METAMORFOSI Storie sull’origine del mondo secondo Publio Ovidio Nasone Locarno, 10 settembre 2015 METAMORFOSI Storie sull’origine del mondo secondo Publio Ovidio Nasone perque omnia saecula (...) vivam, «e per tutti i secoli (...) vivrò» Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, (XV, 878-879) Dobbiamo ammettere che, circa un anno fa, quando abbiamo cominciato a ipotizzare Ovidio e le sue Metamorfosi come protagonisti dell’edizione 2015 di «Piazzaparola», eravamo un po’ scettici. Ovidio, c’eravamo detti, è stato un grandissimo poeta, ma la sua parabola umana e sociale (per come è giunta a noi) rende difficile presentarlo a ragazze e ragazzi di nove o dieci anni. Poco più che cinquantenne, l’imperatore romano Augusto lo mandò via da Roma, la capitale dell’Impero, a trascorrere gli ultimi anni della sua vita in esilio a Tomi, una piccola cittadina in riva al Mar Nero, lontano tanti e tanti chilometri dal centro della romanità (oggi si chiama Costanza e si trova in Romania). Difficile stabilire se la ragione stia dalla parte della corte e dei suoi intrighi, o da quella dell’uomo. In più Le Metamorfosi, che sono il suo capolavoro, sono un testo difficile. Pensate: è un poema epico-mitologico scritto duemila anni fa in latino, quindici libri in versi che partono dalla descrizione del Chaos e dell’origine del Mondo per arrivare fino al trionfo di Gaio Giulio Cesare, militare, console, dittatore, oratore e scrittore romano, considerato uno dei personaggi più importanti e influenti della storia. Non a caso Italo Calvino ha scritto che «le Metamorfosi vogliono rappresentare l’insieme del raccontabile tramandato dalla letteratura con tutta la forza d’immagini e di significati che esso convoglia». Poi, però, col passare delle settimane, abbiamo cominciato ad amare quest’uomo di 2’000 anni fa, la sua esistenza controversa e avventurosa, e, ciò che più conta, ad appassionarci alle sue Metamorfosi. Allora, come succede a tutti quando incontrano qualcosa di meraviglioso e avvincente, ci è venuto il desiderio di suscitare anche l’interesse altrui e di far conoscere ad altre persone la nostra scoperta, affinché possano emozionarsi come ci siamo emozionati noi, preparando quest’edizione 2015 di «Piazzaparola», dedicata a Publio Ovidio Nasone, detto Ovidio, e a una delle sue opere più importanti, Le Metamorfosi: un capolavoro talmente capolavoro, che a venti secoli di distanza lo leggiamo ancora con interesse e passione. Questo fascicolo, destinato per lo più alle maestre e ai maestri, intende creare il miglior presupposto affinché l’incontro con lo splendore delle Metamorfosi ovidiane — un’interpretazione del mondo che ha la bella età di duemila anni — possa entusiasmare anche le ragazzine e i ragazzini che frequentano le ultime classi della scuola elementare. Ma l’incontro con queste storie sull’origine del mondo, scritte con gli occhi di un antichissimo poeta, può essere l’occasione, volendo, per avvicinarsi più in generale alla storia di Roma antica — dalla sua fondazione all’espansione di un impero smisurato, fino alla sua decadenza, più di mill’anni dopo. Naturalmente, in queste pagine incontreremo anche Ovidio, il nostro protagonista, il sommo poeta, e le sue opere. Ci sarà un’altra avventura straordinaria da conoscere e avvicinare: la nascita dell’italiano, la nostra bella lingua, ch’è figlia diretta e legittima del latino, la lingua di Ovidio e di tanti re, condottieri, imperatori, donne e uomini potenti o umili, che hanno fatto la storia di Roma e dell’Europa. L’italiano, si dice, è lingua neo-latina, cioè che deriva dal latino (o, meglio, continua il latino), ch’era la lingua dei romani, la lingua parlata e scritta di Ovidio e di tanti altri scrittori del suo tempo. Nel mondo vi sono altre lingue neo-latine, dette anche lingue romanze, quali lo spagnolo, il rumeno, il portoghese e il francese. Il 10 settembre sarà l’occasione per ascoltare la «voce» di Ovidio, magari per la prima volta. E, ve lo garantiamo, sarà una incontro del tutto inatteso, pieno di sorprese che, ne siamo sicuri, vi emozioneranno e vi lasceranno a bocca aperta. Questo quaderno dà a ognuno la possibilità di prepararsi per bene all’appuntamento — un appuntamento con una persona importante — e, per chi vorrà, di saperne un po’ di più. Agosto 2015 Silvia Demartini e Adolfo Tomasini Un pensiero di gratitudine a Stephanie Grosslercher e all’intero servizio Risorse didattiche, eventi e comunicazione del DFA per la preziosa e qualificata collaborazione. 2 Nota per gli insegnanti Come è sempre giusto e doveroso fare, è utile preparare i propri allievi ad affrontare un’attività «speciale», uno di quei momenti che si potranno riprendere in seguito, ma che non sarà possibile riprodurre dopo che saranno accaduti. Il discorso vale per un’uscita di studio, per la visita a una mostra o per assistere a uno spettacolo teatrale. Salvo poche eccezioni — e, a volte, scelte pedagogiche consapevoli, che ipotizzano i passi successivi — conviene che gli allievi sappiano a cosa vanno incontro e cosa li aspetta: il che non significa azzerare la possibilità che nascano delle emozioni e delle curiosità. Insomma, non è necessario rivelare come andrà a finire la storia. Come preparare gli allievi all’incontro con Ovidio e le sue Metamorfosi, affinché ne traggano beneficio e possano seguire con profitto le diverse proposte della mattinata? Questo fascicolo propone alcune piste che saranno utili soprattutto nelle settimane e nei mesi successivi, qualora l’insegnante volesse partire dagli stimoli di «Piazzaparola» per scavare sotto la superficie di un mondo che si sarà appena disvelato. Ma potrà essere utile all’insegnante anche se intende limitare l’incontro con Ovidio a ciò che si ascolterà e si vedrà quel giovedì mattina. In altre parole, la preparazione all’incontro con Publio Ovidio Nasone dipenderà almeno in parte dal percorso pedagogico e didattico che si è scelto. «Piazzaparola» 2015 si svolgerà in tre momenti distinti. La prima parte, con tutti gli allievi, proporrà, al Teatro di Locarno, il racconto della Creazione del mondo, con un accompagnamento musicale composto espressamente per noi. Seguirà una prima metamorfosi, il racconto di un mito in un adattamento proposto sul palco da due lettrici. In seguito le classi si sposteranno, a rotazione, in due luoghi suggestivi: ai giardini «Rusca», davanti alla statua del toro bronzeo donato alla città di Locarno dallo scultore Remo Rossi (1909-1982), dove Cristina Zamboni racconterà due miti, che saranno illustrati dall’artista Simona Meisser; e in Piazza Grande, nel cuore del mercato del giovedì, dove Sara Giulivi racconterà due altre storie, con l’accompagnamento musicale di Daniele Dell’Agnola. Le metamorfosi di Ovidio sono una grande raccolta di narrazioni derivanti dalla mitologia greca, che a sua volta le aveva recuperate da storie precedenti. Il poema contiene, legate fra loro in un’unica macro-storia, circa 250 narrazioni mitologiche. Noi ne presenteremo cinque, oltre alla Creazione, che nell’originale è composta di per sé da almeno tre o quattro trasformazioni. Tenuto conto di quanto precede, e tornando all’imperativo iniziale, vi sono alcuni spunti di partenza che conviene proporre agli allievi, affinché possano avere qualche indizio relativo al contesto che li accoglierà. Publio Ovidio Nasone, per cominciare, è un poeta: dunque, non scri- 3 veva in prosa, mentre i nostri adattamenti sono in prosa. E nemmeno scriveva in italiano, bensì in latino. E cosa c’entra, allora? Beh, c’è il discorso sull’italiano lingua romanza, e un accenno, seppur minimo, lo si può fare. Eppoi siamo in un’epoca lontana: Ovidio nasce nel 43 a. C. e muore nel 18 d. C. È quindi un uomo e un poeta della prima età imperiale, dominata da Ottaviano e poi da Tiberio. Infine, le storie delle Metamorfosi si rifanno alla mitologia greca e romana, coi suoi dei, le sue dee e le loro regge, le loro vicende appassionanti con animali, appunto, «mitologici», gli amori, le guerre, le competizioni. C’è la dea che, per punizione, vien trasformata in un ragno e quell’altra in una pianta di alloro; e poi Icaro che s’avvicina troppo al sole e re Mida che muta in oro tutto ciò che tocca. Non è insomma il caso di anticipare dei possibili contenuti di «Piazzaparola» raccontando storie e descrivendo dei e dee. Ma sarà certamente utile sapere che si ascolteranno storie di migliaia d’anni fa, con personaggi un po’ particolari, quali dei e dee e ninfe; e luoghi lontanissimi e un po’ celesti, accanto ad altri ancor oggi segnati sulle carte geografiche. Per tutto il resto, volendo, ci sarà tempo dopo il 10 settembre. Breve cronologia della storia romana DI LA ROMA DEI RE Verso la fine dell’ottavo secolo avanti Cristo le città del Lazio, come Tarquinia e Veio, cominciarono a provare interesse per una piccola città che si stava sviluppando sulla riva sinistra del Tevere, a pochi chilometri dal mare. Questa città si chiamava Roma. Era circondata da mura difensive, che racchiudevano povere capanne e alcuni ripidi sentieri che si inerpicavano su sette colli fitti di boschi, e si affacciava su una valle paludosa e infestata dalla malaria. Gli abitanti di questa città narravano alcune leggende che spiegavano la nascita di Roma. Queste leggende avevano come protagonisti i gemelli Romolo e Remo, discendenti addirittura da Enea, eroe troiano figlio della dea Venere, sbarcato nel Lazio dopo la caduta della sua città. I gemelli, abbandonati da un loro zio crudele, erano scampati miracolosamente alla morte grazie a una lupa che li aveva allattati e a una coppia di pastori che li aveva allevati. Romolo, diventato un giovane guerriero, aveva fondato Roma nell’anno 753 a. C. ed era diventato il suo primo re. Per i romani quella data era l’anno Uno della loro storia. La leggenda narra che a Roma i re furono sette. In realtà durante tutto questo periodo furono più di sette i re che governarono Roma. L’ultimo di essi, che si chiamava Tarquinio, fu sopran- LISA FORNARA nominato il Superbo perché governò male. Secondo le leggende, suo figlio Sesto giunse ad insediare una signora romana di nome Lucrezia, che, non potendo tollerare la vergogna, si uccise. I romani, che oramai si consideravano capaci di governare da soli, presero le armi e cacciarono Tarquinio dalla città. LA REPUBBLICA ROMANA Era l’anno 509 a. C., in quella data i romani abolirono la monarchia e fondarono la Repubblica. Così essi definivano uno Stato che ha a cuore «la cosa (res) pubblica», cioè che non ha a capo un sovrano a vita di cui ci si può liberare solo attraverso una rivoluzione, ma è uno Stato i cui governanti, eletti periodicamente dai cittadini, devono per legge rendere conto agli elettori del loro operato. A capo della 4 Repubblica stavano due consoli che, eletti ogni anno, convocavano le assemblee e comandavano gli eserciti. L’assemblea romana più importante era il Senato, che aveva