I passaggi fra le forme di allocazione

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Gian Primo Cella
I passaggi fra le forme di allocazione
1.
Limiti e attualità del modello polanyano ................ pag.
2.
Un arricchimento del modello ................................
"
11
3.
I passaggi fra le forme ed i costi di transazione ......
"
14
4.
L'incorporazione dell'economia nella società .........
"
19
5.
Successioni e compresenza delle forme: alcuni
"
24
"
31
esempi .....................................................................
6.
3
Qualche conclusione sulle ragioni di passaggio e
questioni aperte .......................................................
Questo testo rappresenta il capitolo secondo di un libro, in corso di
preparazione, dal titolo "Le tre forme dello scambio" che uscirà nel 1997 presso i
tipi de Il Mulino.
1.
Limiti e attualità del modello polanyano
Dopo la ricostruzione del modello delle tre forme di allocazione (o dei tre
principi di integrazione fra economia e società, per usare il linguaggio
polanyiano) ed averlo collocato nella sensibilità attuale delle scienze sociali,
restano da valutare i limiti e le ragioni di validità, e di attualità, del modello
stesso. Il rischio, per questo come per altri modelli famosi delle scienze sociali, è
di essere adottati per ragioni estetiche o ritualistiche: una sorta di abbellimento
delle analisi, o di doverosità del riconoscimento di paternità. Il modello
polanyiano è stato utilizzato spesso con questi intenti, il che non è molto
confortante, anche se il primo scopo (quello estetico) non è sempre da biasimare,
ed il secondo (il riconoscimento rituale) è almeno più meritorio del
disconoscimento, più o meno volontario. Il modello merita certamente una
attenzione maggiore e più esplicita, anche se i suoi limiti non sono di poco conto.
Come in tutte i grandi modelli nelle scienze sociali, anche i limiti, lo si vedrà
più oltre, permettono di seguire percorsi teorici ed analitici di interesse notevole.
Una domanda di fondo sulla sua utilizzabilità va comunque subito posta,
considerato anche che le intenzioni di queste pagine, sono dirette non tanto alla
storia del pensiero quanto alla individuazione di un modello adatto per cogliere,
descrivere, interpretare i fenomeni economico-sociali nelle società dei nostri
giorni. Quale può essere l'utilità attuale, nello studio dei rapporti fra economia e
società nella contemporaneità, di un modello partito certo dagli stimoli forniti
dallo studio delle società di mercato del XIX secolo e degli inizi del XX secolo ( e
dall' odio implacabile verso questa società, come scrisse la vedova, Ilona
Duczynska, 1983, p. XV), ma in buona parte costruito da e per lo studio delle
società arcaiche, antiche, primitive? Lo stesso Polanyi, negli scritti successivi a
La grande trasformazione, utilizzava e rielaborava il suo modello con
l'attenzione rivolta proprio a questi tipi di società. La sua sfida, teorica ed
analitica, alle pretese invadenti della teoria economica era soprattutto rivolta
verso le ambizioni di universalità di quest'ultima, ovvero alle pretese di fornire
principi interpretativi della attività economica validi in ogni tempo e luogo. Il
modello, e specie la forma della reciprocità, non viene invece sistematicamente
applicato ai fenomeni contemporanei.
Non è allora una forzatura considerarlo applicabile ai processi del welfare,
alle formazioni sociali dell'economia diffusa (con la loro spiccata incorporazione
dell'economia nella struttura sociale), ai comportamenti solidaristici nati in
reazione ai fallimenti del mercato, fino ai diffusi processi attuali di
privatizzazione o di fuga dalla politica?. Lo stesso George Dalton (1990) in una
lucida difesa del modello polanyiano, ad esempio dalle critiche degli antropologi
formalisti o degli stessi antropologi marxisti, si mostra orientato a "confinarlo"
allo studio delle economie arcaiche o primitive. E' questa del resto la critica più
diffusa (fra quelle benevoli) all'approccio polanyiano (cfr. Block e Somers, 1984,
p.69). La sua validità non si estenderebbe neanche a tutti i tipi noti di queste, ne
resterebbero escluse dalla sua portata, ad esempio, le società contadine così come
esse si trasformano nel periodo dello sviluppo post-coloniale. Anche un altro
attento critico-difensore di Polanyi come Gérald Berthoud, pur rifiutando il
I passaggi fra le forme di allocazione
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fondamento della bipartizione fra il teorico delle società primitive e arcaiche e
l'oppositore radicale della nostra modernità economica, e considerandolo
giustamente come un grande protagonista dell'approccio comparativo, sottolinea i
limiti notevoli di applicabilità del modello, a causa del suo istituzionalismo
riduttivo (troppo fondato sulle operazioni economiche materiali) e del suo
carattere prevalentemente descrittivo. Ma nel caso di Polanyi, potremmo
aggiungere richiamando Geertz (.......,?), la distinzione fra spiegazione e
descrizione si rivela assai inopportuna: nel modo di descrivere i fenomeni
economico-sociali è già ricompreso il tipo di interpretazione a cui si intende
ricorrere. Tutti questi rilievi, anche perchè provenienti da ambiti polanyiani,
dovrebbero condurre ad una certa cautela nei confronti di una applicabilità attuale
del modello.
Alla domanda posta più sopra, la risposta è negativa, con solo qualche forzatura
del modello polanyiano. Le ragioni dovrebbero essere chiare, specie per quanto
attiene al condizionamento derivante al modello dai tipi di società per i quali è
stato pensato in modo esplicito. L'antropologia, specie attraverso le grandi
ricerche classiche, fornisce a Polanyi, come ha osservato Grendi (1978, p.8),
"l'evidenza di principi e comportamenti umani nella realtà sociale che egli
confronta con gli assunti della scienza economica". Gli schemi di teoria sociale
che da queste operazioni derivano possono essere utilizzati nello studio degli
aspetti fondativi del comportamento sociale ed economico. Per discipline che
talvolta (forse troppo spesso) ricorrono alle metafore o ai "racconti" per
rappresentare il comportamento degli attori umani, può essere addirittura un passo
avanti.
Del resto, non è questo un procedere inconsueto nelle scienze sociali. Non è
forse diffusa in tutti gli studi sul comportamento umano la ricerca di punti di
partenza netti, eleganti, semplici, decantati, quasi per rispondere ad una più che
secolare sindrome da assenza di laboratorio? Si pensi ai fondamenti dell'economia
neo-classica applicati allo studio del comportamento massimizzante sul mercato
concorrenziale (da Menger e Pareto in avanti), alle applicazioni macro-sociali
degli schemi teorici tratti dalla analisi dei piccoli gruppi (da Homans a Blau), alle
estensioni (non sempre convincenti) della teoria dei giochi (da Schelling a Elster),
alle interpretazioni dell'ascesa e del declino delle nazioni sulla base dei paradossi
dell'azione collettiva (Olson), fino alle applicazioni macro-sociali della psicanalisi
(dall'ultimo Freud alla Klein).
Non si vuole tanto con questo sostenere che l'argonauta trobriandese fornisca
spunti interessanti per comprendere, ad esempio, le scelte del cittadino dei nostri
giorni alla ricerca di nuove forme di protezione sociale, dopo la crisi del welfare
pubblico. Si vuole piuttosto ricordare, anche attraverso la materialità della ricerca
antropologica, come i modelli di comportamento corrispondenti a diverse forme
di integrazione fra economia e società, siano molteplici, non riconducibili a quello
economico oggi presunto dominante. Una pluralità di modelli di assetti
istituzionali, di azione economica, di uomo (per usare un'immagine à la Simon).
Si potrà dire che in Polanyi gli assunti non dimostrati abbiano un peso notevole,
ad esempio quelli sulla immutabilità dell'uomo come essere sociale. Sono assunti
che possono disturbare specie in assenza di una teoria di collegamento fra sfera
micro e sfera macro. Ma su questo ritornerò più avanti nel capitolo terzo.
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I passaggi fra le forme di allocazione
In coerenza con questa impostazione é Polanyi stesso a ricordare, lo si è già
osservato, che se la tecnologia si accumula in modo illimitato, non altrettanto si
può dire delle forme di organizzazione economica della società. L'assenza di una
impostazione evolutiva ed il rifiuto di concetti come sviluppo e sottosviluppo,
sono corollari necessari del modello polanyiano. Le forme di integrazione fra
economia e società (con i corrispondenti principi di integrazione) sono in numero
limitato e tendono a riproporsi, talvolta in modo ciclico. Basti pensare al
movimento complesso per la protezione sociale che si è innescato come reazione
alle "offese" del mercato sul tessuto della società, sulla sua rete di relazioni, e che
ha teso a ricostituire, ad esempio in non pochi comparti del mercato del lavoro,
situazioni protette di tipo comunitario se non corporativo1.
L'assenza di schemi evolutivi è provata dalla possibilità della com-presenza
delle forme: ogni forma non è mai totalmente vincente sulle altre e sono sempre
possibili ritorni di forme passate, specie di quelle (come la reciprocità) più
intimamente strutturate entro i rapporti sociali. Polanyi sembrerà limitare questi
ritorni alla forme della redistribuzione (o della politica), e tuttavia una coerente
applicazione del suo modello può ben prevedere più ampi movimenti di carattere
ciclico. Anche se, lo si vedrà più oltre, resta impregiudicato il discorso sulle
ragioni dei passaggi fra le diverse forme. Sulla non proponibilità di visioni
evolutive vi è oggi una certa concordanza negli studi sul welfare e sulle economie
diffuse, come anche nella letteratura sui distretti industriali. Per lo studio di questi
fenomeni l'opera di Polanyi, e specie il modello di cui ci si occupa, è in grado di
fornire uno schema descrittivo (e interpretativo ) fondato sia dal punto di vista
storico che da quello antropologico.
Invero, significative obiezioni hanno riguardato la documentazione storica e
antropologica usata da Polanyi (e dai suoi collaboratori) per definire e fondare il
modello delle forme di integrazione. Sul piano storico, il confronto più
interessante è quello che si svolge, a distanza di più di un ventennio, con l'opera e
le argomentazioni di Fernand Braudel. Per alcuni aspetti sembrebbe possibile
rilevare l'ammirazione, se non l'identificazione, di Braudel verso l'approccio
polanyiano. Per quanto attiene alla storia dei mercati, anche lo storico francese
concorda sulla non proponibilità di semplici e lineari processi evolutivi : "in
questo campo il tradizionale, l'arcaico, il moderno, il modernissimo si affiancano.
Ancora oggi" (1981, vol.II, p.4). Il lungo periodo e l'approccio largamente
comparativo si impongono: "Il campo di osservazione ideale dovrebbe estendersi
a tutti i mercati del mondo, dalle loro origini fino ai giorni nostri. E' questo
l'immenso settore affrontato con passione iconoclasta da Polanyi." (id.).
Ma, accantonato l'entusiasmo, subito si manifestano le perplessità: come è
possibile , continua Braudel, ricomprendere nello stesso meccanismo esplicativo
gli pseudo-mercati di Babilonia, i circuiti dello scambio primitivo, i mercati e le
reti mercantili dell'Europa dell'ancien régime? Con questa inclusione forzata si
1
In questa chiave può essere letto lo straordinario e provocatorio contributo di Frank
Tannembaum, A Philosophy of Labor (1951). Uno storico che aveva insegnato negli
stessi anni di Polanyi alla Columbia University, e che per vicende umane e biografia
intellettuale, oltre che per l'origine mitteleuropea, mostrava molti tratti in comune con
il nostro autore.
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accentuano le caratteristiche di singolarità dei moderni mercati concorrenziali,
autoregolati, e si costringe a limitare ad essi, in senso proprio, l'appellativo di
mercato. Ma questi mercati autoregolati di cui parla Polanyi come l'eccezione che
compare fulminea sulla scena europea del XIX secolo, nascerebbero solo da un
"gusto teologico della definizione" (ib., p. 214). Polanyi e la sua scuola avrebbero
forzato la definizione, accentuandone gli aspetti "economici", per avere la
legittimitazione di contrapporre il mercato, così definito, alle altre forme di
scambio. In effetti tutte e tre le forme sarebbero contemporaneamente economiche
e sociali, ed il mercato e le sue logiche di funzionamento risalirebbero ben
indietro nella storia dell'economia. Braudel, seguendo in questo l'impostazione di
North, ritiene che Polanyi sbagli nel non considerare economici i comportamenti
compresi nella forma della reciprocità ed in quella della redistribuzione.
L'economia di mercato si sarebbe formata gradualmente, passo per passo, dalle
città greche alle città medievali. Il modello polanyiano sembra colpito a fondo: da
una parte per l'eterogeneità dei materiali storici su cui si fonda, dall'altra per gli
eccessi definitori, quasi per l'eccesso di reificazione degli schemi teorici. In
conclusione, ce lo ricorda Salsano (1987, p. XXIII), Braudel sembra quasi
contrapporre uno schema interpretativo alternativo a quello di Polanyi, proprio a
partire dalla questione del mercato e della sua presenza magari imperfetta entro le
basi materiali delle diverse società storiche.
