SENSORI E BIOSENSORI 6.1 INTRODUZIONE Un sensore chimico è un dispositivo integrato capace di fornire una informazione quantitativa o semiquantitativa sulla presenza di un determinato composto chimico (substrato o analita) in un certo ambiente. Questa capacità deriva dall’abilità di trasformare una qualche informazione legata alla concentrazione del substrato, risultato di una qualche interazione chimica o di una reazione, in un segnale (generalmente un segnale elettrico, ma può essere anche di altra natura, ad esempio colorimetrico). Ciò richiede, normalmente, la presenza di un “riconoscitore” chimico (recettore), che subisce una qualche modificazione chimica da parte del substrato o provoca una qualche reazione chimica che coinvolge il substrato, ed un trasduttore chimico-fisico, che trasforma la modificazione chimica del recettore in un segnale elettrico. Un sensore elettrochimico è un sensore che utilizza un elettrodo come trasduttore, per cui il segnale è un segnale elettrochimico (a seconda della tecnica impiegata può essere un potenziale o una corrente o un’impedenza). I sensori elettrochimici sono molto interessanti, grazie alla elevata sensibilità, alla semplicità d’uso e al basso costo. I sensori elettrochimici utilizzano elettrodi chimicamente modificati, cioè elettrodi la cui SUBSTRATO superficie viene trasformata chimicamente, in generale mediante reazione del substrato adsorbimento chimico di una qualche RECETTORE specie capace di interagire con modificazione del recettore l’analita desiderato. Naturalmente la TRASDUTTORE specie adsorbita deve rispondere al requisito di selettività del sensore, per segnale output cui lo sforzo è sempre orientato all’individuazione di un opportuno recettore, dopo di che si dovrà risolvere il problema di depositare il recettore sulla superficie di un elettrodo e garantire la “comunicazione” tra recettore ed elettrodo. Un biosensore è un sensore (chimico o elettrochimico) nel quale il recettore utilizza un meccanismo biochimico. Una delle proprietà fondamentali di un sensore è la selettività, cioè la capacità di riconoscere e, quindi, rispondere ad una specifica sostanza chimica. I processi di riconoscimento biochimico sono caratterizzati da alta selettività, per cui lo sviluppo di biosensori è oggetto di forte interesse. Il trasduttore serve a trasferire il segnale dall’uscita del dominio del recettore (cioè la modificazione di una qualche proprietà chimico-fisica del recettore) quasi sempre al dominio elettrico (cioè in un segnale elettrico). Spesso viene chiamato detector, oppure sensore o elettrodo, anche se il termine trasduttore è più appropriato. Un biosensore elettrochimico è un sensore che utilizza come elemento riconoscitore un composto biologico (recettore biochimico), che è in diretto contatto fisico con un trasduttore elettrochimico, cioè un dispositivo in grado di trasformare la ricognizione in una modifica di un qualche segnale elettrochimico. Per tale motivo il reagente biospecifico viene immobilizzato su un opportuno elettrodo, capace di dare un responso elettrochimico correlato all’azione del recettore biochimico. Si tratta quindi di realizzare degli elettrodi chimicamente modificati, in grado di “ospitare” adeguatamente il recettore biochimico; ciò significa poter depositare sulla superficie elettrodica una qualche sostanza in grado di garantire la comunicazione elettrica e di fissare il recettore, garantendone l’attività naturale. La tendenza è quella di realizzare biosensori facili da usare e possibilmente poco costosi, perché possano essere realizzati anche nella forma monouso. La realizzazione di biosensori segue due linee di sviluppo: 95 a) riconoscimento biocatalitico è basato su una reazione chimica catalizzata da una macromolecola biologica; il substrato (analita) viene consumato continuamente dal biocatalizzatore incorporato nel sensore, potendosi avere sia responsi transienti che in stato stazionario, che vengono monitorati da un detector integrato; i più frequenti biocatalizzatori sono enzimi (mono- o multi-enzimi); cellule integrali (batteri, funghi, cellule eucariote, lieviti); tessuti (animali o vegetali); generalmente il substrato (S) reagisce con qualche altra sostanza chimica (S’) per azione del biocatalizzatore, producendo uno o più prodotti; il trasduttore può essere sensibile al consumo del co-substrato S’, oppure al prodotto P o anche al possibile trasferimento elettronico tra il sito attivo di un enzima redox e l’elettrodo; b) riconoscimento per biocomplessamento o bioaffinità in questo caso si ha una interazione diretta tra il substrato e la macromolecola biologica per cui si raggiunge la condizione di equilibrio e non si ha un consumo del substrato; le interazioni possono essere del tipo anticorpo-antigene oppure recettore-antagonista-agonista. Tabella 6.1 Principali recettori e relative misure elettrochimiche dei più diffusi sensori (in corsivo sono indicati i costituenti di biosensori). Analytes Receptor/chemical recognition system 1. Ions Mixed valence metal oxides; permselective, ion-conductive inorganic crystals; trapped mobile synthetic or Measurement technique/ transduction mode Potentiometric, voltammetric biological ionophores; ion exchange glasses; enzyme(s) 2. Dissolved gases, vapours, odours 3. Substrates 4. Antibody/antigen Bilayer lipid or hydrophobic membrane; inert metal electrode; enzyme(s); antibody, receptor Enzyme(s); whole cells; membrane receptors; plant or animal tissue Antigen/antibody; oligonucleotide duplex, aptamer; enzyme labelled; In series with 1; amperometric; amperometric or potentiometric; amperometric, potentiometric or impedance, piezoelectric, optical Amperometric or potentiometric; in series with 1 or 2 or metal or carbon electrode, conductometric, piezoelectric, optical, calorimetric; as above; as above; as above; Amperometric, potentiometric or impedimetric, piezoelectric, optical, surface plasmon resonance; in series with 3; optical chemiluminescent or fuorescent labelled; 5. Various proteins and low molecular weight substrates, ions Specifc ligands protein receptors and channels; enzyme labelled; As 4 fuorescent labelled La classificazione dei sensori elettrochimici può essere fatta in diversi modi, a seconda dell’aspetto che viene considerato: il tipo di analita (come nella Tab. 6.1), il tipo di misura elettrochimica o, più in generale, chimico-fisica, il tipo di recettore. Per quanto riguarda il tipo di misura elettrochimica, esistono sostanzialmente quattro metodologie di funzionamento (Tab. 6.2), a seconda dei possibili trasduttori. Generalmente le diverse metodologie sono scelte in modo preferenziale a seconda dell’analita oggetto di indagine. 