Rivelatori a stato solido per raggi xe γ

Università degli studi di Perugia
Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali
Corso di Laurea in Fisica
A.A. 2003-2004
Tesi di laurea triennale
Rivelatori a stato solido per raggi x e γ
Laureando:
Achilli Andrea
Relatore:
Giovanni Ambrosi
Indice
Introduzione
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Capitolo 1
I rivelatori a semiconduttore
5
1.1 Proprietà dei materiali semiconduttori………………………..
5
1.2 Drogaggio di semiconduttori…………………………………
9
1.3 La giunzione p-n……………………………………………...
10
1.4 Rivelatori basati sulla giunzione p-n…………………………. 13
1.4.1 Rivelatori al silicio: microstrip e pad…………………... 14
Capitolo 2
Interazione radiazione materia
18
2.1 raggi x e γ…………………………………………………….. 18
2.2 interazione dei raggi x e γ con la materia…………………….. 19
2.3 caratteristiche di un rivelatore al silicio per raggi x e γ....……
25
Capitolo 3
Caratteristiche e prestazioni di un prototipo di rivelatore a Pad
29
3.1 Il rivelatore a Pad e l’elettronica di front-end....……………... 29
3.2 Descrizione del sistema di acquisizione....…………………… 33
3.3 Caratterizzazione del chip VA32C....………………………… 34
3.4 Prime misure con il rivelatore........…………………………... 36
Conclusioni
41
Bibliografia
42
2
Introduzione
La ricerca in fisica nucleare e subnucleare e’ da sempre legata allo sviluppo
tecnologico dei rivelatori di particelle. Negli ultimi anni l’interesse nel campo dello
sviluppo dei rivelatori di raggi x e γ è cresciuto considerevolmente, in relazione alle
importanti applicazioni che questi rivelatori hanno in medicina nucleare ed anche in
tutte quelle ricerche e applicazioni in campo biologico, farmacologico, medico, ecc
che comportino l’impiego di traccianti radioattivi.
In questo breve lavoro è stato studiato un possibile sistema per il rilevamento di
raggi x e γ costituito da un rivelatore a pad di silicio spesso, collegato ad un’ elettronica
di front-end a basso rumore e trigger veloce. Questo prototipo costituisce la base per lo
sviluppo di rivelatori al silicio da utilizzare in sistemi conosciuti come Camere
Compton, in grado di migliorare notevolmente la risoluzione spaziale e quindi di
grande utilità, soprattutto in medicina nucleare per applicazioni quali la
PET(tomografia ad emissione di positroni). Nella camera compton per migliorare la
risoluzione vengono sfruttate le proprietà dei materiali a medio Z, come il silicio,
utilizzando per la misura, gli eventi in cui i fotoni hanno un’interazione compton. Negli
anni passati, invece, venivano utilizzati materiali ad alto Z ed alta densità, che
assorbissero completamente il fotone attraverso il processo fotoelettrico. Il vantaggio
che deriva dall’utilizzo di materiali a medio Z riguarda la capacità di risoluzione
spaziale [3]. Nel caso di materiali ad alto Z la risoluzione viene peggiorata da alcuni
fattori quali le interazioni compton multiple, le emissioni K e la maggiore energia che
ha l’elettrone derivante dal processo fotoelettrico rispetto a quello Compton.
I capitoli sono articolati nel seguente modo:
- Nel primo capitolo vengono introdotte brevemente le proprietà dei materiali
semiconduttori trattando in particolare il drogaggio dei semiconduttori per ottenere
giunzioni p-n . Nell’ultimo paragrafo vengono quindi descritti i principali tipi di
rivelatori a semiconduttore che sfruttano le proprietà della giunzione p-n.
- Il secondo capitolo tratta dell’interazione della radiazione con la materia ed in
particolare dei raggi x e γ con i semiconduttori. Nell’ultima parte del capitolo vengono
descritte le proprietà ed i limiti che caratterizzano un rivelatore di raggi x e γ.
3
- Nell’ultimo capitolo viene descritto un possibile sistema per la rivelazione di
radiazioni x e γ costituito da un rivelatore a pad di silicio, dell’elettronica di front-end
ed un sistema di acquisizione. Nella seconda parte del capitolo sono riportate le misure
effettuate per caratterizzare il chip che costituisce l’elettronica di front-end del
rivelatore. Questa ultima parte costituisce una parte rilevante di questo lavoro di tesi,
rappresentando il primo contatto diretto con un’attività di tipo sperimentale,
profondamente diversa dai corsi didattici di laboratorio.
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Capitolo 1
I Rivelatori a semiconduttore
I semiconduttori sono elementi che appartengono al IV gruppo della tavola
periodica e si usano in genere nei rivelatori per la misura dell’energia e la ricostruzione
della traccia di una particella. L’impiego di semiconduttori per il rilevamento di
radiazioni ionizzanti
ha una lunga storia nella fisica nucleare e delle particelle
elementari. Già negli anni sessanta si era sviluppata la fabbricazione di rivelatori al
germanio per misure di spettroscopia di raggi γ. Il principio base dei rivelatori a
semiconduttore è la creazione di una coppia lacuna-elettrone dovuta al passaggio della
radiazione ionizzante, la coppia di cariche viene poi rivelata applicando un campo
elettrico. Il meccanismo è lo stesso dei rivelatori a gas, in cui si crea una coppia
elettrone ione, il vantaggio dei semiconduttori è che l’energia necessaria per produrre
una coppia lacuna-elettrone (che è dell’ordine di qualche elettronvolt) è
significativamente minore rispetto a quella che occorre per ionizzare una molecola di
gas (circa 30 eV) [1].
fig.1.1 energia necessaria per la creazione di una coppia lacuna-elettrone
1.1 Proprietà dei materiali semiconduttori
I semiconduttori sono materiali tetravalenti che vengono utilizzati come rivelatori
nella forma di solidi cristallini. La struttura del reticolo di un semiconduttore è cubica a
facce centrate, ogni atomo del reticolo forma legami covalenti con gli altri quattro che
sono disposti attorno ad esso secondo una struttura a tetraedro. A basse temperature
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tutti i legami covalenti restano intatti e non si hanno elettroni liberi per la conduzione,
perciò il sistema si comporta come un isolante. Aumentando la temperatura, la
vibrazione termica può rompere qualche legame covalente liberando così elettroni
disponibili per la conduzione di corrente elettrica. La rottura di un legame non solo
rende disponibile un elettrone ma crea una “lacuna” (cioè la mancanza di un elettrone)
nel legame covalente, che può essere riempita da un elettrone proveniente da un legame
vicino dove a sua volta lascia una lacuna. Questo processo può essere visto come uno
spostamento della lacuna nella direzione opposta rispetto all’elettrone, essa
rappresenta quindi una portatrice di carica positiva, è per questo che si parla di
creazione di coppie lacuna-elettrone.
fig.1.2 struttura di un cristallo di silicio
Una spiegazione più chiara del comportamento dei semiconduttori si può avere
analizzando i livelli energetici degli elettroni nel reticolo cristallino. Come
conseguenza del loro aspetto di solidi cristallini i livelli atomici più esterni di questi
materiali assumono una struttura a bande di energia. Una banda comprende molti
livelli discreti di energia che sono talmente fitti da poter essere visti come un continuo.
