conversazioni filosofiche al castello

QUADERNI DEL CONSIGLIO REGIONALE DELLE MARCHE
Giancarlo Galeazzi
Conversazioni filosofiche
al Castello
a confronto su…
Cielo, Desiderio, Stupore, Memoria e Tempo
Conversazioni nella notte di San Lorenzo 2010-2014
alla corte del castello del Cassero
a cura dell’Assessorato alla cultura
del Comune di Camerata Picena
QUADERNI DEL CONSIGLIO REGIONALE DELLE MARCHE
“Nessuno mentre è giovane, tardi a filosofare; né, mentre è vecchio,
si stanchi di filosofare; infatti, per acquistare la salute dell’anima, nessuno
è immaturo o troppo maturo.
E chi dice che non è ancora venuta l’età del filosofare o che è già passata,
è come se dicesse che non è ancora giunta l’ora di essere felici o che è già
trascorsa”
(Epicuro, Lettera sulla felicità)
Tra i compiti della Regione Marche un posto non secondario
è da riconoscere alla valorizzazione di significative iniziative intraprese sul territorio dagli enti locali. I “Quaderni del Consiglio
regionale delle Marche” sono, tra l’altro, finalizzati a documentare
alcune di queste iniziative con lo scopo di allargarne e favorirne
adeguato apprezzamento.
Con tale spirito si pubblica ora un quaderno dall’invitante titolo
Conversazioni filosofiche al Castello: sono le riflessioni svolte da
Giancarlo Galeazzi, nella corte del Castello del Cassero la notte del
10 agosto da cinque anni a questa parte. Nella suggestiva cornice
del monumento (il Castello del Cassero fu costruito a partire dal
1377 per volere del conte anconitano Nicolò Toriglioni, e oggi è
adibito a centro per le attività culturali) si svolgono molteplici iniziative: artistiche, teatrali, musicali e anche filosofiche. Quest’ultime ad opera del prof. Galeazzi, ideatore di molteplici rassegne che da diciotto anni ad Ancona, da otto anni a Falconara Marittima e da
cinque anni a Camerata Picena - sono tutte finalizzate all’esercizio
del pensiero da parte di coloro che hanno voglia e gusto di saggiare
le proprie capacità riflessive.
Ci è parso allora utile e significativo documentare una di queste
rassegne: quella di Camerata Picena si prestava particolarmente,
dal momento che si tratta di cinque conversazioni in qualche modo
legate alla notte di San Lorenzo: da cielo a desiderio, da stupore
a memoria, a tempo, vengono presentate queste cinque tematiche
come altrettanti tasselli di una rinnovata antropologia, frutto di una
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riflessione che, di volta in volta, ha preso in considerazione quattro
punti di vista: scientifico, artistico, religioso e filosofico, in modo
da operare dei confronti tali da mettere in luce la complessità delle
tematiche affrontate e in modo da ricomporre in unità la molteplicità delle letture.
Dunque, non per dovere di apprendimento o di insegnamento,
ma per piacere culturale si fa filosofia a questi incontri, ideati e
coordinati dal prof. Galeazzi, direttore del Festival del pensiero
plurale di Ancona; essi costituiscono ormai una bella tradizione nel
contesto marchigiano con echi che vanno al di là della nostra regione.
Non solo: pubblicare le Conversazioni filosofiche al Castello
costituisce un modo di documentare una originale iniziativa organizzata da un Comune che alla cultura dedica attenzione in chiave
promozionale, evidenziando la fecondità del binomio “cultura/turismo” che oggi rappresenta uno degli snodi fondamentali anche a
livello di politica regionale.
Vittoriano Solazzi
Presidente dell’Assemblea legislativa delle Marche
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Presentazione
Da una idea del prof. Giancarlo Galeazzi è nata l’iniziativa denominata “A confronto su...” promossa dal Comune di Camerata
Picena: si tratta di una serie di “conversazioni filosofiche” a carattere annuale che si tengono nella corte del Castello del Cassero
nell’ambito del programma estivo predisposto dall’Assessorato alla
cultura. In questi termini l’iniziativa appare come una delle tante
manifestazioni culturali che anche d’estate si svolgono nella nostra
regione, come in tutta Italia. Ma lo specifico di questi incontri sta
nel fatto che essi si tengono nella notte di San Lorenzo, e quindi
il 10 agosto da cinque anni - ecco la novità - un filosofo riflette su
una serie di temi in una qualche maniera legati alla dimensione del
cielo.
Così Giancarlo Galeazzi, presidente onorario della sezione provinciale della Società Filosofica Italiana di Ancona, ha riflettuto sul
cielo, sul desiderio, sullo stupore, sulla memoria e sul tempo; tutte
questioni riguardate da diversi punti di vista: oltre quello specificamente filosofico, anche da quelli scientifico, religioso e artistico.
In tal modo si è offerta la possibilità di cogliere la complessità dei
temi di volta in volta trattati, e, insieme, di farne una trattazione
unitaria, in quanto i diversi approcci sono stati ricondotti entro l’orizzonte propriamente antropologico ed etico. Il pubblico, che ha
seguito queste conversazioni, ha mostrato vivo gradimento, a dimostrazione ancora una volta che l’esercizio del pensiero prescinde
dalle competenze tecnicali della filosofia, e costituisce invece una
esigenza, che trova seguito quando le persone sono coinvolte in una
riflessione accessibile e organica.
Ha certamente contribuito al successo dell’iniziativa la dimensione multidisciplinare delle questioni prese in considerazione,
nonché la capacità espositiva del prof. Galeazzi, il quale non a caso
da tempo porta avanti questa seria divulgazione filosofica sia ad
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Ancona con il “Festival del pensiero plurale”, articolato nelle rassegne: Le parole della filosofia, Le ragioni della parola, Libri per
pensare e La filosofia nella città, sia a Falconara Marittima con
“L’ora felice” articolata nelle rassegne: Nel giardino del pensiero,
Giornate mondiali e Letteratura e filosofia; a queste fortunate rassegne si è aggiunta quella di Camerata Picena “A confronto su...”,
che rispetto a quelle si presenta con una duplice specificità: il carattere pluralistico (degli approcci al tema) e il carattere unitario (della
continuità del relatore).
Piace ricordare che questa iniziativa, per la quale ci siamo avvalsi della collaborazione del prof. Galeazzi, s’inserisce in una politica culturale cui da sempre presta attenzione l’amministrazione
comunale di Camerata Picena: oltre alle numerose presentazioni di
libri e di autori, vanno segnalate le manifestazioni - curate da Massimo Volponi - di “Arte a Castello”, cui lo stesso Galeazzi ha avuto
modo di collaborare (per cui gli è stato consegnato un “attestato al
merito”), le attività del “Laboratorio di recitazione” curato da Luca
Violini e del “Laboratorio di poesia” curato da Fabio M. Serpilli e
la “Master Class” di violino con il Maestro Horigome.
A quest’ultimo riguardo vogliamo sottolineare che circostanze
particolarmente felici ed uniche nel loro genere hanno fatto sì che
nel 2013 una grande violinista di fama mondiale, Yuzuko Horigome, accettasse di tenere al Castello del Cassero di Camerata Picena
una “Master Class” di alto perfezionamento musicale, di portata
internazionale. Gli studenti della “Master Class” sono giunti dal
Belgio, Francia, Germania, Giappone, Kazachistan, Italia, Slovenia
e Spagna e sono stati ospitati in famiglie selezionate del piccolo
borgo del Cassero. Alla luce del successo di critica e di pubblico,
dell’accoglienza riservata dai membri di Residart e dalla cittadinanza ad artisti e allievi, la Signora Horigome ha accettato di ripetere questa esperienza nel 2014. Il significato per la nostra regione,
non solo per il territorio di Camerata Picena, è straordinario; infatti,
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oltre all’accesso ad una formazione professionale di valore incontestabile ed all’effetto trainante nell’educazione musicale, questa
iniziativa permette al nostro territorio di emergere e di interagire
con interlocutori regionali, nazionali ed internazionali di altissimo
livello. Il nostro obbiettivo è di radicare nella nostra regione questa
nicchia di eccellenza e farne - insieme con le altre qualificate iniziative - una bandiera di qualità civile e culturale.
Paolo Tittarelli, sindaco di Camerata Picena
Agnese Tramonti, assessore alla cultura
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Castello del Cassero a Camerata Picena, sede delle conversazioni filosofiche
tenute annualmente dal prof. Giancarlo Galeazzi
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INTRODUZIONE
Nella notte di San Lorenzo è il cielo stellato a costituire il riferimento obbligato: dal punto di vista astronomico (per il fenomeno
delle stelle cadenti: la Terra attraversa in quei giorni lo sciame meteorico delle Perseidi), dal punto di vista poetico (la nota lirica di
Giovanni Pascoli, intitolata appunto “X agosto”), dal punto di vista
religioso (il diacono Lorenzo è un santo molto popolare e venerato
per il suo martirio), dal punto di vista etico (siamo in presenza di
una simbolica con portata anche antropologica).
Così le conversazioni che si sono tenute la sera del 10 agosto,
promosse dall’assessorato alla cultura del Comune di Camerata Picena, hanno avuto il cielo stellato come filo conduttore, e di anno in
anno è stato messo a tema un aspetto, riguardato da molteplici punti
di vista: filosofico, scientifico, teologico, artistico. Per questo “A
confronto su...” s’intitola la rassegna, ospitata al Castello del Cassero, più precisamente nella corte, sotto il cielo stellato appunto.
Tenendo presenti i quattro approcci accennati, si è tuttavia di
volta in volta sottolineato l’aspetto antropologico nella sua valenza
etica. Così, il primo anno, trattando del cielo come realtà e come
metafora, lo si è riguardato soprattutto quale luogo della apertura,
cioè del trascendimento (verticale e orizzontale); il secondo anno,
quando il cielo ha portato a fare riferimento al desiderio, si è riguardata questa dimensione come bisogno e come aspirazione in
rapporto all’odierna crisi (individuale ed epocale); il terzo anno il
cielo si è configurato specialmente come un luogo dello stupore
(sia come cielo stellato sopra di me sia come cielo morale dentro di
me); il quarto anno il cielo è stato collegato alla memoria (alle sue
dimensioni mnemoniche e memoriali) nella prospettiva della identità (individuale e collettiva); il quinto anno, infine, il cielo ha posto
la questione del tempo, per cui si è cercato di chiarire se il tempo
(inteso come dissolvimento o come donazione) sia da considerare
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nemico o compagno della nostra vita
Ebbene - parlando di cielo, desiderio, stupore, memoria e tempo - si è voluto, a ben vedere, individuare alcune strutture portanti della condizione umana, in diverso modo legate alla categoria
di “apertura”. L’intento è stato quello di delineare una concezione
antropologica, che presenta l’uomo come animale “incompiuto”,
“desiderante”, “interrogante”, “memoriale” e “indugiante”: tutte caratterizzazioni che contribuiscono a delineare un umanesimo
personocentrico, alternativo ad ogni forma di riduzionismo, che appiattisce l’uomo su una sola dimensione: oggi si propende per quella meramente fisica, presentata come “naturale”, quando invece è
artificiale, essendo astrattamente elaborata.
Di contro alle ricorrenti tentazioni di rappresentare l’uomo a
una dimensione (cambia la dimensione ma non cambia la unilateralità) si è voluto esprimere l’esigenza di misurarsi con la persona umana colta nella sua unità, unicità e unitarietà di aspetti, una
complessità all’insegna della “specificità”, della “differenza”, della
“eccedenza”, del suo “proprio” (per utilizzare espressioni usate da
noti pensatori contemporanei), senza peraltro concessioni allo specismo. Dunque, no ad un antropocentrismo animato da violenza
dominatrice, ma no, anche, ad un ecocentrismo caratterizzato dalla
cassazione della originalità e autenticità umane; si, invece, al personocentrismo che legge la specificità umana in termini di dovere
e di servizio, di vocazione e di responsabilità: il che richiede una
molteplicità di verbi da coniugare secondo il paradigma di persona.
È con tale spirito che le cinque edizioni della rassegna “A confronto su...” hanno rappresentato un invito a riflettere su alcuni temi
alla luce di diversificati approcci, ma con un taglio prevalentemente filosofico, che tuttavia si è tenuto ad un livello accessibile, come
si conviene ad una serata di intrattenimento estivo. Nella notte di
San Lorenzo sono numerose le iniziative che un po’ dappertutto si
tengono per festeggiare questa notte agostana incentrata sul cielo.
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L’iniziativa, che si è svolta nella corte del Castello del Cassero, si è distinta per originalità: non ha carattere astronomico né
folcloristico, né festaiolo, ma culturale, anzi propriamente filosofico. Si tratta, quindi, di una rassegna, che si aggiunge alle altre da
me ideate per i comuni di Ancona (Festival del pensiero plurale)
e di Falconara Marittima (L’ora felice), per la Regione Marche e
la Prefettura di Ancona (Le Marche del pensiero), e per istituzioni
culturali (Giornata filosofica) ed ecclesiali (Giornate dell’anima):
così si è fatto filosofia a Teatro (Sperimentale), al Palazzo (della
Prefettura), alla Mole (Vanvitelliana), nel Giardino (di Falconara
Alta), per limitarci ad alcuni luoghi emblematici: in ogni caso, al di
fuori delle aule scolastiche e universitarie nella convinzione che, se
studiare filosofia è un dovere di alcuni (studenti e docenti), fare filosofia è un diritto di tutti, perché l’esercizio del pensiero è un fattore
di crescita tanto per la persona, quanto per la società, e una vitale
democrazia ha a cuore lo sviluppo dell’una e dell’altra.
Con questo spirito, cinque anni or sono, ho proposto al Comune di Camerata Picena la rassegna annuale “A confronto su...” e
l’amministrazione comunale ha saputo dare alla manifestazione
il giusto rilievo, che ora trova espressione in una pubblicazione,
che raccoglie integralmente i testi delle conversazioni, corredati
da bibliografie. Queste, articolate secondo i diversi approcci, forniscono un ampio quadro (che ho provveduto anche ad aggiornare)
degli studi sui cinque temi, offrendo così un’idea della complessità
e attualità delle questioni affrontate, e indicando gli strumenti per
eventuali approfondimenti.
Per questo vogliamo operare una serie non formale di ringraziamenti. Ringrazio l’assessore alla cultura del Comune di Camerata
Picena, Agnese Tramonti, per aver accettato di realizzare questa
rassegna culturale e averne seguito con cura l’organizzazione. Insieme ringrazio il sindaco di Camerata Picena, Paolo Tittarelli, per
aver voluto presenziare, ogni volta che gli è stato possibile, alle
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serate: con brevi ma significative parole ha presentato gli incontri,
chiarendone il senso e la novità.
Ringrazio inoltre la stampa che ha voluto presentare questa rassegna nel contesto delle iniziative culturali che si tengono nelle
Marche in occasione della giornata del 10 agosto, mettendo in evidenza la specificità della iniziativa, la cui peculiarità sta nel porre a
confronto - su un tema (in qualche modo legato alla serata) - letture
diverse, in particolare quelle della filosofia, della religione, dell’arte e della scienza.
Ringrazio, ovviamente, il pubblico, che è stato sempre numeroso e interessato: il che non può non fare piacere, dal momento che
è ulteriore conferma che la cultura e la filosofia costituiscono un
buon richiamo anche in tempo di vacanza. D’altronde alcune recenti iniziative estive da me organizzate per il Comune di Falconara
(la rassegna Nel giardino del pensiero nell’ambito del contenitore
culturale L’ora felice) e per il Comune di Ancona (la rassegna Le
ragioni della parola nell’ambito del contenitore culturale Amo la
Mole e del Festival Adriatico/Mediterraneo) lo provano inequivocabilmente.
Ringrazio infine il presidente dell’Assemblea Legislativa delle
Marche, Vittoriano Solazzi, che ha voluto dedicare a queste “conversazioni filosofiche” uno dei Quaderni del Consiglio regionale
delle Marche, permettendo così di fruirne a un più vasto pubblico:
un modo efficace di documentare una originale iniziativa organizzata da un Comune che alla cultura dedica particolare attenzione
anche in chiave promozionale.
Giancarlo Galeazzi
Presidente onorario della Società Filosofica Italiana di Ancona
Direttore scientifico del Festival del Pensiero plurale di Ancona
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A confronto su ...
conversazioni filosofiche di Giancarlo Galeazzi
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Giancarlo Galeazzi, ideatore della rassegna di conversazioni filosofiche
“A confronto su ...” (Foto di Davide Pazzaglia)
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IL CIELO
come realtà e metafora
A Ginevra Virginia
Premessa
Prende il via con una conversazione su “il cielo” la rassegna “A
confronto su...” che si tiene nella notte di San Lorenzo, e quindi il
tema del cielo era d’obbligo. L’intento è quello di mettere “a confronto” punti di vista diversi: da quello teologico a quello filosofico, a quello scientifico, senza peraltro trascurare quello artistico
e popolare, allo scopo di mostrare la polisemia di questa parola,
che infatti rientra nel vocabolario degli scienziati, dei teologi, degli
scrittori, dei pittori e dei filosofi.
Si tratta di una molteplicità di significati che, tuttavia, sono riconducibili a due fondamentali, vale a dire: il senso reale e il senso
metaforico; in altri termini, un conto è il cielo degli astronomi, e un
conto è il cielo dal punto di vista religioso e artistico; la filosofia è
chiamata al riguardo a operare una duplice operazione: epistemologica per un verso, ed assiologica per l’altro, in modo da evidenziare la legittimità della multivocità della parola, e, insieme, la sua
valenza umanistica, che alla parola deriva proprio dal fatto che vale
in molteplici campi a condizione che in ogni campo ne sia chiarito
il senso.
Occorre peraltro aggiungere che nei diversi campi si può fare un
duplice uso dell’idea di cielo, concependolo in termini di chiusura
ovvero di apertura: si determina la prima posizione se essa è escludente, mentre si ha la seconda posizione se essa è includente, rivendicando la validità del pluralismo semantico, come anche della
connotazione, per così dire, “trascendentistica” del cielo, non solo
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perché può rinviare a una dimensione propriamente trascendente,
ma soprattutto perché può aiutare ad andare al di là dell’orizzonte
comune, aprendo alla originalità di scenari inediti.
La relazione si struttura in due parti: la prima è volta a individuare i diversi approcci al cielo, e la seconda a puntualizzare gli
approcci propriamente scientifici, filosofici e religiosi, per evidenziare infine due acquisizioni e una consapevolezza, che ne rivelano
la complessità.
Parte prima
Significati del cielo
Il cielo tra magia e arte
Mitologia e astrologia
Da una credenza popolare si potrebbe partire, proprio perché
siamo nella notte di San Lorenzo, e al cielo si guarda per vedere magari qualche “stella cadente” ed esprimere allora un desiderio: “leggenda”, si dirà, certo, ma non da oggi al cielo si collega qualcosa di
magico, e nel rituale del 10 agosto c’è qualcosa di magico che non
guasta, se non è preso troppo sul serio. D’altra parte, fin dall’antichità, per la mitologia le stelle cadenti erano lacrime di divinità,
che piangevano per disastri avvenuti o annunciati; e anche nella
tradizione cristiana torna l’idea delle stelle cadenti come pianto celeste. Specificamente cristiana è la leggenda secondo cui il diacono
Lorenzo fu arrostito vivo su una graticola di ferro dai romani il 10
agosto 258, e da allora le sue lacrime infuocate continuano a diffondersi nel cielo come scintille, e quanti ammirano quelle scintille e
ricordano il martirio di san Lorenzo, possono chiedere una grazia,
esprimere un desiderio.
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Un ruolo non secondario nel rapporto con il cielo ha giocato (e
gioca?) l’astrologia, che in passato ha preceduto l’astronomia (in
alcuni casi preparandola, in altri intrecciandosi con essa) e che oggi
si traduce nella fortuna che hanno gli oroscopi, di cui c’informiamo, anche se non ci crediamo... Ed è diventato abbastanza usuale
chiedere il segno zodiacale di una persona come elemento della sua
identità: “di che segno sei?” si domanda spesso più o meno seriamente. La credenza nella influenza degli astri sulle vicende umane
è certamente “residuale” almeno nella sua dimensione divinatoria,
ma è pur vero che, al di là di tale connotazione, esiste un collegamento tra fenomeni “celesti” e “terrestri”, e non solo in termini di
meteopatia.
Letteratura e pittura
Tornando alla notte di San Lorenzo e ai fenomeni astronomici
che la caratterizzano, possiamo fare riferimento al cielo dei poeti.
Infatti, come non ricordare la poesia X agosto di Giovanni Pascoli, il quale - del fenomeno delle stelle cadenti - dà una sua lettura
poetica (che riprende la citata tradizione), considerandolo come il
“pianto” del cielo per la malvagità del mondo (il 10 agosto 1867
era stato ucciso suo padre): San Lorenzo, io lo so perché tanto / di
stelle per l’aria tranquilla / arde e cade, perché sì gran pianto / nel
concavo cielo sfavilla / ... / E tu, Cielo, dall’alto dei mondi / sereni,
infinito, immortale / oh! d’un pianto di stelle lo inondi / quest’atomo opaco del male”. È evidente che la poesia segue una logica sua,
e il fatto che non abbia corrispondenza con la lettura astronomica,
nulla toglie alla sua valenza poetica.
Insomma, il cielo dei poeti non è il cielo degli astronomi e magari con questo contrasta; ancora un esempio: nel sonetto A Zacinto
di Ugo Foscolo si parla di “limpide nubi”, una contraddizione in
termini dal punto di vista scientifico: per definizione la nube non
può essere limpida, eppure l’espressione foscoliana ha dal punto di
vista poetico una efficacia straordinaria.
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Altrettanto poeticamente efficace è il dialogo che Giacomo Leopardi intrattiene in alcune sue liriche con il cielo, in particolare con
la luna; e il “parlare con la luna” non è il massimo della correttezza
scientifica; eppure, almeno nel caso di Leopardi, ha un alto valore
poetico. È la conferma, dunque, della possibilità di altre letture oltre quella scientifica, e non meno legittime di questa, a condizione
ovviamente che non vengano contrabbandate come tale o ad essa
siano considerate alternative.
Analogamente si potrebbe dire del cielo degli artisti: pensiamo a
certe opere pittoriche medievali quando il cielo sostituisce lo sfondo dorato, o a certe opere moderne all’insegna di multiformi rappresentazioni del cielo o a certe opere contemporanee nelle quali
la rappresentazione del cielo non ha più nulla del cielo. Può essere
interessante notare che nella lingua francese la parola cielo (ciel) è
una parola che ha due plurali: cieux e ciels; mentre il plurale cieux
è un termine solo religioso, il plurale ciels si usa solo in pittura
quando si dice “i cieli” di un pittore, per dire la maniera in cui un
pittore rappresenta il cielo.
Ancora una volta sarebbe facile di fronte a certe rappresentazioni pittoriche del cielo “smentirle” dal punto di vista scientifico
(astronomico o astrofisico), ma tale operazione non avrebbe senso,
anzi ci priverebbe di una esperienza, quella estetica, e sarebbe veramente una perdita secca.
Multivocità del cielo
Approccio epistemologico
Dunque, al cielo, come del resto a tante altre tematiche, ci si
può avvicinare in molti modi; nel caso specifico si può affrontare
il cielo dal punto di vista popolare, astrologico, poetico, pittorico
(come abbiamo accennato), ovvero (ed è quello che in questa sede
c’interessa) dal punto di vista religioso, filosofico e scientifico, su
cui ora ci soffermeremo.
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Diciamo che la nostra riflessione ha un taglio epistemologico,
nel senso che vuole mostrare come la molteplicità delle letture possono essere legittime, e possono anche restituire il senso della complessità di un tema, mostrando così la ricchezza dei suoi significati,
per cui la meraviglia è incrementata proprio dal riconoscimento di
questa polisemia: il cielo è non solo oggetto della scienza (anzi di
una molteplicità di scienze), ma anche della religione, della filosofia e dell’arte.
Al riguardo è da precisare che questi approcci, già presenti prima della rivoluzione astronomica, risultano legittimi anche dopo
la rivoluzione scientifica, ma - ecco il punto - in modo diverso, in
quanto si diventa consapevoli che il cielo di cui parla la scienza
e quello di cui parla la religione o la filosofia o l’arte non sono lo
stesso cielo: un conto è il cielo “costruito” dalla scienza”, un conto
è il cielo “rivelato” dalla religione, un conto è il cielo “ipotizzato”
dalla filosofia, un conto è il cielo “immaginato” dall’arte.
In tutti i casi c’è un partire dal cielo come lo configura l’esperienza, vale a dire il cielo come “volta celeste”, ma poi il significato
o il senso che ad esso viene attribuito dai diversi approcci è molto
diverso, come certe espressione sintetizzano bene: il “cielo stellato” (dell’astronomia), il “regno dei cieli” (della religione), il “cielo
oltre il cielo” (della filosofia).
La rivoluzione scientifica
Queste diverse espressioni possono ben esemplificare il fatto
che del cielo oggi non si può parlare in modo analogico (come avveniva nella premodernità) né in modo univoco (come sosteneva la
modernità): sono, queste, due modalità rintracciabili rispettivamente prima della rivoluzione scientifica e con la rivoluzione scientifica; dopo questa si può dire che “cielo” diventa parola equivoca nel
senso che si applica a realtà o costruzioni di realtà che sono tra loro
eterogenee.
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Infatti, prima della rivoluzione scientifica, la scienza, la religione
e la filosofia intendono diversamente il cielo, ma si riferiscono alla
stessa realtà celeste; a partire dalla rivoluzione scientifica (è del
1543 l’opera di Copernico, De revolutionibus orbium caelestium)
è la realtà stessa del cielo che si diversifica, per cui la scienza parla
del cielo in modo sperimentale e matematico, la religione in modo
simbolico o allegorico, la filosofia in modo metafisico o metaforico.
Insomma, il cielo è diventato un insieme di oggetti individuati
da molteplici approcci: da quello scientifico (astronomico, meteorologico, astronautico) a quello religioso (mitologico, teologico,
cristologico, mariologico), da quello filosofico (metafisico, ermeneutico, metaforico) a quello artistico (letterario, pittorico, musicale), tuttavia il termine non si riferisce più alla stessa realtà: il nome
rimane, ma la realtà che esso indica è una realtà ben diversificata,
come mostrano esemplarmente la religione, la filosofia e la stessa
scienza.
Parte seconda
Il cielo tra scienza, filosofia e religione
Tre approcci
Scienza
Con la scienza si rende evidente la “rivoluzione” che subisce il
concetto di “cielo”. Infatti, nel momento in cui la scienza ha operato la “naturalizzazione” del cielo, gli ha fatto perdere proprio la
sua connotazione “celeste”. Questa, paradossalmente, è conservata
proprio in quegli ambiti in cui è venuto meno il riferimento al cielo
fisico: è nella religione e nella filosofia che rimane il richiamo al
cielo nel senso originario di “celeste” e di “celestiale”, cioè, con
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altra terminologia, di “trascendente”, nel senso di ciò che è “altro”
o che va “oltre” rispetto all’immanente, al mondano, al terrestre.
Ecco perché il termine “cielo” usato nei diversi ambiti non può
essere “univoco” (tale è, se si considera legittima la sola indagine
scientifica), ma “multivoco” (se oltre alla scienza si ritiene legittimo parlare di cielo anche in altri settori).
Prima della rivoluzione scientifica, infatti, con il termine “cielo”
si faceva riferimento ad una realtà, che veniva spiegata attraverso
diversi contributi: della teologia (precristiana e cristiana), della metafisica (greca e cristiana) e dell’astronomia (antica e medievale).
Si potrebbe anche dire che del cielo si aveva una concezione ontologicamente unica, che però si specificava metodologicamente in
diversi approcci, magari con prevalenza di un significato sugli altri.
Questa impostazione cambia radicalmente con la rivoluzione
scientifica, quando il cielo diventa uno degli oggetti di cui si occupa la nuova scienza, che lo configura come una realtà naturale da
approcciare per via sperimentale e matematica. Dopo aver vinto le
resistenze dei teologi e dei metafisici, la scienza finirà per apparire
l’unico approccio legittimo tanto da far considerare come inutili o
fuorvianti altri approcci.
Filosofia
Si tratta di una convinzione tanto diffusa che comunemente si considera impropria ogni altra modalità di accostarsi al cielo. A cominciare da quella filosofica. Così, per esempio, nella recente Enciclopedia filosofica di Bompiani si afferma che il cielo, dopo la rivoluzione
scientifica, non è più tema su cui la filosofia possa esercitarsi.
Siamo invece convinti che il cielo possa e debba costituire motivo di riflessione filosofica, e da più punti di vista, in particolare
possiamo segnalare quello epistemologico (sul significato metateorico delle teorie astronomiche: pensiamo, per esempio, a Thomas
Kuhn e a Paul Feyerabend) e quello metaforologico (sul significato
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metaforico del cielo: pensiamo, per esempio, a Hans Blumenberg
e a Jean - Luc Nancy), ma anche a quello metafisico, se opportunamente rinnovato (già Nicola Cusano e Giordano Bruno ebbero a
esemplificare con riferimento al cielo una “metafisica” non più legata alla teoria tolemaica ma compatibile con quella copernicana).
Dunque, è possibile un approccio filosofico, ma nuovo, alla tematica del cielo, rinnovata ontologicamente e semanticamente: il
cielo può continuare a dare “da pensare” al filosofo.
Religione
Altrettanto può dirsi dal punto di vista religioso: anch’esso richiede un approccio nuovo, basato sulla consapevolezza che (come
ha ricordato Nancy) “il cielo nel senso delle religioni non è il cielo
che è lassù, il cielo che vediamo con i nostri occhi o con il telescopio e nel quale possiamo mandare delle sonde”. Pertanto, “quando
le religioni parlano di cielo, dell’elevatezza del celeste, dell’Altissimo e del sommo, non parlano di ciò che sta sopra di noi. Del resto
il nostro cielo non sta sopra di noi, perché sta anche sotto”. Dunque, “il cielo delle religioni significa un’altra cosa”, significa “un
posto diverso dal mondo, dal mondo intero”. Ebbene, “questa idea
religiosa del cielo non indica una cosa che si trova nel mondo, più
in alto di tutto. Ma non indica neppure un altro mondo al di sopra
del mondo”. Indica piuttosto “un posto diverso dal mondo intero,
significa un posto diverso da tutti gli altri posti. Cioè un posto che
non è un posto”, per cui il cielo “sarebbe piuttosto qualcosa che
non è da nessuna parte, in nessun posto, ma che allo stesso tempo è
anche dappertutto”. Insomma, qualcosa che non è una cosa né una
persona: “qualcosa che appartiene quindi a un altro mondo e ha un
modo d’essere diverso da quello di tutte le cose e di tutte le persone”, qualcosa o qualcuno, che “non è fuori del mondo, perché non
c’è nessuno fuori del mondo”, ma che “è altro rispetto al mondo
intero e a tutte le cose”.
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Dal punto di vista propriamente cristiano, la tematica del cielo interseca la riflessione teologica, cristologica, pneumatologica,
mariologica, angelologica ed escatologica: dal “Padre nostro che
sei nei cieli” al “Regno dei cieli”, dalla “assunzione in cielo” di
Gesù e di Maria ai “novissimi” del purgatorio e del paradiso, il
cielo cui fa riferimento il cristianesimo non è quello astronomico:
tolemaico o copernicano che sia.
Aveva quindi ragione Galileo Galilei, quando sosteneva che la
scienza si occupa di che cos’è il cielo, mentre la religione di come
si va in cielo, ma ovviamente non nel senso di andarci (di ciò oggi
si occupano l’aeronautica e l’astronautica) ma di meritarselo. In
questo senso Galilei coglie nel segno quando in una lettera a Madama Cristina di Lorena, Granduchessa di Toscana (1615) scrive:
“l’intenzione dello Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia
al cielo, e non come vadia il cielo”.
Questo comporta che il cielo di cui parla la scienza e il cielo
di cui parla la religione non siano lo stesso “cielo”. A voler usare
l’immagine cara a Galilei, potremmo dire che il “libro del cielo
fisico” va studiato in modo astronomico, mentre il “libro del cielo
religioso” va considerato teologicamente: due libri, due alfabeti,
e per leggere l’uno e l’altro libro, occorre conoscere entrambi gli
alfabeti in cui sono scritti.