96 Tabella 6.2 Tipologie di misure elettrochimiche nei trasduttori di alcuni sensori Tipo di misura 1. Potentiometric 2. Amperometric 3. Conductometric, impedimetric 4. Ion charge or field effect Trasduttore Ion-selective electrode (ISE); glass electrode; gas electrode; metal electrode Metal or carbon electrode; chemically modifed electrodes (CME) Interdigitated electrodes; metal electrode Ion-sensitive field-effect transistor (ISFET); enzyme FET (ENFET) Analita K+ , Cl , Ca2+ , F H+, Na+ . . . ; CO2, NH3; redox species O2, sugars, alcohols . . . ; sugars, alcohols, phenols, oligonucleotides . . . Urea, charged species, oligonucleotides . . . H+, K+ . . . 6.2 BIOSENSORI A RICONOSCIMENTO BIOCATALITICO L’uso di enzimi come recettori è legato alla consapevolezza che nel corpo umano ci sono alcune migliaia di enzimi che servono a catalizzare specifiche bioreazioni con una elevata selettività, per cui possono essere eccellenti componenti di biosensori. Quando si utilizzano enzimi come recettori si devono considerare due questioni particolarmente importanti: l’adsorbimento dell’enzima sulla superficie elettrodica ed il trasferimento elettronico tra elettrodo ed il cuore redox dell’enzima (ad esempio l’eme delle proteine con Fe). L’adsorbimento dell’enzima sulla superficie elettrodica è detto immobilizzazione. Spesso questa comporta qualche problema: dopo essere stato adsorbito l’enzima espelle alcune parti vitali per cui viene denaturato; in pochi minuti si autodistrugge. Per evitare questa denaturazione è necessario costituire una sorta di cuscinetto tra la superficie metallica e l’enzima il che può essere fatto attraverso la cosiddetta “modificazione” superficiale, cioè ricoprendo la superficie elettrodica con uno strato di molecole organiche (ad esempio uno strato di 4,4’-bipiridile o di acetato di cellulosa). In questo modo la grossa proteina (enzima) non sente l’ambiente estraneo della Figura 6.2.1. Realizzazione di un biosensore elettrochimico superficie metallica per cui non subisce la decomposizione. In Fig. 6.2.1 è raffigurata in modo schematico la realizzazione di un biosensore elettrochimico con immobilizzazione di enzima. L’enzima viene depositato sullo strato di acetato di cellulosa e poi racchiuso con una membrana di collagene che lo tiene immobilizzato. 6.2.1 Biosensori per glucosio La determinazione del glucosio nel sangue è una analisi di enorme importanza per la diagnosi e la terapia del diabete. Per tale determinazione è stato realizzato il primo biosensore a base di enzima: si utilizza il glucosio ossidasi (GOx), che ossida il glucosio ad acido gluconico e, in 97 presenza di O2, produce acqua ossigenata: glucosio + O2 GOx acido gluconico + H2O2 (6.1) in questo caso viene monitorata amperometricamente l’acqua ossigenata che viene ossidata su un elettrodo di Pt, per cui si misura la corrente di ossidazione: H2O2 O2 + 2H+ + 2e (6.2) Questo modo di funzionamento è tipico dei biosensori elettrochimici della prima generazione (A), che funzionano, appunto, in modo indiretto, ossia l’enzima reagisce con il substrato S (in questo caso glucosio), producendo una specie chimica secondaria P2 (H2O2) che è in grado di interagire con l’elettrodo. L’elettrodo quindi interagisce con questo prodotto secondario (ossidandolo o riducendolo, a seconda dei casi), misurando la corrente, che è correlata alla concentrazione del composto P2 e, quindi, alla concentrazione di S. Questo sistema ha però due limiti: da una parte l’efficienza della produzione di P2 potrebbe non essere sempre ottimale, per cui la sensibilità di questa metodologia non è la migliore; dall’altra, generalmente più limitante, il fatto che il processo elettrodico (specialmente se di tipo amperometrico, cioè se misura la corrente che accompagna la riduzione o ossidazione di P2) non è molto selettivo, perché potrebbero esserci anche altre specie chimiche in grado di interagire contempora-neamente a P2 e l’elettrodo non è in grado di discriminare dato che non è specifico per la specie P2, ma è un generico conduttore elettronico. In questo modo si finisce quindi per sprecare la selettività del recettore. Ad esempio, nel caso dei biosensori per glucosio, nei liquidi biologici nei quali si effettua l’analisi, c’è molto spesso presenza di acido ascorbico o acido urico, che possono essere ossidati. Per tale motivo si è pensato di sviluppare biosensori della seconda generazione (B), Fig. 6.2.2 Diverse generazioni di biosensori: (A) prima generazione; (B) seconda generazione; che prevedono una diversa interazione (C) terza generazione. dell’elettrodo con il sistema recettore. E’ chiaro che, per sfruttare la elevata selettività del biorecettore, bisognerebbe che l’elettrodo potesse interagire direttamente con lo stesso biorecettore, avvertendo il suo cambiamento chimico (che avviene in seguito alla reazione con il substrato S), cioè fosse in grado di avvertire il cambiamento di stato di ossidazione del recettore. Però, nell’uso degli enzimi del tipo ossi-ridutasi è difficile avere il trasferimento elettronico tra il centro redox dell’enzima (generalmente all’interno del grosso involucro di amminoacidi) e la superficie elettrodica. Tale trasferimento avviene per tunneling, dato che la proteina non è in grado di condurre elettroni lungo i legami. E’ stato dimostrato che il tunneling può produrre salti per una distanza massima di 2 nm. Ora, uno tra i più piccoli enzimi, come il Citocromo c (peso molecolare 12400) ha un raggio di ca. 5 nm, per cui non è possibile avere tunneling tra il centro redox dell’enzima e la superficie elettrodica. In questo caso 98 si rende “conduttore” l’enzima introducendo dei mediatori, gruppi redox (Ox/Red) capaci di diffondere all’interno dell’involucro enzimatico, in modo da ridurre il salto elettronico tra un centro e l’altro, fino al cuore dell’enzima. Come mediatori si utilizzano diversi composti redox organici o organometallici: ad esempio metilferrocene (a), tetratiafulvalene (b), tetracianochinondimetano (c), mostrati nello schema a fianco. In Fig. 6.2.2 (B) è riportato lo schema di un biosensore di questo tipo, dove si evita anche l’impiego dell’ossigeno per cui l’ossidazione del glucosio viene effettuata da parte dell’enzima Eox (cioè GOx), che viene quindi ridotto dal glucosio a Ered. La forma ridotta dell’enzima, anziché venire ossidata da O2, questa volta viene ossidata dal catalizzatore Ox (ad esempio dopamina) che, una volta ridotto in fase omogenea a Red, viene riossidato all’elettrodo. glucosio + GOx(ox) GOx(red) + 2Ox 2Red acido gluconico + GOx(red) GOx(ox) + 2H+ + 2Red 2Ox + 2e (6.3) (6.4) (6.5) In questa situazione si ha quindi un trasferimento elettronico (TE) tra l’enzima (che è stato ridotto dal substrato) ed il mediatore (Ox), dopo di che la forma ridotta del mediatore (Red) viene ossidata