Rilievi e critiche condotti a partire dalla eterogeneità dei fondamenti storici del
modello, ed anche della loro strumentalizzazione per i fini definitori non sono
mancate, anche da altre autorevoli fonti. Critiche che sono state tuttavia, in non
pochi casi, compensate da clamorosi riconoscimenti. Sulla selettività della
documentazione tratta dalla storia antica, si sofferma North (1977, p.107), un
autore peraltro dal quale, come si vedrà, non mancheranno apprezzamenti per lo
sforzo polanyiano. Così è potuta apparire abbastanza inattesa "la trascuranza di
studi sulle società europee di antico regime e medievali; una tipica 'fase di
transizione' che mal si adattava forse ai presupposti tricotomici dei principi di
integrazione" (Grendi, 1978, p.32). Una trascuranza che può essere spiegata,
anche se non giustificata, con la ricerca di Polanyi di tipi puri, o di combinazioni
di questi tipi, al fine di fondare saldamente la sua analisi istituzionale. Sarà forse
per questo, lo si è già ricordato, che abbandonerà nel corso della sua riflessione un
tipo di integrazione "spurio" come quello della economia domestica.
La osservazione, in buona parte condivisibile, di Grendi è comunque
ridimensionata dalla affermazione di uno dei più grandi storici medievali europei,
Jacques Le Goff che nel suo saggio sull'usura e sulla straordinaria invenzione
liberatoria del purgatorio, dichiara senza mezzi termini :"L'unico storico e teorico
moderno dell'economia che possa aiutarci a capire il funzionamento dell'
'economico' nella società medievale mi sembra Karl Polanyi" (1987, p.13). E
questo per la efficacia della categoria della reciprocità nello spiegare in termini
teorici gli scambi economici che intercorrono in una società strutturata su reti di
relazioni feudali e di ordine religioso. Ed anche per la capacità della analisi
istituzionale polanyiana di render conto di situazioni nelle quali i fatti economici
sono fortemente incorporati (embedded) entro rapporti sociali di ordine non
economico.
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Altri rilievi, invero meno opportuni, sono giunti a mettere in dubbio la reale
consistenza della visione non evolutiva di Polanyi. Fra questi, spicca quello di
Silver che sostiene come Polanyi, nonostante la sua critica delle teorie degli stadi
per la loro predilezione per la continuità, elaborò a sua volta una visione
personale della continuità nella storia, comprimendo sotto la dizione di società
arcaica molte migliaia di anni di vicende storiche. "Questa prospettiva - si osserva
(Silver, 1983, p.795)- gli impedì di riconoscere che la antica Mesopotamia
esperimentò lunghi e significativi periodi di libera attività di mercato tanto quanto
periodi di pervasiva regolazione statuale ".
Anche sugli aspetti antropologici i rilievi non sono mancati, a partire da quelli
già ricordati provenienti dalla scuola formalista. Inoltre è stato notato come le
ricerche "post-polinesiane" conducano ad attribuire al processo di produzione un
posto più centrale di quello rieservatogli da Polanyi nel suo modello delle forme
di integrazione dell'economia, fondato sopratutto a partire dalle modalità di
interazione fra i soggetti, individuali e collettivi, nei processi di "distribuzione"
dei beni. Sulla necessità di un certo adattamento di tale modello sembra convenire
anche G.Dalton, uno degli allievi più stretti di Polanyi (cfr. Valensi, 1974,
p.1316). Sono rilievi che sembrerebbero in qualche modo in qualche modo ridare
peso alle critiche condotte dagli antropologi marxisti come Godelier (1978) e
centrate sulla tendenza di Polanyi a "confondere" ogni volta nelle tre forme di
integrazione, sotto lo stesso termine, realtà differenti come "i rapporti di
produzione e le forme di circolazione del prodotto sociale" (p.XLI). Sono critiche
che però appaiono provenienti da esigenze di osservanza teorica o tutt'al più da
ipotesi di ricerca non ancora verificate sul terreno. La stessa posizione teorica di
Polanyi, come la sua ispirazione culturale, sono consapevolmente distanti, se non
avverse alla tradizionale visione marxiana sul primato dei rapporti di produzione
nei confronti delle forme di distribuzione, di interazione sociale, di consumo. Ed
almeno per quanto attiene alle società pre-capitalistiche la posizione di Polanyi
resta teoricamente ed empiricamente fondata (cfr. Ruggiu, 1982, p.269).
Questo insieme di critiche (ed altre ancora che non sono state qui ricordate),
pur rilevante che appaia, non sembra tuttavia togliere forza descrittiva e capacità
interpretativa allo schema (al modello) analitico di Polanyi sulla tripartizione
delle forme di integrazione. Per quanto attiene alle critiche provenienti dagli
storici dell'antichità esse, come ha notato in modo opportuno un assiriologo
ungherese (G. Komoróczy, 1990, pp.188-191), possono essere in buona parte
accolte senza per questo pregiudicare l'apporto più prezioso dell'approccio
polanyiano, che resta soprattutto un apporto di metodo nella ricerca storicosociale. Polanyi avrebbe soprattutto trasformato fenomeni sostantivi in categorie
tipologiche, rendendo possibile fra l'altro un'ottica comparativa di spettro molto
ampio. E' in fondo una interpretazione "weberiana" del modello polanyiano, che
spiega il permanere della sua efficacia, ed attualità. Alle critiche braudeliane,
giustificate almeno in parte sugli aspetti riguardanti le diffusione dei mercati
nell'Europa pre-industriale,
è possibile rispondere ricordando la loro
indeterminatezza teorica e metodologica, pur all'interno di un apporto di fascino
straordinario (il grande affresco su capitalismo e civiltà materiale). "L'insieme di
tutte le teorie non è una teoria", ha notato C.Tilly (1984, p.65) a proposito
dell'opera monumentale di Braudel, e troppo spesso le domande più interessanti
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restano senza risposta: "Almeno per i tempi attuali, la cosa migliore è trattare il
gigantesco saggio di Braudel come una fonte di ispirazione, piuttosto che come un
modello di analisi" (ib., p.74).
Lo schema polanyiano permette insomma, sui temi dei rapporti tra istituzioni
economiche e rapporti sociali e sulle diverse caratteristiche dei principi di
integrazione e dei meccanismi di allocazione, di render conto delle trasformazioni
passate e di buona parte delle trasformazioni in corso nelle società
contemporanee, almeno per quanto attiene agli aspetti istituzionali. Nessuna
obiezione di carattere storico o antropologico è sembrata in grado di rilevarne la
superficialità. Significativi riconoscimenti, come quello ricordato di Le Goff, ne
hanno rilanciato la capacità interpretativa. Le recenti trasformazioni ne provano
alcune intuizioni. Un filone di riflessione (quello storico-antropologico) sostiene
l'altro (quello di ordine più sociologico) e viceversa. Se tali sono le qualità del
modello, le obiezioni particolari fino a questo punto ricordate, anche se rillevanti,
non ne pregiudicano la validità complessiva come quadro di riferimento per la
ricerca sociale.
Per quanto attiene alle premesse epistemologiche ed allo spessore teorico
dell'opera di Polanyi (ed in particolare del suo modello tripartito) è stata osservata
da alcuni commentatori una certa indeterminatezza di posizioni e messa in luce
una debolezza teorica dell'insieme. Su questa linea sembra propendere Grendi
(1978, p.31) quando osserva l'assenza in Polanyi di una esplicita teoria generale
che costituisca le basi per una nuova scienza economica comparativa, una "certa
crudezza terminologica (embedded-desembedded)", e la natura di "semplici
espedienti prammatici" dei grandi principi di integrazione. In questa critica si
solleva in definitiva una accusa di fragilità teorica e di ingenuità epistemologica.
E sarebbe una accusa di non poco conto, se proprio agli aspetti teorici e
metodologici coinvolti dal modello, dobbiamo rifarci per utilizzarlo entro contesti
in parte differenti da quelli per i quali era stato elaborato, anche dopo i
significativi rilievi condotti su i suoi fondamenti storico-antropologici.
Ma, questioni lessicali a parte, tali rilievi mettono in luce proprio alcuni
caratteri apprezzabili ancora oggi dell'impostazione polanyiana, ovvero la
capacità di opporsi ad una posizione teorica imperante, se non imperialista (quella
del modello economico) senza contrapporre una teoria simile, ma attraverso un
sapiente equilibrio di analisi storica-antropologica, interpretazioni in chiave
istituzionalista, ridimensionamento del modello dominante (come nel caso della
introduzione del concetto di economia sostanziale). Un modo tutto particolare ma
efficace, se non di risolvere, almeno di ridurre, dopo molti decenni, il
Methodenstreit ottocentesco. "La debolezza dell'apparato teorico di Polanyi è solo
apparente - hanno notato opportunamente Lombardi e Motta (1980, p.250)- in
realtà egli ha mirato, acutamente, attraverso l'empiria dell'antropologia, a
realizzare un quadro pragmatico e microanalitico, teso a recuperare la vera
dimensione storica di istituzioni ed economia. Se v'è carenza teorica (o
macroteorica) in Polanyi, essa è probabilmente voluta. Sia formalmente che nei
contenuti, Polanyi rifiuta le etichette teoriche e metafisiche". Il rischio, corso ad
esempio dai marxisti, è quello di scambiare per anti-teorico un atteggiamento
anti-ideologico (sia pure animato da passione), e per debolezza teorica un
"teorico" atteggiamento di diffidenza verso le teorie generali, o universali.
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Da questo punto di vista , se vogliamo riprendere le categorie (i "pregiudizi")
che Boudon ( 1984, capp. III, IV,V) avanza per criticare le teorie del mutamento
sociale si potrebbe sostenere che Polanyi evita il pregiudizio nomologico
(ovvero la pervicace ricerca di leggi generali del mutamento). Questo significa fra
l'altro il rifiuto della validità generale ed universale della teoria economica. Anche
se non sfugge al pregiudizio strutturalista, ovvero la ricerca della coerenza delle
strutture nei confronti del mutamento e la concezione realistica delle stesse
strutture. Questo succede sia con il concetto di società (troppo spesso interpretato
con le caratteristiche di un attore sociale), ma anche con la definizione tripartita
delle forme di integrazione. E neanche è alieno dal pregiudizio ontologico ,
ovvero la ricerca di un eterno primum mobile, che siano i conflitti, i valori, le
cause endogene rispetto a quelle esogene, ecc. Un pregiudizio in cui Polanyi
incorre almeno nella sua considerazione della immutabilità della natura sociale
dell'uomo.
Riguardo ad una presunta ingenuità è certamente vero che risultano scarsi e
casuali in Polanyi gli approfondimenti epistemologici di carattere sistematico.
Ma, come è stato osservato da Ruggiu (1982, p.295), non sarebbe opportuno
considerare questa carenza come sintomo di una manifestazione ingenua o come
espressione di insofferenza nei confronti delle coordinate filosofiche delle proprie
linee di riflessione. Chi ha studiato la formazione intellettuale di Polanyi nella
Vienna dei primi decenni del secolo (come Salsano,1974, nella introduzione
molto bella all'edizione italiana di La grande trasformazione) ha messo in luce
l'orientamento empiriocriticista del suo pensiero, sotto l'influenza di Mach (fin
dagli anni del Circolo Galilei di Budapest), un orientamento che conduce alla
limitazione al fattuale degli sforzi conoscitivi.
E' sulla base di questo atteggiamento empiristico e pragmatico che Polanyi
matura la sua differenza del marxismo e mostra la sua lontananza da quelle
"suggestioni hegelo-marxiste" che negli stessi anni venivano avanzate da Lukàcs
nelle pagine di Geschichte und Klassenbewusstsein (Ruggiu, 1982, p.297). Come
ha ricostruito lo stesso autore, "se non esiste nulla al di là di ciò che è
empiricamente descrivibile, le relazioni economiche e più in generale quelle
sociali debbono essere empiricamente date, accertate volta a volta in relazione alle
diverse situazioni storiche e sociali, non costituite una volta per tutte sulla base
assunzioni non verificabili nella loro valenza universale, come avviene in
rapporto alla concezione formale e a quella classica dell'economia" (ib., p.297). A
ricordare il formarsi di questo orientamento sta la stessa testimonianza di Popper
nella sua autobiografia (1976. p.22), che risale alle discussioni avute con Polanyi,
in merito alla compatibilità del "nominalismo metodologico" con le scienze
sociali, discipline che non si possono considerare libere dalla "discussione
verbale"2. Su questi aspetti, comunque, la riflessione di Polanyi non sarà sempre
2
Popper, si legge ancora nella sua autobiografia, coniò la dizione "nominalismo
metodologico", per distinguersi dal nominalismo tradizionale e per evidenziare che il
suo problema, "in quanto opposto al problema classico degli universali" era soprattutto
un problema di metodo. La dizione interpretava la sua esortazione antiessenzialista:
"Quel che deve essere preso sul serio sono le questioni di fatto e le asserzioni su fatti:
teorie e ipotesi; i problemi che risolvono; e i problemi che sollevano" (p.21).
