La dimensione del tempo nella storiografia

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La dimensione del tempo nella storiografia filosofica
italiana degli anni Cinquanta
Gaetano Antonio Gualtieri
Croce’s and Gentile’s neo-idealistic philosophy – the philosophical movement prevailing in Italian academy during the early decades of 20th century – had suggested an extratemporal dimension of history. After the 2nd
world war Italian philosophers undertook a debate about historiography,
and the problem of time was one of the main subjects of the quarrel. Examining the arguments advanced by some of the chief participants of the
debate – Mario Dal Pra, Antonio Banfi, Giulio Preti, Paolo Rossi, Eugenio Garin, Enzo Paci, Nicola Abbagnano – this article analyzes the
mephysical and epistemic assumptions that each of them conceived, in order to set up an idea of time such as to enable a better appreciation of
philology (historical time) and of experimantal sciences (empirical time).
Keywords: Neo-idealism, Neoilluminismo (New Enlightenment), Italian
philosophical historiography, Historical time, Empirical time.
1. Nicola Abbagnano e Mario Dal Pra: il “nuovo illuminismo” e la riabilitazione del tempo storico
La reazione alla filosofia neoidealistica, che venne profilandosi negli anni
compresi fra il 1945 e la fine degli anni Cinquanta, si incentrò, in primo
luogo, sul tema di una ridefinizione del ruolo della storiografia filosofica e
sulla questione riguardante la sua autonomia rispetto al dato teorico. Si
trattava di capire quale rapporto dovesse intercorrere fra la dimensione teoretica e quella riguardante la pratica della storiografia, e l’elaborazione di
una nuova prospettiva passò attraverso momenti di intensa discussione. Fra
i punti di riferimento fondamentali, per seguire quel processo, vi furono: il
volume intitolato Problemi di storiografia filosofica (1951); gli incontri
«Dianoia», 18 (2013)
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promossi dalla Società Filosofica Italiana a Roma tra il 1953 e il 1954 e raccolti nel volume Verità e storia. Un dibattito sul metodo della storia della
filosofia; il convegno presieduto da Abbagnano nell’ambito degli incontri
del movimento neoilluminista, svoltosi a Firenze nel 19561.
In precedenza impegnato nel compito di affermare il valore e l’attualità dell’esistenzialismo, Nicola Abbagnano nel corso degli anni Cinquanta
si collocò fra gli esponenti di punta di una nuova filosofia, e fu tra i promotori di un “nuovo illuminismo”2. Qualche anno dopo, nella «Prefazione»
1 AA.VV., Verità e storia. Un dibattito sul metodo della storia della filosofia, Asti, Arethusa, 1956; AA.VV., La filosofia contemporanea in Italia. Società e filosofia di oggi in
Italia, Asti-Roma, Arethusa, 1958; A. Banfi, M. Dal Pra, G. Preti, Paolo Rossi, Problemi di
storiografia filosofica, Milano, Bocca, 1951; i contributi al convegno fiorentino furono in
gran parte pubblicati sulla «Rivista critica di storia della filosofia», 11 (1956), si vedano in
particolare: P. Rossi, Sulla storiografia filosofica italiana, pp. 68-99, E. Garin, L’“unità”
nella storiografia filosofica, pp. 206-217, M. Dal Pra, Del “superamento” nella storiografia filosofica, pp. 218-226, E. Paci, Sul concetto di “precorrimento” in storia della filosofia, pp. 227-234. Della vasta bibliografia sull’argomento ci limitiamo a suggerire A. Bausola, G. Bedeschi, M. Dal Pra, E. Garin, M. Pera, V. Verra, La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1985; AA.VV., “Il mondo degli uomini”. Cinquant’anni
di filosofia in Italia (1936-1986), Itri, Fabrizio, 1988; N. Bobbio, Storiografia descrittiva o
storiografia valutante?, «Rivista critica di storia della filosofia», 11 (1956), pp. 374-380;
R. Bodei, La filosofia del Novecento, Roma, Donzelli, 1997; V. Castronovo (a cura di),
L’Italia contemporanea 1945-1975, Torino, Einaudi, 1976; M. Dal Pra, Storia della filosofia e della storiografia filosofica, a cura di M.A. Del Torre, Milano, Angeli, 1996; M.A.
Del Torre, Il dibattito sulla storiografia filosofica degli anni ’50, in AA.VV., La storia della filosofia come sapere critico. Studi offerti a Mario Dal Pra, Milano, Angeli, 1984, pp.