Non solo: per quanto riguarda il cielo in senso teologico, occorre
non confonderlo con quelli che Luigi Alici ha chiamato “cieli di
plastica”, cioè quegli idoli che promettono felicità, ma ingannano e
schiacciano l’uomo. Di fronte alla “eclisse dell’infinito nell’epoca
delle idolatrie” (così suona il sottotitolo del libro Cielo di plastica),
appare necessario smascherare molteplici cieli finti, per restituire il
cielo a una fede autentica.
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Due acquisizioni
Cielo e celeste
Si tratta di una impostazione che si può epistemologicamente connotare come all’insegna del distinguere per non confondere, e che
permette di evitare la tentazione “concordista” che torna anche in
uno scienziato come Newton ovvero la tentazione “riduzionistica”,
ricorrente nella scienza moderna e che trova in Comte espressione
compiuta.
Dunque, la filosofia e la religione (come anche l’arte), quando
usano il termine “cielo”, non fanno riferimento a ciò che è oggetto
dell’astronomia, bensì assumono quel termine per significare ciò
che è altro (non semplicemente “alto”): con valore simbolico, allegorico (la religione), metafisico, metaforico (la filosofia), immaginativo, emozionale (l’arte). Altro per dire trascendenza come altro
dalla immanenza; altro per dire apertura come altro dalla chiusura;
altro per dire emozione come altro dalla esattezza. “Cielo”, in tutti
questi casi, diventa allora sinonimo di ciò che “eccede” la dimensione mondana, terrena, quantificabile.
Da quanto detto consegue che dopo la rivoluzione scientifica si
può usare il termine “cielo”, ma per indicare “entità diverse”: da
una parte esso si configura come una realtà fisica, dall’altra esso si
configura come una metafora, una allegoria, una immagine, per cui,
a proposito del cielo fisico, dobbiamo aver chiaro che solo la scienza ne dà una descrizione fisica, mentre dal punto di vista teologico,
filosofico e poetico si può parlare di cielo ma avendo altrettanto
chiaro che non è quello astronomico, metereologico, astronautico,
e nemmeno quello astrologico o ufologico; certo, dall’approccio
scientifico, la filosofia, la religione e l’arte possono prendere motivo ma per autonomi sviluppi.
È con la rivoluzione astronomica che la scienza moderna “naturalizza” il cielo, per cui il cielo perde il suo carattere “celeste”, e il
“cielo” nel senso di “celeste” diventa appannaggio della religione,
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della filosofia e dell’arte, ciascuna delle quali lo traduce nella sua
logica propria. Pertanto non possiamo cercare nel cielo fisico ciò
che al cielo viene attribuito dal filosofo (nel senso della metafisica o della metaforologia) o dal teologo (nell’ottica cristiana e non
cristiana) o dall’artista (vuoi pittore vuoi poeta). Si potrebbe anche
dire che per la scienza dobbiamo “misurare il cielo” come realtà
fisica, e per la religione, la filosofia e l’arte dobbiamo “misurarci
con il cielo” come realtà teologica, metafisica ed estetica.
In tutti i casi siamo di fronte a una “costruzione”: all’insegna
della investigazione in senso sperimentale e matematico, ovvero
all’insegna della interrogazione in senso ontologico o fenomenologico o ermeneutico o metaforico, ovvero all’insegna della invocazione in senso teologico e soteriologico, ovvero all’insegna della
emozione estetica in senso poetico e pittorico.
Quindi costruzioni molto diverse. Addirittura la diversità torna
anche all’interno di uno stesso approccio. Così nel campo della ricerca, diverso è il cielo di cui parla la scienza con l’astronomia
(Margherita Hack, Antonino Zichichi, Cesare Barbieri...), dal cielo
di cui parla la fantascienza con l’ufologia (Isac Asimov) o la pseudoscienza con l’astrologia. Così nel campo della riflessione filosofica e religiosa ed estetica, troviamo concezioni diverse: sia in
senso diacronico sia in senso sincronico.
In breve, possiamo dire che, dal punto di vista storico e concettuale e lessicale, occorre distinguere le diverse configurazioni che
il cielo assume nei diversi ambiti: è, questa, una prima acquisizione che mi pare importante per fuoriuscire dai riduzionismi o dagli
equivoci epistemologici.
Il cielo interiore
Ma c’è una seconda acquisizione che vorremmo segnalare, quella che porta ad aggiungere un ulteriore significato al cielo, vale a
dire l’idea di “cielo interiore”.
27
A questo in qualche modo richiamava sant’Agostino quando scriveva: “noli foras ire: in te ipsum redi; in interiore homine habitat veritas” e la verità è Dio, e Dio è dunque presente in modo trascendente
nell’intimo dell’uomo. La coscienza perciò rappresenta il nuovo cielo, dimora di Dio ma nell’interiorità più profonda dell’uomo, tanto da
far dire che Dio è più intimo all’uomo dell’uomo stesso.
Accanto al filosofo dell’illuminismo sacrale è da ricordare anche
il filosofo dell’illuminismo secolare, Immanuel Kant, il quale nella
Critica della ragion pratica ebbe a scrivere questa famosa frase:
“Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione
si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale
in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel
trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le
connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza”.
Per questo possiamo parlare di due cieli: quello stellato (della
natura) e quello interiore (della persona). Come il cielo del firmamento, così il cielo della coscienza ha le sue stelle, e per orientarsi
servono entrambi i cieli. Sarebbe un gran guaio se ci interessassimo solo dell’universo fisico, astronomico, trascurando di occuparci
dell’universo morale, valoriale: le stelle dell’uno e dell’altro universo, i loro punti cardinali, servono a orientarci: materialmente e
moralmente, logisticamente ed eticamente.
Per sensibilizzarci a questo universo morale occorre che la nostra intelligenza sia aperta alle dimensioni che scientifiche non
sono, ma sono filosofiche, religiose e artistiche, e non per questo
sono meno importanti. Occorre quindi che sappiamo meravigliarci
e stupirci del cielo “sopra di noi”, ma anche del cielo “dentro di
noi”; così il cielo porta con sé l’idea di “alto” e, insieme, di “profondo”, di “altro” e, insieme, di “oltre”, confermando ancora una
volta la molteplicità dei suoi significati.
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Una consapevolezza
Il plurale è d’obbligo
Da quanto detto consegue la consapevolezza che oggi non si può
parlare di cielo, ma si deve parlare di cieli: c’è il cielo degli astronomi, e c’è anche il cielo dei teologi e dei filosofi, dei poeti e dei pittori.
Infatti, diversamente dalla premodernità che aveva identificato
il cielo come ciò che era al di sopra (alto) della terra, e diverso (altro) dalla terra, e come tale fatto oggetto di investigazione religiosa,
scientifica e filosofica; e diversamente dalla modernità che, muovendo dalla scoperta del carattere naturale del cielo aveva finito col
ritenerne legittimo solo uno studio scientifico, la postmodernità va
oltre queste impostazioni, (ontologicamente monistica e metodologicamente pluralistica quella premoderna, e ontologicamente e metodologicamente monistica quella moderna), e propone una visione
postmoderna del cielo in termini pluralistici e con una commistione
di significati tra loro contrastanti.
In estrema sintesi, si potrebbe allora affermare che nella premodernità il termine “cielo” ha una valenza “analogica”: più significati ma tra loro non contrastanti, perché accomunati dell’idea di cielo
come altro dalla terra o come ciò che è oltre la terra; nella modernità, il termine “cielo” acquista una valenza “univoca” attraverso
la sua naturalizzazione, che porta ad escludere significati che non
siano quelli scientifici; infine, nella postmodernità il termine “cielo” perviene a una valenza “equivoca”, perché i significati sono tra
loro non solo diversi ma addirittura contrastanti. La cosa non deve
essere considerata come negativa, a patto che se ne sia consapevoli,
per cui non si operino indebite identificazioni o eliminazioni: la
legittimità del loro uso è data dalla correttezza e dalla coerenza con
cui sono configurati dal punto di vista epistemologico.
Una duplice accezione
In questa ottica, i diversi significati potrebbero essere ricondotti
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a due accezioni: quella del cielo come “luogo” (astronomico, astronautico, meteorologico, astrologico, ufologico...) e quella del cielo
come “condizione” (antropologica e teologica, assiologica ed estetica).
Ebbene, il cielo come “luogo” di cui si occupa la scienza è sempre meno celeste, e se qualcosa di celeste si vuole trovare, occorre
rivolgersi alla religione, alla filosofia e all’arte, per le quali però il
cielo non è più un luogo ma una “condizione”, che segnala ciò che
trascende il terrestre, il naturale, il fisico, vale a dire ciò che eccede
l’umano: in questo senso, “celeste” può considerarsi sinonimo di
“eccedente”.
Ma da Aristotele a Pascal a Maritain non è stato sottolineato
che è proprio dell’uomo trascendere l’uomo? Con una battuta si
potrebbe allora dire che l’uomo, “terrestre” quanto si vuole, se si
apre al “celeste”, evita di diventare “terragno”, e la definizione di
“animale terrestre e celeste” potrebbe sintetizzare bene la condizione dell’uomo o la sua aspirazione.
Conclusione
Per concludere, si può allora sinteticamente dire che non di “cielo” si dovrebbe parlare, bensì di “cieli”. La cosa peraltro risulta
evidente fin dal punto di vista lessicale; infatti, nella lingua ebraica si distingue tra cielo (al singolare) come firmamento e cieli (al
plurale) in senso religioso; nella lingua inglese si distingue tra cielo
in senso scientifico (sky) e cielo in senso religioso (heaven); nella
lingua francese si distingua tra cieli in senso religioso (cieux) e cieli
in senso pittorico (ciels). In italiano, invece, cielo e cieli possono
avere un uso astronomico (per indicare rispettivamente la concezione copernicana e quella tolemaica) e un uso religioso, filosofico
o poetico: senza distinzioni lessicali.
Dunque, il riferimento al “cielo” propriamente detto costituisce
un richiamo a ciò che da sempre ha incuriosito, producendo una
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molteplicità di spiegazioni, per cui il “cielo” è quello “visto” sopra
di noi, ma anche quello immaginato dall’arte, quello metaforizzato
dalla filosofia e quello simbolizzato dalla religione. Una tale diversità di significati costituisce un pluralismo non da superare ma da
valorizzare, a condizione che sia correttamente impostato.
Riteniamo che, anche per il cielo, debba essere evitato il riduzionismo, comunque sia connotato o mimetizzato e debba invece
essere riconosciuta la complessità del tema. Non si può dirigere lo
sguardo al cielo solo per studiarlo dal punto di vista astronomico;
non è meno importante sollevare lo sguardo e rimanere incantati. In un editoriale su “Avvenire” un poeta come Davide Rondoni
ha scritto un bel “pezzo”, che qui vogliamo richiamare: “il cielo
sovrasta inevitabilmente gli uomini. Le stelle, per quanto ormai
alcune avventure ci abbiano portato a vagar tra loro, continuano a
essere distanti, misteriose. A essere l’altro da noi. E l’io di un uomo
non prende coscienza di se stesso senza avere tale smisurata drammatica e felice coscienza di una alterità infinita che lo riguarda”.
Tanto che questo scrittore giunge a dire: “se un uomo non guarda
le stelle, avrà uno sguardo povero anche verso la storia. E verso il
quotidiano”.
È bene allora che ci sia posto per il “cielo sopra Talete” e per il
“cielo sopra Berlino”, per il cielo che ha provocato la “caduta del
protofilosofo” e per il cielo che ha portato il filosofo a “fuoriuscire
dalla caverna”, per il cielo che “si scruta con i telescopi” e per il
cielo che “si tocca con un dito”, per il cielo del “planetario” e per
il cielo della “coscienza”, perché di tutti questi cieli abbiamo bisogno, e magari anche di altri cieli che riuscissimo a individuare
come risposta alle nostre attese di esseri terrestri e, insieme, celesti.
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34
IL DESIDERIO
dal bisogno all’aspirazione
A Giulia
Premessa
Complessità di un’attitudine che può essere assunta a metafora
della condizione umana: potrebbe così essere sintetizzato il risultato della riflessione che svilupperemo intorno al tema del desiderio,
diventato oggi questione cruciale dal punto di vista individuale e
sociale, e oggetto di molteplici approcci. Pertanto, operando qualche confronto, si possono realizzare delle approssimazioni al desiderio che aiutano ad affrontarlo, ferma restando la convinzione
che, data l’articolata geografia del desiderio (i suoi “mille volti”),
il desiderio non è una cosa semplice (per fare riferimento ai titoli
di due libri), per cui si può ben parlare di enigma del desiderio
(come s’intitola un altro libro a più voci). Se da sempre il desiderio
è oggetto di studi e ricerche, oggi lo è in misura anche maggiore,
perché attualmente la capacità di desiderare appare in crisi, tanto
da far parlare di vera e propria emergenza, per cui si moltiplicano
le ragioni per metterlo a tema di una riflessione multidisciplinare,
che aiuti a superare quello che è stato chiamato il declino o l’eclissi
del desiderio.
La conversazione si struttura in due parti: nella prima si mettono
in luce gli aspetti principali della questione, chiarendo i significati
e la struttura del desiderio, nonché la sua ambivalenza presentando alcuni approcci significativi e alcune valutazioni che sono state
date; nella seconda parte si pone l’accento sull’attualità del tema,
attraverso il richiamo alla situazione presente, caratterizzata da
una crisi del desiderio, e dalla possibilità di fuoriuscirne, puntan35
do sull’educazione del desiderio e al desiderio. Alla base di questa
relazione c’è una convinzione di fondo, e cioè che l’insorgere dei
desideri non dipende sempre da noi, ma la loro gestione sì, per
cui si rende necessario conoscere le peculiarità del desiderare, per
poterlo finalizzare alla crescita personale e sociale. Ecco: al “buon
uso dei desideri” vuole contribuire la presente relazione, che, con
riferimento al momento attuale, richiama una seconda convinzione,
e cioè che c’è bisogno di “tornare a desiderare” ma altrettanto di
“saper desiderare”.
Parte prima
Significati del desiderio
Aspetti del desiderio
Definizione
Diamo in apertura una definizione di “desiderio”, quella di Agostino, il quale lo definì come “la brama di cose assenti”, e diciamo
subito che è essenziale riconoscere il desiderio nella molteplicità
dei suoi significati. Pertanto è da evitare la tendenza (sempre piuttosto diffusa e in particolare oggi) a identificarlo solo o soprattutto
con il desiderio erotico sessuale, che pure è una forma importante
di desiderio; accanto ad essa bisogna collocare altre forme di desiderio: così, oltre che pulsione erotica, il desiderio va considerato
come tensione esistenziale, come apertura teoretica, etica ed estetica, come disponibilità religiosa e come virtù civile.
Solo considerandolo in queste diverse espressioni, il desiderio
può evitare di essere banalizzato, e rivelarsi per quello che effettivamente è, vale a dire metafora dell’esistenza umana, in quanto
condensa nel paradosso della “presenza di un’assenza”, la condizione umana tra privazione e possesso secondo una circolarità ine36
sauribile, per cui si potrebbe ben definire l’uomo come “animal
desiderans”.
Etimologie
Risulta allora opportuno precisare etimologicamente la parola
desiderio; tuttavia, fin dalla sua etimologia, troviamo spiegazioni
contrastanti, che ne evidenziano la complessità. Infatti, se per un
verso è costante il riferimento alle stelle (sidus, sideris), per altro
verso tale collegamento è letto in modi diversi: nell’ottica della “separazione” e quindi della “attesa”, ovvero nell’ottica della “somiglianza” e quindi della “nostalgia”.
Più precisamente è da dire che il desiderio come attesa si è configurato come attesa di qualcosa: così gli aruspici che dalla osservazione degli astri traevano profezie: da qui la spiegazione del desiderio come “cessare di contemplare le stelle a scopo augurale” (cfr.
Dizionario etimologico della lingua italiana) ovvero come attesa
di qualcuno: così i soldati - desiderantes - che aspettavano sotto
le stelle i compagni che, dopo aver combattuto, non erano ancora
tornati (cfr. De bello gallico, secondo l’indicazione di Umberto Galimberti al Festival Filosofia 2003 di Modena: “stare sotto le stelle
ad attendere”): in tutti i casi si fa riferimento all’attesa di qualcosa
o di qualcuno che manca, che non è totalmente assente ma lontano,
dunque mancanza come separazione.
L’altra spiegazione del desiderio come nostalgia lo configura
come uno stare appresso alle stelle, sottolineando così la somiglianza, per cui il desiderio appare come richiamo a una appartenenza,
che comporta rimpianto: “noi siamo figli delle stelle” cantava Alan
Sorrenti in una canzone di qualche anno fa (Figli delle stelle, 2008).
In ogni caso la nozione di desiderio risulta legata alla nozione
di privazione; da qui la tensione a colmare tale privazione, e quindi
la nozione di godimento come soddisfacimento, appagamento. Ma
la privazione può avere carattere congiunturale e allora può essere
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superata: è la situazione di ricerca, che caratterizza specifiche richieste desiderative, o può avere carattere strutturale e allora non
trova modo di essere colmata: è la condizione di struggimento che
accompagna l’interrogazione sul senso della vita, il desiderio al di
là di specifici bisogni.
Struttura
A prescindere da queste diverse spiegazioni, il desiderio può essere connotato per quattro caratteri - come ha sintetizzato il filosofo Carmelo Vigna nell’Enciclopedia filosofica - : è - senza contraddizione - originario e finalistico, libero e necessitato. Originario
nel senso che il desiderio “è un elemento dell’esistenza originaria
dell’essere umano: una coscienza umana è essenzialmente desiderio, già solo per il fatto che vive come coscienza; è una struttura
permanente della soggettività”. Finalistico nel senso che il desiderio “è sempre desiderio di qualcosa”, strutturalmente indirizzato. Libero nel senso che il desiderio “non è necessitato da un suo
oggetto determinato”, quindi almeno in senso negativo è libero.
Invece, “diventa necessitato dal proprio oggetto, se (e solo se) è
desiderio che termina nel tutto”.
Fatte queste precisazioni, può tornare utile, per mettere a fuoco il concetto di desiderio, operare - come è stato fatto - alcune
distinzioni; ci limitiamo a quelle tra desiderio e volontà e tra desiderio e bisogno. Primo: ci può essere desiderio di qualcosa senza
volontà di averlo, ma non ci può essere volontà di qualcosa senza
averne prima avuto il desiderio. Secondo: il bisogno allude a una
situazione di mancanza in modo marcato e, quanto al suo oggetto,
è determinato, mentre il desiderio è meno marcato e non di rado
resta vago, ma rivela in modo più acuto la tensione dell’esistenza.
Al riguardo lo psicoanalista Jacques Lacan ha sottolineato che il
desiderio di per sé esige un riconoscimento assoluto (apprezzamento, amore) e pertanto va distinto dal bisogno, che invece mira a un
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oggetto specifico e si soddisfa con esso.
La specificità del desiderio si palesa con chiarezza se prendiamo in considerazione i suoi elementi costitutivi, che sono l’attesa,
la legge e l’appagamento: a diverso titolo, essi sono coessenziali,
precisando che il terzo potrebbe avere una dimensione solo potenziale, cioè non trovare attuazione. Se dei tre elementi costitutivi del
desiderio si privilegia proprio il terzo, per cui si subordina il desiderio alla sua realizzazione, tanto che il suo perseguimento porta
ad annullare o evitare la norma, e a far perdere di senso all’attesa,
si determina un corto circuito che squilibra il desiderio in termini
edonistici e consumistici, individualistici e immediatistici.
Tenendo presente tutto questo, si possono indicare alcuni fattori
che favoriscono ed altri che ostacolano il desiderio. Sono fattori
favorenti: la libertà, intesa come creatività o immaginazione, e il
limite, inteso come legge o norma: questa duplice connotazione è
ciò che rende “paradossale” il desiderio. Sono invece fattori ostacolanti: il narcisismo e il cinismo, il consumismo e l’edonismo, l’inettitudine e l’indifferenza.
Valutazioni
Occorre ora aggiungere che il desiderio è oggetto di diverse valutazioni, e occorre insistere sulla ambivalenza del desiderio, nel
senso che il desiderio può avere una connotazione positiva ovvero
negativa. Proprio questo rende consapevoli della complessità del
desiderio che reclama conoscenza della genesi dei desideri e responsabilità nella loro gestione.
L’ambivalenza del desiderio risulta di tutta evidenza da diversi
punti di vista: ne prendiamo in considerazione quattro: teoretico,
etico, estetico e mistico.
Dal punto di vista teoretico, il desiderio ha una valenza positiva,
quando si configura come desiderio di vero in termini di scienza e
di sapienza; ha invece una valenza negativa, quando viene esaspe39
rato in termini di scientismo e di manipolazione.
Dal punto di vista etico, il desiderio ha una valenza positiva,
quando si configura come desiderio di bene, di misura all’insegna
del rispetto (virtù morali e politiche); ha invece valenza negativa,
quando l’agire non risulta rispettoso della dignità della persona: i
cosiddetti vizi capitali si possono leggere come forme di desiderio in eccesso (gola, lussuria, avarizia, invidia, ira e superbia) o in
difetto (accidia); detto altrimenti: è positivo desiderare il bene di
qualcuno, è negativo desiderarne il male.
Dal punto di vista estetico il desiderio ha una valenza positiva,
quando si configura come desiderio di bello come simbolo legato al
vero e al bene; ha invece una valenza negativa, quando il bello diventa simulacro e, separato dal vero e dal bene, porta all’estetismo.
Dal punto di vista mistico, il desiderio ha una valenza positiva,
quando si configura come desiderio di Dio in termini di santità e
di salvezza; ha invece una valenza negativa, quando il desiderio di
Dio si traduce in misticismo e fanatismo.
Approcci al desiderio
La molteplicità dei significati del desiderio si evidenzia nella
molteplicità degli approcci; prendiamo in considerazione quelli religioso, filosofico, scientifico e artistico.
Nella religione
La religione (almeno nelle sue espressioni monoteistiche) appare da sempre caratterizzata dal desiderio come desiderio di Dio sia
in senso oggettivo che in senso soggettivo.
Il genitivo oggettivo indica il desiderio dell’uomo di conoscere
Dio, di contemplarlo, di unirsi a lui: nella vita ultraterrena in maniera definitiva, e nella vita terrena attraverso l’esperienza mistica.
Il genitivo soggettivo indica invece che l’uomo è il desiderio di
Dio, per cui il monoteismo risulta la religione dell’Assoluto relati40
vo, cioè dell’Assoluto in relazione con il mondo, con l’uomo, con
la storia; in particolare tale paradosso è evidente nel cristianesimo,
secondo cui la relazione divina è ad extra: come creazione, rivelazione e addirittura incarnazione, e ad intra: come trinità. Dunque,
seppure in diverso modo, le religioni abramiche risultano caratterizzate in maniera forte dal desiderio: a parte Dei e a parte hominis.
Nella filosofia
Anche la filosofia da sempre ha un rapporto privilegiato con il
desiderio, che sta, per così dire, nel suo DNA, in quanto per definizione la filosofia si configura come “desiderio di sapere”, e nel
tempo è diventata “sapere del desiderio”.
A parte ciò l’attenzione dei filosofi nei confronti del desiderio è
ricorrente, com’è facile rendersi conto prendendo in considerazione posizioni emblematiche quali sono quelle antiche di Platone (al
quale risale la distinzione tra desiderio elevato che aspira alla bellezza e alla bontà soprasensibile e desiderio espressione dell’anima
concupiscibile), Aristotele, Epicuro, Zenone, Cicerone; quelle cristiane di Agostino e Tommaso; quelle moderne di Cartesio, Spinoza, Locke; quelle contemporanee di Schopenhauer, Nietzsche,
Heidegger, Levinas, Nemo, Deleuze e Guattari.
Limitandoci a Gilles Deleuze, questi ha evidenziato - come è
stato sintetizzato - tutta la carica del desiderio, la sua energia propositiva, la sua funzione creatrice e destabilizzante; da qui la definizione dell’uomo come “macchina desiderante”, che segna incessantemente una frattura rispetto al mondo, una differenza e un’alterità che le strutture del potere tentano di reprimere.
Nelle scienze
Ma sono state le scienze - in particolare le scienze umane e, specificamente, quelle psicologiche e, oggi, soprattutto le neuroscienze - a produrre una vera e propria emergenza del tema. Il desiderio,
41
che può essere definito come il “moto psichico per conseguire un
oggetto o una situazione raffigurata attualmente mancante”, è stato
fatto campo di ricerche da parte della personologia (per esempio
Maslow) e, soprattutto, da parte delle psicologie dinamiche, a cominciare dalla psicoanalisi, che (come ha sintetizzato Galimberti)
lo considera fonte motivazionale dei processi psichici; più precisamente, per Freud (che è stato “il più grande teorico del desiderio”)
il desiderio si origina come tentativo di ripristinare qualche situazione di appagamento, di cui è rimasta traccia nella memoria.
Oltre a Freud sono da ricordare Melanie Klein, René Bion e,
soprattutto, Jacques Lacan. Quest’ultimo, che ha sottolineato la
centralità del desiderio in ogni essere umano, colloca - come è stato
sintetizzato - il desiderio nella mancanza essenziale che il bambino
sperimenta una volta separato dalla madre. Non potendo colmare
questa mancanza, il desiderio si porterà su dei sostituti della madre che la legge del padre vieta per impedire la identificazione del
bambino con la madre. Rimossa, la pulsione è sostituita da un simbolo che trova la sua espressione nella domanda di conoscere, di
possedere. Le domande, sempre insoddisfatte, rinviano ai desideri
sempre rimossi, e questi desideri tessono fra loro una trama senza
fine di associazioni.
Nell’arte
Per quanto riguarda l’arte, ci limitiamo ad accennare alla letteratura. Al riguardo Alessandra Diazzi, in un suo saggio su Testo e
narrazione: uno sguardo secondo il desiderio considera il desiderio
quale strumento utile per un’analisi critico-teorica delle opere letterarie, cioè il desiderio quale lente d’ingrandimento per comprendere a fondo le dinamiche testuali e i movimenti delle trame e avvicinarsi alla complessità eterogenea del discorso letterario, superando
un certo tipo di strutturalismo eccessivamente rigido.
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Un desiderio paradigmatico
Il desiderio in rapporto all’altro
A questo punto, vogliamo richiamare l’attenzione sulla dimensione erotica del desiderio, in quanto riteniamo che permetta di riassumere la riflessione fin qui sviluppata. Infatti, il desiderio erotico non solo è il desiderio cui si fa più riferimento, ma anche quello
che meglio esemplifica l’essenza del desiderio. Diciamo questo,
non per operare una indebita riduzione, ma solo per significare che
il desiderio erotico è in qualche modo paradigmatico di ogni desiderare (almeno nel senso che nel paradigma erotico si rende più
evidente il dinamismo del desiderio) tanto che su di esso si possono
coniugare le altre forme di desiderio.
Ancora una volta, a conferma della complessità del tema, è da
osservare che il desiderio erotico è diversamente interpretato: ci
sono filosofi che lo valutano ed altri che lo svalutano; ci sono psicoanalisti che lo considerano negativamente e altri che lo considerano positivamente; ci sono teologi che lo apprezzano e altri che lo
disprezzano. Qui vogliamo fare riferimento ad alcune impostazioni
rappresentative di diversi orientamenti.
Per la impostazione teologica, ci riferiamo a quella cattolica,
per la quale il desiderio erotico ha una valenza positiva quando è
desiderio dell’altro come soggetto di eterna attrazione (significato
sponsale del corpo); ha invece valenza negativa quando è desiderio
dell’altro come oggetto di concupiscenza carnale (soddisfa solo il
bisogno sessuale del corpo come proprio oggetto). Da qui la considerazione dell’adulterio come distacco dal significato sponsale del
corpo, cioè della persona, e quindi la condanna dell’adulterio commesso nel corpo (possedere) o commesso nel cuore (desiderare, o
guardare per desiderare).
Con riferimento alla nozione di desiderio nel nono comandamento (ma la cosa si può estendere al decimo), è da dire che qui
(come puntualizzava Giovanni Paolo II nell’udienza generale del
43
17 settembre 1980) il desiderio non è inteso in senso psicologico
quale intenso orientamento verso l’oggetto, ma in senso etico come
“l’inganno del cuore umano nei confronti della perenne chiamata
dell’uomo e della donna alla comunione attraverso un dono reciproco”; è, cioè, il desiderio come “attuazione della concupiscenza
della carne”; in questo senso Giovanni Paolo II parlava di “riduzione intenzionale, quasi una restrizione o chiusura dell’orizzonte
della mente e del cuore”.
Per dirla con il benedettino Anselm Grun, “esiste un desiderio che rispetta l’altro, ma c’è anche un desiderio che approfitta
dell’altro e lo sfrutta, che lo ferisce e offende”; c’è (come ha detto
Radl) un desiderio che è un “sentimento” e c’è un desiderio come
“un insieme di astuzie, subdole macchinazioni e disonesti espedienti intesi a intaccare in vari modi lo spazio di un’altra persona”. È
in questo secondo significato che il nono comandamento chiede di
non desiderare la donna del tuo prossimo. Come spiega Grun, il
non desiderare la donna d’altri, significa “rispettarne la sua esclusività e indisponibilità”: tuttavia “io non devo respingere e sradicare
da me ogni sentimento verso un’altra donna (un altro uomo), rinuncio però a volerne fare una mia conquista”. Il problema, allora, è
“guardare con cuore puro e con occhio limpido a ogni donna e a
ogni uomo da cui mi sento in una certa misura attratto”.
Il desiderio e le due forme di amore
Diversa è la concezione psicoanalitica. Secondo Freud (cfr.
Contributi alla psicologia della vita amorosa), “dove amiamo non
proviamo desiderio, e dove lo proviamo non possiamo amare”. Pertanto, mettendo a confronto amore e desiderio, il filosofo Umberto Galimberti (ne Le cose dell’amore) scrive: “privo di desiderio,
l’amore garantisce tenerezza, intimità, sicurezza, ma non prevede
l’avventura, la tensione e il senso del rischio che alimentano la passione. Dal canto suo, il desiderio senza amore è stimolante, ecci44
tante, vibrante, ma non ha l’intensità e il senso di un’elevata posta
in gioco che rendono profonda la relazione. Non ci è dato, se non
per brevi attimi di fare esperienza nello stesso tempo dell’amore e
del desiderio verso la stessa persona. E questo perché l’amore, che
nasce sotto il segno della stabilità e dell’eternità, vuole ciò che il
desiderio rifiuta”.
Chiarisce Galimberti: “il desiderio, a differenza dell’amore che
vuole costruzione e stabilità, è un movimento verso un punto di
perdita”, tant’è che nel suo impulso, il desiderio non predispone
una risposta e non contiene una soluzione. Non si lascia presiedere
da alcuna logica. Se mai è ciò che rompe la logica del discorso”.
Infatti, “il desiderio si muove al di fuori di ogni contesto che lo imprigiona, e la sua erranza è perseguita come errore. Un errore che
non è il contrario della verità, ma la sua rottura”; così, “ignorando il
reciproco scambio sempre sotteso a ogni relazione d’amore, il desiderio conosce solo il furto e il dono. Per questo l’amore, che cerca
sicurezza e stabilità, tende a spegnere i desideri, che teme come il
suo negativo più profondo o a deviarli nella finzione dell’immaginario”.
Aggiunge ancora Galimberti: “da qui il successo dell’amore on
line. La fantasia di scatenare il proprio desiderio con una persona
che non c’è o non è accessibile, con l’estraneo misterioso, offre non
solo la possibilità di esplorare il proibito e il precario, ma anche
l’opportunità di fantasticare sul proibito e sul precario da un luogo
più sicuro rispetto alle nostre relazioni reali, nelle quali non intendiamo permettere a noi stessi di destabilizzarci”. In breve, secondo
questa impostazione, “il desiderio non sa cosa vuole. È un atto infondato che trova insopportabile ogni gesto della ripetizione volto
a confermare se stesso”.