I passaggi fra le forme di allocazione
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coerente, ed incorrerà talvolta, come osservato più sopra, nella trappola del
realismo.
In questo quadro non c'è da meravigliarsi che Polanyi non sia stato promotore
di alcun nuovo approccio teorico nell'economia. Questo non era nei suoi scopi e
non corrispondeva alle premesse filosofiche della sua riflessione. Egli ricercava
piuttosto una visione dell'economia che fosse compatibile con la sua analisi
istituzionale e con il modello delle forme di integrazione, che non fosse insomma
costruita esclusivamente da e per la forma del mercato. In questa direzione,
definita precisamente nei suoi obiettivi, la concezione sostanziale dell'economia
mostra una efficacia non trascurabile. Essa costituisce una ispirazione che
favorisce l'interpretazione delle transazioni entro la forma della reciprocità ed
anche della affermazione delle istituzioni di protezione della società dal mercato.
In conclusione, il modello tripartito delle forme di integrazione dell'economia
(ed anche di regolazione degli scambi) proposto da Polanyi nel corso di una
riflessione più che ventennale, mantiene oggi, nonostante alcune incertezze di
tipo teorico-metodologico, tutta la sua utilità per la ricerca sociale. Esso si
dimostra più capace di cogliere i nessi fra comportamenti economici, strutture
sociali, quadri istituzionali dei modelli à la Lasswell o à la Easton. Semmai con
questi ultimi può essere efficacemente integrato almeno negli aspetti che
riguardano la forma della redistribuzione, ovvero la forma politica per eccellenza.
Chi infatti ha detto meglio di Easton che "la proprietà di un atto sociale che dà a
questo un aspetto politico è la relazione di quest'atto con la destinazione
imperativa dei valori per una società" (1963,p119)?
Ma il contributo forse più originale di Polanyi, come ho già rilevato nel
capitolo precedente, va ricercato nella sua elaborazione della forma della
reciprocità, specie nei suoi rapporti con una coerente struttura sociale
corrispondente. Una struttura che richiede e promette simmetricità attraverso i
legami di sangue, amicali, comunitari, ed anche associativi. Un insegnamento, fra
l'altro, spesso dimenticato ai nostri giorni in alcune troppo "volontariste"
proposte di rilancio del volontariato all'interno del cosiddetto "terzo settore".
Riguardo alla forma del mercato, se un rilievo può essere condotto all'analisi di
Polanyi esso riguarda la mancata considerazione di quei valori tradizionali, precapitalistici, anche di ordine religioso, che contribuiscono al regolare
funzionamento del mercato. Sul ruolo di valori come l'onestà e la fiducia (che
assicurano l'assolvimento dei contratti) o la morigeratezza, l'auto-contenimento, la
rinuncia (che rendono possible il controllo o il differiemnto delle aspettative) e
lungo un percorso di riflessione che risale fino a Durkheim, hanno insistito diversi
autori come Arrow (1974), Bell (1978), Hirsch (1981), Gambetta (1989).
Contributi che per rifarsi alla già ricordata tipologia di Hirschman (1982) sulle
interpretazioni della società di mercato stanno a cavallo fra la tesi della selfdestruction e quella dei feudal-blessings. E' lo stesso funzionamento del mercato
capitalistico a rendere vani o vuoti valori così essenziali per la sua stessa
sopravvivenza. Da questo punto di vista il mercato, e la società di mercato,
entrano in crisi di trasformazione non solo per l'instaurarsi delle istituzioni della
protezione sociale (prime fra tutte quelle di di welfare), ma anche per il venir
meno di questi valori tradizionali. Su questi aspetti il modello di Polanyi è invero
troppo semplice o forse troppo animato da un'ansia (questa sì alquanto datata!) di
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I passaggi fra le forme di allocazione
liberazione dagli effetti "distruttivi" del mercato. Quest'ansia portava a a giudicare
il mercato più autonomo e specifico rispetto alla società ed ai suoi valori di
quanto in realtà esso fosse (cfr. Granovetter, 1985, e le critiche già ricordate di
F.Braudel).
Ma non sono questi i limiti più rilevanti del modello, che si ritrovano piuttosto
negli aspetti dinamici, ovvero nelle modalità e nelle ragioni di passaggio fra una
forma e l'altra. Mettere in luce questi limiti permetterà un interessante
ampliamento del modello. Sarà questo il cammino che verrà percorso nelle
pagine successive di questo libro, non prima però di aver descritto brevemente,
nel prossimo paragrafo, un possibile arricchimento della tipologia stessa al centro
del modello polanyiano.
2.
Un arricchimento del modello
Un interessante arricchimento del modello polanyiano fondato sulla formula
"trinitaria" è giunto, spesso in forma implicita, da quei contributi che, sull'onda
della letteratura degli anni '70 sul neo-corporativismo o più semplicemente sul
pluralismo organizzato, hanno individuato un possibile quarto criterio di
regolazione, o una quarta forma di allocazione.
Per accogliere questi contributi, e queste sollecitazioni, provenienti da una
letteratura di scienza politica o di political economy, occorre però , se non
adeguare, almeno leggere il modello dall'ottica delle modalità e dei criteri di
regolazione sociale. Non è una forzatura eccessiva, ed è anzi talvolta già stato
fatto nelle pagine precedenti, ma è tuttavia necessario per spostare l'attenzione
dalla allocazione di beni e servizi, come obiettivo finale dei diversi tipi di
transazione, verso l'ordine sociale (e politico). Dall'ottica delle forme di
regolazione, lo scopo delle diverse forme è quello del raggiungimento di forme
più o meno soddisfacente di ordine sociale. In questo senso non sono in gioco
solo transazioni di tipo economico, ma anche ogni altro genere di "valori" (ad es.
beni immateriali come beni di riconoscimento o beni di identità). Questi beni
possono accompagnarsi a beni materiali, come nello scambio di doni compreso
nelle prestazioni totali di cui parla Mauss, ma anche procedere nelle transazioni
con una certa indipendenza, si pensi alle rivendicazioni dei gruppi sociali
emergenti alla ricerca della propria costituzione come attori sociali riconosciuti.
In questo secondo caso la forzatura del modello è maggiore, ma le transazioni
possono essere considerate non solo in chiave metaforica.
La quarta forma ed il quarto criterio di regolazione si fondano sulle
associazioni (più o meno volontarie) in quanto strutture sociali coerenti con una
forma istituzionale specifica. Come le strutture familiari, amicali, comunitarie;
l'apparato politico-burocratico; le istituzioni dei mercati autoregolati lo erano
rispettivamente per la reciprocità, la redistribuzione, lo scambio di mercato.
Questo criterio "associativo" secondo il ben noto saggio di Streeck e Schmitter
(1985), che abbiamo già ricordato per la inattesa dimenticanza del modello
I passaggi fra le forme di allocazione
11
polanyiano, acquisterebbe autonomia ed una rilevanza propria3. Identificata in
base "al principio guida dell'interazione e della allocazione delle risorse" potrebbe
essere definita come "concertazione organizzativa, in opposizione a solidarietà
spontanea, competitività dispersa e coordinazione gerarchica" (ibid.,p.49).
L'importanza di questa forma e di questo criterio, e la attribuzione ad essi di uno
status teorico simile a quello di comunità,mercato, e stato, dicono gli autori, sono
dovuti soprattutto all'emergere negli anni '60 e '70 nelle società industriali
avanzate di forme di concertazione e di contrattazione degli interessi non
riconducibili, come logica e come processi, alle tre forme precedenti4.
Gli autori si sentono sicuri sullo status teorico di questa quarta forma, pur
ritenendo fuorviante "l'idea di un sistema corporativo-associativo sociale o
politico globale (Ibid., p.82)". Anche se in taluni casi, ad esempio nel controllo
dell'inflazione, i risultati della regolazione associativa possono essere più efficaci
dal punto di vista economico, sociale, politico-normativo rispetto alle altre forme
utilizzabili (il mercato e la politica). E' certo che non è ancora impostato (e
risolto) in modo soddisfacente il problema della specificità e della autonomia di di
questa quarta forma rispetto alla forma contigua, la politica, o la redistribuzione,
in termini polanyiani. E' questa infatti la forma confinante con quella associativa,
non quella della reciprocità dove se le associazioni operano per permettere il
buon fine delle transazioni (come le associazioni di volontariato) lo fanno al loro
interno e sulla base di norme e fini comuni. Un carattere che non è
necessariamente presente nella regolazione "associativa" in senso stretto. Da
questo punto di vista, ricordano Streeck e Schmitter (pp.60-61) nella forma della
comunità, le preferenze e le scelte degli attori sono interdipendenti; nell'ordine del
mercato concorrenziale sono indipendenti; nell'ordine della politica sono
dipendenti dal coordinamento gerarchico; nell'ordine corporativo-associativo sono
interdipendenti ma in modo strategico.
E' per questa vicinanza alla forma della redistribuzione che Polanyi, sempre
alla ricerca di forme "pure", forse non l'avrebbe accettata. Del resto, anche i
nostri autori ammettono che la delega di funzioni statali di coordinamento (tipica
di questa quarta forma) "deve essere accompagnata da una simultanea
acquisizione da parte dello stato della capacità di disegnare, guidare e tenere sotto
controllo i nuovi sistemi di autoregolazione " (ibid., p.79). Tuttavia l'utilizzazione
di interessi categoriali, ovvero parziali, al fine di costituire un ordine sociale di
portata ben più ampia rispetto alle categorie stesse, come l'idea che che le
associazioni (fonti di disordine politico nei modelli dell'individualismo liberale)
possano diventare fonti di ordine politico, sociale, economico, concedono
3
Una interessante applicazione nei diversi settori dell'economia americana di un
modello di regolazione quadripartito del tutto simile a quello che qui si discute la si
ritrova in Hollingsworth e Lindberg (1991).
4 In effetti questo criterio "associativo" potrebbe essere di qualche utilità per descrivere
ed interpretare fenomeni che risalgono ben più addietro nella storia, rispetto ai decenni
del secondo dopoguerra. Mi riferisco ad esempio a quella formazione che ha
rappresentato fra il XII ed il XVII secolo il modello anseatico: uno stato senza
territorio, una lega di mercanti che non rinunciava alla guerra, una comunità fondata
anche sul permanere di interessi contrastanti (su questo si veda la affascinante ricerca
che sta conducendo A.Pichierri, Il modello anseatico).
12
I passaggi fra le forme di allocazione
notevole plausibilità a questa supposta, e pretesa, autonomia concettuale5. Sia
pure con qualche cautela, possiamo accettare allora questo arricchimento al
modello polanyiano, utile in particolare nel render conto delle trasformazioni dei
criteri di regolazione nell'età e nei luoghi del pluralismo organizzato. Nel corso
delle parti rimanenti, mi riferirò dunque al modello nella sua forma originaria,
dando però per scontata questa possibile integrazione di una quarta forma.
Un arricchimento del modello forse ancor più necessario, potrebbe riguardare
l'affiancamento, o la sovrapposizione, di una tipologia dei diversi beni e servizi
oggetto delle transazioni, del tutto assente nella impostazione polanyiana. E' un
limite che si svela non tanto nella sua applicazione alle società primitive o antiche
quanto nella sua utilizzazione per l'analisi della società contemporanea. Quali
sono i beni o servizi tipicamente allocati attraverso la reciprocità, la
redistribuzione, lo scambio di mercato? Quali le diverse caratteristiche qualitative
e quantitative che i beni possono assumere a seconda della forma di integrazione
dell'economia entro la quale sono allocati. Manca in Polanyi non solo una teoria
dei beni pubblici ma anche una distinzione fra "ricchezza democratica"
(allocabile senza problemi entro il mercato) e "ricchezza oligarchica" (disponibile
per pochi, non per tutti) del tipo di quella proposta da Harrod e ripresa più tardi
nello straordinario contributo di Hirsch (1981).Saranno anche i fallimenti del
mercato nella allocazione di alcuni tipi di beni e servizi, e i diversi caratteri che
gli stessi assumono nelle diverse forme di integrazione a spiegare i passaggi di
allocazioni da una forma all'altra. Va detto che precisazioni e arricchimenti di
questo tipo entro il quadro analitico di Polanyi restano sempre possibili ed anzi
auspicabili. Non verranno però condotti nel corso di questo volume, anche se
taluni di questi aspetti verranno sfiorati, specie nel capitolo IV.
3.