molti poteri di decisione e poteva emanare le leggi. Quando la città di Roma era considerata in pericolo e quando c’era un’emergenza grave veniva nominato un dittatore, dotato di poteri assoluti su tutti i cittadini ma che poteva governare solo per sei mesi al massimo. Sotto la Repubblica, Roma si espanse notevolmente. L’avversario più importante fu la città africana di Cartagine, che fu sconfitta durante le due guerre puniche. La prima durò più di vent’anni, tra il 264-241 a.C, e si combatté quasi esclusivamente sul mare. Le navi di Cartagine erano dotate di rostri per speronare le imbarcazioni nemiche. I romani inventarono invece uno strumento che si rivelò straordinariamente efficace: i corvi, cioè passerelle uncinate che venivano agganciate alla nave nemica permettendo l’abbordaggio. Grazie a questo sistema Roma riuscì a battere Cartagine a Milazzo nella più grande battaglia navale dell’epoca, combattuta da 150’000 uomini e 480 navi. Nella seconda guerra punica (218-202 a. C.), il cartaginese Annibale attraversò le Alpi per raggiungere l’Italia e Roma con degli elefanti. Egli fu però sconfitto e con questa vittoria, Roma divenne padrona di tutto il Mediterraneo. Durante il periodo repubblicano, numerose altre conquiste furono fatte da Roma. Le continue guerre e l’occupazione di nuovi territori fecero vivere periodi tumultuosi per la repubblica. Numerose volte essa chiamò i più famosi generali a diventare dittatori per superare le situazioni più difficili. Questi generali diventavano cana, che i congiurati avevano ritenuto l’unica in grado di garantire la libertà dei cittadini. Con l’uccisione di Cesare, essi speravano di ripristinare la Repubblica. Al contrario, la morte di Cesare diede avvio ad un altro grande periodo di guerra civile. Contro i congiurati si batterono i generali Marco Antonio e Ottaviano, figlio adottivo di Cesare. Sconfitti i congiurati, Marco Antonio, amante di Cleopatra, faraone d’Egitto, si pose in conflitto anche con Ottaviano. Nel 31 a.C Ottaviano sconfisse Marco Antonio ad Azio. Cleopatra, alla notizia, si suicidò facendosi mordere da un serpente velenoso. sempre più potenti, perché potevano avere l’appoggio totale delle loro grandi armate che essi pagavano con il bottino delle loro conquiste. Per questo motivo ci furono molte guerre civili tra generali romani. Il più famoso di questi generali fu Giulio Cesare che conquistò l’odierna Francia, chiamata allora Gallia (dal 58 a.C al 50 a.C). Diventato estremamente potente, Cesare fu proclamato dittatore e imperatore a vita. Con questi atti, la Repubblica aveva cessato di esistere. Per questa ragione, un gruppo di senatori uccise Cesare in Senato il 15 marzo del 44 a. C. Tra i congiurati vi erano il figlio adottivo Marco Bruto e l’amico Crasso. Proclamandosi dittatore a vita, Cesare aveva inferto il colpo definitivo alla Costituzione repubbli- L’IMPERO ROMANO Nel 27 a. C. Ottaviano chiese dei poteri eccezionali e assunse il titolo di Imperatore. Con l’appellativo di Cesare Augusto, Ottaviano divenne capo del territorio conquistato dai romani. Nel 15 d. C., alla morte di Augusto, gli successe il figlio Tiberio, dando inizio alla dinastia imperiale. L’impero romano, organizzato da Augusto raggiunse la sua massima espansione nel II secolo d.C durante i regni di Traiano, Adriano e di Marco Aurelio (morto nel 180 d. C.). Nel secolo successivo una serie di problemi tra cui la crisi economica e la pressione militare dei barbari alle frontiere indussero l’imperatore Diocleziano a una riforma istituzionale che divise l’impero in due parti. Nel 313 l’Imperatore Costantino concedette ai cristiani la libertà 5 di culto con l’editto di Milano. Costantino nel 330 trasportò la capitale dell’impero da Roma a Bisanzio, che da lui prese allora il nome di Costantinopoli. La crescente divisione tra le due parti occidentale e orientale - dell’impero ne minò infine l’unità fino alla scissione del 395: iniziava la storia dell’impero romano d’Oriente, dal VI secolo chiamato «bizantino», mentre quello d’Ocdente divenne preda dei barbari. Nel 476 l’ultimo imperatore, Romolo Augustolo, fu deposto dal germanico Odoacre. L’Impero romano d’Oriente sopravvisse ancora per ben 1000 anni fino al 1453, quando Costantinopoli fu conquistata dai turchi e assunse il nome di Istanbul. L’espansione di Roma sull’arco di 1’200 anni La città di Roma nel 500 a. C., quando governava Lucio Tarquinio, detto Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma. Le conquiste romane dopo la seconda guerra punica: siamo più o meno nel 200 a. C., vale a dire nel III secolo a. C. Il territorio romano dopo la conquista della Gallia, attorno al 50 a. C. 6 Ecco l’Impero Romano alla morte di Marco Aurelio e all’ascesa al trono dell’imperatore Commodoro (circa nel 180 d. C.). Nel 313 d. C. gli imperatori Costantino il Grande e Giovio Licinio sottoscrivono l’editto di Milano. Il 4 settembre 476 venne destituito quello che è considerato l’ultimo imperatore romano, Romolo Augusto, conosciuto con il diminutivo Augustolo, cioè piccolo Augusto. È l’anno che, per tradizione, segna l’inizio della seconda grande epoca della storia europea: il Medioevo. 7 Vivere a Roma: le abitazioni, gli abiti, gli alimenti, il tempo libero DI LISA FORNARA Un’insula, cioè un isolato, a Roma, nei pressi dei mercati di Traiano. Non tutti i quartieri di Roma luccicavano di marmi. La popolazione della città e gli alloggi scarseggiavano. Nei quartieri popolari imprenditori di pochi scrupoli costruivano case di quattro o cinque piani, chiamate insulae (cioè isole, da cui isolato), destinate ad ospitare molte famiglie in piccoli appartamenti. I materiali da costruzione erano scadenti e i crolli frequentissimi. Le strutture di legno e l’uso dei bracieri per il riscaldamento favorivano gli incendi, che la man- 8 canza di acqua corrente, soprattutto nei piani alti, rendeva ancor più pericolosi. Le case erano addossate l’una all’altra e il fuoco si propagava con rapidità divorando interi quartieri. Augusto istituì un corpo speciale di vigili contro il pericolo di incendi e vietò che gli edifici superassero una certa altezza, ma non sempre la legge è rispettata. Per di più gli affitti erano altissimi e le sottili pareti non proteggevano da rumori molesti. LE STRADE E I QUARTIERI Poche strade principali avevano un nome (la via Sacra, la via Trionfale, la via Lata), le altre ne erano prive; le case mancavano di numeri civici. Perciò non era facile orientarsi fra vicoli e viuzze. Per trovare un indirizzo bisognava basarsi su punti di riferimento come templi, portici, negozi… Nei quartieri stagnava spesso un odore nauseabondo, prodotto soprattutto da lavorazioni artigianali (del cuoio, della porpora, dei detersivi…), e i passanti più delicati si proteggevano con un fiore o una boccetta di balsami odorosi. Di giorno la legge vietava il passaggio dei carri, ma per le strade c’era lo stesso un rumore assordante. Una folla vociante e variopinta di gente indaffarata, di sfaccendati, stranieri, ciarlatani, mendicanti ingombrava a tutte le ore le vie centrali dei fori. Poche lettighe di ricchi, sorrette da robusti schiavi, si facevano largo a stento. I più si spostavano a piedi. GLI ABITI Dall’abbigliamento era possibile capire chiaramente la posizione sociale di ciascuno. L’abito dei cittadini romani adulti, quando dovevano mostrarsi in pubblico, era la toga, una grande pezza di stoffa, tagliata a semicerchio, che copriva tutto il corpo fino ai piedi. Indossare la toga era un’operazione complessa. La stoffa poteva raggiungere anche i sei metri di diametro e, per accomodarsela addosso, bisognava ricorrere all’aiuto di uno schiavo. La toga di un cittadino adulto era priva di decorazioni ed aveva il colore giallastro della lana. Quelli che intendevano farsi eleggere dalle magistrature facevano sbiancare la stoffa, forse per essere meglio riconosciuti fra la folla, e dal colore candido della toga deriva il loro nome: candidati. I magistrati e i bambini portavano la toga pretesa orlata di porpora, e i generali trionfatori ne indossavano una orlata d’oro. 9 LA TUNICA, LA STOLA, LE CALZATURE Sotto la toga i Romani si infilavano la tunica, una sorta di camicia che lasciava scoperte le gambe e parte delle cosce ed era stretta in vita da una cintura. La tunica era l’abito della plebe e degli schiavi. Le donne indossavano la stola, una tunica lunga fino alla caviglia e su di essa portavano un mantello simile alla toga ma con assai meno pieghe, chiamato palla. Insieme con la toga era d’obbligo calzare calze chiuse e molto scomode che nascondevano completamente i piedi e stringevano i polpacci. Naturalmente esistevano anche sandali, ma erano calzature inadatte per le cerimonie e un cittadino distinto non le avrebbe mai indossate in pubblico, a meno che non partecipasse ad un banchetto. I BANCHETTI E I CIBI Durante i pranzi era ammessa la più grande libertà di vestiario. Gli invitati ad un banchetto potevano indossare una comoda tunica e si portavano da casa i sandali per calzarli prima di entrare nella sala da pranzo, il triclinio. Secondo un’usanza orientale già nota agli Etruschi e dalla quale all’inizio le donne erano escluse, si pranzava sdraiati sui letti. I cibi si prendevano con le dita e si considerava educato usare solo le punte per non ungersi troppo - o un cucchiaio. Ai Romani piaceva mescolare gusti contrastanti: si univano ad esempio pepe e miele o si usava miele (lo zucchero era sconosciuto) misto ad aceto per condire gli arrosti. Un condimento molto apprezzato, già noto ai Cartaginesi, era il gaum, una sorta di salsa che si otteneva con carne di pesce mescolata a sale e ad erbe aromatiche. Nei banchetti di lusso si faceva grande consumo di cibi rari e costosi, manipolati in modo da renderli irriconoscibili e da stupire in convitati. Ma il banchetto era un mezzo per conversare e discutere piacevolmente, per ascoltare la musica (c’erano i suonatori di flauto e cetra), per assistere a mimi e a recite e per rafforzare i legami tra amici. Al di fuori dei banchetti la cucina romana era molto meno elaborata. Del resto essa cambiò più volte nei secoli. Nella severa età repubblicana l’alimentazione si basava sui cereali, le verdure, i legumi. Per i poveri questi cibi costituirono sempre la normalità. LE CASE DEI RICCHI Esistevano naturalmente anche case signorili, bellissime e abitate da una sola famiglia. A Roma se le potevano permettere solo i cittadini molto ricchi. Queste case erano costruite con mattoni o calcestruzzo (impasto di sabbia, ghiaia, acqua e cemento), e si componevano di due parti. La parte anteriore aveva al suo centro un grande vano (atrio)n con un’ampia apertura sul soffitto: di qui scendeva l’acqua piovana, che veniva raccolta in una vasca e sistemata nello spazio sottostante. Sul fondo dell’atrio, proprio di fronte all’entrata, si trovava una grande sala di soggiorno (tablino), sepa- rata dall’atrio soltanto da tendaggi. In questa parte della sala erano esposte le immagini degli antenati, le opere d’arte, gli oggetti di lusso e altri segni di nobiltà e ricchezza; qui il padrone di casa riceveva visitatori e clienti, soci e alleati politici. La vita privata della famiglia si svolgeva di solito nella parte posteriore della casa, raccolta intorno ad un giardino ben curato, che nelle case più belle era circondato da un portico a colonne (peristilio) e ornato da statue, marmi e fontane. La sala da pranzo o triclinio, si trovava nell’una o nell’altra parte della casa, spesso in tutte e due. Come tutti gli ambienti destinati al ricevimento, i triclini erano lussuosi, con affreschi alle pareti e mosaici ai pavimenti. Ricostruzione dello Stadio di Domiziano (oggi Piazza Navona).Vi si svolgevano per lo più gare tra atleti. 