In realtà, permette di andare oltre questi schematismi del desiderio e dell’amore, il distinguere tra ripetizione e ripetitività. Al
riguardo la filosofa Michela Marzano, a conclusione del suo libro
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su La fedeltà o del vero amore, scrive: “fragile, perché mai al riparo
dalla delusione, la fedeltà si alimenta di questa presenza vulnerabile (che è la prossimità): al suo interno il vicino e il lontano si mescolano, per suo tramite è possibile avvicinarsi all’altro e lasciarsi
avvicinare. Si fonda (ecco il punto su cui richiamiamo l’attenzione
come possibile risposta alla riflessione di Galimberti) sulla scelta
di una prossimità amorosa che si è portati a ripetere ogni giorno,
una presenza forse mancante e mai totale ma che, quando serve, è
solida e permette a due individui di trovarsi, continuamente e per
sempre”.
Occorre allora sottolineare che ”la ripetizione (creativa e innovativa) è dunque il suo fondamento, ma non si tratta della ripetizione meccanica e obbligatoria (ripetitività) che porta a fare e rifare
sempre gli stessi gesti, a dire e ridire sempre le stesse parole”. Infatti, “solo la ricerca infinita della novità inaridisce, perché in questo genere di ricerca si riproducono, con persone diverse, gli stessi
gesti, senza capire che solo con le stesse persone i gesti possono
essere sempre diversi.”. Pertanto la Marzano conclude, affermando
che “il senso della fedeltà risiede proprio in questo: un progetto che
si dispiega nello spazio dell’incontro, che rende possibile l’intimità
della coppia e si radica nel presente, senza rinchiudersi nel rifiuto
del richiamo del futuro per paura del cambiamento”.
Abbiamo così posto a confronto due modi di concepire il desiderio: da una parte quello che lo ritiene incompatibile con l’amore
- fedeltà e compatibile solo con l’amore - avventura; e dall’altra
parte, al contrario, quello che ritiene il desiderio compatibile solo
con l’amore fedeltà, e incompatibile con l’amore - avventura.
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Parte seconda
Il desiderio tra crisi e educazione
La crisi del desiderio
La situazione attuale
Fatte queste precisazioni, possiamo interessarci del desiderio
nella società presente, e allora è facile constatazione e reiterata denuncia che attualmente siamo in presenza di una crisi del desiderio,
nel senso che stiamo assistendo a quello che è stato definito un
suo “declino” o, quanto meno, una sua “eclissi”, per cui si parla di
“emergenza”. Oggi, infatti, prevale la logica del godimento sulla
logica del desiderio, in quanto si punta al “soddisfacimento” immediato e a ogni costo di ciò che si desidera, facendo così venir meno
la dimensione della “progettualità”.
Potremmo anche dire che siamo in presenza di un predominio
del godimento, una specie di “bulimia di desideri”, e di un deficit
del desiderio, una specie di “anoressia del desiderio”. A voler usare un termine caro al sociologo Zygmunt Bauman, potremmo dire
che nella postmodernità siamo di fronte al desiderio “liquido”, e il
problema è che, in presenza della “liquefazione” dei desideri, cioè
al venir meno di desideri solidi, si rischi la “liquidazione” del desiderio tout court. Detto altrimenti, il rischio attualmente è quello che
il desiderio si riduca a piccole e inconsistenti voglie: Nietzsche in
Così parlò Zarathustra parlava di “vogliuzze”: “una vogliuzza per
il giorno, una vogliuzza per la notte”.
Se così è, siamo in presenza di quella che è stata indicata come
una “emergenza”, nel senso che l’homo consumens (su cui ha insistito Bauman nell’omonimo libro) metterebbe in crisi l’homo desiderans. Il consumismo si configura come il fattore che mette a
repentaglio la capacità di desiderare, squilibrandone gli elementi
costitutivi: infatti l’imperativo è quello di “consumare i desideri”
con il risultato che “i desideri consumano”; in altre parole, aumen47
tano i desideri e diminuisce il desiderio.
Si può, allora, dire che sono in crisi quelli che abbiamo definito
fattori favorenti del desiderio, vale a dire la libertà, intesa come
creatività o immaginazione, e il limite, inteso come legge o norma,
mentre sono in crescita i fattori che ostacolano il desiderio o, addirittura, ne determinano la crisi, vale a dire il narcisismo e il cinismo
che, insieme, danno luogo attualmente a quello che è stato denominato “narcinismo”, il consumismo e l’edonismo che producono
nuove forme di “conformismo” di massa, l’accidia e l’indifferenza,
quest’ultima contrabbandata come tolleranza.
Il caso Italia
A causa di questa crisi del desiderio il 44° Rapporto CENSIS
sulla situazione sociale del Paese (2010) paragona l’Italia a “un’ameba”, cioè un’entità informe e senza spina dorsale, ovvero a “un
campo di calcio senza neppure il rilievo delle porte dove indirizzare la palla”. Tutto ciò per dire che siamo in presenza di un Paese
in cui è in crisi la capacità di desiderare come tensione progettuale
verso il futuro, della libertà di impegnarsi, della decisione ad agire.
Da qui l’affermazione: “tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare una società troppo appagata ed appiattita”,
nella quale “rimbalzano spesso sensazioni di fragilità sia personali
che di massa che fanno pensare ad una perdita di consistenza (anche morale e psichica) del sistema nel suo complesso”.
La denuncia trova conferma in modo specifico nei principali
ambiti esistenziali; qui ci limitiamo a quelli indicati al IV Convegno ecclesiale nazionale di Verona (2006) sempre con riferimento
alla situazione italiana.
Nella vita affettiva il desiderio rischia di ridursi ad erotismo, e
si perde la distinzione tra passioni, emozioni e sentimenti che comportano diversi tipi di desideri, e si cede alle esperienze genericamente definite “storie”, che perdono peraltro consistenza: “l’amore
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è eterno finché dura”, s’intitola un recente film.
Nel tempo del lavoro e della festa il desiderio del lavoro è compromesso dalla crescente precarietà lavorativa, e il desiderio della
festa è banalizzato, per cui il tempo dell’uomo appare stretto nella
morsa del produrre per consumare e del consumare per produrre:
l’unidimensionalità, di cui già parlava Marcuse, porta ad una società “appiattita”, dove il desiderio (la capacità di desiderare) è atrofizzata, mentre i desideri (le piccole voglie) sono moltiplicati.
Nelle esperienze di fragilità il desiderio di aiutare chi è diversamente abile si trova oggi ostacolato dalla crisi del welfare e dal
diffondersi di una mentalità efficientistica per cui il successo è la
misura di tutte le cose; non solo: il crescente numero di situazioni di
svantaggio reclamano nuove competenze non sempre disponibili.
Nell’esercizio di cittadinanza il desiderio di partecipazione è
vanificato dalla impostazione di democrazia 1meramente procedurale ovvero dalla logica utilitaristica o aziendalistica, tanto da far
parlare di “postdemocrazia”, in cui c’è sempre meno posto per il
desiderio come virtù sociale, mentre si dilata il soddisfacimento
dei desideri a carattere individualistico ed economicamente indotti.
Nella trasmissione della tradizione il desiderio della testimonianza culturale e religiosa è sempre meno avvertito per i problemi
conseguenti al carattere multiculturale e multireligioso della società, che appare sempre più tentata dal relativismo o dal fondamentalismo.
Il desiderio e l’educazione
Educare il desiderio
Di fronte alla crisi che la capacità di desiderare sta attraversando
nella società consumistica in generale e nella realtà italiana in particolare, bisogna saper accettare la sfida e rispondervi adeguatamente:
l’educazione appare allora la risposta giusta, e in un duplice senso.
In primo luogo occorre tornare a educare il desiderio: ciò com49
porta per un verso combattere i nemici del desiderio: il narcisismo,
il cinismo, il consumismo, l’edonismo, l’accidia, l’indifferenza che
producono “la distruzione del desiderio”, e le malattie del desiderio: le tossicodipendenze, l’anoressia (le due espressioni sono,
rispettivamente, di Fabio Ciaramelli e di Fabrizio Turoldo).
Educare al desiderio
In secondo luogo occorre anche educare al desiderio: ciò comporta educare ad alcune capacità come la progettualità e l’immaginazione per un verso e la creatività e la criticità per l’altro. Da qui
l’invito del gesuita Giacomo Costa, il quale - dopo aver rilevato che
“nella società appiattita il desiderio ha perso la sua forza - ritiene
che occorra tornare a impararlo, tornare tutti - in primo luogo i giovani - a educarci a desiderare”. Imparare a desiderare, dunque, e
insieme, desiderare di imparare. Dice al riguardo p. Costa: si tratta
di “un desiderio che vale per tutti, e non solo per i giovani”.
Ne consegue la necessità di rendere consapevoli della diversificata tipologia e, insieme, dell’ambivalenza del desiderio; il che
comporta un atteggiamento di scelta e di responsabilità nella genesi
e nella gestione dei desideri. Al riguardo alcune distinzioni ci paiono particolarmente feconde dal punto di vista educativo.
Il desiderio tra singolare e plurale
Il desiderio al singolare
Si può parlare di desiderio al singolare, nel senso che il desiderio rimanda ad una relazione con qualcosa che è fuori da sé e di cui
si sente la mancanza, qualcosa a cui si tende ma che non si riesce a
raggiungere: è una perenne tensione verso qualcosa che è sempre
al di là e non può essere appagato (G. Costa). Il desiderio al singolare può essere inteso come desiderio di assoluto o d’infinito: il che
viene valutato in modo positivo dal cristianesimo ovvero in modo
negativo dal neopaganesimo.
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Secondo alcuni autori rappresentativi del “neopaganesimo” (per
dire neoaristotelismo o neostoicismo), sarebbe sempre negativo il
“desiderio infinito”, cioè il “desiderio (che) oltrepassa i confini della terra e la caducità del tempo per ancorarsi all’eternità promessa”; che “vuole ciò che non possiede e spera di ottenere dall’amore
di Dio”. Ma tale “desiderio illimitato di felicità conduce l’uomo
all’accettazione incondizionata del dolore, a un altro mondo si rivolge il desiderio umano nel suo spasmodico tendere. Dio è per il
cristiano il bisogno incontenibile di salvezza che orienta il desiderio e la pratica di vita”.
Al riguardo il filosofo Salvatore Natoli non esita a parlare dell’infinito come “malattia” da cui bisogna guarire, riappropriandosi di
una concezione neopagana della vita, una concezione “tragica” nel
senso che non si fa illusioni e perimetra la vita entro il “limite” e
la incentra sulla “misura”. Analogamente, il filosofo Umberto Galimberti ritiene che la felicità non vada intesa “come soddisfazione
del desiderio né come premio alla virtù, ma virtù essa stessa, come
capacità di governare se stessi per la propria buona riuscita, perché
questa è la misura dell’uomo”; pertanto “l’uomo deve conciliarsi
con la sua condizione di mortale, consegnando il suo desiderio al
limite e il limite all’espressione del desiderio, concedersi incondizionatamente al desiderio o rassegnarsi perdutamente al limite
significa disabitare la condizione umana e quindi soffrire quell’eccesso o quel difetto di misura”.
Sia consentito dire che, a nostro parere, il desiderio di assoluto
non va confuso con l’eccesso di desiderio, anzi ci sembra che il desiderio di Dio salvaguardi dalla tentazione di “desiderare di essere
Dio”: in altre parole, il “desiderare Dio” come assoluto, comporta
il non desiderare come assoluto nulla che sia relativo. In questa
ottica, si potrebbe distinguere tra desiderio in senso fisiologico e
desiderio in senso patologico. Fisiologico è il desiderare “di tutto”
(pur sempre relativo) e desiderare “il tutto” (cioè l’assoluto). Pato51
logico, invece, è desiderare “tutto”, è cioè l’eccesso di desiderio,
che si può identificare con l’ibris, intesa quale smodatezza di desiderio (il suo contrario è l’accedia, vale a dire la scarsità o l’assenza
di desiderio). Dunque, la capacità di evitare la tracotanza (e l’accidia) è condizione per esercitare correttamente il desiderio, per cui
va ribadito che il desiderio di Dio non va confuso con l’eccesso di
desiderio, anzi il desiderio di Dio salvaguarda dalla tentazione di
desiderare di essere Dio.
Il desiderio al plurale
Si può parlare di desideri al plurale con riferimento ai desideri
di qualcosa: in senso universale (ideali, valori) o particolare (oggetti) e di qualcuno: in senso attivo (desiderare) e in senso passivo (essere desiderati) ovvero in senso oggettivo (l’altro desiderato:
desiderare l’altro) e in senso soggettivo (l’altro desiderante: l’altro
che desidera).
Si potrebbe inoltre distinguere tra desiderio incentrato sull’oggetto (come desiderio di “qualcosa” o di “qualcuno”), e desiderio
che invece è incentrato sul soggetto, per cui il desiderio non si
esaurisce in nessun oggetto, ma si configura come “desiderio del
desiderio”, un desiderare di desiderare. Al riguardo è da tenere presente l’osservazione di Lacan, secondo il quale il desiderio è desiderio dell’altro in senso oggettivo: nessun oggetto definito può
colmare il desiderio, e in senso soggettivo: il desiderio consiste nel
desiderare di essere desiderati (voluti, amati) dall’Altro (la madre,
l’ordine simbolico).
Anche per i desideri al plurale ci troviamo di fronte alla ambivalenza, su cui richiama l’attenzione la Chiesa cattolica, per la
quale occorre distinguere tra desiderio di conoscenza e desiderio
di concupiscenza.
Nel primo caso “si manifesta nel soggetto come aspirazione e
come tale si orienta sempre verso un fine, cioè verso un oggetto
conosciuto sotto l’aspetto del valore”.
52
Nel secondo caso, invece, il desiderare si presenta come “un atto
conoscitivo che suscita il desiderio nell’altro soggetto e soprattutto
nella sua volontà e nel suo cuore”; in tal caso il desiderio è inteso come “l’inganno del cuore umano nei confronti della perenne
chiamata dell’uomo e della donna alla comunione attraverso un
dono reciproco”, è cioè il desiderio (per dirla con Giovanni Paolo
II). come “attuazione della concupiscenza della carne” e, in quanto
tale, costituisce una “riduzione intenzionale, quasi una restrizione
o chiusura dell’orizzonte della mente e del cuore”, una “riduzione
intenzionale e assiologica”. Richiamiamo, en passant, alla duplice
impostazione: di apertura e di chiusura, sottolineando ancora una
volta che è nell’apertura il senso più vero anche del desiderio.
Desiderio e persona
Si potrebbe sintetizzare quanto abbiamo detto, affermando che il
criterio più fruibile e fecondo per valutare il desiderio è quello che
lo commisura alla dignità della persona, per cui si distingue tra desideri rispettosi e desideri possessivi, tra desideri istintivi e desideri
riflessivi, tra desideri all’insegna dell’apertura, dell’accoglienza,
dell’accettazione e desideri all’insegna dell’avidità, della bramosia, della cupidigia. Questo si rende particolarmente evidente nel
desiderio erotico, ma in realtà è presente in ogni forma di desiderio;
per questo si potrebbe affermare che il desiderio erotico è emblematico dell’attitudine desiderativa.
Una metafora potrebbe essere suggerita, per chiarire ulteriormente: quella che distingue tra “desideri motori” (che mettono in
movimento e permettono di fare strada) e “desideri finestre” (che si
aprono e si chiudono repentinamente); sono, rispettivamente, fuor
di metafora, i desideri come “aspirazioni” e i desideri come “voglie”, i desideri che sono costruttivi e i desideri che sono dispersivi,
i desideri che sono connaturali e i desideri che sono indotti, i desideri che sono autentici e i desideri che sono inautentici: tutte distin53
zioni che aiutano a comprendere in quale direzione debba muoversi
l’educazione del desiderio e al desiderio di cui oggi si avverte un
crescente bisogno di fronte alla crisi del desiderio nei suoi molteplici significati, non ultimo quello sociale.
In questo orizzonte ci sembra pedagogicamente fondamentale
educare al desiderio nelle sue molteplici forme, evitando cioè impostazioni riduttivistiche, unilaterali e parziali: il desiderio va considerato (come accennavamo fin dall’inizio) non solo come pulsione
erotica (sessuale e amorosa), ma anche come tensione esistenziale
(desiderio di realizzarsi), come apertura conoscitiva (desiderio di
sapere), come aspirazione religiosa (desiderio di Dio) e come virtù
civile (desiderio tra legge e soddisfacimento), sapendo che ciascuna
di queste forme del desiderio così configurata ha una pregnanza
umanistica, ma può assumerne un’altra che mette a rischio l’umanizzazione dell’uomo, quando ognuna di queste forme si assolutizza, cioè assume un carattere ossessivo. È, quindi. necessario essere
preparati e operare delle scelte congruenti.
Pertanto non basta tornare a desiderare, bisogna saper desiderare: il che reclama che ci si educhi al desiderio. Questo è tutt’altro
che facile nella nostra società, che può definirsi la “società dei desideri”, ma non la “società del desiderio”, per dire che si sta perdendo
il “senso del desiderio”, e rimangono solo (anzi si moltiplicano) i
“piccoli desideri” che chiedono di essere consumati e che ci consumano. Proprio perché la nostra rischia di essere una società dei
desideri ma senza desiderio, c’è bisogno che l’educazione si occupi
e si preoccupi della capacità di desiderare prima ancora che delle
cose da desiderare: il desiderio come atto prima ancora che come
oggetto.
Conclusione
Per concludere, vorrei far mie le parole con cui Vito Mancuso
chiude il suo volume su La vita autentica, affermando che, “alla
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luce della nostra essenza di uomini, la vita autentica è quella vissuta
all’insegna del bene (virtute) e dell’amore per la verità (canoscenza). Impostare tutte le relazioni sulla base di questi valori è la più
grande fortuna che possa capitare nella vita”: ebbene, desiderare
virtute e conoscenza è il modo giusto di esercitare il desiderio, di
indirizzarlo verso ciò che è tanto umano da eccedere l’umano, perché da Aristotele a Pascal ci viene ricordato che l’uomo trascende
l’uomo. E il desiderio (questo il senso di tutta la riflessione che
abbiamo svolto) è proprio la tensione che testimonia il bisogno di
trascendimento e di trascendenza dell’uomo, il bisogno di calarsi
nelle profondità della persona e di elevarsi alle altezze dell’essere.
Diversamente, per applicare al nostro tema una immagine usata da Bauman per la modernità liquida, rischiamo di essere solo
dei “surfisti” del desiderare. Invece, riteniamo che ci sia richiesto di essere dei naviganti dell’isola che non c’è: l’utopia non è
fuga dalla realtà, ma immaginazione che crea alternative alla realtà
presente; ci è richiesto di essere abitatori della città non nei sogni
ma con i sogni: non con i sogni notturni e solitari, ma con i sogni
diurni e collettivi; ci è richiesto di contemplare le stelle per poter
vedere meglio in noi stessi, perché il cielo stellato non è solo nel
firmamento ma anche nella coscienza; ci è richiesto di essere dei
“desiderantes” che sanno attendere, che sanno sperare, che sanno
immaginare, che sanno tenere aperta la porta all’altro, che è in noi,
fuori di noi e sopra di noi.
Termino citando parte del testo di una canzone dedicata proprio
a Il desiderio: ne è autore quello che definirei un “cantante filosofo”, cioè Giorgio Gaber, il quale l’ha inserita nella raccolta La mia
generazione (2001): riteniamo che, nel suo genere, focalizzi bene
la rilevanza del desiderio nella vita dell’uomo e serva a sottolineare alcuni aspetti su cui abbiamo richiamato l’attenzione: “(...) Il
desiderio / è la cosa più importante / è l’emozione del presente /
è l’esser vivi in tutto ciò che si può fare / non solo nell’amore / il
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desiderio è quando inventi ogni momento / è quando ridere e parlare è una gran gioia / e questo sentimento / ti salva dalla noia. // Il
desiderio / è la cosa più importante / che nasce misteriosamente / è
il vago crescere di un turbamento / che viene dall’istinto / è il primo
impulso per conoscere e capire / è la radice di una pianta delicata /
che se sai coltivare / ti tiene in vita. (...) // Il desiderio / è la cosa più
importante / è un’attrazione un po’ incosciente /è l’affiorare di una
strana voce / che all’improvviso ti seduce / è una tensione che non
riesci a controllare / ti viene addosso non sai bene come e quando /
e prima di capire / sta già crescendo. // Il desiderio è il vero stimolo
interiore / è già un futuro che in silenzio stai sognando / è l’unico
motore / che muove il mondo”.
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60
LO STUPORE
tra cielo stellato e legge morale
Ad Aurora Sofia
Premessa
A questo terzo incontro delle conversazioni filosofiche denominate “A confronto su...” è stato dato un titolo un po’ lungo: si tratta
della famosa frase di Kant: “il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me”. Tuttavia, se volessimo dare una intitolazione in
continuità con le precedenti edizioni, potremmo dire: “A confronto
sullo stupore” o “A confronto sulla meraviglia”.
Ed è, questo, il tema che svolgeremo questa sera di agosto, del
10 agosto, quando il cielo stellato la fa da padrone, e le stelle cadenti che si vedono nella notte di San Lorenzo possono essere considerate uno specifico motivo per contribuire a destare quel sentimento di meraviglia, di stupore, cui richiama il filosofo di Konisberg.
Infatti, alla fine della Critica della Ragione pratica (A 287 - 290),
Kant scrive: “Due cose riempiono l’animo con sempre nuovo e crescente stupore e venerazione, quanto più spesso e accuratamente
la riflessione se ne occupa: “il cielo stellato sopra di me e la legge
morale in me”: ecco, lo stupore, la meraviglia come atteggiamento
generato dalla riflessione e generatore di riflessione.
Viene così riproposta da Kant una considerazione che era stata
espressa da grandi filosofi dell’antichità e che tornerà in filosofi
contemporanei. Per questo - sia detto en passant - lascia perplessi
il fatto che la grande Enciclopedia filosofica Bompiani non abbia
dedicato una specifica voce ai termini “stupore” o “meraviglia”,
cui invece dedica una essenziale voce la piccola Enciclopedia della
filosofia e delle scienze umane della De Agostini.
61
La relazione si struttura in due parti: la prima fa riferimento alla
filosofia, alla religione e all’arte, e la seconda si sofferma sul punto
di vista scientifico e su quello morale: in tutti i casi appare chiaro
che lo stupore è l’apertura per antonomasia dato il novum che lo
costituisce e che costituisce l’uomo come “animal mirans”. e quindi “interrogante”.
Parte prima
Significati dello stupore
L’approccio filosofico
In ottica filosofica, alla meraviglia hanno richiamato filosofi della classicità (platonica e aristotelica), della modernità (cartesiana,
kantiana e schellinghiana) e della contemporaneità; accenniamo ad
alcuni di loro, rappresentativi dei vari periodi.
Dalla classicità alla modernità
Platone nel Teeteto (155 d) mette in bocca a Socrate le seguenti
parole: “Ed è proprio del filosofo questo che tu provi, di essere pieno
di meraviglia, né altro cominciamento ha il filosofare che questo”.
Aristotele, dal canto suo, nella Metafisica (1, 2, 982 b 12 - 13)
sostiene che “gli uomini, sia ora sia in principio, cominciarono a
filosofare a causa della meraviglia”. Per questo Enrico Berti ha intitolato un suo libro su “le grandi questioni della filosofia antica”:
In principio era la meraviglia, e, richiamandosi al suo maestro Marino Gentile, ha affermato: in questi momenti di stupore accade “di
guardare il mondo con occhi greci ovvero con gli occhi dei greci”.
Secondo Kant, il cielo stellato, cioè l’universo fisico, e la legge
morale, cioè la coscienza etica sono questioni che generano continuamente e in misura crescente meraviglia e rispetto, ma - ecco il
punto che ci fa capire che non si tratta semplicemente di un senti62
mento estetico, bensì di una attitudine esistenziale e conoscitiva - a
condizione che la riflessione se ne occupi e se ne occupi in modo
frequente e accurato. Non solo: aggiunge Kant che stupore e rispetto “possono spingere alla ricerca, ma non sostituirne la mancanza”,
per dire che tale meraviglia, oltre che conseguenza della riflessione,
è incentivo alla ricerca veritativa e valoriale, ma non ne prende il
posto: la riflessione genera la meraviglia, che genera ricerca: ecco
il circolo virtuoso che viene attivato.
Nella contemporaneità
Ernst Cassirer, in Linguaggio e mito, assegnava alla meraviglia
espressa nell’interiezione l’inizio di quella peripezia della coscienza che sfocia nel linguaggio.
Pavlev Florensckij, in Stupore e dialettica, riteneva che solo la
filosofia si rivela in grado di tener dietro al ritmo temporale della vita, in virtù del suo metodo, la dialettica, che la radica nella
mutevolezza dei fatti con tale forza da non poterne mai venire disarcionata; si tratta di un radicamento mobile consentito dall’altro
elemento fondamentale del pensiero filosofico, quell’«acuto sentimento di apertura al novum» che è lo stupore: ecco la fonte più
autentica della filosofia.
Addirittura c’è stato chi, come Jeanne Hersch, ha riproposto lo
sviluppo della filosofia occidentale a partire non dalle sue tesi fondamentali, bensì dalla sua stessa natura, dal suo manifestarsi primario, vale a dire lo stupore. Lo stupore è la capacità di interrogarsi su
un’evidenza accecante che ci impedisce di vedere e capire il mondo
più immediato. La prima di queste evidenze è che esiste l’essere,
che esistono la materia e il mondo. A partire da questo problema
è nata in Grecia una forma di riflessione che non ha mai cessato
di stimolare lo sviluppo del pensiero: la filosofia, che è la storia
di questo stupore, sempre ritrovato, sempre vivo, continuamente
riformulato fino ai giorni nostri.
63
Al riguardo vorremmo citare due pensatori italiani. Salvatore
Natoli è autore di un libro su “filosofia e verità” dal bel titolo: L’incessante meraviglia.
E, soprattutto, Aldo G. Gargani, autore del volume Lo stupore e il caso, dove afferma che, per avere una visione del mondo,
occorre liberarsi, almeno in parte, dagli schemi precostituiti della
percezione e della comprensione che impediscono la meraviglia di
fronte all’apparire casuale del nuovo che, altrimenti, non riconosceremmo affatto. Il caso - e lo stupore che produce - “è un varco
che si apre nella fabbrica del simbolismo ben protetto e fondato,
l’occasione fortuita che si dischiude entro una versione già predisposta del mondo”; precisa Gargani che “è una nuova attitudine
etica quella che ci predispone a riconoscere il caso, il fortuito, cioè
ad attribuirgli un valore, e quindi a rilevarlo, a metterlo in cornice, a
dargli rilievo, accrescendo alla resa dei conti la nostra esperienza”.
Si badi: non si tratta allora di scegliere una diversa versione del
mondo, da contrapporre a quella cristallizzata della tradizione; non
è questo il prodotto dell’apertura al caso e allo stupore, bensì una
nuova relazione tra il soggetto e l’esperienza del mondo, anche tra
il soggetto e se stesso, una relazione che trova nel discorso il suo
compimento e la sua verità: “la verità che si estrinseca nel linguaggio e che vale come linguaggio, come relazione tra persone, contro quell’immagine della verità razionale che dirigeva invece verso
oggetti (trascendenti, ideali oppure immanenti)”. Allora le diverse
componenti della vita umana, del mondo, dell’esperienza stessa,
non saranno più saldate in una connessione logico - analitica, di
tipo causale, si troveranno invece all’interno di “una nuova logica
[...] la logica della coesistenza, dello stare insieme, come quello degli uomini e delle querce, delle pulci e del pelo dei cani”. Una logica che inevitabilmente, in quella scheggia linguistica in cui ciascuno riesce a intagliare un provvisorio senso di identità, lascia buchi,
lacune, salti, in definitiva enigmi: in questa dimensione insatura
64
forse ulteriori opportunità di future esperienze di stupore. Per molti
si tratta di “esperienze inquietanti” - dice Gargani - “unicamente
perché mostrano di non appartenere alla sfera del nostro possesso,
di disattendere quell’identità di noi con noi stessi che è soltanto una
chimerica aspirazione alla proprietà che vorremmo avere sulla vita
prima ancora di viverla, questa vita”.
Detto questo, occorre aggiungere che, tuttavia, nel nostro tempo,
sembra che stia venendo meno questa capacità di meravigliarsi e di
stupirsi, in quanto la scienza o, meglio, la tecnoscienza nelle sue
diverse espressioni e applicazioni lascia poco posto o non ne lascia
affatto allo stupore e alla venerazione, alla meraviglia e al rispetto
che Kant provava per il cielo stellato e per la coscienza morale: si
prova a spiegare lo stupore in modo neuroscientifico.
Eppure, di fronte all’universo fisico e astronomico, e alla ragione
etica e alla legge morale, avvertiamo l’inadeguatezza di tutte queste
risposte, che, per quanto forniscano delle soluzioni, non eliminano
il problema. Pertanto torna utile affrontarlo, tenendo presenti i diversi punti di vista da cui può essere riguardato. Quindi, nello spirito di questa rassegna, che intende proprio mettere “a confronto”
su un tema, facciamo ora riferimento allo stupore secondo diversi
approcci: religioso, artistico, scientifico ed etico.
L’approccio religioso
La ricerca teologica
In ottica teologica, lo stupore si rintraccia nel rapporto con Dio
nonché nello specifico orizzonte cristologico. Lo stupore caratterizza tutte e tre le modalità in cui teologicamente ci si rapporta a
Dio: quando si parla di lui, quando si parla con lui, quando lo si fa
parlare. Ci limitiamo a fare due riferimenti: a un teologo protestante
tedesco del ’900, e a un teologo cattolico italiano vivente.
Karl Barth (come ha ricordato Goffredo Scubba) ha testimoniato
con grande umiltà il sentimento di stupore che l’autentica scoperta
65
del vero genera nel cuore e nella mente di chi sente di aver attinto
a qualcosa di fondamentale: “Quando mi occupo di teologia [...]
mi metto immancabilmente in relazione [...] con la realtà di Dio”.
E proprio per questo “sono già divenuto un uomo stupito nel più
profondo del suo essere”. Tale considerazione fa capire come non
sia possibile fare teologia con distacco e freddezza, senza sentirsi
profondamente e personalmente implicati in ciò che ci sta davanti, con questo Dio che ci affascina, ci interpella e ci impegna. È
una meraviglia resa possibile da una specie di “accorta ingenuità”, capace di aprirsi all’accoglienza dell’inatteso, senza pregiudizi
o gabbie ideologiche. L’incontro allora trasforma radicalmente la
persona, genera stupore, conoscenza e amicizia; così l’incontro con
Dio fa scaturire quella fede vitale, che rappresenta l’humus naturale
della riflessione teologica e dell’amore che con essa è strettamente
legato. “È questa la condizione per potersi accostare al Mistero di
Dio lasciandosene sfiorare e guardandosi bene dalla tentazione di
volersene appropriare. Il miracolo di Dio, del suo amore, indeducibile, inatteso, non riconducibile ai sentieri e ai pensieri dell’uomo,
coglie sempre l’uomo di sorpresa e lo afferra nel profondo, illuminandolo con la luce dello Spirito, nella quale la persona trova la verità di se stesso e di tutto». Oggetto del pensiero riflesso della fede
è il “mistero”. Così “la teologia è consapevole della perenne trascendenza di questo Oggetto puro, al quale sa di relazionarsi come
povera e serva, nella condizione dello stupore e dell’adorazione”.
E Barth non esita ad affermare nella sua Introduzione alla teologia evangelica: “A chi non provasse stupore, quando in un modo
o nell’altro ha a che fare con la teologia - o a chi dopo un certo
tempo non fosse più capace di stupirsi - o a chi non provasse tanto maggior stupore quanto più si occupa di teologia, bisognerebbe
consigliare di prender qualche distanza da essa e di riflettere spregiudicatamente su che cosa essa sia, affinché possa ancora succedergli che lo stupore per la teologia gli rinasca dentro al punto da
non abbandonarlo più e anzi di diventare sempre più forte in lui”.
