione va invece fondata sulla consapevole ripresa delle differenze. Quindi oltre al carattere meramente retrospettivo - individuale della memoria, bisogna mettere l’accento anche sulle sue possibilità di trasformazione rivoluzionaria, e dunque (vi ha insistito Walter Benjamin) di rendere possibile l’istituzione di una nuova tradizione all’insegna del discontinuo. Ed è impostazione che torna non solo sul piano politico ma anche su quello teologico, per cui la memoria non appare esclusivamente legata a visioni continuistiche e conservatrici, ma sempre più viene ad assumere valenze liberatrici. In questa ottica è significativa l’opera di un teologo della liberazione come Battista Metz, secondo il quale proprio il radicamento in una “memoria assoluta” - l’evento salvifico della morte e risurrezione di Cristo - è in grado di rendere possibile sempre di nuovo l’inizio di una nuova storia di libertà, per cui la memoria ha una funzione rischiosa, capace di mettere in discussione l’ordine cristallizzatosi. Da quanto accennato consegue che la memoria, dal punto di vista sociale, può essere alla base di una impostazione caratterizzata da conservatorismo e tradizionalismo, ovvero da contestazione e 93 innovazione, a seconda dell’uso o dell’abuso che si fa della memoria. Un dibattito rinverdito oggi dalle posizioni di “comunitaristi” e “liberals” che legano l’identità rispettivamente al contesto delle comunità particolari o alla teoria dei diritti universali. La questione del perdono Una questione che si ritrova tanto a livello di memoria individuale quanto a livello di memoria collettiva è quella dell’oblio, cui ha riservato particolare attenzione Ricœur, il quale lo ha distinto in oblio profondo, che opera contro la memoria come ritenzione e conservazione, e in oblio manifesto, che opera contro la memoria come rimemorazione, richiamo; questo secondo livello dell’oblio viene distinto in tre diverse tipologie: l’oblio passivo è la coazione a ripetere, il passaggio all’atto che sostituisce il ricordo; l’oblio semi - attivo e quello semi - passivo rappresentano la fuga, un “non volerne sapere” ambiguo e irresponsabile; l’oblio attivo, proprio del racconto, è invece selettivo e risponde ad una necessità inerente al compito stesso di raccontare. Tra le forme di oblio attivo Ricoeur segnala il perdono, che è indirizzato alla colpa e il cui oggetto non è il passato come tale ma il suo senso. È un dono di riconciliazione che si offre, ma che lascia sempre il debitore o l’assassino insolvente. Per quanto l’agente valga sempre di più dei suoi atti, per quanto questi ultimi siano separabili da lui, per quanto egli possa fare dichiarazioni del suo pentimento e del suo rammarico, tali atti continuano comunque a seguirlo e a condannarlo. Ci troviamo allora collocati in un’economia al di fuori di ogni forma di scambio, un rapporto non commerciale: “l’amore ai nemici è la misura assoluta del dono, alla quale è associata l’idea di prestito senza speranza di ritorno”. A queste considerazioni Ricœur aggiunge l’idea di perdono difficile; al riguardo così si esprime: “il perdono difficile è quello che, prendendo sul serio il tragico dell’azione, punta alla radice degli 94 atti, alla fonte dei conflitti e dei torti che richiedono il perdono: non si tratta di cancellare un debito su una tabella dei conti, al livello di un bilancio contabile, si tratta di sciogliere dei nodi”. Il perdono inteso come perdono difficile è “il perdono esercitato in situazioni estreme, nei casi di torti irreparabili, il perdono è una forma di oblio che ci aiuta a ricordare meglio, a rivisitare le nostre tradizioni, è un prendere serenamente congedo da un passato che non vuole passare”. La memoria diventa così strumento per la costruzione di un futuro consapevole. Ambivalenza della memoria Tanto nella dimensione individuale, quanto in quella collettiva, la memoria ha una caratterizzazione ambivalente, nel senso che può avere una valenza positiva ovvero negativa. La memoria in senso positivo è quella che rende possibile una storia personale e una storia sociale, in quanto rispettivamente è condizione della identità individuale e della tradizione collettiva, per cui si può parlare di memoria biografica e di memoria storica. Inoltre appare senza dubbio positivo il fatto che (come ha sottolineato Ugo Perone) “l’esercizio memoriale, connettendosi alla compagnia di altri e di altro, fa sì che la condanna alla solitudine involontaria, che è per noi il male, si converta nella condizione della solitudine volontaria, che può essere per noi un bene. L’attività del ricordare genera una sorta di colloquio in cui siamo impegnati in una conversazione con noi stessi come altri. La memoria ci connette alla compagnia di altri e di altre vicende, allarga i confini, tratteggia una diversa geografia del sé, genera una metamorfosi del sé”. Invece, la memoria in senso negativo si ha in presenza di un peso eccessivo della memoria, per cui, dal punto di vista individuale, si cade in qualche forma di individualismo o narcisismo, e dal punto di vista sociale si dà luogo a forma di razzismo, nazionalismo, tribalismo o localismo. In estrema sintesi si potrebbe allora distin95 guere fra identità e egocentrismo, fra tradizione e tradizionalismo. Se negativo è l’eccesso di memoria, negativa è anche l’assenza di memoria che comporta una perdita di identità individuale e di appartenenza sociale. Ancora: negativa è pure una memoria, individuale o sociale, che pecchi di passatismo, che si ha quando la memoria diventa ostacolo per la progettualità, quando cioè si verifica una chiusura al futuro quale progetto esistenziale o collettivo. In tema di usi e abusi della memoria, è da segnalare che Ricoeur, nel secondo saggio su Passato, memoria, storia, oblio (1996), evidenzia che esiste una patologia della memoria, sia a livello sociale che personale, la cui condizione è la fragilità estrema dell’identità personale o collettiva. Troppa o troppo poca memoria sono le forme di un passato che resta ancora troppo legato al presente. È il «passato che non vuole passare». Secondo Ricoeur, un autentico lavoro della memoria deve prendere le distanze da questo tempo malato. La storia allora si aggancia alla memoria, sfrutta la sua capacità di distanziazione, e a sua volta esercita, per contraccolpo, una funzione critica su di essa, nel senso di una terapeutica delle sue patologie, e lo fa operando su tre livelli: la ricerca dei documenti, la spiegazione storica e la composizione dei grandi quadri storici cioè gli enormi affreschi narrativi di un’epoca. La memoria, d’altra parte, svolge il compito “di ricollocare la storia, in quanto disciplina puramente retrospettiva, nel movimento della coscienza storica”. Per una pedagogia della memoria L’importanza individuale e sociale della memoria e, insieme, la sua ambivalenza rendono la memoria oggetto di particolare attenzione dal punto di vista pedagogico, e in un triplice senso: come educazione della memoria, alla memoria e con la memoria. 96 Educare la memoria Per educare la memoria occorre tenere presente che la memoria non è una facoltà a se stante, bensì espressione ritentiva e selettiva dell’esperienza e coinvolge la persona nella sua individualità e integralità. Al riguardo può contribuire a chiarire la questione il fare riferimento, per esempio, alla vita sessuale quando è relazionale e non seriale, nel senso che, quando è relazionale, cioé effettivamente interpersonale, è caratterizzata da intimità e memoria all’insegna della “ripetizione” che rende “storia” l’esperienza, dove la memoria gioca un ruolo fondamentale; invece, quando è seriale è all’insegna delle “ripetitività” e produce solo “storie”, prive di un vero e proprio coinvolgimento. È pertanto necessario guardare alla memoria considerandola nel contesto della persona. A tal fine è da tenere presente che la memoria può essere cosciente e incosciente, volontaria e involontaria. Più precisamente possiamo dire che la memoria volontaria ci restituisce i ricordi come passato, che non è più; si tratta di una operazione della ragione relativa a fatti che non ci appartengono più. La memoria involontaria, invece, ci restituisce i ricordi: è operazione del cuore e ci permette di ritrovare l’io di un tempo. Oltre l’educazione della memoria della persona, occorre tenere presente l’educazione della memoria dal punto di vista sociale, essenziale per il senso di appartenenza, e per l’esercizio di una cittadinanza attiva, che richiede una comunanza memoriale. Il che oggi, nella società multiculturale, pone problemi di rispetto e di relazione tra diverse tradizioni memoriali; la impostazione interculturale rappresenta sotto questo profilo il tentativo di realizzare una memoria conservativa e, insieme, creativa. Dunque, l’importanza dell’educazione della memoria si rende evidente se siamo consapevoli che essa contribuisce in modo determinate alla costruzione della identità individuale e della identità collettiva. 97 Educare alla memoria E veniamo al secondo imperativo: educare alla memoria comporta una duplice operazione. In primo luogo, educare a ricordare ai fini di apprendimento nella consapevolezza che (per dirla con un famoso verso dantesco) “non fa scienza sanza lo ritenere avere inteso”. In secondo luogo, educare a ricordare ai fini esistenziali: in questa seconda prospettiva occorre tanto educare a ricordare quanto educare a dimenticare; in ogni caso si tratta di ricordare o dimenticare il positivo e il negativo memoriale, nella consapevolezza che “noi siamo ciò che ricordiamo e ciò che dimentichiamo”, ma - aggiungendo con Friedrich Nietzsche, (Considerazioni inattuali, III) - che “la serenità, la buona coscienza, la lieta azione, la fiducia nel futuro dipendono (...) dal fatto che si sappia tanto bene dimenticare al tempo giusto quanto ricordare al tempo giusto”. Educare alla memoria trova un ambito importante nel rapporto con le cose, distinguendo le cose dagli oggetti, in quanto le cose sono oggetti carichi di pensieri e di sentimenti. Al riguardo hanno dato indicazioni preziose almeno due autori: Remo Bodei, il quale ha parlato addirittura della “vita delle cose”, e Francesca Rigotti, la quale ha riflettuto sul “pensiero delle cose” e ha elaborato una “filosofia delle piccole cose”. In questo contesto, educare alla memoria comporta anche favorire un approccio pedagogico alla nostalgia, un sentimento importante dal punto di vista individuale, e non meno importante dal punto di vista sociale. Ancora una volta si tratta di non confondere la nostalgia con certi atteggiamenti “nostalgici”, e la distinzione è possibile chiarendo se la nostalgia apre sul passato in termini di impegno nel presente e nel futuro, ovvero chiude nel passato, paralizzando le capacità operative e progettuali. 98 Educare con la memoria Infine, per quanto riguarda l’educare con la memoria, può avvenire secondo due modalità diverse: l’esercizio memoriale e l’esercizio mnemonico. Per favorire quest’ultimo (che non va assolutamente disprezzato, ma intelligentemente esercitato) possono servire tecniche mnemoniche per facilitare l’apprendimento a memoria. Scolasticamente l’esercizio mnemonico può riguardare informazioni concettuali, dati quantitativi, date storiche, poesie e prose, parti teatrali: tutti elementi indispensabili della conoscenza da finalizzare alla formazione culturale, perché, se diventano fini a se stessi, si cade nel mnemonismo e nel nozionismo giustamente criticati. L’esercizio memoriale riguarda invece ricordi personali e ricordi collettivi, e può avvenire attraverso il metodo narrativo autobiografico o attraverso il confronto dialogico, su cui hanno insistito in particolare alcuni pedagogisti come Duccio Demetrio. L’insegnamento della storia può offrire al riguardo uno strumento privilegiato, se educa a evitare tanto l’apoteosi, quanto la damnatio memoriae. Fermo restando che non si possono identificare memoria e storia, torna utile ribadire quanto ha osservato Primo Levi (ne I sommersi e i salvati, I), vale a dire che “la memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace”, per cui l’antico detto “historia magistra vitae” ha un valore relativo, non solo perché risponde a una concezione circolare del tempo (se la storia si ripete abbiamo da imparare dalla lezione del passato), ma anche perché l’insegnamento che dalla memoria può venire deve invitare non alla ripetitività, bensì alla ripetizione. Costituisce una educazione con la memoria la celebrazione di alcune Giornate con le quali si vuole conservare e rinnovare la memoria non per risentimento, ma per evitare che certe tragedie si ripetano. La Giornata della memoria è stata istituita in Italia dalla legge n. 211 del 2000 per ricordare il dramma della Shoah. Da 99 parte dell’ONU è ricorrenza internazionale con risoluzione n. 60/7 del 2005. Si celebra il 27 gennaio, perché in questa data nel 1945 avvenne la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz. Invece il Giorno del ricordo è stato istituito in Italia dalla legge n. 92 del 2004 in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano - dalmata. Questa solennità civile nazionale è celebrata il 10 febbraio. Occorre aggiungere che un ostacolo a tali celebrazioni è rappresentato per un verso dalle strumentalizzazioni ideologiche, e per altro verso dal cosiddetto revisionismo storiografico, e attualmente è questo piuttosto che quelle a inquinare la memoria e la storia. Converrebbe tenere presente che (come ha avvertito Avishai Margalit ne L’etica della memoria) “la memoria è conoscenza che viene dal passato, non è necessariamente conoscenza sul passato”. In ogni caso non si deve ricordare per rimanere “prigionieri del passato”, ma per sprigionare dal passato tutte quelle energie critiche e creative, grazie alle quali non ci si può “fermare” al passato, ma bisogna “ripartire” dal passato. Per terminare su questo punto, ci piace riportare una pagina di un grande scrittore del ’900, Giovanni Arpino, il quale fornisce un invito pregnante. In un suo articolo intitolato Sapere e ricordare (poi ripubblicato nel volume Ritratti) Arpino scriveva circa trent’anni or sono (e le sue parole nulla hanno perduto in attualità): “Dobbiamo non dormire, non dimenticare. La più grande vendetta che possiamo infliggere ai cavalieri dell’Apocalisse, ai profeti di sventura, agli squadroni della morte, è la solerzia della nostra memoria, l’unica che non concede attenuanti, non propone amnistie. L’uomo saggio, l’uomo buono è da sempre figlio dei propri ricordi. Ed in questo secolo sanguinoso (il ’900), che ci ha figliato, ogni ricordo è una pepita d’oro, pesantissima ma necessaria. Anche contro le nostre memorie gli squadroni della morte combattono. Per cancellare non solo ciò che è, ma ciò che è stato e ha connaturato 100 l’uomo. Per uccidere in noi non solo le nostre possibilità di vita, ma ogni grazia che fu, ogni sorriso che ci appartenne, ogni carezza che ci lusingò. Non possiamo dimenticare un solo volto ferito, un solo sparo omicida. La nostra memoria deve alzare muri invalicabili: è la vera risorsa per proteggerci, al di là dei soliti virtuosismi sulle ricette politiche, sugli appelli sdegnai. Mai come oggi dobbiamo ripeterci: uomo ricordati di ricordare. I cervelli apocalittici vogliono imporre il loro caos, calarcelo addosso come un destino. Ma noi siamo uomini e non mostri, non fanatici figli e padri di morte. Sapere e ricordare sono le nostre armi. Non abbandoniamole mai”. Ripensare la memoria Avviandomi a concludere, vorrei adattare al nostro caso una definizione che, della società contemporanea, è stata data in altro contesto, ossia che è una “società della stanchezza”, definizione con cui vogliamo dire che siamo in presenza di una società che è stanca di ricordare per un verso e che è stanca di progettare per l’altro, per cui la società appare rispettivamente scoraggiata e sfiduciata, giacché occorre coraggio a ricordare, e occorre fiducia a progettare; il che poi significa avere il senso del passato e il senso del futuro con cui si dà senso anche al presente. Invece, secondo Han Byung - Chul (autore de La società della stanchezza), l’attuale società è una società caratterizzata dalla competizione esasperata che si esaurisce in un presente frenetico, che è un presente piatto, perché non è anche presente del passato e presente del futuro, cioè non è un presente che fa essere ciò che non è più e ciò che non è ancora, come ebbe magistralmente a chiarire Agostino (ne Le confessioni) interrogandosi sul tempo. Dunque, per non essere banalizzato, il presente va riconosciuto nella triplice dimensione di presente del passato come memoria, presente del presente come attenzione, e presente del futuro come attesa. In particolare, va aggiunto, sulla scorta di Bergson, che la 101 memoria come ricordo del passato non deve determinare una regressione dal presente al passato, ma un progresso dal passato verso il presente, e, sulla scorta di Benjamin, che la memoria non ha carattere meramente retrospettivo - individuale, bensì ha possibilità di trasformazione rivoluzionaria, e dunque di rendere possibile l’istituzione di una nuova tradizione all’insegna del discontinuo. Dal canto suo, con Ricoeur dobbiamo collocare la memoria tra due dimensioni che egli chiama “passeità” e “futurità”. In breve, la memoria va vista in relazione alla triplice articolazione del tempo, ed è così che rivela il suo carattere non passatista né conservatore, ma innovativo o, addirittura, sovversivo. Forse può aiutare a comprendere una tale portata della memoria una distinzione lessicale, quella tra carattere “mnemonico” e carattere “memoriale”: nel primo caso potremmo dire che abbiamo una memoria “fredda” che si limita, come un “doganiere”, a registrare e a richiamare; nel secondo caso invece abbiamo una memoria “calda”, che si fa “compagna” della nostra esistenza, contribuendo alla sua edificazione come soggettività individuale e soggettività collettiva. La memoria va allora vista oltre che nella sua dimensione “biologica”, anche in quella “biografica” e “culturale”, cioè come elemento essenziale per la individuazione della identità: della identità delle persone e della identità delle società. Conclusione Ciò comporta che la memoria sia certamente studiata, dal punto di vista scientifico, ma evitandone la “naturalizzazione”, che esaurisce la memoria nella pur necessaria caratterizzazione fisiologica e patologica. Per questo abbiamo detto che, oltre il contributo delle scienze: psicologiche (Oliverio, Longoni, Brandimomte) e sociali (da Halbwachs, ad Assmann, a. Margalit, a Ferrrarotti), neurologiche (Lurjia e R. Dawkins) e psicoanalitiche (Freud), occorre tenere presente altri approcci. 102 Quello dell’arte: la “ricerca del tempo perduto” di Proust diventa estremamente sollecitante e arricchente con il suo intreccio di memoria e oblio, ma si può tenere presente in altra misura anche la “poetica della rimembranza” di Giacomo Leopardi e la “poetica della memoria” di Giovanni Pascoli. Ma non dovrebbero essere trascurate altre opere novecentesche di scrittori come Kafka, Joyce e Borges. L’approccio religioso con l’ebraismo richiama il primato della memoria in senso ontologico (della condizione umana) e in senso culturale (della identità sociale); basti ricordare uno studioso solo: Yerushalmi; e con il cristianesimo insiste sul binomio ricordare perdonare e sulla distinzione tra memoria relativa, quella dei ricordi, e la memoria assoluta, quella fondata sull’evento salvifico di Cristo: anche qui un nome soltanto: Metz. Infine è da segnalare la filosofia, la quale da sempre presta attenzione alla memoria, vuoi nell’ottica ontologica (da Platone ad Agostino a Heidegger), vuoi nell’ottica gnoseologica: sia classica (da Aristotele a Tommaso), sia moderna (da Locke a Hume). Ma è soprattutto nella contemporaneità che il problema della memoria ha conosciuto una rinnovata riflessione con tutta una serie di pensatori: da Husserl a Bergson, da Benjamin a Bloch, a Ricoeur, e tra gli italiani: da Rossi a Perone, da Bodei a Ferraris. In particolare ci sembra che a Ricoeur si debbano le riflessioni più articolate, che hanno tenuto conto di tante acquisizioni non da contrapporre ma da integrare: il che vale specialmente in riferimento al problema che qui interessa, vale a dire l’identità personale e quella collettiva. È merito di Ricoeur aver rilevato che, se è vero che la memoria è del passato, occorre chiarire che cosa questo significhi, evidenziando che il passato non va considerato indipendente dal futuro. Ricoeur parla allora di “passeità” (come “essente stato” e “non esser più”), per cui l’idea di perdita non ha semplicemente carattere privativo, ma condizionante come oblio, che appare così 103 come condizione di possibilità della memoria e della storia. Si delinea allora il progetto di una “futurità” come apertura al proprio, al prossimo e al lontano. Così nella storia s’incrociano passato e futuro, influenzandosi reciprocamente, e la dialettica colpa - perdono diventa essenziale chiave ermeneutica. Da qui la rivendicazione biografica e storica della identità che la memoria contribuisce a elaborare. Ed è questione che oggi conosce una inedita rilevanza, dato che la nostra epoca si caratterizza come “età del narcisismo” per un verso e come “età della globalizzazione” per l’altro. Si potrebbe infatti dire, applicando alla questione della identità individuale e collettiva, che anche in questi casi siamo in presenza di una identità liquida (per usare l’aggettivo caro a Bauman). Il che, se letto in termini di perdita di solidità come rigidità, può costituire una accettabile “liquefazione”, mentre inaccettabile sarebbe la “liquidazione” della identità individuale e collettiva. Anzi al riguardo è da dire che proprio di una rinnovata rivendicazione identitaria c’è bisogno oggi, dal momento che “il trionfo dell’individualismo” determina “la morte dell’individuo”, e la convivenza civile è a rischio per il venir meno del senso di una comunanza territoriale e valoriale che è il fondamento della cittadinanza. La massificazione, che si sposa all’individualismo, e la globalizzazione, che si sposa al localismo, costituiscono fenomeni preoccupanti sul piano della identità delle persone e delle collettività. E la cosa è anche più grave, se si aggiunge che, di fronte a tali tendenze, c’è un atteggiamento di indifferenza, che nasconde scoraggiamento e sfiducia, quei due atteggiamenti che collegavamo alla cosiddetta “società della stanchezza” come società che si esaurisce in un presente tanto frenetico quanto cinico. Certamente, nel denunciare questo, è necessario essere consapevoli dell’ambivalenza della memoria: della sua positività, ma anche della sua negatività, del suo valore e dei suoi limiti, delle sue possibilità e dei suoi rischi; per dirla nel modo più sintetico, negativa 104 è la memoria che chiude, positiva la memoria che apre. Con questo spirito va coltivata una triplice educazione: della memoria (nell’ottica della persona, perché la memoria coinvolge non una facoltà, ma l’intera persona); alla memoria (e si tratta allora di educare a ricordare e di educare a dimenticare); con la memoria (in chiave non solo mnemonica ma soprattutto memoriale); in questa ottica, la dimensione narrativo - autobiografica e storico - orale può contribuire ad una efficace pedagogia della memoria, a cui si potrebbe utilmente aggiungere una inedita pedagogia delle cose (cioè di quegli oggetti ricchi dal punto di vista affettivo ed emozionale, e quindi significativi in ottica memoriale), addirittura delle piccole cose; ed è una pedagogia impossibile da costruirsi senza un esercizio della memoria come espressione della persona globale nel contesto di una articolata temporalità, che aiuta a interrogarsi sui ricordi, rimorsi e rimpianti, sulle azioni e sulle omissioni: tanto dal punto di vista individuale, quanto da quello sociale. A quest’ultimo riguardo sono da tenere presenti le Giornate della memoria e del ricordo come momenti preziosi per un approccio al passato che, senza cedere a liturgie ripetitive, sappiano responsabilizzare. E, al di là di ricorrenze specifiche, si tratta di aprirsi al passato per aprirsi al presente e al futuro; si tratta di muovere dal passato e di camminare nel presente e proiettarsi nell’avvenire, avendo presente quanto ha ben sintetizzato il cardinale Carlo M. Martini (citato da Salvatore Veca): “Se la memoria delle radici del passato si fa debole, l’esperienza del presente diviene frammentaria e prevale il senso della solitudine. Ciascuno si sente più solo. La fatica di vivere e interpretare il presente si proietta sull’immagine di futuro di ciascuno che risulta sbiadita e incerta. Del futuro si ha più paura che desiderio”. 105 Bibliografia sulla Memoria Dal punto di vista multidisciplinare Aa. Vv., Identità. 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I media e il ricorso degli avvenimenti 108 pubblici, Carocci, Roma 2010 Daniela Cecchin - Matteo Gentilini (a cura di), Mass media e memoria: la memoria strappata: contese e (con)testi, Atti, Fondazione Museo Storico del Trentino, Trento 2009 Dal punto di vista religioso Johan Baptiste Metz, Natale: memoria liberatrice, trad. ital., Queriniana, Brescia 1971; Id., Memoria passionis: un ricordo provocatorio nella società pluralista, trad. ital., Queriniana, Brescia 2009; Id., La fede nella storia e nella società, trad. ital., Queriniana, Brescia 1978 Bruno Forte, La teologia come compagnia, memoria e profezia. Introduzione al senso e al metodo della teologia come storia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996 Antonella Lumini, Memoria profonda e risveglio. Itinerario per una meditazione cristiana, LEF, Firenze 2008 Giovanni Paolo II, Memoria e identità, Rizzoli, Milano 2005 Luigi Giussani, Moralità: memoria e desiderio, Jaca Book, Milano. 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Le tracce del passato nel divenire dell’uomo, La Scuola , Brescia 2006 Ilaria Moroni, Bambini e adulti si raccontano. Formazione e ricerca autobiografica a scuola, Angeli, Milano 2006 109 Giancarlo Galeazzi, direttore scientifico del Festival del pensiero plurale (Foto di Roberto Recanatesi) 110 IL TEMPO come condizione e occasione Ad Alessandro Premessa Per riflettere sul tempo, un inizio quasi obbligato è la citazione del passo delle Confessioni di sant’Agostino, il quale alla domanda “Che cos’è il tempo?” rispondeva: “lo so finché nessuno me lo chiede, non lo so più se volessi spiegarlo a chi me lo chiede”. In queste poche parole sono sintetizzate nel modo migliore per un verso la insostituibilità del tempo, e per altro verso la sua complessità. Dell’una e dell’altra si fa esperienza diretta e quotidiana da parte di tutti, ma filosofi, scienziati, teologi e scrittori sanno, in modo proprio, evidenziarle, per cui torna utile confrontarsi con la loro riflessione, rappresentazione, spiegazione o intuizione che sia. Da una tale operazione scaturisce una consapevolezza: che del tempo si danno molteplici configurazioni (soggettive e oggettive) e valutazioni (positive e negative), tanto che alla domanda “Che cos’è il tempo” potremmo rispondere con il personaggio Giovanni Castorps de La montagna incantata di Thomas Mann: “è un mistero; un mistero privo di essenza, inafferrabile e potente”, o appellandoci ancora a un filosofo anche lui del ’900, Edmund Husserl, dire, quasi ripetendo sant’Agostino: “naturalmente, cosa sia il tempo, lo sappiamo tutti: è la cosa più notoria di questo mondo. Tuttavia, non appena facciamo il tentativo di renderci conto della coscienza del tempo, di porre nel loro giusto rapporto il tempo oggettivo e la coscienza soggettiva del tempo, di renderci comprensibile come l’oggettività temporale, e quindi l’oggettività individuale in genere, possa costituirsi nella coscienza soggettiva del tempo, anzi non ap111 pena tentiamo di analizzare la coscienza puramente soggettiva del tempo, l’importo fenomenologico dei vissuti del tempo, ecco che ci avvolgiamo nelle più strane difficoltà, contraddizioni, confusioni”. Insomma, dopo millecinquecento anni dalla convinzione espressa da Agostino, viene ribadita la difficoltà di parlare del tempo. L’interrogativo posto a titolo dell’odierno incontro: “Il tempo: nemico o compagno?” vuole, appunto, in maniera un po’ provocatoria rendere avvertiti di questa difficoltà di definizione e di comprensione, perché la risposta può vedere il tempo nella sua dimensione “ostile”, cioè “distruttiva” (tempus fugit) o in quella “ospitale”, cioè “costruttiva” (il tempo è vita), ovvero nell’una e nell’altra. Una tale polisemia del tempo è d’altra parte rintracciabile fin dal punto di vista lessicale (dove si distingue tra aion, chronos, kairos) o nelle diverse accezioni che del tempo si danno (come tempo sacro e tempo profano, tempo neutro e tempo debito, tempo anonimo e tempo autentico, tempo naturale e tempo storico, tempo delle cose e tempo della persona, ecc.) o in alcuni ricorrenti modi di dire a prima vista contraddittori (come tempo tiranno e tempo galantuomo, tempo che vola e tempo che non passa mai, ecc.). Questi ed altri significati del tempo aiutano ad affrontare la questione del tempo, evitandone la semplificazione, che si ha quando lo si identifica con il semplice divenire, e come sua misura. Quindi, per comprendere queste ed altre distinzioni, è necessario prendere in considerazione la struttura del tempo (cioè le sue componenti e le sue condizioni) e gli approcci al tempo (filosofico, religioso, scientifico e artistico): di tutto questo si parlerà nella prima parte della relazione dedicata ai significati del tempo, mentre nella seconda parte prenderemo in esame il tempo nel nostro tempo, per mostrare come il tempo si rapporti ai fondamentali (verità, felicità e bellezza), come il tempo influisca sulla persona (con riguardo alla vita, alla identità e alla libertà), e sulla società (con riguardo alla velocità, alle relazioni e all’educazione). 