La corruzione nella storia

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LA CORRUZIONE
NELLA
STORIA
IL PERIODO GRECO E ROMANO
(I)
F ILIPPO A RAGONA
La corruzione appartiene alla categoria dei delitti mala in se, oppure dei delitti mala quia
prohibita? Dal differente approccio concettuale alla questione deriva che, se la corruzione
presenta un disvalore sostanziale e pregiuridico che ne giustifica l’incriminazione (malum in
se), l’astensione dei cittadini dal praticarla sarà sempre spontanea, mentre se il divieto di
corruzione viene visto dalla comunità come un’imposizione determinata da fattori contingenti
e politicamente opportunistici (malum quia prohibitum) allora sarà sempre difficile
contrastare tale fenomeno. La corruzione nei periodi della storia deve essere quindi esaminata
anche quale fenomeno sociale e culturale prima ancora che giuridico, essendo tanto antica da
essere stata presente anche ai tempi dei greci e dei romani.
Il
filosofo olandese Bernard de Mandeville1, autore nel 1723 della celebre Favola delle api: ovvero vizi privati, pubbliche virtù, ha scandalizzato l’Europa del suo
tempo affermando che «il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente
quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che
la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa... Se l’uomo fosse
stato per sua natura umile e indifferente all’adulazione, il politico non avrebbe mai potuto raggiungere i propri fini, né avrebbe saputo che fare di lui. Senza i vizi la superiorità
della specie umana non si sarebbe mai manifestata... ». Se in quell’epoca le sue idee
sono state duramente condannate dall’establishment e dalle correnti culturali allineate
con il potere sovrano, dopo molti decenni il suo pensiero è stato rivisto sotto un’altra
luce, soprattutto dai movimenti controculturali, tant’è che è stata proposta la sua riabilitazione riconsiderandolo quale uno dei pochi pensatori che, come Nietzsche, ha saputo
rompere la linea di confine con i filosofi ossessionati dal sistema perfetto2.
1. Bernard de Mandeville, nato a Dordrecht nel 1670, presso Rotterdam, dopo la laurea in medicina si trasferì
a Londra e qui esercitò, con eccellenti risultati, la professione medica, trascorrendo gran parte della vita pubblicando scritti in cui combatteva le convenzioni sociali e morali del tempo. In particolare, egli sostenne che
l’egoismo non deve essere represso in quanto perno attorno al quale si dispiegano le facoltà umane atte a
realizzare il progresso e la convivenza sociale, ed è tramite affinché i vizi privati si convertano in pubblici benefici. Morì ad Hackney nel 1733.
2. KOENIG 2010.
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In realtà, anche oggi apparirebbe oltraggioso affermare la necessità
di giustificare le azioni più nobili con i motivi più vili sottostanti.
Tuttavia, la morale della fiaba di Mandeville costituisce effettivamente qualcosa che si spinge ben oltre la semplice provocazione
destinata a suscitare scandali o a ridicolizzare le convenzioni sociali
ipocrite di un periodo storico, in quanto solleva una questione
molto complessa che in tutte le epoche si è sempre posta alla base
dell’esigenza di incriminare le condotte di corruzione e di punirle
con una sanzione penale: il disvalore sociale di tale comportamento
presenta un substrato naturalistico oppure deriva da una artificiosa
creazione dei sistemi giuridici allo scopo di tutelare le funzioni pubbliche di uno Stato?
È nota la distinzione tra delitti mala in se e delitti mala quia prohibita:
i primi sono quelli che hanno un’origine pregiuridica, nel senso che
sono comunque considerati da tutti, naturalmente e sempre, quali
espressioni di condotte antisociali a prescindere dalla loro etichettatura codicistica; i secondi, invece, sono frutto di convenzioni morali e sociali di una determinata epoca e quindi presentano un
disvalore relativo, in quanto costituiscono deviazioni solo rispetto
alle norme imposte dai gruppi di governo e di potere pro tempore
(generalmente i cosiddetti ‘fatti di sangue’ o quelli che incidono sul
patrimonio privato appartengono alla prima categoria, mentre i
reati posti a tutela di beni giuridici cosiddetti ‘inafferrabili’, quali
quelli consistenti nell’espressione di una opinione e della libertà
di associazione, appartengono al secondo gruppo).