all’elettrodo. Poiché la forma ridotta Red può essere prodotta solo da GOx(red), cioè dalla forma ridotta dell’enzima (ERed), che, a sua volta, può essere prodotta solo dall’ossidazione del nostro substrato S, è chiaro che la corrente di ossidazione di Red corrisponde direttamente all’ossidazione di S. Nel caso del glucosio ossidasi il processo diventa la sequenza 6.3-6.5, che consente, ad esempio, di realizzare un sensore a penna o come strip dove basta una goccia di sangue per rilevare il contenuto di glucosio, con un tempo di risposta di ca. 30 s. In Fig. 6.2.3 è riportato lo schema di un sensore a striscia: l’elettrodo lavorante contiene il GOx opportunamente immobilizzato, per cui il suo potenziale dipende dalla quantità di glucosio. La differenza di potenziale tra il lavorante ed il riferimento è quindi il segnale elettrico (misura potenziometrica) che viene misurato inserendo la striscia (attraverso i due contatti) in un voltmetro digitale. Figura 6.2.3. Sensore a strip Un’altra possibilità è quella di modificare l’enzima introducendo un comunicatore che consenta la ricostituzione dell’enzima (Fig. 6.2.4). Ad esempio, nel caso di GOx viene rimosso il centro attivo (flavina-adenina dinucleotide, FAD) e viene inserito un gruppo FAD modificato, al quale è stato attaccato un gruppo ferrocenile. In questo caso è il gruppo ferrocenile che è in grado di comunicare con l’elettrodo, per cui si può 99 misurare sia il potenziale della coppia ferricinio/ferrocene (trasduttore potenziometrico) che la corrente erogata (trasduttore amperometrico). Naturalmente l’ideale sarebbe che l’elettrodo potesse interagire direttamente con l’enzima, come avviene nei biosensori della terza generazione (C). In questo caso l’interazione diretta tra elettrodo e centro redox dell’enzima è resa possibile dalla particolare struttura del materiale elettrodico che riduce la distanza e rende possibile il tunneling elettronico tra enzima ed elettrodo. Fig. 6.2.4. Schema di modificazione del GOx. 6.2.2 Biosensori per etanolo Un altro esempio di biosensori elettrochimici di largo impiego riguarda la determinazione dell’etanolo. In questo caso si utilizza il nicotinammide-adenina dinucleotide (NAD+) in presenza di alcol deidrogenasi (ADH): C2H5OH + NAD+ ADH CH3CHO + NADH (6.6) L’alcol etilico viene ossidato ad aldeide ed il NAD+ viene ridotto a NADH. Il NADH viene poi riossidato elettrochimicamente a NAD+ (reazione 6.7) per cui si rileva la corrente di ossidazione NADH NAD+ + H+ + 2e (6.7) Il sensore si realizza immobilizzando in prossimità di un elettrodo di carbone o Pt una miscela di NAD+ e ADH, per cui, introducendo tale elettrodo nella soluzione alcolica si ottiene l’ossidazione dell’etanolo e, conseguentemente, la corrente anodica. L’ossidazione di NADH richiede peraltro una elevata sovratensione; per ovviare a questa difficoltà si può ricorrere ad un mediatore di trasferimento elettronico, cioè un’altra sostanza capace di ossidarsi ad un potenziale più basso (meno positivo) sulla superficie elettrodica e ossidare poi, per via chimica, il reagente (NADH), realizzando quindi il processo elettrochimico per via catalitica (catalisi redox omogenea). 6.2.3 Biosensori a tessuto o a batteri I sensori ad enzimi soffrono l’instabilità che spesso manifestano gli enzimi isolati; inoltre sono abbastanza costosi. Una valida alternativa, almeno in taluni casi, è rappresentata dall’utilizzo di materiali cellulari: tessuti vegetali o cellule di batteri, ecc.. Ad esempio i tessuti di banana, che contengono polifenolo ossidasi, possono venire impastati con carbone realizzando così un sensore sensibile alla dopamina, che di fatto funziona come un elettrodo ad enzima, solo che non si usa un enzima isolato, ma il molto meno costoso tessuto. 6.3 BIOSENSORI AD AFFINITA’ I sensori ad affinità sfruttano la capacità selettiva di alcune molecole di legare determinate specie chimiche. Ad esempio molecole come anticorpi o polinucleotidi sono in grado di legare specificamente determinate molecole, con un processo di associazione altamente selettivo. 100 Una possibilità è quella di sfruttare la reazione tra un anticorpo (Ac) ed un antigene (Agene) per formare il complesso anticorpo/antigene (Ac/Agene): Ac + Agene Ac/Agene (6.8) Un anticorpo è una proteina globulare prodotta da un organismo per legare una molecola estranea (come appunto un antigene) e marcarla perché venga eliminata dall’organismo. I biosensori ad affinità, detti anche immunosensori, utilizzano degli anticorpi o degli antigeni, marcati con un enzima in grado di reagire con il substrato (S) per trasformarlo in un qualche prodotto (P). Esistono due diverse versioni: gli immunosensori: sandwich e diretti (Fig. 6.3.1). Gli Fig. 6.3.1 Biosensori ad affinità. immunosensori sandwich hanno gli anticorpi attaccati alla superficie elettrodica ricoperta da una opportuna membrana; tali anticorpi legano gli antigeni i quali, a loro volta, legano degli altri anticorpi marcati con gli opportuni enzimi. A questo punto gli elettrodi vengono introdotti nell’ambiente contenente il substrato e la reazione enzimatica, che trasforma il substrato in prodotto, viene monitorata elettrochimicamente. In quelli diretti invece vengono marcati gli antigeni con l’enzima e monitorata sempre l’attività enzimatica di trasformazione del substrato in prodotto. 6.4 SENSORI AD ARGILLA Un modo largamente diffuso di modificare la superficie elettrodica per poter adsorbire diversi tipi di recettori è quello di depositare sulla superficie di un elettrodo una argilla (clay-modified electrode, CLME). Le argille sono solidi plastici costituiti da particelle molto piccole, in grado di assorbire acqua fino a costituire una sospensione colloidale. Sono di due tipi: cationiche e anioniche; le prime rappresentano le argille naturali, largamente diffuse sulla crosta terrestre (ne sono il principale costituente); sono costituite da strati di alluminosilicati (specie anioniche), per cui possono incorporare cationi. Le seconde sono artificiali, costituite da strati di idrossidi caricati positivamente, per cui possono incorporare anioni. Le argille possono servire come matrici per incorporare ioni elettroattivi, essendo in grado di incorporare ioni mediante processi di scambio ionico, in modo analogo agli ionomeri polimerici. Inoltre l’adsorbimento di proteine sulla superficie di un’argilla consente la realizzazione di biosensori. In questo caso si realizza un film di argilla-proteina, depositando una certa concentrazione di proteina su un CLME. La modificazione elettrodica con argille favorisce il processo di trasferimento elettronico eterogeneo tra la proteina e la superficie elettrodica (che, come abbiamo visto, è uno dei problemi più rilevanti di molti biosensori). Le