HIV & HCV: DUE STORIE PARALLELE
LE SFIDE FUTURE
HIV, LA NUOVA SFIDA PER ‘NUOVI’ PAZIENTI
Intervista a Stefano Vella
Direttore Dipartimento del Farmaco – Istituto Superiore di Sanità
Essere sieropositivi e non morire di AIDS. In trent’anni di lotta al virus questo è uno dei grandi successi ottenuti: l’HIV,
grazie alle terapie, cronicizza. Certo, a patto che la terapia sia stata iniziata il prima possibile e sia quella appropriata.
Cosa che non va data sempre per scontata. Anzi. A trent’anni dalla sua scoperta l’HIV è diventato altro: da killer spietato
a malattia cronica. Ma anche i sieropositivi sono ‘altro’: da tossicodipendenti ai margini della società ad insospettabili
eterosessuali dalle vite ‘normali’; da persone rassegnate ad una fine rapida ed inevitabile a persone che si aspettano, e
pretendono, di vivere bene e a lungo. Luci ed ombre di un virus che, in trent’anni, ci ha abituato a non abituarci agli
scenari che disegna. A che punto siamo? Quali sono le nuove sfide che si aprono per i ‘nuovi’ sieropositivi? Ne parliamo
con Stefano Vella, Direttore del Dipartimento del Farmaco all’Istituto Superiore di Sanità - e recentemente nominato al
vertice delle Linee Guida mondiali HIV dell’OMS - in una Conferenza stampa a Roma in occasione del Convegno ‘HIV &
HCV : due storie parallele. Le sfide future’.
«C’è ancora un preoccupante problema di non conoscenza, di sottovalutazione del rischio – dice Vella - Sembra un
paradosso che questo avvenga proprio nei confronti di un virus che più di ogni altro è stato per trent’anni è stato sotto i
riflettori. Tutti conoscono l’esistenza dell’HIV ma nessuno pensa di poter essere stato contagiato. E’ ancora considerata
una malattia che colpisce solo alcune determinate categorie di persone. E, invece, oggi sappiamo bene che la grande
maggioranza delle nuove infezioni avviene tra eterosessuali per colpa di rapporti non protetti. Anche con prostitute che,
inspiegabilmente, nelle coscienze non vengono considerati ‘ a rischio’ ma piuttosto ‘scappatelle’ da archiviare come
episodi poco significativi. Ma un rapporto non protetto con una prostituta è un evento ad altissimo rischio di contagio.
Così passano gli anni senza che ci si senta delle potenziali vittime dell’HIV e quando si arriva al test e alla diagnosi,
spesso, si sono persi molti anni utili. Quando, addirittura, non si è già in AIDS conclamato».
La sottovalutazione del rischio significa ritardo nella diagnosi e nell’inizio delle terapie, con quali conseguenze?
Le implicazioni sono molte. Ovviamente il paziente ha un quadro generale già compromesso, dei livelli di CD4 piuttosto
bassi. Ma ciò che spesso si sottovaluta è che l’intero approccio alla terapia deve subire una brusca accelerazione: è un
inizio ansioso della cura, il medico non ha il tempo di preparare il paziente a quello che comporta, agli effetti collaterali,
all’importanza dell’aderenza. Per non parlare del fatto che alti livelli di virus significano resistenze e, quindi, la necessità
di adottare sin dalle fasi iniziali regimi terapeutici molto potenti.
Un sieropositivo trattato presto, e bene, oggi ha un’altra speranza di vita rispetto a venti, trent’anni fa. Quali
sfide comporta questo nuovo paziente cronico?
Un paziente che inizia presto la terapia appropriata e che ha una buona aderenza può contare su un allungamento
dell’aspettativa della vita quasi paragonabile a quella di una persona non infetta. Oggi questi pazienti sieropositivi non
muoiono più di HIV. Ma sono le comorbidità a rappresentare una sfida e una preoccupazione e per due motivi:
innanzitutto perché i pazienti, spesso avanti con gli anni, hanno una serie di problematiche legate più all’età che
all’infezione – basti pensare alla sindrome dismetabolica- alle quali bisogna aggiungere il fattore ‘virus’ che amplifica e
anticipa danni al sistema cardiovascolare, ai reni, al sistema nervoso. Ormai è dimostrato che il virus ha un effetto
infiammatorio, scatena una costante immunoattivazione. Fino a qualche tempo fa si pensava che il rischio più elevato di
malattie cardiovascolari, del rene, delle ossa o del sistema nervoso fosse una conseguenza delle terapie oggi, invece, è
chiaro che è uno degli altri meccanismi di azione del virus. E’ una nuova sfida ma anche questa riusciremo a vincerla.
Un aiuto importante ci viene dalle nuove terapie, gli inibitori d’entrata e dell’integrasi che non solo impediscono la
replicazione del virus ma fanno in modo che il virus non sia latente nelle cellule. Oltre, ovviamente, ad affiancare gli
inibitori della proteasi e gli inibitori della trascrittasi inversa nei confronti dei quali spesso i pazienti da molto tempo in
terapia mostrano resistenze cosa che, in verità, può accadere anche ai pazienti naive ovvero quelli mai trattati prima.
CONFERENZA STAMPA - ROMA 8 MAGGIO 2012
CARTELLA STAMPA
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Dal punto di vista delle terapie cosa è cambiato?
Bisogna mettere in atto nuove strategie, studiare nuovi farmaci, combinare diversamente quelli a disposizione. E’ uno
scenario nuovo quello del paziente cronico e dobbiamo saperci adattare. Ecco perché parlo di una nuova ‘sfida’. Anche
perché se fino a qualche tempo fa il paziente ci chiedeva di vivere anni in più, oggi che questi anni li ha conquistati ci
chiede – anzi vorrei dire pretende- che siano anni di qualità. Vuole poter condurre una vita ‘normale’. Abbiamo il dovere
di rispondere a questa richiesta. Un dovere nei confronti del paziente ma anche della collettività. Perché è dimostrato
che un paziente trattato presto e bene ma anche che ha un’alta aderenza alla terapia ha minori possibilità di trasmettere
il virus. Il trattamento dell’HIV come prevenzione è una scoperta scientifica di straordinaria importanza: mutuata
dall’esperienza materno-fetale adesso è stata applicata anche nelle coppie.
Gli inibitori della proteasi hanno rivoluzionato nel 1996 la storia della lotta all’HIV. A distanza di tanti anni qual è
la lezione che abbiamo imparato?
Che un forte investimento di risorse e di energie, insieme ad una proficua collaborazione tra pubblico e privato, portano
a grandi risultati. E che non dobbiamo e non possiamo abbassare la guardia perché la malattia non è stata ancora
messa alle corde. Ora dobbiamo puntare da una parte alla miglior gestione possibile delle terapie dei pazienti
sieropositivi, dall’altra alla cura. Che non credo sia poi così lontana.
La cura dell’HIV. Quanto manca e quale strada si sta percorrendo?
Abbiamo capito che il virus deve essere stanato da dentro le cellule. Solo così si potrà pensare davvero di combatterlo
definitivamente. Bisogna stanare il virus dai ‘serbatoi’ dentro i quali si nasconde. Per questo oltre alle terapie bisognerà
chiedere aiuto all’ingegneria genetica. Sono fiducioso ma penso che ci vorranno ancora una decina di anni.
Guardandosi alle spalle non si può che essere soddisfatti della strada fatta. Ma, allo stesso tempo, è
obbligatorio interrogarsi sul fatto che il mondo sia andato a due velocità. Sono passati trent’anni eppure nel
Sud del mondo l’HIV è lontano da essere una malattia cronica.
L’HIV è stata un’emergenza che ha svelato in modo inequivocabile come ci fossero – e purtroppo ci sono ancora- delle
diseguaglianze nell’accesso alla salute. E’ una questione di risorse indubbiamente ma anche di cultura e prospettiva: ci
si è mai interrogati, preoccupati che in Africa si morisse d’infarto o di diabete? E così sono passati i decenni ed oggi
dobbiamo non solo affrontare l’emergenza HIV ma anche quella delle ‘nuove’ malattie che stanno complicando anche la
storia del virus. Sono cambiati gli stili di vita, le abitudini alimentari e così anche nel Sud del mondo ci sono ‘epidemie’ di
diabete, ipertensione, malattie cardiovascolari. E non siamo pronti a fronteggiarle, prevenirle, trattarle. Il tutto in piena
emergenza HIV. Basta un dato per capire quanto ancora ci sia da fare nella lotta all’HIV in Africa: ogni anno nascono
350mila bambini sieropositivi. E noi sappiamo che questa situazione si può fermare. Ma ci troviamo a fare i conti, oggi
più di prima, con difficoltà economiche che rendono difficile se non addirittura impossibile la sostenibilità nel tempo delle
terapie.