Il punctum dolens è comprendere se la corruzione appartenga alla
prima o alla seconda categoria di delitti, in quanto le conseguenze
non si arresterebbero su un piano meramente terminologico ma
orienterebbero diversamente la politica di prevenzione e di repressione del reato.
Mentre secondo la visione di Mandeville tale delitto costituirebbe
un malum quia prohibitum (nel senso che esso risulterebbe punito
solo per volontà contingente dei gruppi politici dominanti ma non
perché la società ne percepisca il disvalore, anzi la società, secondo
la sua visione, ne trarrebbe vantaggi in una certa misura), secondo
un approccio giusnaturalistico esso sarebbe invece un comportamento censurabile a priori rispetto all’intervento positivo dei legislatori. A quest’ultima concezione si è certamente ispirato Dante
quando nel ventunesimo canto dell’Inferno ha collocato i corrotti (barattieri) nell’ottavo cerchio, tra gli indovini e gli ipocriti, immersi in
un lago di pece bollente, ammassati gli uni sugli altri, privi di luce,
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condannati a un fuoco eterno, sui quali, appena osavano alzare la
testa fuori del liquido, si gettavano i demoni con zanne e uncini.
Dal differente approccio concettuale alla questione deriva che se
la corruzione presenta un disvalore sostanziale e pregiuridico che
ne giustifica l’incriminazione (malum in se), l’astensione dei cittadini dal praticarla e dalla tentazione di ottenere benefici dalla
pubblica amministrazione mediante un pactum sceleris con i pubblici funzionari sarà sempre spontanea (si attuerebbe la tanto auspicata concezione consensualistica del diritto), mentre se il
divieto di corruzione viene visto dalla comunità come una imposizione determinata da fattori contingenti e politicamente opportunistici (malum quia prohibitum) allora sarà sempre difficile
contrastare tale fenomeno, in quanto, come sostiene Mandeville,
esso sarebbe espressione di un forte radicamento nella cultura di
una determinata società i cui membri non ne possono fare a meno
(e per contrastarlo occorrerebbe ricorrere alla concezione volontaristica/imperativistica del diritto, secondo la quale è necessario
imporre un comando, munito di sanzione, proveniente dalla volontà del princeps, per ottenere l’adesione alla norma da parte
dei consociati).
La corruzione nei periodi della storia deve essere quindi esaminata anche quale manifestazione sociale e culturale prima ancora
che giuridica: infatti, essa è tanto antica da essere stata presente
anche ai tempi dei greci e dei romani.
Prima di proseguire, è opportuna una precisazione di carattere sistematico, ossia che in questo lavoro, che ripercorrerà l’argomento nelle varie epoche storiche (questa prima parte è dedicata
solo al periodo greco e romano), il termine corruzione è usato in
senso atecnico; esso comprende tutte le principali ipotesi di delitti contro la pubblica amministrazione: corruzione, concussione,
peculato e abuso d’ufficio. Nonostante le differenze strutturali tra
tali fattispecie, delineate prevalentemente sul piano della condotta tipica e dell’evento giuridico o naturalistico presente tra gli
elementi costitutivi, esse hanno in comune l’oggetto giuridico,
ossia il bene tutelato, il quale consiste nella trasparenza e imparzialità dell’azione amministrativa e, più in generale, nel buon andamento della pubblica amministrazione e nella salvaguardia di
tutte le risorse pubbliche. La protezione di tale bene è essenziale
sia per evitare che i più prepotenti prevalgano sui più deboli nell’accesso alle risorse comuni, sia per assicurare una distribuzione
di tali risorse in modo equo e proporzionato tra i cittadini.
