Integrazione di Giulio Marcon Il concetto di integrazione può

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Integrazione
di Giulio Marcon
Il concetto di integrazione può abbracciare ambiti assai diversi. Si parla, a seconda dei casi, di
integrazione territoriale, nazionale, politica, sociale, economica, culturale, ecc. Il concetto di
integrazione è una categoria fondamentale della sociologia moderna (alla quale si è
contrapposta quella basata sul conflitto, di derivazione marxista) nello studio delle relazioni tra
individui e comunità, categoria utilizzata in particolare dal neofunzionalismo di Durkheim e
Parsons. Il concetto di integrazione presuppone (a seconda dei modelli utilizzati) l’esistenza di
diversità e differenze da a) far convivere dentro un modello comune pluralista che tenga conto
di esse, b) far assimilare ad un modello unico e predeterminato, c) ridurre progressivamente (in
termini quantitativi e qualitativi) per permettere a tutti i soggetti lo sviluppo equilibrato dentro
un contesto comune. L’integrazione, in questo contesto, può essere a) biunivoca (processo di
adattamento reciproco nella costruzione di uno spazio comune), oppure: b) univoca, nel caso in
cui vi sia un modello (realtà sociale e culturale, ordinamento, ecc.) di riferimento al quale
adattarsi attraverso l’adozione dei valori maggioritari. Il primo è un modello di tipo pluralista
(unità nella diversità), il secondo è di tipo assimilazionista.
Il concetto di integrazione è molto utilizzato in campo politico e istituzionale. Il caso della
formazione della Comunità e dell’Unione Europea è un esempio della realizzazione di diversi
tipi di integrazione: economico-monetaria, legislativa ed istituzionale (politica), territoriale e
anche sociale e culturale. Ed è anche un esempio di “integrazione dei diritti”. Infatti, il varo nel
2000 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea –al di là del dibattito ancora in
corso sul suo carattere giuridicamente vincolante per i paesi dell’Unione- è il risultato di un
processo di integrazione e di riconoscimento comune della varietà dei diritti politici, civili,
sociali esistenti nelle rispettive legislazioni nazionali. I diritti umani, nella più larga accezione,
giocano nel processo di formazione dell’Unione Europea dunque un ruolo importante di
unificazione dei riferimenti legislativi nazionali, e quindi di integrazione di ordinamenti e
politiche concrete. In generale tutte le costruzioni federali o confederali, quando queste
abbiano origine dal processo di unificazione unità politico-territoriali precedentemente
disgiunte sono esempi di processi di integrazione politica, territoriale, economica e sociale. Ad
esempio la creazione del Regno di Jugoslavia (1918) e poi della Repubblica Federativa Socialista
Jugoslava (1945) sono esempi di integrazione e non a caso, si è usata l’espressione
“disintegrazione”, quando le guerre degli anni ’90 hanno posto fine alla federazione jugoslava.
Oppure in Africa –su un versante più sociale e culturale- il caso del Mali è un esempio
particolarmente riuscito di integrazione di gruppi etnici (ben nove) non sulla base di un
processo federativo per unità territoriali, ma sulla base di un principio di cittadinanza e
appartenenza nazionale pluralista, svincolato dal principio di appartenenza di un determinato
territorio.
Dal punto di vista sociale, il concetto di integrazione presuppone “società aperte”, fondate sul
riconoscimento dei diritti umani, della democrazia e del principio di eguaglianza, della coesione
sociale, delle pari opportunità tra classi sociali (o anche tra territori facenti parte di una stessa
comunità: si guardi al Mezzogiorno rispetto al resto d’Italia), sia in campo educativo, che
nell’accesso ai servizi pubblici e nel soddisfacimento dei bisogni fondamentali, il concetto di
integrazione sociale richiama anche il rispetto delle diversità culturali e religiose, soprattutto
con riguardo alla trasformazione di alcune società (in particolare quelle occidentali) a causa dei
fenomeni migratori.
Nelle società occidentali –ma non solo in queste- il tema dell’integrazione sociale viene
declinato sempre di più con la gestione del fenomeno migratorio che introduce nelle società di
accoglienza un complesso di diversità e differenze notevoli: religiose, culturali, di abitudini e
costumi, di visioni sociali, ecc. che possono provocare tensioni e conflitti. L’assenza di una reale
integrazione può provocare nelle società fenomeni di discriminazione e di emarginazione, di
violazione dei diritti umani e di diseguaglianza. I paesi di immigrazione che hanno portato
avanti politiche di integrazione hanno adottato vari modelli: da quello assimilazionista francese
a quello più pluralista e differenziato di vari paesi europei (Italia, Spagna, ecc.), dal melting pot
americano alla sua estremizzazione ghettizzante (Gran Bretagna) che tende a dividere la società
per gruppi etnici.
