di Luigi Guelpa
Passato e presente uniti da una linea retta che, a pensarci bene, non è
poi così estesa. Il passato è l’hockey su pista, disciplina a rotelle che
ha vissuto momenti palpitanti, che esiste ancora seppur in maniera
anacronistica, e che vive ormai solo su gesta improvvisate, prodezze
estemporanee e muscoli affaticati degli stessi alfieri di vent’anni fa.
Decisamente più vecchi e arrugginiti, ma con l’aspirazione intatta di
recitare un ruolo da protagonisti. Il futuro, avvolto da un alone di
fantascienza, si chiama Rollerball. Non il cibernetic movie di Jean Reno,
bensì l’altro, l’originale, quello di Norman Jewison che decanta la
civiltà delle corporazioni. In un mondo asettico, talmente perfetto da
trascendere nella fragilità. Specchio di ansie e inquietudini molto
attuali. Un mondo che sembra preso in prestito dalle pagine di un romanzo
di Frank Herbert.
C’è qualcosa che provoca un brivido lungo la schiena. E’ nell’evocazione
di un approccio in qualche misura vincolante, sebbene l’hockey sia uno
sport reale mentre il Rollerball viva solo tra gli automatismi di una
macchina da presa. E’ l’agonismo, esasperato. E’ sangue e sudore in
un’arena delirante. A Houston si scatenava una famelica caccia all’uomo
sulla “Toccata e Fuga in Do Minore” di Bach. Precursore inquietante
dell’inno della Champions League. Sulle piste italiane non si contano i
morti, si gioca comunque alla morte. La tecnica, sempre più annebbiata e
approssimativa, lascia spazio a un agonismo gladiatorio. Parallelismi
scanditi dalle gesta di due eroi. Nell’hockey resiste il mito di Massimo
Mariotti da Grosseto, lo “stallone maremmano” come recita l’incisione
sulla stecca. Frase che ammicca a un certo vigore fisico sotto la cintola
a disposizione di poche elette. E un tempo davanti alla porta degli
spogliatoi c’era la fila per una notte bollente con il dio pagano
dell’hockey. Mariotti ha vinto tutto, in Italia e nel Mondo. I suoi piedi
hanno pattinato ovunque. Le sue mani hanno picchiato duro, colpito a
rete, sollevato avvenenti fanciulle e decine di trofei. Si è arreso nel
settembre del 2007, a 43 anni. Ma un guerriero senza una fottuta
battaglia da combattere può anche morire. E allora ecco che sono in
parecchi a credere in un repentino ripensamento. L’attuale Mariotti,
quello in versione allenatore, è un’immagine tra il patetico e il
borghese.
Nel rollerball l’icona pagana è Jonathan E., alias James Caan. Gladiatore
dal cuore carico di sentimenti e rimpianti che pattina sulla pista di
un’arena post atomica che sarebbe piaciuta al maestro Kubrick. Jonathan
non si è mai ritirato dalle scene, solo perché è stato l’ultimo a
rimanere in piedi in un campo di battaglia dalle visioni apocalittiche
che avrebbe fatto sbiancare persino il massacro delle Termopili. Potere
di una macchina da presa.
Negli anni i paragoni si sono rincorsi e sprecati. Forse perché l’hockey
su pista è uno degli sport più fisici e contundenti in assoluto, quasi da
codice penale, e quell’accostamento con il rollerball riesce a dilatare
le suggestioni. O forse perché lo stallone Mariotti non si è mai separato
dalla maglia numero 6, la stessa di Jonathan E. Il mito della celluloide
incalzato dal campione grossetano. Rincorso e raggiunto, almeno
idealmente.
Mettendo da parte le metafore resta uno sport di nicchia, l’hockey a
rotelle. Nudo e crudo. Nudo perché ormai spogliato di nuovi talenti e di
spettatori. Crudo perché i rintocchi che ne scandiscono il declino sono
una stilettata al cuore per gli ultimi integralisti. Quelli per cui
Mariotti è un uomo vero e Totti poco più di una femminuccia. Quelli che
non riescono a comprendere perché uno come Marco Materazzi abbia scelto
di giocare a calcio. Nell’hockey almeno gli avrebbero permesso di
demolire gli avversari sotto lo sguardo accondiscendente degli arbitri.
Le estemporanee dirette televisive di “Mammarai”, rigorosamente sul
canale satellitare a orari improponibili, hanno quasi il suono di una
resa senza troppe condizioni. Di un de profundis. Altro che toccata e
fuga di Bach.
L’hockey su pista è un retaggio del ventennio fascista. Si diffuse per
volontà e impulso di un testimonial a cui era difficile a quei tempi dire
di no: Bruno Mussolini. Il figlio del Duce veniva dipinto come
“appassionato pattinatore e abile hockeista”, ma sappiamo come la
propaganda sapeva manipolare ad arte le notizie. Diciamo allora che
pattinava e che probabilmente riuscì a innescare un fenomeno sportivo che
visse il periodo di massimo splendore negli Anni Ottanta. Stagioni di
grandi abbuffate, di un esercito di praticanti e di sponsor che portarono
denaro e professionismo.