I passaggi fra le forme ed i costi di transazione
Ricostruito, con degli opportuni arricchimenti, il modello polanyano delle tre
forme di integrazione fra economia e società (e dei principi di allocazione)
emergono subito, come abbiamo ricordato più sopra, domande di grande rilievo,
centrate sugli aspetti dinamici: come una forma si sostituisce ad un'altra? Ovvero,
come si passa da una forma all'altra? Quali meccanismi sociali (per usare
volutamente una dizione molto meno impegnativa di legge sociale) sono messi
5
Questi contributi all'ordine generale potremmo ascriverli nel novero delle
conseguenze intenzionali delle decisioni prese dalle autorità politiche e dalle parti
associative in gioco. In altri casi, è stato osservato nell'ambito della Rational Choice
Theory (Hechter, D.Friedman, Kanazawa, 1992) il contributo all'ordine è frutto di
conseguenze non intenzionali (ad esempio le associazioni di tipo deviante o criminale
che controllano con efficacia il comportamento dei loro membri) e comporta
implicazioni controintuitive (più deviante è il contesto dell'ordine locale, maggiore
potrebbe essere il contributo relativo all'ordine generale). Questo accade in specie
nele società eterogenee del tipo delle società di immigrazione come gli Stati Uniti. In
esse l'ordine sociale è un bene collettivo, ma l'ordine sociale globale è un sottoprodotto
non richiesto esplicitamente dai singoli gruppi sociali (pp.81-92).
I passaggi fra le forme di allocazione
13
all'opera in passaggi di questo tipo? Se non sono utilizzabili spiegazioni di tipo
evolutivo, quali altre spiegazioni sono proponibili per render conto della
successione comunque rilevabile fra le forme? A queste domande, collocabili con
maggiore o minore certezza nella sfera macro-sociale, se ne connette un'altra,
fatidica negli studi istituzionali: sono i cambiamenti progressivi nelle interazioni
individuali a condurre ai cambiamenti nelle macro-strutture istituzionali, oppure
sono queste ultime ad innescare quelli nelle relazioni "economiche" (specie in
senso sostanziale) fra soggetti? E le domande, come si può prevedere, si
amplificano se si legge il modello, come talvolta faremo, dall'ottica della
regolazione sociale.
Queste domande si pongono sia in senso diacronico che in senso sincronico.
Tanto per rifarsi ad un esempio che riguarda da vicino questo finale del XX
secolo, e sul quale mi soffermerò nel capitolo IV, si può ricordare il caso delle
"privatizzazioni", ovvero del clamoroso restringimento dell'area di intervento
pubblico nell'economia. Le domande si pongono in ordine al succedersi ad una
fase di grande estensione dell'intervento pubblico, coincidente a grandi linee con
l'età della "grande trasformazione" polanyiana e con l'avvento della cosiddetta era
keynesiana , di una fase di generalizzato ritorno alla allocazione di mercato (o
così pretesa). Ma le domande sono proponibili anche sulle diversità di stili di
privatizzazione fra un contesto istituzionale e l'altro, sulle modalità di
realizzazione del processo, sulle preferenze dei soggetti, sulle differenti procedure
di definizione dei confini fra le forme o fra le aree (i confini fra "pubblico" e
"privato"), sulla maggiore o minore estensione dei provvedimenti nei diversi
settori economici, o di intervento pubblico consolidato.
Delle risposte teoriche soddisfacenti a questi tipi di domande dovrebbero allora
applicarsi ad entrambi le grandi categorie di passaggi, o di cambiamenti, fra le
forme, od agli stessi passaggi considerati sotto le due ottiche, diacroniche e
sincroniche. Si capisce subito la ragione di questa doppia applicazione;
limitandosi alla prospettiva diacronica sarebbe inevitabile la tentazione di rifarsi
alle grandi cause del mutamento storico, le "rivoluzioni" dell'età moderna, ad
esempio, quelle che conducono a sconvolgimenti più o meno rapidi e violenti di
interi sistemi politici. Queste cause non ne escluderebbero altre, tuttavia
resterebbe decisiva la loro influenza complessiva. L'avvento della forma di
mercato sarebbe allora riconducibile al diffondersi di quell'individualismo
possessivo che seguì alla rivoluzione borghese nell'Inghilterra del XVII e XVIII
secolo. L'imponente affermazione della forma della redistribuzione, ovvero della
allocazione attraverso la politica, deriverebbe direttamente dall'affermazione
delle rivoluzioni socialiste, e prime fra tutte di quella bolscevica. L'estensione
dell'intervento pubblico, con il connesso forte
ridimensionamento della
allocazione di mercato seguirebbe all'imporsi di quell'era cosiddetta keynesiana,
che se non la violenza certo con le grandi rivoluzioni politiche condivideva
l'ampia portata delle trasformazioni politiche, economiche, sociali.
Entro questo quadro interpretativo nessuno spazio verrebbe attribuito agli
attori, costretti ad adeguarsi senza residui alle istituzioni dominanti, ma gli oggetti
della spiegazione (le forme di integrazione e di allocazione e la loro successione)
si troverebbero ad essere ben "determinati". Una volta nate sulla scena dello
14
I passaggi fra le forme di allocazione
sviluppo storico, la loro adozione in ambienti lontani o esterni da quelli di origine
avverrebbe poi per adozione, per competizione, per emulazione.
Ma il contributo fornito alla domanda di carattere teorico non sarebbe
altrettanto decisivo. Come spiegare, ad esempio, la compresenza delle diverse
forme? Si potrebbe osservare che, per quanto attiene, alla libertà contrattuale e di
iniziativa economica la rivoluzione francese era già stata iniziata da Turgot nel
1776 attraverso un editto che aboliva tutte le corporazioni (Lefebvre, 1958, pp.5657). E che dire della riapparizione inattesa di forme di allocazione passate e
sconfitte all'interno di assetti economico-politici di tipo "esclusivo"? L'esempio
storico più clamoroso resta quello della NEP , ovvero di quella "nuova politica
economica" rivolta alla reintroduzione di elementi di capitalismo e di libertà di
commercio, specie in agricoltura, che nella Russia bolscevica successe nel 1921
alla fase del "comunismo di guerra" ovvero ad una fase di redistribuzione forzata
attuata attraverso una radicale concentrazione del potere economico e la
sostituzione dell'economia di mercato con una economia "naturale" (Carr,1964,
pp. 678-679)6. E come non ricordare non solo le possibilità di scelta fra le diverse
forme che sono spesso presenti per i soggetti, ma anche gli spazi di autonomia
nei quali operano i decisori che pongono mano alla revisione degli assetti
istituzionali? Sulla prima possibilità ci si può rifare a quelle esperienze di scelta
fra le diverse modalità di allocazione dei beni di welfare, su cui ci soffermeremo
più volte in questo e nel successivo capitolo. Per gli spazi dei decisori si può
richiamare uno dei più celebri casi di trasformazione delle forme di regolazione
sociale: quella legge Le Chapelier (14 giugno 1791) che vietò in modo radicale in
Francia, per tutti i mestieri, qualunque forma di organizzazione collettiva. In
questo caso, con la quasi totale approvazione dei deputati della Assemblea
Nazionale, la scelta fu per un individualismo radicale e utopico, e non per un più
realistico assetto di regolazione, capace di promuove la composizione dei
conflitti7.
Ad un primo livello di approfondimento, ci si potrebbe comunque accontentare
di risposte parziali. La riflessione di Polanyi infatti non fornisce infatti
6
Carr ricorda che in una conferenza degli attivisti di partito convocata nel maggio del
1920 per illustrare le nuove linee di politica economica, Lenin definì la NEP come
una "ritirata". Pochi mesi dopo, ancor più chiaramente, ne avrebbe parlato come di
"una sconfitta e ritirata: per un nuovo attacco" (ibid.,p.682). E' il principio del "reculer
pour mieux sauter" attorno al quale Elster, richiamando Leibniz, si sofferma per
sostenere la non applicabilità degli schemi della selezione naturale (facili prede della
trappola dei "massimi locali") ai fenomeni sociali (cfr. Elster, 1979, cap.1).
7 L'art.1 della legge recitava: "Essendo l'abolizione di ogni tipo di corporazione dei
cittadini di uguale ceto e mestiere una delle basi fondamentali della costituzione
francese, è vietato ricostituirle di fatto, in qualsiasi forma e per qualsiasi motivo ciò
avvenga". Nella applicazione questo divieto significò nella sostanza solo un divieto
rigido alla costituzione di associazioni sindacali. La scelta utopico-radicale, con le
derivanti conseguenze non attese, è bene resa dal commento recente di Spiros Simitis:
"Invece di sostituire una volta per tutte una politica dirigistica e corporativa con
accordi improntati alla ragionevolezza e perciò attenti a considerare e a conciliare gli
interessi in gioco, la libertà contrattuale finì col produrre una rete sempre più fitta di
interventi statali e di strutture corporative via via più stabili" (1990, pp.764-765).
I passaggi fra le forme di allocazione
15
spiegazioni esaurienti a questo proposito, ed il suo resta un modello
prevalentemente statico. Nelle diverse società delle differenti età storiche si
ritroveranno soluzioni diverse ai problemi di integrazione fra economia e società
(o di regolazione sociale). Soluzioni permesse da assetti istituzionali più o meno
coerenti con le strutture sociali. Ma queste soluzioni rimangono come isolate
esemplari nel corridoio della storia e non abbiamo suggerimenti, una volta
rifiutato gli schemi evolutivi, sul come le une succedono alle altre. Certo l'analisi
comparativa fornisce indirettamente una chiave per affrontare il problema. Ma il
ricordare, come fanno Block e Somers (1984, p.71) che la reciprocità, la
redistribuzione, lo scambio di mercato sono sempre "risposte comparabili al
problema della integrazione", e che il lavoro comparativo di Polanyi anticipa
quello di Barrington Moore o di Gerschenkron, non significa ancora molto per un
modello di ampie potenzialità come quello polanyiano. Il come può certo dire
qualcosa sul perchè, e questo , lo si è già osservato, è soprattutto vero per Polanyi.
Tuttavia non è sufficiente per rispondere alle domande sui passaggi fra le forme
(specie in assenza di grossi cambiamenti nelle strutture sociali), o sulle possibilità
di scelta.
La domanda è stata raccolta esplicitamente in un importante saggio di
D.C.North in un importante saggio del 1977 rivolto fra l'altro a rivalutare
esplicitamente il contributo di Polanyi nella storia economica, come "schema
analitico alternativo che rende conto del passato e del presente della
organizzazione istituzionale" (p.704). La validità dello schema, e il suo carattere
alternativo sia agli schemi neo-classici che a quelli marxiani, derivano proprio
dalla sua applicabilità sia alle economie del passato che a quelle contemporanee.
Il punto di partenza di North è ancora la contrapposizione fra il mercato e le altre
due forme di integrazione (e di allocazione), e si potrebbe qualificare come un
tentativo di riconduzione del modello polanyiano all'interno della spiegazione
economica. Se anche in un secolo come il nostro dove, lo ammette lo stesso
Polanyi , è così esteso il comportamento "economizzante", hanno così ampio
spazio le forme di allocazione alternative al mercato, diventa legittimo il
tentativo di ritrovare anche per queste forme una spiegazione di tipo economico.
La tesi, e la risposta, di North è che la "analisi dei costi di transazione rappresenti
un quadro analitico promettente per l'esplorazione delle forme di organizzazione
economica non di mercato" (1977,p.709).
Il modello dei costi di transazione, nato dal celebre saggio di Coase , The
nature of the firm, del 1937, per scoprire le ragioni per le quali l'organizzazione
dell'impresa (e perciò l'autorità e la decisione) si sostituiva al mercato, viene
utilizzato per spiegare i passaggi fra le differenti forme di integrazione8. Quello
8
16
Questa utilizzazione non sembra, peraltro, quella tipicamente proposta dalla economia
dei costi di transazione. E' Williamson (1994, pp.79-80) a ribadire, partendo da un
contributo dello stesso North, come quest'ultima possa dividersi in due parti, la prima
dedicata allo studio dell'institutional environment, la seconda a quello dell'intitutional
arrangement, ovvero ai cambiamenti nelle forme di organizzazione dell'attività
economica che intercorrono una volta tenuto costante il quadro istituzionale di fondo.
Nei fatti questa distinzione si sovrappone su molti aspetti a quella qui proposta
(cambiamenti diacronici e sincronici). E' Williamson a ritenere che l'economia dei
I passaggi fra le forme di allocazione
che Coase scopriva erano i costi di funzionamento del mercato, e specie i costi di
utilizzo del meccanismo dei prezzi. Con la semplice osservazione che "il
funzionamento del mercato provoca un certo costo e che, formando una
organizzazione e permettendo ad un'autorità (un imprenditore) di dirigere le
risorse possono essere risparmiati taluni costi di contrattazione" (Coase, 1937,
p.81) si apriva una intera epoca di riflessioni nell'economia industriale ed
implicitamente si rilanciava l'economia istituzionale. La tentazione di estendere
questo modello allo studio dei passaggi fra le forme di allocazione e di
regolazione è molto forrte. ed è una estensione può essere fruttuosa, anche se
come si vedrà più oltre, corre il rischio di snaturare oltre misura il modello
polanyiano.