10 IL TEMPO LIBERO Tutti i romani, ricchi e poveri, si prendevano cura dell’igiene e del loro corpo. Solo chi era in lutto poteva vestire abiti stracciati e portare la barba lunga e mostrare capelli ispidi per mostrare il suo dolore. In tutti gli altri casi un romano doveva essere ben pulito e vestito decorosamente. Il bagno in casa era un lusso riservato alle persone ricche, ma fin dall’età repubblicana esistevano numerosi bagni pubblici. Più tardi gli imperatori li trasformarono in edifici sfarzosi e monumentali, chiamati terme , e li adornarono di marmi, specchi, statue e mosaici. Il bagno si svolgeva in quattro momenti. Prima si eseguivano esercizi ginnici nella palestra della terme, poi ci si immergeva in acqua calda, in un ambiente riscaldato con sistemi avanzatissimi, quindi si faceva un bagno freddo seguito da una salutare nuotata in piscina. Infine era la volta delle frizioni con olio profumato, dei massaggi, della depilazione. Tutti frequentavano le terme: uomini e donne, ragazzi e adulti, poveracci e ricchi magistrati che sicuramente avevano il bagno in casa, perfino imperatori con i loro famigliari. Non si trattava solo di un fatto igienico. Oltre che per bagnarsi alle terme di andava per altri motivi, come incontrare amici e clienti, prendere accordi politici, fare scommesse e pettegolezzi. All’interno degli stabilimenti era possibile trascorrere piacevolmente il tempo, passeggiando in giardini ombrosi, assistendo a spettacoli, ascoltando musica e poesia, mangiando e bevendo alle numerose rivendite. La visita quotidiana alle terme era un fatto di costume, che presto si diffuse in tutto il mondo romano. Dovunque nelle città dell’impero sorsero stabilimenti termali e, accanto ad essi, gli edifici destinati ai giochi e agli spettacoli, come i teatri e gli anfiteatri. Gli anfiteatri erano grandi costruzioni a pianta quasi circolare con al centro lo spazio per gli spettacoli, chiamato arena, e tutt’intorno le gradinate. Il teatro più famoso era il Colosseo, inaugurato a Roma nel 80 d. C. e capace di contenere circa 45’000 posti a sedere. Vi si svolgevano soprattutto giochi di gladiatori e combattimenti di belve. Con speciali congegni era possibile inondare completamente l’arena trasformandola in un lago. Si rap- Il Colosseo è ancor oggi il più imponente monumento di epoca romana e il più grande anfiteatro del mondo. Era usato per gli spettacoli dei gladiatori e per e altre manifestazioni pubbliche, che si svolgevano davanti a un pubblico stimato tra 50 e 75 mila. tirati da due, quattro e più cavalli. Generalmente le gare si svolgevano nel Circo Massimo, una grande pista a forma di U allungata, divisa da un muro nel senso della lunghezza. Fina dalla notte precedente allo spettacolo, gli spettatori si affollavano sulle gradinate, rinunciando al sonno pur di conquistare un buon posto. La passione sportiva era accesa e le zuffe tra Il Circo Massimo è un antico circo romano, dedicato in particolare alle corse dei cavalli. L’immagine è una ricostruzione di come appariva ai tempi dell’imperatore Traiano, attorno all’anno 103. presentavano allora vere e proprie battaglie navali con l’impiego di grandi imbarcazioni e di migliaia di gladiatori che si affrontavano fra l’entusiasmo del pubblico. Uno degli spettacoli preferiti dai romani erano le corse dei carri, tifosi erano frequenti. Il mestiere di auriga, cioè di guidatore di cavalli era rischioso, perché i carri sbandavano facilmente e si capovolgevano, soprattutto in curva. Tuttavia gli aurighi più bravi guadagnavano cifre favolose e godevano di larghissima 11 popolarità. Non meno famosi erano i cavalli. Sappiamo di uno, di nome Incitato, che viveva in una stalla di marmo, aveva coperte di porpora e schiavi a sua disposizione. Si racconta perfino che l’imperatore allora in carica volesse nominarlo console. Il circo massimo era la più grande piste del mondo e poteva contenere fino a 300’000 spettatori. I teatri invece raccoglievano un pubblico molto meno numeroso. Si rappresentavano commedie, tragedie e mimi, ma dall’età augustea in poi solo gli spettacoli mimici riuscivano a reggere alla concorrenza dei giochi del circo. Il pubblico partecipava rumorosamente all’azione con grida, schiamazzi, battute di spirito. Gli attori - tutti maschi fuorché negli spettacoli di mimo non godevano di buona reputazione ed erano privati di alcuni diritti (ad esempio non potevano occupare uffici pubblici). Col tempo la loro condizione migliorò, gli attori di successo diventarono famosi quasi quanto gli aurighi, e furono anch’essi ricchi e ricercati. Perché leggere Ovidio? Perché affrontare, oggi, questo autore latino? Qual è il senso di proporre gli articolati racconti delle Metamorfosi a ragazzi nati a duemila anni di distanza? Sono domande legittime, per rispondere alle quali possono essere stimolanti alcune brevi riflessioni introduttive, che proviamo a sintetizzare in tre parole: curiosità, fascino, complessità. Sono tre parole che si possono immaginare collegate da un filo invisibile: la curiosità dei bambini, motore primario dell’intelligenza e del desiderio di scoprire, trova nelle storie di Ovidio molti stimoli e molte risposte; il fascino è la risposta letteraria alla curiosità: le storie di Ovidio piacciono perché sono belle, perché conquistano e perché sanno portare il lettore-ascoltatore in altri mondi di immagini e parole; la complessità è la chiave che ci permette di provare a decodificare la realtà in cui siamo immersi: l’opera ovidiana è complessa e varia, e per questo ci affascina; non è mai banale o monodimensionale, e permette numerosissimi riferimenti letterari ed extra-letterari. Per questo e per molto altro vale la pena di chiudere gli occhi e ascoltare l’eco della voce del poeta, liberi da restrizioni di spazio e di tempo. Anzi: Eco – maiuscolo! – pensando alla storia della ninfa che portava questo nome e di cui Ovidio racconta come mai è rimasta solo la voce. Ci sono parole – letterarie – la cui eco è talmente potente che nei secoli si amplifica, arrivando a orecchie lontane, che popolano un mondo nuovo, ma alle quali hanno ancora molto da dire. Quest’eco sarà, ce lo auguriamo, la risposta alle domande dei bambini e dei ragazzi quando, mossi dal gusto di risalire all’indietro alla ricerca di origini e cause, si chiederanno (ci chie- deranno): ma questa cosa, questa storia, questa partizione geopolitica, questo modo di dire… da dove arriva? Spesso arriva, come intuizione o già definita, dall’antichità. Le Metamorfosi, il poema della trasformazione continua, dall’inizio dei tempi, ci permettono di intuire, in forma narrativa, la potenza di questo legame con l’antico. Un legame che è, inoltre, profondamente culturale, nel senso più ricco del termine: è nell’antichità classica, infatti, e nelle lingue greca e latina, che pone le sue basi più solide il sostrato culturale e linguistico che ci appartiene, e che condividiamo con un numero troppo spesso dimenticato di nazioni che si affacciano sul Mediterraneo e non solo. Una bella immagine greco-latina colloca anche noi nella metafora infinita della traditio lampadis, la consegna della fiaccola dagli anziani ai giovani, immagine secondo cui l’umanità progredisce attraverso un incessante passaggio di testimone. In questo senso, conoscere il nostro ieri serve a non farsi trovare sprovvisti di strumenti (critici, culturali) oggi. Per la letteratura che rende possibile questo passaggio, e per i prosatori e i poeti che le hanno dato vita, rendendola patrimonio collettivo, si prestano alla perfezione le parole di un grande scrittore da poco scomparso, Sebastiano Vassalli, che, nel suo libro Amore lontano, ha scritto: La poesia è vita che rimane impigliata in una trama di parole. Vita che vive al di fuori di un corpo, e quindi anche al di fuori del tempo. Vita che si paga con la vita: le storie dei poeti […] stanno a dimostrarlo. Ovidio è stato proprio così: un poeta vero, che ha trovato ispirazione nella sua vita e ha paga12 to la sua arte con la vita; non perché abbia fatto un unico, grandioso gesto eroico, ma perché la sua intera esistenza è stata un mutuo scambio con la letteratura, giorno dopo giorno. Storia di un uomo e di un poeta Partiamo dal nome, o, meglio, da una veloce analisi della sequenza dei tria nomina, che in latino (come, del resto, in molte lingue antiche e moderne) rappresentava una sintetica “carta d’identità” della persona: Publio Ovidio Nasone, in latino Publius Ovidius Naso. Il praenomen, Publius, cioè il nome proprio, il nomen (il nome per eccellenza), che indicava la famiglia (o gens) d’origine, Ovidius, e, infine, il cognomen, Naso, che caratterizzava ogni individuo per una specifica caratteristica fisica o caratteriale. Ovidio aveva, dunque, un naso importante e Naso (Nasone) era una sorta di soprannome, di quelli che ԟ a non voler essere troppo teneri con le altrui caratteristiche fisiche o morali ԟ potremmo usare ancora oggi. Certo oggi ne faremmo un uso diverso, ludico e senz’altro non giuridico, mentre, al contrario, presso gli antichi romani, dall’e- tà repubblicana in poi, il cognomen aveva un valore pari a quello del ben più illustre nomen; e aveva un’utilità in più: serviva a distinguere gli individui, almeno quelli di censo superiore. Non a caso, alcuni dei nostri cognomi derivano proprio da lì: da qualche avo che si notava fra gli altri per una caratteristica particolarmente spiccata e dalla sua discendenza. Lo stesso cognome “Naso” è, tutt’oggi, vitale e diffuso; non sarà difficile trovare altri esempi analoghi. Ma torniamo più precisamente sulla vita del nostro autore. Noto, oggi, semplicemente come Ovidio, il poeta nacque a Sulmona, nell’odierno Abruzzo, il 20 marzo del 43 a.C. e morì a Tomi (oggi Costanza, nell’attuale Romania) nel 18 d.C.. In realtà, sulla sua vita si sa poco e l’unico autentico resoconto che abbiamo ci arriva dalle sue stesse parole: quelle di una lunga elegia − cioè una poesia − autobiografica rivolta ai posteri (Tristia, IV, 10*, qui riportata in traduzione nel capitolo che precede la presentazione delle Metamorfosi); accenneremo