Due bande di energia adiacenti sono separate da un gap o banda proibita, cioè un
intervallo energetico in cui non sono presenti livelli atomici. Gli elettroni dei livelli
energetici più esterni per il principio di esclusione di Pauli si disporranno in coppie di
spin opposto sui livelli disponibili, andando ad occupare un numero di livelli pari alle
coppie di elettroni presenti nel cristallo. In base alla distribuzione degli elettroni si
possono distinguere tre differenti configurazioni delle bande, che permettono di
spiegare le diverse proprietà di conduzione elettrica di isolanti, semiconduttori, e
conduttori. Negli isolanti gli elettroni arrivano ad occupare completamente una banda
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(banda di valenza) ed il gap energetico che li separa dalla banda successiva (banda di
conduzione) è molto grande, l’ordine di grandezza è di alcuni elettronvolt. La larghezza
della banda proibita dipende dalle distanze degli atomi nel reticolo. Nella banda di
valenza gli elettroni sono ancora legati al loro rispettivo atomo del reticolo cristallino e
non possono quindi condurre corrente. Quello che distingue gli isolanti dai
semiconduttori è la larghezza del gap, che per questi ultimi è circa 1 eV (1.16 eV per il
silicio e 0.67 eV per il germanio), questo fa si che per agitazione termica alcuni
elettroni possono “saltare” ai livelli energetici appartenenti alla banda di conduzione
vuota dove non risentono più dell’interazione di un particolare atomo e sono liberi di
muoversi su tutto il reticolo. Contemporaneamente nella banda di valenza si crea una
lacuna che si comporta come una carica positiva rispetto al mare di elettroni in cui si
trova. Nei sistemi conduttori l’ultima banda di energia è parzialmente occupata
(metalli), oppure, banda di valenza e banda di conduzione risultano sovrapposte
(semimetalli).
fig1.3 bande di energia in isolanti semiconduttori e conduttori
In un semiconduttore le coppie lacuna-elettrone sono costantemente generate per
agitazione termica ed allo stesso tempo un certo numero di coppie si ricombina. In
condizioni di equilibrio la concentrazione di coppie lacuna elettrone è costante. La
concentrazione di coppie è:
ni = N c⋅ N v ⋅ e
⎛ − E gap
⎜
⎜ 2⋅k ⋅T
⎝
⎞
⎟
⎟
⎠
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dove T è la temperatura in gradi Kelvin, k la costante di Boltzmann(8.617·10-5 eV K-1),
Egap la larghezza della banda proibita, Nc ed Nv il numero di stati, rispettivamente,
della banda di conduzione e di valenza. Dalla statistica di fermi si ottiene:
ni = A ⋅ T 3 ⋅ e
⎛ − E gap
⎜
⎜ 2⋅ k ⋅T
⎝
⎞
⎟
⎟
⎠
dove A è una costante indipendente dalla temperatura. Alla temperatura di 300°K i
valori tipici di concentrazione di coppie sono 2.5·1013 cm-3 per il germanio e 1.5·1010
cm-3 per il silicio. In un semiconduttore si hanno 1022 atomi/cm3, questo vuol dire che
solo un 1 atomo su 109 è ionizzato nel germanio ed 1 su 1012 nel silicio.
Sotto l’azione di un campo elettrico esterno E le velocità di deriva degli elettroni
e delle lacune si possono scrivere come:
ve=µe·E
vl=µl·E
dove le mobilità di elettroni (µe) e lacune (µl), dipendono dal materiale, dalla
temperatura e dall’intensità del campo elettrico applicato. A temperature normali e per
campi elettrici E<103V/cm le mobilità di elettroni e lacune nel silicio sono circa
costanti per cui le relazioni tra le velocità di deriva e l’intensità del campo applicato
risultano lineari. La densità di corrente sarà quindi:
J = e · ni · ( µe + µl ) · E = σ · E
dove: σ = e ni (µe+µl) è la conduttività del materiale.
Un elettrone può ricombinarsi con una lacuna passando dalla banda di
conduzione ad un livello libero della banda di valenza ed emettendo un fotone. Questo
processo che è l’opposto della generazione di una coppia lacuna-elettrone viene
chiamato ricombinazione. I tempi necessari affinché avvenga un processo di
ricombinazione vanno dai nanosecondi alle centinaia di microsecondi, questi processi
sono quindi molto frequenti. La causa di questi tempi di ricombinazione così brevi è la
presenza di impurità nel cristallo. Le impurità perturbano la struttura a bande
introducendo anche all’interno della banda proibita dei livelli permessi che vengono
chiamati centri di ricombinazione o di intrappolamento, questo secondo nome si
riferisce in particolare a quei livelli accessibili soltanto ad uno dei due portatori di
carica(lacuna o elettrone). La presenza di questi centri aumenta la probabilità di
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ricombinazione e quindi riduce il tempo in cui le cariche restano libere, questo
fenomeno influisce negativamente sulla risoluzione di un cristallo, diminuendo il
numero di cariche che possono essere collezionate da un rivelatore. Un cristallo può
anche essere appositamente drogato con delle particolari impurezze per modificarne il
comportamento, in questo caso si parla di semiconduttori estrinseci, mentre per i
cristalli “puri”, in cui la densità delle impurità è trascurabile rispetto al numero di
lacune ed elettroni generati termicamente, si parla di semiconduttori intrinseci [1], [2].
1.2 Drogaggio di semiconduttori
In un cristallo di semiconduttore puro il numero di lacune è uguale a quello degli
elettroni nella banda di conduzione. Drogando il cristallo con delle impurezze costituite
da atomi pentavalenti (arsenico, fosforo od antimonio), si introduce un eccesso di
elettroni tra i portatori di carica, mentre utilizzando atomi trivalenti(boro, gallio o
indio) si avrà un eccesso di lacune. Gli atomi pentavalenti si dicono donatori perché
essendo necessari soltanto 4 elettroni per formare i corrispondenti legami con gli atomi
tetravalenti del semiconduttore, cedono al cristallo l’elettrone in eccesso che
contribuisce alla conduzione di corrente. Il drogaggio può avvenire anche con atomi
trivalenti, che non hanno abbastanza elettroni di valenza e lasciano un legame
covalente con un elettrone mancante, rendendo disponibile una lacuna per la
conduzione di corrente: questi atomi vengono chiamati accettori. Dal punto di vista
delle bande di energia gli atomi pentavalenti introducono dei livelli energetici
disponibili appena sotto la banda di conduzione e quindi gli elettroni che si trovano a
quelle energie saltano facilmente nella banda di conduzione, viceversa gli atomi
trivalenti introducono livelli appena sopra la banda di valenza che possono facilmente
essere occupati proprio da elettroni della banda di valenza, in questo modo si rendono
disponibili nuove lacune. I livelli introdotti drogando i semiconduttori sono
estremamente vicini o alla banda di conduzione o a quella di valenza ed è proprio
questa caratteristica che li distingue dai centri di ricombinazione che si trovano più
all’interno del gap di energia. I semiconduttori con impurezze di atomi pentavalenti si
dicono drogati tipo n perché i portatori di carica maggioritari sono le cariche negative,
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quelli con impurezze di atomi trivalenti si dicono drogati di tipo p perché i portatori
maggioritari sono le cariche positive.
fig. 1.4. drogaggi di tipo n e p
La concentrazione delle impurezze è solitamente molto piccola, l’ordine di grandezza è
di 1013 atomi/cm3, le densità dei semiconduttori sono dell’ordine di 1022 atomi/cm3,
quindi un atomo su 109 sarà un’impurezza.