argille cationiche riescono a mantenere le proteine con una orientazione favorevole per rendere veloce il trasferimento elettronico con la superficie elettrodica (per cui consentono di realizzare biosensori della terza generazione). D’altra parte la proteina non viene modificata dalle interazioni con l’argilla, per cui conserva la propria struttura nativa (mentre subisce spesso degradazione quando viene adsorbita direttamente sulla superficie di un elettrodo). Le argille anioniche sono dette anche Layered double hydroxides (LDH) e sono costituite da miscele di idrossidi e sali, che possono incorporare anioni per scambio anionico con gli OH . Il loro 101 comportamento è molto simile e speculare a quello delle cationiche e appaiono molto promettenti per l’analisi degli anioni. Per favorire il trasporto di carica all’interno dello strato di argilla è opportuno renderla amorfa e non cristallina, in modo che i pori siano più facilmente accessibili. Questo richiede ad esempio che si usino argille con particelle più piccole (ad esempio laponite al posto di montmorillonite), oppure si può impastare l’argilla con un tensioattivo o un polimero in grado di favorire l’espansione porosa delle stesse. Un’alternativa è la possibilità di incorporare nell’argilla dei centri redox che facciano da trasmettitori: per le argille cationiche si utilizza Fe, Co, Cu, mentre per quelle anioniche si utilizzano Ni, Co, Mn. Ulteriore possibilità è quella di impastare l’argilla con un polimero conduttore (ad esempio polipirrolo) o un composito conduttore (V2O5). La preparazione di elettrodi modificati con argilla (CLME) è un processo abbastanza semplice. Si deposita la sospensione di argilla sulla superficie elettrodica (generalmente a spruzzo) e si lascia evaporare lentamente. Alternativamente si possono realizzare delle paste di argilla e carbone da depositare su una qualche superficie elettrodica. 6.4.1 Sensori a preconcentrazione Esistono molti sensori elettrochimici ad argille, per la determinazione di ioni metallici pesanti (Fe3+, Ag+, Cu2+, Hg2+, Cd2+, Ca2+), ma anche per la determinazione di sostanze organiche (anilina, fenolo, nitrobenzene, nitrofenolo, dopamina, acido urico, xantina, ecc.). Un’importante proprietà del film di argilla è quella di provocare la cosiddetta “preconcentrazione” del substrato, grazie all’assorbimento dello stesso nei pori dell’argilla, per cui si realizza una concentrazione maggiore in prossimità della superficie elettrodica e, quindi, un maggiore segnale elettrochimico. Per consentire una efficace preconcentrazione è necessario un adeguato tempo di accumulo. L’elettrodo deve essere lasciato a contatto con la soluzione del substrato per un tempo sufficiente perché il substrato possa venire assorbito dallo strato di argilla, dopo di che si effettua la misura elettrochimica (naturalmente si ha un protocollo che fissa in modo preciso tempi di accumulo e di misura. Con questa metodologia si possono determinare anche solo tracce di ioni (fino a 10 10 M), per cui la tecnica della preconcentrazione viene ampiamente utilizzata per l’analisi dei metalli pesanti, che hanno elevata tossicità. La stessa metodologia è utilizzata anche per l’analisi di sostanze organiche neutre, come pesticidi o farmaci. In questo caso si può preanodizzare l’elettrodo modificato, realizzando così una sensibile presenza di Fe (costituente dell’argilla) ad alto stato di ossidazione, capace di attirare il substrato organico nell’argilla. 102 6.4.2 Sensori elettrocatalitici Una metodologia abbastanza diffusa con i CLME è la realizzazione di sensori elettrocatalitici. Si tratta di dispositivi nei quali il trasferimento elettronico (TE) tra la superficie elettrodica ed il substrato viene mediato da un catalizzatore immobilizzato sulla superficie elettrodica. In altri termini, in prossimità della superficie elettrodica è presente un “catalizzatore” che può subire un trasferimento elettronico reversibile (quindi molto veloce) da parte dell’elettrodo. Tale catalizzatore scambia poi gli elettroni con il substrato, il quale, al potenziale di lavoro, non 1 1 Figura 6.4.1. Catalisi redox omogenea. è in grado di dare TE diretto con l’elettrodo a causa della elevata sovratensione dovuta alla lentezza del suo TE. Questo meccanismo, detto catalisi redox omogenea, consente di ridurre la sovratensione per il processo di TE al substrato e aumenta la corrente elettrodica (e quindi la sensibilità del sensore). Se consideriamo lo schema di Fig. 6.4.1, la coppia redox Ox/Red è il catalizzatore che interagisce con l’elettrodo ad un potenziale al quale il substrato (S) non è in grado di interagire, a causa della elevata sovratensione del suo TE. Normalmente si ha quindi la riduzione di Ox Ox + e Red (6.9) dopo di che Red è in grado di ridurre direttamente il substrato S in fase omogenea (cioè alla superficie di contatto tra la membrana di argilla e la soluzione elettrolitica) Red + S Ox + P (6.10) dando luogo al processo di trasformazione elettrochimica del substrato. In queste condizioni si ha la riduzione del substrato al potenziale di riduzione del catalizzatore Ox. D’altra parte l’ossidazione di Red da parte di S riforma Ox, che è in vicinanza dell’elettrodo e quindi può essere nuovamente ridotto: la coppia Ox/Red subisce quindi un numero elevato di cicli di TE, per cui la corrente che passa all’elettrodo risulta molto più alta di quella che avremmo in assenza di S, per la sola monoriduzione di Ox. Nello schema di Fig. 6.4.1 è riportata anche una seconda coppia redox Ox1/Red1, che non è strettamente necessaria per la catalisi redox omogenea (infatti basta la prima coppia redox), ma in taluni casi si possono avere meccanismi multipli come quello indicato in questo caso. La specie Red non è in grado di reagire con il substrato, ma può ridurre un’altra specie Ox1 (che potrebbe non essere in grado di raggiungere l’elettrodo e quindi non può ridursi direttamente all’elettrodo), che è invece in grado di ridurre il substrato (magari per una maggiore affinità chimica che facilita il TE tra Red1 ed S). Un caso del genere si realizza ad esempio in sensori per H2O2, nei quali si usa il metilviologeno (MV2+) come coppia Ox/Red, capace di ridursi all’elettrodo MV2+ + e MV+ (6.11) 2+ MV per ridurre poi la coppia Ox1/Red1, cioè il Fe3+ dell’argilla (nontronite), che è immobilizzato nella struttura della stessa MV+ + Fe3+ MV2+ + Fe2+ il Fe2+ è in grado di ridurre l’acqua ossigenata (reazione di Fenton) 103 (6.12) 2Fe2+ + H2O2 + 2H+ 2Fe3+ + 2H2O (6.13) 6.4.3 Biosensori amperometrici Come abbiamo detto al capitolo 6.2, l’immobilizzazione di un enzima rappresenta un passaggio cruciale per la realizzazione di un biosensore, dato che è possibile avere la denaturazione dello stesso enzima. Le argille si presentano come particolarmente adatte a questa attività di immobilizzazione, grazie alle loro caratteristiche di idrofilicità e porosità e alla capacità di rigonfiamento. L’intrappolamento di un enzima nella matrice argillosa è un procedimento semplice e poco costoso: si tratta di far adsorbire una soluzione colloidale di argilla ed enzima sulla superficie elettrodica. Purtroppo, il tempo di vita di un tale elettrodo modificato risulta abbastanza limitato, dato che l’enzima viene lentamente rilasciato in soluzione. Per ovviare a questo inconveniente si introduce nell’argilla una qualche sostanza capace di legare l’enzima. Come abbiamo già detto, l’utilizzazione di argille nella realizzazione di biosensori per la determinazione del glucosio, consente di realizzare biosensori della terza generazione, che sfruttano quindi pienamente l’elevata selettività dell’enzima. 