66
Bruno Forte, in una sua riflessione inedita su Lo stupore della
fede ha detto: “La fede è esperienza dello stupore dinanzi alla sorprendente novità con cui l’amore divino ci raggiunge: stupore della
gratuità di questo amore, ma anche stupore della nostra indegnità
a riceverlo, timore davanti all’Amato trascendente e sovrano che
si china sulla Sua creatura. Lo stupore della fede è allora al tempo
stesso coscienza della nostra finitudine, del dolore e del niente che
siamo, e riconoscimento delle “meraviglie” che il Dio vivo viene a
compiere fra noi e per noi; è apertura alle sorprese che la Sua promessa ci prepara ed è turbamento davanti all’umiltà con cui il dono
più grande è stato offerto agli uomini nell’abbandono della Croce.
Stupore di sé, stupore davanti a Dio: tali sono i tratti dello stupore
della fede, nel suo nascere, nel suo svilupparsi, nel suo farsi comunicazione e dono di vita e di bellezza ad altri”.
L’esperienza di fede
Con riferimento alla cristologia, ci pare importante riportare una
pagina di Luigi Giussani: “Il vero dramma della chiesa che ama
definirsi moderna [il vero dramma dei cristiani che vogliono essere
moderni] è il tentativo di correggere lo stupore dell’evento di Cristo
con delle regole. È una mirabile frase di Giovanni Paolo I (sarebbe
stato provvidenziale quel suo mese di pontificato, anche solo per
questa osservazione, di cui non si trova altrove l’equivalente). Cristo è un evento, un avvenimento, un fatto, che innanzitutto riempie
di stupore. L’irruzione di qualcosa di imprevedibile e di imprevisto
- un avvenimento, un “evento” - desta innanzitutto stupore. E lo
stupore è l’inizio di una reverentia, di un rispetto, di un’attenzione
umile. Come in un bambino posto di fronte a una situazione nuova:
in lui istintivamente si desta un senso di stupore e di rispetto umile
e un po’ timoroso. Chi si sottrae allo stupore dell’avvenimento, e
all’attenzione, alla venerazione, alla curiosità rispettosa e umile che
l’avvenimento istintivamente suscita, diventa schiavo di regole.
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Chi tenta di sottrarsi all’avvenimento si fa inevitabilmente schiavo
di regole. Questo spiega molto bene la caratteristica del soggetto
umano creato dalla mentalità moderna: grumo di segmenti, di particelle e di brandelli, come dicevamo. Ognuno di questi brandelli
sussiste e procede perché segue delle regole: le regole dell’ufficio,
della famiglia, le regole anche dell’andare in chiesa o in parrocchia.
Quando ci si sottrae allo stupore, alla luce e al calore che l’avvenimento di Cristo accende, e in cui soltanto emerge la faccia o l’unità
dell’io nei suoi vari aspetti (per cui essi arricchiscono l’unità e non
la deprimono in divisione rappattumata), non si può evitare di assoggettare la propria vita, segmentata, alla schiavitù delle regole.
Questa osservazione ci richiama a Cristo che ha dato la vita per
salvare l’uomo dalle regole dei farisei, dal fariseismo”.
Il senso dello stupore nei confronti del mistero cristologico si
rivela in particolare con riferimento all’Eucaristia, cui ha dedicato
un libro - intitolato proprio Stupore eucaristico - il gesuita Cesare
Giraudo. E sullo stupore eucaristico è ritornato a insistere il XXV
Congresso Eucaristico Nazionale di Ancona.
I misteri in senso religioso
Potremmo aggiungere che, teologicamente, lo stupore è generato dai misteri, ma ricordando che i misteri della religione (nello
specifico quella cristiana) non sono da intendere come sono intesi
dalla scienza e dalla filosofia: in un caso, sono problemi non ancora
risolti (ignoramus sed non ignorabimus, avrebbe detto il positivista Herbert Spencer), e, nell’altro, sono ciò che va oltre i problemi
e che ha un carattere insolubile (secondo “la metodologia dell’inverificabile” dell’esistenzialista Gabriel Marcel); i misteri, teologicamente parlando, sono invece delle verità che non attendono di
essere spiegati, ma che, anzi, rendono possibile spiegare.
In questa ottica, lo stupore che generano è generato non dalla
mancanza o impossibilità di soluzione, ma proprio dalla soluzione
68
che fornisce e che, per la sua straordinarietà, è tale da sconvolgere i
parametri ordinari, per cui si potrebbe parafrasare il titolo del libro
di Gargani, parlando di “mistero e stupore”: è questo il binomio alla
base del religioso, e in particolare di quel religioso cristiano incentrato sui misteri cristologici: dalla incarnazione alla resurrezione di
Gesù Cristo.
L’approccio artistico
In ottica estetico - artistica, lo stupore o la meraviglia sono di
casa, e in un duplice senso
L’arte generata dallo stupore
In primo luogo, perché l’arte si lega originariamente allo stupore. Konrad Fiedler: questo teorico e storico dell’arte dell’800, noto
per la sua teoria della “pura visibilità”, ha sostenuto che “lo stupore
è il primo inizio dell’arte come della filosofia”.
L’arte generatrice di stupore
In secondo luogo, perché - almeno certa arte, come quella barocca - è finalizzata a stupire: che il fine dell’arte dovesse essere lo
stupore lo diceva chiaramente Giovanni Battista Marino con versi
diventati per questo famosi: “È del poeta il fin la meraviglia, / parlo dell’eccellente e non del goffo, / chi non sa far stupir, vada alla
striglia!” (da La Murtoleide: Fischiate).
Può essere utile ricordare che una scrittrice del ’900, Ingeborg
Bachmann (cfr. Gargani, nell’opera citata), affermava che lo stupore è “l’inizio di ogni filosofare e del diventare umani”, perché lo
stupore spezza l’inconsapevole indifferenza verso ciò che indifferente ci circonda e soprattutto sconfigge la paura che sta alla base di
ogni spiegazione razionalistica, scudo definitivo contro l’angoscia
dell’ignoto.
Pertanto, come è stato suggerito (da Federico Brunetti) “compito
69
della ricerca artistica contemporanea pare non essere tanto quello di
saper illustrare le scoperte della scienza, tanto quello di saper mantenere l’immaginazione e la ragione aperte allo stupore dell’ignoto,
pur accuratamente misurato dalle più grandi e complesse macchine
fabbricate dall’umanità.
Parte seconda
Lo stupore tra scienza e coscienza
Detto questo sullo stupore in rapporto alla filosofia, alla religione e all’arte, intendiamo ora soffermarci su due ambiti: quello
scientifico e quello etico, cui fa riferimento Kant con la nota frase
posta a titolo di questa conversazione.
In ottica scientifica
In ottica scientifica, si potrebbe ripetere il bel titolo che hanno dato al loro libro Marco Bersanelli e Mario Gargantini: Solo
lo stupore conosce, nel quale hanno riportato la testimonianza di
un centinaio di scienziati sul senso della “avventura della ricerca
scientifica”.
Scienziati credenti e atei
Da parte nostra, ci limitiamo a una duplice citazione, relativa a
due scienziati, credente uno e ateo l’altro, che - al di là di questa
loro dichiarazione - sottolineano il valore dello stupore in riferimento sia all’oggetto che al soggetto della scienza.
Antonino Zichichi, nel volume Perché io credo in chi ha fatto
il mondo, sostiene che le conquiste della scienza non oscurano le
leggi divine, ma le rafforzano, contribuendo a risvegliare lo stupore
e l’ammirazione per il meraviglioso spettacolo del cosmo, che va
dal cuore di un protone ai confini dell’universo.
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Dal canto suo, Margherita Hack - nel volume Il mio infinito ha collegato lo stupore non solo al “forse infinito universo”, ma al
soggetto che in questo universo è dotato di mente, e così ha scritto:
“Quando mi capita di osservare quel bello spettacolo della natura
che è un cielo stellato, mi meraviglio pensando come semplicemente analizzando la luce di quei deboli puntini luminosi che sono le
stelle, semplicemente osservando i moti di quei puntini sulla volta
celeste, da questo granello di sabbia che è la nostra Terra di fronte all’universo, nel giro di poche migliaia di anni, la nostra mente
sia stata capace di comprendere, secolo dopo secolo, l’immensità
dell’universo e i meccanismi che lo governano, e di come in questi
ultimi due secoli, le leggi della fisica sperimentale nei laboratori
sulla Terra, ci hanno rivelato non solo l’intima natura delle stelle, i
misteri della loro formazione e fine, ma ci hanno anche permesso
di ricostruire l’evoluzione dell’universo come un tutto a partire da
quasi 14 miliardi di anni ad oggi”. Pertanto - aggiunge la Hack “l’enigma più grande e straordinario, ancora più che l’universo, è
la nostra mente, di cui ancora sappiamo tanto poco, molto meno di
quello che essa ha capito dell’universo”.
Scienza e persona
A questo punto torna allora utile ricordare un volume che, fin dal
titolo, è estremamente significativo: La meraviglia di essere uomo;
curato da Marcello Pera, raccoglie scritti di due scienziati: John
Eccles (neurofisiologo, premio Nobel per la medicina) e Daniel
Robinson (psicologo). In questo libro vengono esposte alcune tesi
scientifiche che hanno sminuito il valore della persona umana e fatto sì che innumerevoli persone considerassero se stesse e la propria
vita come insignificanti e inutili accidenti della natura materiale.
Bisogna invece riconoscere che la scienza è una delle nostre creazioni più grandi e di certo una delle guide più fidate nell’avventura
umana: merita di essere coltivata e rispettata perché è degna espres71
sione dell’abilità, della razionalità e delle speranze umane: ci aiuta
a cogliere “la meraviglia di essere umano”.
Ma bisogna nel contempo riconoscere che la scienza è anche
soggetta a distorsioni e degradazioni. Molte volte si stabilisce una
sinonimia tra vero e scientifico, ed è comune credere che ciò che
non è scientifico non può essere vero. Cosi il profano si rivolge
alla scienza del comportamento e alla scienza morale per trarne
indicazioni utili alla sua vita quotidiana, nello stesso modo in cui
potrebbe rivolgersi alla fisica e alla chimica per indirizzare la propria comprensione della natura.
In ottica morale
Proprio al libro di Eccles e Robinson vorremmo rifarci - e specificamente al capitolo su “Ragionamento morale ed evoluzionismo”
- per affrontare la questione etica.
Moralità e legalità
Al riguardo, già Kant aveva avvertito che non si possono trattare
come sinonimi termini morali e termini legali. Può, anzi, avvenire
che si verifichi un conflitto tra legge e morale, e che si giudichino
immorali certe leggi: da qui la distinzione tra doveri legali e doveri morali, e conseguentemente la rivendicazione della cosiddetta
“obiezione di coscienza”, la quale presuppone la universalità degli
imperativi morali, e il richiamo alla responsabilità personale, per
cui siamo chiamati non semplicemente a obbedire a una legge o ad
osservare una legge, ma avvertiamo la responsabilità della scelta
che facciamo, cioè di accettazione o di rifiuto di una legge sulla
base di una legge superiore, quella appunto della coscienza rispetto
a quella dello Stato o di altra istituzione.
In questa ottica, il relativismo etico contemporaneo appare inaccettabile per le contraddizioni che veicola, a cominciare dal fatto
che i relativisti sostengono che le persone hanno il diritto di fare
72
qualsiasi cosa, e gli altri hanno il dovere di rispettare tale diritto o
che la libertà sia considerata secondo criteri esclusivamente politici
e sociali, di modo che si crede che chiunque appartenga ad una
società libera sia libero di fare tutto ciò che non sia esplicitamente
proibito dalla legge: la concezione popolare ha, quindi, spogliato la
libertà di tutti i suoi attributi morali, riducendola a una pura e semplice convenzione che, a livello politico, è un sistema di governo.
In tale prospettiva, si risolve l’agire umano nella legalità in
quanto si dissolve la moralità, laddove (ed è il fulcro della lezione
kantiana) la distinzione tra legalità e moralità, configurata come
distinzione tra imperativi ipotetici o condizionati e imperativi categorici o incondizionati è essenziale per riconoscere il diverso valore dell’una e dell’altra.
Etica e persona
Anche Eccles e Robinson considerano la moralità come caratteristica unica dell’uomo e nell’uomo, quale capacità di saper discriminare il bene dal male: questa è la vera essenza della vita di
quell’essere che è l’uomo, la cui meraviglia consiste nel valore morale che gli deriva dall’essere persona. Da qui la critica al riduzionismo, al determinismo, che ci allontana dalla vera natura dell’uomo come essere dotato di coscienza, di autocoscienza: prerogative
uniche che segnalano una specificità non riconducibile ad alcuna
spiegazione neuronale. Recentemente Paul Valadier ha parlato della eccezione umana, proprio per segnalare questa specificità che fa
la differenza: il che non significa cedere all’antropocentrismo, ma
nemmeno al biocentrismo o all’ecocentrismo; significa riconoscere (secondo l’indicazione che va da Aristotele a Blaise Pascal, da
Jacques Maritain a Roger Garaudy), che l’uomo trascende l’uomo,
ovvero che nell’uomo qualcosa eccede l’umano.
Al riguardo torna utile richiamare un pensiero di Wittgenstein,
secondo il quale (come ha sottolineato Luigi Alici) c’è un rapporto
73
stretto tra etica e religione: l’etica è una sorta di stupore originario
dinanzi alla domanda ineffabile intorno al senso della vita, mentre
per identificare il senso della vita con Dio occorre passare dalla
originarietà dell’etico alla ulteriorità del religioso, affidato alla fede
nella promessa salvifica di una rivelazione positiva.
Conclusione
Vorremmo concludere utilizzando una distinzione che è stata
proposta (da Carlo Valerio Bellieni) nel campo della medicina, si
potrebbe parlare di un’etica della paura che porta in medicina alla
burocratizzazione e all’ economicismo e di un’etica dello stupore
che apre davanti all’intero universo di chi abbiamo di fronte.
Un’etica dello stupore - possiamo aggiungere - riesce forse a
salvaguardare nella scienza e nella morale la loro dimensione umanistica, che oggi sembra messa in discussione dal neuroscientismo,
che porta sia in ambito epistemologico sia in ambito etico ad un
naturalismo conoscitivo e pratico.
Occorre allora riflettere sulla neurognoseologia e sulla neuroetica (su cui hanno scritto Nicla Vassallo e Laura Boella), non per rifiutare il progresso delle scienze cognitive, ma per non considerare
la spiegazione neuronale come una spiegazione totalizzante, perché
questo finirebbe per configurarla come una spiegazione totalitaria.
Riteniamo che, allora, possa risultare di grande interesse il saggio di Petrosino sullo stupore, dove offre un contributo originale
alla comprensione dell’esperienza del vedere; infatti, interpreta lo
stupore come una forma di risposta a “ciò che ci raggiunge nello
splendore del suo apparire”, conducendoci nell’affascinante mondo
dello “sguardo”, fino a portarci di fronte alla meraviglia dell’evento
singolare che sempre ci interpella personalmente e davanti al quale
“siamo chiamati a rispondere, prima ancora che con le parole, con
i nostri stessi occhi”.
74
Bibliografia sullo Stupore
Dal punto di vista filosofico
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Bramati, Bruno Mondadori, Milano 2002; Ead., Lo stupore filosofico, trad. ital.,
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natura, postfaz. di Fulco Pratesi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001
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Fredrich W.J. Schelling, Filosofia della rivelazione, trad. ital., a cura di Adriano
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materna. La condizione umana e il pensiero plurale, Mimesis, Milano 1993, pp.
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Aldo G. Gargani, Lo stupore e il caso, Laterza, Roma-Bari 1992
Salvatore Natoli, L’incessante meraviglia. Filosofia, espressione e verità,
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Silvano Petrosino, Visione e desiderio. Sull’essenza dell’invidia, Jaca book,
Milano 2010; Id., Lo stupore, Interlinea, Novara 2012
Andrea Porcarelli, Sui sentieri della meraviglia. Lezioni di introduzione alla
filosofia della luce di Tommaso d’Aquino, Giardino dei pensieri, Bologna 2012
Alfredo Bianco, Filosofia della meraviglia. Manuale di meditazione quotidiana,
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75
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1990: in particolare la Lezione VI sullo “Stupore”; Id., Momenti. Testi di
meditazione, trad. ital., Queriniana, Brescia 2005
Luigi Giussani, Lo stupore e le regole, in “Tracce” , febbraio 2000
Carlo Rocchetta, Briciole di tenerezza. Per educarsi allo stupore di essere,
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Giancarlo Galeazzi (a cura di), La quotidianità eucaristica: contesto e ambiti
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Luigi Giavini, Ravie. Lo stupore dal presepe alla croce, Nomos, Busto Arsizio
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M. Gloria Riva, Nell’arte lo stupore di una Presenza, San Paolo, Cinisello
Balsamo 2005
Alexandr Filomenko, L’oceano del mistero, SEF, Firenze 2014
Dal punto di vista estetico
Francesco Bevilacqua, Elogio dello stupore. Estetica, sacralità, etica della
natura, postfaz. di Fulco Pratesi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001
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Milano 2009
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Albert Einstein, Il mondo come lo vedo io, Newton Compton, Roma 2012
Margherita Hack, Il mio infinito. Dio, la vita e l’universo nelle riflessioni di una
scienziata atea, Dalai, Milano 2011
Antonino Zichichi, Perché io credo in chi ha fatto il mondo. Tra fede e scienza,
Tropea, Milano 2009; Id., L’infinito. L’avventura di un’idea straordinaria,
Tropea, Milano 2009
76
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di Marcello Pera, A. Armando, Roma 1988
Stephen Greenblatt, Meraviglia e possesso. Lo stupore di fronte al nuovo mondo,
trad. ital., Il Mulino, Bologna 1994
Amedeo Balbi, Cercatori di meraviglia. Storie di grandi scienziati curiosi del
mondo, Rizzoli, Milano 2014
Carlo Valerio Bellieni, Padroni della vita? Piccolo vademecum di bioetica,
Società Editrice Fiorentina, Firenze, 2006
Dal punto di vista educativo
Rosette Poletti - Barbara Dobbs, Quaderno di esercizi per coltivare l’arte dello
stupore, Vallardi, Milano 2012
Gianfranco Zavalloni, La pedagogia della lumaca. Per una scuola lenta e
solidale, EMI, Bologna 2008
Catherine L’Ecuyer, Educare allo stupore, trad. ital., Ultra, Roma 2013
77
Giancarlo Galeazzi, presidente onorario della Società Filosofica Italiana di Ancona (Foto di Federica Perilli)
78
LA MEMORIA
per l’identità individuale e collettiva
A Valerio
Premessa
Solo a scorrere i titoli della nutrita bibliografia sulla memoria,
si può avere una idea della complessità del tema; si parla infatti de
le molte facce della memoria (1990), de la memoria e i suoi segreti
(1993), di vizi e virtù della memoria (2009), e la cosa riguarda non
solo la memoria dal punto di vista individuale, ma anche quella da
punto di vista sociale, per la quale si è parlato de l’enigma della
memoria collettiva (2011). E già sant’Agostino ne Le confessioni
(X, 27) lo aveva puntualizzato, scrivendo che “la facoltà della memoria è grandiosa. Inspira quasi un senso di terrore, Dio mio, la sua
infinita e profonda complessità”.
Una complessità che si è addirittura resa anche più evidente man
mano che si sono sviluppate le ricerche in molteplici ottiche. Da
sempre la memoria è oggetto della filosofia: da Platone ad Agostino, da Aristotele a Tommaso, da Locke a Hume, da Bergson a
Heidegger, da Ricoeur a Ferraris. Per la letteratura, poi, la memoria
ha rappresentato un elemento costitutivo; pensiamo a poeti come
Leopardi e Pascoli, a scrittori come Pirandello, Levi e Calvino, ma
è soprattutto in alcuni autori del ’900 come Proust, Kafka, Joyce e
Borges che si è imposta in modo originale; senza peraltro dimenticare certa produzione cinematografica. La religione, dal canto suo,
trova nella memoria un luogo teologico essenziale, specialmente
nel monoteismo mediterraneo. Ma sono in particolare le scienze
- da quelle psicologiche alle neuroscienze - ad aver esplorato in
modo inedito la memoria, mettendo fine a certi luoghi comuni: così
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si sono superate certe semplificazioni, anche se si corre il rischio di
una naturalizzazione della memoria (come della persona).
Tuttavia, tenendo presenti questi quattro approcci principali alla
memoria, è possibile affrontare il problema, rispettandolo nella sua
complessità, ed è, questa, la condizione per evitare indebiti riduzionismi. Vediamo allora nella prima parte i quattro approcci indicati;
un tale confronto potrà far emergere meglio nella seconda parte la
necessità di misurarsi con la memoria come dimensione essenziale
della biografia delle persone e della storia delle collettività.
Parte prima
Significati della memoria
Approcci alla memoria
L’approccio filosofico
L’approccio filosofico ha dato luogo a diversi paradigmi: due
quelli principali. Il paradigma ontologico è presente in Platone
come reminiscenza (anamnesi) dell’essere, in Agostino come nostalgia del divino, e in Heidegger come oblio dell’essere. Il paradigma antropologico è presente anzi tutto in Aristotele, che distingue tra memoria (il ricordare involontario) e reminiscenza (il
ricordare volontario), e poi in Tommaso, e sarà successivamente
riproposto nel nuovo contesto della soggettività moderna e, in chiave gnoseologica, porrà la questione della identità dell’io: così negli
empiristi Locke e Hume. Una rinnovata riflessione caratterizzerà
il ’900 con filosofi come Bergson, Ricoeur e Ferraris; su questi tre
autori intendiamo ora soffermarci.
Ne L’evoluzione creatrice (del 1907) Henri Bergson ha identificato memoria e coscienza, affermando che “il fondo della nostra
esistenza cosciente è memoria”, e in Materia e memoria (del 1896)
Bergson aveva investigato la funzione del cervello, e intrapreso una
80
analisi della percezione e della memoria, portando a prendere in
considerazione i problemi sulla relazione tra corpo e mente. Il tentativo di Bergson è quello di andare oltre il realismo e l’idealismo, e
si concretizza nella definizione della percezione come di una forma
di coscienza che ingloba sia il soggettivo sia l’oggettivo; l’immagine si pone come saldatura fra la materia e la memoria. Bergson,
analizzando il rapporto concreto fra percezione e memoria, ritiene
che l’interazione fra il dato e il ricordo di esso si configura come
un circuito, in cui il dato viene arricchito di apporti interiori che
ne personalizzano la percezione. Alla fine, è il criterio pragmatico dell’utilità ad essere responsabile dell’evocazione di un determinato ricordo, che non è mai “puro” ma è sempre “impregnato”
di percezione, così che il dualismo fra percezione estensiva e ricordo spirituale si risolve in una metafisica dei differenti livelli di
realtà. Un’altra conclusione importante concerne la vita spirituale
che, secondo Bergson, trascende i limiti del corpo e quindi, conseguentemente, della percezione e dell’azione, vincolate esse stesse
al corpo. Dunque - ecco un punto di assoluta rilevanza - il dualismo corpo e spirito può trovare nella memoria una riformulazione,
perché proprio nella memoria troverebbe uno strato di contiguità
l’elemento materiale (la necessità della natura) e l’elemento spirituale (la libertà dello spirito). Per dirla con le sue stesse parole, “la
memoria è qualcosa di diverso da una funzione del cervello e tra
la percezione e il ricordo non c’è differenza di grado, ma di natura”, per cui la memoria (sottolineiamo questa considerazione) “non
consiste affatto in una regressione dal presente al passato, ma al
contrario in un progresso dal passato al presente”.
In Ricordare, dimenticare, perdonare e precisamente nel primo
saggio su L’enigma del passato (pubblicato nel 1998), Paul Ricoeur
ripensa il passato in una più vasta dialettica delle tre dimensioni
temporali, costruita grazie ad una libera meditazione sui testi di
Agostino e Heidegger. Lo scopo di Ricœur è quello di mantenere
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passato, presente e futuro allo stesso livello di originarietà, denunciando al tempo stesso l’impossibilità di una loro totalizzazione. Se
Aristotele diceva che “la memoria è del passato”, Ricœur si chiede
cosa significa del passato? Cosa significa “essere passato”? La scelta di considerare il passato indipendentemente dal futuro si rivela
inadeguata, provocando la frammentazione dell’enigma iniziale.
Viene posto in primo piano il problema della dualità tra l’”essente
stato” e il “non essere più”. Ricœur sostiene il pari diritto di entrambe le definizioni. Il passato come “perduto”, “trascorso”, non
va inteso soltanto come quel che non è più a portata di mano, ma
anche come quel che abbiamo irrimediabilmente perduto, non però
in un senso semplicemente privativo. L’idea di perdita, secondo
Ricoeur, va riconsiderata: definire il passato come essente stato,
“passa attraverso la prova della perdita e quindi attraverso il non
esser più”; dunque l’oblio si pone quale condizione di possibilità
della memoria e della storia: “solo a condizione della separazione
la distanza diviene significativa e si pone l’essente stato”.
Passando a Maurizio Ferraris, la sua tesi di fondo è che, diversamente da quanto sostenevano i postmoderni, il mondo sociale non
è una sfera liquida ed evanescente; al contrario è fatto di oggetti
sociali, intesi come “iscrizioni di atti”, cioè come la fissazione di
rapporti che accedono alla dimensione della oggettività proprio attraverso la registrazione, il che spiega l’importanza dei documenti
nel mondo sociale, e il fiorire di strumenti potenti e portatili di archiviazione, come appunto l’iPad. Computer, smartphone, tablet e
via registrando sono macchine, che sono essenzialmente memorie,
in cui si depongono e conservano tutti i contatti della nostra vita,
tutti i pensieri e progetti, e anche le cose che abbiamo dimenticato,
che restano lì, come in una specie di inconscio. Pertanto queste
memorie sono una specie di supplemento d’anima o di anima di
scorta, e in questa affermazione non c’è niente di sorprendente,
se si considera che la rappresentazione tradizionale dell’anima, già
82
presso i Greci, era quella di una tabula, una tavoletta di cera in cui
si imprimono discorsi, sensazioni, ragionamenti. Il tablet esterno,
l’iPad, è dunque la protesi della tabula interna, ed è la più recente
di tutte quelle altre protesi - archivi, documenti, promemoria, libri,
appunti - con cui l’umanità ha cercato di rimediare alla finitezza
della memoria e soprattutto della vita: fintanto che qualche memoria rimane da qualche parte, fosse pure solo in un iPad, resta (scrive
Ferraris) un po’ di anima, mentre se la memoria se ne va si ha un
bell’essere vivi, anche l’anima se ne è andata, ed è per questo che
l’Alzheimer ci fa tanta paura. Ebbene, avvicinando anima e iPad
(così nell’opera omonima del 2011) la complessità che inerisce al
tema della memoria viene decisamente accentuata, e chiama in causa confronti, che sono stati appena avviati.
L’approccio artistico
L’approccio artistico alla memoria è rinvenibile in particolare
nella letteratura e nella cinematografia.
Tra i prosatori e poeti ci limitiamo a segnalare due nomi di poeti
italiani: Giacomo Leopardi e Giovanni Pascoli, e, soprattutto, lo
scrittore che ha legato il suo nome alla “ricerca del tempo perduto”,
Marcel Proust.
Il tema della rimembranza è centrale in Giacomo Leopardi: nel
suo pensiero, nella sua vita e nella sua opera (solo la rimembranza
è “poeticissima”): alla “rimembranza” del proprio passato Leopardi
dedicò ad esempio alcuni Canti, tra i più struggenti: Alla luna (“O
graziosa luna, io mi rammento...”), A Silvia (“Silvia, rimembri ancora ...”) e Le ricordanze (... “D’ogni mio vago immaginar, di tutti /
I miei teneri sensi, i tristi e cari / Moti del cor, la rimembranza acerba”); nello Zibaldone il tema è connesso alla gioventù e alla poesia.
Di una poetica della memoria accanto ad una poetica delle cose
si parla per Giovanni Pascoli e poesie come X agosto (da Myricae) e
L’aquilone (da Poemetti) possono bene esemplificare la sua posizione.
83
Per quanto riguarda Marcel Proust e la sua Ricerca del tempo
perduto, ciò che distingue genialmente la sua prospettiva da produzioni apparentemente analoghe, fondate anch’esse sul ricorso al
ricordo biografico, è l’intreccio fra memoria e oblio, tra veglia e
sonno. Tutto in Proust comincia con il sapore, il profumo, il gusto
di un biscotto - la madeleine - intinto nel tè a cui è conferito un potere evocativo di restituzione del passato perduto dell’infanzia, di
cui va appunto in cerca. È, dunque, la memoria involontaria ben più
di quella volontaria a strutturare l’esistenza. Secondo Proust (come
ha ben sintetizzato Giorgio Manganelli in Cento libri) la nostra vita
è paradossalmente all’insegna del tempo e poco cronologica, in
quanto caratterizzata da tanti anacronismi, “depositari di emozioni,
che nella vita ritornano e scompaiono con la predestinata insistenza
del ritmo. Persistenze, memorie che Proust chiama involontarie, e
pertanto autentiche, non prevedibili, e non rifiutabili, affidate ad
una minima zona di realtà, a una sensazione isolata”. Per dirla con
lo stesso Proust: “un’ora non è soltanto un’ora. È un vaso ricolmo
di profumi, suoni, piani, climi. Quel che chiamiamo realtà è una
certa relazione tra codeste sensazioni e le memorie che nello stesso
istante ci circondano”.
Altri autori che sarebbero da tenere presenti, ma che ci limitiamo solo a citare, sono Kafka, Joyce e soprattutto Borges (Finzioni),
tra gli stranieri, e Pirandello, Italo Calvino (de Le città invisibili) e
Primo Levi (de I sommersi e i salvati) tra gli italiani.
Nell’ambito cinematografico ci limitiamo a segnalare due film.
Blade Runner del 1982 è ambientato a Los Angeles nel 2019; liberamente ispirato al romanzo Il cacciatore di androidi di Philip K.
Dick (ma il titolo del film è tratto dal romanzo The Bladerunner di
Alain E. Nourse) ha ricevuto nel 1983 il Premio Oscar per la sceneggiatura e gli effetti speciali. Il film pone in termini fantascientifici delle questioni di carattere filosofico, relative alla identità dei
cosiddetti “replicanti”, i quali sono androidi organici pressoché
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indistinguibili dall’uomo con ricordi prefabbricati che i replicanti
credono propri.
Se mi lasci ti cancello è un film del 2004 firmato da Michel Gondry; il titolo originale Eternal Seinshine of the Spotless Mind (“Infinito letizia della mente candida”) è tratto da un verso dell’opera
Eloise to Abelard del poeta inglese Alexander Pope. Vincitore del
Premio Oscar 2005 per la sceneggiatura, questo film pone il problema della memoria in relazione alla identità personale, al senso della
storia biografica di ciascuno.
L’approccio religioso
L’approccio religioso alla memoria può essere bene esemplificato dal monoteismo ebraico e cristiano.
Nella tradizione ebraica (come ha puntualizzato S. Veca) l’esercizio memoriale gioca un ruolo eminente, perché l’assenza di memoria è un simbolo per eccellenza del disvalore e dell’antivalore.
Essa suona come una minaccia alla persistenza stessa della durata
della realtà degli esseri umani. Si può aggiungere (con G. Busi) che
l’ebraismo ha sviluppato nei secoli una delle riflessioni più organiche sul bisogno di memoria non solo come tutela della autonomia
culturale ma proprio come essenza della struttura del mondo.
Nella cultura ebraica l’imperativo di ricordare si coniuga con
quello del perdonare, e il cristianesimo insisterà su questa dimensione, che reclama la capacità di ricordare ma anche di dimenticare.
Non solo, dal punto di vista cristiano si deve operare una distinzione importante, quella tra memoria relativa ai ricordi e memoria
assoluta, cioè l’evento salvifico della morte e risurrezione di Cristo,
per cui la memoria non è solo evocativa, ma anche e propriamente
salvifica.