Si tratta di un tema che interessa sempre di più l’Europa e i paesi più sviluppati (in quanto
destinatari privilegiati dei flussi migratori), ma anche molti paesi in via di sviluppo, dove
povertà tensioni sociali possono alimentare difficoltà di integrazione tra differenze etniche,
sociali e culturali. Il principio di integrazione richiama la necessità di politiche positive, fondate
su pratiche e iniziative concrete. Va ricordato in questo contesto la definizione che la
Commissione Europea ha dato del principio di integrazione:
“ un processo biunivoco che coinvolge la società d’accoglienza e i cittadini di paesi terzi
legalmente soggiornanti e che –nella consapevolezza reciproca di obblighi e diritti di ambo le
parti– conduce al riconoscimento da parte della società ospitante dei diritti formali che
conducono alla piena partecipazione alla vita sociale, economica, culturale e civile della società
d’accoglienza senza che questi debba rinunciare alla propria identità”
Anche l’Italia, con l’approvazione del testo unico sull’immigrazione (D.lgs 286/98) ha dato,
nella relazione programmatica che accompagnava la legge, la sua versione, definendo
l’integrazione “un processo di non discriminazione e di inclusione delle differenze, quindi di
contaminazione e di sperimentazione di nuove forme di rapporti e comportamenti, nel costante
e quotidiano tentativo di tenere insieme principi universali e particolarismi. Essa dovrebbe
quindi prevenire situazioni di emarginazione, di frammentazione e ghettizzazione, che
minacciano l’equilibrio e la coesione sociale, e affermare principi universali come il valore della
vita umana, della dignità della persona, il riconoscimento della libertà femminile, la
valorizzazione e la tutela dell’infanzia, sui quali non si possono concedere deroghe, neppure in
nome della differenza”. Questa ultima notazione riporta alla memoria diversi casi, non tanto e
non solo in Italia, ma soprattutto in Francia che riguardano ad esempio l’uso del velo per le
donne musulmane a scuola o nella riproduzione dei volti per i documenti di riconoscimento.
Ma, ovviamente, potrebbe riguardare anche altri casi, soprattutto rispetto al rapporto tra i
generi ed in particolare del trattamento della donna.
Nel contesto di politiche di integrazione rivolte a componenti di gruppi etnici o religiosi presenti
nelle società d’accoglienza, sono possibili sostanzialmente tre modelli di integrazione,
verificabili grazie ad un set di indicatori specifici. Questi tre modelli –secondo Giuliana Zinconesono quelli a) dell’integrazione come uguaglianza, b) dell’integrazione come utilità e c)
dell’integrazione come somiglianza. Nel primo caso l’integrazione procede grazie
all’equiparazione progressiva dei diritti (sociali ed economici, politici, ecc.) degli immigrati con
quelli dei cittadini autoctoni. Nel secondo caso l’integrazione è il risultato dell’accettazione e
dell’accoglienza della comunità autoctona grazie alla considerazione positiva dell’utilità sociale
ed economica del ruolo assunto dagli immigrati (deficit demografico, lavori umili, ecc.). Nel
terzo caso, la prospettiva è quella di tipo assimilazionista; l’integrazione si produce grazie
all’accettazione degli immigrati dei valori, dei comportamenti, delle abitudini della comunità
ospitante.
Quello che in una nozione positiva di integrazione dovrebbe essere presente –alla luce di
questi tre modelli- è la salvaguardia di un principio di integrità della comunità (senza il quale la
resistenza all’integrazione assume il carattere dell’opposizione e dello scontro) e
dell’interazione positiva tra le differenze (in cui i soggetti, le culture, ecc. si modificano nella
relazione), in modo da mantenere un soddisfacente equilibrio tra particolarismo e
universalismo, tra diversità e unità. Il set di indicatori di una buona integrazione, in questo
contesto è dato dall’analisi del contesto sociale e dalle politiche positive e dalle pratiche
concrete. Se queste ultime sono date dall’effettivo inserimento e dalla piena realizzazione nel
contesto scolastico e lavorativo, le prime attengono alla trasformazione delle caratteristiche
demografiche, sociali e territoriali e dalle relazioni con le comunità d’origine e quelle
d’accoglienza. Essendo il modello di integrazione più efficace e sostenibile quello dalla
caratteristica biunivoca, esso si riscontra solo in un approccio dinamico ed in un equilibrio
dialettico delle relazioni sociali, economiche, politiche e culturali.
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