oltre a che cosa sono i Tristia, anche se il nome permette già di anticipare qualche suggestione). Gli estremi cronologici ci permettono di ricavare una prima informazione generale: Ovidio nasce negli ultimi anni della Roma repubblicana e nel pieno delle guerre civili che seguirono l’assassinio di Cesare (alle idi di marzo del 44 a. C.). Se si considera che nel 27 a. C. viene assegnato a Ottaviano il titolo di Cesare Augusto, possiamo dire che Ovidio fu un uomo e un poeta della prima età imperiale. Gli ultimi e turbolenti anni della sua vita, dal 14 d. C. in poi, saranno segnati dalla presenza dell’imperatore Tiberio. Queste brevissime notazioni storiche non vanno considerate esterne ed estranee alla sua biografia, perché, in particolare nel suo caso e in generale per gli uomini di cultura, il rapporto con il loro tempo e con la società in cui vivono ha un’influenza determinante sul loro operato. La famiglia di Ovidio era benestante, appartenente al rango equestre1. A 12 anni, cioè nel 31 a. C., il padre mandò Ovidio a Roma insieme al fratello per completare gli studi di grammatica e retorica, studi che tutti i giovani di famiglia agiata dovevano praticare: questi, infatti, avrebbero permesso loro di intraprendere la prestigiosa carriera forense e politica. Ovidio frequentò le lezioni dei più illustri maestri attivi nella capitale, in particolare Marco Arellio Fusco e Porcio Latrone, e, più tardi, andò ad Atene, patria natale dell’arte oratoria, per approfondire le sue conoscenze ed esercitare le sue capacità; durante il viaggio di ritorno visitò numerose le città dell’Asia minore. Da ormai un secolo circa, questo viaggio formativo era un costume diffuso tra i ragazzi di buona famiglia, un po’ come sarà il grand tour e, in tempi assai recenti, le vacanze studio per imparare una lingua straniera, l’anno scolastico all’estero o l’Erasmus; insomma, a guardare con attenzione ed evitando superficiali approssimazioni, ci sono analogie fra tutte le epoche. Rientrato in patria, Ovidio capì che la retorica, il foro e la politica non erano il suo mestiere: i suoi interessi erano letterari, così come le sue attitudini. Provò a intraprende la carriera pubblica, ma non si distinse per impegno o risultati particolari; decise, dunque, di scontentare il padre per provare a diventare 1 L’ordine equestre, nella Roma del tempo di Ovidio, si distingueva dai patrizi e dalla plebe. Nella Roma antica, questa classe sociale era formata dai cittadini sufficientemente ricchi da possedere un cavallo ed entrare, perciò, nella cavalleria; solo in seguito, questa divisione dell’esercito diventò una classe di censo e con caratteristiche specifiche (privilegi e ricchezze che li distinguevano dalla plebe, e l’accesso a specifiche professioni, una fra tutte gli esattori delle tasse). 13 ciò che davvero voleva: un poeta. Ai tempi era meno complicato di oggi fare di quest’arte una professione, e viverne, ma era comunque una carriera molto più incerta e rischiosa del cursus previsto per un giovane di buona famiglia. Da ultimo, un’informazione personale. Ovidio ebbe tre mogli: dopo due matrimoni sfortunati (da uno dei quali ebbe una figlia), sposò una fanciulla della gens Fabia, che amò profondamente sino alla fine dei suoi giorni, lontano da Roma. Un poeta ribelle, cantore dell’amore e del sogno Destinato dalla famiglia alla carriera forense e politica, Ovidio provò sin da giovanissimo una spiccata inclinazione verso la letteratura e la poesia: tutto ciò che gli riusciva di esprimere bene era in versi (lo scrisse egli stesso nell’elegia prima citata: “quod temptabam dicere versus erat”). Per seguire questa sua inclinazione, contrariamente al fratello e ribellandosi alla volontà di suo padre, si dedicò agli studi letterari. Le sue opere ebbero da subito un notevole successo, cosa che gli permise di entrare a far parte dell’importante circolo letterario romano di Messalla Corvino e di conoscere molti illustri poeti, fra i quali, ad esempio, Orazio e i poeti elegiaci Properzio e Gallo, che erano i principali autori di poesie amorose del tempo (Virgilio, invece, lo conobbe appena). Anche Ovidio è stato, in numerosi suoi testi, poeta galante, cantore di una Roma che, dopo i difficili anni della guerra civile, aveva voglia di vivere, di gioire, di gustare la vita e la pace con leggerezza, cedendo al lusso (in controtendenza coi programmi di restaurazione dei costumi morali promossi da Augusto). Ovidio ha saputo offrire a questa società la letteratura che cercava, una letteratura che ne rifletteva i gusti e i comportamenti, e, perciò, ebbe un successo strepitoso. Tra le sue opere, molte sono di carattere giocoso-amoroso, come gli Amores (tre libri di elegie in cui il poeta canta il suo amore per Corinna e per altre donne, e in cui sono narrate le frivole avventure galanti dell’alta società romana), le Heroides (ventuno lettere d’amore immaginarie, scritte da donne della mitologia antica ai loro amanti), l’Ars Amatoria (un trattato che spiega che cosa fare per conquistare l’amore delle donne: un autentico codice della seduzione, gaudente, esplicito e dettagliato, in netto contrasto coi rigidi dettami morali promulgati da Augusto), i Remedia Amores (l’ “anti” Ars amatoria: un libro che spiega come evitare l’amore e in che modo liberarsene nel caso ci si innamori); da ultimo, possiamo ricordare l’incompiuto Medicamina faciei: circa 100 versi dedicati ai cosmetici femminili. Apparentemente frivoli e superficiali, questi testi, scritti in metro elegante e impeccabile (distici elegiaci), ricchi di riferimenti storico-mitologici e astutamente ammiccanti, esprimono una voce acuta, libera e moderna. Non solo propagano leggerezza e lodano il progresso, ma inneggiano con maestria al mondo femminile e alla libertà in modo non comune all’epoca delle severe disposizioni di Augusto, che nel 18 a. C. aveva promulgato leggi severe sui costumi (una in particolare era de pudicitia, cioè dettava le norme sugli adulteri e sul comportamento sessuale in generale). Altri poeti, quelli legati al circolo di Mecenate, avevano il compito di propagandare la Roma augustea: Orazio, che faceva divertire con ironia, ma sempre entro i limiti; Virgilio, che celebrava la stirpe di Augusto esaltandone le origini direttamente collegate a Enea. Ovidio no: preferiva la libertà, e il prezzo che questa gli costò fu alto. Una fine misteriosa: l’allontanamento da Roma al Mar Nero Nell’8 d.C., con una procedura eccezionale e istantanea, Ovidio venne confinato da Augusto a Tomi, sul Mar Nero, lontano dalla capitale e dai suoi cari, verso i confini del mondo latino. A tutti gli effetti si trattò di una relegatio, che, a differenza dell’exilium, non prevedeva la perdita dei diritti di cittadino e la confisca dei beni; eppure, nonostante le suppliche sue, della moglie e degli amici, rimase lì fino alla morte, avvenuta nel 18 d.C. Sulle autentiche ragioni dell’esilio, è calato, sin dall’antichità, un silenzio inspiegabile e impenetrabile, e la parabola umana di Ovidio è ancora oggi un mistero sul quale si possono solo avanzare delle congetture a partire dalle testimonianze pervenuteci: la più probabile è che Ovidio sia stato, in maniera più o meno volontaria, complice, partecipe o magari testimone di qualche scandalo che coinvolse la famiglia imperiale (forse l’adulterio di Giulia Minore, nipote di Augusto, che fu esiliata nello stesso anno). Secondo le vaghe parole di Ovidio stesso nel secondo libro dei Tristia, “carmen et error” furono le cause del suo allontanamento, cioè la pubblicazione della troppo audace Ars amatoria e uno sbaglio (suo? Altrui? Non possiamo dirlo). In esilio il poeta scrive i cinque libri dei Tristia, cioè una cinquantina di elegie redatte con visibile disperazione tra l’8 e il 12 d.C.: dobbiamo immaginare Ovidio, cantore e fruitore del lusso, vivere solo, in un paese sconosciuto, circondato da barbari che parlavano una lingua incomprensibile. Erano i Geti, che per i romani rappresentavano l’espressione estrema della 14 rozzezza e dell’incultura, relegati con loro alla fine del mondo noto. Nei Tristia Ovidio racconta l’ultima sera a Roma, con parole drammatiche: Quando mi torna in mente la visione tristissima di quella notte, delle ultime ore che passai a Roma, quando ripenso a quella notte in cui lasciai i miei affetti, ancora adesso mi si riga il viso di lacrime. Si era quasi levato il giorno in cui per ordine di Augusto dovevo allontanarmi dagli estremi confini d’Italia. [...] Ero attonito come quando una persona colpita dalla folgore resta viva e non si rende conto d’esserlo. A quell’epoca, un viaggio come quello che Ovidio doveva compiere, solo, verso il mistero, era un addio alla vita. Il poeta ricorda (e ci tramanda) anche le ultime parole che gli disse Fabia, sua moglie, alla quale non cesserà mai di scrivere da Tomi: “Non ti possono strappare a me. Partiremo insieme, sì, insieme. Ti seguirò, moglie in esilio di un uomo in esilio. Anche per me c’è un viaggio, anche per me c’è un posto nella terra ai confini del mondo: non sarò un gran carico in più per la tua nave di fuggiasco”. Ma niente da fare: Ovidio partì senza compagnia, per ordine imperiale, e morì da solo, in esilio, dieci anni dopo, nonostante le ripetute suppliche a Ottaviano Augusto e, poi, al suo successore Tiberio. Del suo periodo sul Mar Nero ci restano anche le Epistulae ex Ponto: un epistolario che comprende lettere in forma di elegia ad amici e parenti. Ovidio secondo Ovidio * TRISTIA, IV, 10. In questa lunga poesia Ovidio narra ai posteri l’intera storia della sua vita, secondo il suo punto di vista, dalla nascita al sofferto esilio da Roma. Il testo è complesso e raffinato – secondo lo stile ricercato e curato tipico del poeta −, ricco di riferimenti a personaggi, usi e costumi del tempo, e a tutto l’immaginario di divinità e ambientazioni legate all’arte della poesia (le Muse, il Monte Elicona); tuttavia, non occorre avere presenti con chiarezza tutti i riferimenti per gustare appieno un testo che racconta la vita di un uomo che ha vissuto con pienezza e intensità, scegliendo e soffrendo con coraggio, caparbietà e un briciolo di sfrontatezza, sin dalla più giovane età. Chi io fossi, il noto cantore di teneri amori, ascolta, per apprenderlo, posterità che mi leggi. Mi è patria Sulmona ricchissima di gelide onde, che dista nove volte dieci miglia da Roma. Qui fui dato alla luce, e perché tu sappia la data, fu quando con pari destino caddero i due consoli. Se vale qualcosa, antico erede dell’ordine fin dai lontani proavi, divenni cavaliere non per dono recente della fortuna. Non fui il primogenito, ma fui generato dopo un fratello che era nato quattro volte tre mesi prima di me. La medesima stella vide la nascita di entrambi e un unico giorno veniva celebrato con due focacce: è quello, dei cinque giorni di festa dell’armigera Minerva, che primo diviene cruento per le