112 Parte prima Significati del tempo Struttura del tempo Tipologia Vanno preliminarmente operate alcune distinzioni a partire da quella che distingue tra tempo immobile, cioè l’eternità (in greco aion, in latino aeternitas), che è dimensione atemporale o sovratemporale; e tempo mobile, cioè diveniente (in greco chronos e kairos, in latino tempus), che è la dimensione propriamente temporale, la quale è poi da distinguere in tempo come fatalità o distruzione (chronos) e tempo come occasione o costruzione (kairos). Oppure si potrebbe distinguere fra: tempo aionico, cioè come durata coscienziale, qualitativa, incommensurabile; tempo cronologico, cioè successione cronometrica, quantitativa, omogenea; tempo kairologico, sia in senso laico come tempo debito, sia in senso religioso come tempo propizio. Gli scrittori, che hanno incentrato la loro opera sulla temporalità - a cominciare da Marcel Proust con la sua opera Alla ricerca del tempo perduto - ci rendono avvertiti di una distinzione, di cui peraltro tutti fanno esperienza, vale a dire che un conto è il tempo misurato con strumenti oggettivi e un conto è il tempo vissuto nella esperienza personale. Altre distinzioni riguardano il tempo circolare o ciclico (greco - romano) e il tempo lineare o storico (ebraico - cristiano), ovvero il tempo ciclico e puntiforme e il tempo cronometrico o lineare, ovvero il tempo cosmico e il tempo storico; o anche il tempo sacro e il tempo profano. In questa relazione, terremo presente soprattutto la distinzione tra tempo misurato, che è dato dalla rappresentazione del tempo, e tempo vissuto che è dato dalla percezione del tempo. Prima, però, riteniamo utile operare delle precisazioni di carattere etimologico riguardo ai termini aion, chronos e kairos, e lo facciamo sulla scorta di due importanti libri. quello di Annapaola 113 Zaccaria Ruggiu che ha studiato queste forme del tempo nel volume omonimo del 2006 (che è stato presentato e sintetizzato da Francesco Verde sul “Giornale di filosofia” nel 2008) e quello di Enzo Degani nel suo libro su Aion (recensito da Massimo Pulpito su “Eikasmos” nel 2003). Che il tempo si possa dire in molti modi, appare chiaro fin dall’antichità; in particolare il mondo antico greco e romano ha definito le forme del tempo, cioè le modalità di declinazione di un concetto apparentemente monocorde. Iniziamo con la polivocità lessicale di aion. Con il termine aion si indicava, da un lato, l’eternità in opposizione agli aspetti durativi della temporalità e, dall’altro, l’eternità che si declina nella durata del tempo, passato presente e futuro. In precedenza (in Omero e nella tradizione epica) aion indicava la forza vitale e dunque, in senso traslato, la vita, il tempo e la durata della vita. Si tratta di un significato molto frequente nel mondo greco che si trasferirà al mondo romano; anche in età ellenistica il significato di aion come tempo della vita non scompare ma anzi, intrecciandosi con ulteriori significati di carattere filosofico e religioso, ritorna (per esempio: nel nome della grande processione di Alessandria organizzata da Tolomeo II Filadelfo e dedicata a eniautos (l’anno) e ad aion; anche nel mondo romano Cornelius Labeo riconduce il nome Januar ad Aionarios). Dopo Aristotele, la distinzione tra aion e chronos si attestò come contrapposizione tra tempo sacro e tempo profano. Da questa acquisizione del termine nella sfera religiosa, si passò rapidamente alla trasformazione della nozione da esso espressa in una vera e propria divinità, oggetto di culto nel mondo ellenistico e romano. Ci sono tracce di questa deificazione già ai tempi di Aristotele e varie saranno le forme della rappresentazione del dio Aion, che impersonava l’eternità intesa come perpetua fecondità, e per questa ragione, assorbito nel pantheon imperiale. La confluenza dei vari significati di aion nella letteratura cristia114 na diede adito ad equivoci e controversie. Da un lato si presentò la questione della corretta traduzione greca delle Sacre Scritture, che comportò una grande instabilità terminologica, conseguente all’incertezza dello stesso aion; dall’altro vi fu la discussione tra i primi pensatori cristiani sul significato proprio del termine aion, valutato in coerenza con la propria concezione dell’eternità divina. È all’interno di queste controversie patristiche che si misurano i due significati dell’eternità - aion: quello aristotelico e quello (neo-) platonico; ossia l’eternità come durata infinita, e l’eternità come a-temporalità, il nyn nel quale Dio coglie tutta la storia universale. Occorre, dunque, distinguere, l’idea di un tempo “aionico”, eternamente fecondo contro l’idea di un tempo “saturnino”, divoratore e distruttore: tale è chronos. Ma, già prima che chronos fosse contrapposto ad aion come ciò che è profano a ciò che è divino, esso aveva un valore del tutto estraneo alla sfera del sacro (ad esempio in Omero). Vi fu, in seguito, una fase di divinizzazione sotto l’influenza delle teogonie orfiche di probabile origine orientale. Un senso nuovamente profano avrebbe assunto la nozione di Chronos con l’opera di Anassagora, per il quale il tempo non è il destino, ma la dimensione dell’azione dell’uomo nel mondo. “Il chronos di Anassagora è dunque il tempo dell’uomo, il suo alleato. Ed in questa nuova accezione il termine finisce ben presto per diventare tecnico. [...] Questo era il Chronos che Platone, quando distinse nel Timeo il concetto di un tempo immobile e divino da quello di un tempo mobile e profano, aveva a disposizione”. Come nel caso di aion anche kairos è un termine di difficile traduzione. Le consuete traduzioni, quali “occasione”, “momento opportuno”, tradiscono almeno in parte la specificità del kairos, che è - a differenza di aion - un momento breve, istantaneo, addirittura contratto e per questo quasi irripetibile. Esiodo mette in relazione la sequela delle leggi con il kairos che è per ogni cosa l’ottimo; con questo termine, dunque, Esiodo intende descrivere una nozione di 115 tempo qualitativa: per ogni cosa esiste un momento di compiutezza e di pienezza. Si comprendono allora le espressioni di Pindaro secondo il quale kairos è il punto culminante di qualsiasi cosa e di Sofocle che lo identifica con l’ordinatore di ogni grande opera. Questo termine, dunque, va man mano arricchendosi di sfumature sempre nuove e di accezioni precise; indica, infatti, il momento ottimale per ogni cosa, il punto culminante ma soprattutto lo spazio decisionale per un’azione che intende andare a buon fine e, dunque, raggiungere il proprio telos. Ma l’aspetto puntuale della decisione e il carattere culminante di ogni cosa non può essere disgiunto - soprattutto in campo etico - dalla misura. Non a caso ai Sette Sapienti viene attribuita la sentenza conosci il kairos, il cui significato può essere reso più intuitivo se accostata alla massima di Solone nulla di troppo. Per questo Democrito poteva invitare ad afferrare l’occasione, il momento giusto in cui l’azione raggiunge il suo scopo perché tutto è a questo proporzionato e commisurato. In Aristotele il kairos è connesso alla teoria dell’azione e, come si legge nell’Etica Nicomachea, kairos è la declinazione del bene del tempo proprio perché “l’agire deve allora riferirsi al kairos, al momento opportuno, cioè deve afferrare il tempo debito quando esso viene a maturazione e decidere l’azione”. Componenti e condizioni Dal punto di vista della struttura del tempo, l’articolazione agostiniana fornisce uno schema efficace, anche se da rivedere. Infatti la triplice distinzione in passato, presente e futuro si può ancora ripetere, ma attribuendo nuovi significati a queste tre dimensioni e alle loro relazioni. Nell’ottica agostiniana si rilevava la inconsistenza ontologica delle tre dimensioni, considerandole reali sulla base di un soggetto capace di ricordare, essere attento e aspettare, e che quindi rende presente il passato, il presente e il futuro; l’agostiniana distentio animi porta a individuare nel cambiamento e nella 116 coscienza le due condizioni che permettono di parlare del tempo, legandolo così al mondo che diviene e all’uomo che ne è consapevole. Pertanto il tempo è legato alla creazione, non c’è prima di essa, e quindi non ha senso chiedersi che cosa facesse Dio prima di creare il mondo se non per rispondere scherzosamente che pensava di mandare all’inferno quelli che avessero fatto tale domanda. Fin qui Agostino, il cui schema non può essere semplicemente ripetuto, perché tanto le tre componenti quanto la loro relazione vanno rilette alla luce della riflessione contemporanea, e lo stesso linguaggio con i suoi neologismi indica chiaramente un altro orizzonte; termini come “passeità” o “futurità” stanno a indicare nuove dimensioni temporali, per non dire poi del rapporto fra le tre dimensioni temporali, delle relative operazioni (memoria, attenzione, attesa), del privilegiamento di una dimensione sull’altra (per esempio, il passato privilegiato nella premodernità, il futuro nella modernità, il presente nella postmodernità portano a una differente configurazione del tempo), della connotazione della velocità (come accelerazione ovvero come lentezza). Si pensi, tanto per esemplificare all’idea di memoria in Bergson, secondo il quale la memoria “non consiste affatto in una regressione dal presente al passato, ma al contrario in un progresso dal passato al presente”, oppure si pensi all’idea di passato che Paul Ricoeur colloca in una più vasta dialettica delle tre dimensioni temporali, costruita allo scopo di mantenere passato, presente e futuro allo stesso livello di originarietà, e di denunciare al tempo stesso l’impossibilità di una loro totalizzazione; per Ricœur è inadeguata la scelta di considerare il passato indipendentemente dal futuro. Queste ed altre considerazioni - come, per esempio, quella relativa alla responsabilità nei confronti delle generazioni passate, presenti e future (Ricoeur, Levinas, Jonas) - arricchiscono ulteriormente la riflessione sulla struttura del tempo. E con ciò siamo già di fronte all’approccio filosofico al tempo cui adesso faremo rife117 rimento per passare poi agli altri approcci: scientifico, religioso e artistico. Approcci al tempo Filosofia Dal punto di vista filosofico il concetto di tempo è stato diversamente concepito: i principali significati possono essere così identificati. Il tempo come mutamento si ritrova nella linea di Platone e Plotino che privilegiano il rapporto tempo ed eternità. Platone nel Timeo oppone all’eternità del modello ideale della creazione, la temporalità del mondo plasmato dal demiurgo. Il tempo (chronos), pur non avendo gli stessi caratteri dell’eterno (aion), poiché è in movimento, mentre l’eterno è immobile, è comunque una sua immagine. Il tempo infatti, con il cielo, ha un andamento ciclico, torna su se stesso: il movimento circolare è il più perfetto, e in qualche modo, imita l’eternità, e per questo esso è un’immagine mobile dell’eternità. Ne consegue che all’eterno modello ideale non si addicono i verbi al passato e al futuro: questi sono tutti movimenti e come tali rientrano nella sfera del tempo: dell’eternità dovrà dirsi solo che “è”. Platone, dunque, non definisce soltanto (e per la prima volta nella storia del pensiero) il tempo, ma chiarisce anche la nozione di eternità come extratemporalità. I neoplatonici si sono mantenuti fedeli all’idea platonica di eternità. Così, nelle Enneadi, Plotino attribuisce all’Anima la temporalità della durata, essendo tale ipostasi più a contatto con il mondo sensibile, e al Nous l’eternità a - temporale: significativamente Plotino scrive che per indagare il tempo si deve discendere dall’eternità. Il tempo come misurazione caratterizza l’impostazione da Aristotele a Kant. I capitoli che Aristotele dedica al tempo nel libro IV della Fi- 118 sica pongono molteplici questioni. Secondo alcuni, la differenza con Platone non risiede tanto nel fatto che Aristotele abbandoni il concetto di atemporalità in favore dell’infinità temporale, quanto nella distanza che separa l’analisi aristotelica del tempo dalla definizione platonica; in altre parole, la differenza sta nella concezione del tempo e non in quella dell’eternità: per Aristotele il tempo non è il movimento che imita l’eternità (il circolo) come in Platone, ma il numero del movimento: non un movimento tra gli altri (fosse anche il più perfetto), ma qualcosa del movimento, e soprattutto di ogni movimento, anche di quelli imperfetti. Dunque, al fondo delle due concezioni vi è un motivo teorico comune, e cioè l’idea che il tempo sia l’“ordine” del divenire (per Platone il tempo procede secondo il numero, per Aristotele il tempo è numero del movimento), ma esse differiscono per le soluzioni proposte, e Aristotele ne era consapevole. Secondo alcuni, il concetto aristotelico di tempo risulta chiaro solo se viene connesso alla nozione di kinesis, il movimento,;infatti la continuità del tempo si spiega solo facendo riferimento alla continuità del movimento che a sua volta è giustificata dalla continuità dello spazio. Il tempo dunque non può essere numerato ma solo ordinato. Per Kant, sulla base della rivoluzione copernicana enunciata nella Critica della ragione pura, il tempo è forma trascendentale della conoscenza sensibile; è quindi forma trascendentale della ragione e (insieme con lo spazio) rende possibile un primo approccio all’esperienza empirica, e (diversamente dallo spazio) apre alle categorie (che sono le forme trascendentali della conoscenza intellettiva). Il tempo come coscienza è tipico della concezione che da Agostino giunge a Bergson, per cui, secondo Agostino, il tempo ha una connotazione soggettiva come capacità del soggetto di esercitare la memoria, l’attenzione e l’attesa. Henri Bergson distingue tra visione scientifica del “tempo”, definito “tempo spazializzato” e visione coscienziale del tempo definito “tempo durata”, che viene rappre119 sentato come una successione lineare; mentre la linea è immobile, il tempo è mobilità: è ciò per cui ogni cosa si fa. Se Bergson parlava di “durata”, Edmund Husserl parla di “corrente dell’esperienza”, in riferimento al “tempo fenomenologico” e sostiene che “ogni effettiva esperienza vissuta è necessariamente qualcosa che dura; e con questa durata si inserisce in un infinito continuo di durate, in un continuo pieno. Essa ha necessariamente un orizzonte temporale attualmente infinito da ogni parte. Ciò significa che appartiene ad un’infinita corrente di esperienze vissute. Ogni singola esperienza vissuta, come può cominciare così può finire e chiudere la sua durata, ma la corrente delle esperienze non può né cominciare né finire”. Mentre queste due concezioni si fondano sul primato del “presente”, la teoria di Martin Heidegger riconosce il primato dell’“avvenire”, interpretando il tempo in termini di “possibilità” o di “progettazione”, nel senso che il tempo è “struttura delle possibilità” che però conclude nel nulla in quanto “essere - per - la - morte”. L’impostazione heideggeriana ha avuto molteplici sviluppi. Una linea di tendenza tra le più significative della filosofia contemporanea è quella incentrata su una ontologia e una antropologia che concepiscono l’essere e l’esserci come essenzialmente temporali: così la categoria di “evento” connota l’essere, e quella di “finitudine” l’uomo, caratterizzato come essere finito e fragile destinato alla morte e, quindi, al nulla. A partire da questa concezione di ascendenza heideggeriana, si sono sviluppate varie filosofie: accenniamo a due, che hanno trovato espressione in pensatori italiani come Gianni Vattimo e Salvatore Natoli. Il teorico della “ontologia