6.5 NANOPARTICELLE Una delle frontiere più promettenti della sensoristica elettrochimica, ma non solo, è l’utilizzazione di nanoparticelle. Lo sviluppo di nanoparticelle ha avuto un grande impulso grazie alle proprietà dell’oro di formare con facilità nanoparticelle, di notevole stabilità (anche all’aria, per cui possono essere facilmente manipolate). In realtà l’utilizzo di nanoparticelle d’oro risale ai tempi antichi (probabilmente V-IV Sec. AC, in Egitto e in Cina, dove si utilizzava il cosiddetto “oro solubile” sia per attività decorative che come medicinale). In effetti l’oro solubile era una dispersione colloidale di nanoparticelle di oro metallico, che costituiva una soluzione rosa utilizzata frequentemente durante il medioevo per curare diverse malattie. Nel 1618 fu pubblicato il primo libro sull’oro “potabile”. Nel 1857 Faraday riportò la formazione di soluzioni rosso intenso di oro colloidale, per riduzione di cloroaurato (AuCl4 ) con fosforo in solfuro di carbonio. Il termine colloidale in realtà fu coniato pochi anni dopo (dal francese colle). Faraday riuscì a depositare uno strato di questo colloide facendo evaporare la soluzione e poté constatare che si aveva un cambiamento reversibile di colore mediante compressione meccanica. Le proprietà fisiche e chimiche di nanoparticelle metalliche con un diametro tra 1÷10 nm sono notevolmente diverse da quelle del metallo massivo, ma anche da quelle del singolo atomo, fortemente dipendenti dalle dimensioni delle nanoparticelle (oltre che dalla distanza interparticelle) e dalla natura del guscio di protezione (che è necessario per stabilizzare le nanoparticelle ed impedire la loro coagulazione). Nelle nanoparticelle di dimensioni inferiori a 20 nm si ha un gap tra la banda di valenza e quella di conduzione (a differenza dei metalli), per cui si ha una transizione metallo-isolante quando le dimensioni scendono al di sotto di tale valore. Peraltro si è verificato che questi nanoclusters sono in grado di manifestare fino a 15 stati di ossidazione (in realtà parrebbe che il numero fosse limitato dalla finestra di potenziale esplorabile, più che dalle proprietà redox del nanocluster). La struttura dei nanoclusters è assimilabile a quella che si ottiene considerando gli atomi di Au come sfere, per cui ciascun atomo è circondato da 12 atomi-sfere. Ciò comporta che ogni guscio è costituito da 10n2 + 2 particelle, quindi i clusters più frequenti sono (n = 3÷8) Au55 (1+12+42), Au147 (1+12+42+92), Au309, Au561, Au923, Au1415, Au2057 (1+12+42+92+162+252+362+492+642). La preparazione di nanoparticelle di oro (AuNPs) è stata realizzata, più di cinquant’anni fa, per semplice riduzione dell’acido cloroaurico HAuCl4 con citrato di sodio in acqua. Per stabilizzare le nanoparticelle è però necessario aggiungere anche un tiolo detto pure mercaptano: CH3-(CH2)n-SH. 104 In Fig. 6.5.1 si usa un tensioattivo (2) ed il mercaptopropionato di sodio (1) HS-CH2-CH2-CO2Na. I tioli hanno la capacità di attaccarsi sulla superficie di Au metallico, formando un guscio di molecole che ricopre totalmente la superficie con un monostrato molto compatto (self assembled monolayer: SAM), che rende stabili le nanoparticelle e impedisce la loro coalescenza. Il legame tra il tiolo e Au non è ben definito: in effetti non si tratta di un vero solfuro (la reazione tra Au metallico e RSH non sembra sviluppare H2, d’altra parte la formazione avviene anche utilizzando un disolfuro R-S-S-R). Lo stato di ossidazione di Au nelle AuNPs appare essere Au0, per Figura 6.5.1. Preparazione nanoparticelle di Au. cui il legame Au-S non avrebbe le caratteristiche di un solfuro. D’altra parte, nel legame tra Au e il tiolo non appare essere presente l’H (la decomposizione termica produce infatti disolfuro e non il tiolo), per cui la questione è ancora aperta. Il legame risulta essere Au-S, ma con caratteristiche diverse del solfuro di Au. L’ossidazione con iodio di nanoclusters SAM porta alla formazione di ioduro di oro e disolfuro, il che consente di sciogliere le AuNP, ad esempio dopo averci costruito un guscio di molecole attorno (un caso tipico è quello di costruire un guscio di polimero) per cui rimane il guscio vuoto, che può essere utilizzato per diverse applicazioni. Il metodo più largamente utilizzato oggi è quello di Brust-Schiffrin (Fig. 6.5.2), che prevede una riduzione in un sistema bifasico e la stabilizzazione delle nanoparticelle con alcantioli: l’anione cloroaurato AuCl4 viene trasferito dalla soluzione acquosa al toluene grazie alla presenza di cationi tetraottilammonio (C8H17)4N+, avendo sciolto in toluene bromuro di tetraottilammonio (C8H17)4NBr, che si dissocia abbastanza facilemente grazie alle grandi Figura 6.5.2. Sintesi di Brust-Schiffrin. dimensioni del catione (per cui le interazioni coulombiane sono meno forti). In toluene l’anione cloroaurato viene poi ridotto con NaBH4, in presenza di dodecantiolo C12H25SH, formando nanoparticelle di dimensioni che dipendono dal rapporto tiolo/Au, ma con una relativamente bassa dispersione. AuCl4 (aq) m AuCl4 + (C8H17)4N+(toluene) (toluene) (C8H17)4N+AuCl4 + n C12H25SH(toluene) + 3m e La sintesi di Brust-Schiffrin consente di preparare AuNPs con vari gruppi funzionali grazie alla possibilità di reazioni di scambio degli alcantioli, per cui si possono attaccare alla AuNP dei tioli con opportuni gruppi funzionali (Fig. 6.5.3) che possono svolgere diverse funzioni (catalisi, recettori, building blocks, ecc.). (toluene) (6.14) 4m Cl + [Aum(C12H25SH)n](toluene) (6.15) Figura 6.5.3. Funzionalizzazione di AuNP per scambio di alcantioli. 