La conduttività di un semiconduttore drogato sarà:
σ = e (ne · µe + nl · µl)
in questo caso lacune ed elettroni avranno in generale concentrazioni differenti [1].
1.3 La giunzione p-n
Unendo due cristalli di un semiconduttore con drogaggi opposti si ottiene una
giunzione p-n. In realtà per ottenere una giunzione p-n non si uniscono i due pezzi di
materiale, ma si utilizzano tecniche più sofisticate, ad esempio si possono diffondere,
ad alte temperature, impurità di tipo p su un’estremità di un cristallo drogato di tipo n.
La formazione di una giunzione p-n crea una speciale zona di transizione tra i due
materiali. A causa della differente concentrazione di elettroni e lacune tra i due
materiali c’è un’iniziale diffusione di lacune dalla regione p attraverso quella n ed
un’equivalente diffusione di elettroni in senso contrario. Come conseguenza gli
elettroni diffusi andranno a “riempire” le lacune presenti nella regione p, mentre le
lacune diffuse nella regione n cattureranno gli elettroni presenti. Poiché le due regioni p
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ed n sono inizialmente entrambe neutre, questa ricombinazione di lacune ed elettroni
provoca uno sbilanciamento di cariche tra di esse e come immediata conseguenza viene
a crearsi un gradiente di campo elettrico nella giunzione tra le due regioni.
fig. 1.5. elettroni e lacune in una giunzione np, distribuzione di carica e
andamento del campo elettrico
Il campo elettrico si oppone alla ulteriore diffusione delle cariche, perciò nella
giunzione si raggiunge una situazione di equilibrio in cui il campo elettrico bilancia la
diffusione termica delle cariche. La presenza di un campo elettrico implica una
differenza di potenziale attraverso la giunzione, questo “potenziale di contatto” può
anche essere visto come una conseguenza della deformazione della struttura a bande di
energia nella zona di giunzione . L’ordine di grandezza del potenziale di contatto è di
circa 1V.
lato n
lato p
fig. 1.6. bande di energia in prossimità di una giunzione
La regione in cui è presente questa differenza di potenziale ha la particolare
proprietà di essere priva di cariche mobili, infatti, se entrano lacune o elettroni in questa
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zona, risentono del campo elettrico presente che li trascina subito fuori , è per questo
motivo che tale zona viene definita di “svuotamento”. E’ proprio questa caratteristica
che viene sfruttata nei rivelatori a semiconduttore, perché una radiazione ionizzante che
attraversa la zona di svuotamento rilascia l’energia per la liberazione di coppie lacunaelettrone che muovendosi sotto l’azione del campo elettrico producono un segnale di
corrente che può essere rivelato.
La larghezza della zona di svuotamento è generalmente piccola e dipende dalla
concentrazione delle impurità di tipo n e p. In generale la concentrazione di donatori
(Nd) e di accettori (Na) è diversa e la larghezza (d) della regione di svuotamento vale:
d=
2 ⋅ ε ⋅ V0 ( N A + N D )
⋅
e
ND
dove ε è la costante dielettrica del mezzo, e la carica dell’elettrone e V0 la differenza di
potenziale alla giunzione. Quando la concentrazione di uno dei due portatori di carica è
molto maggiore rispetto alla concentrazione dell’altro, ad esempio Na>>Nd si ha:
d=
2 ⋅ ε ⋅ V0 1
⋅
e
ND
Per V0 dell’ordine di 1V e concentrazioni di impurezze come quelle definite in
precedenza si ottiene una profondità della regione di svuotamento tra i 10 e i 100µm.
Questa larghezza è troppo piccola per poter utilizzare il cristallo come rivelatore. Con
uno spessore del genere soltanto alcune particelle a bassa energia avrebbero una
probabilità di interazione adeguata e il campo elettrico che si genera non sarebbe
sufficientemente intenso per poter collezionare le cariche alle estremità del materiale in
maniera efficiente. Inoltre, uno spessore di materiale così sottile presenta un’elevata
capacità per l’elettronica e questo influenza negativamente il rumore nel segnale in
uscita. La capacità (C) di un condensatore piano i cui piatti hanno una superficie A e
sono separati da uno spessore d di materiale di costante dielettrica ε vale:
C=ε·S/d
quindi aumentando la regione di svuotamento diminuisce la capacità della giunzione.
Per ottenere risultati migliori si applica una differenza di potenziale inversa alla
giunzione, cioè si applica un voltaggio negativo al lato p. Questo serve ad estendere la
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regione di svuotamento sia sul lato p che sul lato n, allontanando rispettivamente da
una parte le lacune e dall’altra gli elettroni verso le estremità del materiale. Allargando
la regione di svuotamento si estende il volume sensibile al passaggio di radiazioni ed
inoltre il voltaggio esterno migliora l’efficienza nel collezionare le cariche generate.
Ovviamente c’è un limite al massimo voltaggio che può essere applicato, perché oltre
un certo limite la giunzione va in breakdown e l’elemento inizia a condurre corrente. E’
interessante notare che a causa della diversa mobilità di lacune ed elettroni la
polarizzazione inversa porta ad una maggiore estensione della regione di svuotamento
sul lato n. Quando l’estensione della regione di svuotamento raggiunge le dimensioni
del materiale, si parla di svuotamento completo.
Sebbene in polarizzazione inversa la giunzione p-n sia idealmente isolante, una
piccola corrente (corrente di leakage o di saturazione inversa) è comunque presente ed
appare come rumore all’uscita del rivelatore, deve quindi essere presa in
considerazione e minimizzata. Le cause di questa corrente sono molteplici: i portatori
minoritari di carica, la creazione di coppie lacuna-elettrone per agitazione termica e per
la presenza di difetti nel reticolo, ecc…
1.4 Rivelatori basati sulla giunzione p-n
Per utilizzare le giunzioni p-n come rivelatori si cerca di aumentare in maniera
adeguata il volume sensibile al passaggio di radiazioni allargando il più possibile la
regione di svuotamento, così che le coppie lacuna elettrone prodotte restituiscano un
segnale significativamente superiore rispetto alla corrente di leakage. Per collezionare
le cariche generate dal passaggio di radiazione si fissano due elettrodi sui due lati della
giunzione. La metallizzazione però, non può essere messa in contatto diretto con il
semiconduttore perché a causa della presenza di elettroni liberi nel metallo si creerebbe
nel semiconduttore, in prossimità della regione di contatto, una regione di svuotamento.
Per prevenire questo fenomeno tra il semiconduttore e la metallizzazione vengono
inseriti dei semiconduttori fortemente drogati (p+ ed n-) , in cui a causa dell’elevato
drogaggio la zona di svuotamento è essenzialmente nulla.
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fig1.7 struttura di un rivelatore a giunzione
n-p
1.4.1 I rivelatori al silicio: microstrip e pad
I rivelatori più comuni sono quelli al silicio perché a differenza del germanio
operano a temperatura ambiente e grazie all’enorme sviluppo dell’elettronica dei
semiconduttori sono anche facilmente reperibili. Essi vengono solitamente prodotti
diffondendo ad alta temperatura(1000°C) impurità di tipo p su un substrato di tipo n, la
concentrazione di impurità p è molto alta (1017 atomi/cm3), il drogaggio è quindi p+.