In un momento di crisi economica anche nei Paesi occidentali ci sono diseguaglianze di accesso alla cura?
Sicuramente in un momento così difficile esistono situazioni di diseguaglianza anche in questa parte del mondo. Persino
nel nostro Paese dove, fortunatamente, c’è un Servizio Sanitario Nazionale che si fa carico di queste terapie ma ci
possono essere difficoltà di accesso di carattere logistico e non discriminatorio che comunque rendono difficile
l’aderenza alle terapie.
Il virus dell’HIV ha richiesto dei grandi investimenti economici. La paura dell’epidemia fu più forte delle
resistenze economiche. Oggi, davanti ad una nuova emergenza, quella dell’HCV, che ha molti similitudini con
quella dell’HIV non c’è lo stesso atteggiamento.
L’Epatite C non fa paura, è vero. Non sembra nelle coscienze collettive una malattia mortale. Eppure è un killer che non
perdona. Ma che, contrariamente all’HIV, sappiamo non solo come fermare ma addirittura come sconfiggere. E la
lezione l’abbiamo imparata proprio dal virus dell’HIV, addirittura dai suoi farmaci. Quello che dobbiamo ricordare è anche
che le terapie devono essere valutate in termini di costo-efficacia. Ce l’ha insegnato l’AIDS. Oggi che stiamo aspettando
le nuove terapie per l’Epatite C teniamolo bene a mente e consideriamo quanto costa, a distanza di anni, un paziente
che deve fare un trapianto di fegato. E non mi riferisco a costi umani e di qualità di vita- inquantificabili – ma proprio in
CONFERENZA STAMPA - ROMA 8 MAGGIO 2012
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termini di costo sanitario. La cura più costosa nell’immediato potrebbe essere quella che fa risparmiare non a lunga, ma
anche a media distanza. Ancora una volta la chiave di volta della terapia gioca su due parole: presto e bene. Ovvero
iniziare appena possibile la migliore terapia possibile per quel paziente.
La lotta all’HIV è una lotta globale. Qual è il ruolo che gioca l’Italia? In questi anni nel nostro Paese le luci sul
virus si sono abbassate è stato così anche a livello internazionale?
In tutti questi anni sono state molte le persone che hanno fatto in modo che il ruolo dell’Italia a livello internazionale
fosse sempre ‘vivo’, anche quando il Paese era meno presente. Ma è arrivato il momento che si vada al di là del
prestigio individuale e si recuperi un Sistema Paese. Mi sembra che ci sia una nuova aria, una nuova sensibilità
rappresentata anche da Ministri che hanno una maggiore attenzione alla cooperazione internazionale anche in tema di
salute e sanità. Mi sembra che si stiano gettando le basi di nuove iniziative bilaterali.
CONFERENZA STAMPA - ROMA 8 MAGGIO 2012
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HCV, LA GUERRA CHE SI PUÒ VINCERE
Intervista a Antonio Craxì
Professore Ordinario di Gastroenterologia, Università di Palermo
Tutto uguale eppure tutto così diverso. Sembrava un ‘film già visto’, ci illudevamo che la lotta all’HIV ci avesse insegnato
tanto, tutto. E che, così, quella all’HCV fosse in qualche modo più ‘facile’. E, invece, no. La storia è ancora tutta da
scrivere. Perché l’HCV non fa paura. Addirittura se ne ignora quasi l’esistenza. Peccato che gli infetti stimati siano più di
un milione. La maggior parte di loro non sa di esserlo. Le terapie ci sono - anche grazie alla Ricerca nel campo dell’HIV le conoscenze pure, mancano le coscienze. Quanta strada bisogna ancora fare per sconfiggere un virus che, almeno
sulla carta, potremmo considerare ‘alle corde’? Ne parliamo con il professore Antonio Craxì, Ordinario di
Gastroenterologia all’Università di Palermo in una conferenza stampa a Roma in occasione del Convegno ‘HIV & HCV:
due storie parallele. Le sfide future’.
Professor Craxì a che punto siamo nella lotta all’HCV nel nostro Paese?
Saremmo a buon punto se ci fosse più consapevolezza della malattia. E’ paradossale: sappiamo come combattere il
virus, abbiamo a disposizione terapie che si sono dimostrate efficaci, possiamo addirittura confidare nella guarigione del
paziente - cosa che con l’HIV ancora non è possibile - ma ci vediamo costretti a parlare di ‘emergenza epatite C’ perché
manca la consapevolezza nella collettività che questa malattia esiste ed è spietata. Il livello di conoscenza pubblica è
bassissimo, a fronte di un milione, un milione e mezzo di infetti stimati – e sottolineo stimati perché non esistono dati
certi, potrebbero essere addirittura di più- solo il 10-15 per cento sa di esserlo. Tutti gli altri continuano la loro vita senza
curarsi. Fino a quando il danno non è più rimediabile. Mancano informazioni, campagne di prevenzione. Manca uno
screening di massa che sarebbe veramente indispensabile. Il Ministero della Salute ha promesso di realizzarla,
speriamo. In Francia dove un’azione di questo tipo è stata messa in atto, si è fatti uscire dal sommerso circa il 50% degli
infetti. Con evidenti benefici per il singolo e per la collettività.
Perché tanta apparente disattenzione nei confronti dell’Epatite C?
Innanzitutto perché non fa paura come l’HIV e poi perché è ancora una malattia caratterizzata da uno stigma
generalizzato. Chi ha l’epatite C viene considerato uno che, chissà come, ma se l’è andata a cercare. E ognuno ha
un’opinione di sé migliore di quella che ha verso gli altri. Quindi, nessuno pensa di essere a rischio. Ma pensare che sia
una malattia di gruppi a rischio, di chi se l’è cercata con chi sa quale scriteriato e amorale comportamento è l’errore più
grave che si possa commettere. L’epatite C è un problema di tutti, è una responsabilità di tutti. Molti pazienti hanno
contratto il virus negli anni ’70 quando le iniezioni si facevano con le siringhe di vetro. Molti altri con le trasfusioni di
sangue. Ma il problema vero è che quando si trova davanti ad una persona con epatite C la gente non pensa a come ha
contratto il virus piuttosto a come potrebbe attaccarglielo. E così inizia un’emarginazione che non ha alcun fondamento.
Quindi, le persone infette non ne parlano. E la malattia passa sotto silenzio. Anche nelle coscienze. E poi c’è un
problema di difficoltà economica - oggi più che mai - che impedisce la realizzazione di campagne di screening di massa
oltre che di prevenzione. E le difficoltà economiche si fanno sentire anche verso l’allocazione di denaro per le terapie. Allora, come è cambiata la lotta all’HCV ‘al tempo dello spread’?
Il vero spread che preoccupa è quello tra il numero dei pazienti che continua a salire e l’aumento dei costi delle terapie e
mi riferisco in particolare alle nuove terapie, quelle che in Italia dovrebbero arrivare, speriamo, al più presto. Passeremo
dai 6-7-10 mila euro a paziente trattato con interferone pegilato+ ribavirina, ai 30 mila e oltre per paziente trattato con la
nuova triplice terapia. Saremo costretti a fare i conti prima di trattare un paziente. E’ evidente che ci troviamo davanti ad
un dilemma di carattere etico: a fronte di una situazione di risorse economiche limitate nella quale non tutti i pazienti
possono essere trattati con le nuove terapie come ci dovremo comportare? Quali criteri adottare?
Non sono interrogativi di poco conto. Soprattutto per un paziente.
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Le nuove Linee Guida danno una direttiva: trattare ‘ad occhi aperti’, ovvero, scegliere la migliore terapia possibile per
ogni paziente tenendo conto di tutta una serie di fattori. In una politica di piccoli passi che tenga conto anche dei costibenefici. E così dovremo capire chi può ancora avere benefici dalle terapie tradizionali e chi no perché già sappiamo che
avrà una bassa risposta; chi dovrà da subito adottare le nuove terapie perché danno maggiori probabilità di successo. E
anche chi è meglio che aspetti l’arrivo dei nuovi farmaci prima di iniziare una terapia in modo da poter contare subito su
‘un proiettile d’oro’, ovviamente se le sue condizioni lo consentono. Quello che sappiamo per certo è che dobbiamo
trattare chi ne ha realmente bisogno, come i pazienti con fibrosi epatica avanzata, i pazienti trapiantati, i pazienti con
virus recidivato, quelli con HIV. Nel valutare tutti i criteri bisogna sin da ora tenere presente quello del costo-efficacia: un
paziente trattato presto e bene è un paziente che non andrà incontro a ricoveri o, addirittura, a trapianto. E’ un paziente
che farà terapie di minore durata. Farà meno assenze dal lavoro, avrà una maggiore aderenza alla terapia. Un paziente
guarito costa meno alla collettività. Quindi, alla fine il costo nell’immediato diventa un risparmio nel medio-lungo termine.