battaglie dell’arena. Subito ancor teneri veniamo istruiti e per la premura del padre frequentiamo i maestri celebri in Roma per la loro arte. Il fratello fin dalla verde età tendeva all’eloquenza, nato per le grandi schermaglie oratorie del foro. Ma a me fin da ragazzo piaceva coltivare le cose celesti e segretamente la Musa mi conduceva al suo ministero. Spesso il padre mi diceva: «Perché tenti uno studio inutile? Il Meonide stesso non ha lasciato alcuna fortuna.» Ero scosso dalle sue parole e lasciato del tutto l’Elicona provavo a scrivere parole libere dal ritmo. Spontaneamente un carme si formava nei metri appropriati, e ciò che tentavo di scrivere erano versi. Intanto con tacito passo via scorrevano gli anni e il fratello e io prendemmo la toga più libera, e ci ricopre le spalle la porpora col laticlavio ma la nostra inclinazione rimane quella di prima. Già mio fratello aveva raddoppiato dieci anni di vita, quando morì, e io cominciai a essere privo di una parte di me. Ricoprii le prime cariche dell’età giovanile e una volta fui uno dei triunviri. Restava la curia: ma io restrinsi la striscia di porpora. Quello era un fardello troppo grande per le mie forze; né il corpo sopportava né la mente era adatta alla fatica e io rifuggivo dagli affanni dei pubblici onori; e le sorelle Aonie mi allettavano a cercare i tranquilli ozi letterari, quelli che il mio intimo ha sempre amati. Coltivai e adorai i poeti di quel tempo, e quanti vati erano con me, tanti dèi ritenevo che mi fossero accanto. Spesso mi lesse i suoi uccelli, più anziano di me, Macro, e i serpenti che nuocciono e le erbe che giovano; spesso era solito recitarmi i suoi amori Properzio in virtù dell’amicizia che a me lo legava; Pontico celebre per i versi eroici e Basso per i giambi furono parte diletta della mia cerchia di amici, e affascinò le mie orecchie Orazio ricco di ritmi, mentre toccava sulla lira ausonia carmi di dotta fattura. Virgilio lo vidi soltanto, né l'avaro destino concesse tempo a Tibullo per la mia amicizia. Egli successe a te, o Gallo, Properzio a lui, quarto dopo questi fui io stesso in ordine di tempo. E come io venerai i più anziani di me, così venerarono 15 me i più giovani, e non tardò a divenir nota la mia Talia. Quando lessi per la prima volta al popolo i miei carmi giovanili, la barba mi era stata tagliata una o due volte. Aveva mosso il mio genio, da me cantata per tutta la città, Corinna, così chiamata da me con nome non vero. Ho scritto senza dubbio molto, ma le cose che ho giudicato non buone le ho date io stesso da correggere alle fiamme. E anche sul punto di fuggire bruciai certe cose che sarebbero piaciute, adirato con la mia passione e con i miei carmi. Tenero e non inespugnabile ai dardi di Cupido era il mio cuore e un niente bastava a commuoverlo. Tuttavia pur essendo io tale e accendendomi alla più piccola fiamma, sotto il mio nome non corse nessuna diceria. Quasi ragazzo mi fu data una moglie né degna né utile, che per breve tempo rimase mia sposa; a lei successe una sposa che, sebbene senza colpa, non avrebbe diviso tuttavia per sempre il mio letto; l’ultima, che è rimasta con me fino agli anni avanzati, sopportò di essere la consorte di un marito esiliato. Mia figlia, due volte madre nella prima giovinezza, ma non da un solo marito, mi fece nonno. E intanto mio padre aveva compiuto il suo destino e a nove lustri aveva aggiunto altri nove lustri. Lo piansi non diversamente da come avrebbe egli pianto me stesso defunto. Resi poco dopo le dovute onoranze alla madre. Felici ambedue e sepolti nel momento opportuno, poiché morirono avanti il giorno della mia condanna! Felice me pure, che sono esiliato quando essi non sono più in vita e non hanno sofferto per me! Se tuttavia agli estinti qualche cosa oltre il nome rimane e una gracile ombra scampa al rogo eretto, se notizia vi è giunta di me, o ombre dei miei genitori, e nel foro stigio si parla della mia colpa, sappiate, vi prego, − né potrei ingannarvi − che la causa del mio esilio è un errore, non un delitto. Questo basta per i Mani! A voi torno, o cuori che desiderate sapere le vicende della mia vita. Già la canizie, fuggiti via gli anni migliori, era giunta a mescolarsi alle mie chiome di un tempo. E dopo la mia nascita, il cavaliere vincitore, cinto dell’olivo di Pisa, aveva strappato dieci volte il premio, quando l'ira del principe offeso mi ordina di raggiungere Tomi situata sulla riva sinistra del mare Eusino. La causa della mia rovina a tutti troppo nota non ha bisogno che sia attestata dalle mie parole. Perché ricordare la slealtà degli amici e i servi malvagi? Molte cose ho sopportato non più lievi dell’esilio stesso. Ma l’animo ebbe a sdegno di dover soccombere ai mali e si dimostrò invitto ricorrendo alle sole sue forze dimenticando me stesso e una vita trascorsa negli ozi impugnai con mano non avvezza le armi che il momento chiedeva e affrontai per terra e per mare tanti pericoli quante sono le stelle fra il polo nascosto e quello visibile. Infine dopo essermi trascinato per lunghe peregrinazioni toccai le rive di Samarzia contigue ai faretrati Geti. Qui sebbene mi risuonino intorno le armi confinanti, 16 con la poesia, per quanto posso, allevio il triste destino, e se essa non può giungere alle orecchie di nessuno, trascorro tuttavia così la giornata e inganno il tempo. Perciò se vivo, se resisto alle dure sofferenze e non mi prende il tedio di una vita angosciata, te ringrazio, o Musa! Infatti tu mi dai il conforto, tu sei riposo agli affanni, tu vieni come medicina; tu sei guida e compagna, tu mi porti via dall’Istro e mi fai posto nel mezzo dell’Elicona. Tu mi hai dato da vivo − e questo è raro – un nome eccelso, che la fama suole dare dopo le esequie. E l’invidia, che denigra le opere dei viventi, non ha morso col suo dente malevolo nessuna delle mie opere. Infatti, quantunque il nostro tempo abbia prodotto grandi poeti, la fama non è stata maligna col mio genio, e se io pongo molti davanti a me, sono stimato non inferiore a loro e assai sono letto nel mondo intero. Perciò se i presagi dei poeti hanno qualcosa di vero, dovessi io anche subito morire, non sarò tuo, o terra. Sia che io abbia raggiunto questa fama per il tuo favore, o con la mia poesia, ti devo il mio grazie, benevolo lettore. Le Metamorfosi: un canto dall’origine del mondo Febo mi disse: “Esprimi un desiderio, vergine cumana: sarà esaudito”. Io presi un pugno di sabbia e glielo mostrai, chiedendo che mi fossero concessi tanti anni di vita quanti granelli di sabbia c’erano in quel mucchietto. Sciocca, mi scordai di chiedere che anni fossero di giovinezza. (Met., XIV) Le Metamorfosi (in originale alla greca Metamorphoseon libri, Libri delle trasformazioni) sono solo un’opera tra le molte di Ovidio, ma di certo sono la più lunga e la più complessa. Si tratta di un poema epico-mitologico dedicato alle “trasformazioni” (dal greco μεταμόρԄωσις, che deriva dal verbo μεταμορԄόω, «trasformare»), che l’autore iniziò a comporre intorno al 3 d. C. arrivando a realizzare (intorno all’8 d. C. circa) quindici libri di esametri (unica delle sue opere scritta in questi versi), contenenti circa 250 miti che condividono il tema del mutamento: in essi, esseri umani o creature mitologiche cambiano o vengono cambiati in parti della natura (animata e non). Ovidio ci fa sapere che l’opera non ha potuto essere rivista da lui come avrebbe desiderato. Anzi, probabilmente sarebbe andata perduta se non fosse stata pubblicata, su indicazione del poeta stesso da Tomi, a cura di un amico che ne possedeva una copia. Per descrivere le Metamorfosi, seppur brevemente, partiamo col considerare due concetti generali, eterogenei fra loro, ma imprescindibili, soprattutto quando si parla di opere antiche: la storia del testo (cioè la sua tradizione filologica) e il dialogo con le opere precedenti. Il primo aspetto va tenuto presente ogni volta che ci si accosta, o si accompagnano bambini e ragazzi, all’incontro con un testo antico: il testo che oggi possiamo agevolmente sfogliare come sfogliamo un ro17 manzo moderno è un prodotto totalmente diverso da un romanzo moderno, con una storia del tutto particolare. Infatti, il testo non ci è quasi mai arrivato tale e quale in forma autografa dell’autore, ma tramite numerosi manoscritti, ciascuno con somiglianze e differenze2 (basti pensare che della ben più recente Commedia dantesca sono pervenuti a noi oltre seicento codici redatti da mani diverse!). Solo l’accurato lavoro di confronto e scelta dei filologi ci permette di fruire dell’opera in una forma, se non originale, almeno coerente e plausibile; ciò significa anche che possono 2 Nel caso delle Metamorfosi, i codici pervenuti probabilmente continuano una pluralità di edizioni antiche. Infatti, nonostante la grande popolarità che le Metamorfosi ebbero quando vennero composte nessun manoscritto di quel tempo è giunto a noi; ciò non stupisce se si considera che il poema fu tacciato di essere “opera pericolosamente pagana”: probabilmente, molti manoscritti vennero distrutti soprattutto durante il periodo della cristianizzazione dell’Impero. Esistono frammenti dei secc. IX e X, ma i primi manoscritti utilizzabili per la ricostruzione testuale sono databili intorno all’XI secolo sempre essere approntate nuove edizioni, che presentano nuove scelte a livello di testo latino proposto (e, sicuramente, nuove traduzioni rispondenti a diversi criteri stilistici: più attuali, più poetiche, più letterali…). Il secondo aspetto, quello del dialogo con le opere precedenti, è legato ai contenuti e ci porta a riflettere sul valore del bagaglio culturale, del sapere, delle informazioni che portiamo con noi e sappiamo riutilizzare; oggi ԟ nella nostra società sintetica e veloce ԟ molto meno, ma per gli antichi, e almeno fino al Rinascimento (con esito estremo nel principio d’imitazione), riprendere le opere precedenti, giocare con l’intertestualità, fare tesoro e riproporre in forma nuova i saperi precedenti erano segni del valore di un autore e di un’opera. E al pubblico piaceva (i miti, ad esempio: sono storie di sempre, e, a ben guardare, ritroviamo l’impronta di molti nelle novelle e nelle fiabe di epoche successive). In questo senso, le Metamorfosi sono una grande raccolta di narrazioni derivanti dalla mitologia greca ԟ che a sua volta le aveva recuperate da storie precedenti ԟ reinterpretate alla luce della storia e della sensibilità latine, per mano di Ovidio: il poema contiene, infatti, legate fra loro in un’unica macro-storia, circa 250 narrazioni mitologiche, più o meno lunghe. Perché scegliere di scrivere un’opera del genere? Le risposte che si potrebbero dare sono molte, e di diversa entità. Anzitutto, va detto che l’attenzione di Ovidio per i miti e le tradizioni si era già, in parte, espressa nei Fasti: sei libri che descrivevano l’origine delle feste del calendario romano, insieme a numerose altre leggende e