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Passando alla storia, già nel V secolo a.C., secondo Plutarco e Aristofane, Pericle tentava di guadagnarsi il consenso del popolo organizzando banchetti e feste e impiegando il denaro dello stato
per creare monumenti ornamentali. Inoltre, Pericle introdusse la
«mistoforìa», ossia una indennità giornaliera conferita a coloro
che ricoprivano cariche pubbliche, affinché anche i non abbienti
potessero dedicarsi alla vita politica; tale beneficio, tuttavia, determinò lo scambio di denaro per ottenere voti elettorali.
Il caso più eclatante di corruzione ai tempi dei Greci fu quello noto
come Affare Arpalo: nel 324 a.C. Arpalo, tesoriere di Alessandro
Magno, fuggì da quest’ultimo dopo averne saccheggiato le ricchezze. Giunto ad Atene, fu fatto arrestare da Demostene il quale,
cedendo alle pressioni di Alessandro, ne ordinò la confisca dei
beni. Qualche tempo dopo Arpalo scomparve misteriosamente da
Atene e fu rinvenuta solo la metà del tesoro depredato. Demostene e gli altri oratori furono accusati di essersi fatti corrompere
in cambio della concessione della libertà ad Arpalo.
Anche nell’antica Roma si presentò presto il problema dei ‘brogli
elettorali’ quale forma di corruzione. Il primo provvedimento adottato per contrastare le modalità illecite di campagna elettorale fu
la lex Petelia de ambitu del 358 a.C., con la quale era limitata l’ambitio, consistente nell’andare in giro per raccogliere voti.
Dalla fine del II sec. a.C. si aggravò la situazione, tant’è che secondo lo storico Luciano Perelli «il mercato dei voti assunse proporzioni tali che al confronto i fenomeni di corruzione dei nostri
tempi sembrano un’inezia»3.
Tale condotta divenne addirittura una consuetudine nel I sec. a.C.,
al punto che per contrastarla fu necessaria nel 67 la lex Calpurnia
de ambitu, proposta dal console Calpurnio Pisone, che suscitò
una reazione talmente violenta da parte dei divisores da costringere il console ad allontanarsi dal Foro. I divisores erano i distributori del denaro predisposto dal candidato per i membri della
sua tribù o addirittura per tutte le tribù (quando, secondo una tradizione risalente ad epoca antica, si trattava di personaggi altolocati che distribuivano eventuali donazioni o lasciti testamentari
fra i membri di tutte le tribù).
Un altro metodo di compravendita dei voti avveniva tramite l’offerta di banchetti, di posti a teatro, di giochi, tanto che Cicerone
fece promulgare una legge che vietava l’organizzazione di giochi
due anni prima della candidatura a una carica.
3. PERELLI 1994.
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Un esempio di corruzione era costituito dalla pratica della raccomandazione per l’accesso all’entourage di un potente o alla corte
imperiale, alla quale è interamente dedicato il libro XIII dell’Epistolario di Cicerone.
Un caso particolare di corruzione è stato quello in cui il re Antioco
di Siria, sconfitto nel 187 a.C. da Scipione Asiatico, fratello dell’Africano, avrebbe pagato al vincitore quattro milioni di sesterzi anziché
i 200.000 dichiarati nell’accordo di pace, per ottenere condizioni derivanti dalla sconfitta più vantaggiose.
Famosa poi è la vicenda di Giugurta, narrata da Sallustio nel Bellum
Iugurthinum: alla morte di Massinissa, re di Numidia, alleato dei Romani, succedettero i tre figli, Aderbale, Iempsale e quello adottivo,
Giugurta, che uccise Iempsale e fece guerra ad Aderbale il quale,
una volta sconfitto, chiese la protezione del Senato. Giugurta inviò
ambasciatori che comprarono la benevolenza dei senatori con oro
e argento e continuò così la guerra uccidendo Aderbale e anche
cento commercianti italici a Cirta. A questo punto, malgrado il Senato fosse stato costretto a dichiarargli guerra, egli riuscì a corrompere il console Calpurnio Bestia e i Metelli, i quali si adoperarono
affinché la guerra non fosse esiziale per Giugurta, che fu sconfitto
definitivamente solo sette anni più tardi grazie all’intervento risolutivo dell’homo novus Mario.