105 Questa metodologia di scambio, consente di sfruttare tutte le abilità della sintesi organica per funzionalizzare le AuNPs in relazione ai diversi impieghi che se ne possono fare. In particolare è possibile introdurre dei gruppi funzionali terminali che consentano di ancorare le AuNPs su specifiche superfici (elettrodiche), per tutte le applicazioni di tipo eterogeneo (catalisi chimica ed elettrochimica, elettrodi chimicamente modificati, ecc.). D’altra parte è possibile introdurre gruppi funzionali in grado di svolgere particolari azioni (ad esempio recettori per sensori e biosensori). Oltre agli alcantioli, che rimangono comunque i principali composti impiegati per stabilizzare le AuNPs, possono venire utilizzate anche altre sostanze. Ad esempio fosfine (come la trifenilfosfina PPh3 o la tri-n-ottilfosfinaossido, TOPO) che consentono di ottenere anche degli arrays bidimesionali e tridimensionali di AuNPs. Un’altra possibilità è quella di utilizzare dei polimeri come stabilizzanti delle AuNPs. Naturalmente il ruolo del polimero è quello di impedire la coagulazione delle nanoparticelle. Si è realizzata la formazione di AuNPs per riduzione di HAuCl4 (mediante riflusso in metanolo) in presenza di PVP (polivinilpiridina) oppure per riduzione con NaBH4 in presenza di poliacrilammide. Un aspetto di particolare rilevanza, per la grande potenzialità applicativa, è la possibilità di realizzare dei dendrimeri. Si tratta cioè di attaccare alla nanoparticella (fig. 6.5.4), sempre mediante un gruppo SH, dei dendrimeri che consentono di svolgere diverse funzioni (in particolare nel campo della sensoristica). Si sono realizzate, ad esempio, nanoparticelle con attaccati fino a 180 gruppi ferrocenile. Figura 6.5.4. Sintesi di dendrimeri per reazione di scambio di tioli. 6.5.1 Riconoscimento molecolare AuNPs funzionalizzate con gruppi ammidoferrocenile possono essere utilizzate come sensori elettrochimici per gli ioni H2PO4 e HSO4 . In presenza di ioni tetrabutilammonio (n-Bu4N+) si ha una interazione tra gli anioni in questione e il gruppo ammidoferrocenile. Ad esempio, con H2PO4 si forma un legame a idrogeno tra l’idrogeno del gruppo ammidico e l’ossigeno negativo del fosfato; ciò consente all’anione fosfato di interagire con il Fe, in particolare di stabilizzare il Fe3+ del ferricinio, facilitando quindi l’ossidazione del ferrocene a ferricinio. Questa stabilizzazione si traduce in uno spostamento del potenziale della coppia Fe3+/Fe2+ a valori meno positivi, con un 106 E° = E°libero E°legato = 220 mV, che consente di riconoscere facilmente la presenza dell’anione fosfato. Questa elevata variazione di potenziale è sensibilmente maggiore di quella che si ottiene per un ammidoferrocene libero che interagisca con un anione H2PO4 (circa 45 mV), grazie al fatto che il guscio di tioli attorno alla AuNP comprime l’anione fosfato vicino al gruppo ammidoferrocenile, dato che i canali di penetrazione sono molto sottili Questa capacità viene sfruttata ad esempio per la NH2 determinazione dell’ATP (adenosintrifosfato, schema a N N fianco), che è un importante agente del ciclo biologico, per N il trasferimento di fosfati (in particolare al glucosio) e di O N O O O P O P O P OH energia. I fosfati presenti nell’ATP sono in grado di O H H interagire con il gruppo ammidoferrocenile, provocando lo OH OH OH H H shift catodico del suo potenziale redox. OH OH Mediante voltammetria ciclica (Fig. 6.5.5) si rileva il rapporto tra i gruppi ferrocenile liberi e quelli legati, dal rapporto tra i rispettivi picchi di riduzione del Fe3+. Nella scansione anodica (cioè quando il potenziale del microelettrodo di Pt, che si usa come lavorante per rilevare il processo elettrochimico, si muove verso valori più positivi) si ha l’ossidazione del ferrocene (Fe2+) a ferricinio (Fe3+), che non risente della presenza del fosfato (ATP). Nella scansione catodica di ritorno, si ha la riduzione del Fe3+: al potenziale più positivo quello del ferrocenile libero e meno positivo quello del ferrocenile legato, che è stabilizzato dal fosfato. La quantità di Fe3+ legato dipende dalla quantità di ATP, per cui si può effettuare una vera e propria titolazione dell’ATP (fig. 6.5.6). Figura 6.5.6. Titolazione di ATP2 Bu4N)2ATP Figura 6.5.5. Voltammetria ciclica di AuNP a) solo AuNP b) AuNP + ATP2 c) con un eccesso di (n- Nel caso del bisolfato HSO4 le interazioni sono più deboli, per cui non si ha un analogo spostamento del potenziale redox. Ciò significa che non si ha lo sdoppiamento dei picchi voltammetrici, ma uno spostamento a valori meno positivi del picco di riduzione. Comunque lo spostamento è funzione della quantità di gruppi ferrocenile legati, per cui si può determinare la quantità di HSO4 presente. 6.5.2 Elettrocatalisi Recentemente è stata riportata l’attività elettrocatalitica di AuNPs nell’ossidazione elettrochimica di CO e di CH3OH: 107 CO + H2O CO2 + 2H+ + 2e (6.16) CO + 4OH CO32 + 2H2O + 2e (6.16’) CO2 + 6H+ + 6e (6.17) CH3OH + H2O CH3OH + 8OH CO32 + 6H2O + 6e (6.17’) rispettivamente in ambiente acido e in ambiente alcalino. Precipitando delle AuNPs stabilizzate con alcantioli su un elettrodo di Glassy Carbon (GC), si può rilevare il picco di ossidazione del CO o del CH3OH, a seconda del substrato presente, cosa che non si ha sul solo GC. La corrente di picco aumenta all’aumentare della concentrazione del substrato, anche se per avere l’effetto elettrocatalitico è necessaria una pre-ossidazione dell’elettrodo chimicamente modificato ad un potenziale abbastanza positivo. Depositando per riduzione elettrochimica diretta di una soluzione di NaAuCl4, delle AuNPs su un elettrodo di oro, si ottiene un elettrodo che catalizza la riduzione elettrochimica di O2: O2 + 2H+ + 2e H2O2 (6.18) H2O2 + 2H+ + 2e 2H2O (6.19) Analogamente si sono ottenuti elettrodi capaci di svolgere un’azione elettrocatalitica nella riduzione di O2, depositando AuNPs su un elettrodo di diamante drogato con boro (Boro-Dopped Diamond, BDD), ottenendo un’efficienza 20 volte superiore di quella dei depositi su oro. Naturalmente si capisce la rilevanza di questi risultati per le possibili applicazioni nella tecnologia delle celle a combustibile. 6.5.3 Interazioni con DNA Un aspetto di notevole importanza è legato alla possibilità di legare alle AuNPs delle sequenze di DNA (oligonucleotidi), funzionalizzate con un gruppo SH terminale. Queste AuNPs modificate possono venire utilizzate per due diverse finalità: da una parte la capacità degli oligonucleotidi di ibridizzare con il DNA complementare, consente di accoppiare le AuNPs con una sequenza complementare di DNA realizzando così un nanocristallo (Fig. 6.5.6), cioè una distribuzione di nanoparticelle d’oro in modo perfettamente ordinato secondo la struttura del DNA o degli oligonucleotidi utilizzati come telaio. Dall’altra parte le AuNPs possono riconoscere, sempre grazie al meccanismo di ibridizzazione con la sequenza complementare, una specifica sequenza del DNA, il che le rende dei potenti biosensori per l’analisi del DNA. Questa potenzialità è alla base dello sviluppo di biosensori per la diagnosi di malattie che inducono modificazioni del DNA, come ad esempio i Figura 6.5.6. Ibridizzazione di AuNPs con oligonucleotidi. tumori. 