L’approccio scientifico
L’approccio scientifico alla memoria vede la psicologia del pro85
fondo e le scienze cognitive, le psicoscienze e le neuroscienze impegnate a rinnovare lo studio della memoria, e le novità sono tali
da dar luogo anche a ipotesi fantascientifiche; valgano per tutti i
citati film Blade Brunner e Se mi lasci, ti cancello. Ma, al di là della
fantascienza, le questioni che sono suscitate dalle conquiste scientifiche, tecniche e tecnologiche pongono pure inediti interrogativi
di carattere etico, nel senso che il “poter” fare certe cose porta a
interrogarsi sul “dovere” di farle, per cui si entra nel campo della
bioetica, cui dà inediti contributi la neuroetica.
Tra le principali teorie sulla memoria segnaliamo (sulla scorta della sintesi operata da Umberto Galimberti nel suo Dizionario
di psicologia alla voce “memoria”) quella iniziale della psicologia
associazionistica che spiega la memoria in termini di nessi associativi; essa fu contestata dalla psicologia della forma che spiega
la memoria in termini di organizzazione dell’insieme; a questa si
oppose il comportamentismo che spiega la memoria in termini di
condizionamento sul modello stimolo - risposta; ad esso replicò il
cognitivismo che nega l’unicità del processo di memorizzazione, e
distingue la memoria a lungo, a breve e a brevissimo termine.
A parte va ricordata la psicoanalisi in riferimento alla psicopatologia della vita quotidiana e ai fenomeni di rimozione. Infine, nell’ambito della sociobiologia R. Dawkins ha ipotizzato come
controparte del gene, il meme, ossia l’unità dell’ereditarietà culturale che avrebbe alcune proprietà dell’evoluzione biologica con
possibilità di trasmissione culturale da individuo a individuo. In
breve, grazie alla psicologia e alle neuroscienze si è determinato
(avverte Brandimonte) per un verso il superamento della concezione secondo cui la memoria sia una facoltà unitaria della mente e per
altro verso l’affermazione dell’idea che essa sia una costellazione
di processi e di sistemi separati.
In questo contesto vanno collocate la fisiologia e la patologia
della memoria.
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Va allora segnalata la tipologia della dimenticanza, che, a livello
fisiologico, può presentarsi come temporanea, dovuta a distrazione
o perdita temporanea della memoria, ovvero come più o meno duratura, che è l’oblio, ossia la scomparsa o sospensione del ricordo.
Invece, a livello patologico, vanno segnalati due disturbi: l’amnesia, che è un disturbo della memoria a lungo termine episodica,
e può essere retrograda e anterograda; e la ipermnesia, che è l’eccessivo sviluppo della memoria, cioè la ipertrofia della memoria, e
può essere transitoria (p.e. nei depressi) e permanente (p.e. negli
idiots savants). Un’alterazione qualitativa della memoria, che deforma i ricordi, è la paramnesia, la quale può configurarsi come
reminiscenza (rievocazione senza riconoscimento) e pseudoreminiscenza (rievocazione errata). Infine va segnalato il fenomeno del
deja vu (o falso riconoscimento: esperienze nuove percepite come
già vissute) e simili: deja etendu, deja fait, deja pensée, e il fenomeno del jamais vu (o misconoscimento: esperienze note percepite
come nuove).
Forme della memoria
Complessità della memoria
Dunque, la riflessione filosofica, la tradizione religiosa, la immaginazione poetica e la ricerca scientifica danno contributi preziosi
per la comprensione della memoria, e ne mettono opportunamente
in luce la complessità. D’altra parte, della importanza della memoria facciamo esperienza tutti e tutti i giorni: sia nel senso dell’essere ricordati, sia nel senso del ricordare.
Ciascun essere umano (ha detto Paolo Rossi Monti) ha il terrore
di essere dimenticato: il nostro desiderio di immortalità, indipendentemente dal fatto che crediamo o meno all’anima immortale
è comunque forte, e con il Foscolo “l’eredità di affetti” è motivo
confortante per essere ricordati e immortalati (Dei sepolcri) o con
il Manzoni “il cumulo delle memorie” è motivo devastante per la87
sciare “ai posteri l’ardua sentenza” (Cinque maggio).
A parte questo, anche il riferimento alla più banale quotidianità
ci richiama alla insostituibilità della memoria: che sarebbe della
nostra vita, se non avessimo memoria: se non ci ricordassimo degli
impegni e degli appuntamenti, se non ci ricordassimo di quello che
abbiamo detto e fatto?
Allora i diversi e specifici approcci alla memoria servono non
tanto ad affermare l’importanza della memoria (di cui siano ben
consapevoli) quanto a sottolineare la complessità, evidenziando le
diverse funzioni - biografica e storica, protettiva e sovversiva - della memoria.
Livelli della memoria
A questo punto volendo operare delle distinzioni semantiche
del concetto di memoria, possiamo parlare di memoria a tre livelli
seguendo Ugo Perone. In primo luogo, come Contenuti (i ricordi),
cioè come traccia (o relazione fra tracce) di accadimenti passati di
tipo individuale (la memoria è depositata in una traccia) o di tipo
sociale (la memoria si deposita in una traccia). In secondo luogo,
come Capacità (la facoltà di ricordare), intesa o come contenitore
(ricettacolo), ovvero come atto del pensiero (razionale, volontario,
associativo). In terzo luogo, come Consapevolezza (cioè trattenimento della differenza), coglimento del vero (assoluto) nella condizione dell’umano (relativo), trattenimento di un assoluto (la verità)
ma nella consapevolezza della differenza da quello che può essere
solo ricordato (reminiscenza, rammemorazione).
Un’altra classificazione della memoria, oltre a questa delle Tre
C, può essere quella delle Tre R, secondo cui la memoria può essere
considerata come: Ritenzione (memoria pura), Ricordo (memoria
selettiva) e Reminiscenza (memoria veritativa).
Queste ed altre specificazioni della memoria servono a evidenziare il superamento di concezioni tradizionali della memoria, che
88
dunque non va intesa come una facoltà specifica: essa ha un carattere sia volontario, sia involontario, sia cosciente, sia incosciente,
secondo quanto evidenziato con i quattro approcci principali (filosofico, estetico, religioso e scientifico) alla memoria, cui abbiamo
già fatto cenno per quanto sinteticamente.
Tipologia della memoria
Detto questo, possiamo specificare alcune questioni relative alla
dimensione individuale e collettiva della memoria.
Riguardo al problema della natura del ricordo, se esso cioè possa
definirsi individuale o intersoggettivo, possiamo richiamare alcune
impostazioni principali: c’è una tradizione riflessiva e intimistica
da Agostino a Husserl; c’è poi la tesi del primato della memoria
collettiva sostenuto da Maurice Halbwachs; c’è infine la posizione
di Paul Ricoeur, secondo il quale va riconosciuta la costituzione
reciproca e simultanea del ricordo soggettivo e di quello sociale: la
memoria deve essere intesa non più come la memoria soltanto di un
singolo, bensì come un intreccio costruito con gli altri.
In questo contesto si colloca la distinzione tra memoria individuale e memoria collettiva, tra biografia di una persona e storia di
una società: né l’una né l’altra sarebbe possibile ricostruire senza
la memoria, della quale tuttavia dobbiamo sapere con Primo Levi
(de I sommersi e i salvati) che è “uno strumento meraviglioso, ma
fallace”.
Più precisamente, per quanto riguarda la memoria individuale, è
da dire che essa è stata intesa come un contenitore, cioè un ricettacolo di ricordi, mentre oggi viene concepita come atto del pensiero
(razionale, volontario, associativo), che produce ricordi, ossia tracce (o relazioni fra tracce) di accadimenti passati. Anche la memoria
collettiva è data dall’insieme di ricordi, cioè tracce (o relazioni fra
tracce) di accadimenti passati, ma di tipo sociale.
In ogni caso, la memoria ha una duplice dimensione: retrospet89
tiva, come ricordi che illuminano il nostro passato e connotano la
nostra biografia (identità e storia), e prospettica, come ricordi che
aprono al nostro futuro, per mettere a frutto le esperienze passate
per prepararsi alle esperienze future. Questa seconda è quella praemeditatio malorum cui invitavano gli stoici antichi, e che è riproposta nel neopaganesimo di Salvatore Natoli.
Anche dal punto di vista della storia, occorre rilevare con Ricoeur non solo la sua impostazione retrospettiva, ma anche l’effetto secondario dell’orientamento prospettico, verso il futuro,
l’orizzonte di attesa, presente comunque nello storico, in quanto
cittadino e uomo. Si apre così un quadro assai paradossale: nella
rappresentazione storica si incrociano passato e futuro, influenzandosi reciprocamente. Lo mostrano infatti due esperienze: il limite
della colpa e del perdono. La prima è “il fardello che il passato fa
pesare sul futuro”. Il secondo invece è una re - interpretazione di
quel che è accaduto, il cui senso non è fissato una volta per tutte. La
memoria viene rivisitata dal progetto del futuro e offre un modello
alla conoscenza storica. In tal modo la fedeltà della memoria aiuta
la verità della storia e viceversa.
Parte seconda
La memoria tra identità e educazione
Memoria e identità
Memoria e persona
Eccoci di fronte al problema del rapporto tra memoria e identità.
Se definiamo la identità come lo specifico per cui qualcuno non
è qualcun altro e da ogni altro si distingue nel suo fare esperienza dello stare al mondo in rapporto alla triplice dimensione della
temporalità, possiamo dire che l’identità - a prescindere dalla sua
costituzione ontologica, per cui permane nel divenire e diviene nel
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permanere - si presenta costituita dalla memoria: “ogni coscienza
di identità è intrinsecamente voltata all’indietro, cioè verso il tempo
lungo o breve che è appena trascorso. Ogni forma di autocoscienza
è riflessione su chi siamo stati, magari fino a un minuto prima, a
un attimo fa. L’identità è memoria”, come scrive Giovanni Jervis
(ne La conquista dell’identità), anche se la memoria non esaurisce
l’identita: la memoria non è solo coscienza del passato, ma anche
coscienza che impegna nel presente e che proietta nel futuro, e in
entrambi questi casi risente della esperienza passata in termini di
continuità o discontinuità. Dunque, la memoria, grazie alla quale gli esseri umani stabiliscono una connessione fra il passato e
il presente, nonché con il futuro, è un ingrediente basilare della
identità: tanto un individuo può sviluppare un’identità personale e
mantenerla nel tempo grazie alla sua memoria, altrettanto una collettività è in grado di riprodurre la sua identità solo attraverso la
memoria. Occorre aggiungere che il proprio presente di individuo
o di collettività si può affermare attraverso la continuità con il passato, oppure attraverso una rottura radicale con esso, spingendosi
fino all’oblio; tra questi due estremi si colloca una serie continua di
possibilità intermedie.
Dalla letteratura psicologica e psicoanalitica sono state evidenziate la complessità e l’importanza della costruzione del passato per
l’identità della persona. Dalla letteratura storica e etnografica sono
state evidenziate la complessità e l’importanza della costruzione
del passato per l’identità di una collettività a livello di paese, città,
nazione. E sia in senso individuale che sociale il tema dell’identità costituisce una questione nevralgica, che si è nel tempo diversamente configurata. Per esemplificare e semplificare, vorremmo
parlare di tre concezioni della identità: c’è un’idea rocciosa della
identità identificata con la struttura ontologica dell’individuo; c’è
un’idea volatile della identità identificata con la condizione empirica dell’individuo; c’è una idea liquida della identità identificata
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con la capacità adattativa dell’individuo: un’idea, questa, che insiste sul carattere processuale, plurale, proteiforme dell’individuo,
È evidente che in rapporto a queste diverse concezioni (che non
si escludono reciprocamente, ma che possono integrarsi legittimamente) si riconosce un diverso ruolo alla memoria, la quale però in
tutti i casi rimane essenziale.
Ancora una volta può tornare utile fare riferimento a Paul Ricoeur, il quale - in tema di identità personale - distingue tra “medesimezza” e “ipseità”, per indicare due modalità di persistenza
nel tempo, e precisamente l’identità come medesimezza per cui un
individuo è riconoscibile e riconosciuto come lo stesso (idem) per
certi aspetti permanenti caratterologici e pubblici; e l’identità come
ipseità che riguarda l’aspetto narrativo che si modifica ogni volta
che il soggetto costruisce un racconto di sé e ha quindi una dimensione più privata, relativa a sé proprio (ipse); nella medesimezza
l’invariante si lega al passato, nella ipseità l’invariante riguarda il
futuro: per un verso il ricordo nella continuità, per altro verso l’impegno a mantenere la promessa. Una tale idea articolata di identità
chiama in causa in diverso modo la memoria, mostrandone la complessa funzione.
Dunque, di contro alla concezione secondo cui la memoria è vista come legata al passato, oggi si tende a non trascurare la dimensione del futuro, che permette di collegare la memoria alle categorie di responsabilità e di perdono.
Memoria e società
Sia in riferimento al passato, sia in riferimento al futuro, l’esercizio memoriale è chiamato a misurarsi con il principio responsabilità, che è tanto maggiore, quanto più la società è multiculturale,
perché deve misurarsi con la compresenza di culture diverse che,
proprio in nome delle diverse memorie, potrebbero ritenersi incompatibili e incomunicabili, per cui un impegno ormai improcrastina92
bile è quello di mostrare che, invece, si può e si deve andare oltre
lo “scontro delle civiltà” come anche dello “scontro nelle civiltà”,
realizzando “il dialogo fra le culture”: non dunque cancellandole
o imponendone una sulle altre, ma permettendo che interagiscano,
per cui si conservano e si modificano, dando magari luogo a nuove
tradizioni.
In questo contesto è da aggiungere che la memoria può avere
anche una valenza sovversiva, sulla quale conviene richiamare l’attenzione, in quanto, diversamente dalle funzioni che sono di per sé
evidenti e condivise, la dimensione rivoluzionaria della memoria
appare tutt’altro che scontata. Così, di contro alla concezione, secondo cui la tradizione è fondata sulla ripetizione nella continuità,
s’è fatta strada oggi la concezione per la quale la tradizione va invece fondata sulla consapevole ripresa delle differenze. Quindi oltre
al carattere meramente retrospettivo - individuale della memoria,
bisogna mettere l’accento anche sulle sue possibilità di trasformazione rivoluzionaria, e dunque (vi ha insistito Walter Benjamin) di
rendere possibile l’istituzione di una nuova tradizione all’insegna
del discontinuo.
Ed è impostazione che torna non solo sul piano politico ma anche
su quello teologico, per cui la memoria non appare esclusivamente
legata a visioni continuistiche e conservatrici, ma sempre più viene
ad assumere valenze liberatrici. In questa ottica è significativa l’opera di un teologo della liberazione come Battista Metz, secondo il
quale proprio il radicamento in una “memoria assoluta” - l’evento
salvifico della morte e risurrezione di Cristo - è in grado di rendere
possibile sempre di nuovo l’inizio di una nuova storia di libertà,
per cui la memoria ha una funzione rischiosa, capace di mettere in
discussione l’ordine cristallizzatosi.
Da quanto accennato consegue che la memoria, dal punto di vista sociale, può essere alla base di una impostazione caratterizzata
da conservatorismo e tradizionalismo, ovvero da contestazione e
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innovazione, a seconda dell’uso o dell’abuso che si fa della memoria. Un dibattito rinverdito oggi dalle posizioni di “comunitaristi”
e “liberals” che legano l’identità rispettivamente al contesto delle
comunità particolari o alla teoria dei diritti universali.
La questione del perdono
Una questione che si ritrova tanto a livello di memoria individuale quanto a livello di memoria collettiva è quella dell’oblio, cui
ha riservato particolare attenzione Ricœur, il quale lo ha distinto
in oblio profondo, che opera contro la memoria come ritenzione e
conservazione, e in oblio manifesto, che opera contro la memoria
come rimemorazione, richiamo; questo secondo livello dell’oblio
viene distinto in tre diverse tipologie: l’oblio passivo è la coazione a ripetere, il passaggio all’atto che sostituisce il ricordo; l’oblio
semi - attivo e quello semi - passivo rappresentano la fuga, un “non
volerne sapere” ambiguo e irresponsabile; l’oblio attivo, proprio
del racconto, è invece selettivo e risponde ad una necessità inerente
al compito stesso di raccontare.
Tra le forme di oblio attivo Ricoeur segnala il perdono, che è
indirizzato alla colpa e il cui oggetto non è il passato come tale ma
il suo senso. È un dono di riconciliazione che si offre, ma che lascia sempre il debitore o l’assassino insolvente. Per quanto l’agente
valga sempre di più dei suoi atti, per quanto questi ultimi siano
separabili da lui, per quanto egli possa fare dichiarazioni del suo
pentimento e del suo rammarico, tali atti continuano comunque a
seguirlo e a condannarlo. Ci troviamo allora collocati in un’economia al di fuori di ogni forma di scambio, un rapporto non commerciale: “l’amore ai nemici è la misura assoluta del dono, alla quale è
associata l’idea di prestito senza speranza di ritorno”.
A queste considerazioni Ricœur aggiunge l’idea di perdono difficile; al riguardo così si esprime: “il perdono difficile è quello che,
prendendo sul serio il tragico dell’azione, punta alla radice degli
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atti, alla fonte dei conflitti e dei torti che richiedono il perdono: non
si tratta di cancellare un debito su una tabella dei conti, al livello
di un bilancio contabile, si tratta di sciogliere dei nodi”. Il perdono
inteso come perdono difficile è “il perdono esercitato in situazioni
estreme, nei casi di torti irreparabili, il perdono è una forma di oblio
che ci aiuta a ricordare meglio, a rivisitare le nostre tradizioni, è un
prendere serenamente congedo da un passato che non vuole passare”. La memoria diventa così strumento per la costruzione di un
futuro consapevole.
Ambivalenza della memoria
Tanto nella dimensione individuale, quanto in quella collettiva,
la memoria ha una caratterizzazione ambivalente, nel senso che
può avere una valenza positiva ovvero negativa.
La memoria in senso positivo è quella che rende possibile una
storia personale e una storia sociale, in quanto rispettivamente è
condizione della identità individuale e della tradizione collettiva,
per cui si può parlare di memoria biografica e di memoria storica.
Inoltre appare senza dubbio positivo il fatto che (come ha sottolineato Ugo Perone) “l’esercizio memoriale, connettendosi alla
compagnia di altri e di altro, fa sì che la condanna alla solitudine involontaria, che è per noi il male, si converta nella condizione della
solitudine volontaria, che può essere per noi un bene. L’attività del
ricordare genera una sorta di colloquio in cui siamo impegnati in
una conversazione con noi stessi come altri. La memoria ci connette alla compagnia di altri e di altre vicende, allarga i confini, tratteggia una diversa geografia del sé, genera una metamorfosi del sé”.
Invece, la memoria in senso negativo si ha in presenza di un peso
eccessivo della memoria, per cui, dal punto di vista individuale, si
cade in qualche forma di individualismo o narcisismo, e dal punto di vista sociale si dà luogo a forma di razzismo, nazionalismo,
tribalismo o localismo. In estrema sintesi si potrebbe allora distin95
guere fra identità e egocentrismo, fra tradizione e tradizionalismo.
Se negativo è l’eccesso di memoria, negativa è anche l’assenza
di memoria che comporta una perdita di identità individuale e di
appartenenza sociale. Ancora: negativa è pure una memoria, individuale o sociale, che pecchi di passatismo, che si ha quando la memoria diventa ostacolo per la progettualità, quando cioè si verifica
una chiusura al futuro quale progetto esistenziale o collettivo.
In tema di usi e abusi della memoria, è da segnalare che Ricoeur,
nel secondo saggio su Passato, memoria, storia, oblio (1996), evidenzia che esiste una patologia della memoria, sia a livello sociale
che personale, la cui condizione è la fragilità estrema dell’identità
personale o collettiva. Troppa o troppo poca memoria sono le forme di un passato che resta ancora troppo legato al presente. È il
«passato che non vuole passare». Secondo Ricoeur, un autentico
lavoro della memoria deve prendere le distanze da questo tempo
malato. La storia allora si aggancia alla memoria, sfrutta la sua capacità di distanziazione, e a sua volta esercita, per contraccolpo,
una funzione critica su di essa, nel senso di una terapeutica delle
sue patologie, e lo fa operando su tre livelli: la ricerca dei documenti, la spiegazione storica e la composizione dei grandi quadri
storici cioè gli enormi affreschi narrativi di un’epoca. La memoria,
d’altra parte, svolge il compito “di ricollocare la storia, in quanto
disciplina puramente retrospettiva, nel movimento della coscienza
storica”.
Per una pedagogia della memoria
L’importanza individuale e sociale della memoria e, insieme, la
sua ambivalenza rendono la memoria oggetto di particolare attenzione dal punto di vista pedagogico, e in un triplice senso: come
educazione della memoria, alla memoria e con la memoria.
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Educare la memoria
Per educare la memoria occorre tenere presente che la memoria
non è una facoltà a se stante, bensì espressione ritentiva e selettiva
dell’esperienza e coinvolge la persona nella sua individualità e integralità. Al riguardo può contribuire a chiarire la questione il fare
riferimento, per esempio, alla vita sessuale quando è relazionale e
non seriale, nel senso che, quando è relazionale, cioé effettivamente interpersonale, è caratterizzata da intimità e memoria all’insegna
della “ripetizione” che rende “storia” l’esperienza, dove la memoria gioca un ruolo fondamentale; invece, quando è seriale è all’insegna delle “ripetitività” e produce solo “storie”, prive di un vero e
proprio coinvolgimento.
È pertanto necessario guardare alla memoria considerandola nel
contesto della persona. A tal fine è da tenere presente che la memoria può essere cosciente e incosciente, volontaria e involontaria. Più
precisamente possiamo dire che la memoria volontaria ci restituisce i ricordi come passato, che non è più; si tratta di una operazione
della ragione relativa a fatti che non ci appartengono più. La memoria involontaria, invece, ci restituisce i ricordi: è operazione del
cuore e ci permette di ritrovare l’io di un tempo.
Oltre l’educazione della memoria della persona, occorre tenere
presente l’educazione della memoria dal punto di vista sociale, essenziale per il senso di appartenenza, e per l’esercizio di una cittadinanza attiva, che richiede una comunanza memoriale. Il che oggi,
nella società multiculturale, pone problemi di rispetto e di relazione
tra diverse tradizioni memoriali; la impostazione interculturale rappresenta sotto questo profilo il tentativo di realizzare una memoria
conservativa e, insieme, creativa.
Dunque, l’importanza dell’educazione della memoria si rende
evidente se siamo consapevoli che essa contribuisce in modo determinate alla costruzione della identità individuale e della identità
collettiva.
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Educare alla memoria
E veniamo al secondo imperativo: educare alla memoria comporta una duplice operazione.
In primo luogo, educare a ricordare ai fini di apprendimento nella consapevolezza che (per dirla con un famoso verso dantesco)
“non fa scienza sanza lo ritenere avere inteso”.
In secondo luogo, educare a ricordare ai fini esistenziali: in questa seconda prospettiva occorre tanto educare a ricordare quanto
educare a dimenticare; in ogni caso si tratta di ricordare o dimenticare il positivo e il negativo memoriale, nella consapevolezza che
“noi siamo ciò che ricordiamo e ciò che dimentichiamo”, ma - aggiungendo con Friedrich Nietzsche, (Considerazioni inattuali, III)
- che “la serenità, la buona coscienza, la lieta azione, la fiducia nel
futuro dipendono (...) dal fatto che si sappia tanto bene dimenticare
al tempo giusto quanto ricordare al tempo giusto”.
Educare alla memoria trova un ambito importante nel rapporto
con le cose, distinguendo le cose dagli oggetti, in quanto le cose
sono oggetti carichi di pensieri e di sentimenti. Al riguardo hanno
dato indicazioni preziose almeno due autori: Remo Bodei, il quale
ha parlato addirittura della “vita delle cose”, e Francesca Rigotti,
la quale ha riflettuto sul “pensiero delle cose” e ha elaborato una
“filosofia delle piccole cose”.
In questo contesto, educare alla memoria comporta anche favorire un approccio pedagogico alla nostalgia, un sentimento importante dal punto di vista individuale, e non meno importante dal
punto di vista sociale. Ancora una volta si tratta di non confondere
la nostalgia con certi atteggiamenti “nostalgici”, e la distinzione
è possibile chiarendo se la nostalgia apre sul passato in termini di
impegno nel presente e nel futuro, ovvero chiude nel passato, paralizzando le capacità operative e progettuali.
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Educare con la memoria
Infine, per quanto riguarda l’educare con la memoria, può avvenire secondo due modalità diverse: l’esercizio memoriale e l’esercizio mnemonico.
Per favorire quest’ultimo (che non va assolutamente disprezzato, ma intelligentemente esercitato) possono servire tecniche mnemoniche per facilitare l’apprendimento a memoria. Scolasticamente l’esercizio mnemonico può riguardare informazioni concettuali,
dati quantitativi, date storiche, poesie e prose, parti teatrali: tutti
elementi indispensabili della conoscenza da finalizzare alla formazione culturale, perché, se diventano fini a se stessi, si cade nel
mnemonismo e nel nozionismo giustamente criticati.
L’esercizio memoriale riguarda invece ricordi personali e ricordi
collettivi, e può avvenire attraverso il metodo narrativo autobiografico o attraverso il confronto dialogico, su cui hanno insistito in
particolare alcuni pedagogisti come Duccio Demetrio.
L’insegnamento della storia può offrire al riguardo uno strumento privilegiato, se educa a evitare tanto l’apoteosi, quanto la damnatio memoriae. Fermo restando che non si possono identificare
memoria e storia, torna utile ribadire quanto ha osservato Primo
Levi (ne I sommersi e i salvati, I), vale a dire che “la memoria
umana è uno strumento meraviglioso ma fallace”, per cui l’antico detto “historia magistra vitae” ha un valore relativo, non solo
perché risponde a una concezione circolare del tempo (se la storia
si ripete abbiamo da imparare dalla lezione del passato), ma anche
perché l’insegnamento che dalla memoria può venire deve invitare
non alla ripetitività, bensì alla ripetizione.
Costituisce una educazione con la memoria la celebrazione di
alcune Giornate con le quali si vuole conservare e rinnovare la memoria non per risentimento, ma per evitare che certe tragedie si
ripetano. La Giornata della memoria è stata istituita in Italia dalla legge n. 211 del 2000 per ricordare il dramma della Shoah. Da
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parte dell’ONU è ricorrenza internazionale con risoluzione n. 60/7
del 2005. Si celebra il 27 gennaio, perché in questa data nel 1945
avvenne la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz.
Invece il Giorno del ricordo è stato istituito in Italia dalla legge n.
92 del 2004 in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano - dalmata. Questa solennità civile nazionale è celebrata il 10
febbraio.
Occorre aggiungere che un ostacolo a tali celebrazioni è rappresentato per un verso dalle strumentalizzazioni ideologiche, e per altro verso dal cosiddetto revisionismo storiografico, e attualmente è
questo piuttosto che quelle a inquinare la memoria e la storia. Converrebbe tenere presente che (come ha avvertito Avishai Margalit
ne L’etica della memoria) “la memoria è conoscenza che viene dal
passato, non è necessariamente conoscenza sul passato”. In ogni
caso non si deve ricordare per rimanere “prigionieri del passato”,
ma per sprigionare dal passato tutte quelle energie critiche e creative, grazie alle quali non ci si può “fermare” al passato, ma bisogna
“ripartire” dal passato.
Per terminare su questo punto, ci piace riportare una pagina di
un grande scrittore del ’900, Giovanni Arpino, il quale fornisce
un invito pregnante. In un suo articolo intitolato Sapere e ricordare (poi ripubblicato nel volume Ritratti) Arpino scriveva circa
trent’anni or sono (e le sue parole nulla hanno perduto in attualità):
“Dobbiamo non dormire, non dimenticare. La più grande vendetta
che possiamo infliggere ai cavalieri dell’Apocalisse, ai profeti di
sventura, agli squadroni della morte, è la solerzia della nostra memoria, l’unica che non concede attenuanti, non propone amnistie.
L’uomo saggio, l’uomo buono è da sempre figlio dei propri ricordi.
Ed in questo secolo sanguinoso (il ’900), che ci ha figliato, ogni ricordo è una pepita d’oro, pesantissima ma necessaria. Anche contro le nostre memorie gli squadroni della morte combattono. Per
cancellare non solo ciò che è, ma ciò che è stato e ha connaturato
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l’uomo. Per uccidere in noi non solo le nostre possibilità di vita, ma
ogni grazia che fu, ogni sorriso che ci appartenne, ogni carezza che
ci lusingò. Non possiamo dimenticare un solo volto ferito, un solo
sparo omicida. La nostra memoria deve alzare muri invalicabili: è
la vera risorsa per proteggerci, al di là dei soliti virtuosismi sulle
ricette politiche, sugli appelli sdegnai. Mai come oggi dobbiamo
ripeterci: uomo ricordati di ricordare. I cervelli apocalittici vogliono imporre il loro caos, calarcelo addosso come un destino. Ma
noi siamo uomini e non mostri, non fanatici figli e padri di morte.
Sapere e ricordare sono le nostre armi. Non abbandoniamole mai”.
Ripensare la memoria
Avviandomi a concludere, vorrei adattare al nostro caso una
definizione che, della società contemporanea, è stata data in altro
contesto, ossia che è una “società della stanchezza”, definizione
con cui vogliamo dire che siamo in presenza di una società che
è stanca di ricordare per un verso e che è stanca di progettare per
l’altro, per cui la società appare rispettivamente scoraggiata e sfiduciata, giacché occorre coraggio a ricordare, e occorre fiducia a
progettare; il che poi significa avere il senso del passato e il senso
del futuro con cui si dà senso anche al presente. Invece, secondo
Han Byung - Chul (autore de La società della stanchezza), l’attuale
società è una società caratterizzata dalla competizione esasperata
che si esaurisce in un presente frenetico, che è un presente piatto,
perché non è anche presente del passato e presente del futuro, cioè
non è un presente che fa essere ciò che non è più e ciò che non è
ancora, come ebbe magistralmente a chiarire Agostino (ne Le confessioni) interrogandosi sul tempo.
Dunque, per non essere banalizzato, il presente va riconosciuto
nella triplice dimensione di presente del passato come memoria,
presente del presente come attenzione, e presente del futuro come
attesa. In particolare, va aggiunto, sulla scorta di Bergson, che la
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memoria come ricordo del passato non deve determinare una regressione dal presente al passato, ma un progresso dal passato verso il presente, e, sulla scorta di Benjamin, che la memoria non ha
carattere meramente retrospettivo - individuale, bensì ha possibilità di trasformazione rivoluzionaria, e dunque di rendere possibile
l’istituzione di una nuova tradizione all’insegna del discontinuo.
Dal canto suo, con Ricoeur dobbiamo collocare la memoria tra due
dimensioni che egli chiama “passeità” e “futurità”. In breve, la
memoria va vista in relazione alla triplice articolazione del tempo,
ed è così che rivela il suo carattere non passatista né conservatore,
ma innovativo o, addirittura, sovversivo.
Forse può aiutare a comprendere una tale portata della memoria
una distinzione lessicale, quella tra carattere “mnemonico” e carattere “memoriale”: nel primo caso potremmo dire che abbiamo una
memoria “fredda” che si limita, come un “doganiere”, a registrare e a richiamare; nel secondo caso invece abbiamo una memoria
“calda”, che si fa “compagna” della nostra esistenza, contribuendo
alla sua edificazione come soggettività individuale e soggettività
collettiva. La memoria va allora vista oltre che nella sua dimensione “biologica”, anche in quella “biografica” e “culturale”, cioè
come elemento essenziale per la individuazione della identità: della
identità delle persone e della identità delle società.
Conclusione
Ciò comporta che la memoria sia certamente studiata, dal punto
di vista scientifico, ma evitandone la “naturalizzazione”, che esaurisce la memoria nella pur necessaria caratterizzazione fisiologica
e patologica. Per questo abbiamo detto che, oltre il contributo delle
scienze: psicologiche (Oliverio, Longoni, Brandimomte) e sociali
(da Halbwachs, ad Assmann, a. Margalit, a Ferrrarotti), neurologiche (Lurjia e R. Dawkins) e psicoanalitiche (Freud), occorre tenere
presente altri approcci.