Altri casi di condotte illecite (corrispondenti alle moderne categorie
giuridiche della corruzione o del peculato o della concussione) si
ebbero dopo la Prima guerra punica, con la creazione della prima
provincia romana, la Sicilia, teatro di una delle ruberie di denaro
pubblico più tristemente note della storia, quelle commesse dal governatore provinciale Verre.
Altro fenomeno molto diffuso nell’antica Roma era quello delle tangenti, soprattutto in età imperiale, quando la burocrazia crebbe e
furono istituiti funzionari liberti o cavalieri. Si trattava di somme di
denaro usate per essere ricevuti da persone potenti o per ottenere
le licenze durante il servizio militare o per avviare una pratica amministrativa. In Sicilia, per esempio, per una pratica veniva preteso
dagli scribi il 4% della somma dovuta oltre a un illegittimo diritto
di bollo (cerarius). In alcuni casi le tangenti erano pagate per ottenere l’aggiudicazione di appalti. Oltre al noto caso del menzionato
Verre, che truccava le aste e alzava i prezzi dei contratti emanando
editti che imponevano esborsi supplementari per coloro che partecipavano alla gara pubblica, vi sono testimonianze di appalti di lavori pubblici che venivano gestiti illecitamente come spesso accade
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ai giorni nostri. Dalle lettere a Traiano di Plinio, governatore di Bitinia, emerge
che molte volte i lavori pubblici non venivano ultimati in base ai preventivi
fissati nel bando affinché fossero necessari ulteriori finanziamenti. In alcuni
casi, invece, venivano impiegati materiali scadenti, come nell’acquedotto di
Nicomedia in Bitinia, per il quale la comunità, dopo aver speso più di tre milioni di sesterzi, dovette sborsare altro denaro affinché i lavori fossero ultimati.
Il teatro di Nicea, sempre in Bitinia, comportò una spesa superiore a dieci milioni di sesterzi e nonostante ciò non fu mai completato.
Anche Giulio Cesare, nel lungo cammino verso la gloria, non ha disdegnato
corruttele e concussioni. Nelle Vite dei Cesari Svetonio ricorda che Cesare aveva
«vincolati a sé tutti coloro che erano vicini a Pompeo e anche una parte dei
senatori mediante prestiti gratuiti o con basso interesse e quando venivano
a trovarlo cittadini di altri ordini sociali, sia perché li aveva fatti chiamare, sia
di loro iniziativa, li colmava di ogni generosità».
Secoli dopo, Montesquieu, nelle Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani
e della loro decadenza, osservava che Crasso, Pompeo e Cesare introdussero l’uso
di corrompere il popolo con il denaro.