Qual è la lezione che l’HCV può imparare dalla lotta all’HIV?
Mi piace pensare a cosa devono imparare i medici che curano l’HCV da quelli che curano l’HIV: come gestire le terapie.
Fino a poco tempo fa avevamo a disposizione una terapia come quella con interferone+ribavirina che o funzionava o
non funzionava. Poi sono arrivati gli inibitori che, come le nuove terapie in arrivo, possono dare resistenza in maniera
molto più rapida e senza scomparire. Sono terapie da monitorare quasi in tempo reale. Terapie di grande efficacia ma
che comportano una preoccupazione che prima non avevamo e oggi sì, come i medici che lottano con l’HIV.
Oggi per l’HIV il successo è rappresentato dalla cronicizzazione della malattia, la cura è ancora lontana. Mentre
per l’HCV si parla addirittura di eradicazione. E’ davvero possibile?
L’HIV ci insegna che una terapia appropriata e ben gestita può dare grandi risultati. Nel caso dell’HIV la cronicizzazione,
nel caso dell’HCV l’eradicazione. Ci sono dati, sia per quanto riguarda la terapia con interferone più ribavirina che con le
nuove terapie, che dimostrano con certezza che il virus una volta sconfitto non ritorna. Ovviamente se il paziente è stato
ben trattato. E qui torniamo all’interrogativo iniziale: chi trattare? Perché sappiamo che se un paziente viene
adeguatamente trattato prima che il danno epatico si sia manifestato, allora possiamo parlare veramente di guarigione
altrimenti dobbiamo parlare di guarigione ‘difettosa’.
Con le terapie più recenti e quelle in arrivo, possiamo dire che siamo entrati in una nuova era?
Sì, senza dubbio. Siamo passati da malattia mortale a malattia contenitiva. Ovviamente bisogna sapere di essere stati
infettati e bisogna accedere presto alle terapie opportune. Oggi abbiamo anche il 70-80% di guarigioni. Mi piace pensare
alla lotta all’epatite C come ad una scala fatta di gradini molto alti, faticosa da salire. Ogni gradino rappresenta un
problema: quello dei costi, quello dell’efficacia, quello delle coscienze, e così via. Ne abbiamo saliti tanti e ogni volta il
gradino è un po’ meno alto e la cima sembra più vicina. Possiamo veramente dire di aver voltato pagina. Questa guerra
si può vincere. Le armi ci sono.
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HIV & HCV. DUE STORIE PARALLELE,
UN ALLEATO COMUNE: LA RICERCA
Pierluigi Antonelli, Presidente e Amministratore Delegato di MSD Italia e Vicepresidente Farmindustria
E’ ancora tutta da scrivere la pagina che spiega il perché l’HIV e l’HCV, nonostante siano killer spietati, non fanno paura.
Questo è uno degli aspetti più preoccupanti che hanno in comune questi due virus: non entrano nelle coscienze della
collettività. Mentre, da sempre, sono ben presenti nel mondo della Ricerca che, consapevole di quanto fossero
aggressivi, non ha mai abbassato la guardia e, anzi, passo dopo passo ha messo a punto strategie terapeutiche che
oggi fanno guardare questi virus con altri occhi. L’HIV, da catastrofe planetaria a malattia cronica. L’HCV da malattia
invincibile a virus che si può, non solo mettere alle corde, ma addirittura eradicare. Due storie di modelli di successo
della Ricerca. Ma una partnership virtuosa tra pubblico e privato come quella che è fino ad oggi stata messa in campo e
che ha consentito di raggiungere questi risultati per l’HIV, e anche per l’HCV, è ancora possibile in tempo di crisi? Ne
parliamo con Pierluigi Antonelli, Presidente e Amministratore Delegato di MSD Italia e Vicepresidente Farmindustria in
una Conferenza stampa a Roma in occasione del Convegno ‘HIV & HCV : due storie parallele. Le sfide future’.
Oggi l’HIV è a tutti gli effetti una malattia cronica. Se ben trattato, un paziente impara a convivere con il virus e
questo apre una nuova sfida per la Società. In che modo il mondo dell’Industria intende fronteggiarla?
MSD è un'azienda basata sulla ricerca ed è in prima linea nella lotta contro questa terribile infezione fin dai primi casi
notificati di AIDS.
Negli ultimi 30 anni, siamo riusciti a trasformare una ‘catastrofe planetaria’ non solo in una malattia cronica, ma anche in
un modello di successo della ricerca. Dai nostri laboratori sono uscite tutte le molecole che hanno cambiato i paradigmi
della cura: i primi inibitori della proteasi, i primi inibitori della transcrittasi inversa fino al primo inibitore dell'integrasi,
frutto, peraltro, della ricerca italiana.
E' un'eredità importante e un impegno che intendiamo mantenere anche in futuro, sviluppando farmaci sempre più
efficaci e vicini ai pazienti.
All'alba della quarta decade di storia del virus è, infatti, arrivato il momento di studiare nuove strategie. L'industria e la
comunità scientifica devono poter fornire risposte e soluzioni a problemi complessi: ci troviamo di fronte ad una
popolazione che invecchia, ad un mondo che procede a due velocità con evidenti disparità di accesso, ad una malattia
che, seppur cronicizzata, ancora non è stata sconfitta.
Nessuno può pensare di far tutto da solo, è necessario che le responsabilità siano condivise.
Recentemente abbiamo avviato due collaborazioni con l'Università del North Carolina e con l'Università della California
per sviluppare nuovi approcci volti ad eradicare la malattia. Si tratta di piani quinquennali di ricerca per comprendere
come stanare il virus dai reservoir, dei veri e propri serbatoi di latenza.
Inoltre, all'inizio di gennaio, la FDA americana ha approvato raltegravir in compresse masticabili per i bambini dai 2 ai 12
anni di età; siamo ora in attesa dell'approvazione europea, ma siamo certi che la nuova formulazione avrà un impatto
importante soprattutto nel sud del mondo dove il problema dell'infezione pediatrica è, purtroppo, molto più sentito.
Sono certo che il "modello HIV" abbia ancora tanto da insegnare e che i capitoli più importanti di questa storia siano
ancora da scrivere.
I farmaci hanno regalato anni di vita ai pazienti, ora è necessario fare in modo che questo tempo guadagnato sia anche
di qualità.
E’ soprattutto grazie ai successi della ricerca scientifica - e quella farmacologica in particolare - se oggi la lotta
all’HIV viene a pieno titolo considerata dal mondo scientifico internazionale come la storia di un ‘modello di
successo’. Un modello unico nel suo genere. Ma in questi 30 anni molte cose sono cambiate nel mondo della
Ricerca, così come nella Società e nell’Industria. Ci sono ancora i presupposti per considerare ‘replicabile’
questo modello?
CONFERENZA STAMPA - ROMA 8 MAGGIO 2012
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Chi oggi fa ricerca, sperimenta tempi e costi sempre più lunghi ed un'alea crescente. Lo sviluppo di un farmaco richiede,
mediamente, tra i 10 e i 13 anni con investimenti che sfiorano i due miliardi di dollari, il doppio rispetto a quanto fosse
necessario solo dieci anni fa.
Non solo, una volta immessi in commercio solo il 20 per cento dei farmaci è in grado di recuperare gli investimenti
sostenuti, senza contare che il sistema farmaceutico, particolarmente quello italiano, non è certo premiante nei confronti
dell'innovazione.
Un recente studio dell'EFPIA ha evidenziato come i tempi medi che decorrono dall'approvazione del farmaco a livello
europeo alla sua effettiva fruizione da parte dei cittadini, variano dai 0 giorni di Germania e Regno Unito, agli 88
dell'Austria, ai 140 della Svizzera, ai 188 della bistrattata Grecia fino ad arrivare ai 326 dell'Italia. E questi ritardi non si
stanno attenuando, ma aumentano, soprattutto per le ulteriori e sostanzialmente inutili forche caudine a livello regionale.