Anche sull’estremità opposta del lato n c’è un’alta concentrazione di impurità
(drogaggio n+), questo come già detto serve per bloccare la zona svuotamento in
presenza del contatto con la metallizzazione.
Il silicio viene comunemente usato nei rivelatori di posizione. Esistono due tipi
principali di rivelatori di posizione, corrispondenti a due diversi metodi di lettura. Il
primo è un metodo di lettura continua chiamato a divisione di carica, il secondo utilizza
invece un array discreto di elementi per la lettura della posizione.
Rivelatori continui
Un rivelatore continuo è sostanzialmente un diodo con un elettrodo resistivo
uniforme sulla faccia frontale ed un elettrodo a bassa resistenza sulla faccia opposta.
Una lunghezza tipica di questo tipo di rivelatori è dell’ordine di alcuni centimetri. Se
una particella carica attraversa il rivelatore, la carica rivelata all’estermità superiore
sarà proporzionale all’energia della particella ed alla resistenza dell’elettrodo tra il
contatto ed il punto di incidenza, mentre il segnale all’elettrodo inferiore sarà
proporzionale soltanto all’energia della particella. Queste due informazioni permettono
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di determinare la posizione della carica. Un problema di questi rivelatori è legato
all’omogeneità ed all’uniformità del lato resistivo del semiconduttore, così che sia
garantita la linearità della distribuzione di carica in funzione della posizione.
fig. 1.8. struttura di un rivelatore continuo di posizione: quando una particella
incide in P, sul contatto B arriverà un segnale proporzionale all’energia della
particella (E) ed alla sua posizione (x) tra A e B, sul contatto in C, invece, il segnale è
proporzionale all’energia.
Rivelatori discreti
Per ottenere un rivelatore che funzioni in modo discreto, un lato (o entrambi)
della giunzione viene suddiviso in più porzioni ciascuna delle quali funziona come un
rivelatore indipendente. I rivelatori di questo tipo possono essere, a strip, quando la
superficie del diodo è suddivisa in strisce di elettrodi paralleli (strips), oppure a
matrice, se il piano viene scomposto in celle quadrate o rettangolari.
Rivelatori a Microstrip
In rivelatori di questo tipo la larghezza delle strip è di circa 10 µm e la distanza
tra le strip è di 20-50 µm. Lo spessore è solitamente 300µm. Alla giunzione viene
applicata una tensione inversa di circa 80-100 V che permette di ottenere uno
svuotamento completo. Il silicio utilizzato come substrato è altamente resistivo(6000 Ω
cm). Per ridurre il numero di canali solo una strip su tre viene letta, ma per migliorare
la risoluzione viene utilizzato un metodo di lettura basato sulla divisione capacitiva di
carica tra le strip. Calcolando il centro di gravità della carica collezionata si può
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ottenere la posizione della particella con una sensibilità fino a 5µm. Per sfruttare la
divisione capacitiva di carica è indispensabile avere un accoppiamento capacitivo tra le
strip, per cui la resistenza interstrip deve essere molto elevata rispetto alla capacità tra
le strip (se la capacità è dell’ordine del pF la resistenza deve essere almeno di qualche
decina di MΩ), oltre a ciò devono essere minimizzate le capacità verso tutti gli altri
elementi del rivelatore.
Fig. 1.9. struttura di un rivelatore a microstrip
Un rivelatore a microstrip come quello descritto sopra fornisce un’informazione
unidimensionale sulla posizione della particella che lo attraversa, impiantando
microstrip su entrambi i lati del silicio in maniera tale che le strip di un lato siano
perpendicolari a quelle dell’altro lato, si ottiene un’informazione quasi bidimensionale.
In realtà non si ottiene mai un informazione del tutto bidimensionale, perché in pratica
le due coordinate che definiscono la posizione della particella vengono misurate in due
punti diversi (anche se distanti solo poche centinaia di micron) della traiettoria della
particella, inoltre la sensibilità che si ottiene sulle strip del lato n+ è minore a causa
della maggiore mobilità dei portatori di carica (che qui sono gli elettroni) rispetto a
quelli del lato p+ (lacune).
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Rivelatori a Pad
I rivelatori che hanno una struttura a matrice forniscono un’informazione
veramente bidimensionale, ma in questo caso il numero di canali che si deve leggere
cresce quadraticamente con le dimensioni e questo pone dei problemi nella costruzione
dell’elettronica di front-end. Nel caso dei rivelatori a pad le dimensioni di una singola
cella sono circa 1x1 mm2 , in questo caso il numero di celle e quindi di canali di lettura
per unità di superficie è limitato e ciò non comporta problemi per l’elettronica da
affiancare al rivelatore, mentre per quanto riguarda i rivelatori a pixel, che qui non
vengono trattati, il problema è rilevante dato l’enorme numero di celle per unità di
superficie (le dimensioni di un pixel possono essere anche 10x10 µm2) . La risoluzione
spaziale delle pad è comunque inferiore rispetto alle microstrip: i rivelatori di questo
tipo vengono utilizzati in quei processi in cui sono presenti fenomeni fisici che
degradano la risoluzione. Nel nostro caso vogliamo rivelare raggi x e γ che
interagiscono con la materia tramite effetto fotoelettrico, Compton o produzione di
coppie, questi fenomeni, come vedremo in seguito, degradano la risoluzione spaziale
del segnale. La tecnologia utilizzata per la costruzione delle pad è la stessa sviluppata
per le microstrip a lato singolo. Lo spessore del rivelatore va da diverse centinaia di
micron fino al millimetro, ogni pad è ottenuta come per le strip drogando un substrato
altamente resistivo di silicio n con impurezze p+. Tra le diverse pad non ci deve essere
accoppiamento capacitivo perché il segnale ideale corrispondente al passaggio di una
particella dovrebbe apparire su una sola strip in modo da ottimizzare così la risoluzione
energetica. Nel rivelatore utilizzato, per uno spessore della giunzione di 1mm la
tensione di svuotamento è pari a circa 140V
Fig. 1.10. struttura di un rivelatore a pad
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Capitolo 2
Interazione radiazione materia
Le caratteristiche di un rivelatore devono essere scelte in base al tipo di
radiazione che si vuole studiare. Il modo in cui una radiazione interagisce con la
materia influisce sulla risoluzione e sull’efficienza del rivelatore. Una conoscenza delle
reazioni che avvengono nell’interazione tra radiazione e materia è poi fondamentale
non solo per la preparazione del rivelatore ma anche per interpretare le misure
effettuate. Le radiazioni si dividono in ionizzanti e non ionizzanti; si dicono ionizzanti
quelle la cui energia è perlomeno sufficiente a trasformare un determinato atomo in uno
ione. Solo queste ultime, ovviamente, generano cariche libere in un rivelatore a
semiconduttore e vengono quindi misurate. Il nostro rivelatore si deve interessare di
radiazioni elettromagnetiche di alta energia, lo spettro energetico che ci interessa è
quello dei raggi x e γ.