dell’attualità” elabora tra nichilismo ed ermeneutica un “pensiero debole”, che dal punto di vista etico privilegia la virtù della pietas, della solidarietà: è il primato della carità, connotata come postcristiana, che si sostituisce al primato (premoderno) della verità e a quello (moderno) della libertà. Invece il teorico del “neopaganesimo elabora una concezione tra neoaristotelismo e neostoicismo, 120 che dal punto di vista etico mira alla realizzazione immanente della finitezza umana; denunciando l’esigenza dell’infinito come una malattia, tale umanesimo incentrato sull’idea di “limite”, vuole essere neopagano e postcristiano. In entrambi i casi, dunque, la temporalità è alla base di queste etiche della finitezza umana, che si connotano come postcristiane. Dal canto suo, il pensiero cristiano ripropone l’idea di finitezza ma come “creaturalità” e, quindi, come dipendenza ontologica (l’essere è l’essere e gli esseri hanno l’essere, aveva detto sant’Agostino; il creatore è l’essere sussistente, e le creature l’essere dipendente, aveva detto san Tommaso), ma si tratta di una dipendenza che è frutto di amore (la creazione, la redenzione) e l’amore è vita, è dono, è libertà, per cui - come ricorda Roberto Mancini - l’uomo è un esserci per la vita e non un esserci per la morte, è un esserci per il futuro, attraverso la morte. A prescindere dalle specifiche concezioni, possiamo dire che il tempo filosoficamente si configura come realtà oggettiva: tale è il tempo cronometrico, che ci misura perché siamo corpo (presente); e come realtà soggettiva: tale è il tempo costituito dalla coscienza (presenza), che esercitiamo attraverso la distensio articolata in memoria, attenzione e attesa; in particolare la “costituzione” del tempo è una forma di appropriazione che si traduce nel fare memoria, che è più del semplice ricordo, per cui, rivivendo il passato, possiamo trasformare il modo nel quale esso influisce sul nostro presente, e nel fare progetto, per cui imprimiamo, per quanto possibile, una direzione al futuro, in modo che non sia totalmente arbitrario; diversamente neutralizziamo la preoccupazione attraverso il di - vertimento, per cui si opera una frammentazione di tempo e di senso per evadere dalla prospettiva della morte. Ma è in riferimento alla nostra epoca di globalizzazione che il tempo appare fattore decisamente innovativo. Al riguardo un giovane studioso, Diego Fusaro, ha usato delle espressioni che sin121 tetizzano efficacemente alcune peculiarità del nostro tempo come modernità irrequieta, caratterizzata da fretta, da impazienza della storia, da ipertrofia dell’aspettativa, da velocizzazione della tecnica, della scienza e della produzione, da dialettica dell’impazienza, da accelerazione dei ritmi di vita, da sindrome della fretta, da strategie dell’alta velocità, da astuzia dell’accelerazione, da cronopolitiche della fretta, da disagio della velocità, da tirannia dell’istante, da fretta globalizzata, da accelerazione postmoderna, da cairologia consumistica, da eternizzazione del presente, e da desertificazione dell’avvenire. Abbiamo voluto riportare alcuni dei titoli dei capitoli e paragrafi del libro di Fusaro Essere e tempo, perché il suo linguaggio permette di farsi con immediatezza una idea dell’odierna situazione sociale sulla base del tempo. Scienza Dal punto di vista scientifico, il tempo può essere fatto oggetto delle scienze fisiche (cosmologiche e metereologiche) e di quelle umane (psicologiche e sociali). Per le scienze naturali, sono da citare Galileo Galilei e Isaac Newton, i quali distinsero tra il “tempo assoluto”, cioè oggettivo, esteriore, reale, fisico, che è scientificamente misurabile attraverso appositi strumenti di calcolo, ed il “tempo relativo”, che è invece soggettivo, interiore, non suscettibile d’essere oggettivato, vale a dire misurato e calcolato per mezzo di congegni meccanici o di criteri scientifici rigorosi, di precisione matematica. Successivamente Albert Einstein ha enunciato la “relatività” della misurazione temporale, vale a dire la “relatività” del “tempo oggettivo”, quantificabile e misurabile in chiave matematico - scientifica, senza però intaccare, rinnovare o mutare alla radice, il concetto classico e tradizionale del “tempo” in quanto “ordine di successione”, bensì negando che tale ordine di successione fosse unico ed assoluto. Tre grandi teorie vanno allora tenute presenti nella concezione 122 cosmologica del tempo: la relatività ristretta (1905), la relatività generale (1915) e la meccanica quantistica (1925 - 26). Ebbene, si deve ad Albert Einstein l’idea di considerare nel 1905 il tempo combinato con lo spazio in un oggetto quadrimensionale chiamato spazio - tempo o cronotopo. È stato poi Stephen Hawking nel 1991 ad affermare che “la curvatura dello spazio tempo su se stesso implicava una singolarità, in cui lo spaziotempo avesse un inizio o una fine” e a precisare che “lo spazio tempo avrebbe avuto inizio nel big bang, circa quindici miliardi di anni fa, e finirebbe per ogni stella che subisse il collasso gravitazionale e per qualsiasi cosa che si trovasse a cadere nel buco nero formato da una stella collassata”. Anche le scienze psicologiche e quelle sociali hanno operato delle acquisizioni interessanti in tema di genesi e sviluppo della nozione di tempo (Piaget), di tempo vissuto (Minkowski) e di tempo ritrovato (Oliverio), in tema di rappresentazione sociale del tempo (Tabboni), del suo rapporto con il lavoro (Gasparini), con la festa (Grillo), fino a soffermarsi (con la Paolucci) su il disagio del tempo in riferimento alla metafora della scarsità del tempo nella vita quotidiana, e a parlare (con la stessa studiosa) di cronofagia in riferimento alla contrazione del tempo e dello spazio nell’era della globalizzazione. Particolare attenzione è stata portata alla dimensione economica: il tempo guadagnato (Streeck), a quella politica con riguardo soprattutto alla categoria di velocità, tanto da par parlare di dromologia e dromoscopia (Virilio), di vite di corsa (Bauman) di tempo breve nell’era della frenesia (Niada), di essere senza tempo in riferimento alla accelerazione della storia e della vita (Fusaro). Religione Dal punto di vista religioso si può parlare del tempo in una triplice modalità: primo: come tempo della interiorità che riguarda la vita spirituale di ciascuno (è un tempo lineare); secondo: come tempo della liturgia che riguarda la vita ecclesiale della comunità dei fedeli 123 (è un tempo ciclico); terzo: come tempo della salvezza che riguarda la dimensione ultima e la vita eterna (è il tempo finale). Dal punto di vista religioso personale potremmo parlare con Giorgio Bocaccorso del tempo come segno, e in una triplice accezione: come vigilanza, che comporta l’attenzione ai segni dei tempi, in cui ci si trova a vivere; come testimonianza, che chiede il rendere ragione della propria fede; e come silenzio, che costituisce la risposta viva alla inesprimibilità di Dio. Arte Sulla base di una “ermeneutica archeologica”, la Zaccaria Ruggiu ha mostrato (nella sua ricerca già citata su Le forme del tempo) che dietro le arti figurative del mondo antico - da quella musiva a quella plastica - si nascondono profondi dibattiti filosofici sulla natura del tempo e che molteplici sono le modalità rappresentative del concetto tripartito del tempo nelle arti figurative dell’antichità classica ed ellenistica; pertanto non si deve parlare del tempo in modo univoco, e lo ha mostrato nei due saggi che compongono il volume su Le forme del tempo: il primo dedicato alla polimorfia di Aion in un mosaico di Antiochia: il secondo a Kairos e la sua immagine. Il mosaico della Casa di Aion che risale alla metà del III secolo d.C. si distingue per la sua particolarità; raffigura, infatti, una scena di simposio dove sono presenti quattro figure maschili. Accanto alla figura di sinistra che giace sul letto di cui si vede solo la testata compare la scritta Aion mentre accanto alle tre figure del letto frontale si leggono rispettivamente altre tre scritte, Mellon (futuro), Enestos (presente) e Parochemenos (passato). Inoltre tra la testata del letto di sinistra e una trapeza compare un’altra iscrizione che dovrebbe riferirsi alle tre figure maschili osservate frontalmente, Chronoi (tempi). L’aspetto più curioso della raffigurazione musiva che, naturalmente ne rende ancora più enigmatica l’interpretazione, consiste nella comunanza simultanea di Aion e dei Chronoi. 124 Il mosaico rappresenta Aion che tiene con la mano destra la ruota dello Zodiaco attraverso la quale passano le personificazioni delle quattro stagioni dell’anno; Aion dunque è legato al presentarsi delle stagioni e ai frutti che queste portano. (Sia detto fra parentesi, in un mosaico proveniente dall’Isola Sacra, databile all’età adrianea, Aion è raffigurato con la cornucopia, simbolo di un tempo colmo di beni e di fecondità; proprio a tale raffigurazione può accostarsi questa immagine di Aion in relazione alle stagioni dell’anno.) Le due klinai sono continue e l’una limita l’altra, come a significare non solo la rispettata consuetudine del simposio e la totale “compatibilità” di Aion e dei Chronoi ma anche la loro reciproca e vicendevole limitazione. I Chronoi, dunque, non si danno senza l’azione di Aion mentre l’opera di Aion non può che riferirsi ai Chronoi: “l’Aion in quanto essenza comune è presente nei singoli tempi, e, nello stesso tempo, i singoli momenti del tempo, presente, passato e futuro, non sono altro che il modo concreto nel quale l’Aion si offre agli uomini”. Come nel caso di Aion anche Kairos è stato raffigurato, passando da concetto a immagine; le fonti antiche attribuiscono statue di Kairos a Policleto, Fidia e Lisippo e la scelta dei caratteri propri dell’immagine furono oggetto di controversie già nel mondo antico. Di Fidia non conosciamo al momento alcuna raffigurazione: solo Ausonio gli attribuisce una statua di Occasio. Per ciò che riguarda Policleto è probabile che debba riconoscersi il suo Kairos nell’efebo di Westmacott. È possibile ricostruire la controversa formazione del modello iconografico del Kairos attribuito a Lisippo grazie a diverse fonti letterarie, tra cui l’epigramma di Posidippo, che definisce Kairos colui che domina su tutto: è sulla punta dei piedi, ha doppie ali, tiene nella mano destra un rasoio, ha i capelli sulla faccia ed è calvo sulla nuca: queste le caratteristiche che Posidippo individuava nella statua del Kairos di Lisippo. Quindi la statua di Lisippo doveva essere caratterizzata da una decisiva 125 tensione dinamica, come se il personaggio rappresentato stesse per prendere il volo. Pertanto la statua di Lisippo può essere considerata come l’espressione diretta dell’azione, del tempo, del momento debito, che deve essere afferrato non appena ci si presenti di fronte, pena la sua inafferrabilità, quella stessa inafferrabilità del momento propizio irrimediabilmente trascorso che, nei termini iconografici lisippei, si traduce nel Kairos privo dell’appiglio della chioma. A parte l’arte antica, va segnalata dal punto di vista estetico sul tempo la produzione letteraria, e per limitarci al ’900 possiamo almeno citare le opere di Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, di Thomas Mann, La montagna incantata, di Jose L. Borges, Altre inquisizioni, di Margherita Yourcenar, Il Tempo, grande scultore, di Sylvie Germain, Portare il peso del tempo. Sempre nel campo artistico può essere collocata la produzione di fantascienza, in quanto al tema del tempo sono legati romanzi e film incentrati sul “viaggio nel tempo”, viaggio che può essere verso il passato o verso il futuro. Tra i romanzi ci limitiamo a segnalare: La macchina del tempo (che risale al 1895), I signori del tempo (1975); tra i film: L’uomo che visse nel futuro e Viaggio al centro del tempo, girati negli anni Sessanta del secolo scorso. 126 Parte seconda Il tempo nel nostro tempo Tempo e valori A sottolineare una volta di più l’importanza filosofica del tempo, può servire metterlo in relazione con i cosiddetti trascendentali, cioè il vero, il bene e il bello, mostrando quanto il tempo abbia dato luogo e dia luogo alle loro diverse configurazioni. Tempo e verità Almeno tre possono essere le concezioni della verità alla luce del tempo. In primo luogo, si può avere una concezione atemporale o sovratemporale della verità, per salvarla dalla contingenza del divenire: è, questa, l’idea di verità caratterizzata da universalità e necessità: valida per tutti e per sempre, e per questo estranea alla mutevolezza del tempo; tale idea (soprattutto premoderna) di verità, la colloca al di fuori e al di sopra del tempo: è qualcosa di assoluto, è Dio stesso (veritas est Deus). Per dirla con Roberto Mancini, “la sostanza e l’assolutezza della verità venivano salvate ponendole per così dire, prima del tempo. Ma, evidentemente, in questo “prima” era già indicata una dimensione temporale, Quindi proprio la riflessione logica ci avverte della contraddizione che vizia una simile concezione”. In secondo luogo, si può avere una concezione temporale, storica della verità, per cui se ne rifiuta la sua assolutizzazione, riconoscendone invece il carattere storico o, addirittura, relativistico; alla base di tale concezione c’è l’idea moderna della veritas filia temporis che si collega all’idea (anch’essa moderna) del progresso, per cui la ricerca della verità è incessante e continuamente produce acquisizioni. In terzo luogo, si può avere una concezione della verità che non 127 sia estranea al tempo, ma nemmeno da esso determinata: è l’idea di verità che ne rivendica l’assolutezza ma non l’assolutismo acronico, che ne rivendica la relatività ma non il relativismo cronolatrico e logofobico (per usare espressioni del lessico maritainiano); una tale idea di verità la configura come ricerca piuttosto che come possesso, una ricerca che, per quanto non abbia fine, ha però senso. Come ha ben puntualizzato Roberto Mancini, c’è una temporalità della verità, per cui essa può stare nel cuore della finitezza senza essere dissolta, senza esserne distrutta, senza esserne relativizzata”. Tempo e felicità Anche riguardo alla felicità si scontrano concezioni opposte proprio con riferimento alla temporalità. Infatti, si può parlare di felicità terrena, in alternativa alla quale si pone la felicità ultraterrena. Mentre questa è effimera, l’altra invece è duratura, per cui la felicità della vita eterna è considerata da alcuni come la vera felicità o addirittura l’unica felicità; altri invece ritengono che la felicità vada colta in questa vita assaporandola nei suoi diversi momenti, e non lasciandosi sfuggire i momenti più propizi; in questa ottica, può essere letto il “carpe diem” di oraziana memoria. Inoltre chi valorizza la felicità eterna, la può diversamente intendere in rapporto alla concezione di eternità: c’è chi la considera come assenza di temporalità, cioè in una dimensione atemporale o sovratemporale, e chi invece la considera come una infinita temporalità, cioè in una dimensione temporale senza fine. Una ulteriore posizione è quella di chi perviene a una temporalità della felicità che permette di superare vecchi e nuovi dualismi, per cui senza dissolvere la differenza fra felicità terrena e felicità ultraterrena, le si può mettere in collegamento, e sotto questo profilo il cristianesimo può dare indicazioni preziose, in particolare nell’ottica delle beatitudini: del “già” e “non ancora”. 