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Quello dell’arte: la “ricerca del tempo perduto” di Proust diventa estremamente sollecitante e arricchente con il suo intreccio di
memoria e oblio, ma si può tenere presente in altra misura anche
la “poetica della rimembranza” di Giacomo Leopardi e la “poetica della memoria” di Giovanni Pascoli. Ma non dovrebbero essere
trascurate altre opere novecentesche di scrittori come Kafka, Joyce
e Borges.
L’approccio religioso con l’ebraismo richiama il primato della
memoria in senso ontologico (della condizione umana) e in senso
culturale (della identità sociale); basti ricordare uno studioso solo:
Yerushalmi; e con il cristianesimo insiste sul binomio ricordare perdonare e sulla distinzione tra memoria relativa, quella dei ricordi, e la memoria assoluta, quella fondata sull’evento salvifico di
Cristo: anche qui un nome soltanto: Metz.
Infine è da segnalare la filosofia, la quale da sempre presta attenzione alla memoria, vuoi nell’ottica ontologica (da Platone ad
Agostino a Heidegger), vuoi nell’ottica gnoseologica: sia classica
(da Aristotele a Tommaso), sia moderna (da Locke a Hume). Ma è
soprattutto nella contemporaneità che il problema della memoria ha
conosciuto una rinnovata riflessione con tutta una serie di pensatori: da Husserl a Bergson, da Benjamin a Bloch, a Ricoeur, e tra gli
italiani: da Rossi a Perone, da Bodei a Ferraris.
In particolare ci sembra che a Ricoeur si debbano le riflessioni
più articolate, che hanno tenuto conto di tante acquisizioni non da
contrapporre ma da integrare: il che vale specialmente in riferimento al problema che qui interessa, vale a dire l’identità personale e
quella collettiva. È merito di Ricoeur aver rilevato che, se è vero
che la memoria è del passato, occorre chiarire che cosa questo significhi, evidenziando che il passato non va considerato indipendente
dal futuro. Ricoeur parla allora di “passeità” (come “essente stato”
e “non esser più”), per cui l’idea di perdita non ha semplicemente
carattere privativo, ma condizionante come oblio, che appare così
103
come condizione di possibilità della memoria e della storia. Si delinea allora il progetto di una “futurità” come apertura al proprio, al
prossimo e al lontano. Così nella storia s’incrociano passato e futuro, influenzandosi reciprocamente, e la dialettica colpa - perdono
diventa essenziale chiave ermeneutica.
Da qui la rivendicazione biografica e storica della identità che la
memoria contribuisce a elaborare. Ed è questione che oggi conosce
una inedita rilevanza, dato che la nostra epoca si caratterizza come
“età del narcisismo” per un verso e come “età della globalizzazione” per l’altro. Si potrebbe infatti dire, applicando alla questione
della identità individuale e collettiva, che anche in questi casi siamo
in presenza di una identità liquida (per usare l’aggettivo caro a Bauman). Il che, se letto in termini di perdita di solidità come rigidità,
può costituire una accettabile “liquefazione”, mentre inaccettabile
sarebbe la “liquidazione” della identità individuale e collettiva.
Anzi al riguardo è da dire che proprio di una rinnovata rivendicazione identitaria c’è bisogno oggi, dal momento che “il trionfo
dell’individualismo” determina “la morte dell’individuo”, e la convivenza civile è a rischio per il venir meno del senso di una comunanza territoriale e valoriale che è il fondamento della cittadinanza.
La massificazione, che si sposa all’individualismo, e la globalizzazione, che si sposa al localismo, costituiscono fenomeni preoccupanti sul piano della identità delle persone e delle collettività. E la
cosa è anche più grave, se si aggiunge che, di fronte a tali tendenze,
c’è un atteggiamento di indifferenza, che nasconde scoraggiamento
e sfiducia, quei due atteggiamenti che collegavamo alla cosiddetta
“società della stanchezza” come società che si esaurisce in un presente tanto frenetico quanto cinico.
Certamente, nel denunciare questo, è necessario essere consapevoli dell’ambivalenza della memoria: della sua positività, ma anche
della sua negatività, del suo valore e dei suoi limiti, delle sue possibilità e dei suoi rischi; per dirla nel modo più sintetico, negativa
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è la memoria che chiude, positiva la memoria che apre. Con questo
spirito va coltivata una triplice educazione: della memoria (nell’ottica della persona, perché la memoria coinvolge non una facoltà,
ma l’intera persona); alla memoria (e si tratta allora di educare a
ricordare e di educare a dimenticare); con la memoria (in chiave
non solo mnemonica ma soprattutto memoriale); in questa ottica,
la dimensione narrativo - autobiografica e storico - orale può contribuire ad una efficace pedagogia della memoria, a cui si potrebbe
utilmente aggiungere una inedita pedagogia delle cose (cioè di quegli oggetti ricchi dal punto di vista affettivo ed emozionale, e quindi
significativi in ottica memoriale), addirittura delle piccole cose; ed
è una pedagogia impossibile da costruirsi senza un esercizio della
memoria come espressione della persona globale nel contesto di
una articolata temporalità, che aiuta a interrogarsi sui ricordi, rimorsi e rimpianti, sulle azioni e sulle omissioni: tanto dal punto di
vista individuale, quanto da quello sociale. A quest’ultimo riguardo
sono da tenere presenti le Giornate della memoria e del ricordo
come momenti preziosi per un approccio al passato che, senza cedere a liturgie ripetitive, sappiano responsabilizzare. E, al di là di
ricorrenze specifiche, si tratta di aprirsi al passato per aprirsi al presente e al futuro; si tratta di muovere dal passato e di camminare
nel presente e proiettarsi nell’avvenire, avendo presente quanto ha
ben sintetizzato il cardinale Carlo M. Martini (citato da Salvatore
Veca): “Se la memoria delle radici del passato si fa debole, l’esperienza del presente diviene frammentaria e prevale il senso della
solitudine. Ciascuno si sente più solo. La fatica di vivere e interpretare il presente si proietta sull’immagine di futuro di ciascuno che
risulta sbiadita e incerta. Del futuro si ha più paura che desiderio”.
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(Foto di Roberto Recanatesi)
110
IL TEMPO
come condizione e occasione
Ad Alessandro
Premessa
Per riflettere sul tempo, un inizio quasi obbligato è la citazione
del passo delle Confessioni di sant’Agostino, il quale alla domanda “Che cos’è il tempo?” rispondeva: “lo so finché nessuno me
lo chiede, non lo so più se volessi spiegarlo a chi me lo chiede”.
In queste poche parole sono sintetizzate nel modo migliore per un
verso la insostituibilità del tempo, e per altro verso la sua complessità. Dell’una e dell’altra si fa esperienza diretta e quotidiana
da parte di tutti, ma filosofi, scienziati, teologi e scrittori sanno,
in modo proprio, evidenziarle, per cui torna utile confrontarsi con
la loro riflessione, rappresentazione, spiegazione o intuizione che
sia. Da una tale operazione scaturisce una consapevolezza: che del
tempo si danno molteplici configurazioni (soggettive e oggettive)
e valutazioni (positive e negative), tanto che alla domanda “Che
cos’è il tempo” potremmo rispondere con il personaggio Giovanni
Castorps de La montagna incantata di Thomas Mann: “è un mistero; un mistero privo di essenza, inafferrabile e potente”, o appellandoci ancora a un filosofo anche lui del ’900, Edmund Husserl, dire,
quasi ripetendo sant’Agostino: “naturalmente, cosa sia il tempo, lo
sappiamo tutti: è la cosa più notoria di questo mondo. Tuttavia,
non appena facciamo il tentativo di renderci conto della coscienza
del tempo, di porre nel loro giusto rapporto il tempo oggettivo e
la coscienza soggettiva del tempo, di renderci comprensibile come
l’oggettività temporale, e quindi l’oggettività individuale in genere,
possa costituirsi nella coscienza soggettiva del tempo, anzi non ap111
pena tentiamo di analizzare la coscienza puramente soggettiva del
tempo, l’importo fenomenologico dei vissuti del tempo, ecco che ci
avvolgiamo nelle più strane difficoltà, contraddizioni, confusioni”.
Insomma, dopo millecinquecento anni dalla convinzione espressa
da Agostino, viene ribadita la difficoltà di parlare del tempo.
L’interrogativo posto a titolo dell’odierno incontro: “Il tempo:
nemico o compagno?” vuole, appunto, in maniera un po’ provocatoria rendere avvertiti di questa difficoltà di definizione e di comprensione, perché la risposta può vedere il tempo nella sua dimensione “ostile”, cioè “distruttiva” (tempus fugit) o in quella “ospitale”, cioè “costruttiva” (il tempo è vita), ovvero nell’una e nell’altra.
Una tale polisemia del tempo è d’altra parte rintracciabile fin dal
punto di vista lessicale (dove si distingue tra aion, chronos, kairos)
o nelle diverse accezioni che del tempo si danno (come tempo sacro
e tempo profano, tempo neutro e tempo debito, tempo anonimo e
tempo autentico, tempo naturale e tempo storico, tempo delle cose
e tempo della persona, ecc.) o in alcuni ricorrenti modi di dire a prima vista contraddittori (come tempo tiranno e tempo galantuomo,
tempo che vola e tempo che non passa mai, ecc.).
Questi ed altri significati del tempo aiutano ad affrontare la questione del tempo, evitandone la semplificazione, che si ha quando
lo si identifica con il semplice divenire, e come sua misura. Quindi,
per comprendere queste ed altre distinzioni, è necessario prendere
in considerazione la struttura del tempo (cioè le sue componenti
e le sue condizioni) e gli approcci al tempo (filosofico, religioso,
scientifico e artistico): di tutto questo si parlerà nella prima parte
della relazione dedicata ai significati del tempo, mentre nella seconda parte prenderemo in esame il tempo nel nostro tempo, per
mostrare come il tempo si rapporti ai fondamentali (verità, felicità
e bellezza), come il tempo influisca sulla persona (con riguardo alla
vita, alla identità e alla libertà), e sulla società (con riguardo alla
velocità, alle relazioni e all’educazione).
112
Parte prima
Significati del tempo
Struttura del tempo
Tipologia
Vanno preliminarmente operate alcune distinzioni a partire da
quella che distingue tra tempo immobile, cioè l’eternità (in greco
aion, in latino aeternitas), che è dimensione atemporale o sovratemporale; e tempo mobile, cioè diveniente (in greco chronos e kairos, in latino tempus), che è la dimensione propriamente temporale,
la quale è poi da distinguere in tempo come fatalità o distruzione
(chronos) e tempo come occasione o costruzione (kairos). Oppure
si potrebbe distinguere fra: tempo aionico, cioè come durata coscienziale, qualitativa, incommensurabile; tempo cronologico, cioè
successione cronometrica, quantitativa, omogenea; tempo kairologico, sia in senso laico come tempo debito, sia in senso religioso
come tempo propizio. Gli scrittori, che hanno incentrato la loro
opera sulla temporalità - a cominciare da Marcel Proust con la sua
opera Alla ricerca del tempo perduto - ci rendono avvertiti di una
distinzione, di cui peraltro tutti fanno esperienza, vale a dire che un
conto è il tempo misurato con strumenti oggettivi e un conto è il
tempo vissuto nella esperienza personale. Altre distinzioni riguardano il tempo circolare o ciclico (greco - romano) e il tempo lineare
o storico (ebraico - cristiano), ovvero il tempo ciclico e puntiforme
e il tempo cronometrico o lineare, ovvero il tempo cosmico e il
tempo storico; o anche il tempo sacro e il tempo profano. In questa
relazione, terremo presente soprattutto la distinzione tra tempo misurato, che è dato dalla rappresentazione del tempo, e tempo vissuto che è dato dalla percezione del tempo.
Prima, però, riteniamo utile operare delle precisazioni di carattere etimologico riguardo ai termini aion, chronos e kairos, e lo
facciamo sulla scorta di due importanti libri. quello di Annapaola
113
Zaccaria Ruggiu che ha studiato queste forme del tempo nel volume omonimo del 2006 (che è stato presentato e sintetizzato da
Francesco Verde sul “Giornale di filosofia” nel 2008) e quello di
Enzo Degani nel suo libro su Aion (recensito da Massimo Pulpito
su “Eikasmos” nel 2003).
Che il tempo si possa dire in molti modi, appare chiaro fin
dall’antichità; in particolare il mondo antico greco e romano ha definito le forme del tempo, cioè le modalità di declinazione di un
concetto apparentemente monocorde. Iniziamo con la polivocità
lessicale di aion. Con il termine aion si indicava, da un lato, l’eternità in opposizione agli aspetti durativi della temporalità e, dall’altro, l’eternità che si declina nella durata del tempo, passato presente
e futuro. In precedenza (in Omero e nella tradizione epica) aion
indicava la forza vitale e dunque, in senso traslato, la vita, il tempo
e la durata della vita. Si tratta di un significato molto frequente nel
mondo greco che si trasferirà al mondo romano; anche in età ellenistica il significato di aion come tempo della vita non scompare ma
anzi, intrecciandosi con ulteriori significati di carattere filosofico e
religioso, ritorna (per esempio: nel nome della grande processione di Alessandria organizzata da Tolomeo II Filadelfo e dedicata
a eniautos (l’anno) e ad aion; anche nel mondo romano Cornelius
Labeo riconduce il nome Januar ad Aionarios). Dopo Aristotele, la
distinzione tra aion e chronos si attestò come contrapposizione tra
tempo sacro e tempo profano. Da questa acquisizione del termine
nella sfera religiosa, si passò rapidamente alla trasformazione della
nozione da esso espressa in una vera e propria divinità, oggetto
di culto nel mondo ellenistico e romano. Ci sono tracce di questa
deificazione già ai tempi di Aristotele e varie saranno le forme della rappresentazione del dio Aion, che impersonava l’eternità intesa
come perpetua fecondità, e per questa ragione, assorbito nel pantheon imperiale.
La confluenza dei vari significati di aion nella letteratura cristia114
na diede adito ad equivoci e controversie. Da un lato si presentò
la questione della corretta traduzione greca delle Sacre Scritture,
che comportò una grande instabilità terminologica, conseguente
all’incertezza dello stesso aion; dall’altro vi fu la discussione tra
i primi pensatori cristiani sul significato proprio del termine aion,
valutato in coerenza con la propria concezione dell’eternità divina.
È all’interno di queste controversie patristiche che si misurano i
due significati dell’eternità - aion: quello aristotelico e quello (neo-)
platonico; ossia l’eternità come durata infinita, e l’eternità come
a-temporalità, il nyn nel quale Dio coglie tutta la storia universale.
Occorre, dunque, distinguere, l’idea di un tempo “aionico”, eternamente fecondo contro l’idea di un tempo “saturnino”, divoratore
e distruttore: tale è chronos. Ma, già prima che chronos fosse contrapposto ad aion come ciò che è profano a ciò che è divino, esso
aveva un valore del tutto estraneo alla sfera del sacro (ad esempio in Omero). Vi fu, in seguito, una fase di divinizzazione sotto
l’influenza delle teogonie orfiche di probabile origine orientale. Un
senso nuovamente profano avrebbe assunto la nozione di Chronos
con l’opera di Anassagora, per il quale il tempo non è il destino,
ma la dimensione dell’azione dell’uomo nel mondo. “Il chronos
di Anassagora è dunque il tempo dell’uomo, il suo alleato. Ed in
questa nuova accezione il termine finisce ben presto per diventare
tecnico. [...] Questo era il Chronos che Platone, quando distinse nel
Timeo il concetto di un tempo immobile e divino da quello di un
tempo mobile e profano, aveva a disposizione”.
Come nel caso di aion anche kairos è un termine di difficile
traduzione. Le consuete traduzioni, quali “occasione”, “momento
opportuno”, tradiscono almeno in parte la specificità del kairos, che
è - a differenza di aion - un momento breve, istantaneo, addirittura
contratto e per questo quasi irripetibile. Esiodo mette in relazione
la sequela delle leggi con il kairos che è per ogni cosa l’ottimo; con
questo termine, dunque, Esiodo intende descrivere una nozione di
115
tempo qualitativa: per ogni cosa esiste un momento di compiutezza e di pienezza. Si comprendono allora le espressioni di Pindaro
secondo il quale kairos è il punto culminante di qualsiasi cosa e
di Sofocle che lo identifica con l’ordinatore di ogni grande opera.
Questo termine, dunque, va man mano arricchendosi di sfumature
sempre nuove e di accezioni precise; indica, infatti, il momento
ottimale per ogni cosa, il punto culminante ma soprattutto lo spazio
decisionale per un’azione che intende andare a buon fine e, dunque,
raggiungere il proprio telos. Ma l’aspetto puntuale della decisione
e il carattere culminante di ogni cosa non può essere disgiunto - soprattutto in campo etico - dalla misura. Non a caso ai Sette Sapienti
viene attribuita la sentenza conosci il kairos, il cui significato può
essere reso più intuitivo se accostata alla massima di Solone nulla
di troppo. Per questo Democrito poteva invitare ad afferrare l’occasione, il momento giusto in cui l’azione raggiunge il suo scopo
perché tutto è a questo proporzionato e commisurato. In Aristotele il kairos è connesso alla teoria dell’azione e, come si legge
nell’Etica Nicomachea, kairos è la declinazione del bene del tempo
proprio perché “l’agire deve allora riferirsi al kairos, al momento
opportuno, cioè deve afferrare il tempo debito quando esso viene a
maturazione e decidere l’azione”.
Componenti e condizioni
Dal punto di vista della struttura del tempo, l’articolazione agostiniana fornisce uno schema efficace, anche se da rivedere. Infatti
la triplice distinzione in passato, presente e futuro si può ancora
ripetere, ma attribuendo nuovi significati a queste tre dimensioni
e alle loro relazioni. Nell’ottica agostiniana si rilevava la inconsistenza ontologica delle tre dimensioni, considerandole reali sulla
base di un soggetto capace di ricordare, essere attento e aspettare,
e che quindi rende presente il passato, il presente e il futuro; l’agostiniana distentio animi porta a individuare nel cambiamento e nella
116
coscienza le due condizioni che permettono di parlare del tempo,
legandolo così al mondo che diviene e all’uomo che ne è consapevole. Pertanto il tempo è legato alla creazione, non c’è prima di
essa, e quindi non ha senso chiedersi che cosa facesse Dio prima di
creare il mondo se non per rispondere scherzosamente che pensava
di mandare all’inferno quelli che avessero fatto tale domanda.
Fin qui Agostino, il cui schema non può essere semplicemente
ripetuto, perché tanto le tre componenti quanto la loro relazione
vanno rilette alla luce della riflessione contemporanea, e lo stesso linguaggio con i suoi neologismi indica chiaramente un altro
orizzonte; termini come “passeità” o “futurità” stanno a indicare
nuove dimensioni temporali, per non dire poi del rapporto fra le tre
dimensioni temporali, delle relative operazioni (memoria, attenzione, attesa), del privilegiamento di una dimensione sull’altra (per
esempio, il passato privilegiato nella premodernità, il futuro nella
modernità, il presente nella postmodernità portano a una differente
configurazione del tempo), della connotazione della velocità (come
accelerazione ovvero come lentezza).
Si pensi, tanto per esemplificare all’idea di memoria in Bergson,
secondo il quale la memoria “non consiste affatto in una regressione dal presente al passato, ma al contrario in un progresso dal
passato al presente”, oppure si pensi all’idea di passato che Paul
Ricoeur colloca in una più vasta dialettica delle tre dimensioni temporali, costruita allo scopo di mantenere passato, presente e futuro
allo stesso livello di originarietà, e di denunciare al tempo stesso
l’impossibilità di una loro totalizzazione; per Ricœur è inadeguata
la scelta di considerare il passato indipendentemente dal futuro.
Queste ed altre considerazioni - come, per esempio, quella relativa alla responsabilità nei confronti delle generazioni passate,
presenti e future (Ricoeur, Levinas, Jonas) - arricchiscono ulteriormente la riflessione sulla struttura del tempo. E con ciò siamo già
di fronte all’approccio filosofico al tempo cui adesso faremo rife117
rimento per passare poi agli altri approcci: scientifico, religioso e
artistico.
Approcci al tempo
Filosofia
Dal punto di vista filosofico il concetto di tempo è stato diversamente concepito: i principali significati possono essere così identificati.
Il tempo come mutamento si ritrova nella linea di Platone e Plotino che privilegiano il rapporto tempo ed eternità.
Platone nel Timeo oppone all’eternità del modello ideale della
creazione, la temporalità del mondo plasmato dal demiurgo. Il tempo (chronos), pur non avendo gli stessi caratteri dell’eterno (aion),
poiché è in movimento, mentre l’eterno è immobile, è comunque
una sua immagine. Il tempo infatti, con il cielo, ha un andamento
ciclico, torna su se stesso: il movimento circolare è il più perfetto,
e in qualche modo, imita l’eternità, e per questo esso è un’immagine mobile dell’eternità. Ne consegue che all’eterno modello ideale non si addicono i verbi al passato e al futuro: questi sono tutti
movimenti e come tali rientrano nella sfera del tempo: dell’eternità
dovrà dirsi solo che “è”. Platone, dunque, non definisce soltanto (e
per la prima volta nella storia del pensiero) il tempo, ma chiarisce
anche la nozione di eternità come extratemporalità.
I neoplatonici si sono mantenuti fedeli all’idea platonica di eternità. Così, nelle Enneadi, Plotino attribuisce all’Anima la temporalità della durata, essendo tale ipostasi più a contatto con il mondo
sensibile, e al Nous l’eternità a - temporale: significativamente Plotino scrive che per indagare il tempo si deve discendere dall’eternità.
Il tempo come misurazione caratterizza l’impostazione da Aristotele a Kant.
I capitoli che Aristotele dedica al tempo nel libro IV della Fi-
118
sica pongono molteplici questioni. Secondo alcuni, la differenza
con Platone non risiede tanto nel fatto che Aristotele abbandoni il
concetto di atemporalità in favore dell’infinità temporale, quanto
nella distanza che separa l’analisi aristotelica del tempo dalla definizione platonica; in altre parole, la differenza sta nella concezione
del tempo e non in quella dell’eternità: per Aristotele il tempo non
è il movimento che imita l’eternità (il circolo) come in Platone, ma
il numero del movimento: non un movimento tra gli altri (fosse
anche il più perfetto), ma qualcosa del movimento, e soprattutto di
ogni movimento, anche di quelli imperfetti. Dunque, al fondo delle
due concezioni vi è un motivo teorico comune, e cioè l’idea che
il tempo sia l’“ordine” del divenire (per Platone il tempo procede
secondo il numero, per Aristotele il tempo è numero del movimento), ma esse differiscono per le soluzioni proposte, e Aristotele ne
era consapevole. Secondo alcuni, il concetto aristotelico di tempo risulta chiaro solo se viene connesso alla nozione di kinesis, il
movimento,;infatti la continuità del tempo si spiega solo facendo
riferimento alla continuità del movimento che a sua volta è giustificata dalla continuità dello spazio. Il tempo dunque non può essere
numerato ma solo ordinato.
Per Kant, sulla base della rivoluzione copernicana enunciata nella Critica della ragione pura, il tempo è forma trascendentale della
conoscenza sensibile; è quindi forma trascendentale della ragione
e (insieme con lo spazio) rende possibile un primo approccio all’esperienza empirica, e (diversamente dallo spazio) apre alle categorie (che sono le forme trascendentali della conoscenza intellettiva).
Il tempo come coscienza è tipico della concezione che da Agostino giunge a Bergson, per cui, secondo Agostino, il tempo ha una
connotazione soggettiva come capacità del soggetto di esercitare la
memoria, l’attenzione e l’attesa. Henri Bergson distingue tra visione scientifica del “tempo”, definito “tempo spazializzato” e visione
coscienziale del tempo definito “tempo durata”, che viene rappre119
sentato come una successione lineare; mentre la linea è immobile, il
tempo è mobilità: è ciò per cui ogni cosa si fa. Se Bergson parlava
di “durata”, Edmund Husserl parla di “corrente dell’esperienza”, in
riferimento al “tempo fenomenologico” e sostiene che “ogni effettiva esperienza vissuta è necessariamente qualcosa che dura; e con
questa durata si inserisce in un infinito continuo di durate, in un
continuo pieno. Essa ha necessariamente un orizzonte temporale
attualmente infinito da ogni parte. Ciò significa che appartiene ad
un’infinita corrente di esperienze vissute. Ogni singola esperienza
vissuta, come può cominciare così può finire e chiudere la sua durata, ma la corrente delle esperienze non può né cominciare né finire”.
Mentre queste due concezioni si fondano sul primato del “presente”, la teoria di Martin Heidegger riconosce il primato dell’“avvenire”, interpretando il tempo in termini di “possibilità” o di
“progettazione”, nel senso che il tempo è “struttura delle possibilità” che però conclude nel nulla in quanto “essere - per - la - morte”.
L’impostazione heideggeriana ha avuto molteplici sviluppi. Una
linea di tendenza tra le più significative della filosofia contemporanea è quella incentrata su una ontologia e una antropologia che
concepiscono l’essere e l’esserci come essenzialmente temporali:
così la categoria di “evento” connota l’essere, e quella di “finitudine” l’uomo, caratterizzato come essere finito e fragile destinato alla morte e, quindi, al nulla. A partire da questa concezione di
ascendenza heideggeriana, si sono sviluppate varie filosofie: accenniamo a due, che hanno trovato espressione in pensatori italiani
come Gianni Vattimo e Salvatore Natoli. Il teorico della “ontologia
dell’attualità” elabora tra nichilismo ed ermeneutica un “pensiero
debole”, che dal punto di vista etico privilegia la virtù della pietas,
della solidarietà: è il primato della carità, connotata come postcristiana, che si sostituisce al primato (premoderno) della verità e a
quello (moderno) della libertà. Invece il teorico del “neopaganesimo elabora una concezione tra neoaristotelismo e neostoicismo,
120
che dal punto di vista etico mira alla realizzazione immanente della finitezza umana; denunciando l’esigenza dell’infinito come una
malattia, tale umanesimo incentrato sull’idea di “limite”, vuole essere neopagano e postcristiano. In entrambi i casi, dunque, la temporalità è alla base di queste etiche della finitezza umana, che si
connotano come postcristiane.
Dal canto suo, il pensiero cristiano ripropone l’idea di finitezza ma come “creaturalità” e, quindi, come dipendenza ontologica
(l’essere è l’essere e gli esseri hanno l’essere, aveva detto sant’Agostino; il creatore è l’essere sussistente, e le creature l’essere dipendente, aveva detto san Tommaso), ma si tratta di una dipendenza
che è frutto di amore (la creazione, la redenzione) e l’amore è vita,
è dono, è libertà, per cui - come ricorda Roberto Mancini - l’uomo è
un esserci per la vita e non un esserci per la morte, è un esserci per
il futuro, attraverso la morte.
A prescindere dalle specifiche concezioni, possiamo dire che il
tempo filosoficamente si configura come realtà oggettiva: tale è il
tempo cronometrico, che ci misura perché siamo corpo (presente);
e come realtà soggettiva: tale è il tempo costituito dalla coscienza (presenza), che esercitiamo attraverso la distensio articolata in
memoria, attenzione e attesa; in particolare la “costituzione” del
tempo è una forma di appropriazione che si traduce nel fare memoria, che è più del semplice ricordo, per cui, rivivendo il passato,
possiamo trasformare il modo nel quale esso influisce sul nostro
presente, e nel fare progetto, per cui imprimiamo, per quanto possibile, una direzione al futuro, in modo che non sia totalmente arbitrario; diversamente neutralizziamo la preoccupazione attraverso il
di - vertimento, per cui si opera una frammentazione di tempo e di
senso per evadere dalla prospettiva della morte.
Ma è in riferimento alla nostra epoca di globalizzazione che il
tempo appare fattore decisamente innovativo. Al riguardo un giovane studioso, Diego Fusaro, ha usato delle espressioni che sin121
tetizzano efficacemente alcune peculiarità del nostro tempo come
modernità irrequieta, caratterizzata da fretta, da impazienza della
storia, da ipertrofia dell’aspettativa, da velocizzazione della tecnica, della scienza e della produzione, da dialettica dell’impazienza,
da accelerazione dei ritmi di vita, da sindrome della fretta, da strategie dell’alta velocità, da astuzia dell’accelerazione, da cronopolitiche della fretta, da disagio della velocità, da tirannia dell’istante,
da fretta globalizzata, da accelerazione postmoderna, da cairologia
consumistica, da eternizzazione del presente, e da desertificazione
dell’avvenire. Abbiamo voluto riportare alcuni dei titoli dei capitoli
e paragrafi del libro di Fusaro Essere e tempo, perché il suo linguaggio permette di farsi con immediatezza una idea dell’odierna
situazione sociale sulla base del tempo.
Scienza
Dal punto di vista scientifico, il tempo può essere fatto oggetto
delle scienze fisiche (cosmologiche e metereologiche) e di quelle
umane (psicologiche e sociali).
Per le scienze naturali, sono da citare Galileo Galilei e Isaac
Newton, i quali distinsero tra il “tempo assoluto”, cioè oggettivo,
esteriore, reale, fisico, che è scientificamente misurabile attraverso
appositi strumenti di calcolo, ed il “tempo relativo”, che è invece
soggettivo, interiore, non suscettibile d’essere oggettivato, vale a
dire misurato e calcolato per mezzo di congegni meccanici o di criteri scientifici rigorosi, di precisione matematica. Successivamente
Albert Einstein ha enunciato la “relatività” della misurazione temporale, vale a dire la “relatività” del “tempo oggettivo”, quantificabile e misurabile in chiave matematico - scientifica, senza però
intaccare, rinnovare o mutare alla radice, il concetto classico e tradizionale del “tempo” in quanto “ordine di successione”, bensì negando che tale ordine di successione fosse unico ed assoluto.
Tre grandi teorie vanno allora tenute presenti nella concezione
122
cosmologica del tempo: la relatività ristretta (1905), la relatività
generale (1915) e la meccanica quantistica (1925 - 26). Ebbene,
si deve ad Albert Einstein l’idea di considerare nel 1905 il tempo
combinato con lo spazio in un oggetto quadrimensionale chiamato
spazio - tempo o cronotopo. È stato poi Stephen Hawking nel 1991
ad affermare che “la curvatura dello spazio tempo su se stesso implicava una singolarità, in cui lo spaziotempo avesse un inizio o
una fine” e a precisare che “lo spazio tempo avrebbe avuto inizio
nel big bang, circa quindici miliardi di anni fa, e finirebbe per ogni
stella che subisse il collasso gravitazionale e per qualsiasi cosa che
si trovasse a cadere nel buco nero formato da una stella collassata”.
Anche le scienze psicologiche e quelle sociali hanno operato
delle acquisizioni interessanti in tema di genesi e sviluppo della
nozione di tempo (Piaget), di tempo vissuto (Minkowski) e di tempo
ritrovato (Oliverio), in tema di rappresentazione sociale del tempo
(Tabboni), del suo rapporto con il lavoro (Gasparini), con la festa
(Grillo), fino a soffermarsi (con la Paolucci) su il disagio del tempo
in riferimento alla metafora della scarsità del tempo nella vita quotidiana, e a parlare (con la stessa studiosa) di cronofagia in riferimento alla contrazione del tempo e dello spazio nell’era della globalizzazione. Particolare attenzione è stata portata alla dimensione
economica: il tempo guadagnato (Streeck), a quella politica con
riguardo soprattutto alla categoria di velocità, tanto da par parlare
di dromologia e dromoscopia (Virilio), di vite di corsa (Bauman) di
tempo breve nell’era della frenesia (Niada), di essere senza tempo
in riferimento alla accelerazione della storia e della vita (Fusaro).
Religione
Dal punto di vista religioso si può parlare del tempo in una triplice modalità: primo: come tempo della interiorità che riguarda la
vita spirituale di ciascuno (è un tempo lineare); secondo: come tempo
della liturgia che riguarda la vita ecclesiale della comunità dei fedeli
123
(è un tempo ciclico); terzo: come tempo della salvezza che riguarda la
dimensione ultima e la vita eterna (è il tempo finale).