In un contributo successivo North aggiungerà a questo quadro anche una teoria
dello stato, ma l'insieme esplicativo proposto non cambia: "Una teoria dei costi di
transazione è necessaria perchè sotto le prevalenti condizioni di scarsità e perciò
di competizione, più efficienti forme di organizzazione rimpiazzeranno quelle
meno efficienti sotto condizioni coeteris paribus. Lo stato comunque [...]
incoraggerà e specificherà efficienti diritti di proprietà solo nella misura in cui
essi saranno consistenti con gli obiettivi di massimizzazione della ricchezza di
quelli che conducono lo stato" (North, 1981, pp.33-34). E' decisiva l'importanza
delle istituzioni, che "forniscono il quadro entro il quale gli esseri umani
interagiscono" (ibid.,p.201). Tuttavia l'interazione resta orientata dal calcolo
economico, anche all'interno delle forme alternative al mercato nei termini
polanyiani.
I diritti di proprietà su beni e servizi, ben definiti e rispettati, costituiscono la
precondizione per l'operare dei prezzi nel mercato autoregolato. I costi per la
definizione di tali diritti e per farli rispettare (enforcement) rappresentano i costi
di transazione. E sotto queste spoglie è possibile rappresentare anche i costi di
informazione. Nella sua ultima opera North accentuerà il ruolo di quest'ultima
componente, giungendo ad affermare che "il costo dell'informazione è il fattore
essenziale dei costi di transazione" (1994, p.53). D'altra parte le istituzioni
sorgono proprio per ovviare alla scarsità di informazioni e dunque per ridurre le
incertezze nelle relazioni economiche e sociali.
Quando questi costi eccedono i benefici l'esito può essere l'allocazione di beni
e servizi attraverso forme non di mercato. Da questo punto di vista, per società
(anche quella delle isole Trobriand di Malinowski) nelle quali vige la reciprocità,
quest'ultima può essere considerata una forma che assicura transazioni a bassi
costi in assenza di istituzioni che assicurano con altri mezzi il rispetto delle
ragioni di scambio. Le stesse spiegazioni possono essere assunte per spiegare
l'esistenza dei ports of trade9 nell'antichità, e l'espandersi, come il declino, del
sistema del maniero feudale.
costi di transazione è nata per occuparsi soprattutto della seconda serie di problemi. Di
qui un dissenso implicito con North.
9 Con questa dizione Polanyi intende definire una "istituzione universale del commercio
d'oltremare, che precede la costituzione dei mercati internazionali" (1980,p.230). Nei
ports of trade, ritrovabili sulle coste della Siria a partire dal II millennio a.C., come
più tardi in alcune città-stato greche in Asia Minore e sul Mar Nero, ed in epoche
successive nelle regioni atzeche e maya del Golfo del Messico o nei regni negri di
I passaggi fra le forme di allocazione
17
Un esempio, ancora di attualità, può essere costituito dai beni pubblici puri,
allocati nella sfera della redistribuzione per l'impossibilità di escludere dalla
fruizione il non partecipante al costo o per la difficoltà di ripartire il costo rispetto
al grado di utilizzazione del bene o servizio (non escludibilità e non rivalità del
consumo).Ma può anche riguardare l'allocazione attraverso la forma del dono (sia
pure senza reciprocità) di beni privati (poniamo lo spazio di parcheggio davanti
ad un centro acquisti) i cui costi di sorveglianza o di esazione eccedono i benefici
ottenibili dal proprietario del bene.
Per rimediare alla staticità del modello polanyiano e per spiegare il
cambiamento nel mix delle forme di allocazione, conclude North, lo sviluppo di
una classificazione ordinale dei costi di transazione e dei relativi cambiamenti
nell'ordinamento può essere utile. Dalle variazioni di questi costi dovrebbero
prodursi le pressioni per i necessari riaccomodamenti istituzionali (1977, p.715).
Il rinchiudersi della spiegazione entro criteri di economicità è in parte
moderato dalla dichiarata necessità, espressa da North, di "una esplicita teoria
della ideologia o, più generalmente, di sociologia della conoscenza", senza la
quale si verificheranno "enormi vuoti nella nostra capacità di render conto sia
della attuale allocazione delle risorse sia del cambiamento storico" (1981, p. 47).
Come si potrebbero spiegare altrimenti i grandi investimenti nella legittimazione
delle proprie strutture istituzionali che ogni società compie per superare il
problema del free rider, ovvero del comportamento opportunista? Il ponte verso il
comportamento dell'attore e le sue possibilità di scelta sia pure ancora formulato
in termini tradizionali (teoria delle ideologie?) è lanciato. Questa esigenza è
riconfermata nel contributo successivo, del 1990, dove sembrano comparire delle
esigenze di approfondimento degli aspetti cognitivi. Ma per il momento restano
solo come delle esortazioni alla ricerca. Così si legge infatti nelle ultime righe del
volume che doveva portare l'autore verso il premio Nobel: "per dare migliori
risposte si deve conoscere molto di più sulle norme di comportamento derivanti
dalla tradizione culturale e su come interagiscono con le regole formali. Si è
soltanto agli inizi di uno studio serio delle istituzioni" (North, 1994, p.199). Su
questi aspetti si ritornerà nel corso del III capitolo, dove si cercherà in qualche
modo di raccogliere gli stimoli di North.
4.
L'incorporazione dell'economia nella società
Sotto certi aspetti, tuttavia, la strada dei costi di transazione potrebbe costituire
un percorso non polanyiano di risoluzione di un tipico problema polanyiano. La
ragione è presto a dirsi: una spiegazione "economizzante" che invece di essere
limitata alla fase, storicamente ben limitata ed identificata, nella quale è
l'economia ad incorporare la società (l'era della società di mercato), tenderebbe ad
assumere portata generale ed universale. Generale in quanto applicata nella
spiegazione dei passaggi fra tutte le forme di integrazione nelle diverse epoche
Ouidah o del Dahomey, la gestione "politica" degli scambi prevaleva sulle regole della
concorrenza.
18
I passaggi fra le forme di allocazione
storiche. Universale in quanto adottabile per qualunque tipo di società
conosciuta.
E' ovvio che sono lontane da chi scrive, e non si adattano a questa occasione,
delle preoccupazioni di ortodossia, che pure talvolta tendono a trasparire nelle
riflessioni, e nelle argomentazioni, di non pochi autori che si muovono nel filone
polanyiano. La strada proposta dai neo-istituzionalisti,
potrebbe infatti
rappresentare una soluzione, sia pure parziale, al problema dei rapporti (diacronici
e sincronici) fra le diverse forme di allocazione. E' indubbio che il modello dei
costi di transazione si presti ad essere applicato ad entrambe le categorie di
mutamenti. Nella versione di North questa ambizione è esplicita, nella versione di
Williamson l'applicazione è soprattutto sui cambiamenti del secondo tipo (quelli
che tengono fermo il background istituzionale). Tuttavia la duttilità del modello è
fuori discussione. Ma certo si fatica a pensarlo efficace laddove il calcolo
economico non rientra nelle attribuzioni o nelle attese di comportamento degli
attori o delle istituzioni, o nei casi nei quali l'attività economica oggetto della
transazione cambia nettamente di significato sociale nel passaggio da una forma
all'altra.
In alcuni casi, come nello spiegare le modalità di allocazione delle diverse
categorie di beni (privati o pubblici), o dei beni con diverso grado di "pubblicità"
(fino ai beni pubblici puri) il modello può rivelarsi particolarmente opportuno. Ma
certo è un modello che contiene una dose di determinismo economico invero
eccessiva. Il fatto che i costi di transazione in una forma di allocazione siano
superiori a quelli di altre non è di per sè condizione sufficiente a giustificare il
passaggio dalla prima alla seconda, a meno di ipotizzare l'operare di necessità di
tipo funzionalistico (la allocazione che deve avvenire con i costi più bassi, e
perciò con logiche di massimizzazione) o meccanismi di tipo evolutivo, per i
quali la forma più costosa tenderebbe a scomparire (su questi aspetti, cfr. Parri,
1996). E' un modo di procedere, quello della "nuova economia istituzionalista"
che, come ha notato di recente Herbert Simon nella sua autobiografia , forse un
poco eccedendo nella critica, "continua a versare il nuovo vino nelle vechie botti
del ragionamento neoclassico" (1991, p.167).
Le critiche sociologiche all'utilizzo dei costi di transazione nella spiegazione
del cambiamento istituzionale non sono del resto mancate. Da quella di Swedberg
(1990, pp.52-53) che accusa l'approccio di darwinismo sociale: una istituzione
alla fin fine esisterebbe fino a quando avrebbe un buon rendimento economico. A
quella di Frydman (1990, pp.160-161) che, nell'ambito della approccio che si è
definito come économie des conventions, è rivolto a mettere in dubbio l'esistenza
di un mercato di ordine superiore nel quale sia possibile calcolare costi e vantaggi
di ciascuna forma istituzionale. Fino a quella di Trigilia (1989, p.153) che è
portato a sottolineare il quasi ineliminabile carattere normativo del modello:
"offre criteri di orientamento per le decisioni semplici più che spiegazioni
soddisfacenti della variabilità storico-empirica dell'organizzazione economica".
Verso un cammino polanyiano conduce invece il contributo critico di
Granovetter (1985) sugli approcci neo-istituzionalisti (da North a Williamson, ma
soprattutto sul secondo). In questo contributo, ormai ben conosciuto e ritenuto
uno dei testi chiave della "nuova sociologia economica", l'autore parte dal
problema della embeddedness (incorporazione) della azione economica nella
I passaggi fra le forme di allocazione
19
struttura delle relazioni sociali. Problema che appare di grande rilievo per
affrontare il tema della competizione o della successione delle diverse forme
istituzionali di integrazione fra economia e società.
La posizione di Granovetter diverge sia da quella "sostantivista" che da quella
"formalista", per rifarsi ai due filoni della antropologia economica. Il punto di
partenza è che il grado di embeddedness del comportamento economico nelle
società non di mercato è minore di quanto credano gli studiosi di queste società
(primo fra tutti Polanyi), anche se è cambiato di meno con il processo di
modernizzazione di quanto questi stessi studiosi ritengano. E questa è la
differenza con la scuola "sostantivista". In compenso, il grado di incorporazione
nelle società di mercato è maggiore di quanto credano gli studiosi del
comportamento economico razionale. E questo segna il distacco con il filone
"formalista".
Secondo l'autore i "neo-istituzionalisti" non farebbero che rafforzare il campo
"formalista" con la loro analisi economica delle istituzioni economico-sociali,
considerandole "come il risultato della ricerca del self-interest da parte di
individui razionali, più o meno atomizzati" (Granovetter, 1985, p. 482). Questa
riflessione, proseguendo attraverso ricomposizioni e scomposizioni non consuete
dei filoni interpretativi, nota come, al di là di ogni apparente contrasto, sia le
versioni sotto-socializzate come quelle sovra-socializzate dell'attore economico
"abbiano in comune una concezione dell'azione e della decisione condotte da
attori atomizzati" (p.485). Nel primo caso ciò deriva dal perseguimento angusto
(utilitarista) degli interessi individuali10, nel secondo dalla internalizzazione data
per scontata delle norme sociali.
La tesi di Granovetter è che siano le relazioni sociali e non tanto le istituzioni
(come considerate dai neo-istituzionalisti) o qualcosa di simile alla morale
generale (e alla coscienza collettiva?) a spiegare i diversi modi di integrazione
dell'azione economica nella società e,ad esempio, la produzione di beni tutti
particolari come la fiducia o la assenza di comportamento criminale, deviante, e
di opportunismo. Beni che risultano decisivi per la conduzione delle transazioni
economiche, e per il cui ottenimento si presentano i costi di transazione. Di qua
la critica verso Williamson, e l'approccio neo-istituzionalista, ad esempio sulla
scelta come modalità di organizzazione dell'impresa rispetto al mercato. La
riduzione dell'opportunismo non sarebbe provocata tanto dalla scelta dell'impresa
rispetto al mercato, con la conseguente riduzione dei costi di transazione, quanto
dalla natura della rete di relazioni personali e sociali che avvolgerebbero l'impresa
dall'esterno e all'interno. L'evidenza empirica dimostra piuttosto come siano
possibili nel mercato ordinate transazioni economiche anche complesse, e come
nel contempo si rilevino situazioni di elevato disordine all'interno delle imprese.
Trasferita sul nostro problema dei passaggi fra le forme di integrazione, e di
allocazione, la posizione di Granovetter condurrebbe a respingere meccanismi
interpretativi del tipo "costi di transazione", per ricondurlo, con un netto
10
E' difficile notare con parole più semplici ed efficaci di quelle di Caillé (1991, p.84) le
caratteristiche tipiche della teoria del comportamento economico razionale: "la teoria
ci ripete instancabilmente che gli uomini preferiscono quel che preferiscono e sono
interessati a quel che li interessa".