128 Tempo e bellezza Anche per quanto concerne la bellezza, è da dire che forti sono le tentazioni dualistiche, per cui la bellezza in senso pieno è posta fuori del tempo, oppure, in riferimento a questa vita, è negata perché nel tempo de gustibus est disputandum. Pure in questo caso una temporalità bene intesa aiuta a comprendere la bellezza, senza cedere alle due estremizzazioni: di una bellezza solo ideale, o di una bellezza solo materiale. Invece, una idea della temporalità della bellezza permette di coglierla sia nella molteplicità di suoi gradi, sia nella distinzione di simbolo e di simulacri. In breve, in tutti e tre i casi solo una concezione positiva del tempo sottrae da concezioni platoniche e platonistiche, permettendo di non rinunciare al vero, al bene e al bello nella loro trascendentalità, e insieme, di coglierli nel tempo, riconoscendo che l’uomo è capace di vero, di bene e di bello nel tempo e attraverso il tempo, quando il tempo è avvertito non solo come condizione positiva dell’esistenza, ma anche come condizione dell’esistenza, vale a dire in termini di apertura. Tempo e persona Ciò comporta una riflessione temporale sulla persona e porta ad affrontare, tra le altre, tre questioni: quella delle stagioni della vita, quella della identità personale e collettiva, e quella della libertà come condizione e come conquista. Tempo ed età della vita La vita umana è stata ripartita in vario modo: in tre fasi in riferimento al corso del sole (ascesa, zenit e declino), o in quattro secondo le stagioni dell’anno (primavera, estate, autunno e inverno), oppure in sei o addirittura in otto. Ma la ripartizione tradizionale è quella codificata da Aristotele (nella Retorica), che distingue tre 129 fasi: la giovinezza, la maturità e la vecchiaia. Si tratta di una tripartizione che, pur mantenuta, ha tuttavia subìto diverse configurazioni nelle diverse epoche, come ha mostrato Remo Bodei nel suo recente volume sulle Generazioni, cui faremo riferimento per mostrare che anche da questo punto di vista il tempo non è solo una questione di tempo, dal momento che comporta implicazioni di carattere valoriale, per cui è da dire che il cronologico non è solo cronometrico ma, a ben vedere, propriamente assiologico. Schematizzando, potremmo dire che nella premodernità la configurazione delle tre età è stata quella disegnata dallo Stagirita: la giovinezza all’insegna della speranza e della capacità di aprirsi alle novità, la vecchiaia all’insegna del ricordo del passato e della decrescente plasticità; la maturità all’insegna della pienezza: mentre la giovinezza pecca per eccesso e la vecchiaia per difetto, la maturità, che sta nel mezzo, ha tutte le qualità utili che la giovinezza e la vecchiaia posseggono separatamente. Ebbene, “tale suddivisione della vita in tre stadi è rimasta sostanzialmente immutata per millenni, Le prime crepe in questa partizione si cominciano a mostrare solo alla fine del Seicento”. Dunque, è con la modernità che la connotazione delle stagioni della vita si modifica; infatti “l’infanzia inizia a staccarsi nettamente dal conglomerato della giovinezza”; e, “mentre in precedenza era stata svalutata, ora viene esaltata e idealizzata”. Non solo: anche l’adolescenza acquista una fisionomia articolata. Nella postmodernità la configurazione delle stagioni della vita cambia ulteriormente: infatti “oggi le cose sono di nuovo mutate e l’infanzia si è, in molti paesi, ulteriormente allungata nel tempo. Non solo: l’adolescenza e la giovinezza si sono a loro volta anch’esse protratte invadendo progressivamente il periodo prima riservato all’età adulta. Inoltre: “anche la vecchiaia, specie in occidente, si è cronologicamente allungata verso un’età bis potenzialmente produttiva”. Oltre che dal punto di vista quantitativo, pure da quello 130 qualitativo le cose cambiano: i giovani non sono più caratterizzati dalla speranza, e i vecchi non sono più marginali o emarginati. In termini cronologici, l’allungamento degli estremi, sia nel caso della giovinezza che in quello della vecchiaia, restringe l’area di influenza della maturità. I giovani e i vecchi, i figli e i nonni guadagnano così maggiore spazio e importanza, reale e simbolica rispetto ai padri e, più in generale, alle persone mature di mezza età”. “La maturità quindi non è più tutto, e la vecchiaia non è più sinonimo di declino e di decrepitezza”. Addirittura “la vecchiaia viene spesso mascherata, negata fin quasi a comportarsi come se non esistesse”. È da aggiungere che “l’allungamento dell’età media presenta anche un risvolto pesantemente negativo, che diventa sempre più evidente: quello della crescita, tra le malattie invalidanti o comunque gravi, delle cosiddette demenze senili, in particolare dell’Alzheimer”. Per tutto questo Bodei conclude che “tramonta la natura umana così come l’abbiamo finora conosciuta e, grazie alle biotecnologie, si altererà forse, in un imprevedibile futuro, anche l’attuale scansione delle età della vita”. Come è facile capire, non si tratta di una questione meramente cronologica; tocca, invece, la filosofia del vivere e del convivere. come si rende evidente, se si guarda anche ai reciproci doveri tra le generazioni. Al riguardo c’è chi ha rilevato che “si è rotto il patto tra le generazioni” (F. Stoppa). Così il modello aristotelico di restituzione - durato in Europa per quasi due millenni, e che ha trovato nel welfare state una espressione legale - è oggi entrato in crisi, e in crisi è anche il rapporto intergenerazionale: “uno scenario che (secondo alcuni) smentisce la naturalità del legame solidale tra le generazioni evidenziandone la costruzione attraverso gli strumenti giuridici e le pratiche sociali di negoziazione tra ambito pubblico (istituzionale e privato) e familiare” (A. Groppi). Al di là di tutto questo, per comprendere il ruolo del tempo a livello generazionale basterebbe tenere presente quanto scrive131 va Karl Mannheim, secondo il quale a partire dal secolo scorso la successione generazionale non è più un processo di sostituzione “dello stesso con lo stesso” ma diventa un rimpiazzare “qualcosa con qualcosa d’altro”: la distanza che separa i gruppi di età non è più una distanza meramente anagrafica ma una distanza culturale e politica. Infatti, gran parte del ’900, che ha coltivato una vera e propria ideologia della giovinezza, è contrassegnata da movimenti politici giovanili e nuove forme di aggregazione sociale basate sull’età, che tentano di definire un nuovo spazio politico. Ma anche i valori politici più tradizionali si trovano di fronte al problema di essere legittimati e accettati dalle nuove generazioni perché a esse viene delegato il compito fondamentale di riprodurre e trasformare la società. La generazione insomma è vissuta come un attore politico capace di cambiamento. Ancora una volta ciò che è legato al tempo va oltre il tempo a conferma che con il tempo si devono fare i conti in termini non solo cronologici ma propriamente assiologici. Ed è sulle implicazioni etiche del tempo che bisogna insistere. Tempo e identità In questa ottica il tempo pone la questione della identità personale e generazionale. In che modo si conserva la continuità individuale nella discontinuità delle esperienze? Si pone qui il problema della vocazione e della responsabilità personali come condizioni per la identificazione della persona. Al riguardo (come abbiamo gà precisato) si possono individuare tre concezioni della identità: c’è un’idea rocciosa della identità identificata con la struttura ontologica dell’individuo; c’è un’idea volatile della identità identificata con la condizione empirica dell’individuo; c’è un’idea liquida della identità identificata con la capacità adattativa dell’individuo: un’idea, questa, che insiste sul carattere processuale, plurale, proteiforme dell’individuo, È da sottolineare che queste diverse concezioni non si escludono reciproca132 mente, ma possono integrarsi legittimamente in rapporto alla concezione della temporalità cui facciamo riferimento, cioè se il tempo è inteso come successione frammentata ovvero è inteso come durata unitaria. Qui vogliamo richiamare quanto in proposito ha sostenuto Paul Ricoeur, il quale - in tema di identità personale - distingue tra “medesimezza” e “ipseità”, per indicare due modalità di persistenza nel tempo, e precisamente l’identità come medesimezza per cui un individuo è riconoscibile e riconosciuto come lo stesso (idem) per certi aspetti permanenti caratterologici e pubblici; e l’identità come ipseità che riguarda l’aspetto narrativo che si modifica ogni volta che il soggetto costruisce un racconto di sé e ha quindi una dimensione più privata, relativa a sé proprio (ipse); nella medesimezza l’invariante si lega al passato, nella ipseità l’invariante riguarda il futuro: per un verso il ricordo nella continuità, per altro verso l’impegno a mantenere la promessa. Si tratta di una idea articolata di identità che chiama in causa una concezione positiva del tempo come “luogo” costruttivo e non distruttivo. Passando alle relazioni intergenerazionali, cui ha recentemente prestato attenzione Bodei nel citato volume su Generazioni, bisogna distinguere con questo autore tra “generazione in senso biologico, come distanza temporale tra genitori e figli, e generazione (in senso culturale) come insieme di coetanei che condividono determinate esperienze storiche. Mentre nella prima accezione si contano tre o quattro generazioni per secolo, nella seconda il periodo di condivisione di esperienze relativamente omogenee elaborate durante gli anni formativi, si ridurrebbe invece a quindici anni. L’intervallo culturale tra le generazioni dipende dalla lentezza o dall’accelerazione del corso storico in cui esse si situano e dalla densità degli eventi significativi al suo interno”. Così per limitarci alle generazioni più recenti si è parlato di “generazione eroica” per quella tra le due guerre mondiali; di “generazione pratica” per quella del secondo dopoguerra; di “generazione X” per quella dei nati tra il ’64 e il ’70 caratterizzata dalla sensa133 zione di rappresentare una “generazione perduta”; di generazione Y per quella dei nati tra gli anni ’80 e il 2000, detta anche “millenniaristi” o “generazione golf” (del benessere) o “generazione shampo” (madri contestatrici e figli conformisti), di “generazione fun”, o “fear” o “me” per quella delle televisioni commerciali; più recentemente colpite dalla crisi economica, per cui si parla di “generazione boomerang” (giovani che tornano a casa). Infine, è da rilevare che “in questi ultimi decenni il rapporto tra le generazioni si è sostanzialmente modificato”; pensiamo al rapporto tra occupati e disoccupati, tra pensionati e persone in età lavorativa, mentre diminuisce la distanza tra genitori - figli, insegnanti - allievi, nonni - nipoti. Al di là di questo, ciò che va evidenziato è un duplice sradicamento: spaziale e temporale, tanto che Bodei si chiede: “quale patto intergenerazionale potrà fondarsi nell’ambito delle diverse, e in parte inedite, modalità di convivenza?”. Non solo: “che senso avrà il principio secondo cui nella vita non bisogna soltanto prendere ma anche (e soprattutto) rendere?”. Interrogativi che mostrano inequivocabilmente come una questione che può sembrare essenzialmente cronologica, sia invece a ben vedere una questione assiologica, configurando diversamente i rapporti interpersonali e intergenerazionali. Tempo e libertà Sempre nell’ottica di evidenziare come il tempo sia essenziale per la questione antropologica, possiamo fare riferimento a una filosofa, Laura Paoletti, e a un filosofo, Roberto Mancini, autori di due libri che affrontano il tema della temporalità in chiave assiologica. La Paoletti afferma che “la considerazione del tempo è atta a gettare luce su un aspetto misteriosissimo e discusso dell’umanità: sul fatto cioè che l’uomo sia libero”. L’avere tempo può tradursi nel “disporre del tempo” o, anche, nel “prendere tempo” e nel “perdere 134 tempo”, ma sempre l’uomo, in modo cosciente o incosciente, appare come “animale che indugia”. Quindi una specifica temporalità (come coesistenza di un livello assiologico e di un livello fattuale) caratterizza il suo modo d’essere. Si tratta - precisa la Paoletti - di una “temporalità diversa da quella degli orologi che con maggiore o minore precisione battono il tempo costante, astronomico, elettronico o pendolare che sia.Il problema di adeguare ciò che si fa e ciò che si è a ciò che si vuole, o si vorrebbe essere (...) è appunto quello che ci fa indugiare...perché la sua soluzione non è mai immediata, neppure nel caso di decisioni avventate o abitudinarie”. Questa concezione del “tempo come indugio” caratterizza il tempo antropologico e lo differenzia dal tempo fisico, perché - sottolinea la Paoletti - il “concetto stesso di indugio o di attesa implica un trascendimento del tempo e, insieme, un’accettazione inevitabile della temporalità”, ed è questa temporalità ad essere essenziale alla personalità umana, caratterizzata quindi in radice dalla decisionalità e dalla conseguente responsabilità. Dal canto suo, Mancini muove da una distinzione, dicendo: “il tempo non è un mero contenitore, se fosse tale basterebbe l’orologio a definirlo. Invece è durata e in quanto tale si dà per noi come esperienza di libertà, nel senso che la nostra libertà deve orientarlo, riempirlo di significato; diversamente il tempo è stato sprecato (come quando si dice che una cosa lascia il tempo che trova). Ma per dare senso al tempo occorre che la persona non sia scissa o frammentata, perché in questo caso l’atto della libertà non può costituirsi. Diversamente l’essere umano porta la responsabilità nel cuore di questo divenire della vita. E la forma matura della libertà è la gratuità; in questa ottica il tempo viene “scoperto come dono” come “realtà ospitale”; in questa ottica il tempo non è nemico che mi toglie tutto; al contrario, esso è durata. Riletto così, il tempo stesso si rivela un fondamento dell’esistenza, come ha messo in luce Minkowski. Se il tempo è durata, come ha avvertito Bergson, 135 vuol dire che tutto ciò che vale e che ha senso non è dissolto e può essere presente. Se il tempo è dono che ci è dato singolarmente e socialmente, allora siamo responsabili anche di tenere aperto il futuro agli altri. Insomma, da Bergson e Minkowski provengono indicazioni preziose per capire il tempo, in particolare che tempo e libertà non si contrappongono: se il tempo non è un meccanismo, un contenitore neutro, mi chiede di rilevare da parte mia una forma, cioè un senso, cioè un potere di portare frutto. Ne consegue che il tempo non è la misura dell’esistenza: la misura vivente è il bene, il tempo vissuto bene, cioè per il bene. Il tempo come dono reclama un donatore (o donatrice) o, quanto meno, che ci sia affidato dalla libertà stessa, che è insieme la fonte e la destinataria del dono. Ne consegue pure che la velocità (se intesa come velocizzazione, magari