I tempi necessari per l'inclusione dei farmaci nei prontuari regionali possono superare i 9-10 mesi e, a farne le spese,
sono in primis i pazienti.
Dubito che questi presupposti siano terreno fertile per replicare il modello HIV.
In questo caso, abbiamo potuto contare su risorse economiche e umane ingenti, su un impegno condiviso e su iter
registrativi accelerati che hanno consentito ai pazienti che ne avevano maggiormente bisogno di avere accesso ai
farmaci, anzi spesso in anticipo rispetto alla loro effettiva immissione in commercio grazie a progetti sperimentali di
ricerca. In questo, proprio l'Istituto Superiore di Sanità è stato pioniere.
La storia della lotta all’HIV insegna che un forte investimento di risorse e di energie da parte della Ricerca,
insieme ad una fattiva collaborazione tra pubblico e privato sia l’unica strada per raggiungere dei risultati
significativi. Una strada da percorrere per l’HIV - perché la malattia non è stata ancora sconfitta - ma ancor di
più per l’HCV visto che le pagine da scrivere sono ancora molte. Una partnership virtuosa tra pubblico e privato
ai tempi dello "spread" è ancora possibile?
L'attuale contesto sociale ed economico parrebbe suggerire il contrario, ma la collaborazione tra il settore pubblico e
quello privato non solo è possibile, ma anche auspicabile. Proprio quando le risorse sono limitate l'industria ha bisogno
di condividere strategie di sviluppo con gli attori istituzionali a beneficio di un sistema sostenibile.
Sostenibile significa anche rendere disponibili le terapie antiretrovirali a prezzi più accessibili. E' il caso della nostro
inibitore dell'integrasi, raltegravir, per il quale abbiamo appena presentato in Italia una riduzione di prezzo superiore al
30 per cento.
Il settore privato deve continuare a fare la sua parte, ma è altrettanto necessario che chi ci governa capisca che si tratta
di un percorso lungo, oneroso e non privo di rischi.
Un caso di ritardo emblematico è proprio quello dei nuovi farmaci per l'HCV: nonostante vi siano evidenze
incontrovertibili in favore della guarigione virologica rispetto alla terapia standard, ancora non abbiamo avuto la
possibilità di essere auditi in AIFA per la nostra molecola boceprevir, per la quale abbiamo presentato domanda di
fissazione del prezzo e del regime di rimborsabilità esattamente 301 giorni fa.
La stessa molecola è già a disposizione dei pazienti in Germania, Francia e Regno Unito dallo scorso mese di agosto e,
in Spagna, dallo scorso mese di ottobre. Rimborsata integralmente e ad un prezzo significativamente superiore a quello
richiesto in Italia!
Mi permetta, poi, di aggiungere un'ulteriore postilla: la partnership tra pubblico e privato è certamente possibile e
sicuramente auspicabile: tuttavia, la parola stessa ("partnership") indica che i due contraenti del patto debbano avere un
mutuo interesse. In altri termini, lo Stato non può chiedere investimenti in Ricerca alle aziende e poi penalizzarle
attraverso continue riduzioni di prezzo, ritardi/restrizioni all'accesso dei farmaci innovativi, tetti di spesa a livello
territoriale, ospedaliero e sui singoli prodotti, indipendentemente da qualsiasi seria valutazione epidemiologica.
Se lo Stato vuole una partnership con l'industria (e noi la vogliamo), deve tener conto di una visione olistica del settore,
di economia industriale, e non solo di ragioneristica e miope riduzione delle spese.
A questo proposito, cito un recentissimo (aprile) studio del Centre of European Policy Research promosso dalla
Commissione Europea che ha evidenziato come ogni riduzione di un punto percentuale nel mercato farmaceutico
comporta una automatica riduzione dello 0,25 per cento nella scoperta di farmaci innovativi.
CONFERENZA STAMPA - ROMA 8 MAGGIO 2012
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HIV & HCV: DUE STORIE PARALLELE
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Oggi i riflettori sono puntati sul Sud del mondo, dove l’HIV è ancora un’emergenza dalle proporzioni epocali. Ma
il Sud del mondo non sempre ha la considerazione che merita nelle coscienze collettive. Cosa si sta facendo e
si dovrebbe fare?
La sfida contro il virus dell'HIV è complessa e richiede approcci e soluzioni articolate. Il contributo pratico che l'azienda
ha continuato a dare negli anni è certamente molto importante se si pensa che, solo lo scorso anno, abbiamo erogato
contributi e donazioni per oltre 1 miliardo di dollari. In questi 30 anni di storia dell'infezione, le linee guida del nostro
impegno hanno sempre seguito tre direttrici: la ricerca e lo sviluppo, l'accesso e le partnership.
Si stima che, nel 2009, 1,2 milioni di persone abbiano ricevuto un trattamento antiretrovirale per la prima volta. Nello
stesso anno, 400 mila persone erano in trattamento con farmaci antiretrovirali nati nei laboratori MSD.
Per MSD, l'attività principale è certamente scoprire e sviluppare farmaci e vaccini innovativi che facciano la differenza
per la vita di milioni di persone, ma il suo impegno nei confronti della responsabilità d'impresa si estende anche al modo
con il quale questa attività primaria è portata a compimento.
Nel 2001, MSD è stata la prima azienda farmaceutica a ridurre il prezzo dei suoi farmaci antiretrovirali (ARV) nei Paesi
in Via di Sviluppo. Ad oggi sono stati offerti farmaci ARV a prezzi scontati in più di 110 Paesi.
La partnership con produttori esterni e una collaborazione con i mercati emergenti ci assicurano costi inferiori di
manifattura e di conseguenza un accesso più ampio alle nostre terapie antiretrovirali. Abbiamo concesso licenze royaltyfree per alcuni nostri farmaci a 5 diverse aziende sudafricane.
Nessuno può affrontare da solo un problema di sanità pubblica tanto vasto; solo sfruttando congiuntamente le
competenze e le risorse dei settori pubblico e privato possiamo mettere in atto delle strategie di successo. E questo è
quanto abbiamo applicato in molti Paesi.
La partnership pubblico-privato più importante è sicuramente ACHAP- African Comprehensive HIV/AIDS Partnership che ci vede operare fin dal 2001, insieme alla Fondazione Bill&Melinda Gates ed al governo locale, in Botswana
attraverso una donazione di 56.5 milioni di dollari ciascuno. Il progetto ha avuto un impatto tale che nel 2009 si è
pensato di rinnovare l'impegno con il governo attraverso un'ulteriore donazione di 30 milioni di dollari ciascuno fino al
2013.
Ma se prendiamo in considerazione l'obiettivo che si è dato UNAIDS, cioè di raggiungere "zero nuove infezioni, zero
discriminazioni e zero decessi legati al virus dell'HIV entro il 2015" è facile comprendere come la strada da percorrere
sia ancora lunga.
Abbiamo fermato,anzi invertito, il corso di questa terribile pandemia: sempre meno persone vengono infettate dal virus
HIV e sempre meno persone muoiono a causa dell'AIDS; eppure gli investimenti pubblici nella lotta all'infezione si sono
appiattiti dal 2009 ad oggi, permangono stigma, emarginazione, scarsa consapevolezza e problemi di accesso. E
purtroppo non solo nel sud del mondo.
Quando nel 1996 durante la conferenza di Vancouver gli inibitori della proteasi si presentarono alla comunità
scientifica fu subito chiaro che la parola d’ordine doveva essere ‘innovazione’. A sedici anni di distanza, qual è
la parola d’ordine della lotta all’HIV e all’HCV?
Non confinerei una strategia di successo nei limiti di un'unica parola d'ordine, ne userei almeno tre e sono le stesse che
abbiamo mutuato dal modello HIV: innovazione, investimenti e partnership. Se, oggi, medici e pazienti possono contare
su così tante molecole con meccanismi d'azione diversi e, spesso, complementari è proprio grazie a questo mix virtuoso
e alla collaborazione di tutti gli attori del sistema salute.
Tutti vogliamo fortemente farmaci innovativi che rispondano alle sfide emergenti e ai bisogni non soddisfatti, ma per
continuare ad innovare occorre investire.
Ogni anno un'azienda come MSD investe in programmi di ricerca e sviluppo 8,1 miliardi di dollari, pari al 18 per cento
del proprio fatturato. E' proprio un impegno di tale portata che ci consentirà di continuare a essere leader nella scoperta,
nello sviluppo e nella commercializzazione di terapie innovative per il trattamento dell'Epatite C cronica e contro
l'infezione da HIV.