20
I passaggi fra le forme di allocazione
ridimensionamento delle ambizioni
o delle pretese teoriche, verso la
considerazione strutturale, caso per caso, delle reti di relazioni sociali in cui le
forme sono inserite. Ed è forse un ridimensionamento eccessivo del problema;
quello che c'è di interessante era già in Polanyi, quello che c'è di nuovo resta
vago, indefinito come meccanismo interpretativo.
Tuttavia tale tesi potrebbe fornire un contributo importante alla soluzione in
termini "polanyiani" del nostro problema, specie attraverso una definizione delle
istituzioni economiche più interna alla teoria sociale, ed una considerazione in
termini weberiani (come dichiara Granovetter) della azione economica come tipo
speciale di azione sociale. Non mancano però nella tesi aspetti non convincenti,
ad esempio una interpretazione troppo forzata del filone neo-istituzionalista
all'interno degli schemi del razionalismo economico di stampo neo-classico.
L'evoluzione della posizione di North, ed il suo progressivo allontanamento dalla
"new economic history" fin dal 1981, non è da questo punto di vista preso in
conto. Così come non soddisfacente resta il modo di considerare gli effetti delle
relazioni sociali sulle motivazioni economiche e sul tipo di razionalità
connessa11.
La capacità esplicativa del modello dei costi di transazione viene dunque solo
in parte ridimensionata; la critica di Granovetter non sembra in grado di rimetterlo
totalmente in discussione. Rilevante resta la capacità del modello di collegare il
comportamento economico dell'attore con il cambiamento istituzionale, anche se
l'orizzonte di scelta del primo resta limitato a quello previsto dalla teoria della
razionalità economica. Come tale è importante nell'aprire la riflessione sulle
comunicazioni fra micro e macro che saranno oggetto del prossimo capitolo
Il modello resta di ardua, se non impossibile, applicazione in quelle situazioni
nelle quali quello che è in gioco è la corrispondenza fra l'atteggiamento dell'attore
e la forma di allocazione operante. Ovvero nei casi dove la allocazione può
svolgersi secondo le modalità previste, solo qualora il soggetto ne accetti
spontaneamente la logica.
Mi riferisco come esempio ai casi di dono senza reciprocità, quelli che si
manifestano in modo tipico nella esperienza di donazione del sangue. Come ha
mostrato Titmuss (1971) nella sua famosa ricerca, il sangue "donato" è
qualitativamente migliore nei casi nei quali vige un sistema di donazione rispetto
a quelli operanti entro una allocazione di mercato. In questo caso i costi di
transazione possono spiegare in parte la migliore efficienza del dono rispetto al
mercato: i costi dell'informazione completa necessaria per determinare la purezza
del sangue sarebbero troppo elevati nella seconda forma di allocazione. Meglio
lasciare sul soggetto che dona la responsabilità di selezionare le proprie
caratteristiche di donatore, specie per quelle non accertabili con sicurezza
attraverso esami clinici. E' un modo di soluzione non consueta di un tipico
problema di informazione nascosta (simile alla adverse selection dei contratti di
11
Una interessante esemplificazione di questi problemi è ritrovabile nella ricerca di
P.Jorion sulla determinazione sociale dei prezzi di mercato in una comunità di
pescatori artigianali francesi:"il fattore determinante della formazione dei prezzi non
sarebbe la nuda contrapposizione dell'offerta con la domanda, ma lo statuto reciproco
delle parti coinvolte nella vendita del pesce" (1990, p. 61).
I passaggi fra le forme di allocazione
21
assicurazione12). E sarà proprio il carattere oblativo del gesto a tenere sotto
controllo l'eventuale opportunismo. Chi dona qualcosa, bene o servizio, è il primo
a sincerarsi sulla qualità del suo dono. Ma qui quello che conta è l'atteggiamento
del soggetto, nessuno può essere di norma obbligato a donare. La scelta del
soggetto è determinante. Le istituzioni possono solo favorirla, ma la categoria à
la Mauss dell'obbligo sociale della volontarietà, è quanto mai improbabile, anche
se non impossibile, nelle società contemporanee. Le relazioni sociali in cui la
donazione è incorporata possono dirci poco, in questa sfera dell'azione volontaria.
Cosa fa scattare nel soggetto la disponibilità a donare senza reciprocità, quello che
di norma accade nella donazione di sangue senza identificazione del ricevente?
Certo le istituzioni possono favorire questi comportamenti (cfr. la nota 10 del
cap.1), ma non oltre una certa misura se non a rischio di snaturare il carattere di
dono.
Diventa necessario rifarsi a qualcosa di simile a quella morale generale che
Granovetter escludeva in quanto segnale di una concezione ultra-socializzata
dell'uomo. Una morale che richiama il the right to give della ricerca di Titmuss:
"..noi crediamo che la politica ed i suoi processi dovrebbero mettere in grado
l'uomo di essere libero di scegliere di dare ad estranei sconosciuti. Non
dovrebbero essere coartati o costretti dal mercato [...] La nozione di diritti sociali
-un prodotto del ventesimo secolo- dovrebbe perciò includere il 'Right to Give'
con mezzi materiali e non materiali" (1971, p.242). E' questo un diritto che
definisce e traduce una libertà, la libertà di dare a estranei, ovvero di donare. E, in
questa prospettiva, la libertà di donare o no sangue è certamente superiore a
quella di venderlo o meno.
Non è diversa quella considerazione delle libertà individuali (positive e
negative, nella accezione di Berlin) dall'ottica del social commitment che ha
sostenuto Amartya Sen (1990) nelle sue riflessioni sulla povertà, la fame,
l'analfabetismo nel mondo. Una proposta che mira ad introdurre nell'ambito
della riflessione etica sulle libertà, aspetti come quelli della povertà che, in quanto
non costituenti di per sè una violazione delle libertà negative, non sono stati
normalmente ricompresi entro queste riflessioni. Da questo punto di vista il
perseguimento delle libertà positive delle categorie o dei soggetti meno
privilegiati, potrebbe fare parte di quella "libertà di agency", ovvero di perseguire
gli obiettivi a cui si aspira, che dovrebbe sempre affiancarsi anche alla libertà di
"well-being" (Sen,1992, pp.85-86). Ma è anche una visione che si ricollega a
quegli obblighi morali richiamati da Etzioni, nella presentazione di quella che
viene addirittura una nuova scienza sociale (la socio-economics), e che non
avrebbero una semplice influenza sulle transazioni, bensì la capacità di interdire
talvolta "certi comportamenti di scambio e certe tendenze di mercato" (1990,
p.20).
12
Si ha adverse selection, in "situazioni nelle quali un lato del mercato non è in grado di
osservare il 'tipo' o la qualità dei beni offerti. Per questo è spesso descritta come un
problema di informazione nascosta" (Varian, 1990,p.562). In questi casi i beni a
qualità scadente tenderebbero ad escludere quelli di buona qualità, proprio a causa
dell'elevato costo da sostenere per ottenere le informazioni sulla qualità.
22
I passaggi fra le forme di allocazione
La consistenza teorica, nelle scienze sociali, di questi "diritti", di queste
"libertà", di questi "obblighi" resta invero piuttosto incerta. Configurano forse,
per rifarsi a rappresentazioni forzate ed anche abusate, un homo sociologicus
contrapposto ad un homo oeconomicus? E se è così quale fra le strade proposte
da Elster (1995, p. 142) dovremo seguire per affrontare e gestire la
contrapposizione fra i due paradigmi ? La strada eclettica, secondo la quale
alcuni ordini di comportamento sono interpretati meglio da una teoria delle norme
sociali ed altri dalla teoria della razionalità economica? La strada del
riduzionismo economico, secondo la quale tutti gli ordini di azione sono
riconducibili negli ambiti del comportamento razionale? Oppure la strada
dell'opposto riduzionismo, seguendo la quale si sosterrà che la razionalità
economica non è che il frutto di una particolare norma sociale, nell'ambito di una
particolare, non generalizzata, cultura? La prima strada forse è più confacente a
queste riflessioni; la seconda si rivela aspra e stretta, certo impraticabile per il
modello polanyiano; la terza è quella che Polanyi stesso con buona probabilità
avrebbe scelto, ma essa conduce troppo verso il passato e non verso il futuro. Non
anticipo comunque dei percorsi, quelli che conducono dall'attore verso le
istituzioni, che si affronteranno nel corso del III capitolo.
5.
Successioni e compresenza delle forme: alcuni esempi
Le diverse modalità di passaggio fra le forme di integrazione (e di allocazione)
e la loro spiegazione, lo si sarà notato, costituiscono di certo uno dei campi di
applicazione più stimolanti per i modelli delle scienze sociali rivolti allo studio
dei fatti economico-sociali. Specie quando si abbandonano i determinismi sempre
incombenti dai due principali versanti della contesa, da una parte quello socioantropologico, per il quale le forme di integrazione sono imposte dalle situazioni
strutturali e culturali ben determinate storicamente, dall'altra quello di natura
economica, per il quale le differenti forme non sono altro, in ultima istanza, che
un frutto di una mentalità economica pre-esistente rivolta a ricercare una risposta
"economizzante" (se non ottimizzante) a particolari problemi di allocazione.
Il modello polanyiano incorre talvolta nella prima trappola deterministica,
purtroppo molte soluzioni proposte in modo implicito o esplicito per fornire
soluzioni ai suoi limiti ricadono nella trappola opposta. Forse proprio per questo
il modello, la sua applicazione, la scoperta dei suoi limiti, il suo parziale
superamento, costituiscono delle occasioni preziose per la riflessione delle
scienze sociali. Un suo insegnamento resta più che mai attuale: l'invito a
considerare le transazioni, o le allocazioni, di beni e servizi innanzitutto dal punto
di vista sostanziale, solo da questo punto di osservazione, in un momento
successivo sarà possibile cogliere le specificità istituzionali entro le quali le
transazioni avvengono. La riflessione tipica, standard, degli economisti,
collocandosi subito dal punto di vista formale è portata a sottovalutare le
specificità istituzionali, compiendo così uno dei più straordinari processi di
reificazione degli schemi teorici di tutta la non breve storia delle scienze
I passaggi fra le forme di allocazione
23
economico-sociali. Se anche la distinzione polanyiana fra economia sostanziale e
formale (v. il parag. 6 del capitolo 1) si limitasse a questo invito, essa meriterebbe
di certo una posizione di rilievo nel corridoio delle scienze sociali. Ma le
domande che restano senza risposte sono molte. Perchè si affermano le condizioni
istituzionali che permettono l'operare di una forma di integrazione piuttosto di
un'altra? E soprattutto perchè queste condizioni decadono? Ma anche perchè esse
possono convivere forme diverse? Quali le relazioni fra attori e istituzioni? Quali
le possibilità di scelta lasciate agli attori? E così via.
Prima di proporre, nel capitolo successivo, dei possibili percorsi di riflessione,
sui quali iniziare a rispondere a queste domande, può essere interessante
presentare alcuni contributi che, in modo più o meno diretto, hanno affrontato il
tema dei passaggi fra le forme, o delle combinazioni fra di esse. Nessuno fornisce
soluzioni sicure, ma fra suggerimenti ed incertezze qualche passo in avanti sarà
permesso, soprattutto nella identificazione della dimensione concreta dei
problemi. Una dimensione che, una volta lasciati alle spalle i grandi esempi
polanyiani delle società primitive o arcaiche, rischiava di essere di contorni
piuttosto incerti. In alcuni di questi contributi le forme di integrazione (e di
allocazione) saranno proposte sotto la accezione più estesa delle forme di
regolazione, ma questa utilizzazione metaforica del modello polanyiano non è di
per sè inutile o abusiva. Talvolta i costi di transazione compaiono come
strumento interpretativo prevalente, e di questo, vista la duttilità dello schema,
non c'è da soprendersi. Gli aspetti legati ai modelli decisionali degli attori
inizieranno a mostrare la loro importanza, senza peraltro anticipare le
implicazioni che saranno esaminate nel cap. III.
Il primo esempio, nasce da una riflessione che io stesso ho condotto nel campo
dei criteri e delle forme di regolazione nelle relazioni industriali (Cella, 1987).
L'oggetto della transazione sono in questo caso i carichi e i ritmi di lavoro, nonchè
le più generali regole di esecuzione dei compiti lavorativi . Nel linguaggio della
economia neo-istituzionalista può essere considerato come un problema di
definizione e di applicazione di un diritto di proprietà come il diritto di
disposizione del (proprio) lavoro. Una opportuna (per non usare il termine
efficiente) definizione di questo diritto è una condizione necessaria per la
conduzione delle relazioni di lavoro, e delle transazioni ad esse connesse, quelle
salariali in primo luogo. In una situazione di professionalità elevata e di
organizzazione pre-taylorista, ovvero nella fase dove domina la figura dell'operaio
di mestiere, risulta di fatto impossibile una contrattazione collettiva dell'impegno
lavorativo condotta secondo criteri di mercato. L'autonomia professionale degli
operai è molto elevata, di conseguenza troppo elevati sono i costi di transazione
da sostenere da parte delle imprese per la definizione dei carichi e dei ritmi di
lavoro. La regolazione viene affidata alle leghe di mestiere, nell'ambito di criteri
auto-regolati, guidati dalla tradizione della comunità, o della aristocrazia, degli
operai professionali.