tradizioni (il progetto prevedeva dodici libri, uno per ogni mese dell’anno). Inoltre, la mitologia rappresentava una materia apprezzata, vastissima e affascinante con cui cimentarsi, per la quale erano disponibili numerosi modelli filosofici e letterari da rielaborare e personalizzare (uno per tutti, la raffinata poesia dei poeti alessandrini di età ellenistica). Il fine più significativo dell’opera nel suo insieme, tuttavia, era ancora un altro: celebrare la storia della romanità inquadrandola nel percorso dell’intera creazione, romanità che, sotto il principato di Augusto, aveva raggiunto il culmine. Le Metamorfosi, lungi dall’essere una raccolta disorganica, rivelano una profonda unità espressa attraverso la presenza pervasiva di una natura in dialogo con la leggenda e col mito, principio instancabile del divenire del tutto: una natura profondamente viva, in cui ogni albero e ogni fiore hanno una storia da raccontare. Nel fluire della storia universale, ogni mito si lega nella finzione letteraria al successivo, partendo dalla creazione dell’universo (la trasformazione più antica: dal Chaos al Kosmos ordinato) fino alla storia più recente (l’apoteosi di Cesare, trasformato in astro, e la glorificazione di Augusto). In questo percorso trova posto l’intero bagaglio mitologico e storico greco-latino, narrato in una sorta di “carmen continuum” della nostra civiltà (da Medea a Teseo e Arianna, dalle fatiche di Ercole a Orfeo ed Euridice, da Enea a Romolo), come se il mito non fosse disgiungibile dalla storia reale, nel fluire incessante e a volte angoscioso del tempo che passa. La maestria del poeta è quella di saper unire un episodio all’altro, di lunghezza diversa, attraverso legami sottili, ma efficaci: a18 nalogie tra i miti, similitudini contenutistiche, incastri, personaggi che diventano voci narranti e molto altro. Sebbene il materiale sia in gran parte tradizionale, il risultato dell’operazione ovidiana è innovativo: nei suoi racconti ci sono più fantasia, più sensibilità e più attenzione alle sfumature psicologiche dell’individuo e alle sue sofferenze; inoltre, lo stile, le scelte lessicali accurate e il metro (un esametro di estrema musicalità) accompagnano con leggerezza l’incessante racconto delle mutazioni e la percezione della vanità delle forme solo apparentemente stabili. Della trasformazione, Ovidio mette in risalto talvolta la velocità, altre volte la lentezza, il persistere della natura precedente nella nuova, con il dramma che questo comporta. Anche nei casi in cui le narrazioni non comportino una evidente trasformazione fisica, c’è comunque un sottile gioco di trasformazione interiore. In tutti i casi, al di là della superficie del racconto, si intravede una sensibilità inquieta molto attuale, che trapela dal tormento de ei personaggii e che ha afffascinato arttisti di tutte le epoche: basti so offermarsi a leggere i frem miti che ancorra percorrono o la ninfa Dafne tra asformata in alloro per sfuggire s all’am more imposssibile di Apollo o l’ecco della voce della ninfa in nnamorata dii Narciso, che e a sua volta, innam morato di sé sttesso, si ridurrrà a un fiore. Soffermiamo oci, infine, brrevemente, su s un aspetto o formale della poesia, e cioè sull’esametro s . Non possiam mo sapere co ome i latini le eggevano esattame ente né questo né altri schemi metrici mutuati dalla tradizione greca, ma sappiam mo che essi ra appresentano o delle seque enze regolari di pied di (gruppi di due d o più silla abe brevi o lu unghe3) che costituic vano la misu ura del verso (piedi perché é il ritmo si ba atteva col piede). Ogni forma poetica era realizzata se econdo precisse e regolari scelte metriche. L’e esametro è la a più antica tipologia di ve erso in uso, im mpiegato in partico olar modo perr la poesia ep pica (è il mettro dell’Eneid de) o didascalica; esso e è formatto da una seq quenza di se ei piedi dattilici (prevalentementte di tipo , lunga a-breve-breve e, ma con variante frequente lu unga-lunga: la a sillaba lungga porta rego olarmente l’acccento; nel caso di due lunghe è sempre acccentata la prrima); l’ultimo o piede manca di un na sillaba: Proviamo a leggere l in me etrica il primo o distico delle Metamorfosi: Ìn nova fèrt animùs mutàtas dìce ere fòrmas còrpora dì co oeptìs nam vòs mu utàstis et ìllass 3 Per una spieggazione sulle qu uantità vocaliche e si veda la sezione dedicata alla lingua latina. 19 Solitamente, dopo il terzzo acS c cento si rea alizza una cesura, d detta pentem mimera (cioè è una p pausa brevisssima nella le ettura, c può colloccarsi anche altrove che a n verso). Va ribadito, perrò, che nel q queste regola arità di letturra, qui s solo accennate, sono una a conv venzione che non ci arriva a diretta amente dallla latinità: infatti, n possiamo non o sapere con n esatte ezza come vveniva letta la a poes nel mondo latino, e, probasia b bilmente, la lettura era piiù timb brica, cromatiica e musicale della a nostra (che si basa, in nvece, s sull’aumento dell’intensità à della v voce dove ccade un acccento). P Pertanto, posssiamo anch he god derci le opere e poetiche dandone u lettura in una n prosa espre essiva; tu uttavia, è o opportuno almeno s sapere che, a livello formale, vi e erano convenzioni metrich he ben p precise e che e nulla, nem mmeno u singola p una parola, era la asciata a caso. al Dal latino alle lingue romanze: un parlare al modo dei romani GIOCHI LINGUISTICI TRA PASSATO E PRESENTE Noi parliamo latino? Perché accostarsi a questa lingua. La domanda potrebbe apparire ingannevole. Troppo semplice rispondere “No, parliamo italiano”, troppo vago – anche se più vicino alla risposta esatta – rispondere “Sì, in un certo senso sì”. Come fare, allora? Quali sono gli strumenti interpretativi corretti per arrivare alla risposta giusta? Come accompagnare i bambini, gradualmente e in forma ludica, a scoprire la grande trasformazione linguistica di cui sono eredi e nella quale sono immersi ogni giorno? E, soprattutto, perché? Da più parti si sente dire che il latino non serve a nulla, perché è una lingua morta e non insegna niente di pratico. Limitiamoci a considerare l’aggettivo morta: se, in riferimento a una lingua, si intende non più parlata, non più usata come strumento di comunicazione, possiamo anche essere d’accordo; tuttavia, se ci fermiamo a considerare la vitalità del latino come base di derivazione dell’italiano e delle altre lingue romanze di oggi, nonché l’inesauribile possibilità che offre, insieme al greco, per la creazione di neologismi (in particolare scientifico-tecnologici) dobbiamo ricrederci. È qui che l’argomento dell’inutilità dell’avvicinamento al latino cade: non si tratta di diventare traduttori esperti, ma, semplicemente, di stimolare la naturale curiosità dei ragazzi attraverso il materiale linguistico che li circonda, in modo che ne diventino osservatori più consapevoli. Perché si pensa sia possibile, giusto e urgente incentivare nei giovanissimi lo sguardo scientifico sulle diverse dimensioni della realtà, ma questo non si con- sidera utile in campo linguistico? Il tentativo di risposta alla domanda “Noi parliamo latino?” parte proprio da qui, nella presa di coscienza che l’italiano di oggi non è un prodotto stabile, nato, chissà come, qualche decina d’anni fa, e non è nemmeno sempre stato uguale, ma ha una storia, in parte comune con altre lingue, che si radica indissolubilmente a quella del latino, di cui è la continuazione. Un simile allargamento di prospettive, oltre a prestarsi come miniera di possibilità didattiche, potrà contribuire, pian piano, a incentivare la sensibilità linguistica degli allievi. Cominciamo: che cos’è il latino? Intuitivamente, per formazione scolastica o per cultura generale, grossomodo abbiamo tutti un’idea più o meno esatta di che cos’è il latino. Se dovessimo rivolgere la domanda a un gruppo di persone (non classicisti o filologi classici di professione), dall’età dell’adolescenza in su, otterremmo presumibilmente svariate risposte, ciascuna delle quali contenenti una parte di verità e ciascuna delle quali sarebbe una variante sui temi seguenti: “Era la lingua parlata nell’antica Roma”, “Era la lingua che si usava prima dell’italiano”. Qualcosa di esatto c’è, ma mancano molti elementi. Confrontiamo con queste risposte la definizione di un’illustre enciclopedia (la voce “lingua latina” della Treccani, consultabile online): Lingua indoeuropea appartenente al gruppo italico o protolatino, lo stesso di cui fanno parte quelle di altri popoli (Ausoni, Opici, Enotri e Siculi) che, insieme 20 ai Latini, si insediarono nella parte centromeridionale dell’Italia fra il 3° e il 2° millennio a. C. Vediamo, innanzitutto, che il senso comune ci porta – con alcune limitazioni e imprecisioni − alla dimensione dell’uso (era la lingua “parlata”, ma anche “scritta”, a Roma), mentre l’enciclopedia ci offre per prima una definizione della lingua dal punto di vista storico. Un manuale universitario di glottologia andrebbe più a fondo nelle caratteristiche tipologiche ed evolutive della lingua, mentre un manuale specifico di grammatica storica illustrerebbe i mutamenti interni che hanno portato dal latino al volgare italiano (per fare un esempio fra i più semplici, mostrerebbe che, gradualmente, i dittonghi latini hanno subito monottongamento: per intenderci, da AURUM sia derivato il nostro oro). Tutto ciò è “il latino” o, meglio, tutto ciò è studio del latino. Questi e altri approcci concorrono a descrivere una qualsiasi lingua come entità caratterizzata da più livelli d’indagine e da più dimensioni di variazione nel tempo e nello spazio, a seconda dei registri e del canale di trasmissione orale o scritto. Nella realtà di individui parlanti e scriventi, siamo propensi a percepire una lingua nella sua dimensione concreta di strumento di comunicazione immediatamente disponibile; eppure, dietro la lingua dell’uso quotidiano odierno c’è una storia lunga e complessa, una storia che continua ancora oggi. Infatti, nemmeno l’italiano odierno è arrivato a una conformazione grammaticale, sintattica e neppure ortografica definitiva: basti notare la quantità di grafie concorrenti e di abbreviazioni (più o meno accettate a seconda del mezzo di comunicazione: ciò che è lecito in un sms o in una chat può non esserlo in una tesi di laurea), per non parlare della libertà sintattica, dei neologismi, dei prestiti e delle rifunzionalizzazioni di parole (un esempio per tutti, tipo in luogo di come). La data di nascita delle lingue: un compleanno impossibile Da quel poco che abbiamo detto finora, possiamo facilmente intuire che è estremamente complicato fissare una “data di nascita” per le lingue moderne; e il risultato che si ottiene è inevitabilmente approssimativo e fittizio. L’evoluzione linguistica è, infatti, più un flusso che una sequenza di tappe. Per l’italiano gli storici della lingua hanno prova- to a individuare nel 960 l’anno natale del volgare e nel celebre Placito Capuano (Sao ko kelle terre... Con k per ch-: grafia, ai tempi, perfettamente lecita) il suo “atto di nascita” (si trattava di un atto notarile vero e proprio, nel quale, in mezzo a frasi tutte in latino, ne compariva una chiaramente in volgare). Per il latino, la questione è ancora più complessa e, dato il difficile reperimento di testimonianze scritte, è davvero difficile dire quando questo idioma ha prevalso sugli altri diffusi tra le popolazioni dell’Italia preromana (visibili nella cartina qui a fianco). Eppure, a un certo punto, dopo una lenta competizione con gli idiomi delle popolazioni sottomesse (lingue di sostrato), il latino è diventato protagonista della storia della romanità e delle sue conquiste, della sua oratoria e della sua letteratura. 