Stiamo sviluppando nuove combinazioni di farmaci in HIV, almeno altri dodici promettenti composti tra molecole di
seconda generazione, anche prive di interferone, e molecole con meccanismi d’azione complementari che siano in
grado di bloccare la replicazione del virus HCV.
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HIV & HCV: DUE STORIE PARALLELE
LE SFIDE FUTURE
Il professor Garaci in apertura del volume che celebrava i 70 anni dell'Istituto Superiore di Sanità ha scritto: “La
nostra Ricerca per la Salute di Tutti”. Cosa può fare oggi il mondo della Ricerca per fare in modo che davvero
sia ‘di tutti’?
Nello stesso volume il Prof. Garaci sottolineava che "sulla crescita della conoscenza e sull'innovazione si gioca gran
parte del ruolo che ogni nazione ha nello scenario mondiale. Sta a noi la scelta se essere protagonisti di questo tempo o
semplici comparse". Noi abbiamo scelto di essere protagonisti del nostro tempo. Conoscenza e innovazione sono
l'anima di ciò che siamo come Azienda e sono le uniche scelte possibili per fare in modo che la ricerca sia realmente al
servizio della società.
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HIV & HCV: DUE STORIE PARALLELE
LE SFIDE FUTURE
HIV & HCV
Approfondimenti
Testi tratti da ‘Il Quaderno MSD’ dedicato all’HIV e all’HCV
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HIV & HCV: DUE STORIE PARALLELE
LE SFIDE FUTURE
HIV
Il virus da immunodeficienza umana (HIV, dall’inglese Human Immunodeficiency Virus) è un retrovirus, una particella
virale in cui il materiale genetico è costituito da RNA (acido ribonucleico), invece che da DNA. Il virus è in grado di
attaccare le cellule del sistema immunitario e, dal 1984, è stato riconosciuto come causa eziologica dell’AIDS, la
Sindrome da immunodeficienza acquisita (Acquired immunodeficiency syndrome), che si verifica in uno stadio avanzato
dell’infezione. Se ne conoscono due tipi, l’HIV-1 e l’HIV-2.
Strettamente imparentati e molto simili nella struttura, nel genoma e nelle vie di trasmissione, si differenziano soprattutto
per distribuzione geografica e per aggressività: l’HIV-2 colpisce prevalentemente le popolazione dell’Africa dell’Ovest e
ha un decorso clinico più lento e meno severo; l’HIV-1 è diffuso soprattutto in Africa Centrale, in Europa e in America.
Il virus fu isolato per la prima volta nel 1983 dai virologi francesi Francoise Barre-Sinoussi e Luc Montagnier che stavano
lavorando a un progetto per individuare l’agente di una nuova allarmante epidemia – l’AIDS – scoppiata in Africa
Orientale tra il 1981 e il 1982. Inizialmente lo chiamarono Virus linfadenopatia-associato (LAV, Lymphadenopathy
Associated Virus) e per questa scoperta riceveranno il Nobel per la Medicina nel 2008.
L’HIV è stato classificato come appartenente al genere dei lentivirus (Lentiviridae), retrovirus caratterizzati da un
involucro esterno che circonda il capside, la struttura proteica a protezione del materiale genetico, tipica di tutti i virus.
Ha un diametro di circa 100 nanometri, il pericapside presenta due proteine di membrana – gp120 e gp41 – e il capside
ha una forma a icosaedro (a venti lati). All’interno è presente un doppio filamento di RNA e le proteine necessarie alla
trascrizione inversa, all’integrazione nel genoma ospite e alla replicazione.
Le cellule bersaglio dell’HIV sono linfociti, macrofagi, cellule della microglia e cellule dendritiche. La glicoproteina gp20
ha la funzione di riconoscere e legarsi al recettore CD4 presente sulla membrana di queste cellule immunitarie, e,
successivamente, ad altri specifici recettori; questo scatena una serie di reazioni biomolecolari che permettono a una
parte dell’altra glicoproteina, gp41, di penetrare nella membrana cellulare. A questo punto, la proteina trascrittasi inversa
traduce l’RNA in DNA che è in grado di integrarsi nel genoma della cellula ospite grazie a un’altra proteina, chiamata
integrasi. Avvenuta l’integrazione, il genoma del virus può rimanere silente anche per anni. Prima di giungere alla fase
tardiva di infezione, in cui si ha la diagnosi di AIDS, possono passare dai cinque ai dieci anni.
1 PERSONA SU 180 NEL MONDO CONVIVE CON L’HIV, IN TUTTO 34.000.000:
È COME SE NE FOSSE COLPITA TUTTA LA POPOLAZIONE DEL CANADA.
›
7.400 PERSONE AL GIORNO, SUL PIANETA, VENGONO INFETTATE DALL’HIV. I BAMBINI SONO OLTRE 1.000
›
OGNI 30 SECONDI UNA PERSONA MUORE DI AIDS.
›
PIÙ DI 2/3 DEI SIEROPOSITIVI RISIEDONO NELL’AFRICA SUB-SAHARIANA E CIRCA IL 60% SONO DONNE.
›
SI STIMA CHE SIANO170/180.000 LE PERSONE AFFETTE DA HIV IN ITALIA E CIRCA 40.000 QUELLE
CON AIDS.
›
NEL NOSTRO PAESE 1SIEROPOSITIVO SU 4 NON SA DI ESSERLO.
›
SONO CIRCA 4.000 LE NUOVE INFEZIONI IN UN ANNO, 11 OGNI GIORNO.
HIV: TRASMISSIONE & DIFFUSIONE
L’HIV si trasmette attraverso il sangue infetto (stretto e diretto contatto tra ferite aperte e sanguinanti, scambio di
siringhe), i rapporti sessuali (vaginali, anali, orogenitali) con persone con HIV non protetti dal preservativo, da madre con
HIV a figlio durante la gravidanza, il parto oppure l’allattamento al seno.Secondo l’ultimo rapporto UNAIDS, il
programma delle Nazioni Unite per HIV/AIDS, alla fine del 2010 erano circa 34 milioni le persone nel mondo che
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convivevano con l’HIV: oltre il 17% in più rispetto alla stima del 2001. Questo aumento – specifica il rapporto – riflette
soprattutto il maggiore accesso alle terapie antiretrovirali, che negli anni recenti, in particolare negli ultimi due, ha ridotto
la mortalità per AIDS. Da un picco di 2,2 milioni verso la metà degli anni Novanta, infatti, si è scesi a 1,8 milioni nel 2010.
Dal 1995 a oggi, nei paesi a basso e medio reddito le terapie antiretrovirali hanno evitato la morte di circa 2,5 milioni di
persone (700mila solo nel 2010).
Il numero totale di nuove infezioni resta molto alto: nel 2010 se ne sono registrate circ 2,7 milioni, di cui circa 390mila fra
i bambini. Si tratta, comunque, di una cifra in calo: del 15% rispetto al 2001 e del 21% rispetto al 1997. Nei Paesi
cosiddetti sviluppati l’epidemia non accenna a diminuire. Nonostante il facile accesso alle informazioni, alla prevenzione
(contraccettivi) e ai trattamenti, l’incidenza dei casi di HIV è rimasta pressoché invariata dal 2004, mentre grazie alla
disponibilità delle nuove terapie sono in calo i decessi.
L’Africa Sub-sahariana è l’area in cui l’epidemia è più diffusa: sebbene sia abitata dal 12% della popolazione globale, il
68% degli abitanti convive con l’HIV. Qui, nel 2010, è avvenuto il 70% delle nuove infezioni e circa la metà di tutte le
morti legate all’AIDS. Il Sudafrica è in assoluto la nazione più colpita al mondo con i suoi 5,6 milioni di sieropositivi.
In Italia le nuove infezioni da HIV sono in diminuzione: secondo la relazione annuale del Centro operativo AIDS (CCOA)
del’ISS nel 2010 sono stati 5,5 ogni centomila abitanti. Un dato solo parzialmente positivo: a calare, infatti, sono solo i
contagi avvenuti per scambio di siringhe contaminate, mentre rimane altissimo e invariato il numero di casi dovuti a
rapporti ses-suali non protetti - soprattutto tra eterosessuali - che rappresentano l’80,7% di tutte le nuove segnalazioni.