2.1 raggi x e γ
Le radiazioni elettromagnetiche consistono in un campo elettrico e un campo
magnetico oscillanti su piani perpendicolari tra loro. Una grandezza caratteristica delle
radiazioni elettromagnetiche è la lunghezza d’onda λ, essa rappresenta la distanza tra
due punti ad uguale intensità della medesima onda. Dalla lunghezza d’onda si può
ricavare la frequenza dell’onda elettromagnetica, espressa come:
ν=c/λ
dove c è la velocità della luce (c=3·108m/s). I fenomeni che avvengono a livello
atomico quando una radiazione elettromagnetica interagisce con la materia si
descrivono attraverso la “teoria dei quanti ” dove le onde elettromagnetiche sono
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rappresentate da corpuscoli di energia quantizzata, i Fotoni. L’energia di un quanto e la
frequenza della radiazione sono legate dalla relazione:
E= h·v
Dove h è la costante di Planck (h=6.6·10-34 J·s).
I fotoni sono privi di carica ed hanno massa a riposo nulla, per questo nel vuoto
possono raggiungere la velocità della luce. I raggi x e γ sono costituiti da fotoni di alta
energia. La distinzione tra raggi x e γ non è molto netta e viene fatta in base all’energia
dei fotoni ed all’origine della radiazione. I raggi x sono generati da transizioni di
elettroni tra orbitali di differente energia e derivano da processi di decadimento
radioattivo, oppure possono essere prodotti dal frenamento di elettroni in un metallo,
l’energia dei raggi x va da pochi KeV fino alle decine di KeV. I principali processi di
emissione gamma sono:
-Disintegrazioni radioattive α e β che lasciano il nucleo finale in uno stato
eccitato;
-Reazioni nucleari di cattura (ad esempio n, γ);
-Fissione nucleare;
-Annichilazione della materia, ossia conversione in radiazione elettromagnetica
della massa a riposo di una coppia di antiparticelle che si scontrano;
-Interazione di una particella carica con il campo elettrostatico di un nucleo.
Le energie dei fotoni γ vanno da parecchie decine di KeV in poi. Lo spettro di
energie che interessa il tipo di rivelatori che si sta studiando va da 10 a 100 KeV, in
questo range di energie si hanno sia i raggi x che i γ di energia più bassa.
2.2 Interazione dei raggi x e γ con la materia
Il comportamento dei fotoni nella materia è molto diverso da quello delle
particelle cariche, la mancanza di carica elettrica rende impossibili le molte collisioni
anelastiche con gli elettroni atomici, tipiche delle particelle cariche. I tre processi
principali attraverso cui i fotoni interagiscono con la materia sono:
•
Effetto fotoelettrico
•
Effetto Compton
•
Produzione di coppie
19
In realtà esistono altri processi di interazione secondari di minore interesse, come ad
esempio la deviazione coerente e la fotodisintegrazione del nucleo. Analizzando questi
principali tipi di interazione si spiegano le principali caratteristiche dei raggi x e γ, in
primo luogo la loro capacità di penetrare la materia molto maggiore rispetto alle
radiazioni α e β, questo perché le sezioni d’urto che caratterizzano questi processi sono
molto più piccole rispetto a quelle associate ai processi attraverso cui interagiscono le
particelle cariche. Inoltre un fascio di raggi x o γ non viene degradato nel passaggio
attraverso la materia ma soltanto ridotto in intensità, poiché nei tre processi sopra
elencati, i fotoni che interagiscono vengono o assorbiti o comunque rimossi dal fascio,
mentre tutti quelli che sono compongono il fascio in uscita hanno attraversato la
materia senza interagire in nessun modo con essa, conservando la propria energia.
L’attenuazione dell’intensità (I) di un fascio di fotoni che interagisce con la
materia, viene descritta da una legge di tipo esponenziale e dipendente dallo spessore
(x) del materiale attraversato:
I ( x) = I 0 ⋅ e (− µ ⋅ x )
dove I0 è l’intensità del fascio incidente e µ il coefficiente di assorbimento del
materiale. Il coefficiente di assorbimento per ogni materiale varia in funzione
dell’energia media dei fotoni incidenti ed è una quantità strettamente legata alla sezione
d’urto totale di interazione dei fotoni con quel materiale.
Se si considera un fascio di fotoni con una energia Eγ che incide su uno spessore
di un determinato materiale, conoscendo il valore del coefficiente di assorbimento di
quel materiale per l’energia Eγ, si può calcolare la probabilità che ha un fotone del
fascio di interagire con il materiale:
P( x) = 1 − e − µ ⋅ x
dove P(x) è la probabilità di interazione in funzione dello spessore di materiale.
20
fig. 2.1. grafico della lunghezza di assorbimento λ=ρ/µ ( dove ρ è la densità del
mezzo) in funzione dell’energia del fotone. Si vede che aumenta fino a raggiungere un
valore di saturazione. Il coefficiente di assorbimento quindi diminuisce all’aumentare
dell’energia del fotone [9].
Effetto fotoelettrico
Questo processo avviene mediante l’interazione con un sistema atomico di un
fotone di energia Eγ che cede tutta la sua energia a uno degli elettroni più strettamente
legati. L’ elettrone viene quindi espulso dall’ atomo con energia cinetica
Ek = Eγ - Eb
dove Eb è l’energia di legame dell’elettrone orbitale. Il fatto che l’elettrone sia legato è
essenziale per soddisfare la legge di conservazione della quantità di moto. L’atomo
infatti acquista la differenza tra la quantità di moto del fotone e quella dell’elettrone
senza assorbire apprezzabilmente energia, a causa della sua relativamente grande
massa. La sezione d’urto del processo fotoelettrico in funzione dell’energia del fotone
ha in generale un andamento decrescente, ma ad energie pari alle energie di legame
degli elettroni più interni presenta dei picchi. Particolarmente importante è l’ultimo
picco, quello corrispondente all’energia di legame più alta (livello K) che si trova nel
range di energie dei raggi x .
21
fig. 2.2. sezione d’urto dell’effetto fotoelettrico per il silicio
Effetto Compton
E’ una collisione elastica tra un fotone ed un elettrone “libero”, intendendo per
libero un elettrone la cui energia di legame è di molto inferiore a quella del fotone. Il
fotone non può trasferire tutta la sua energia all’elettrone, poiché si parla di una
collisione elastica, esso può essere solamente deflesso dalla direzione iniziale con
cambiamento di lunghezza d’ onda e quindi di energia.
fig. 2.3. schema dell’interazione Compton; energia e quantità di moto iniziale e
finale
fig. 2.4. sezione d’urto dell’effetto Compton
22
Fig. 2.5. distribuzione dell’energia rilasciata all’elettrone nello scattering
Compton per vari valori di energia del fotone incidente. In corrispondenza del
massimo valore di energia trasferita è presente un picco.
La massima energia cinetica (Tmax) che un fotone di energia Eγ = h·ν può
trasferire all’elettrone si ricava dalla cinematica del processo e vale:
⎛ 2⋅γ
Tmax = h ⋅ν ⋅ ⎜⎜
⎝1+ 2 ⋅γ
⎞
⎟⎟
⎠
dove γ=h·ν/(me·c2), con me la massa dell’elettrone.