mitizzata) non è la misura del tempo; certo da essa non si può prescindere, ma, almeno sul piano del costume, bisognerà distinguerne due aspetti: l’accelerazione e la lentezza, e commisurarsi all’una o all’altra a seconda degli ambiti, e non identificare la velocità con l’accelerazione: una società frenetica è destinata a diventare (come è stato detto) una “società della stanchezza”. Tempo e società Tempo e velocità Sul tema della velocità del tempo uno degli autori di riferimento è sicuramente Paul Virilio, il quale ha coniato il termine “dromologia” come “la scienza (o la logica) che studia gli effetti della velocità nella società”, può essere anche definita come lo studio degli impatti culturali e sociali prodotti dalle nuove tecnologie. Per sintetizzare il pensiero del filosofo francese utilizziamo parte di una sua intervista rilasciata nel 1997. Paul Virilio ha cominciato con un lavoro sulla seconda guerra mondiale e, attraverso lo studio dei bunker e della strategia della 136 guerra totale, ha ritenuto di evidenziare il carattere totalitario della guerra. Da qui il riconoscimento dell’importanza del territorio come luogo di iscrizione della tecnica a un momento dato della storia; così, nel suo secondo libro sulla Insicurezza del territorio, Virilio mostra che il territorio è plasmato dalle tecnologie del trasporto e di comunicazione di un’epoca. Da qui il suo interesse per la città, poi per l’architettura e infine per l’urbanistica, vista come territorializzazione della tecnica. A partire da qui ha cominciato a sviluppare il suo lavoro sulla dromologia in Velocità e politica che è stato il suo terzo libro pubblicato nel 1977. A quel punto ha compreso come, in parallelo alla ricchezza che è una nervatura della guerra, la velocità è un’altra nervatura della guerra. Infatti ricchezza e velocità si intrecciano, non le si può separare. Il quarto libro s’intitola L’arte del motore ed è del 1995. Secondo Virilio, esistono quattro motori: quello a vapore, quello a scoppio, quello elettrico e il motore informatico, e sono questi quattro grandi motori che fanno la storia: ogni motore non ha provocato solo una mutazione della produzione ma anche della concezione e della visione del mondo. L’arte del motore è l’arte del quarto motore, il motore informatico a inferenza logica che gestisce l’informazione, la quale è la terza dimensione della materia. In effetti, in precedenza la materia era solamente percepita sotto l’angolo della massa di energia, mentre dagli anni ’40 - ’50, la materia è percepita sotto una terza forma: la terza dimensione dell’informazione. L’informazione è una nuova forma di energia. Ci sono tre stati di energia: l’energia potenziale (in potenza) l’energia cinetica (in atto) e infine l’energia cibernetica (fatta di informazione). Per Virilio la telematica è di fatto energia informatica che sostituisce l’energia elettrica. Siamo di fronte a una rivoluzione energetica che è importante quanto quella dell’energia atomica, sostiene Virilio, il quale è impegnato a mostrare come attraverso la stampa, poi la radio e la tele137 visione, infine con la digitalizzazione e il multimedia, si trascinano le popolazioni verso un mondo nuovo di cui si esaltano i meriti senza preoccuparsi degli svantaggi. L’arte del motore può considerarsi come un manifesto della scrittura contro lo schermo che denuncia proprio l’arte del quarto motore, perché i motori precedenti, a parte il motore elettrico, non possono essere identificati con l’arte. A partire dal cinema, la settima arte è stata un’arte del motore, quella del motore elettrico, della cinepresa e della cabina di proiezione. Il motore informatico invece rivoluziona tutto. Ciò che è cominciato con il motore della cinepresa esplode con la telematica e il trasferimento istantaneo a distanza di informazioni. Si può quindi affermare che, accanto all’energia elettrica, c’è oggi un’energia informatica, la cui peculiarità è l’estrema velocizzazione. Il che ha una portata non solo tecnologica, ma propriamente antropologica. Tempo e relazioni Un tema che, trattando della temporalità, potrebbe sembrare secondario è quello della relazione e delle relazioni che, invece, in alcune filosofie contemporanee appare centrale ai fini di un rinnovato umanesimo. Pensiamo, in particolare a Emmanuel Levinas e al suo Umanesimo dell’altro uomo. Ebbene, proprio questo pensatore (cui si richiama Roberto Mancini), ritiene che sia la relazione con l’altro a consentirmi di vivere la temporalità: “incontro il tempo quando incontro l’altro”, sintetizza Mancini, il quale precisa che, “nella relazione interpersonale, imparando a vedere effettivamente l’alterità, scopro anche l’alterità del tempo. Infatti esso non è un oggetto, né una proiezione o un possesso. Il tempo è altro per me, il che vale eminentemente per il futuro, un mistero che non posso in alcun modo dominare”. Dunque, l’imperativo è quello di essere responsabili per qualcuno, e questo vuol dire amarlo: ebbene (precisa Mancini) “amare qualcuno significa dargli tempo” e così esemplifica: “far nascere 138 un essere umano è precisamene l’atto di donazione del tempo, ma anche dare ascolto a un altro è dargli tempo. Analogamente, perdonare significa dare all’altro il tempo di rinnovarsi, non incastrarlo identificandolo nel male che può aver fatto. E ancora, educare qualcuno significa dargli tempo, aprirgli il futuro. Si potrebbe allora dire che distruttivo non è il tempo ma il modo di vivere in cui nessuno ha tempo per incontrare gli altri”. Ecco perché, secondo Levinas, entrare realmente nel tempo comporta non solo mobilitare la libertà, ma anche la relazione con l’alterità, ed è, proprio alla luce di questa, che quella si configura non solo come autodeterminazione, ma soprattutto come affidamento di sé nella comunione. Anche la libertà ha il carattere del dono e cresce nel donarsi agli altri. In breve, il tempo viene nella relazione con l’altro e questo spiega perché il tempo sia dono: dono ricevuto e dono da dare; dono inteso come dono di ospitalità, nel senso che dare tempo a qualcuno significa dargli lo spazio dell’ospitalità, che è condizione di tutti, come condizione di tutti è la temporalità, la quale comporta un duplice carattere: il senso della gratuità e il senso della gratitudine, ovvero l’esercizio della riconoscenza e la facoltà del riconoscimento. Tutto ciò comporta anche un impegno educativo. Tempo e educazione Del tempo in riferimento all’educazione possiamo parlare in più modi: sia nel senso che si può individuare un tempo educativo, specificamente educativo per tempi e finalità, così come si può individuare un tempo del lavoro o un tempo della festa; sia nel senso che l’educazione è tale se rispetta i tempi dell’educando: di tutti gli educandi e di ogni educando, perché i ritmi di sviluppo sono diversi per età e per individualità; sia nel senso che l’educazione ha i suoi tempi che la configurano come “animi cultura”, in analogia alla “agri cultura”, per cui l’educazione è - oltre che scienza e tecnica - anche e soprattutto arte. 139 Con specifico riguardo ai compiti dell’educazione, possiamo affermare che l’educazione è chiamata a un triplice compito paradossale: educare significa “non perdere tempo” (cioè avere consapevolezza della essenzialità dell’educazione per la crescita della persona, per cui prezioso è il tempo che le viene dedicato) e, insieme, “perdere tempo” (perché - come ha insegnato Jean Jacques Rousseau - educare è rispettare, per cui perdere tempo vuol dire a ben vedere “guadagnare tempo”); educare significa avere tempo da perdere (l’educazione è per sua natura legata all’ozio, nel senso in cui Bertrand Russell ne tesseva l’elogio) e, insieme, non sprecare il tempo (cioè non disperderlo insensatamente, non dargli valore); educare significa avere cura del proprio tempo (e anche rispettare i propri tempi) e, insieme, donare il proprio tempo ad altri (con una disponibilità costruttiva per sé e per gli altri). In ogni caso, per comprendere la necessità dell’educazione in rapporto al tempo possono servire le parole di Seneca (de La brevità della vita) secondo il quale “non abbiamo poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto. Abbastanza lunga è la vita data con larghezza per la realizzazione delle cose più grandi, se fosse tutta messa bene a frutto; ma quando si perde nella dissipazione e nell’inerzia, quando non si spende per nulla di buono, costretti dall’ultima necessità ci accorgiamo che è passato senza averne avvertito il passare. Sì: non riceviamo una vita breve, ma tale l’abbiamo resa, e non siamo poveri di essa, ma prodighi”. Ecco perché è necessario educare a vivere bene il tempo. Conclusione Per concludere, potremmo dire che la condizione umana (alla cui comprensione sono finalizzate questa e le precedenti conversazioni) può essere connotata sulla base della categoria di tempo da quattro peculiarità: la finitezza, la decisionalità, la produttività e la donatività, che si possono rispettivamente tradurre nelle espressioni: “essere tempo”, “avere tempo”, “impiegare tempo” e “donare tempo”. 140 Più precisamente possiamo affermare che l’antropologia, conseguente alla considerazione del tempo, appare connotata in primo luogo sul piano ontologico dalla temporalità, nel senso della finitezza o creaturalità esistenziali, per il fatto che l’uomo è fatto di tempo, cioè è tempo: affermavano i greci che, mentre gli dei sono immortali, gli uomini sono mortali, tanto da poter esse appellati semplicemente come “mortali”; da Agostino a Heidegger la categoria della temporalità è evidenziata come costitutiva dell’essere umano, dunque “animal temporale” per antonomasia. Per Agostino l’uomo, grazie alla sua triplice capacità coscienziale (di memoria, attenzione e attesa) avverte il cambiamento di se stesso e delle cose, è la condizione soggettiva (quella oggettiva è il divenire) del tempo stesso, come chiaramente indica la definizione agostiniana del tempo quale “distentio animi”. Dal canto suo Martin Heidegger rileva che proprio il rimando al tempo conferisce all’uomo una funzione rivelativa “esistenziale” e non semplicemente “esistentiva”, per cui l’uomo è la sede privilegiata della manifestazione pur sempre velata dell’essere che Heidegger definisce “aletheia”. In breve, potremmo dire con Borges che “il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco”. Ha ribadito R. Mancini: “in un certo senso, noi stessi siamo tempo... la nostra stoffa è temporale”. In secondo luogo, sul piano vitale l’uomo risulta caratterizzato dal fatto che dispone del tempo o, per dirla con Sylvie Germain, deve “portare il peso del tempo”; qualunque sia il suo conoscere, agire e fare, l’uomo si configura come “animale decidente”, nel senso che non può sottrarsi dal prendere decisioni, e dunque dal disporre del tempo; la decisione è essenziale ed è resa possibile dal fatto che la vita dell’uomo è temporale: temporale sempre, e in ogni suo momento è rivelativa della realtà, quando - precisa Henri Bergson - è colta come “durata”. Al riguardo Laura Paoletti definisce l’uomo come “animale che indugia”, nel senso che “l’intervallo 141 di tempo apparentemente inutilizzato, che passa tra il presentarsi del problema e l’azione di rispondervi - sia esso una frazione di secondo o sia, in certi casi, un periodo di anni - è, in ogni caso, essenziale per aprire all’uomo quella dimensione di libertà, che la filosofia gli ha sempre attribuito per differenziarlo dagli altri animali”. In proposito R. Mancini non esita ad affermare che il tempo è dato come durata da chi è libero, il quale allora scopre davvero di avere tempo”. In terzo luogo, sul piano prassiologico il tempo si configura in termini economici: il detto popolare “il tempo è denaro” sintetizza efficacemente questa impostazione, che ha la sua verità, ma che, se assolutizzata, finisce per essere decisamente fuorviante: la produttività, il guadagno e la gratificazione sono elementi da tenere certamente in considerazione, a condizione però che non la facciano da padrone; un tempo che privilegiasse questi aspetti non sarebbe (almeno per la persona umana) un tempo arricchente ma veramente impoverente: l’animale produttivo non va staccato dall’animale esistenziale e dall’animale indugiante. Se - come abbiamo accennato - l’uomo è tempo e dispone del tempo, il tempo non può essere identificato con il denaro, e nemmeno privilegiarlo; può certamente riconoscerlo come una componente dell’umano, e proprio per questo lo spendere il tempo è da collocare nell’orizzonte dell’essere tempo e dell’avere tempo. Al riguardo può tornare interessante ricordare quanto uno storico dell’economia come Cipolla ha scritto in uno dei due saggi che compongono quell’aureo libretto che è Allegro ma non troppo, per cui sulla base del tempo potremmo individuare una quadruplice tipologia antropologica, nel senso che chi fa perdere tempo ma non ne perde, è furbo; chi perde tempo ma non ne fa perdere, è generoso; chi non perde tempo né ne fa perdere è intelligente; chi perde tempo e fa perdere tempo, è stupido. È evidente allora la preziosità del tempo, anche in termini economici, ma non economicistici. In quarto luogo, il tempo si caratterizza sul piano etico, cioè quello della gratuità, per cui potremmo dire che “il tempo è dono”, 142 ed è dono in un duplice senso: e perché ci è donato, e perché possiamo donarlo. È tenendo collegati questi due aspetti che è possibile fuoriuscire dalla semplice logica del “do ut des” per far posto ad una logica all’insegna del “quia datum est, do”, per dire che il donare non chiede ringraziamenti, ma è esso stesso un ringraziamento: dalla gratitudine alla gratuità: può essere così sintetizzato il percorso, cui hanno richiamato alcuni filosofi contemporanei, in particolare Emmanuel Levinas e Paul Ricoeur. Si tratta allora di mettere insieme giustizia e carità: è, questo, il binomio fecondo di umanità: che la salvaguarda e che, insieme, la potenzia, consentendo all’animale donante di attuare la propria vocazione e responsabilità. Al riguardo ci piace segnalare l’opera di Roberto Mancini finalizzata a una nuova antropologia all’insegna di una economia di servizio, di una società della condivisione, di una logica del dono, di una cultura del dono. Da quanto detto, l’uomo può essere definito come animale esistenziale, decidente, produttivo e donante; quattro aspetti, tutti conseguenti alla dimensione temporale dell’uomo, per cui sembra legittimo affermare che una nuova concezione antropologica - di cui si avverte la necessità in modo crescente - può provenire proprio dalla capacità di ripensare l’uomo nell’ottica della sua temporalità, e dal ripensare tale temporalità in termini rinnovati, in grado di metterne in luce la portata umanistica. Che il tempo abbia una grande rilevanza scientifica (dal punto di vista della fisica e dell’astronomia, ma anche della psicologia e della sociologia), una grande rilevanza religiosa (in termini di celebrazione liturgica, oltre che di esercizio di vita spirituale e di aspirazione alla salvezza), una grande rilevanza artistica (non solo delle arti visive che lo hanno rappresentato mitologicamente, ma anche della letteratura, in particolare del ’900) interessa meno in questa sede rispetto alla grande rilevanza filosofica che al tempo da sempre viene riconosciuta dai pensatori; ed è soprattutto dai filosofi contemporanei che è possibile attingere indicazioni preziose 143 per ripensare l’antropologia in una rinnovata visione teoretica, etica ed estetica. Infatti, se il tempo viene concepito come durata, dono, decisione - anziché come distruzione, dissolvimento, dispersione - i temi della verità, della felicità e della bellezza, i temi della libertà, della vocazione e della responsabilità, i temi del vivere e del convivere vengono rinnovati profondamente da una logica che impegna l’uomo nella sua destinazione (immanente e/o trascendente) a vivere il tempo non lasciandosi misurare dal tempo, ma misurando il tempo sulla base della ricerca del vero, del buono e del bello non astrattamente considerati bensì temporalmente vissuti: ma con la consapevolezza del tempo come dono ricevuto e dono da dare, per cui la vita vissuta è vita lunga. Ecco perché l’interrogativo posto a titolo di questa conversazione - “il tempo: nemico o compagno?” - esige una precisa e decisa opzione, nel senso che a seconda di come si configura il tempo consegue una filosofia della vita ovvero a seconda della filosofia della vita consegue una caratterizzazione del tempo. Da parte nostra, vorremmo con Roberto Mancini, rispondere che “il tempo non è nemico, ma è compagno, nel senso che il tempo ci accompagna, non ci nega”. Non dobbiamo considerare nemico il tempo, ma “dobbiamo invece ammettere che il tempo ci è dato per vivere e che dunque esso è prezioso per l’esistenza, ne è una condizione positiva fondamentale”. Non solo: “il tempo non è nemico”, ma chiede che l’uomo sia attento alla cura del tempo che a ciascuno è dato. In questa ottica, il tempo non è dispersione, dissolvimento, distruzione (e quindi nemico, avversario, ostile), ma è durata, dono, decisione, in quanto è condizione di esistere nel senso che ci riserva delle possibilità di esistenza, che siamo chiamati a cogliere e a condividere. Allora l’imperativo è quello di trovare il senso della propria esistenza: è, questa, la condizione affinché il tempo sia l’occasione per nascere e rinascere continuamente, per esprimere riconoscenza ed esercitare riconoscimento. Il paradosso è allora questo (come avverte Mancini): se sottraiamo tempo alle persone e alle 144 cose, non le salviamo ma le destiniamo al disfacimento; se invece diamo tempo alle persone e alle cose, le sottraiamo dallo scorrere inconcludente e insignificante o anche impegnato e gratificante. Quindi distruttivo non è il tempo, bensì ciò che ci toglie il tempo stesso, ciò che lo rende anonimo, banale, privo del senso della gratuità e della gratitudine. Se manca questo senso della temporalità come ospitalità, il tempo appare il nemico che porta al nulla, e le domande cessano, e l’esserci finisce per configurarsi come “essere - per - la - morte” (Heidegger), mentre va concepito come “essere - per - il - futuro” o “essere - attraverso - la morte”, perché l’amore è più forte della morte. E l’amore autentico si traduce nel “dare tempo”: frutto di amore, è chiamato a generare amore. È, questa, una concezione della vita, del mondo, dell’uomo per cui è a partire dalla temporalità che è possibile elaborare una rinnovata concezione dell’essere e dell’esistere. Volendoci collegare alle precedenti conversazioni, potremmo dire che il tempo non è frainteso solo quando è colto come apertura: ecco la parola che costituisce, per così dire, il filo rosso di queste cinque conversazioni al Castello: a partire dalla prima dedicata al cielo, che con Nancy può definirsi “apertura”; altrettanto può dirsi del desiderio sulla scorta di Lacan, dello stupore come ha indicato la Hersch, della memoria alla luce di Ricoeur, e ora del tempo tenendo presente Levinas. Ma questi riferimenti autorali sono solo esemplificativi, in quanto di volta in volta abbiamo utilizzato molteplici pensatori: orientati o meno a questa categoria dell’apertura. Prima di concludere, un’ultima osservazione per richiamare l’attenzione sulla necessità di riflettere sul tempo ed evitare un rischio, quello della sua banalizzazione o quello della sua enfatizzazione. Di questa ha fatto esperienza l’uomo moderno con “la sua percezione onnipotentistica della temporalità” (come l’ha definita Duccio Demetrio); dell’altra si fa esperienza quotidianamente, quando ci si lascia prendere dai luoghi comuni ovvero quando si usa il tempo come scappatoia relazionale. In questo caso il tempo meteorolo145 gico o atmosferico o climatico diventa motivo di conversazione, quando non si ha voglia o capacità di conversare; accade così che in situazione di imbarazzo o di disagio relazionale, magari per l’estraneità della persona che abbiamo di fronte, si parli del “tempo”: che tempo fa, che tempo farà... con tutta una serie di ovvietà e banalità, di luoghi comuni. Ma i luoghi comuni non riguardano solo il tempo atmosferico, bensì il tempo in generale, definito di volta in volta “tiranno” e “galantuomo”, che “fugge” o che “non passa mai” oppure fatto oggetto di riflessioni ripetitive sul “perdere tempo” o “guadagnare tempo”, ecc.. In questo modo, si finisce (a voler usare un altro modo di dire) per “ammazzare il tempo”, nel senso che se ne parla male o lo si impiega male. Invece, una riflessione sul tempo deve rendere avvertiti sulla necessità che il tempo sia vissuto al meglio, ossia configurato in termini di senso, investigato dalla filosofia in chiave assiologica; in termini di significato, investigato dalla scienze naturali e umane, al fine di determinarlo nella sua dimensione cronometrica o percettiva; in termini di sentimento, oggetto della letteratura come tempo memoriale o utopico; e in termini di salvezza, oggetto della religione in chiave ascetica o escatologica. In breve, si tratta di scegliere fra le due opzioni indicate sinteticamente da Bruno Rossi nel suo volume su Tempo e progetto: il tempo “fatalisticamente pensato, e quindi considerato come una somma di periodi ed eventi che non si possono governare” o il tempo “umanisticamente stimato, e pertanto considerato opportunità di autorigenerazione e autoincremento, occasione di ricostruzione e rinnovamento, possibilità di mutamento e ri-significazione”. Ma, allora, dovremmo chiederci se l’interrogativo posto a titolo di questa conversazione (Il tempo: nemico o compagno?) non debba essere riformulato, e la domanda suonerebbe così: Siamo amici o nemici del tempo? In quanto è il nostro modo di rapportarci al tempo a dare a esso un senso: distruttivo o costruttivo. 146 Bibliografia sul Tempo Dal punto di vista storico Rodolfo Di Chio, Che cos’è il tempo?, Paoline, Roma 1966 Giacomo Marramao, Kairos. Apologia del tempo debito, Laterza, Roma-Bari 1992 Clementina Gily, Temporalità e comunicazione. 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Tempo, interpretazioni, progetto, Emiliana, Bologna 1988 Giuseppe Vico, Tempo ed educazione nel postmoderno, La Scuola, Brescia, 1990 Bruno Rossi, Tempo e progetto. Saggio sull’educazione al futuro, La Scuola, Brescia 1999 Vanna Iori, Nei sentieri dell’esistere. Spazio, tempo, corpo nei processi formativi, Erickson, Trento 2006 Gioacchino Petracchi, Tempo scolastico, La Scuola, Brescia 1986 Giovanna Ceccatelli Guerrieri, Ore di scuola e tempi della vita, Angeli, Milano 1997 Elena Falaschi, Viaggi nel tempo. Percorsi di educazione alla temporalità nella scuola dell’infanzia e primaria, Erickson, Trento 2007 Penny Ritscher, Slow school, Pedagogia del quotidiano, trad. ital, Giunti, Firenze 2011 155 Gianfranco Zavalloni, La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e non violenta, EMI, Bologna 2012 Dal punto di vista antropologico Aristotele, Retorica, trad. ital., Mondadori, Milano 1966 Theodore Lidz,, La persona umana: suo sviluppo attraverso il ciclo della vita. trad. ital. Astrolabio, Roma 1971 Jrving B. Weinar - David Elkind, Lo sviluppo umano: mentale e fisico, individuale e sociale, trad. ital., A. Armando, Roma 1976 Eric H. Erikson, I cicli della vita. Continuità e mutamenti, trad.ital., A. Armando, Roma 1984 Desmond Morris, Il libro delle età, trad. ital., Mondadori, Milano 1985 Romano Guardini, Le età della vita: loro significato educativo e morale, trad. ital., Vita e Pensiero, Milano 1986 Georg Abraham, Le età della vita, trad. ital., Mondadori, Milano 1993 Michael Rutter et al., L’arco della vita. Continuità, discontinuità e crisi nello sviluppo, trad. ital., Giunti, Firenze 1995 Chiara Saraceno (a cura di), Età e corso della vita, Il Mulino, Bologna 1986 Duccio Demetrio, L’età adulta. Teorie dell’identità e pedagogie dello sviluppo, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1990 Marc Augé, Il tempo senza età. La vecchiaia non esiste, R. Cortina, Milano 2014 Laura Balbo ( a cura di), Tempi di vita, Feltrinelli, Milano 1991 Karl Mannheim, Le generazioni, trad. ital., Il Mulino, Bologna 2008 Roberto Faben, Radici e libertà. Mutamenti generazionali nella famiglia italiana, trad. ital., Angeli, Milano 2002 Ida Fazio e Daniela Lombardi (a cura di), Generazioni. Legami di parentela tra passato e presente, Viella, Roma 2006 Francesco Stoppa, La restituzione. Perché si è rotto il patto tra le generazioni, Feltrinelli, Milano 2011 Remo Bodei, Generazioni. Età della vita, età delle cose, Laterza, Roma-Bari 2014 156 Considerazione finale Offrire una nuova occasione per esercitare la curiosità: ecco lo scopo degli incontri che, nell’ultimo quinquennio, sono stati promossi d’estate dal Comune di Camerata Picena attraverso il suo assessorato alla cultura con il titolo “A confronto su...”. Ovviamente non si tratta della curiosità banale, bensì della curiosità autentica, quella che scaturisce dalla meraviglia e, quindi, si traduce nel bisogno di formulare dei “perché” (cur): ecco, dunque, la “curiosità” (curiositas) da accendere. Pertanto l’imperativo sotteso agli incontri tenuti nella sera del 10 agosto nella corte del Castello del Cassero di Camerata Picena è: stupirsi, per interrogarsi; in tale ottica, condividiamo l’invito del regista Ermanno Olmi, cioè “avere ogni giorno qualche nuovo motivo per stupirsi”. Si tratta di disposizione e disponibilità tutt’altro che agevoli e frequenti in un mondo frettoloso e disincantato, dove siamo sempre più interessati alle risposte piuttosto che alle domande e sempre più convinti che la tecnica abbia le risposte per tutto, e quindi ciò che non può essere risolto dalla tecnica va dissolto o rimosso. Fermo restando il valore della scienza e della tecnica, e l’apprezzamento per le loro soluzioni, è tuttavia bene andare oltre i loro risultati, ed essere capaci di interrogarsi anche sulle conquiste scientifiche, di meravigliarsi e, conseguentemente, di incuriosirsi, aprendosi anche a questioni che si collocano in orizzonti diversi da quelli della tecnoscienza. Indubbiamente, un tale esercizio è ostacolato dal fatto che sempre più tendiamo alla settorializzazione del sapere, alla specializzazione delle competenze. La cosiddetta “società della conoscenza”, com’è definita la nostra società, rischia d’essere solo una “società delle conoscenze”. Si è cercato di riequilibrare questa linea di tendenza attraverso la cosiddetta “interdisciplinarità” che, peral157 tro, nella sua forma più alta, produce “transdisciplinarità”, quindi genera nuove discipline, per cui si rende evidente che, in ultima analisi, specializzazione genera specializzazione. Ne consegue che il problema non è tanto quello della interazione fra conoscenze (o discipline) scientifiche - cosa peraltro sicuramente valida - ma piuttosto quello di guadagnare la complessità del sapere, vale a dire la convinzione che il sapere è certamente scienza, pura e applicata, ma altrettanto certamente è anche sapienza teoretica e saggezza etica, sentimento estetico e (per chi ci crede) salvezza religiosa. Pertanto ci sembra che l’imperativo sia quello di evitare il riduzionismo, che, valido nel campo scientifico, non lo è altrettanto al di fuori di esso, come quando riduce il sapere a una sua forma solamente; tale è, per esempio, lo scientismo, che apparentemente semplifica, ma a ben vedere restringe il campo della curiosità. A dirla con altri termini, occorre evitare il totalitarismo o l’imperialismo conoscitivo, per cui si afferma il primato di una forma conoscitiva sulle altre (così nel pensiero classico si sono avute forme di ontologismo, in quello medievale di teologismo, in quello moderno di scientismo e in quello contemporaneo di tecnocrazia). Di contro a queste impostazioni unilaterali e parziali si pone la richiesta di un atteggiamento che è stato definito della “ragione allargata”, cioè una ragione aperta tanto al problema quanto al mistero, alla ricerca di significati non meno che alle domande di senso, una ragione dalla logica multipla, che pone le questioni secondo una molteplicità di approcci e nella consapevolezza che ciascuno di essi va affrontato juxta propria principia e senza la pretesa che da solo esaurisca il tema. In breve, potremmo anche parlare di logica “polifemica” (monistica o riduttivistica) e di logica “argoica” (pluralistica o complessa), ed è quest’ultima che bisogna adottare. È, appunto, quello che abbiamo cercato di fare nelle conversazioni del Cassero, mostrando la molteplicità degli approcci e dei paradigmi 158 non come forme di relativismo, ma come ricchezza conoscitiva, tale da rinnovare il senso stesso della verità, che è relativa nel senso che è relazionale, per cui la ricerca ha senso anche se non ha fine. Dunque, con uno spirito all’insegna del pluralismo conoscitivo è stata pensata questa rassegna culturale, articolata in cinque incontri, in diverso modo incentrati sulla categoria di “apertura”, in contrapposizione alla categoria antitetica di “chiusura”, avvertendo che ogni volta si tratta di operare una scelta tra due impostazioni relative a cielo, desiderio, stupore, memoria e tempo: essi sono negativi se chiudono rispettivamente nello scientismo e nello spiritualismo, nel bisogno e nella incontentabilità, nell’infantilismo e nell’inconcludenza, nel tradizionalismo e nel passatismo; nella dispersione e nel dissolvimento; positivi, invece, se aprono rispettivamente: all’oltrepassamento e alla trascendenza, alla aspirazione e alla utopia, alla criticità e alla creatività, alla identità e alla storia; alla libertà e al dono. Ebbene, di una impostazione all’insegna dell’apertura e non della chiusura c’è bisogno, tanto più che attualmente siamo di fronte a una situazione in cui tutti e cinque i temi affrontati sembrano essere caratterizzati da una crisi, nel senso di una eclisse ovvero di un declino. Così si è parlato di “naturalizzazione del cielo”, di “distruzione del desiderio”, di “incapacità di stupore”, di “fine della memoria” di “non tempo”: tutte espressioni che, in modo incisivo, denunciano una situazione che richiede di essere superata per restituire all’uomo alcune attitudini, che sono specifiche della sua condizione. Infatti, il suo essere “incompiuto”, “desiderante”, “interrogante”, “memoriale” e “indugiante” reclama la capacità di trascendimento orizzontale e verticale, di nutrire il desiderio e non solo i desideri, di esercitare lo stupore e la conseguente curiosità, di ricordare e progettare, di vivere il tempo in modo costruttivo, avendo sempre consapevolezza della complessità delle cinque categorie che abbiamo posto a tema delle conversazioni al Castello. 