In tutto, le persone che convivono con il virus (già malate di AIDS - la malattia causata dal virus dell'immunodeficienza
umana che indebolisce il sistema immunitario – e non) si aggira intorno alle 157mila. La relazione conferma anche un
altro preoccupante trend: oltre un terzo delle persone colpite scopre di essere sieropositivo nello stesso momento in cui
apprende di avere l’AIDS, per di più in fase avanzata, con una seria compromissione del sistema immunitario.
Attualmente, infatti, si stima che una persona su quattro non sappia di essere infetta (un dato che condividiamo con il
resto dell’Europa Occidentale). L’incidenza si conferma maggiore al Centro-Nord rispetto al Sud e alle isole, e l’età
media a cui si scopre di essere sieropositivi è di 35 anni per le donne e 39 per gli uomini.
HIV: TERAPIE DISPONIBILI
Sebbene non esista ancora una terapia in grado di eradicare l’HIV, negli ultimi anni sono stati messi a punto dei farmaci
che interferiscono con la replicazione del virus e che riescono ad abbattere la carica virale nel sangue, tanto che questa
può non essere più individuabile attraverso le analisi cliniche. In pratica, nel corso degli ultimi trenta anni, da quando è
stato riconosciuto il primo caso di AIDS, si è riusciti a cronicizzare l’infezione: l’aspettativa di vita dei pazienti trattati
precocemente è paragonabile a quella della popolazione generale e la loro qualità di vita è notevolmente migliorata.
Questi farmaci sono detti antiretrovirali (ARV), e attualmente ne esistono oltre trenta in commercio, che rientrano in
cinque categorie diverse.
La loro efficacia è massima quando vengono assunti in combinazione di tre o più, un approccio noto con il nome Highly
Active Antiretroviral Therapy (HAART), che inibisce fortemente la replicazione del virus, permettendo al sistema
immunitario di produrre cellule sane per rispondere alle infezioni opportunistiche. Questo regime terapeutico, in uso negli
ultimi 15 anni, ha consentito una forte diminuzione delle morbilità e della mortalità.
Inibitori Nucleosidici della Trascrittasi Inversa (NRTIs, Nucleoside Reverse Transcriptase Inhibitors)
Come dice il loro nome, questi farmaci interferiscono con la trascrittasi inversa, la proteina che trascrive l’RNA del virus
in DNA, un passaggio indispensabile per l’integrazione del genoma dell’HIV in quello della cellula ospite. Nucleosidi e
nucleotidi (analoghi) modificati chimicamente vengono incorporati nel DNA virale al posto di quelli funzionali: in questo
modo il virus viene ingannato e indotto a usare i “mattoni” sbagliati durante la sua replicazione. Che, di conseguenza, si
inceppa e non può procedere. Gli NRTIs sono spesso chiamati la “spina dorsale” della terapia di combinazione, perché
la maggior parte dei regimi contiene almeno due di questi farmaci. Si utilizzano dal 1987 (dal ’91 in Italia).
Inibitori Non-Nucleosidici della Trascrittasi Inversa (NNRTIs, Non-Nucleoside Reverse Transcriptase Inhibitors)
L’effetto è lo stesso dei farmaci precedenti, quello che cambia è la modalità di azione. Gli NNRTIs aiutano a inibire la
replicazione dell’HIV attaccandosi all’enzima trascrittasi inversa e prevenendo la sua azione di traduzione dell’RNA
virale in DNA. Sono in uso dal 1996 (dal ’98 in Italia).
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Inibitori della Proteasi (PIs, Protease Inhibitors)
Ad essere bloccate, in questo caso, sono le funzioni di un’altra proteina, chiamata HIV-proteasi, anch’essa
indispensabile alla riproduzione del virus. L’ultima fase della replicazione, infatti, comprende l'assemblaggio delle
particelle virali, la loro estrusione e quindi la fuoriuscita del virus dalla membrana cellulare. L’HIV-proteasi è necessario
perché taglia le proteine in pezzi piccoli necessari all'assemblaggio dei virioni. Inibendolo, si previene la produzione di
nuove particelle infettive. Sono in uso dal 1995 (dal ’96 in Italia).
Inibitori d’entrata (EIs, Entry Inhibitors)
Questi farmaci bloccano il virus ancor prima che entri nelle cellule del sistema immunitario. Ne esistono due tipi in
commercio: uno è un inibitore della fusione, l’altro è un antagonista del co-recettore CCR5, una delle proteine presenti
sulla membrana di molte delle cellule a cui si lega il virus.
Inibitori delle Integrasi (IIs, Integrase Inhibitors)
A oggi esiste solo un farmaco in grado di agire a livello dell’enzima integrasi, l’altra proteina fondamentale per la
replicazione del virus, insieme alla trascrittasi inversa e alla proteasi. Questo enzima, infatti, permette al DNA dell’HIV di
integrarsi a quello umano. La molecola messa a punto – raltegravir – si è dimostrata ben tollerata e più efficace della
migliore terapia a oggi disponibile: lo studio STARTMRK lo ha infatti messo a confronto con efavirenz, inibitore della
trascrittasi inversa, in uno studio di fase III, multicentrico, randomizzato in doppio cieco con un braccio attivo di controllo.
I risultati a cinque anni dimostrano che raltegravir è in grado di agire anche contro i virus mutanti generati dal
trattamento precedente con inibitori della proteasi e della trascrittasi inversa. Inoltre, raltegravir viene metabolizzato con
un meccanismo di detossificazione che non chiama in gioco i citocromi (come avviene negli altri trattamenti) e quindi
non richiede ulteriori medicinali che li blocchino e che possono causare effetti collaterali aggiuntivi.
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HCV
Il virus dell’epatite C (HCV – Hepatitis C Virus) colpisce nel mondo circa 170 milioni di persone, in Italia un milione e
700mila; l’infezione è, nei due terzi dei casi, asintomatica e per questo progredisce senza che i pazienti sappiano di
essere infetti. L’epatite C è la principale causa di epatite cronica, cirrosi epatica e tumore al fegato nel mondo. Anche se
in maniera silenziosa, infatti, il virus danneggia progressivamente e costantemente il tessuto del fegato, le cui cellule
vengono piano piano sostituite da cicatrici. Il fegato perde quindi la sua capacità di lavorare – e da quest’organo
dipendono la maggior parte delle reazioni che assicurano il benessere dell’organismo – con gravi ripercussioni sulla
salute dei pazienti.
L’HCV è stato identificato solo nel 1989, ma la sua esistenza era stata ipotizzata fin dal 1975: l’infezione, le cui
caratteristiche peculiari erano state individuate, veniva indicata infatti come nonA-nonB. L’HCV appartiene alla famiglia
dei Flaviviridi, è composto da un singolo filamento di RNA e ha un diametro compreso fra i 30 e i 60 nanometri
(milionesimi di millimetro).
Per la sua variabilità, HCV è molto simile ad HIV: si tratta di virus instabili, che mutano con frequenza. Vi è, però, una
fondamentale differenza nel loro comportamento, una volta che si trovano all’interno dell’ospite: l’HIV, per replicarsi,
deve prima integrarsi nel genoma umano, dove può anche rimanere latente; nell’infezione da HCV, invece, l’integrazione
non si verifica. Questo è il motivo per cui è possibile la guarigione da HCV e non da HIV.
Sei sono i genotipi diversi finora conosciuti di HCV, identificati con numeri progressivi (1,2,3,…). Ciascun genotipo
comprende a sua volta un certo numero di sottotipi, identificati con le lettere dell’alfabeto (1a, 1b, 1c…) per un totale di
50 sottotipi. Le varianti genotipiche del virus possono causare reinfezioni in soggetti già affetti da epatite C.
I genotipi sono distribuiti in modo diverso a seconda delle aree geografiche; mentre all’interno della stessa area la
distribuzione può variare con l’età o altre caratteristiche sociali. In Italia il genotipo prevalente è l’1b che infetta il 55% dei
soggetti con HCV, mentre il restante è suddiviso tra genotipo 2 (25%), 3 (15%) e 4 (5%). La differenza nel patrimonio
genetico porta a una differenza anche nella risposta alla terapia: rispetto al genotipo 1, per esempio, i genotipi 2 e 3
sono più facilmente trattabili con i farmaci attualmente disponibili.
Il meccanismo con cui HCV entra nel fegato e comincia e replicarsi non è ancora del tutto chiaro. Sappiamo che quando
il virus entra in un organismo ospite riconosce subito il suo bersaglio, cioè le cellule del fegato, e si lega prima alla loro
superficie, quindi attraversa la membrana cellulare e arriva dentro la cellula. A questo punto l’involucro proteico che
contiene il virus si apre e l’RNA virale viene “letto” dalla cellula che così comincia a sintetizzare le proteine virali
(traduzione), dando via al processo di infezione.