Produzione di coppie
In questo processo un fotone interagisce con il campo elettrostatico che circonda
una particella carica (di solito un nucleo atomico) e scompare dando origine ad una
coppia elettrone protone. Affinché il processo sia energeticamente possibile il fotone
deve avere un energia almeno doppia rispetto alla massa a riposo dell’elettrone ( 0.511
MeV/c2), l’energia del fotone in eccesso viene distribuita sotto forma di energia
cinetica tra la coppia di particelle e solo una piccola quantità trascurabile viene ceduta
al nucleo per la conservazione della quantità di moto, la presenza del nucleo è per
quest’ultimo motivo indispensabile. Le particelle di coppia ( elettrone e positrone)
dissipano entrambi la loro energia cinetica in ionizzazione ed eccitazione degli atomi
della materia. Le energie dei fotoni che interessano il tipo di rivelatori studiati sono
23
dell’ordine di decine o al massimo qualche centinaia di KeV, quindi il processo di
produzione di coppie è inesistente.
La sezione d’urto totale di interazione dei fotoni con un mezzo, deriva dalla
somma delle sezioni d’urto riferite ai tre processi appena descritti. La sezione d’urto
totale per atomo (σ) può essere scritta come:
σ = σ fotoelettrico + Z ⋅ σ compton + σ produzione _ coppie
dove la sezione d’urto del processo Compton viene moltiplicata per il numero di
elettroni per atomo. Moltiplicando la sezione d’urto complessiva per la densità di atomi
(N) si ottiene la probabilità di interazione per unità di lunghezza, ovvero il coefficiente
di assorbimento (µ):
µ = N ⋅σ
Dal coefficiente di assorbimento, come descritto in precedenza, si ricava la
probabilità di interazione del fotone (ad una certa energia) con lo spessore di materiale
su cui incide. Un rivelatore per fotoni di una certa energia deve essere costruito con uno
spessore tale da garantire una probabilità di interazione di almeno qualche punto
percentuale.
Nella tabella sottostante sono riportate le probabilità di interazione di fotoni a
differenti energie con diversi spessori di silicio. I calcoli sono stati effettuati ricavando
µ per il silicio dal grafico in figura 2.1 (densità del silicio di 2.42 g/cm3).
Spessore silicio
Probabilità di interazione
Probabilità di interazione
per un fotone di 20 KeV
per un fotone di 100 KeV
300 µm
28%
1.1 %
1mm
67 %
3.6 %
1cm
100 %
31 %
Fig. 2.6. Probabilità di interazione fotoni-silicio per fotoni di diverse energie e
per differenti spessori di silicio
24
Fig. 2.7. Sezione d’urto totale dei fotoni con il silicio in funzione dell’energia
2.3 caratteristiche di un rivelatore al silicio per raggi x e γ
Negli effetti fotoelettrico e Compton il fotone interagente cede tutta o parte della
sua energia ad un elettrone, è questo elettrone che poi muovendosi nel silicio ionizza e
genera cariche libere in grado di essere rivelate. Il fotone non viene quindi rivelato
direttamente, ma attraverso il prodotto della sua interazione. Poiché l’elettrone prodotto
si muove nel silicio anche per centinaia di micron, non è possibile, per i rivelatori di
fotoni, raggiungere una risoluzione spaziale come quella comunemente ottenuta per
particelle cariche, che può essere di 10 µm o inferiore .
E’ per questo motivo che vengono utilizzati comunemente rivelatori a pad dalle
dimensioni “macroscopiche”, utilizzare rivelatori a microstrip o a pixel non
migliorerebbe l’informazione sulla posizione del segnale aumentando al contempo la
complessità ed il costo del rivelatore.
Nel tipo di rivelatori studiati, si cerca di massimizzare il numero di interazioni
Compton primarie e di ridurre il più possibile gli scattering Compton multipli e
l’assorbimento fotoelettrico. Queste scelte sono dovute a due fattori: gli scattering
Compton multipli degradano la risoluzione spaziale del segnale mentre l’effetto
fotoelettrico, assorbendo completamente il fotone, impedisce la sua rivelazione in
25
differenti piani di rivelatori e quindi la ricostruzione della sua traiettoria, che è invece
indispensabile in applicazioni come la camera Compton.
Il silicio deve avere uno spessore piuttosto consistente per restituire un certo
numero di interazioni Compton primarie. Gli spessori dei silici di questo tipo di
rivelatori sono sensibilmente maggiori rispetto agli spessori dei silici per i rivelatori di
particelle cariche, queste ultime, per i motivi accennati sopra, sono molto meno
penetranti dei fotoni nella materia.
Il rivelatore deve anche avere una certa risoluzione energetica che permetta di
distinguere i segnali prodotti dalle diverse interazioni dei fotoni con la materia, per
poter selezionare, nel nostro caso, quelli prodotti da interazioni Compton primarie.
Fig. 2.8. spettro di energie rivelate in un silicio spesso 1mm attraversato da
fotoni a 140.5 KeV. Picchi Compton e fotoelettrico
E’ importante che la risoluzione energetica sia la migliore possibile. Se il
rivelatore avesse una risposta alla radiazione incidente simile ad una delta di Dirac,
potrebbe rivelare qualsiasi differenza di energia. A causa delle fluttuazioni sul numero
medio di eventi di ionizzazione ed eccitazione prodotti per una data energia incidente,
la risposta avrà una larghezza finita.
Se indichiamo con w l'energia media, dipendente dal materiale, per produrre un
evento di ionizzazione e con E l'energia rilasciata dalla particella incidente, allora, il
26
numero medio di eventi di ionizzazione e' N = E/w. Nel caso in cui il rivelatore e'
considerato sottile, l'energia depositata al suo interno e' solo una frazione dell'energia
totale e si può' quindi assumere che le fluttuazioni seguano la statistica di Poisson.
Allora la deviazione standard σ della distribuzione vale:
σ= N
e la fluttuazione relativa e' σ/N che mi fornisce un indice della risoluzione energetica.
Se invece il rivelatore assorbe tutta l'energia della radiazione non si può più considerare
applicabile la statistica di Poisson. L'energia depositata e' ora una quantità fissa e non
può più fluttuare liberamente come nel caso precedente. Maggiore è l’energia delle
particelle e minore è il contributo del rumore al segnale.
Nel nostro caso si può considerare un energia rilasciata intorno ai 40 KeV (considero
l’ordine di grandezza dell’energia), che corrisponde a circa 10000 eventi di
ionizzazione nel silicio, con una fluttuazione relativa dell’1% del numero di cariche
prodotte.
Questa dovrebbe essere la risoluzione energetica che caratterizza il rivelatore,
purtroppo però nell’apparato di acquisizione sono presenti alcuni elementi che
aumentano il rumore. In particolare il segnale appena uscito dal rivelatore deve essere
amplificato prima di poter essere passato all’elettronica ed il preamplificatore che si
occupa di questo compito rappresenta un’importante sorgente di rumore. Affinché sia
garantita la stabilità del sistema il preamplificatore deve avere una capacità maggiore di
ogni altro elemento che ha in entrata (rivelatore e connessioni con esso), ma allo stesso
tempo il rumore che esso introduce dipende dalla sua capacità. Il rumore espresso in
Equivalent Charge Noise (ENC)è:
ENC = e ⋅
Vrms
⋅C
w
dove e è la carica dell’elettrone, Vrms il rumore in volts in uscita dal rivelatore, w
l’energia media per la creazione di una coppia e C la capacità totale del sistema
rivelatore-preamplificatore che deve essere minimizzata, ma che comunque è maggiore
della capacità totale del rivelatore[1].
27
Altre componeti di rumore sono dovute alla corrente di leackage del rivelatore,
che deve essere minimizzata utilizzando silicio di alta purezza e processi di
fabbricazione ad hoc.