21 Dal latino alle lingue romanze: l’italiano e le lingue sorelle Insomma, anche le lingue hanno una storia e non nascono come prodotti pronti all’uso in un momento preciso della storia. Anzi, la loro storia è, spesso, complessa e lunga, e procede su un doppio binario: la storia interna (come cambiano la grammatica e le strutture delle lingue nel tempo) e la storia esterna (Come cambia l’uso linguistico? Come si trasforma la percezione dei parlanti? Perché certe lingue, un tempo prestigiose, gradualmente perdono di vitalità?). Le due “storie” sono indissolubilmente legate: infatti, sono proprio i parlanti, che vivono in un dato lasso di tempo, a cooperare lentamente e senza accorgersene al cambiamento linguistico interno. Dal latino parlato, più esposto ai mutamenti rispetto alla sua varietà scritta, sono nate le diverse lingue romanze, che potete vedere qui sotto; sono lingue sorelle in quanto derivano da un unico genitore: il latino, appunto. Ecco perché in esse possiamo trovare molte somiglianze (ad esempio nel lessico). Le differenze nei suoni, nelle parole e nelle strutture dipendono, invece, dalla storia individuale delle singole lingue, che si sono dovute confrontare con idiomi preesistenti nei territori di diffusione. Il fenomeno di trasformazione del latino nelle diverse lingue “figlie” è avvenuto lentamente. Le lingue romanze o neolatine sono, dunque, un gruppo di lingue geneticamente affini; esse sono la continuazione del latino, rispetto al quale non manifestano nessuna interruzione drastica. Il periodo intercorso fra l’epoca dell’unità latina e quella dell’attestazione dei diversi idiomi indipendenti non è troppo grande; e comunque va detto che anche lo stesso latino non era una lingua davvero omogenea. L’espansione del Latino dal suo primitivo centro sulla riva sinistra del Tevere, prima in Italia e poi nell’intera Romània (termine preso a prestito dalla filologia romanza per indicare il territorio di diffusione del latino), e i conseguenti contatti con le lingue dei popoli assoggettati avevano senz’altro creato numerose differenziazioni nelle diverse aree di latinità. All’incirca nel quinto secolo, quando l’Impero Romano d’Occidente cedette alla pressione dei barbari, le differenze regionali cominciarono a farsi più marcate e lo divennero ancor di più quando i legami politici e amministrativi che riunivano le parti dell’impero iniziarono ad allontanarsi, originando singole regioni man mano più autonome. Insomma, fino a quando la forza accentratrice della capitale dell’Impero permise che all’unità politica corrispondesse anche una relativa unità linguistica, le varietà non uscirono mai dagli argini delle differenze regionali, almeno per quanto risulta dalle testimonianze scritte superstiti. Man mano, però, che l’unità imperiale si allentò, anche l’unità linguistica, sebbene i legami culturali permanessero, ne risultò indebolita. Per quanto riguarda il cambiamento linguistico, i glottologi hanno individuato un elemento importante e significativo nella distinzione fra centro e periferia dell’impero, che vale la pena di ricordare. Partiamo da un caso, quello della parola “plus”, più, che nelle lingue moderne ha avuto gli esiti seguenti (provate a pronunciarli, tenendo conto che sardo e rumeno si pronunciano come si scrivono, proprio come il latino): 22 Plus (latino) plus (rumeno) pius (sardo) plus (francese) più (italiano) mas (spagnolo) mais (portoghese) Consideriamo prima di tutto la geografia: Spagna e Portogallo sono laterali e più lontane rispetto al centro dell’impero, così come la Romanìa (che oltre a essere laterale è isolata fra lingue di ceppo slavo); isolata, nel vero senso della parola, è la Sardegna. Poi consideriamo che mas e mais derivano da MAGIS, forma comparativa arcaica precedente PLUS in latino. Mettendo assieme i pezzi possiamo notare che la forma più recente, PLUS, si è affermata in Italia e in Francia con vistose differenze di pronuncia: questo vuol dire che la lingua era più vitale; poi possiamo osservare che plus si è affermato in sardo e in rumeno, ma senza differenze di pronuncia rispetto al latino; infine, notiamo che nello spagnolo e nel portoghese si è continuata la forma arcaica, cioè l’innovazione linguistica latina più recente (plus) non è arrivata. Che cosa significa tutto ciò? Secondo la linguistica areale, significa che le zone lontane, laterali e isolate conservano caratteristiche più arcaiche in quanto il cambiamento linguistico si è manifestato di meno: l’innovazione, infatti, procedeva dal centro alla periferia. Questo spiega perché in spagna “bello” si dice hermoso (dal lat. classico FORMONSUS, bello; BELLUS è, invece, aggettivo del latino tardo). Lettere e suoni della lingua latina L’ALFABETO LATINO Cominciamo con una riflessione sull’alfabeto (in particolare sui caratteri latini, e più in generale, sul concetto stesso di alfabeto) e facciamolo cimentandoci in un piccolo gioco, che si può proporre ad adulti e bambini: (a) 木 Osservate qui a sinistra. Che cosa vedete? C’è scritto qualcosa? È una scritta o un disegno? (b) ARBŎR E qui? Che cosa vedete? Riuscite a leggere? Sapete dire che cosa significa? Certamente, nel secondo caso (b) i problemi di decifrazione sono stati minori: siamo riusciti a leggere (cioè a riconoscere le lettere del nostro alfabeto e i suoni corrispondenti) e a intuire il significato della parola (albero). Anche nel primo caso c’è scritto albero, ma si tratta di un ideogramma cinese, cioè – semplificando al massimo – di un sistema di scrittura non alfabetico, bensì ideografico: per provare a capire il significato del significante (a), dobbiamo muoverci su un altro livello di interpretazione, cioè quello visivo, del riconoscimento di un’immagine stilizzata (un albero rovesciato). Non si tratta più di simboli astratti come quelli alfabetici, a ciascuno dei quali corrisponde un suono, ma di riproduzioni della realtà. I caratteri dell’alfabeto latino ci sono familiari in quanto sono quelli utilizzati per la trascrizione di lingue a noi note: non solo di quelle romanze, anche di lingue come l’inglese o il tedesco, di ceppo germanico. Tuttavia, leggere il latino non è proprio come leggere l’italiano, per alcune dif- ferenze che vedremo qui di seguito; per leggere, come per tradurre, ci sono alcune regole precise, che possono essere presentate come regole di un gioco, rispettando le quali ci si può accostare in modo divertente a una lingua nuova e misteriosa. Leggiamo il latino: caratteristiche e differenze principali rispetto all’italiano Poiché non è possibile ascoltare dei parlanti nativi, gli studiosi hanno dovuto dedicare attenzione particolare e specifica per individuare delle norme di lettura del latino, ricavate da testimonianze di varia natura (prime fra tutti gli scritti dei grammatici del tempo). L’alfabeto latino è formato da 24 lettere (le 21 italiane più k, x, y). Conta in totale dieci vocali: i segni, in realtà, sono cinque (a, i, e, o, u), ma tutti possono realizzarsi in forma breve o lunga, originando, così, sillabe brevi e sillabe lunghe: – una sillaba è breve se contiene una vocale breve, caratterizzata dal segno caratteristico simile ad una piccola mezzaluna, tracciato su di essa nei vocabolari e nelle grammatiche (ĕ); – una sillaba è lunga se contiene una vocale lunga o un dittongo: una vocale lunga si riconosce da quel segno caratteristico, simile a un trattino, tracciato su di essa nei vocabolari e nelle grammatiche (ē). Non è semplice per noi, oggi, sapere esattamente a che cosa corrispondeva la differenza di lunghezza; forse aveva un valore timbrico, cioè segnalava una differenza di pronuncia che non sappiamo riprodurre. Infatti, il sistema vocalico dell’italiano è composto di sette vocali (graficamente sono cinque, ma la e e la o possono essere aperte o chiuse, anche se fra gli italofoni di oggi la sensibilità per questa di23 stinzione si va perdendo; una maggiore sensibilità e capacità di riprodurre le aperte e le chiuse è comune solo in Toscana). Le regole di lettura del latino, strettamente legate alla quantità vocalica, sono tre: 1. l’accento non cade mai sull’ultima sillaba: non esistono quindi parole tronche, tipo verità; 2. in latino l’accento non può mai cadere oltre la terzultima sillaba: quindi può esserci al massimo una parola sdrucciola come sìngolo (p. es. ìncipit), ma non una parola come telèfonami; 3. infine, c’è la cosiddetta legge della penultima, che riguarda le parole di tre o più sillabe. Nelle parole di tre o più sillabe, si possono verificare due casi: – la penultima sillaba è lunga: l’accento cade su di essa; – la penultima sillaba è breve: l’accento cade sulla sillaba precedente. Vanno ricordati, poi, i dittonghi, cioè i gruppi formati da vocale più una semivocale: in latino i dittonghi più frequenti sono tre au = au (aurum, oro) ae = e (Caesar, Cesare) oe = e (poena, pena) Le consonanti non presentano particolari difficoltà, ma occorre sapere che alcuni gruppi di lettere si pronunciano diversamente da come sono scritti o comunque in modo diverso da come verrebbe spontaneo fare. Vediamo qualche caso, per curiosità: ti + voc. = zi (es. vitium pr. vìzium); questa regola non vale se ti + voc. è preceduto da s, x o t (es. quaestio pron. quèstio); sc = le due lettere sono sempre pronunciate separate (il suono palatale di pesce è nato nel latino tardo, così come i suoni affricati del nostro cielo e del nostro gennaio); gn = come nel caso precedente, la tendenza classica era probabilmente quella di realizzare due suoni separati. Infine, una curiosità. Abbiamo parlato di vocali brevi e lunghe, che l’italiano non ha. Tuttavia, l’italiano ha una caratteristica in un certo senso simile a questa. Dove? Facciamo una prova. Affinate le orecchie e pronunciate (o fare pronunciare da qualcuno) la parola CARO, poi la parola CARRO; oppure pronunciate la parola PALA, poi la parola PALLA. Non solo sentirete la consonante doppia rafforzata, ma anche la vocale che precede la geminata pronunciata in un’emissione vocale un pochino più lunga. 