Dal punto di vista religioso personale potremmo parlare con
Giorgio Bocaccorso del tempo come segno, e in una triplice accezione: come vigilanza, che comporta l’attenzione ai segni dei tempi, in cui ci si trova a vivere; come testimonianza, che chiede il
rendere ragione della propria fede; e come silenzio, che costituisce
la risposta viva alla inesprimibilità di Dio.
Arte
Sulla base di una “ermeneutica archeologica”, la Zaccaria Ruggiu ha mostrato (nella sua ricerca già citata su Le forme del tempo)
che dietro le arti figurative del mondo antico - da quella musiva a
quella plastica - si nascondono profondi dibattiti filosofici sulla natura del tempo e che molteplici sono le modalità rappresentative del
concetto tripartito del tempo nelle arti figurative dell’antichità classica ed ellenistica; pertanto non si deve parlare del tempo in modo
univoco, e lo ha mostrato nei due saggi che compongono il volume
su Le forme del tempo: il primo dedicato alla polimorfia di Aion in
un mosaico di Antiochia: il secondo a Kairos e la sua immagine.
Il mosaico della Casa di Aion che risale alla metà del III secolo d.C.
si distingue per la sua particolarità; raffigura, infatti, una scena di
simposio dove sono presenti quattro figure maschili. Accanto alla
figura di sinistra che giace sul letto di cui si vede solo la testata compare la scritta Aion mentre accanto alle tre figure del letto
frontale si leggono rispettivamente altre tre scritte, Mellon (futuro),
Enestos (presente) e Parochemenos (passato). Inoltre tra la testata
del letto di sinistra e una trapeza compare un’altra iscrizione che
dovrebbe riferirsi alle tre figure maschili osservate frontalmente,
Chronoi (tempi). L’aspetto più curioso della raffigurazione musiva
che, naturalmente ne rende ancora più enigmatica l’interpretazione, consiste nella comunanza simultanea di Aion e dei Chronoi.
124
Il mosaico rappresenta Aion che tiene con la mano destra la ruota
dello Zodiaco attraverso la quale passano le personificazioni delle
quattro stagioni dell’anno; Aion dunque è legato al presentarsi delle
stagioni e ai frutti che queste portano. (Sia detto fra parentesi, in
un mosaico proveniente dall’Isola Sacra, databile all’età adrianea,
Aion è raffigurato con la cornucopia, simbolo di un tempo colmo
di beni e di fecondità; proprio a tale raffigurazione può accostarsi
questa immagine di Aion in relazione alle stagioni dell’anno.) Le
due klinai sono continue e l’una limita l’altra, come a significare
non solo la rispettata consuetudine del simposio e la totale “compatibilità” di Aion e dei Chronoi ma anche la loro reciproca e vicendevole limitazione. I Chronoi, dunque, non si danno senza l’azione
di Aion mentre l’opera di Aion non può che riferirsi ai Chronoi:
“l’Aion in quanto essenza comune è presente nei singoli tempi, e,
nello stesso tempo, i singoli momenti del tempo, presente, passato
e futuro, non sono altro che il modo concreto nel quale l’Aion si
offre agli uomini”. Come nel caso di Aion anche Kairos è stato raffigurato, passando da concetto a immagine; le fonti antiche attribuiscono statue di
Kairos a Policleto, Fidia e Lisippo e la scelta dei caratteri propri
dell’immagine furono oggetto di controversie già nel mondo antico. Di Fidia non conosciamo al momento alcuna raffigurazione:
solo Ausonio gli attribuisce una statua di Occasio. Per ciò che riguarda Policleto è probabile che debba riconoscersi il suo Kairos
nell’efebo di Westmacott. È possibile ricostruire la controversa formazione del modello iconografico del Kairos attribuito a Lisippo
grazie a diverse fonti letterarie, tra cui l’epigramma di Posidippo,
che definisce Kairos colui che domina su tutto: è sulla punta dei
piedi, ha doppie ali, tiene nella mano destra un rasoio, ha i capelli sulla faccia ed è calvo sulla nuca: queste le caratteristiche che
Posidippo individuava nella statua del Kairos di Lisippo. Quindi
la statua di Lisippo doveva essere caratterizzata da una decisiva
125
tensione dinamica, come se il personaggio rappresentato stesse per
prendere il volo. Pertanto la statua di Lisippo può essere considerata come l’espressione diretta dell’azione, del tempo, del momento
debito, che deve essere afferrato non appena ci si presenti di fronte,
pena la sua inafferrabilità, quella stessa inafferrabilità del momento
propizio irrimediabilmente trascorso che, nei termini iconografici
lisippei, si traduce nel Kairos privo dell’appiglio della chioma.
A parte l’arte antica, va segnalata dal punto di vista estetico sul
tempo la produzione letteraria, e per limitarci al ’900 possiamo
almeno citare le opere di Marcel Proust, Alla ricerca del tempo
perduto, di Thomas Mann, La montagna incantata, di Jose L. Borges, Altre inquisizioni, di Margherita Yourcenar, Il Tempo, grande
scultore, di Sylvie Germain, Portare il peso del tempo.
Sempre nel campo artistico può essere collocata la produzione
di fantascienza, in quanto al tema del tempo sono legati romanzi e
film incentrati sul “viaggio nel tempo”, viaggio che può essere verso il passato o verso il futuro. Tra i romanzi ci limitiamo a segnalare: La macchina del tempo (che risale al 1895), I signori del tempo
(1975); tra i film: L’uomo che visse nel futuro e Viaggio al centro
del tempo, girati negli anni Sessanta del secolo scorso.
126
Parte seconda
Il tempo nel nostro tempo
Tempo e valori
A sottolineare una volta di più l’importanza filosofica del tempo,
può servire metterlo in relazione con i cosiddetti trascendentali,
cioè il vero, il bene e il bello, mostrando quanto il tempo abbia dato
luogo e dia luogo alle loro diverse configurazioni.
Tempo e verità
Almeno tre possono essere le concezioni della verità alla luce
del tempo.
In primo luogo, si può avere una concezione atemporale o sovratemporale della verità, per salvarla dalla contingenza del divenire:
è, questa, l’idea di verità caratterizzata da universalità e necessità:
valida per tutti e per sempre, e per questo estranea alla mutevolezza
del tempo; tale idea (soprattutto premoderna) di verità, la colloca
al di fuori e al di sopra del tempo: è qualcosa di assoluto, è Dio
stesso (veritas est Deus). Per dirla con Roberto Mancini, “la sostanza e l’assolutezza della verità venivano salvate ponendole per
così dire, prima del tempo. Ma, evidentemente, in questo “prima”
era già indicata una dimensione temporale, Quindi proprio la riflessione logica ci avverte della contraddizione che vizia una simile
concezione”.
In secondo luogo, si può avere una concezione temporale, storica della verità, per cui se ne rifiuta la sua assolutizzazione, riconoscendone invece il carattere storico o, addirittura, relativistico;
alla base di tale concezione c’è l’idea moderna della veritas filia
temporis che si collega all’idea (anch’essa moderna) del progresso,
per cui la ricerca della verità è incessante e continuamente produce
acquisizioni.
In terzo luogo, si può avere una concezione della verità che non
127
sia estranea al tempo, ma nemmeno da esso determinata: è l’idea
di verità che ne rivendica l’assolutezza ma non l’assolutismo acronico, che ne rivendica la relatività ma non il relativismo cronolatrico e logofobico (per usare espressioni del lessico maritainiano);
una tale idea di verità la configura come ricerca piuttosto che come
possesso, una ricerca che, per quanto non abbia fine, ha però senso.
Come ha ben puntualizzato Roberto Mancini, c’è una temporalità
della verità, per cui essa può stare nel cuore della finitezza senza
essere dissolta, senza esserne distrutta, senza esserne relativizzata”.
Tempo e felicità
Anche riguardo alla felicità si scontrano concezioni opposte proprio con riferimento alla temporalità. Infatti, si può parlare di felicità terrena, in alternativa alla quale si pone la felicità ultraterrena.
Mentre questa è effimera, l’altra invece è duratura, per cui la felicità della vita eterna è considerata da alcuni come la vera felicità
o addirittura l’unica felicità; altri invece ritengono che la felicità
vada colta in questa vita assaporandola nei suoi diversi momenti,
e non lasciandosi sfuggire i momenti più propizi; in questa ottica,
può essere letto il “carpe diem” di oraziana memoria.
Inoltre chi valorizza la felicità eterna, la può diversamente intendere in rapporto alla concezione di eternità: c’è chi la considera
come assenza di temporalità, cioè in una dimensione atemporale o
sovratemporale, e chi invece la considera come una infinita temporalità, cioè in una dimensione temporale senza fine.
Una ulteriore posizione è quella di chi perviene a una temporalità della felicità che permette di superare vecchi e nuovi dualismi,
per cui senza dissolvere la differenza fra felicità terrena e felicità
ultraterrena, le si può mettere in collegamento, e sotto questo profilo il cristianesimo può dare indicazioni preziose, in particolare
nell’ottica delle beatitudini: del “già” e “non ancora”.
128
Tempo e bellezza
Anche per quanto concerne la bellezza, è da dire che forti sono
le tentazioni dualistiche, per cui la bellezza in senso pieno è posta
fuori del tempo, oppure, in riferimento a questa vita, è negata perché nel tempo de gustibus est disputandum.
Pure in questo caso una temporalità bene intesa aiuta a comprendere la bellezza, senza cedere alle due estremizzazioni: di una
bellezza solo ideale, o di una bellezza solo materiale. Invece, una
idea della temporalità della bellezza permette di coglierla sia nella
molteplicità di suoi gradi, sia nella distinzione di simbolo e di simulacri.
In breve, in tutti e tre i casi solo una concezione positiva del tempo sottrae da concezioni platoniche e platonistiche, permettendo di
non rinunciare al vero, al bene e al bello nella loro trascendentalità,
e insieme, di coglierli nel tempo, riconoscendo che l’uomo è capace
di vero, di bene e di bello nel tempo e attraverso il tempo, quando il
tempo è avvertito non solo come condizione positiva dell’esistenza,
ma anche come condizione dell’esistenza, vale a dire in termini di
apertura.
Tempo e persona
Ciò comporta una riflessione temporale sulla persona e porta ad
affrontare, tra le altre, tre questioni: quella delle stagioni della vita,
quella della identità personale e collettiva, e quella della libertà
come condizione e come conquista.
Tempo ed età della vita
La vita umana è stata ripartita in vario modo: in tre fasi in riferimento al corso del sole (ascesa, zenit e declino), o in quattro secondo le stagioni dell’anno (primavera, estate, autunno e inverno),
oppure in sei o addirittura in otto. Ma la ripartizione tradizionale
è quella codificata da Aristotele (nella Retorica), che distingue tre
129
fasi: la giovinezza, la maturità e la vecchiaia. Si tratta di una tripartizione che, pur mantenuta, ha tuttavia subìto diverse configurazioni nelle diverse epoche, come ha mostrato Remo Bodei nel
suo recente volume sulle Generazioni, cui faremo riferimento per
mostrare che anche da questo punto di vista il tempo non è solo
una questione di tempo, dal momento che comporta implicazioni
di carattere valoriale, per cui è da dire che il cronologico non è solo
cronometrico ma, a ben vedere, propriamente assiologico.
Schematizzando, potremmo dire che nella premodernità la configurazione delle tre età è stata quella disegnata dallo Stagirita: la
giovinezza all’insegna della speranza e della capacità di aprirsi alle
novità, la vecchiaia all’insegna del ricordo del passato e della decrescente plasticità; la maturità all’insegna della pienezza: mentre
la giovinezza pecca per eccesso e la vecchiaia per difetto, la maturità, che sta nel mezzo, ha tutte le qualità utili che la giovinezza e la
vecchiaia posseggono separatamente.
Ebbene, “tale suddivisione della vita in tre stadi è rimasta sostanzialmente immutata per millenni, Le prime crepe in questa
partizione si cominciano a mostrare solo alla fine del Seicento”.
Dunque, è con la modernità che la connotazione delle stagioni della
vita si modifica; infatti “l’infanzia inizia a staccarsi nettamente dal
conglomerato della giovinezza”; e, “mentre in precedenza era stata
svalutata, ora viene esaltata e idealizzata”. Non solo: anche l’adolescenza acquista una fisionomia articolata.
Nella postmodernità la configurazione delle stagioni della vita
cambia ulteriormente: infatti “oggi le cose sono di nuovo mutate
e l’infanzia si è, in molti paesi, ulteriormente allungata nel tempo.
Non solo: l’adolescenza e la giovinezza si sono a loro volta anch’esse protratte invadendo progressivamente il periodo prima riservato
all’età adulta. Inoltre: “anche la vecchiaia, specie in occidente, si
è cronologicamente allungata verso un’età bis potenzialmente produttiva”. Oltre che dal punto di vista quantitativo, pure da quello
130
qualitativo le cose cambiano: i giovani non sono più caratterizzati
dalla speranza, e i vecchi non sono più marginali o emarginati. In
termini cronologici, l’allungamento degli estremi, sia nel caso della
giovinezza che in quello della vecchiaia, restringe l’area di influenza della maturità. I giovani e i vecchi, i figli e i nonni guadagnano
così maggiore spazio e importanza, reale e simbolica rispetto ai
padri e, più in generale, alle persone mature di mezza età”. “La
maturità quindi non è più tutto, e la vecchiaia non è più sinonimo
di declino e di decrepitezza”. Addirittura “la vecchiaia viene spesso
mascherata, negata fin quasi a comportarsi come se non esistesse”.
È da aggiungere che “l’allungamento dell’età media presenta anche
un risvolto pesantemente negativo, che diventa sempre più evidente: quello della crescita, tra le malattie invalidanti o comunque gravi, delle cosiddette demenze senili, in particolare dell’Alzheimer”.
Per tutto questo Bodei conclude che “tramonta la natura umana così
come l’abbiamo finora conosciuta e, grazie alle biotecnologie, si
altererà forse, in un imprevedibile futuro, anche l’attuale scansione
delle età della vita”.
Come è facile capire, non si tratta di una questione meramente
cronologica; tocca, invece, la filosofia del vivere e del convivere.
come si rende evidente, se si guarda anche ai reciproci doveri tra le
generazioni. Al riguardo c’è chi ha rilevato che “si è rotto il patto
tra le generazioni” (F. Stoppa). Così il modello aristotelico di restituzione - durato in Europa per quasi due millenni, e che ha trovato
nel welfare state una espressione legale - è oggi entrato in crisi, e
in crisi è anche il rapporto intergenerazionale: “uno scenario che
(secondo alcuni) smentisce la naturalità del legame solidale tra le
generazioni evidenziandone la costruzione attraverso gli strumenti
giuridici e le pratiche sociali di negoziazione tra ambito pubblico
(istituzionale e privato) e familiare” (A. Groppi).
Al di là di tutto questo, per comprendere il ruolo del tempo a
livello generazionale basterebbe tenere presente quanto scrive131
va Karl Mannheim, secondo il quale a partire dal secolo scorso la
successione generazionale non è più un processo di sostituzione
“dello stesso con lo stesso” ma diventa un rimpiazzare “qualcosa
con qualcosa d’altro”: la distanza che separa i gruppi di età non è
più una distanza meramente anagrafica ma una distanza culturale
e politica. Infatti, gran parte del ’900, che ha coltivato una vera e
propria ideologia della giovinezza, è contrassegnata da movimenti politici giovanili e nuove forme di aggregazione sociale basate
sull’età, che tentano di definire un nuovo spazio politico. Ma anche
i valori politici più tradizionali si trovano di fronte al problema di
essere legittimati e accettati dalle nuove generazioni perché a esse
viene delegato il compito fondamentale di riprodurre e trasformare
la società. La generazione insomma è vissuta come un attore politico capace di cambiamento. Ancora una volta ciò che è legato al
tempo va oltre il tempo a conferma che con il tempo si devono fare
i conti in termini non solo cronologici ma propriamente assiologici.
Ed è sulle implicazioni etiche del tempo che bisogna insistere.
Tempo e identità
In questa ottica il tempo pone la questione della identità personale e generazionale. In che modo si conserva la continuità individuale nella discontinuità delle esperienze? Si pone qui il problema
della vocazione e della responsabilità personali come condizioni
per la identificazione della persona.
Al riguardo (come abbiamo gà precisato) si possono individuare tre concezioni della identità: c’è un’idea rocciosa della identità identificata con la struttura ontologica dell’individuo; c’è un’idea volatile della identità identificata con la condizione empirica
dell’individuo; c’è un’idea liquida della identità identificata con la
capacità adattativa dell’individuo: un’idea, questa, che insiste sul
carattere processuale, plurale, proteiforme dell’individuo, È da sottolineare che queste diverse concezioni non si escludono reciproca132
mente, ma possono integrarsi legittimamente in rapporto alla concezione della temporalità cui facciamo riferimento, cioè se il tempo è inteso come successione frammentata ovvero è inteso come
durata unitaria. Qui vogliamo richiamare quanto in proposito ha
sostenuto Paul Ricoeur, il quale - in tema di identità personale - distingue tra “medesimezza” e “ipseità”, per indicare due modalità di
persistenza nel tempo, e precisamente l’identità come medesimezza
per cui un individuo è riconoscibile e riconosciuto come lo stesso
(idem) per certi aspetti permanenti caratterologici e pubblici; e l’identità come ipseità che riguarda l’aspetto narrativo che si modifica
ogni volta che il soggetto costruisce un racconto di sé e ha quindi
una dimensione più privata, relativa a sé proprio (ipse); nella medesimezza l’invariante si lega al passato, nella ipseità l’invariante
riguarda il futuro: per un verso il ricordo nella continuità, per altro
verso l’impegno a mantenere la promessa. Si tratta di una idea articolata di identità che chiama in causa una concezione positiva del
tempo come “luogo” costruttivo e non distruttivo.
Passando alle relazioni intergenerazionali, cui ha recentemente
prestato attenzione Bodei nel citato volume su Generazioni, bisogna
distinguere con questo autore tra “generazione in senso biologico,
come distanza temporale tra genitori e figli, e generazione (in senso
culturale) come insieme di coetanei che condividono determinate
esperienze storiche. Mentre nella prima accezione si contano tre o
quattro generazioni per secolo, nella seconda il periodo di condivisione di esperienze relativamente omogenee elaborate durante gli
anni formativi, si ridurrebbe invece a quindici anni. L’intervallo
culturale tra le generazioni dipende dalla lentezza o dall’accelerazione del corso storico in cui esse si situano e dalla densità degli
eventi significativi al suo interno”.
Così per limitarci alle generazioni più recenti si è parlato di “generazione eroica” per quella tra le due guerre mondiali; di “generazione pratica” per quella del secondo dopoguerra; di “generazione
X” per quella dei nati tra il ’64 e il ’70 caratterizzata dalla sensa133
zione di rappresentare una “generazione perduta”; di generazione
Y per quella dei nati tra gli anni ’80 e il 2000, detta anche “millenniaristi” o “generazione golf” (del benessere) o “generazione shampo” (madri contestatrici e figli conformisti), di “generazione fun”, o
“fear” o “me” per quella delle televisioni commerciali; più recentemente colpite dalla crisi economica, per cui si parla di “generazione
boomerang” (giovani che tornano a casa). Infine, è da rilevare che
“in questi ultimi decenni il rapporto tra le generazioni si è sostanzialmente modificato”; pensiamo al rapporto tra occupati e disoccupati, tra pensionati e persone in età lavorativa, mentre diminuisce
la distanza tra genitori - figli, insegnanti - allievi, nonni - nipoti.
Al di là di questo, ciò che va evidenziato è un duplice sradicamento: spaziale e temporale, tanto che Bodei si chiede: “quale
patto intergenerazionale potrà fondarsi nell’ambito delle diverse,
e in parte inedite, modalità di convivenza?”. Non solo: “che senso
avrà il principio secondo cui nella vita non bisogna soltanto prendere ma anche (e soprattutto) rendere?”. Interrogativi che mostrano inequivocabilmente come una questione che può sembrare essenzialmente cronologica, sia invece a ben vedere una questione
assiologica, configurando diversamente i rapporti interpersonali e
intergenerazionali.
Tempo e libertà
Sempre nell’ottica di evidenziare come il tempo sia essenziale
per la questione antropologica, possiamo fare riferimento a una filosofa, Laura Paoletti, e a un filosofo, Roberto Mancini, autori di
due libri che affrontano il tema della temporalità in chiave assiologica.
La Paoletti afferma che “la considerazione del tempo è atta a
gettare luce su un aspetto misteriosissimo e discusso dell’umanità:
sul fatto cioè che l’uomo sia libero”. L’avere tempo può tradursi nel
“disporre del tempo” o, anche, nel “prendere tempo” e nel “perdere
134
tempo”, ma sempre l’uomo, in modo cosciente o incosciente, appare come “animale che indugia”. Quindi una specifica temporalità
(come coesistenza di un livello assiologico e di un livello fattuale)
caratterizza il suo modo d’essere. Si tratta - precisa la Paoletti - di
una “temporalità diversa da quella degli orologi che con maggiore
o minore precisione battono il tempo costante, astronomico, elettronico o pendolare che sia.Il problema di adeguare ciò che si fa e
ciò che si è a ciò che si vuole, o si vorrebbe essere (...) è appunto
quello che ci fa indugiare...perché la sua soluzione non è mai immediata, neppure nel caso di decisioni avventate o abitudinarie”.
Questa concezione del “tempo come indugio” caratterizza il tempo
antropologico e lo differenzia dal tempo fisico, perché - sottolinea
la Paoletti - il “concetto stesso di indugio o di attesa implica un
trascendimento del tempo e, insieme, un’accettazione inevitabile
della temporalità”, ed è questa temporalità ad essere essenziale alla
personalità umana, caratterizzata quindi in radice dalla decisionalità e dalla conseguente responsabilità.
Dal canto suo, Mancini muove da una distinzione, dicendo: “il
tempo non è un mero contenitore, se fosse tale basterebbe l’orologio a definirlo. Invece è durata e in quanto tale si dà per noi come
esperienza di libertà, nel senso che la nostra libertà deve orientarlo, riempirlo di significato; diversamente il tempo è stato sprecato
(come quando si dice che una cosa lascia il tempo che trova). Ma
per dare senso al tempo occorre che la persona non sia scissa o
frammentata, perché in questo caso l’atto della libertà non può costituirsi. Diversamente l’essere umano porta la responsabilità nel
cuore di questo divenire della vita. E la forma matura della libertà
è la gratuità; in questa ottica il tempo viene “scoperto come dono”
come “realtà ospitale”; in questa ottica il tempo non è nemico che
mi toglie tutto; al contrario, esso è durata. Riletto così, il tempo
stesso si rivela un fondamento dell’esistenza, come ha messo in
luce Minkowski. Se il tempo è durata, come ha avvertito Bergson,
135
vuol dire che tutto ciò che vale e che ha senso non è dissolto e può
essere presente. Se il tempo è dono che ci è dato singolarmente
e socialmente, allora siamo responsabili anche di tenere aperto il
futuro agli altri.
Insomma, da Bergson e Minkowski provengono indicazioni preziose per capire il tempo, in particolare che tempo e libertà non si
contrappongono: se il tempo non è un meccanismo, un contenitore
neutro, mi chiede di rilevare da parte mia una forma, cioè un senso,
cioè un potere di portare frutto. Ne consegue che il tempo non è la
misura dell’esistenza: la misura vivente è il bene, il tempo vissuto
bene, cioè per il bene. Il tempo come dono reclama un donatore (o
donatrice) o, quanto meno, che ci sia affidato dalla libertà stessa,
che è insieme la fonte e la destinataria del dono.
Ne consegue pure che la velocità (se intesa come velocizzazione, magari mitizzata) non è la misura del tempo; certo da essa non
si può prescindere, ma, almeno sul piano del costume, bisognerà
distinguerne due aspetti: l’accelerazione e la lentezza, e commisurarsi all’una o all’altra a seconda degli ambiti, e non identificare
la velocità con l’accelerazione: una società frenetica è destinata a
diventare (come è stato detto) una “società della stanchezza”.
Tempo e società
Tempo e velocità
Sul tema della velocità del tempo uno degli autori di riferimento è sicuramente Paul Virilio, il quale ha coniato il termine “dromologia” come “la scienza (o la logica) che studia gli effetti della
velocità nella società”, può essere anche definita come lo studio
degli impatti culturali e sociali prodotti dalle nuove tecnologie. Per
sintetizzare il pensiero del filosofo francese utilizziamo parte di una
sua intervista rilasciata nel 1997.
Paul Virilio ha cominciato con un lavoro sulla seconda guerra
mondiale e, attraverso lo studio dei bunker e della strategia della
136
guerra totale, ha ritenuto di evidenziare il carattere totalitario della guerra. Da qui il riconoscimento dell’importanza del territorio
come luogo di iscrizione della tecnica a un momento dato della
storia; così, nel suo secondo libro sulla Insicurezza del territorio,
Virilio mostra che il territorio è plasmato dalle tecnologie del trasporto e di comunicazione di un’epoca. Da qui il suo interesse per
la città, poi per l’architettura e infine per l’urbanistica, vista come
territorializzazione della tecnica.
A partire da qui ha cominciato a sviluppare il suo lavoro sulla
dromologia in Velocità e politica che è stato il suo terzo libro pubblicato nel 1977. A quel punto ha compreso come, in parallelo alla
ricchezza che è una nervatura della guerra, la velocità è un’altra
nervatura della guerra. Infatti ricchezza e velocità si intrecciano,
non le si può separare. Il quarto libro s’intitola L’arte del motore ed
è del 1995. Secondo Virilio, esistono quattro motori: quello a vapore, quello a scoppio, quello elettrico e il motore informatico, e sono
questi quattro grandi motori che fanno la storia: ogni motore non
ha provocato solo una mutazione della produzione ma anche della
concezione e della visione del mondo. L’arte del motore è l’arte del
quarto motore, il motore informatico a inferenza logica che gestisce l’informazione, la quale è la terza dimensione della materia. In
effetti, in precedenza la materia era solamente percepita sotto l’angolo della massa di energia, mentre dagli anni ’40 - ’50, la materia
è percepita sotto una terza forma: la terza dimensione dell’informazione. L’informazione è una nuova forma di energia. Ci sono tre
stati di energia: l’energia potenziale (in potenza) l’energia cinetica
(in atto) e infine l’energia cibernetica (fatta di informazione). Per
Virilio la telematica è di fatto energia informatica che sostituisce
l’energia elettrica.
Siamo di fronte a una rivoluzione energetica che è importante
quanto quella dell’energia atomica, sostiene Virilio, il quale è impegnato a mostrare come attraverso la stampa, poi la radio e la tele137
visione, infine con la digitalizzazione e il multimedia, si trascinano
le popolazioni verso un mondo nuovo di cui si esaltano i meriti senza preoccuparsi degli svantaggi. L’arte del motore può considerarsi
come un manifesto della scrittura contro lo schermo che denuncia
proprio l’arte del quarto motore, perché i motori precedenti, a parte
il motore elettrico, non possono essere identificati con l’arte. A partire dal cinema, la settima arte è stata un’arte del motore, quella del
motore elettrico, della cinepresa e della cabina di proiezione. Il motore informatico invece rivoluziona tutto. Ciò che è cominciato con
il motore della cinepresa esplode con la telematica e il trasferimento istantaneo a distanza di informazioni. Si può quindi affermare
che, accanto all’energia elettrica, c’è oggi un’energia informatica,
la cui peculiarità è l’estrema velocizzazione. Il che ha una portata
non solo tecnologica, ma propriamente antropologica.
Tempo e relazioni
Un tema che, trattando della temporalità, potrebbe sembrare secondario è quello della relazione e delle relazioni che, invece, in
alcune filosofie contemporanee appare centrale ai fini di un rinnovato umanesimo. Pensiamo, in particolare a Emmanuel Levinas e al
suo Umanesimo dell’altro uomo. Ebbene, proprio questo pensatore
(cui si richiama Roberto Mancini), ritiene che sia la relazione con
l’altro a consentirmi di vivere la temporalità: “incontro il tempo
quando incontro l’altro”, sintetizza Mancini, il quale precisa che,
“nella relazione interpersonale, imparando a vedere effettivamente
l’alterità, scopro anche l’alterità del tempo. Infatti esso non è un
oggetto, né una proiezione o un possesso. Il tempo è altro per me, il
che vale eminentemente per il futuro, un mistero che non posso in
alcun modo dominare”.
Dunque, l’imperativo è quello di essere responsabili per qualcuno, e questo vuol dire amarlo: ebbene (precisa Mancini) “amare
qualcuno significa dargli tempo” e così esemplifica: “far nascere
138
un essere umano è precisamene l’atto di donazione del tempo, ma
anche dare ascolto a un altro è dargli tempo. Analogamente, perdonare significa dare all’altro il tempo di rinnovarsi, non incastrarlo
identificandolo nel male che può aver fatto. E ancora, educare qualcuno significa dargli tempo, aprirgli il futuro. Si potrebbe allora dire
che distruttivo non è il tempo ma il modo di vivere in cui nessuno
ha tempo per incontrare gli altri”. Ecco perché, secondo Levinas,
entrare realmente nel tempo comporta non solo mobilitare la libertà, ma anche la relazione con l’alterità, ed è, proprio alla luce di
questa, che quella si configura non solo come autodeterminazione,
ma soprattutto come affidamento di sé nella comunione. Anche la
libertà ha il carattere del dono e cresce nel donarsi agli altri.
In breve, il tempo viene nella relazione con l’altro e questo spiega perché il tempo sia dono: dono ricevuto e dono da dare; dono
inteso come dono di ospitalità, nel senso che dare tempo a qualcuno significa dargli lo spazio dell’ospitalità, che è condizione di tutti,
come condizione di tutti è la temporalità, la quale comporta un duplice carattere: il senso della gratuità e il senso della gratitudine, ovvero
l’esercizio della riconoscenza e la facoltà del riconoscimento. Tutto
ciò comporta anche un impegno educativo.
Tempo e educazione
Del tempo in riferimento all’educazione possiamo parlare in
più modi: sia nel senso che si può individuare un tempo educativo,
specificamente educativo per tempi e finalità, così come si può individuare un tempo del lavoro o un tempo della festa; sia nel senso
che l’educazione è tale se rispetta i tempi dell’educando: di tutti
gli educandi e di ogni educando, perché i ritmi di sviluppo sono
diversi per età e per individualità; sia nel senso che l’educazione ha
i suoi tempi che la configurano come “animi cultura”, in analogia
alla “agri cultura”, per cui l’educazione è - oltre che scienza e tecnica - anche e soprattutto arte.
139
Con specifico riguardo ai compiti dell’educazione, possiamo
affermare che l’educazione è chiamata a un triplice compito paradossale: educare significa “non perdere tempo” (cioè avere consapevolezza della essenzialità dell’educazione per la crescita della
persona, per cui prezioso è il tempo che le viene dedicato) e, insieme, “perdere tempo” (perché - come ha insegnato Jean Jacques
Rousseau - educare è rispettare, per cui perdere tempo vuol dire a
ben vedere “guadagnare tempo”); educare significa avere tempo da
perdere (l’educazione è per sua natura legata all’ozio, nel senso in
cui Bertrand Russell ne tesseva l’elogio) e, insieme, non sprecare
il tempo (cioè non disperderlo insensatamente, non dargli valore);
educare significa avere cura del proprio tempo (e anche rispettare i
propri tempi) e, insieme, donare il proprio tempo ad altri (con una
disponibilità costruttiva per sé e per gli altri).
In ogni caso, per comprendere la necessità dell’educazione in
rapporto al tempo possono servire le parole di Seneca (de La brevità della vita) secondo il quale “non abbiamo poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto. Abbastanza lunga è la vita data con larghezza
per la realizzazione delle cose più grandi, se fosse tutta messa bene
a frutto; ma quando si perde nella dissipazione e nell’inerzia, quando non si spende per nulla di buono, costretti dall’ultima necessità
ci accorgiamo che è passato senza averne avvertito il passare. Sì:
non riceviamo una vita breve, ma tale l’abbiamo resa, e non siamo
poveri di essa, ma prodighi”. Ecco perché è necessario educare a
vivere bene il tempo.