Vercelli ha vissuto i suoi momenti di gloria grazie all'Amatori
Maglificio Anna, la squadra cannibale che nello spazio di sei anni ha
messo in bacheca tre campionati, una Coppa Italia e due Coppe Cers, la
Uefa a rotelle. Vendicando l'approccio tremolante alla disciplina su
pista di Pro Vercelli e Rotellistica, squadre pionieristiche. Era
l'Amatori di Fontana e Girardelli, del "cerbero" Borrini e di Molteni, di
Cesana, ma soprattutto di Daniel Martinazzo, estro e tecnica al servizio
dell'hockey vercellese e delle centinaia di persone assiepate sulle
tribune del fortino al Rione Isola.
Furono loro ad imperversare come divinità ancestrali nei palazzetti
straripanti di pubblico e di belle fanciulle disposte a tutto. Sangue,
sudore e pensieri pruriginosi nelle arene di Monza, Lodi, Novara, Seregno
e Bassano. Il fenomeno dell’hockey a rotelle non ha mai sedotto le grandi
città, neppure le ha sfiorate. Si è radicato dove calcio, basket e
pallavolo non erano presenti ad altissimi livelli. Corroborando quel
sentimento di campanilismo sopito dalla frustrazione negli sport più
diffusi. Alla periferia delle metropoli, come a Vercelli, ci si poteva
sentire da Serie A, senza più accusare quel diffuso senso di soggezione.
La nuova terra promessa chiamò a raccolta i migliori interpreti al mondo
come api sul miele. Arrivarono soprattutto frotte di argentini, che
stanno all’hockey come gli americani di colore alla pallacanestro. Alcuni
di loro fecero la storia di questo sport. Campioni come appunto Daniel
Martinazzo, ancora oggi idolo di Vercelli quasi quanto Silvio Piola, o
come i fratelli Pablo e Gabriel Cairo. Fino ad arrivare al Maradona dei
pattini a rotelle, José Luis Pàez, che fece le fortune del Roller di
Monza.
Sulle ali dell’entusiasmo l’hockey nel 1992 sbarcò a Barcellona come
disciplina dimostrativa alle Olimpiadi. I giochi a cinque cerchi
avrebbero dovuto offrire la tanto attesa investitura solenne. Fu invece
l’inizio della fine. L'ultimo colpo di coda, per l'Amatori si intende,
risale alla metà degli anni Novanta. Con la presidenza Piccioni e il
ritorno del figliol prodigo Mariotti, assistito dai fratelli Bertolucci,
dall'eterno Cupisti, dal caudillo Gonella e dal satanasso Crudeli, i
gialloverdi sfiorarono il titolo, negato dai gemelli culturisti Michielon
made in Novara, ma soprattutto organizzarono e conquistarono nel 1998 la
finale di Champions League al Palaisola, poi perdendo con gli immensi
catalani dell'Igualada.
Da dieci anni a questa parte è in atto l’impercettibile ma costante
processo di discesa agli inferi. L'Amatori vivacchia in seconda
divisione. Lo spettacolo va in onda per pochi intimi, ma con gli stessi
protagonisti di un tempo. E non è solo una questioni di crisi
generazionale. Senza gli eroi immortali, senza Mariotti e i suoi
sacerdoti probabilmente questo sport sarebbe già morto e sepolto da un
bel pezzo. I vecchi guerrieri sono l’insostituibile richiamo per chi
ancora ha fame di hockey. Quando ammaineranno bandiera tutto sarà
compiuto e il grande circo chiuderà i battenti per sempre.
Il Consorzio Etruria Follonica è la squadra che sta dominando la scena
nazionale. Sfogliando la formazione sembra che il tempo si sia
cristallizzato. Il baluardo della difesa toscana è Enrico Mariotti, altro
ex gialloverde, fratellino dello stallone maremmano, un passato da
fenomeno al Barcellona e una carta d’identità che recita “nato nel 1969”.
Ci sono i gemelli Alberto e Alessandro Michielon, che insieme superano la
settantina. Il bomber Alessandro Bertolucci veleggia verso le 39
primavere. Suo fratello Mirko, altro attaccante di razza, di anni ne ha
già compiuti 35. Ovviamente ad allenare questo gruppo da Gerovital ci sta
pensando Massimo Mariotti. Un pezzo dell'hockey vercellese si è
trasferito in Versilia, anche se l'effetto scenico somiglia a un quadro
di Dalì, è un trionfo del surrealismo. E’ come se nel calcio la squadra
che vince gli scudetti schierasse Zenga, Bergomi, Vialli, Donadoni e Roby
Baggio. Persino Maldini e Ballotta, le mosche bianche di longevità del
pallone italico, avrebbero facile e prolungata cittadinanza nel mondo a
rotelle.
Ci sono parecchi stratagemmi per uccidere uno sport. La vecchiaia e la
monotonia sembrano comunque armi efficaci e affilate come rasoi. Ma alla
fine di tutto, in uno scenario alla Aeon Flux, a restare in piedi sarà un
uomo solo. Massimo Mariotti naturalmente. Forse per amore di sport,
oppure, molto più probabile, per emulare fino all’ultimo centimetro di
pellicola Jonathan E. Due uomini e una sola maglia. La numero sei.