Lo sviluppo dell’infezione da HCV avviene in due fasi, l’infezione acuta, che può durare fino a 6 mesi, e quella cronica,
che porta ai danni maggiori.
Infezione acuta. Quando l’HCV entra nell’organismo, il sistema immunitario inizia la produzione
di anticorpi che purtroppo, nella maggior parte dei casi, non sono in grado di sconfiggere l’infezione. Infatti, solo circa il
15-20% dei pazienti riesce a debellare il virus; negli altri, l’HCV rimane nel fegato e l’infezione si mantiene nel tempo.
Questa prima fase viene definita acuta e nella gran parte dei casi è del tutto asintomatica, per cui raramente
diagnosticata. Nel 10-20% dei casi si manifesta l’ittero, la tipica pigmentazione gialla della pelle e degli occhi dovuta
all’accumulo di bilirubina nel sangue. Altri sintomi riportati sono perdita di appetito, febbre, dolore generalizzato, senso di
affaticamento, nausea e vomito, diarrea, dolore addominale.
Infezione cronica. Se l’infezione procede per oltre sei mesi senza miglioramenti, prende il nome di epatite C cronica. Il
virus continua a replicarsi, aumenta l’infiammazione e il tessuto del fegato si deteriora progressivamente nel tentativo di
porre rimedio alla distruzione delle cellule epatiche formando delle cicatrici. Ad attaccare le cellule del fegato è lo stesso
sistema immunitario del paziente che cerca di eliminare il virus annidato proprio lì, e così facendo colpisce anche il
tessuto sano. Anche l’epatite cronica può restare asintomatica per diversi anni, lavorando dietro le quinte a peggiorare la
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funzionalità epatica: con il tempo l’organo non riesce più a processare i nutrienti, produrre i fattori di coagulazione del
sangue ed eliminare le tossine. Una situazione che può degenerare anche in forme clinicamente rilevanti, come la cirrosi
epatica e il tumore. Di tutti i malati di epatite cronica, entro 20 anni dall’infezione, il 20% sviluppa cirrosi il 5% tumore.
1PERSONA SU 40 NEL MONDO CONVIVE CON L'INFEZIONE CRONICA DA VIRUS C, LA MAGGIOR
PARTE VIVE IN PAESI A BASSO REDDITO.
› IL 2-3%DELLA POPOLAZIONE ITALIANA È VENUTA A CONTATTO CON IL VIRUS, E CIRCA 1.700.000
SONO I PAZIENTI PORTATORI CRONICI DEL VIRUS.
› OGNI ANNO SI VERIFICANO CIRCA 1.000 NUOVI CASI DI EPATITE DA VIRUS C.
› SECONDO L’OMS, L’EPATITE C CAUSA IL MAGGIOR NUMERO DI DECESSI TRA LE MALATTIE INFETTIVE
TRASMISSIBILI ED È LA 1a CAUSA DI TRAPIANTO DI FEGATO AL MONDO.
HCV: TRASMISSIONE & DIFFUSIONE
L’infezione da HCV è diventata un’epidemia globale nell’ultimo secolo a causa, da una parte della diffusione delle
trasfusioni di sangue e della emodialisi, dall’altra dell’uso di aghi infetti da parte dei tossicodipendenti. Oggi, che esistono
i test per verificare la presenza del virus negli emoderivati, il fattore di rischio per l’infezione più comune è la condivisione
di aghi o siringhe contaminati. Ma non è il solo: ci si può infettare a causa di rapporti sessuali non protetti con persone
infette, dell’utilizzo di strumenti non sterilizzati per realizzare tatuaggi e piercing, di una trasfusione con sangue infetto, o
dopo essere stati a contatto con sangue infetto per via di una procedura medica. Nel 3-5% dei casi è possibile che la
madre trasmetta l’infezione per via perinatale al proprio figlio; l’allattamento, invece, in assenza di ferite ai capezzoli, non
mette a rischio il neonato.
La diffusione dell’epatite C è per lo più stimata, perché molti sono i casi che non vengono diagnosticati. Secondo
l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), attualmente il 3% della popolazione mondiale è infetto dal virus: 150-180
milioni di persone, di cui 5-10 milioni in Europa. Di tutti gli infetti, 130 milioni presentano la forma cronica. È stato
calcolato che ogni anno si infettano 3-4 milioni di persone e che il 70-80% svilupperà la forma cronica della malattia.
Negli ultimi decenni la diffusione dell’epatite C si è modificata: il maggiore controllo delle trasfusioni ha portato a una
riduzione dell’incidenza nei Paesi occidentali, ma non nei Paesi in via di sviluppo. In molte nazioni dell’Africa, Centro e
Sud America e nel Sud-Est asiatico l’incidenza media è del 2%; valori particolarmente alti si registrano nella regione del
delta del Nilo, in Egitto, dove circa il 60% degli adulti sopra i 30 anni è infetto.
In Italia muoiono ogni anno più di 20mila persone per malattie croniche del fegato e l’epatite C risulta causa unica o
concausa di danni al fegato nel 65% dei casi. Le stime parlano di un milione e 700mila malati cronici, di una frequenza
dell’infezione cronica stimata tra il 2 e il 3% e di un milione di portatori del virus. Dati alla mano, quindi, nei prossimi 1020 anni si assisterà a un incremento significativo delle patologie correlate all’infezione (cirrosi, tumore del fegato).
Secondo uno studio epidemiologico condotto su una popolazione di città italiane campione, la prevalenza si attesta tra
l’1,8% e il 3,2% in alcune località del Nord, all’8,4% in località del Centro, e al 16,2% e 12,6% in due differenti località del
Sud. In tutti i casi è stato osservato che la prevalenza è correlata fortemente all’età, raggiungendo valori particolarmente
elevati nella popolazione anziana (oltre il 30%). Nei bambini e negli adolescenti, invece, la prevalenza dell’HCV risulta
molto bassa (0,4%), mentre sembra essere significativa tra i donatori di sangue (1,7%). Negli emofilici, nei politrasfusi,
nei dializzati e nei tossicodipendenti, infine, si raggiunge una prevalenza del 50%.
HCV: TERAPIE DISPONIBILI
Oggi l’epatite C cronica è una malattia curabile: se il trattamento antivirale viene iniziato per tempo e seguito per tutto il
periodo indicato dal medico, l’infezione si può dominare. Il primo obiettivo del trattamento è ottenere una risposta
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virologica sostenuta, cioè eliminare dal sangue il virus nei sei mesi successivi alla fine della terapia. Per questo la carica
virale viene misurata prima di iniziare il trattamento e di solito per altre 4 volte (alla settimana 4, alla 12, al termine della
terapia, e dopo 24 settimane).
I farmaci antivirali
Dalla fine degli anni Novanta, la terapia dell’epatite C si basa sulla combinazione di due farmaci antivirali: l’interferone
pegilato (o peginterferone) alfa, somministrato una volta la settimana per via sottocutanea, e la ribavirina, sotto forma di
compresse o capsule quotidiane. La durata del trattamento può variare dalle 24 alle 48 settimane, secondo il genotipo
e il carico virale del paziente.
Interferone alfa
È una sostanza normalmente prodotta dall’organismo umano in risposta a un’infezione: induce la produzione di
sostanze antivirali e attiva le cellule immunitarie in grado di distruggere il virus. Grazie alle tecniche di bio-ingegneria, in
particolare a quella del DNA ricombinante, è oggi possibile sintetizzare in laboratorio tutte le forme purificate di
interferone.
Dell’interferone alfa è disponibile la forma “pegilata”: la pegilazione è il processo attraverso il quale è possibile legare
una molecola di glicole polietilenico (PEG) all’interferone o ad altre molecole per prolungarne la vita nel circolo
sanguigno e aumentarne così l’attività. Nel caso dell’interferone alfa, la pegilazione ha aumentato la sua efficacia contro
il virus e prolungato il suo effetto, tanto da poterne ridurre le somministrazioni.
Esistono due tipi di peginterferone alfa:
- il peginterferone alfa-2a, in cui la molecola di glicole polietilenico (PEG) è grande e ramificata. Il dosaggio è standard
per tutti i pazienti, indipendentemente dal loro peso;
- il peginterferone alfa-2b, in cui la molecola di PEG è piccola e lineare. Questo farmaco viene dosato in relazione al
peso del paziente.