159 Infatti, il cielo è insieme: costruzione scientifica, simbolo religioso, metafora filosofica, invenzione artistica; il desiderio è insieme: tensione esistenziale, pulsione erotica, apertura ontologica, disponibilità religiosa, virtù civile; lo stupore è insieme: attitudine vitale, principio filosofico, sentimento estetico, motivazione scientifica, atteggiamento religioso, metodo educativo; la memoria è insieme: condizione identitaria, dimensione storica, valore religioso, metodo educativo; il tempo è insieme: condizione antropologica, oggetto scientifico, dimensione religiosa, aspetto educativo. Si tratta di una complessità che, peraltro, è stata evidenziata dagli studiosi che se ne sono occupati, come si può mostrare utilizzando alcuni titoli di libri o alcune espressioni in essi contenute. Così è stata operata la “critica del cielo” e la sua contemplazione, collocato “tra fisica e metafisica”, considerato nella sua dimensione “favolosa” e nelle sue “malattie”, e riconosciuto nella sua “multivocità” scientifica, artistica, religiosa e filosofica. Così è stato rilevato che “il desiderio non è una cosa semplice” e che ha “mille volti”, “espressioni diverse”, per cui si è anche parlato di “enigma del desiderio”, delle sue “geometrie”, della sua “forza irresistibile” da diversi punti di vista: scientifico, artistico, religioso e filosofico. Così si è tessuto “l’elogio dello stupore”, ricordando che “in principio era la meraviglia” e continuamente va esercitata “l’incessante meraviglia” nei diversi ambiti: scientifico, artistico, religioso e filosofico. Così si è evidenziato che “la memoria si dice in molti modi”, si è parlato delle “molte facce della memoria”, di “volti della memoria”, di “vizi e virtù della memoria”, di “enigma della memoria” riguardata da diverse ottiche: scientifica, artistica, religiosa e filosofica. Così, infine, si è parlato di “mistero del tempo”, di “mistero della percezione del tempo” e di “misteri del tempo”, lo si è definito “una presenza sconosciuta”, ma del tempo “questo sconosciuto” è stato richiamato “l’irresistibile fascino”, senza trascurare “l’aporia del tempo” e “il disagio del tempo” a seconda dei diversi approcci: scientifico, artistico, religioso e filosofico. 160 A voler individuare alcune peculiarità per ciascuna tematica affrontata nelle cinque conversazioni, si potrebbero formulare alcune espressioni di sintesi, e dire che: a proposito del cielo dobbiamo tanto “misurare il cielo” come realtà fisica quanto “misurarci con il cielo” come realtà teologica, metafisica ed estetica; a proposito del desiderio dobbiamo tanto “tornare a desiderare” quanto “saper desiderare”, non solo soddisfare desideri, ma soprattutto coltivare il desiderio; a proposito dello stupore dobbiamo non tanto “stupire” quanto “stupirci” e “lasciarci stupire”; a proposito della memoria dobbiamo non tanto “mandare a memoria”, quanto “fare memoria”; a proposito del tempo dobbiamo non solo “calcolare il tempo” ma anche “leggere e scrivere il tempo”. Tutto ciò evidenzia inequivocabilmente la complessità delle questioni affrontate, che anche per questo meritano di essere fatte oggetto di riflessione e discussione, in modo da evitare la loro banalizzazione e permettere di esplicitarne l’intrinseca ricchezza, al fine di individuare una antropologia che renda ragione della “straordinarietà” dell’uomo, suscitando “la meraviglia di essere uomo”. 161 Nota Giancarlo Galeazzi è nato nel 1942 ad Ancona, dove risiede e opera (abitazione in via Tiziano 39 e studio in via Tiziano 49). È sposato con Anna Bettini da 44 anni; quattro figli (Federica, Francesca, Fiorenza e Gabriele) e cinque nipoti (Valerio e Giulia Perilli, Ginevra Virginia e Aurora Sofia Nocenti, e Alessandro Galeazzi). Esattamente da cinquant’anni è presente nel campo dell’insegnamento, degli studi e della cultura. Dal 1964 (anno della sua laurea, conseguita all’Università di Roma) è docente di filosofia; dal 1965 è operatore culturale a livello cittadino, provinciale e regionale sia in ambito civile che ecclesiale; dal 1970 è studioso del personalismo filosofico e di personologia scientifica, impegnato in particolare negli studi maritainiani a livello nazionale e internazionale; dal 1985 è iscritto all’ordine dei giornalisti nell’elenco speciale dei direttori di periodici, e dal 1996 come giornalista pubblicista. Ha ricevuto i seguenti riconoscimenti: nel 1970 il Ministro per i beni culturali e ambientali lo ha nominato Socio effettivo dell’Istituto marchigiano Accademia di scienze lettere e arti (di cui oggi è socio emerito); nel 1996 il Presidente della Repubblica italiana gli ha conferito il diploma di Benemerito della scuola, della cultura e dell’arte; nel 1997 gli è stato assegnato il Premio della cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri; nel 2010 gli è stato conferito l’attestato di Civica benemerenza dal Comune di Ancona; nel 2011 gli è stato consegnato l’attestato di Merito dal Comune di Camerata Picena; nel 2011 gli è stata conferita la Cittadinanza onoraria dal Comune di Osimo; nel 2014 l’Accademia della Crescia di Offagna gli ha conferito l’onorificenza di Cavaliere della Crescia. È stato tra i vincitori del Premio Silarus e del Premio Crocioni per la saggistica. Il volume I cattolici e la lotta all’antisemitismo, da lui curato per l’Istituto italiano Maritain, ha vinto il Premio Capri. Ha tenuto insegnamenti all’Università di Urbino (Facoltà di Scienze della formazione prima e Facoltà di Sociologia poi) e tiene seminari all’Università Politecnica della Marche (per i Dottorandi dell’Ateneo); è stato docente stabile (oggi docente emerito) di Filosofia all’Istituto teologico marchigiano prima e all’Istituto superiore di scienze religiose poi, dipendenti dalla Facoltà teologica della Pontificia Università Lateranense. È stato direttore di istituti di formazione di Ancona: dell’Istituto superiore marchigiano di scienze religiose “Redemptoris Mater”, e direttore dell’Istituto superiore di scienze religiose “Lumen Gentium”. È direttore della Scuola di alta formazione etico - politica. È stato fondatore e dirigente di istituzioni filosofiche: presidente della Società Filosofica italiana di Ancona di cui è oggi presidente onorario; segretario generale aggiunto del Centro di filosofia preplatonica “Rodolfo Mondolfo” di Ancona; direttore del Centro di pedagogia dei diritti umani e della pace “Maria Montessori” di Ancona. È stato dirigente o consulente di diverse istituzioni culturali: membro dell’Istituto superiore di ricerca e formazione dell’Opera Nazionale Montessori di 162 Roma; membro del comitato tecnico - scientifico dell’Istituto Regionale di Ricerca Educativa delle Marche; presidente della Società Dante Alighieri di Ancona, e della Association Européenne des Enseignants di Ancona; membro del consiglio scientifico e direttivo dell’Istituto europeo di cultura germanica di Ancona; vice presidente dell’Editrice La Lucerna di Ancona; membro (in rappresentanza della Regione Marche) del consiglio di amministrazione della Fondazione Le città del Teatro; membro del consiglio direttivo della Galleria d’arte “Puccini” di Ancona; membro del consiglio direttivo della Associazione Marchigiana Iniziative Artistiche. È membro del comitato scientifico del Centro studi lauretani; è referente regionale per le Marche del Progetto culturale della Chiesa italiana. È stato membro della giuria della Biennale d’arte “Premio Marche”; vice presidente del Premio “Letteratura ed età evolutiva”; membro della giuria del “Premio letterario Varano”. È stato fondatore e dirigente di istituti maritainiani: presidente del Circolo culturale Maritain di Ancona (di cui è oggi presidente onorario); segretario generale aggiunto dell’Istituto internazionale Maritain di Roma; membro del consiglio direttivo dell’Istituto italiano Maritain di Roma; segretario generale prima e vice presidente poi dell’Istituto marchigiano Maritain di Ancona; è stato membro dei consigli scientifici degli Istituti maritainiani: internazionale, italiano e marchigiano. È membro del comitato d’onore del Centro studi e ricerche di Pedagogia sociale Istituto nazionale Maritain di Potenza. Ha ideato e coordina le seguenti rassegne filosofiche: per il Comune di Ancona: Le parole della filosofia, Le ragioni della parola, Libri per pensare, e La filosofia nella città; per il Comune di Falconara Marittima: Nel giardino del pensiero, Tra letteratura e filosofia; per il Comune di Camerata Picena: A confronto su...; per la Prefettura di Ancona: L’Italia del pensiero; per l’Assemblea legislativa delle Marche; Le Marche del pensiero. Ha collaborato con alcuni festival culturali: il Festival Adriatico/Mediterraneo e il Festival Cinematica, del cui consiglio scientifico fa parte. È coordinatore del Festival Le giornate dell’anima. È direttore scientifico del Festival del pensiero plurale. Ha collaborato a oltre cento riviste culturali e scientifiche, e ha tenuto o tiene la direzione o condirezione o redazione delle riviste Notes et documents pour une recherche personnaliste, La fede e i giorni, Quaderni marchigiani di cultura, Quaderni di scienze religiose, Sacramentaria e Scienze religiose, Studia Picena, Prospettiva Persona. È stato membro del consiglio scientifico delle riviste Educazione e scuola, Vita dell’infanzia, Oltre il chiostro. Ha collaborato alla pagina culturale dei seguenti quotidiani: Corriere Adriatico, Avvenire, Il Popolo e per lunghi anni, L’Osservatore Romano. Ha al suo attivo la pubblicazione di oltre cinquanta volumi monografici e collettanei tra cui Personalismo (ed. Bibliografica) e Maritain un filosofo per il nostro tempo (ed. Massimo). Ha curato la traduzione italiana di alcune opere di Jacques Maritain: Cultura e libertà (ed. Boni), La persona umana e l’impegno nella storia (ed. La Locusta), Georges Rouault (ed. La Locusta), Per una filosofia dell’educazione (ed. La Scuola). Alcuni suoi scritti sono stati tradotti in francese, inglese, portoghese e spagnolo. 163 INDICE Prefazione di Vittoriano Solazzi................................................. 5 Presentazione di Paolo Tittarelli e Agnese Tramonti................... 7 Introduzione di Giancarlo Galeazzi......................................... 11 A CONFRONTO SU… CIELO Il cielo: come realtà e metafora Premessa................................................................................... Parte prima: Significati del cielo............................................. Il cielo tra magia e arte ........................................................ Multivocità del cielo............................................................ Parte seconda: Il cielo tra scienza, filosofia e religione ........ Tre approcci......................................................................... Due acquisizioni .................................................................. Una consapevolezza ............................................................ Conclusione .............................................................................. Bibliografia............................................................................... 17 18 18 20 22 22 26 29 30 32 DESIDERIO Il desiderio: dal bisogno all’aspirazione Premessa................................................................................... 35 Parte prima: Significati del desiderio..................................... 36 Aspetti del desiderio ........................................................... 36 165 Approcci al desiderio .......................................................... 40 Un desiderio paradigmatico ................................................ 43 Parte seconda: Il desiderio tra crisi e educazione ................ 47 La crisi del desiderio ........................................................... 47 Il desiderio e l’educazione .................................................. 49 Il desiderio tra singolare e plurale ........................................ 50 Conclusione .............................................................................. 54 Bibliografia .............................................................................. 57 STUPORE Lo stupore: tra cielo stellato e legge morale Premessa .................................................................................. Parte prima: Significati dello stupore .................................... L’approccio filosofico.......................................................... L’approccio religioso........................................................... L’approccio artistico............................................................ Parte seconda: Lo stupore tra scienza e coscienza ............... In ottica scientifica .............................................................. In ottica morale ................................................................... Conclusione .............................................................................. Bibliografia .............................................................................. 61 62 62 65 69 70 70 72 74 75 MEMORIA La memoria: per l’identità individuale e collettiva Premessa .................................................................................. Parte prima: Significati della memoria ................................. Approcci alla memoria ........................................................ Forme della memoria .......................................................... 166 79 80 80 87 Parte seconda: La memoria tra identità e educazione.......... 90 Memoria e identità .............................................................. 90 Per una pedagogia della memoria ....................................... 96 Conclusione ............................................................................ 102 Bibliografia ............................................................................. 106 TEMPO Il tempo: come condizione e occasione Premessa ................................................................................ Parte prima: Significati del tempo ....................................... Struttura del tempo ............................................................ Approcci al tempo ............................................................. Parte seconda: Il tempo nel nostro tempo .......................... Tempo e valori .................................................................. Tempo e persona ............................................................... Tempo e società ................................................................. Conclusione ............................................................................ Bibliografia ............................................................................ 111 113 113 118 127 127 129 136 140 147 Considerazione finale ............................................................. 157 Nota ........................................................................................ 162 167