Ulteriori contributi possono venire dal montaggio del sistema, da cavi e dagli
alimentatori ed e’ quindi essenziale mantenere il contributo di queste parti al di sotto di
quello intrinseco del rivelatore. Per tenere sotto controllo queste componenti e’
necessaria una progettazione accurata di tutti passaggi che costituiscono il processo di
acquisizione del segnale.
28
Capitolo 3
Caratteristiche e prestazioni di un prototipo di rivelatore a
Pad
In questo capitolo vengono descritte le proprietà del rivelatore e del chip ad esso
associato per l’acquisizione dei segnali. Al chip sono associati un software ed una
scheda di acquisizione che vengono brevemente descritti nel secondo paragrafo.
Nell’ultima parte del capitolo sono mostrate le prime misure effettuate con l’apparato
di acquisizione.
3.1 Il rivelatore a Pad e l’elettronica di front-end
Il rivelatore utilizzato è costituito da 128 pad di silicio disposte su 6 file. Lo
spessore del silicio è di 1mm e viene completamente svuotato da una tensione di circa
150 V. La superficie di una pad è 2 x 2 mm2, a cui corrisponde un’area attiva totale del
rivelatore di 12 x 42 mm2 [11].
fig. 3.1. struttura del rivelatore a Pad di silicio
Per ottimizzare il rivelatore sono stati effettuati dei test con due diversi rivelatori
verificandone la capacità e la corrente di leakage in funzione della tensione di
svuotamento.
29
fig. 3.2. andamento di 1/C2 in funzione della tensione di svuotamento per due tipi
di silicio
Dal grafico in figura 3.2. si vede che la capacità totale del silicio raggiunge un
valore di saturazione intorno a 150 V, da cui si deduce che questo valore di tensione
corrisponde al completo svuotamento del silicio (è qui che la capacità raggiunge il
minimo valore).
fig. 3.3. andamento della corrente di leakage in funzione della tensione di
svuotamento per i due silici. I due grafici di colore rosso corrispondono a due diverse
misure effettuate sullo stesso silicio
Il rivelatore scelto è stato quello corrispondente al grafico di colore azzurro,
poiché ha mostrato un migliore comportamento della corrente di leakage in funzione
30
della tensione di svuotamento (figura 3.3). Infatti, nel secondo rivelatore la corrente
aumenta fortemente proprio in corrispondenza di quei valori di tensione necessari per
uno svuotamento totale, mentre nel silicio scelto la corrente in funzione della tensione
applicata, oltre ad essere inferiore all’altra, aumenta molto più lentamente.
L’elettronica di front-end
Il rivelatore deve essere collegato in AC con l’elettronica di front-end, che si
occupa del passaggio del segnale all’acquisizione. Il chip utilizzato per queste funzioni
è il VA32C a cui è associato il trigger per l’acquisizione TA32CG [8]. Il meccanismo
di trigger utilizzato è conosciuto come VA/TA. In un chip di tipo VA per ogni canale è
presente un preamplificatore che amplifica il segnale proveniente dal rivelatore ed uno
shaper che trasforma il segnale che idealmente corrisponde ad una delta di Dirac in una
gaussiana, rallentando in pratica il tempo di salita. Il tutto è seguito da un multiplexer
che soltanto quando riceve il segnale di trigger legge in sequenza tutti i canali e
restituisce in uscita un segnale analogico da passare all’ADC.
Il segnale in uscita dal preamplificatore viene passato anche ad un canale del chip
TA che ha uno shaper più veloce seguito da un discriminatore, il quale lascia passare il
segnale soltanto se la sua tensione è maggiore del valore scelto come soglia per
l’acquisizione. Quando questo accade per almeno un canale, il TA restituisce un
segnale di trigger al VA che da il via al campionamento del segnale. In questo modo il
segnale proveniente dal rivelatore viene utilizzato sia per il trigger del sistema, che per
effettuare la misura. Nelle misure effettuate il sistema è stato utilizzato con un trigger
random e quindi non ci siamo occupati del chip TA32CG.
31
fig. 3.4. principio di funzionamento del VA-TA
Il VA32C è un chip a basso rumore costituito da 32 canali, le sue dimensioni
sono circa 4 x 3 mm2, il guadagno nominale è di 60 mV/fC con un rumore nominale di
60 + 12/pF e- rms per un tempo di salita di 2µs . I valori di guadagno, rumore e tempo
di salita, dipendono da vari parametri che possono essere gestiti via software. Questi
parametri sono: Vfs e shabias che riguardano dei valori di tensione dello shaper, mentre
Vfp
e prebias riguardano il preamplificatore. Questi parametri sono legati alle
caratteristiche costruttive di elementi quali lo shaper ed il preamplificatore contenuti
nel chip.
Il “Dynamic range”, che rappresenta l’intervallo in cui la risposta del chip in
funzione della carica iniettata ha un andamento lineare, per il nostro chip è di circa
50000 elettroni corrispondente ad una carica iniettata di circa 8fC.
32
3.2 Descrizione del sistema di acquisizione
Per tutti i chip di tipo VA/TA è stato creato un apposito sistema di acquisizione
chiamato VA-DAQ [8], che può essere utilizzato sia per effettuare dei test che per la
lettura del segnale. Il chip per essere collegato al sistema di acquisizione viene montato
su un apposito ibrido o su un circuito stampato, su cui viene poi collegato anche il
rivelatore.
fig. 3.5. il sistema di acquisizione VA-DAQ
fig. 3.6. l’ibrido (vata_h7546) per la connessione del chip VA32C e del
TA32CG con il sistema VA-DAQ e con il rivelatore
33
Il controllo del sistema avviene tramite un pc che viene collegato alla scheda di
acquisizione attraverso la porta parallela. Il software utilizza l’interfaccia di Labview, e
contiene diversi strumenti virtuali (VI) per la misura dei parametri fondamentali del
chip come guadagno, piedistallo e rumore.
Il programma che permette di controllare il sistema VA-DAQ è un VI di
LabView chiamato VADAQ.VI . Da un menù principale è possibile selezionare diverse
operazioni di misura. Selezionando dal menù il Vi “Bias settings” si possono impostare
i diversi parametri di corrente e tensione associati agli elementi del chip, in modo da
ottimizzarne le prestazioni. Le informazioni riguardanti queste impostazioni possono
essere scritte opportunamente su un file (*.def) che il programma può leggere . Il VI
“oscilloscope” permette di inviare un impulso di calibrazione al chip e visualizzare il
segnale di risposta in funzione del tempo, potendo variare la quantità di carica iniettata
e i diversi valori di tensioni e correnti nel chip . In questo modo è possibile regolare al
meglio la forma del segnale di risposta del chip. Il VI “pedestal and noise” misura
piedistallo e rumore dei canali del chip su un numero di eventi che viene scelto
dall’utente. Per quanto riguarda il rumore può essere misurato anche sottraendo il
rumore comune. “Gain measurement” permette di misurare guadagno e piedistallo di
ogni canale del chip. Il tempo con cui il segnale raggiunge il picco, per una certa
quantità di carica iniettata, può essere visto per tutti i canali selezionando il VI
“peaking time measurement” oppure si può selezionare un canale dal VI “check
peaking time” e vedere come varia il tempo di picco in funzione dell’impulso di carica.