108 La Fig. 6.5.7 mostra il meccanismo di riconoscimento di un oligonucleotide da parte delle AuNPs funzionalizzate con oligonucleotidi complementari. L’ibridizzazione consente di intercettare lo specifico oligonucleotide, la cui presenza, dopo la deibridizzazione, potrà essere riconosciuta con un qualche metodo analitico. Figura 6.5.7. Meccanismo di riconoscimento di oligonucleotidi. 6.6 NANOTUBI DI CARBONIO Un’altra realtà che, come la precedente, sta irrompendo nella ricerca scientifica di questi ultimi anni, coinvolgendo molteplici aspetti e grandi potenzialità è quella dei nanotubi di carbonio (carbon nano tube, CNT) L’interesse per i CNTs, così come quello per le AuNPs, riguarda molte proprietà chimico-fisiche e svariate applicazioni, per cui il loro aggancio con la sensoristica è solo una piccola parte di tale interesse. Un nanotubo di carbonio è un piano di grafite (Fig. 6.6.1) che si avvolge a cilindro saldando le due estremità lungo le quali gli atomi di C sono reattivi, avendo un elettrone spaiato. Figura 6.6.1. Piano di grafite ( = C). Esistono modi diversi di arrotolomaneto del piano di grafite per cui la struttura dei nanotubi risulta diversa e, conseguentemente, diverse risultano le proprietà chimico-fisiche. Come si può osservare in Fig. 6.6.2, l’asse di rotazione nei tre nanotubi è diverso per cui si ottengono non soltanto una diversa configurazione della distribuzione degli atomi di C rispetto all’asse del tubo, ma anche una diversa capacità di curvatura della superficie laterale. La stessa figura mostra che i nanotubi sono chiusi alle estremità. Poiché gli atomi terminali che si hanno in un nanotubo aperto, hanno proprietà chimiche molto interessanti, si provvede a tagliare i nanotubi in modo da realizzare dei tubi aperti per le svariate Figura 6.6.2. Diverse tipologie di CNTs. 109 applicazioni nelle quali vengono impiegati. Peraltro, a seconda del tipo di arrotolamento la configurazione dei C terminali è sensibilmente diversa. Esistono nanotubi costituiti da una singola superficie, cioè formati da un unico piano di grafite (Single Walled Nano Tube, SWNT) e nanotubi costituiti da più tubi concentrici, cioè da più piani grafitici arrotolati (Multi Walled Nano Tube, MWNT) (Fig. 6.6.3). Il diametro di un nanotubo varia da 0.4 nm a 3 nm per un SWNT, mentre può variare da 1.4 nm a 100 nm per un MWNT; la lunghezza può essere anche di diverse centinaia di nm. Figura 6.6.3. SWNT e MWNT Si tratta di materiali con caratteristiche estremamente versatili e importanti, quali ad esempio: ottima conducibilità termica, buona conducibilità elettrica con possibilità di comportarsi da conduttori metallici o da semiconduttori (a seconda del diametro e di altri parametri), superconduttività a temperature relativamente alte, elevata resistenza e buona elasticità. Si sono realizzati elettrodi chimicamente modificati con CNTs, ad esempio utilizzando il Nafion per solubilizzare i CNTs e confinarli sulla superficie elettrodica. In questo modo sono stati preparati, tra gli altri, elettrodi con una rilevante attività elettrocatalitica nei confronti di H2O2 e di NADH, dovuta proprio ai CNTs. Questa attività elettrocatalitica è stata sfruttata per realizzare dei biosensori con l’immobilizzazione di enzimi ossidasi (come GOx) o con l’immobilizzazione di enzimi deidrogenasi, con elevata stabilità e ottima riproducibilità. In alternativa al Nafion, si possono utilizzare polimeri conduttori, come il polipirrolo (PPy) o la polianilina (PAn) per preparare elettrodi a nanocompositi CNT/PPy o CNT/PAn con elevata stabilità e conduttività e facili da preparare. Un’altra possibilità è quella di preparare elettrodi a pasta, impastando CNTs con olio e depositando la pasta in una cavità nella quale sia presente il contatto elettrico. Per avere buoni responsi elettrodici è necessario avere elevate percentuali di CNTs nella pasta. Una tecnica molto diffusa per la preparazione di elettrodi a base di CNTs è Fe(CN)63 Fe(CN)64 la tecnica sol-gel, una tecnica che ha trovato notevoli applicazioni anche in elettrochimica per la preparazione di particella elettrodi a carbonio ceramici (Ceramic di silicato Carbon Electrode, CCE), ottenuti facendo CNT indurire della polvere di carbone o grafite in una matrice di gel di silice. Analogamente si possono preparare dei Ceramic-Carbon Nanotube Nanocomposite Electrodes (CCNNEs), facendo indurire i Figura 6.6.4. Nanocompositi CNT/sol-gel. CNTs in matrici di gel di silice. La preparazione di gel di silicati utilizza composti come il metiltrietossisilano, come precursore che viene idrolizzato a metilsilano, il quale polimerizza per policondensazione. L’idrolisi dei gruppi etossilici viene promossa da HCl, con formazione dei corrispondenti silanoli (Si-OH), che polimerizzano per policondensazione formando i silossani. Si ottiene così una sospensione colloidale di particelle (sol) le quali possono aggregarsi per ulteriore 110 condensazione per formare una struttura rigida e porosa (gel). CH3 C2H5O Si OC2H5 OC2H5 CH3 HO Si OH OH n CH3 Si O + + 3H2O CH3 HO Si OH OH 3C2H5OH CH3 HO Si O OH CH3 HO Si OH OH CH3 Si O CH3 Si + CH3 Si OH + OH H2O CH3 Si n Alcuni silossani hanno caratteristiche idrofobiche per cui sono in grado di interagire con i CNTs attraverso interazioni idrofobiche. La formazione del sol in presenza di CNTs provoca la separazione di questi ultimi in singoli CNT per arrivare anche alla frammentazione degli stessi in tratti indipendenti (Fig. 6.6.4). In questo modo i frammenti esterni dei CNTs sono elettrochimicamente attivi nei confronti di specie elettroattive. Gli elettrodi a nanocompositi CNT/sol-gel possono essere utilizzati per lo sviluppo di biosensori, mediante intrappolamento di enzimi o altre proteine nei nanocompositi, grazie all’eccellente biocompatibilità della matrice sol-gel e le ottime proprietà elettrochimiche dei CNTs. Ad esempio si è realizzato l’intrappolamento dell’enzima amminoacido-ossidasi per un biosensore per la determinazione degli amminoacidi. 