Con la meccanizzazione, l'introduzione delle macchine specifiche, la
produzione di massa e la connessa organizzazione taylorista, diventa possibile
definire questi impegni (e questi diritti), e ridurre gli eventuali spazi di
24
I passaggi fra le forme di allocazione
opportunismo della forza-lavoro operaia, con costi di transazione minori13. Si
afferma così la contrattazione collettiva, fondata su criteri di mercato, sia pure non
più del mercato della concorrenza atomistica, ma della concorrenza organizzata.
Carichi, ritmi, tempi, modalità esecutive sono definite per gran parte in via
contrattuale, ed in ultima istanza i criteri di regolazione sono quelli derivanti dalla
situazione di mercato. Quando come negli ultimi due decenni si diffondono
nell'organizzazione del lavoro, in collegamento soprattutto alla introduzione delle
nuove tecnologie dell'informazione, esigenze di prestazioni di lavoro flessibili, la
stessa contrattazione definitoria e di taglio rigidamente normativo diventa costosa
ed inefficace. In specie quando emergono nella produzione pressanti obiettivi di
qualità. Possono così affermarsi criteri di regolazione di tipo associativo (per
utilizzare la quarta forma proposta da Streeck e Schmitter), attraverso una
contrattazione fondata in ampia parte sulla cooperazione e sulla concertazione.
Una contrattazione nella quale prevale la gestione del processo rispetto alla
definizione degli istituti14. In questo esempio il determinismo tecnologico
sembrerebbe sostituirsi a quelli di altra natura più sopra ricordati; in effetti gli
adattamenti nelle forme istituzionali della transazione di lavoro non avvengono in
modo immediato, bensì attraverso le capacità decisionali (ed i modelli cognitivi)
degli attori collettivi (imprese e associazioni sindacali).
Il secondo esempio riguarda la protezione sociale,il welfare, ovvero la
situazione che costituisce il luogo ideale per la applicazione del modello
polanyiano e la verifica delle sue potenzialità descrittive e interpretative. Si
ricorderà come, secondo Polanyi, alla radice delle diverse forme di integrazione
fra economia e società esistono soprattutto le esigenze di difesa della società
dall'economia, intesa come scambio di mercato secondo criteri di autoregolazione,
e cioè non dipendenti da criteri sociali o politici. E questo dalle polis della Grecia
antica , alle città medievali, fino ai tentativi di limitare e correggere il
funzionamento del mercato per quelle tre merci "atipiche" (lavoro, terra, moneta)
che più hanno la capacità di influenzare, ed anche di vulnerare, gli assetti e gli
equilibri sociali. In questa visione,quasi in questa personificazione della società in
attore che si difende, risiede buona parte della visione olistica di Polanyi. Da
questo punto di vista il welfare rappresenta proprio, in ultima istanza, le diverse
modalità con le quali le società industriali si sono protette, per motivi ideali ed
anche opportunisti, dal funzionamento libero ed indiscriminato del mercato.
Sotto altri aspetti il welfare identifica un insieme di beni e servizi che possono
essere allocati secondo diverse forme di allocazione o, meglio, secondo delle
13
Sulla interconnessione fra costi di produzione e costi di transazione insiste North
(1994,pp.102-103), che ricorda come il processo di sostituzione di forza lavoro
dequalificata a quella ad alta qualificazione aveva come ragione la riduzione del
potere contrattuale degli operai professionali, un potere che poteva avere effetti di
disarticolazione strategica del processo di produzione nelle nuove condizioni
tecnologico-organizzative della produzione di massa.
14 Su questi temi si veda anche Streeck (1986). Pur non usando lo strumento analitico dei
costi di transazione, l'autore perviene a conclusioni simili. Tuttavia resta stranamente
non esplicitato il collegamento con il modello a quattro forme proposto nel saggio
steso in collaborazione con Schmitter. Sulla diffusione di questi criteri nella
contrattazione collettiva in Italia si veda Negrelli (1985).
I passaggi fra le forme di allocazione
25
combinazioni (dei mix) particolari delle tre (o quattro) forme. Il primo aspetto si
presta ad essere analizzato in specie dal punto di vista diacronico, il secondo da
quello sincronico. Questo non senza intersecazioni di ottiche, visto che nessuna
forma di allocazione riesce a prevalere in modo esclusivo od esaustivo, anche se
ciascuna fornisce il carattere tipico a ciascuna fase storica.
E' nella riflessione di Massimo Paci che si ritrova in modo esplicito l'adozione
del modello polanyiano, insieme alla consapevolezza dei suoi limiti:
"L'introduzione dell'ipotesi che il concreto assetto storico dei sistemi nazionali di
protezione sociale dipende dall'interazione di tre differenti meccanismi di
allocazione delle risorse e il rifiuto di una visione acriticamente evoluzionistica
pongono il problema di una teoria del cambiamento delle istituzioni di protezione
sociale" (1989, p.35). Le domande di Paci sono proprio quelle che ci si sta
ponendo nel corso di questo capitolo. Come spiegare gli "slittamenti di confine"
fra le tre forme ed anche la particolare combinazione che si presenta fra di
esse15? Anche questo autore rileva la staticità del modello polanyiano, e di
conseguenza è d'obbligo il riferimento a North ed alla sua proposta di
utilizzazione dei costi di transazione per spiegare le successioni, o le diverse
combinazioni fra le forme. Tuttavia, tale proposta non attrae molto Paci, che
piuttosto intende rifarsi ad altri autori , come Hirschman (per una interpretazione
di tipo ciclica) e Weisbrod (per i caratteri e le potenzialità del "terzo settore"),
sui quali mi soffermerò anch'io poco oltre. Senza una categoria esplicativa come
i costi di transazione, resta difficile comunque render conto , anche in modo
appena convincente, sia delle successioni che dei particolari mix. Eppure il
contributo di Paci resta di grande rilievo per le immagini che esso fornisce e per i
suggerimenti di ricerca che propone.
L'immagine di un "ciclo di lungo periodo" dei sistemi di welfare, avanzata con
grande cautela (come ipotesi di lavoro) da Paci, è certo affascinante ed in qualche
modo potrebbe costituire la meta interpretativa da privilegiare, una volta che si
abbandonano gli schemi di tipo evolutivo. L'immagine del ciclo ne richiama
un'altra, quella delle "onde lunghe". Onde che si succederebbero con durata di
parecchi decenni e che sarebbero rilevabili con particolare evidenza nella
esperienza inglese (onde che Paci rappresenta in una efficace rappresentazione
grafica, p.71). Una esperienza che, nel XIX secolo, sarebbe passata attraverso tre
diverse fasi, corrispondenti a tre diverse combinazioni delle tre forme: nella prima
(fino alla crisi del sistema di Speenhamland) una combinazione di trasferimenti
monetari pubblici alle famiglie, con il mantenimento delle istituzioni tradizionali,
aveva cercato di fare fronte alla crescente domanda di assistenza; nella seconda
lo stato si sarebbe in buona parte ritirato, limitandosi ad un ruolo residuale,
lasciando spazio alle iniziative in espansione del mercato, dei servizi privati; a
partire dalla metà del secolo riappaiono le forme di tipo volontaristico-solidale
in collegamento con la affermazione dell'associazionismo sindacale, ma queste
forme (a differenza dalla Prussia bismarckiana) resteranno prive del sostegno
15
Nell'ambito polanyiano sul tema del welfare mix, definito come la produzione di cure
e di sicurezza che si realizza attraverso un sistema di relazioni entro i tre attori
principali delle politiche sociali (lo stato, la sfera domestica, il mercato), cfr.
Lesemann, 1990.
26
I passaggi fra le forme di allocazione
statale (1989, pp.58-59). Bastano questi brevi richiami per fare risaltare l'interesse
dell'esempio, che si ritrova pressochè immune da determinismi. Saranno proprio
i temi del welfare a rappresentare un terreno privilegiato per la applicazione di
nuovi meccanismi interpretativi, costruiti a partire dalle relazioni fra attori e
istituzioni.
Sempre nell'ambito dell'esempio del welfare, di grandi interesse si rivelano i
contributi degli autori che hanno approfondito le ragioni e le logiche di un
cosiddetto "terzo settore", da affiancare alla forma di allocazione politica e a
quella di mercato. In questa area di riflessione gli sforzi di ricerca sono andati
crescendo nel corso degli ultimi due decenni, specie in coincidenza con la
manifestazione di crisi del welfare pubblico e con il sensibile e generalizzato
espandersi della allocazione di mercato e delle sue logiche (il processo di
privatizzazione su cui mi soffermerò nel cap. IV di questo volume).
Fra questi sforzi meritano in particolare di essere considerati i contributi di
Burton Weisbrod (1977 e 1988), l'economista che forse più di altri ha saputo
dedicarsi in modo lucido e chiaro all'argomento. Le sue riflessioni si prestano sia
per verificare la plausibilità della tesi di cicli di lungo periodo, sia per sondare le
ragioni della presenza contemporanea delle tre (o quattro) forme di allocazione,
una presenza che conferma comunque la non applicabilità di schemi analitici di
tipo evolutivo. Nel primo contributo (quello del 1977) Weisbrod introduce
innanzitutto il problema delle diverse categorie di beni allocabili in modo
efficiente entro le diverse forme di allocazione, ovvero beni privati e beni pubblici
nonchè i sostituti dei primi e dei secondi. Propone poi un "potenziale motivo
razionale" per lo sviluppo di "soluzioni organizzative differenti" rispetto al
mercato e alla politica: la dimensione relativa di un terzo settore sarà "funzione
della eterogeneità della domanda" (1977, p.59). Quando la domanda di beni e
servizi si rende più eterogenea (ad esempio per cambiamenti nella composizione
per età, o nella identità delle classi sociali) il soddisfacimento della domanda del
cosiddetto "votante mediano" condurrà all'aumento di situazioni di sovra e sottosoddisfazione. E tutto ciò in situazioni nelle quali sono limitate le capacità
politiche di correzione dei fallimenti del mercato prefigurando così veri e propri
fallimenti della politica (cfr. Busana e Cella, 1984). Resta incerta tuttavia la
possibilità di estensione del modello di Weisbrod per beni differenti da quelli di
welfare (ad esempio...). Anche la natura che assume nel modello il terzo settore
(privato nonprofit) rappresenta un problema per la sua genericità, per la sua natura
ibrida e per la sua costituzione quasi come categoria residuale. Una categoria ben
più ampia di quella polanyiana della reciprocità. Una categoria che, come tale,
rende più agevole, meno eterogeneo, o alternativo, pensare alla sua competizione
con le forme del mercato e della politica.
Nell'opera successiva Weisbrod (1988) affina notevolmente il suo modello,
specie dal punto di vista della analisi istituzionale. Le ragioni che possono
spiegare l'esistenza di un settore nonprofit sono ritrovate soprattutto nelle sue
capacità di risolvere problemi di asimmetria informativa. Lo spostamento del
fuoco dell'analisi da aspetti sociali (esogeni) come l'eterogeneità della domanda
ad aspetti istituzionali interni alle forme organizzative è evidente, ed in parte
imputabile allo sviluppo dell'economia istituzionale, ma le due ottiche possono
convivere. Colpisce anche in questo caso, ma ormai dovremmo esserci abituati, la
I passaggi fra le forme di allocazione
27
totale dimenticanza della riflessione di Polanyi. Colpisce specie per un autore che
inizia la sua analisi istituzionale con queste parole: "Ogni società compie delle
scelte sulle forme istituzionali su cui potrà contare per il raggiungimento dei suoi
fini socio-economici" (p.5). Certo non ci si può meravigliare allora della ingenuità
di affermazioni come le seguenti: "Le origini di organizzazioni che non sono nè
governamentali nè orientate al profitto sono oscure. Quali che siano state le
motivazioni per il loro sviluppo, esse devono essere in giro da secoli" (p.4). E' una
ingenuità in cui incorrono quanti non si accorgono di stare sulle spalle dei giganti
(per riprendere la famosa metafora utilizzata da Merton). Ma tant'è. Il contributo
di Weisbrod resta comunque di grande utilità.
Il tema delle asimmetrie informative, come già ricordato, è al centro della
riflessione di Weisbrod. Le diverse forme istituzionali (e le corrispondenti forme
di allocazione), presenteranno delle diverse capacità di risoluzione di queste
asimmetrie. Quando i consumatori avranno un buon livello di informazione
rispetto agli offerenti beni e servizi, la performance più efficiente sarà quella dello
scambio di mercato. Quando le informazioni sono asimmetriche (ad esempio nelle
cure mediche di lunga durata), la necessità di sconfiggere il possibile
opportunismo degli offerenti, renderà più efficiente l'offerta pubblica o quella del
settore nonprofit.