Con il VI “signal profile” si osserva la risposta di un canale del chip in funzione della
quantità di carica iniettata. Nel programma sono contenuti altri VI che si occupano del
trigger del sistema ma che non sono stati utilizzati in questo caso.
3.3 Caratterizzazione del chip VA32C
Per migliorare il comportamento del chip abbiamo cercato di variare i diversi
parametri di tensione e corrente modificabili per mezzo del programma. In realtà nel
file che viene letto dal programma durante la calibrazione delle correnti del chip, sono
già indicati dei valori che in teoria ne ottimizzano le prestazioni: il lavoro è consistito
quindi nel verificare che questi fossero i valori ottimali per massimizzare il guadagno,
34
e minimizzare il rumore del chip. Abbiamo osservato ad esempio che variando il
parametro vfp tra 0 e -800mV il guadagno aumenta fino a raggiungere un valore di
saturazione, mentre il rumore si comporta in maniera più complicata e raggiunge un
minimo intorno a valori di circa -600mV. Analoghe misure sono state effettuate anche
su gli altri parametri vfs, shabias, e prebias.
fig. 3.7. guadagno (in alto) e rumore (in basso) in funzione del parametro vfp
Variando alcuni dei parametri elencati, si va a modificare anche il tempo di salita
del segnale risposta. Valori non ottimali influiscono anche sulla forma del segnale, che
può essere distorta, come si vede dalle figure successive.
fig. 3.8. forma del segnale risposta in funzione del tempo con una carica iniettata di
circa 10 fC e con i valori di tensione dei diversi parametri ottimizzati
35
fig. 3.9. variazione della forma del segnale risposta, diminuendo il valore di vfp e
lasciando inalterati i restanti parametri rispetto al grafico precedente
Con gli strumenti presenti nel programma è stato possibile verificare anche il
dynamic range del nostro chip, che ha mostrato una risposta lineare fino a valori della
carica iniettata di una decina di fC.
fig. 3.10. altezza del segnale di risposta del chip in funzione della carica iniettata
3.4 prime misure con il rivelatore
Nell’ibrido utilizzato sono contenuti due chip VA32, aventi ciascuno 32 canali,
quindi soltanto la metà dei canali del rivelatore è stata collegata all’elettronica.
36
fig. 3.11. rivelatore a pad pronto per essere connesso all’ibrido contenente i 2
chip VA32
Prima ancora di installare il rivelatore a pad sull’ibrido, per testare la connessione
del rivelatore al chip, su alcuni canali sono state montate delle capacità che simulassero
la presenza del rivelatore.
fig. 3.12. capacità montata su un canale del chip.
L’ordine di grandezza della capacità di una pad di silicio spessa 1mm e con una
superficie di 4mm2 è dell’ordine di un picofarad, quindi per simulare le pad sono state
inserite sui canali varie capacità dell’ordine di qualche picofarad. Questo test però ha
dato un valore del rumore molto elevato, in cui il rumore nominale dato dalle
specifiche veniva sormontato dal rumore introdotto dal collegamento con le capacità. A
causa di questo rumore aggiunto, non è stato possibile individuare il contributo
relativamente piccolo dato dalle capacità. Quello che teoricamente si sarebbe dovuto
vedere era una crescita del rumore all’aumentare delle capacità inserite sul canale.
37
n° elettroni
900
800
700
600
500
400
300
200
100
0
0
2
4
6
8
10
12
Capacità (pF)
fig. 3. 13. rumore in elettroni equivalenti in funzione della capacità
A causa di questi problemi per la caratterizzazione del chip non è stato possibile
effettuare, nei tempi a disposizione, una prima misura con il rivelatore, di un segnale
proveniente da sorgente radioattiva. L’unica misura effettuata con il rivelatore
connesso è stata quella del rumore, che è risultato essere circa il doppio del valore di
rumore in assenza di rivelatore.
fig. 3.14. valori di guadagno dei 64 canali del chip.
38
fig. 3.15. valori di piedistallo dei 64 canali del chip.
fig. 3.16. rumore (con sottrazione di piedistallo e modo comune) dei 64 canali del chip
senza rivelatore collegato.
fig. 3.17. rumore (con sottrazione di piedistallo e modo comune) dei 64 canali del chip
con rivelatore collegato
39
Il rumore può essere convertito da millivolts in rumore di elettroni equivalenti
conoscendo il guadagno dei canali del chip:
1mV=1/(gain*e-)
dove e- =1.6 · 10-19 C è il valore della carica dell’elettrone. Nel nostro caso il guadagno
medio è di circa 150mV/fC ed il fattore di conversione è: 1mV=42 e- rms.
Il segnale generato da raggi x nel silicio si dovrebbe comunque distinguere
abbastanza facilmente rispetto al fondo costituito dal rumore. Il livello di rumore si
trova a circa 400-500 e- rms , mentre le coppie lacuna-elettrone generate da un rilascio
di energia intorno ai 10 KeV, nel silicio, sono circa:
10000eV
≅ 2800coppie
3.6eV / coppia
Si dovrebbe quindi ottenere un rapporto segnale / rumore di circa 6, con una
risoluzione in energia di circa 2KeV.
Un rumore ancora più elevato era stato riscontrato anche in misure analoghe
effettuate in precedenza in altri laboratori con lo stesso chip, in quel caso però il livello
di rumore riscontrato non avrebbe permesso di ottenere misure significative.
Fig. 3.18. distribuzione del rumore in energia: senza rivelatore (sinistra) e con
rivelatore collegato (destra), in questo secondo istogramma, la freccia indica la
posizione aspettata per un segnale corrispondente a 10KeV di energia rilasciata.
40
Conclusioni
L’attività svolta costituisce soltanto il primo passo per la caratterizzazione
completa di un rivelatore per raggi x. A causa del brevissimo tempo a disposizione non
è stato possibile compiere un’analisi approfondita delle proprietà del sistema (chip +
rivelatore). Questo lavoro, ha avuto soprattutto un carattere formativo mettendomi di
fronte ai vari tipi di problemi che caratterizzano un’attività di tipo sperimentale e con
cui non avevo ancora avuto l’opportunità di confrontarmi. Le misure ed i test effettuati
fin qui rappresentano la base di partenza per l’ottimizzazione del sistema di
acquisizione di segnali da rivelatori di raggi x, il prossimo passo da fare è costituito
dall’acquisizione di segnali da sorgenti radioattive e la messa a punto del trigger per
l’acquisizione.
41
Bibliografia
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Verlag, Berlin, Heidelberg:
[2] R Horisberg, Solid State Detectors, Paul Scherrer Institute;
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Small Animal Pet;
[4] D. G. Darambara et al., A low-angle X-ray scatter breast-imaging system based on a
novel multi-element Si-pad operated in spectroscopic mode, Nuclear Instuments and
Methods in Physics Research, A 525 (2004) 253-257;
[5] D. Meier et al., Silicon Detector for a Compton Camera in nuclear medical imaging,
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[6] G. Prete, R. Ponchia, G. Bassato, Test of a CMOS front-end electronics for high
energy integration detectors;
[7] P. Weilhammer et al., Si-pad detectors, National Instruments and Methods in
Physics Reserch, A 383 (1996) 89-97;
[8] http://www.ideas.no
[9] http://www.pdg.lbl.gov
[10] http://www.physics.nist.gov
[11] Il rivelatore è stato prodotto dalla ditta SINTEF
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