Tali fatti accadevano così frequentemente nell’antichità che la virtù, l’onestà
e il bene comune divennero oggetto di riflessioni filosofiche che hanno indotto la classe culturale ad acquisire consapevolezza di quali fossero i mali
delle società della propria epoca e a tentare di porvi rimedio mediante la teorizzazione di tipi di comunità in cui i circoli viziosi dovessero tramutarsi in circoli virtuosi. Platone, ad esempio, nella Repubblica aveva invitato i politici e i
cittadini ad adoperarsi per un mutamento decisivo dei loro comportamenti e
aveva proposto che fossero i filosofi a governare le città, altrimenti «non vi
sarà sollievo ai mali della città e neppure a quelli del genere umano». Inoltre,
secondo il filosofo, avrebbero dovuto essere sradicati dalla vita sociale tutti
quei fattori che potevano indurre a fare un uso del potere in funzione di interessi privati anziché di quelli comunitari. Ciò avrebbe potuto ottenersi vietando ai governanti la proprietà privata e la famiglia, in modo che essi non
avessero alcun interesse particolare da soddisfare. Il comunismo platonico
avrebbe consentito anche alle donne di svolgere attività politica, in quanto
l’abolizione della famiglia le avrebbe esonerate dalla cura della casa e avrebbe
offerto loro pari opportunità, rispetto agli uomini, nell’ambito della vita pubblica. La conduzione degli stati da parte dei filosofi era ritenuta necessaria
sia per il fatto che solo questi erano in grado di conoscere il bene o, meglio,
l’idea innata del bene – intellegibile solo da chi potesse conoscere la verità
mediante l’uso della ragione, senza farsi distrarre dal mondo ingannevole
dell’esperienza – sia perché, secondo la dottrina dell’intellettualismo etico
(cui aderivano sia Socrate che Platone), coloro che conoscevano il bene, cioè
i filosofi, non potevano far altro che praticare il bene (mentre, secondo l’op-
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posta teoria del volontarismo etico, era possibile conoscere il bene e nonostante ciò
scegliere il male, a causa del dominio delle passioni sulla ragione dell’uomo). Socrate, in particolare, sosteneva che sapere cosa è il bene rende impossibile un’azione
malvagia o criminosa, quindi il male è commesso solo per ignoranza della verità.
È dunque attraverso il sapere che l’uomo giunge al bene. Considerato che solo i filosofi possono giungere a conoscere la verità e il concetto di bene, è a essi che deve
essere affidato il governo degli stati perché, sapendo cosa è il bene, agiscono naturalmente per il bene collettivo. Il tema è stato approfondito anche nel Protagora di
Platone: Prometeo, dopo aver distribuito a tutti gli esseri viventi, per conto degli dèi,
le facoltà necessarie per una vita buona, si accorse che mancava agli uomini la «eubolia», l’assennatezza nelle deliberazioni comuni. Onde gli uomini fondavano città
per difendersi dai pericoli della vita ferina ma, una volta riuniti, scoppiavano dissidi
che li disperdevano di nuovo ed essi perivano.
Ora Zeus, temendo l’estinzione della nostra stirpe, manda Ermes a portare tra gli uomini
rispetto e giustizia (le virtù politiche), affinché fossero ornamenti e vincoli, propiziatori
di amicizia. Ermes, dunque, interroga Zeus in qual maniera dignità (Aidós) e giustizia
(Dike) si debbano distribuire tra gli uomini: “debbo io distribuirle come furono distribuite
le arti? E le arti furono distribuite così: un solo che possiede la medicina basta a molti
che non la possiedono; e così anche i cultori delle altre arti. Devo io dunque collocare
allo stesso modo giustizia e dignità tra gli uomini o distribuirla tra tutti?”. Tra tutti, rispose
Zeus, e che tutti ne abbiano parte, perché non potrebbero esistere le città se ne partecipassero pochi, come avviene per le altre arti, e poni il mio nome per legge, affinché chi
non partecipi alla virtù e alla giustizia sia ucciso come peste della città.
Sia secondo Socrate sia secondo Platone tutti sono capaci di virtù, sempreché la conoscano: la virtù esiste in sé, la si può conoscere e, poiché nessuno è malvagio se
non per ignoranza, ciò che è necessario e sufficiente per essere virtuosi e per condurre una vita rispettosa dei beni altrui e di quelli comuni è la conoscenza della virtù
e del bene. Quando tratteremo le epoche storiche successive, si vedrà che il volontarismo etico è stata la concezione che maggiormente ha trovato riscontri nella realtà, in quanto, purtroppo, nella natura umana non sempre la conoscenza coincide
con la coscienza
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L. PERELLI, La corruzione politica nell’antica Roma, Rizzoli, Milano 1994.
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