24 Gioco linguistico: il Memory delle parole latine e italiane DI ROSANNA IAQUINTA Il «Memory» è un noto gioco di carte che richiede attenzione, concentrazione e memoria. Le carte sono inizialmente mescolate e disposte, coperte, sul tavolo. I giocatori scoprono, a turno, due carte. Se queste formano una coppia (cioè hanno qualche elemento che le lega), vengono incassate dal giocatore di turno, che può scoprirne altre due, altrimenti, vengono nuovamente coperte e rimesse in gioco sul tavolo, e il turno passa al prossimo giocatore. Vince il giocatore che riesce a scoprire più coppie. Ovviamente, molto sta nell’avere buona memoria di dove si trovano le carte scoperte e poi rimesse in gioco. Perché non provare a creare la coppia unendo la parola latina e quella italiana derivata da essa? L’obiettivo di questo gioco è, innanzitutto, quello di incuriosire e sensibilizzare spontaneamente alle somiglianze fra la lingua latina e l’italiano (ma si possono facilmente coinvolgere anche altre lingue!). Man mano che i bambini si appassioneranno all’affascinante processo di trasformazione dal latino all’italiano, sarà possibile costruire altri «Memory», con nuove parole più o meno complesse (all’occorrenza si può anche consultare un dizionario etimologico). Buon divertimento! Per il docente: per completezza, a lato di ogni abbinamento è accennata una breve spiegazione dei mutamenti fonetici avvenuti nel corso del processo di trasformazione (cfr. G. Patota, Nuovi lineamenti di grammatica storica dell’italiano, Bologna, il Mulino, 2007). Regola Il dittongamento spontaneo In sillaba aperta dalle vocali «e» e «o» brevi si sono sviluppati i due dittonghi ascendenti «ie» e «uo». Chiusura in protonia e postonia In posizione protonica la /e/ tende a chiudersi in /i/ e la /o/ passa in /u/ Lo sviluppo della /j/ in posizione iniziale o intervocalica La spirantizzazione di /b/ La sonorizzazione delle sorde intervocaliche Le occlusive sorde latine /p/, /t/ e /k/ comprese tra vocali si sono spesso trasformate nelle corrispondenti sonore. Nel primo caso, invece, la /p/ fricativizza in /v/ Latino Italiano pedem decem levitum bonum focum core molinum piede dieci lievito buono fuoco cuore mulino secūrus sicuro iocum peius maiorem hăbēre ripam stratam patrem cattum macrum gioco peggio maggiore avere riva strada padre gatto magro 25 Regola Latino Italiano La semplificazione (assimilazione) dei nessi consonantici /gm/ e /mn/ fragmentum somnum mensem sponsam ipsum scripsi saxum vixi laxare factum frammento sonno mese sposa esso scrissi sasso vissi lasciare fatto lactem latte aqua antiquum acqua antico Il nesso /ns/ La nasale prima della sibilante cade sistematicamente Il nesso /ps/ Il nesso /ps/ ha avuto come esito /ss/ Il nesso /ks/ Il nesso /ks/ ha avuto in italiano un duplice esito: /ss/ oppure /sc/ Il nesso /ct/ Il nesso /ct/ ha avuto in italiano come esito l’assimilazione regressiva Il nesso /kw/ Il nesso /kw/ ha subito diversi esiti. 26 Dal latino alle lingue romanze: un gioco DI ROSSANA IAQUINTA L’obiettivo di questo gioco è, innanzitutto, quello di mettere in evidenza il rapporto tra la lingua latina e le lingue romanze, in modo visivo e comparativo, senza “insegnare” nulla a priori ai ragazzi. Prima di introdurlo potrebbe anche essere utile procurarsi una carta geografica raffigurante la massima estensione dell’impero romano, e confrontare successivamente la stessa con una carta geografica moderna, per avere un’idea di come sono cambiati i confini. Partendo dall’idea di questo gioco, si possono naturalmente inventare tutte le variazioni che si desiderano. La tabella sottostante vuol essere solo uno spunto di partenza. Così, ad esempio, si può cominciare con un cartellone in cui, nella colonna di sinistra, compaiono le parole latine, mentre le altre colonne restano vuote. Le «traduzioni» nelle cinque lingue considerate – italiano, francese, spagnolo, portoghese e rumeno – finiranno invece in una specie di mazzo di carte: tirando a caso, si tratterà di incollare ogni parola nel giusto riquadro. Ovviamente la tabella può essere ampliata con nuove parole, consultando dizionari di lingua straniera o etimologici. Oppure, espandendo il gioco all’infinito, potrà essere affascinante andare alla ricerca di altre contaminazioni linguistiche, che a volte percorrono e hanno percorso strade assai strane. Latino manus, -us Italiano Francese Spagnolo Portoghese Rumeno mano main mano mão mână occhio formaggio/cacio capra œil ojo olho ochi fromage queso queijo caş chèvre cabra cabra caprǎ clavis, -is chiave clé llave chave cheie oculus, -i caseus, -i (latino popolare: formaticus, -i) capra, -ae ecclesia, -ae chiesa iglesia igreja église biserică basium, -ii bacio baiser beso beijo sărut mater, -tris, madre mère madre mãe mamă pater, -patris padre père padre pai tată stella, -ae stella étoile estrella estrela stea lingua, -ae lingua langue lengua lingua limbă platea, -ae piazza place plaza praça piaṭǎ pons; -ntis ponte pont puente ponte pod nox, noctis notte nuit noche noite noapte rosa, -ae rosa rose rosa rosa roz flos, -oris fiore fleur flor flor floare unus, -a, -um uno un uno um unu duo, -duae,-duo due deux dos dois doi tres, -tres,-tria tre treus tres três trei viginti venti vingt veinte vinte douăzeci centum cento cent cien cem sută mille mille mille mil mil mie 27 Latino Italiano Francese Spagnolo Portoghese rapide (rapidamente) rapidamente rapidement rápidamente rapidamente lente lentamente lentement despacio lentamente frigus, -oris freddo froid frío frio calidus, -a, -um caldo chaud caliente quente cantare chanter cantar cantar dire dire dicer dixer cantare dicere Rumeno repede frig cânta Osservazione: il latino usa normalmente due tipi di segni distintivi, detti breve (ŭ, ĕ, …) e lunga (ā, ē, …). Ad esempio, la traduzione latina corretta di occhio è ocŭlus e quella di rapidamente è răpĭdē. Per comodità e per non complicare il tutto, abbiamo scelto di riportare le parole latine senza questi segni. 28 Piazzaparola a Locarno / Giovedì 10 settembre 2015 METAMORFOSI Storie sull’origine del mondo secondo Publio Ovidio Nasone A cura di Silvia Demartini e Adolfo Tomasini Alle 9 al Teatro di Locarno Accoglienza e saluto ai partecipanti da parte di Raffaella Castagnola, ideatrice e coordinatrice di Piazzaparola, e della direzione del DFA «Ascoltate, o Dei, il mio canto...» Il racconto della creazione del mondo in un libero adattamento di Silvia Demartini e Adolfo Tomasini da Le Metamorfosi di Ovidio, con le voci di Marco Fasola e Beppe Vedani (per gentile concessione della RSI), la musica di Giovanni Galfetti e le luci di Luca Bertolotti e Werner Walther. La storia di Eco e di Narciso adattata da Silvia Demartini e Rosanna Iaquinta, con le voci di Sara Giulivi e Cristina Zamboni. E poi altre metamo orfo osi, scelte e adattate da Silvia Demartini e Rosanna Iaquinta: ai giardini Rusca con la voce di Cristina Zamboni e le illustrazioni di Simona Meisser Enti e sponsor in piazza Grande, al mercato del giovedì con la voce di Sara Giulivi e la fisarmonica di Daniele Dell’Agnola SUPSI Banque SYZ & CO Città di Locarno Teatro di Locarno Città di Locarno In caso di cattivo tempo la manifestazione si svolgerà interamente al Teatro di Locarno. Piazzaparola è una manifestazione che nasce dalla Dante Alighieri di Lugano. www.dantealighieri.ch — [email protected] — Facebook: piazzaparola Piazzaparola a Locarno / Lo staff Daniele Dell’Agnola, narratore e musicista, insegna italiano e comunicazione nelle scuole superiori e attualmente è docente dei corsi bachelor alla SUPSI. Suona il pianoforte, la fisarmonica e adora i ritmi del carnevale. Silvia Demartini, ricercatrice in didattica dell’italiano alla SUPSI (DFA). Dopo la laurea in lingua e cultura italiane, ha conseguito il dottorato di ricerca all’università del Piemonte Orientale. Collabora al progetto «TiScrivo», sulla lingua scritta a scuola dai bambini ticinesi. Marco Fasola e Beppe Vedani lavorano insieme da almeno vent’anni. La coppia artistica, oltre ad occuparsi della realizzazione dei messaggi promozionali per le reti radio RSI, ha prodotto numerose serie radiofoniche sotto lo pseudonimo di «Circo Rilassa». Appassionati di musica, si sono spesso lanciati nella composizione ed esecuzione di sigle radiotelevisive, tra le quali le canzoncine delle rubriche radio del Cane Peo e l’immortale hit «La Fregata Dell’Amore». Il primo è appassionato di cartoni animati giapponesi che traduce a spanna. Il secondo di discipline mediche orientali. Giovanni Galfetti ha studiato al Conservatorio di Zurigo e ora è insegnante di musica e di didattica della musica presso il dfa della SUPSI. È organista della Collegiata di S. Antonio di Locarno. Suona in duo con Carlo Bava (Laetimusici) e dirige l’Ensemble Controcanto. Sara Giulivi ha conseguito nel 2007 il dottorato di ricerca in linguistica e linguistica italiana presso l’università di Firenze ed è attualmente ricercatrice presso il Dipartimento formazione e apprendimento della SUPSI. Si è inoltre formata come attrice presso il Centro Teatro Internazionale (CTI) di Firenze, dove ha frequentato il corso triennale di Formazione Professionale per Attori di Prosa, sotto la guida di O. Melnik, dell'Università Statale di Cultura e Arte di Mosca. Rosanna Iaquinta si è iscritta al DFA della SUPSI dopo aver conseguito nel 2012 la laurea in lettere moderne all’università Statale di Milano. Attualmente frequenta il Bachelor of Arts SUPSI in Insegnamento per il livello prescolastico. Come studentessa al DFA ha collaborato all’edizione 2015 di «Piazzaparola» nell’ambito di un credito libero proposto agli studenti del II anno (Metamorfosi di una lingua: dal latino all’italiano… e altro!). Simona Meisser, illustratrice di libri per l’infanzia, lavora a Lugano. Ha frequentato l’Istituto Europeo di Design a Milano, dove ha ottenuto il diploma di illustratrice. Espone in mostre itineranti e svolge corsi di illustrazione nella scuole. Il suo sito: www.simonameisser.com. Publius Ovidius Naso, (43 a. C. - 18 d. C.), poeta elegiaco romano tra i più popolari. Malgrado diverse sollecitazioni, il poeta non ha ritenuto di inviare una sua breve nota biografica. In tutti i casi è l’autore delle storie di «Piazzaparola» di quest’anno. Adolfo Tomasini, pedagogista, è stato insegnante di scuola elementare per una decina d’anni. Nel 1987 ha conseguito la licenza in scienze dell’educazione all’università di Ginevra e, nello stesso anno, è stato nominato direttore delle scuole comunali di Locarno, funzione che ha lasciato nel 2013. Cura dal 2001 la rubrica «Fuori dall’aula» del Corriere del Ticino e, in collaborazione con la SUPSI, coordina le appendici locarnesi di «Piazzaparola». Cristina Zamboni, attrice, si forma alla scuola di teatro «Quelli di Grock» di Milano. Collabora con Cambusateatro, Teatro Agorà e come attrice indipendente ha proposto il ciclo di narrazioni mitologiche «Raccontami un mito». Dal 2006 è lettrice alla RSI e voce RSI Cult TV.