Ribavirina
È un farmaco antivirale orale che inibisce la replicazione del virus, ma da solo non basta per eliminare l’infezione. La
somministrazione combinata con l’interferone provoca un’azione sinergica e un’amplificazione reciproca degli effetti.
Farmaci innovativi
Sebbene la terapia combinata con peginterferone e ribavirina abbia rappresentato un grande passo avanti nella lotta alla
malattia, oltre il 50% dei pazienti non ricava significativi benefici dal trattamento. In particolare, la terapia sembra efficace
nell’80-90% nei malati con virus di genotipo 2 o 3 e nel 50% di quelli con virus di genotipo 1.
La ricerca sta quindi puntando su farmaci più efficaci e sicuri, che colpiscono il cuore del problema, cioè il virus. Per la
prima volta nella storia della lotta all’epatite C, infatti, sono in arrivo dei farmaci antivirali target specifici. Mentre nei
laboratori – dove già si sta lavorando alle seconde generazioni di queste molecole – si coltiva la speranza di arrivare ad
avere terapie di combinazione che escludano del tutto l’interferone.
Inibitori delle proteasi
Le proteasi sono enzimi in grado di favorire la frammentazione di una proteina rompendo il legame peptidico tra il
gruppo amminico e il gruppo carbossilico. Il target su cui puntano i primi inibitori della proteasi dell’HCV è l’NS3/4, che
permette di frammentare due proteine non strutturali del virus, NS3 e NS4, le quali giocano un ruolo importante nella
replicazione. La prima molecola di questa classe ad arrivare sul mercato sarà boceprevir, somministrata oralmente
insieme a peginterferone alfa e ribavirina. Boceprevir garantisce una migliore risposta virologica sostenuta nei pazienti
con infezione da HCV di genotipo 1 che precedentemente avevano fallito il trattamento o che non erano stati mai
trattati. Lo dimostrano due studi cardine di fase III, lo SPRINT-21 e il RESPOND-22, pubblicati sul New England Journal
of Medicine.
La strategia terapeutica del boceprevir prevede un periodo di lead-in – la somministrazione per 4 settimane della terapia
standard e quindi la randomizzazione nei bracci – e il controllo della risposta virale al trattamento. Questo tipo di
approccio ha consentito di individuare i pazienti che rispondevano meglio al trattamento e che potevano, pertanto,
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evitare settimane non necessarie di somministrazione.
Sono attualmente nella fase di studio preclinica gli inibitori della proteasi di seconda generazione, che hanno un profilo
di efficacia superiore contro tutti i genotipi del virus, minore tossicità e barriera genetica più alta.
Inibitori delle polimerasi
Le polimerasi sono proteine in grado di catalizzare la reazione che permette la duplicazione del materiale genetico e
sono quindi essenziali al virus per potersi replicare. Si tratta di molecole ancora nella fase di studio preclinica.
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LA COINFEZIONE
Circa il 30% delle persone con HIV ha contratto anche il virus dell’epatite C. Ma la percentuale sale fino al 90% se
consideriamo popolazioni speciali, come gli emofilici, che necessitano di frequenti trasfusioni, o i tossicodipendenti, che
usano droghe iniettive. La confezione può avvenire grazie al fatto che i due virus hanno vie simili di trasmissione. Nelle
persone sieropositive il danno epatico progredisce più rapidamente tanto che l’epatite C è diventata una delle principali
cause di ospedalizzazione nei pazienti HIV positivi. Sebbene, quindi, le terapie antiretrovirali abbiano diminuito la
mortalità da HIV/AIDS, i dati dimostrano che nel mondo un decesso su sette in pazienti HIV positivi è causato dalla
malattia epatica.
La madri coinfette hanno un rischio maggiore di trasmettere l’infezione da HCV (15- 25% dei casi) al proprio figlio
rispetto alle donne non sieropositive.
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HIV ed HCV: l’impegno di MSD
L’impegno di MSD nella lotta contro le infezioni da HIV e da HCV racconta di una storia costellata di successi importanti:
nei suoi laboratori sono state, infatti, scoperte non solo tutte le molecole capostipiti del trattamento per l’Epatite C e
l'HIV, ma anche i vaccini per le Epatiti di tipo A e B che sono commercializzate in Europa dalla joint venture Sanofi
Pasteur MSD.
HIV
1981 Primo caso notificato di AIDS.
1985 MSD dà inizio al suo programma di ricerca su HIV/AIDS.
1988 I ricercatori della MSD sono i primi a dimostrare che l’inibizione dell’enzima della proteasi poteva prevenire la
replicazione del virus dell’HIV.
1989 I nostri ricercatori pubblicano su Nature la prima struttura cristallizzata della proteasi, che poi porterà allo sviluppo
di tutta una nuova classe di farmaci: gli inibitori della proteasi.
1996 MSD lancia il primo inibitore della proteasi: indinavir
1999 MSD lancia efavirenz il primo inibitore non nucleosidico della transcriptasi inversa1
2007 MSD lancia raltegravir, il primo inibitore dell’integrasi frutto di un’accurata ricerca svoltasi nei laboratori italiani.
HCV
1957: viene scoperto l’interferone e identificate le forme alfa, beta e gamma.
1963: viene sviluppato un test per identificare l’Epatite B.
1973: viene sviluppato un test per identificare anche l’Epatite A. Inizia a emergere l’Epatite C, inizialmente denominata
“non-A, non-B”.
1980: inizia l'impegno di MSD nella ricerca di trattamenti per l’Epatite C.
1989: il virus HCV è individuato per la prima volta in un clone di cDNA.
1991: viene autorizzata la prima terapia per l’HCV cronica a base d’interferone alfa-2b nata nei laboratori MSD.
1992: entra in azione il test sierologico che ha consentito di eliminare l’HCV nel sangue destinato alle trasfusioni e negli
emoderivati.
1998: nasce dalla ricerca MSD la “terapia duplice”, il primo grosso balzo in avanti nella terapia dell’Epatite C: interferone
e ribavirina.
2001/2002: la FDA approva due forme d’interferone pegilato, cioè modificato per allungarne l’emivita. L’interferone
pegilato insieme alla ribavirina diventano la nuova terapia standard.
2005: si approfondisce la conoscenza del ciclo vita del genotipo 1 del virus HCV con la replica in vitro. Nello stesso
anno, la terapia di associazione rivoluziona il trattamento per i pazienti con Epatite C cronica con genotipo 1 grazie
all'approvazione di un ciclo terapeutico abbreviato a 24 settimane.
2011: prende avvio l’era della “triplice terapia”, con l’approvazione da parte di FDA e EMA di due inibitori della proteasi
da aggiungere alla terapia standard. Uno di essi è boceprevir, che inaugura un nuovo corso terapeutico nella lotta contro
il virus.
1
In Europa commercializzato da Bristol Myers Squibb
CONFERENZA STAMPA - ROMA 8 MAGGIO 2012
CARTELLA STAMPA
HIV & HCV: DUE STORIE PARALLELE
LE SFIDE FUTURE
MSD vuole ora continuare a essere leader nella scoperta, nello sviluppo e nella commercializzazione di terapie
innovative per il trattamento dell'Epatite C cronica e l'infezione da HIV attraverso lo sviluppo di farmaci di ultima
generazione, di molecole con meccanismi d’azione complementari e di nuove combinazioni.
MSD Italia è la consociata italiana dell'americana Merck & Co., il secondo gruppo farmaceutico a livello mondiale.
MSD Italia conta su una presenza radicata nel nostro Paese dal 1956 con oltre 1.700 dipendenti, un quarto dei quali impiegati
nei nostri stabilimenti di produzione, ed un fatturato di quasi 900 milioni di euro.
L’obiettivo primario dell'Azienda è quello di scoprire, sviluppare e commercializzare farmaci che rispondano ai bisogni
della popolazione. Per poter realizzare tale scopo, è necessario puntare su investimenti solidi in ricerca e promuovere
l'innovazione.
In Italia, MSD sta conducendo circa 135 sperimentazioni cliniche che coinvolgono 969 centri ed oltre 6.000 pazienti.
L'ultimo rapporto sulle sperimentazioni cliniche nel Paese, curato dall'Agenzia Italiana del Farmaco, colloca l'Azienda al
terzo posto nel periodo 2006-2010.
MSD Italia ha contribuito alla crescita economica e occupazionale in diverse aziende italiane di piccole, medie e grandi
dimensioni anche grazie ad accordi e alla concessione di licenze di vendita di prodotti già affermati o nuovi.
CONFERENZA STAMPA - ROMA 8 MAGGIO 2012
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