Conclusione
Per concludere, potremmo dire che la condizione umana (alla
cui comprensione sono finalizzate questa e le precedenti conversazioni) può essere connotata sulla base della categoria di tempo da quattro
peculiarità: la finitezza, la decisionalità, la produttività e la donatività, che si possono rispettivamente tradurre nelle espressioni: “essere
tempo”, “avere tempo”, “impiegare tempo” e “donare tempo”.
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Più precisamente possiamo affermare che l’antropologia, conseguente alla considerazione del tempo, appare connotata in primo
luogo sul piano ontologico dalla temporalità, nel senso della finitezza o creaturalità esistenziali, per il fatto che l’uomo è fatto di
tempo, cioè è tempo: affermavano i greci che, mentre gli dei sono
immortali, gli uomini sono mortali, tanto da poter esse appellati
semplicemente come “mortali”; da Agostino a Heidegger la categoria della temporalità è evidenziata come costitutiva dell’essere
umano, dunque “animal temporale” per antonomasia. Per Agostino
l’uomo, grazie alla sua triplice capacità coscienziale (di memoria,
attenzione e attesa) avverte il cambiamento di se stesso e delle cose,
è la condizione soggettiva (quella oggettiva è il divenire) del tempo
stesso, come chiaramente indica la definizione agostiniana del tempo quale “distentio animi”. Dal canto suo Martin Heidegger rileva
che proprio il rimando al tempo conferisce all’uomo una funzione
rivelativa “esistenziale” e non semplicemente “esistentiva”, per cui
l’uomo è la sede privilegiata della manifestazione pur sempre velata dell’essere che Heidegger definisce “aletheia”. In breve, potremmo dire con Borges che “il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il
tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre
che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma
io sono il fuoco”. Ha ribadito R. Mancini: “in un certo senso, noi
stessi siamo tempo... la nostra stoffa è temporale”.
In secondo luogo, sul piano vitale l’uomo risulta caratterizzato
dal fatto che dispone del tempo o, per dirla con Sylvie Germain,
deve “portare il peso del tempo”; qualunque sia il suo conoscere,
agire e fare, l’uomo si configura come “animale decidente”, nel
senso che non può sottrarsi dal prendere decisioni, e dunque dal
disporre del tempo; la decisione è essenziale ed è resa possibile
dal fatto che la vita dell’uomo è temporale: temporale sempre, e in
ogni suo momento è rivelativa della realtà, quando - precisa Henri
Bergson - è colta come “durata”. Al riguardo Laura Paoletti definisce l’uomo come “animale che indugia”, nel senso che “l’intervallo
141
di tempo apparentemente inutilizzato, che passa tra il presentarsi del
problema e l’azione di rispondervi - sia esso una frazione di secondo
o sia, in certi casi, un periodo di anni - è, in ogni caso, essenziale per
aprire all’uomo quella dimensione di libertà, che la filosofia gli ha
sempre attribuito per differenziarlo dagli altri animali”. In proposito
R. Mancini non esita ad affermare che il tempo è dato come durata da
chi è libero, il quale allora scopre davvero di avere tempo”.
In terzo luogo, sul piano prassiologico il tempo si configura in
termini economici: il detto popolare “il tempo è denaro” sintetizza
efficacemente questa impostazione, che ha la sua verità, ma che, se
assolutizzata, finisce per essere decisamente fuorviante: la produttività, il guadagno e la gratificazione sono elementi da tenere certamente in considerazione, a condizione però che non la facciano
da padrone; un tempo che privilegiasse questi aspetti non sarebbe
(almeno per la persona umana) un tempo arricchente ma veramente impoverente: l’animale produttivo non va staccato dall’animale
esistenziale e dall’animale indugiante. Se - come abbiamo accennato - l’uomo è tempo e dispone del tempo, il tempo non può essere
identificato con il denaro, e nemmeno privilegiarlo; può certamente
riconoscerlo come una componente dell’umano, e proprio per questo lo spendere il tempo è da collocare nell’orizzonte dell’essere
tempo e dell’avere tempo. Al riguardo può tornare interessante ricordare quanto uno storico dell’economia come Cipolla ha scritto
in uno dei due saggi che compongono quell’aureo libretto che è
Allegro ma non troppo, per cui sulla base del tempo potremmo individuare una quadruplice tipologia antropologica, nel senso che
chi fa perdere tempo ma non ne perde, è furbo; chi perde tempo ma
non ne fa perdere, è generoso; chi non perde tempo né ne fa perdere è intelligente; chi perde tempo e fa perdere tempo, è stupido. È
evidente allora la preziosità del tempo, anche in termini economici,
ma non economicistici.
In quarto luogo, il tempo si caratterizza sul piano etico, cioè
quello della gratuità, per cui potremmo dire che “il tempo è dono”,
142
ed è dono in un duplice senso: e perché ci è donato, e perché possiamo donarlo. È tenendo collegati questi due aspetti che è possibile fuoriuscire dalla semplice logica del “do ut des” per far posto
ad una logica all’insegna del “quia datum est, do”, per dire che il
donare non chiede ringraziamenti, ma è esso stesso un ringraziamento: dalla gratitudine alla gratuità: può essere così sintetizzato
il percorso, cui hanno richiamato alcuni filosofi contemporanei, in
particolare Emmanuel Levinas e Paul Ricoeur. Si tratta allora di
mettere insieme giustizia e carità: è, questo, il binomio fecondo di
umanità: che la salvaguarda e che, insieme, la potenzia, consentendo all’animale donante di attuare la propria vocazione e responsabilità. Al riguardo ci piace segnalare l’opera di Roberto Mancini
finalizzata a una nuova antropologia all’insegna di una economia di
servizio, di una società della condivisione, di una logica del dono,
di una cultura del dono.
Da quanto detto, l’uomo può essere definito come animale esistenziale, decidente, produttivo e donante; quattro aspetti, tutti conseguenti alla dimensione temporale dell’uomo, per cui sembra legittimo affermare che una nuova concezione antropologica - di cui
si avverte la necessità in modo crescente - può provenire proprio
dalla capacità di ripensare l’uomo nell’ottica della sua temporalità, e dal ripensare tale temporalità in termini rinnovati, in grado di
metterne in luce la portata umanistica.
Che il tempo abbia una grande rilevanza scientifica (dal punto
di vista della fisica e dell’astronomia, ma anche della psicologia
e della sociologia), una grande rilevanza religiosa (in termini di
celebrazione liturgica, oltre che di esercizio di vita spirituale e di
aspirazione alla salvezza), una grande rilevanza artistica (non solo
delle arti visive che lo hanno rappresentato mitologicamente, ma
anche della letteratura, in particolare del ’900) interessa meno in
questa sede rispetto alla grande rilevanza filosofica che al tempo
da sempre viene riconosciuta dai pensatori; ed è soprattutto dai filosofi contemporanei che è possibile attingere indicazioni preziose
143
per ripensare l’antropologia in una rinnovata visione teoretica, etica
ed estetica. Infatti, se il tempo viene concepito come durata, dono,
decisione - anziché come distruzione, dissolvimento, dispersione - i
temi della verità, della felicità e della bellezza, i temi della libertà,
della vocazione e della responsabilità, i temi del vivere e del convivere vengono rinnovati profondamente da una logica che impegna
l’uomo nella sua destinazione (immanente e/o trascendente) a vivere il tempo non lasciandosi misurare dal tempo, ma misurando il
tempo sulla base della ricerca del vero, del buono e del bello non
astrattamente considerati bensì temporalmente vissuti: ma con la
consapevolezza del tempo come dono ricevuto e dono da dare, per
cui la vita vissuta è vita lunga.
Ecco perché l’interrogativo posto a titolo di questa conversazione - “il tempo: nemico o compagno?” - esige una precisa e decisa
opzione, nel senso che a seconda di come si configura il tempo
consegue una filosofia della vita ovvero a seconda della filosofia
della vita consegue una caratterizzazione del tempo. Da parte nostra, vorremmo con Roberto Mancini, rispondere che “il tempo non
è nemico, ma è compagno, nel senso che il tempo ci accompagna,
non ci nega”. Non dobbiamo considerare nemico il tempo, ma
“dobbiamo invece ammettere che il tempo ci è dato per vivere e che
dunque esso è prezioso per l’esistenza, ne è una condizione positiva
fondamentale”. Non solo: “il tempo non è nemico”, ma chiede che
l’uomo sia attento alla cura del tempo che a ciascuno è dato.
In questa ottica, il tempo non è dispersione, dissolvimento, distruzione (e quindi nemico, avversario, ostile), ma è durata, dono,
decisione, in quanto è condizione di esistere nel senso che ci riserva
delle possibilità di esistenza, che siamo chiamati a cogliere e a condividere. Allora l’imperativo è quello di trovare il senso della propria esistenza: è, questa, la condizione affinché il tempo sia l’occasione per nascere e rinascere continuamente, per esprimere riconoscenza ed esercitare riconoscimento. Il paradosso è allora questo
(come avverte Mancini): se sottraiamo tempo alle persone e alle
144
cose, non le salviamo ma le destiniamo al disfacimento; se invece
diamo tempo alle persone e alle cose, le sottraiamo dallo scorrere
inconcludente e insignificante o anche impegnato e gratificante.
Quindi distruttivo non è il tempo, bensì ciò che ci toglie il tempo
stesso, ciò che lo rende anonimo, banale, privo del senso della gratuità e della gratitudine. Se manca questo senso della temporalità
come ospitalità, il tempo appare il nemico che porta al nulla, e le
domande cessano, e l’esserci finisce per configurarsi come “essere
- per - la - morte” (Heidegger), mentre va concepito come “essere
- per - il - futuro” o “essere - attraverso - la morte”, perché l’amore
è più forte della morte. E l’amore autentico si traduce nel “dare
tempo”: frutto di amore, è chiamato a generare amore. È, questa,
una concezione della vita, del mondo, dell’uomo per cui è a partire
dalla temporalità che è possibile elaborare una rinnovata concezione dell’essere e dell’esistere.
Volendoci collegare alle precedenti conversazioni, potremmo
dire che il tempo non è frainteso solo quando è colto come apertura: ecco la parola che costituisce, per così dire, il filo rosso di queste cinque conversazioni al Castello: a partire dalla prima dedicata
al cielo, che con Nancy può definirsi “apertura”; altrettanto può
dirsi del desiderio sulla scorta di Lacan, dello stupore come ha indicato la Hersch, della memoria alla luce di Ricoeur, e ora del tempo
tenendo presente Levinas. Ma questi riferimenti autorali sono solo
esemplificativi, in quanto di volta in volta abbiamo utilizzato molteplici pensatori: orientati o meno a questa categoria dell’apertura.
Prima di concludere, un’ultima osservazione per richiamare l’attenzione sulla necessità di riflettere sul tempo ed evitare un rischio,
quello della sua banalizzazione o quello della sua enfatizzazione.
Di questa ha fatto esperienza l’uomo moderno con “la sua percezione onnipotentistica della temporalità” (come l’ha definita Duccio
Demetrio); dell’altra si fa esperienza quotidianamente, quando ci
si lascia prendere dai luoghi comuni ovvero quando si usa il tempo
come scappatoia relazionale. In questo caso il tempo meteorolo145
gico o atmosferico o climatico diventa motivo di conversazione,
quando non si ha voglia o capacità di conversare; accade così che
in situazione di imbarazzo o di disagio relazionale, magari per l’estraneità della persona che abbiamo di fronte, si parli del “tempo”:
che tempo fa, che tempo farà... con tutta una serie di ovvietà e banalità, di luoghi comuni. Ma i luoghi comuni non riguardano solo
il tempo atmosferico, bensì il tempo in generale, definito di volta in
volta “tiranno” e “galantuomo”, che “fugge” o che “non passa mai”
oppure fatto oggetto di riflessioni ripetitive sul “perdere tempo” o
“guadagnare tempo”, ecc.. In questo modo, si finisce (a voler usare
un altro modo di dire) per “ammazzare il tempo”, nel senso che se
ne parla male o lo si impiega male.
Invece, una riflessione sul tempo deve rendere avvertiti sulla
necessità che il tempo sia vissuto al meglio, ossia configurato in
termini di senso, investigato dalla filosofia in chiave assiologica; in
termini di significato, investigato dalla scienze naturali e umane, al
fine di determinarlo nella sua dimensione cronometrica o percettiva; in termini di sentimento, oggetto della letteratura come tempo
memoriale o utopico; e in termini di salvezza, oggetto della religione in chiave ascetica o escatologica. In breve, si tratta di scegliere
fra le due opzioni indicate sinteticamente da Bruno Rossi nel suo
volume su Tempo e progetto: il tempo “fatalisticamente pensato, e
quindi considerato come una somma di periodi ed eventi che non si
possono governare” o il tempo “umanisticamente stimato, e pertanto considerato opportunità di autorigenerazione e autoincremento,
occasione di ricostruzione e rinnovamento, possibilità di mutamento e ri-significazione”.
Ma, allora, dovremmo chiederci se l’interrogativo posto a titolo
di questa conversazione (Il tempo: nemico o compagno?) non debba essere riformulato, e la domanda suonerebbe così: Siamo amici
o nemici del tempo? In quanto è il nostro modo di rapportarci al
tempo a dare a esso un senso: distruttivo o costruttivo.
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Considerazione finale
Offrire una nuova occasione per esercitare la curiosità: ecco lo
scopo degli incontri che, nell’ultimo quinquennio, sono stati promossi d’estate dal Comune di Camerata Picena attraverso il suo assessorato alla cultura con il titolo “A confronto su...”. Ovviamente
non si tratta della curiosità banale, bensì della curiosità autentica,
quella che scaturisce dalla meraviglia e, quindi, si traduce nel bisogno di formulare dei “perché” (cur): ecco, dunque, la “curiosità”
(curiositas) da accendere. Pertanto l’imperativo sotteso agli incontri tenuti nella sera del 10 agosto nella corte del Castello del Cassero di Camerata Picena è: stupirsi, per interrogarsi; in tale ottica,
condividiamo l’invito del regista Ermanno Olmi, cioè “avere ogni
giorno qualche nuovo motivo per stupirsi”.
Si tratta di disposizione e disponibilità tutt’altro che agevoli e
frequenti in un mondo frettoloso e disincantato, dove siamo sempre
più interessati alle risposte piuttosto che alle domande e sempre più
convinti che la tecnica abbia le risposte per tutto, e quindi ciò che
non può essere risolto dalla tecnica va dissolto o rimosso. Fermo
restando il valore della scienza e della tecnica, e l’apprezzamento
per le loro soluzioni, è tuttavia bene andare oltre i loro risultati, ed
essere capaci di interrogarsi anche sulle conquiste scientifiche, di
meravigliarsi e, conseguentemente, di incuriosirsi, aprendosi anche a questioni che si collocano in orizzonti diversi da quelli della
tecnoscienza.
Indubbiamente, un tale esercizio è ostacolato dal fatto che sempre più tendiamo alla settorializzazione del sapere, alla specializzazione delle competenze. La cosiddetta “società della conoscenza”,
com’è definita la nostra società, rischia d’essere solo una “società delle conoscenze”. Si è cercato di riequilibrare questa linea di
tendenza attraverso la cosiddetta “interdisciplinarità” che, peral157
tro, nella sua forma più alta, produce “transdisciplinarità”, quindi
genera nuove discipline, per cui si rende evidente che, in ultima
analisi, specializzazione genera specializzazione.
Ne consegue che il problema non è tanto quello della interazione
fra conoscenze (o discipline) scientifiche - cosa peraltro sicuramente valida - ma piuttosto quello di guadagnare la complessità del
sapere, vale a dire la convinzione che il sapere è certamente scienza, pura e applicata, ma altrettanto certamente è anche sapienza
teoretica e saggezza etica, sentimento estetico e (per chi ci crede)
salvezza religiosa.
Pertanto ci sembra che l’imperativo sia quello di evitare il riduzionismo, che, valido nel campo scientifico, non lo è altrettanto
al di fuori di esso, come quando riduce il sapere a una sua forma
solamente; tale è, per esempio, lo scientismo, che apparentemente
semplifica, ma a ben vedere restringe il campo della curiosità. A
dirla con altri termini, occorre evitare il totalitarismo o l’imperialismo conoscitivo, per cui si afferma il primato di una forma conoscitiva sulle altre (così nel pensiero classico si sono avute forme di
ontologismo, in quello medievale di teologismo, in quello moderno
di scientismo e in quello contemporaneo di tecnocrazia).
Di contro a queste impostazioni unilaterali e parziali si pone la
richiesta di un atteggiamento che è stato definito della “ragione allargata”, cioè una ragione aperta tanto al problema quanto al mistero, alla ricerca di significati non meno che alle domande di senso,
una ragione dalla logica multipla, che pone le questioni secondo
una molteplicità di approcci e nella consapevolezza che ciascuno di
essi va affrontato juxta propria principia e senza la pretesa che da
solo esaurisca il tema. In breve, potremmo anche parlare di logica
“polifemica” (monistica o riduttivistica) e di logica “argoica” (pluralistica o complessa), ed è quest’ultima che bisogna adottare. È,
appunto, quello che abbiamo cercato di fare nelle conversazioni del
Cassero, mostrando la molteplicità degli approcci e dei paradigmi
158
non come forme di relativismo, ma come ricchezza conoscitiva,
tale da rinnovare il senso stesso della verità, che è relativa nel senso
che è relazionale, per cui la ricerca ha senso anche se non ha fine.
Dunque, con uno spirito all’insegna del pluralismo conoscitivo è stata pensata questa rassegna culturale, articolata in cinque
incontri, in diverso modo incentrati sulla categoria di “apertura”,
in contrapposizione alla categoria antitetica di “chiusura”, avvertendo che ogni volta si tratta di operare una scelta tra due impostazioni relative a cielo, desiderio, stupore, memoria e tempo: essi
sono negativi se chiudono rispettivamente nello scientismo e nello
spiritualismo, nel bisogno e nella incontentabilità, nell’infantilismo
e nell’inconcludenza, nel tradizionalismo e nel passatismo; nella
dispersione e nel dissolvimento; positivi, invece, se aprono rispettivamente: all’oltrepassamento e alla trascendenza, alla aspirazione
e alla utopia, alla criticità e alla creatività, alla identità e alla storia;
alla libertà e al dono.
Ebbene, di una impostazione all’insegna dell’apertura e non della
chiusura c’è bisogno, tanto più che attualmente siamo di fronte a una
situazione in cui tutti e cinque i temi affrontati sembrano essere caratterizzati da una crisi, nel senso di una eclisse ovvero di un declino.
Così si è parlato di “naturalizzazione del cielo”, di “distruzione del
desiderio”, di “incapacità di stupore”, di “fine della memoria” di
“non tempo”: tutte espressioni che, in modo incisivo, denunciano
una situazione che richiede di essere superata per restituire all’uomo
alcune attitudini, che sono specifiche della sua condizione. Infatti, il
suo essere “incompiuto”, “desiderante”, “interrogante”, “memoriale”
e “indugiante” reclama la capacità di trascendimento orizzontale e
verticale, di nutrire il desiderio e non solo i desideri, di esercitare lo
stupore e la conseguente curiosità, di ricordare e progettare, di vivere
il tempo in modo costruttivo, avendo sempre consapevolezza della
complessità delle cinque categorie che abbiamo posto a tema delle
conversazioni al Castello.
159
Infatti, il cielo è insieme: costruzione scientifica, simbolo religioso, metafora filosofica, invenzione artistica; il desiderio è insieme:
tensione esistenziale, pulsione erotica, apertura ontologica, disponibilità religiosa, virtù civile; lo stupore è insieme: attitudine vitale,
principio filosofico, sentimento estetico, motivazione scientifica,
atteggiamento religioso, metodo educativo; la memoria è insieme:
condizione identitaria, dimensione storica, valore religioso, metodo
educativo; il tempo è insieme: condizione antropologica, oggetto
scientifico, dimensione religiosa, aspetto educativo.
Si tratta di una complessità che, peraltro, è stata evidenziata dagli
studiosi che se ne sono occupati, come si può mostrare utilizzando
alcuni titoli di libri o alcune espressioni in essi contenute. Così è stata
operata la “critica del cielo” e la sua contemplazione, collocato “tra
fisica e metafisica”, considerato nella sua dimensione “favolosa” e
nelle sue “malattie”, e riconosciuto nella sua “multivocità” scientifica, artistica, religiosa e filosofica. Così è stato rilevato che “il desiderio non è una cosa semplice” e che ha “mille volti”, “espressioni
diverse”, per cui si è anche parlato di “enigma del desiderio”, delle
sue “geometrie”, della sua “forza irresistibile” da diversi punti di
vista: scientifico, artistico, religioso e filosofico. Così si è tessuto
“l’elogio dello stupore”, ricordando che “in principio era la meraviglia” e continuamente va esercitata “l’incessante meraviglia” nei
diversi ambiti: scientifico, artistico, religioso e filosofico. Così si
è evidenziato che “la memoria si dice in molti modi”, si è parlato
delle “molte facce della memoria”, di “volti della memoria”, di
“vizi e virtù della memoria”, di “enigma della memoria” riguardata
da diverse ottiche: scientifica, artistica, religiosa e filosofica. Così,
infine, si è parlato di “mistero del tempo”, di “mistero della percezione
del tempo” e di “misteri del tempo”, lo si è definito “una presenza
sconosciuta”, ma del tempo “questo sconosciuto” è stato richiamato
“l’irresistibile fascino”, senza trascurare “l’aporia del tempo” e “il
disagio del tempo” a seconda dei diversi approcci: scientifico, artistico, religioso e filosofico.
160
A voler individuare alcune peculiarità per ciascuna tematica
affrontata nelle cinque conversazioni, si potrebbero formulare alcune
espressioni di sintesi, e dire che: a proposito del cielo dobbiamo
tanto “misurare il cielo” come realtà fisica quanto “misurarci con
il cielo” come realtà teologica, metafisica ed estetica; a proposito
del desiderio dobbiamo tanto “tornare a desiderare” quanto “saper
desiderare”, non solo soddisfare desideri, ma soprattutto coltivare
il desiderio; a proposito dello stupore dobbiamo non tanto “stupire”
quanto “stupirci” e “lasciarci stupire”; a proposito della memoria
dobbiamo non tanto “mandare a memoria”, quanto “fare memoria”;
a proposito del tempo dobbiamo non solo “calcolare il tempo” ma
anche “leggere e scrivere il tempo”.
Tutto ciò evidenzia inequivocabilmente la complessità delle
questioni affrontate, che anche per questo meritano di essere fatte
oggetto di riflessione e discussione, in modo da evitare la loro banalizzazione e permettere di esplicitarne l’intrinseca ricchezza, al fine
di individuare una antropologia che renda ragione della “straordinarietà” dell’uomo, suscitando “la meraviglia di essere uomo”.
161
Nota
Giancarlo Galeazzi è nato nel 1942 ad Ancona, dove risiede e opera (abitazione in via Tiziano 39 e studio in via Tiziano 49). È sposato con Anna Bettini da
44 anni; quattro figli (Federica, Francesca, Fiorenza e Gabriele) e cinque nipoti
(Valerio e Giulia Perilli, Ginevra Virginia e Aurora Sofia Nocenti, e Alessandro
Galeazzi).
Esattamente da cinquant’anni è presente nel campo dell’insegnamento, degli
studi e della cultura. Dal 1964 (anno della sua laurea, conseguita all’Università di
Roma) è docente di filosofia; dal 1965 è operatore culturale a livello cittadino,
provinciale e regionale sia in ambito civile che ecclesiale; dal 1970 è studioso del
personalismo filosofico e di personologia scientifica, impegnato in particolare
negli studi maritainiani a livello nazionale e internazionale; dal 1985 è iscritto
all’ordine dei giornalisti nell’elenco speciale dei direttori di periodici, e dal 1996
come giornalista pubblicista.
Ha ricevuto i seguenti riconoscimenti: nel 1970 il Ministro per i beni culturali
e ambientali lo ha nominato Socio effettivo dell’Istituto marchigiano Accademia
di scienze lettere e arti (di cui oggi è socio emerito); nel 1996 il Presidente della
Repubblica italiana gli ha conferito il diploma di Benemerito della scuola, della
cultura e dell’arte; nel 1997 gli è stato assegnato il Premio della cultura della
Presidenza del Consiglio dei Ministri; nel 2010 gli è stato conferito l’attestato
di Civica benemerenza dal Comune di Ancona; nel 2011 gli è stato consegnato
l’attestato di Merito dal Comune di Camerata Picena; nel 2011 gli è stata conferita la Cittadinanza onoraria dal Comune di Osimo; nel 2014 l’Accademia della
Crescia di Offagna gli ha conferito l’onorificenza di Cavaliere della Crescia. È
stato tra i vincitori del Premio Silarus e del Premio Crocioni per la saggistica. Il
volume I cattolici e la lotta all’antisemitismo, da lui curato per l’Istituto italiano
Maritain, ha vinto il Premio Capri.
Ha tenuto insegnamenti all’Università di Urbino (Facoltà di Scienze della
formazione prima e Facoltà di Sociologia poi) e tiene seminari all’Università
Politecnica della Marche (per i Dottorandi dell’Ateneo); è stato docente stabile
(oggi docente emerito) di Filosofia all’Istituto teologico marchigiano prima e
all’Istituto superiore di scienze religiose poi, dipendenti dalla Facoltà teologica
della Pontificia Università Lateranense.
È stato direttore di istituti di formazione di Ancona: dell’Istituto superiore
marchigiano di scienze religiose “Redemptoris Mater”, e direttore dell’Istituto
superiore di scienze religiose “Lumen Gentium”. È direttore della Scuola di alta
formazione etico - politica.
È stato fondatore e dirigente di istituzioni filosofiche: presidente della Società
Filosofica italiana di Ancona di cui è oggi presidente onorario; segretario generale
aggiunto del Centro di filosofia preplatonica “Rodolfo Mondolfo” di Ancona; direttore del Centro di pedagogia dei diritti umani e della pace “Maria Montessori”
di Ancona.
È stato dirigente o consulente di diverse istituzioni culturali: membro dell’Istituto superiore di ricerca e formazione dell’Opera Nazionale Montessori di
162
Roma; membro del comitato tecnico - scientifico dell’Istituto Regionale di Ricerca Educativa delle Marche; presidente della Società Dante Alighieri di Ancona, e
della Association Européenne des Enseignants di Ancona; membro del consiglio
scientifico e direttivo dell’Istituto europeo di cultura germanica di Ancona; vice
presidente dell’Editrice La Lucerna di Ancona; membro (in rappresentanza della
Regione Marche) del consiglio di amministrazione della Fondazione Le città
del Teatro; membro del consiglio direttivo della Galleria d’arte “Puccini” di
Ancona; membro del consiglio direttivo della Associazione Marchigiana Iniziative Artistiche. È membro del comitato scientifico del Centro studi lauretani;
è referente regionale per le Marche del Progetto culturale della Chiesa italiana. È stato membro della giuria della Biennale d’arte “Premio Marche”; vice
presidente del Premio “Letteratura ed età evolutiva”; membro della giuria del
“Premio letterario Varano”.
È stato fondatore e dirigente di istituti maritainiani: presidente del Circolo culturale Maritain di Ancona (di cui è oggi presidente onorario); segretario
generale aggiunto dell’Istituto internazionale Maritain di Roma; membro del
consiglio direttivo dell’Istituto italiano Maritain di Roma; segretario generale
prima e vice presidente poi dell’Istituto marchigiano Maritain di Ancona; è stato
membro dei consigli scientifici degli Istituti maritainiani: internazionale, italiano
e marchigiano. È membro del comitato d’onore del Centro studi e ricerche di
Pedagogia sociale Istituto nazionale Maritain di Potenza.
Ha ideato e coordina le seguenti rassegne filosofiche: per il Comune di Ancona: Le parole della filosofia, Le ragioni della parola, Libri per pensare, e La
filosofia nella città; per il Comune di Falconara Marittima: Nel giardino del pensiero, Tra letteratura e filosofia; per il Comune di Camerata Picena: A confronto
su...; per la Prefettura di Ancona: L’Italia del pensiero; per l’Assemblea legislativa delle Marche; Le Marche del pensiero. Ha collaborato con alcuni festival
culturali: il Festival Adriatico/Mediterraneo e il Festival Cinematica, del cui
consiglio scientifico fa parte. È coordinatore del Festival Le giornate dell’anima.
È direttore scientifico del Festival del pensiero plurale.
Ha collaborato a oltre cento riviste culturali e scientifiche, e ha tenuto o tiene
la direzione o condirezione o redazione delle riviste Notes et documents pour
une recherche personnaliste, La fede e i giorni, Quaderni marchigiani di cultura,
Quaderni di scienze religiose, Sacramentaria e Scienze religiose, Studia Picena,
Prospettiva Persona. È stato membro del consiglio scientifico delle riviste Educazione e scuola, Vita dell’infanzia, Oltre il chiostro. Ha collaborato alla pagina
culturale dei seguenti quotidiani: Corriere Adriatico, Avvenire, Il Popolo e per
lunghi anni, L’Osservatore Romano.
Ha al suo attivo la pubblicazione di oltre cinquanta volumi monografici e
collettanei tra cui Personalismo (ed. Bibliografica) e Maritain un filosofo per il
nostro tempo (ed. Massimo). Ha curato la traduzione italiana di alcune opere di
Jacques Maritain: Cultura e libertà (ed. Boni), La persona umana e l’impegno
nella storia (ed. La Locusta), Georges Rouault (ed. La Locusta), Per una filosofia
dell’educazione (ed. La Scuola). Alcuni suoi scritti sono stati tradotti in francese,
inglese, portoghese e spagnolo.
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INDICE
Prefazione di Vittoriano Solazzi................................................. 5
Presentazione di Paolo Tittarelli e Agnese Tramonti................... 7
Introduzione di Giancarlo Galeazzi......................................... 11
A CONFRONTO SU…
CIELO
Il cielo: come realtà e metafora
Premessa...................................................................................
Parte prima: Significati del cielo.............................................
Il cielo tra magia e arte ........................................................
Multivocità del cielo............................................................
Parte seconda: Il cielo tra scienza, filosofia e religione ........
Tre approcci.........................................................................
Due acquisizioni ..................................................................
Una consapevolezza ............................................................
Conclusione ..............................................................................
Bibliografia...............................................................................
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DESIDERIO
Il desiderio: dal bisogno all’aspirazione
Premessa................................................................................... 35
Parte prima: Significati del desiderio..................................... 36
Aspetti del desiderio ........................................................... 36
165
Approcci al desiderio .......................................................... 40
Un desiderio paradigmatico ................................................ 43
Parte seconda: Il desiderio tra crisi e educazione ................ 47
La crisi del desiderio ........................................................... 47
Il desiderio e l’educazione .................................................. 49
Il desiderio tra singolare e plurale ........................................ 50
Conclusione .............................................................................. 54
Bibliografia .............................................................................. 57
STUPORE
Lo stupore: tra cielo stellato e legge morale
Premessa ..................................................................................
Parte prima: Significati dello stupore ....................................
L’approccio filosofico..........................................................
L’approccio religioso...........................................................
L’approccio artistico............................................................
Parte seconda: Lo stupore tra scienza e coscienza ...............
In ottica scientifica ..............................................................
In ottica morale ...................................................................
Conclusione ..............................................................................
Bibliografia ..............................................................................
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MEMORIA
La memoria: per l’identità individuale e collettiva
Premessa ..................................................................................
Parte prima: Significati della memoria .................................
Approcci alla memoria ........................................................
Forme della memoria ..........................................................
166
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80
87
Parte seconda: La memoria tra identità e educazione.......... 90
Memoria e identità .............................................................. 90
Per una pedagogia della memoria ....................................... 96
Conclusione ............................................................................ 102
Bibliografia ............................................................................. 106
TEMPO
Il tempo: come condizione e occasione
Premessa ................................................................................
Parte prima: Significati del tempo .......................................
Struttura del tempo ............................................................
Approcci al tempo .............................................................
Parte seconda: Il tempo nel nostro tempo ..........................
Tempo e valori ..................................................................
Tempo e persona ...............................................................
Tempo e società .................................................................
Conclusione ............................................................................
Bibliografia ............................................................................
111
113
113
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127
127
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140
147
Considerazione finale ............................................................. 157
Nota ........................................................................................ 162
167