6.6.1 Elettrocatalisi Esistono diverse tipologie di elettrodi a base di carbonio (GC, grafite, BDD, fullerene), con caratteristiche diverse a causa delle differenti proprietà strutturali ed elettroniche che caratterizzano i vari materiali. I CNTs hanno un comportamento elettrochimico sensibilmente diverso dagli altri carbo-elettrodi. Essi sono caratterizzati da due distinti tipi di atomi di C: quelli sulla superficie laterale e quelli terminali. Mentre i primi si comportano come gli atomi di C planari della grafite (ad esempio di una HOPG, High Orientated Pyrolytic Graphite), i secondi si comportano come gli atomi terminali di una HOPG: la loro insaturazione li rende più reattivi. Pur avendo una configurazione simile alla HOPG i CNTs esercitano un rilevante ruolo elettrocatalitico; sono in grado cioè di facilitare i processi di TE verso diversi substrati. Questa accelerazione del TE viene imputata a due fattori: (i) un migliore contatto (bagnabilità) con il substrato grazie alla porosità del materiale elettrodico; (ii) la struttura elettronica superficiale sensibilmente diversa, infatti la superficie non è planare, ma cilindrica per cui si hanno delle distorsioni dei legami, oltre a possibili difetti topologici. Alcuni dati sperimentali tenderebbero però ad attribuire un ruolo preminente agli atomi di C terminali e, probabilmente, anche alla loro capacità di trasformazione chimica (ad esempio con formazione di gruppi carbossilici). L’attività elettrocatalitica può essere comunque sfruttata per l’analisi di diverse sostanze, come mostra la seguente Tabella: Substrato Elettrodo Substrato Elettrodo Catecolo Dopamina Cisteina Glutatione Omocisteina NADH H2O2 MWNT SW/MWNT CNTPE MWNT MWNT MWNT MWNT Acido Urico Ossigeno Glucosio Adenina Guanina Insulina SWNT MWNT MWNT CNTPE CNTPE MWNT 111 6.6.2 CNTs funzionalizzati Una metodologia di funzionalizzazione dei CNTs consiste nel formare dei nanocompositi di opportuni metalli (o ossidi metallici) e CNTs, i quali si prestano particolarmente bene come supporti per catalizzatori metallici, grazie alle specifiche proprietà, in particolare all’elevata area superficiale. Ad esempio elettrodi a nanocompositi ottenuti con nanoparticelle di Pt e CNTs possono essere utilizzati come sensori elettrochimici. L’elevata area superficiale favorisce il trasporto di massa per cui il responso amperometrico è esaltato aumentando così la sensibilità nei confronti dei substrati. Su Pt ad esempio può venire ossidata l’H2O2, il che consente di realizzare un biosensore elettrochimico per il glucosio: intrappolando GOx, che ossida il glucosio, in presenza di O2, ad acido gluconico e H2O2, si è ottenuto un biosensore molto più sensibile delle versioni GOx/GC, GOx/Pt/GC e GOx/CNT/GC. Lo stesso tipo di nanocompositi può trovare impiego come sensori per ossigeno, ma anche come catodi per Fuel Cells a metanolo. Un’altro tipo di funzionalizzazione riguarda i composti organici. I composti aromatici danno forti interazioni con la struttura planare della grafite, di tipo - , formando prodotti di adsorbimento molto stabili. Rispetto agli altri composti di carbonio, i CNTs possiedono una significativa curvatura della superficie laterale che conferisce loro una maggiore capacità -coniugativa ed un carattere fortemente idrofobico. Per tali caratteristiche le interazioni tra composti aromatici e CNTs sono sensibilmente più forti di quelle con grafite. Alcune tra le diverse sostanze aromatiche utilizzate per questo tipo di funzionalizzazione sono riportate nella seguente Tabella: Substrato Ni complessato Cu complessato Tionina Arildiazonio Pirene 9,10-Fenantrachinone 1,2-Naftochinone 4-Nitrobenzilammina Porfirina Antracene Tensioattivi Polianilina Elettrodo SWNT SWNT SWNT SWNT SWNT MWNT MWNT MWNT SWNT SWNT SWNT SWNT Sui CNTs è possibile integrare anche biomateriali come proteine, enzimi, antigeni, anticorpi o DNA. Si realizzano così dei sistemi ibridi che sfruttano le proprietà conduttrici o semiconduttrici dei CNTs accoppiate con le proprietà catalizzatrici o riconoscitrici dei biomateriali. In particolare, la cavità interna o la superficie esterna dei CNTs costituiscono una opportuna piattaforma per ospitare le biomolecole e realizzare così dei nanodispositivi bioelettronici. Un aspetto particolarmente interessante dell’interazione tra CNTs e biomolecole è la capacità di facilitare il TE da parte di enzimi (come il GOx), eme-proteine, tra cui Citocromo c, HRP (Horseradish perossidasi), emoglobina, mioglobina, ecc.. La capacità dei CNTs di favorire il TE, assieme alla specificità delle interazioni enzima-substrato, consentono di realizzare dei sistemi nanoibridi per lo sviluppo di nanodispositivi bioelettronici. Tuttavia rimangono ancora alcuni problemi da risolvere: (i) i CNTs tendono ad aggregarsi, per cui non sono facilmente manipolabili; (ii) la comunicazione elettronica tra proteina e CNTs è relativamente lenta; (iii) le forti interazioni tra le proteine e i CNTs portano a distorsioni delle proteine con rischio di perdita delle loro attività biocatalitiche nei confronti dei substrati. Per evitare questi limiti è necessaria una opportuna funzionalizzazione dei CNTs per aumentare la loro biocompatibilità. In ogni caso si possono realizzare biosensori elettrochimici che, come i biosensori elettrochimici convenzionali, sono classificati in tre categorie: (i) prima generazione, quelli che rilevano H2O2 o O2 coinvolti nelle reazioni enzimatiche; (ii) seconda generazione, quelli che utilizzano un mediatore di TE; (iii) terza generazione, quelli che sono basati sul TE diretto da parte degli enzimi. Gli elettrodi a 112 CNT hanno dimostrato di possedere un’attività elettrocatalitica nei confronti dell’ossidazione di H2O2 e della riduzione di O2, oltre alla capacità di facilitare il TE delle proteine. Queste due proprietà rendono i CNTs particolarmente interessanti per la realizzazione di biosensori della prima e della terza generazione. In aggiunta però, si possono immobilizzare diversi elettrocatalizzatori organici, cioè mediatori di TE per catalisi redox omogenea (come antracene ed altri composti aromatici polinucleari) grazie alle particolari interazioni - che si possono instaurare. Ciò consente sia di accelerare il TE a substrati come H2O2, che fungere da navetta per il TE tra CNT e la proteina. Queste proprietà, assieme alla buona conducibilità elettrica dei CNTs consentono di realizzare biosensori elettrochimici della prima e della seconda generazione. Ad esempio, funzionalizzando un MWNT con Fe-ftalocianina, in grado di funzionare da catalizzatore redox per l’ossidazione di H2O2, e co-immobilizzando GOx su tali MWNTs funzionalizzati, si sono realizzati dei biosensori di elevate prestazioni (elevata sensibilità e selettività) per la rilevazione del glucosio. Le notevoli potenzialità dei CNTs sono correlate alla convergenza di alcune importanti proprietà: (i) i CNTs hanno una spiccata attività elettrocatalitica; (ii) le proprietà strutturali li rendono particolarmente interessanti per ospitare sostanze con specifica funzionalità elettrochimica o biologica, compresi mediatori di TE; (iii) i CNTs favoriscono il TE in diverse proteine; (iv) gli elettrodi a CNTs manifestano le caratteristiche proprietà degli elettrodi tridimensionali, se vengono adeguatamente depositati sull’elettrodo di supporto. 113