Il secondo tema riprende quella eterogeneità della domanda che era al centro
del contributo del 1977, e che fornisce elementi per spiegare in talune situazioni
l'affermarsi del terzo settore nei confronti dell'offerta pubblica di beni e servizi.
Esso sarà più sviluppato in quei paesi di immigrazione, come gli Stati Uniti, dove
sono più spiccate le diversità etniche, culturali, religiose. Il terzo tema, più
scontato, riguarda la stretta relazione esistente fra la fonte di reddito (ad es.
vendite, tasse, donazioni) che alimenta il settore e la natura dei suoi outputs, in
beni o servizi. Il quarto tema, infine, riguarda la interdipendenza, competitiva o
complementare, fra i settori (e le forme di allocazione); il terzo settore dipenderà
così dalla politica fiscale dei governi, che può incentivare più o meno le
donazioni. Ma dipenderà anche dalle relazioni con il mercato quando deciderà di
competere con questo (ed entro questo) alla ricerca di fonti ulteriori di
finanziamento per le proprie attività. Lontana è da Weisbrod, comunque, l'idea
che le scelte sociali avvengano con esclusive logiche di massimizzazione
dell'efficienza: "la scelta sociale è raramente fra usare l'una o l'altra forma
istituzionale per fornire un particolare, omogeneo, prodotto ad un gruppo
specifico di consumatori; essa è, piuttosto, la scelta fra il provvedere differenti
outputs o il provvedere lo stesso output a gruppi diversi di utilizzatori"
!987,p.19). Una evidenza di ciò può essere ritrovata nella maggiore disponibilità
delle organizzazioni nonprofit, poniamo nella sanità, a rispondere con delle liste
d'attesa piuttosto che con un innalzamento dei prezzi ad un eccesso di domanda.
E' questo, si può aggiungere, che rende problematico l'uso del meccanismo
esplicativo dei costi di transazione (ricordato da Weisbrod solo in una breve nota).
Questa riflessione e questo schema analitico sono di evidente utilità per la
soluzione dei problemi dinamici posti dal modello polanyiano, sia di ordine
diacronico che sincronico. Ai primi risponde il percorso della composizione
della domanda di beni e servizi, e specie del suo grado di eterogeneità in
corrispondenza al sistema di differenze sociali, etniche, culturali (su questi aspetti
28
I passaggi fra le forme di allocazione
tornerò nel cap.IV). Ai secondi risponde il percorso delle asimmetrie informative,
e delle differenti capacità di riduzioni permesse dalle tre forme di allocazione.
Un terzo esempio non riguarda tanto un fenomeno storico-sociale ben
individuato almeno nei suoi aspetti descrittivi, come il succedersi di differenti stili
di regolazione nella contrattazione collettiva o l'alternarsi delle forme di
allocazione o la loro com-presenza nel campo del welfare, quanto delle grandi
immagini evocative, dai contorni indeterminati e tuttavia dense di capacità
interpretative. Mi riferisco a quei grandi cicli di coinvolgimento generalizzato nel
pubblico o nel privato di cui parla Hirschman nel suo Shifting Involvements
(1982), che presentano fra l'altro l'opportunità di collegare in modo non consueto
la sfera dei giudizi e delle preferenze individuali con quella degli assetti macroistituzionali. Come tali questi cicli, o queste ondate, essendo categorie più incerte
e comprensive, riguardano solo indirettamente le nostre forme di integrazione fra
società ed economia con i corrispondenti criteri di allocazione. Ma il rilievo per il
discorso che qui viene condotto è indubbio, come lo può dimostrare la vicenda
della società industriale nel mezzo secolo che segue alla fine della seconda guerra
mondiale. Certo le fasi hanno più a che fare con i fenomeni di comportamento
collettivo che con le forme di allocazione, tuttavia a cambiamenti generalizzati sul
primo fronte si accompagnano quasi sempre anche trasformazioni nel secondo. E
questo è un buon punto di partenza.
Lo sforzo di Hirschman è innanzitutto di carattere teorico, e riguarda le ragioni
esplicative dei cicli: "La costruzione di qualsivoglia teoria dei cicli del
comportamento collettivo deve affrontare un compito difficoltoso. Per essere
convincente una tale teoria deve essere endogena: ossia occorre mostrare che una
fase deriva necessariamente dalla precedente (dalle sue contraddizioni, per usare
il linguaggio marxiano)..."(1983, p.8). Allo stesso mondo procedono le teorie sui
cicli di attività economica che cercano di dimostrare come le fasi di recessione o
di crollo derivino sempre dalle precedenti situazioni di espansione o di boom (e
viceversa). In altre parole una teoria sociale dei cicli richiederebbe una
corrispondente teoria dell'equilibrio, ma nulla di paragonabile agli schemi della
teoria economica è disponibile nelle discipline sociali. Da qua anche la grande
cautela di Paci nel parlare di cicli lunghi nel campo delle attività di welfare. Le
grandi cause di mutamento storico si qualificano quasi sempre come esogene, a
meno che anch' esse siano riconducibili a cause interne, e questo è abbastanza
raro. D'altronde, per definizione, il ciclo richiede ripetibilità, un carattere
difficilmente riscontrabile nei fattori esogeni di mutamento. Sono chiarimenti
teorici che per alcuni aspetti si ricollegano alle affermazioni condotte più sopra
(parag.3), in merito alla opportunità di ritrovare meccanismi esplicativi degli
aspetti dinamici del modello polanyiano che siano in grado di render conto
contemporaneamente dei mutamenti diacronici e di quelli sincronici. E questi
meccanismi risulteranno in buona parte di origine endogena.
L'endogenità è ritrovata da Hirschman nella sfera micro per eccellenza, ovvero
in quella psicologica individuale, ed in particolare nei meccanismi della
delusione. Il cambiamento del coinvolgimento nel pubblico o nel privato sarà
frutto dell'alternarsi di ondate di delusione nei confronti dell'uno o dell'altro
ambito, originate in specie dal divario fra aspettative e realtà. Il ricorso alla sfera
individuale pone comunque problemi nella considerazione della sfera aggregata.
I passaggi fra le forme di allocazione
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Cosa assicura che nell'aggregato non ci siano delle dimensioni costanti della
delusione dato che i singoli cittadini-utenti potrebbero essere coinvolti a turno nei
processi di delusione? Di questo problema è consapevole lo stesso Hirschman
(p.18), che suggerisce in proposito come nuove esperienze generalizzate di
consumo (ad esempio la diffusione di beni di consumo durevoli) potrebbero
condurre a variazioni sensibili nella delusione "aggregata". Ma così facendo,
ammette l'autore, si fa leva sul mutamento eccezionale, esogeno, proprio quello
che rende arduo il parlare di cicli. Da questa impasse non si esce, ed è proprio
questo che conferma la necessità della cautela nell'evocare fenomeni ciclici di
alternanza pubblico-privato. Tale limite non pregiudica in tutto il meccanismo
esplicativo proposto da Hirschman, che si addentra nella forza e nella debolezza
dei desideri per confermare la validità di una famosa osservazione di G.B.Shaw:
"Vi sono due tragedie nella vita. Una è di non ottenere ciò che il vostro cuore
desidera. L'altra è di ottenerlo" (1983, p.66).
Dal contributo di Hirschman vengono inoltre due suggerimenti importanti per
il discorso qui condotto, ovvero per la ricerca di soluzioni ai problemi posti dagli
aspetti dinamici del modello polanyiano. Sono entrambi suggerimenti che ci
conducono verso i temi che saranno oggetto tipico del prossimo capitolo, che
riguardano cioè le relazioni micro-macro, ed anche la dimensione cognitiva dei
mutamenti nelle forme istituzionali. La prima riguarda la possibilità che i
cambiamenti, i passaggi, le successioni nelle forme (e nei principi) di allocazione
siano interpretabili come frutto di cambiamenti nelle "metapreferenze", con un
richiamo esplicito ai "sistemi di preferenze metaordinate" di Sen, o alle "volizioni
di secondo ordine" di Frankfurt (p.78). La seconda, richiama la possibilità che
costi di transazione negativi , ovvero situazioni nelle quali i soggetti accentuano il
valore dei benefici e sottovalutano i costi dei corsi di azione, possano spiegare i
passaggi fra pubblico e privato, e dunque fra le forme istituzionali corrispondenti.
Sono situazioni nelle quali opera un "effetto di rimbalzo" da esperienze precedenti
segnate da delusione (1983, p.88). Anche questa è una obiezione non di poco
conto, alla prevedibilità ed automaticità del meccanismo dei costi di transazione.
6.
Qualche conclusione sulle ragioni di passaggio e questioni aperte
Si sarà visto come tutti i contributi teorico-interpretativi sopra ricordati
presentino non pochi apporti costruttivi per la risoluzione del nostro "problema
polanyiano": ovvero la risposta ai quesiti posti dalle relazioni dinamiche nel
modello. E' quello che abbiamo definito il problema dei "passaggi" fra le forme,
sia nel senso diacronico che in quello sincronico. Un problema che dovrebbe
essere risolto, per molti aspetti, in modo omogeneo. Ovvero ricercando soluzioni
che abbiano qualcosa da dire per entrambi i sensi di passaggio, o di mutamento.
I meccanismi interpretativi che più si sono avvicinati alla soluzione sono
certamente quelli derivanti dal modello dei costi di transazione, così come
presentato nei contributi dell'economia neo-istituzionalista. Nella accezione che
legge questi costi soprattutto come costi di informazione (North), una ragione
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I passaggi fra le forme di allocazione
prevalente dei passaggi fra le forme di integrazione dell'economia (e di
allocazione) sarebbe la possibilità di riduzione dei costi permessa nel passaggio
da una forma all'altra. Ovvero, visto dall'altro lato, le possibilità di praticabilità di
alcune forme (ad esempio il mercato) sono innalzate dalla discesa sensibile dei
costi di transazione. Ma come si valuteranno questi costi? Come si apprezzeranno
le costrizioni informali (ad es. di origine culturale)? Queste ed altre domande si
pongono, e le risposte sono ancora incerte.
In effetti, il modello dei costi di transazione nel momento nel quale si pone
nella "giusta" direzione, ovvero la considerazione delle istituzioni sociali
all'interno della riflessione economica, propone un meccanismo esplicativo di
indubbia eleganza dal punto di vista della teoria economica, ma in parte
inadeguato e talvolta "inesplicabile" nel campo della teoria sociale. Lo ha notato
efficacemente Carlo Trigilia (1989, p.153), riconoscendo che l'approccio dei costi
di transazione "finisce per utilizzare un modello analitico atemporale, a elevata
generalizzazione, che comprime le possibilità di valorizzare pienamente le
variabili sociali ". Uno strumento che rende conto solo in parte della variabilità
spaziale e temporale delle forme di allocazione e di integrazione fra economia e
società.
Il modello dei costi di transazione è in primo luogo difficilmente applicabile
nei casi nei quali le attività, i beni o servizi, le transazioni in generale, cambiano
di natura passando da una forma all'altra. E questi sono di certo cambiamenti
rilevabili a fatica dalla teoria economica. Ma il modello mal si adatta anche nei
casi nei quali è in gioco la spontaneità della scelta dell'attore. Lo si è visto nel
caso delle transazioni solidaristiche a favore di estranei. Il modello acquista quasi
un significato paradossale, infine, nei casi nei quali diventa possibile parlare ,
come suggerisce Hirschman, di "costi di transazione negativi".
In tutti e tre i casi la teoria sociale ed anche l'approfondimento dei modelli
cognitivi degli attori dovranno venire in aiuto del meccanismo esplicativo
derivante dai costi di transazione. In altri casi il meccanismo non sarà forzabile
più di tanto, e diventerà necessario rifarsi ai cambiamenti nelle meta-preferenze,
più o meno derivanti da obblighi morali e sociali. In ogni caso quello che è in
gioco è l'automaticità del mutamento innescato dalla spinta dei costi di
transazione. Fra la spinta ed il cambiamento esiste comunque un attore, con i suoi
modelli di percezione dei problemi ed i suoi spazi di decisione. E qua si entra già
nei contenuti del prossimo capitolo.
Dai contributi di riflessione (di Weisbrod soprattutto) sulle diverse modalità di
allocazione nei beni di welfare abbiamo anche tratto l'importanza della spinta dei
mutamenti nella composizione della domanda derivanti da nuovi rapporti e
nuove esigenze di equilibrio nelle strutture sociali e culturali. Da questa spinta
nasceranno passaggi fra le forme di allocazione, ma anche ridefinizioni dei
confini fra le stesse. Di questo ci si occuperà nel capitolo IV. Per il momento il
percorso è tracciato, a partire da un modello , quello polanyiano, che ci si è
confermato nella sua validità interpretativa, ed anche evocativa.
I passaggi fra le forme di allocazione
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