701-717; E. Donaggio, E. Pasini (a cura di), Cinquant’anni di storiografia filosofica in Italia, Bologna, Il Mulino, 2000; M. Ferrari, Origini e motivi del Neoilluminismo italiano tra
il dopoguerra e gli anni Cinquanta, «Rivista di storia della filosofia», 40 (1985), pp. 531548, 749-767; E. Garin, Cronache di filosofia italiana 1900-1943. Quindici anni dopo 19451960, vol. II, Roma-Bari, Laterza, 1975; E. Garin, La filosofia come sapere storico, RomaBari, Laterza, 1990²; L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Vol, IV, «Il
Novecento», Milano, Garzanti, 1976; V. Mathieu, La filosofia del Novecento. La filosofia
italiana contemporanea, Firenze, Le Monnier, 1978; M. Pasini, D. Rolando (a cura di), Il
Neoilluminismo italiano. Cronache di filosofia (1953-1962), Milano, Il Saggiatore, 1991;
Paolo Rossi, Storia e filosofia. Saggi sulla storiografia filosofica, Torino, Einaudi, 1975; Pietro Rossi, C.A. Viano (a cura di), Filosofia italiana e filosofie straniere nel dopoguerra,
Bologna, Il Mulino, 1991; C.A. Viano, La filosofia italiana del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2006.
2
È degno di nota, in particolare, il saggio “fondativo” di N. Abbagnano, Verso un nuovo illuminismo: John Dewey (1948), ora in N. Abbagnano, Scritti neoilluministici, a cura di
B. Maiorca, Torino, UTET, 2001, con una Introduzione di P. Rossi e C.A. Viano, pp. 99-111;
si vedano A. Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana (1959), Bologna, Il Mulino, 1967²,
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alla Storia della filosofia, avrebbe affermato che «una filosofia del passato, se è stata veramente filosofia, non è un errore abbandonato e morto, ma
una fonte perenne di insegnamento e di vita»3. Da questo punto di vista era
possibile sostenere che la storia della filosofia era ciò che saldava insieme
il passato e l’avvenire, senza forme preconcette o pregiudiziali, ed era anche ciò che spingeva naturalmente verso una ricerca che non necessariamente dovesse inglobare, fino al punto da annullarle, le indagini filosofiche precedenti. Abbagnano sottolineava il bisogno di un ordine nella ricerca, che però fosse non un ordine necessario, vale a dire dialetticamente
concatenato e inteso a “disvelare” una verità unica, ma un ordine che si dispiega nel tempo:
Soltanto con il riconoscimento dell’alterità storica e della prospettiva storiografica e con la tendenza della ricerca storiografica all’individuazione,
la cronologia degli eventi assume l’importanza decisiva che ha nella moderna metodologia storiografica4.
Il risalto dato al tempo, come dimensione della comprensione storica,
veniva sottolineato in maniera decisa anche da Mario Dal Pra, che, argomentando sulle caratteristiche di un teoreticismo in chiave idealistica – da
lui definito riduttivamente come logica teorica – evidenziava come esso
pervenisse alla negazione sia del passato che del futuro, qualificandosi alla
stregua di una filosofia di tipo non storico ma pseudo-storico, dal momento che «una storia senza tempo è piuttosto una geografia che una storia»5.
Alla dimensione sovrastorica Dal Pra opponeva un trascendentalismo
della prassi, termine con il quale egli denotava una condizionalità pratica
dell’essere, che doveva prendere il posto della condizionalità teorica di impronta idealistica. La nuova dimensione che la storiografia avrebbe dovuto assumere, secondo Dal Pra, doveva portare a liberarsi di una visione che
e dello stesso, Razionalismo critico, esistenzialismo, marxismo e neoilluminismo, in M. Dal
Pra (a cura di), Storia della filosofia, vol. 10, La filosofia contemporanea. Il Novecento,
Milano, Vallardi, 1978 e Nicola Abbagnano e il neoilluminismo, in AA.VV. Una filosofia
dell’uomo, Atti del Convegno in memoria di Nicola Abbagnano, Salerno, 11-13 novembre
1992, ora in A. Santucci, Empirismo, pragmatismo, filosofia italiana, Bologna, Clueb, pp.
183-213.
3 N. Abbagnano, Prefazione a Storia della filosofia (1960), Torino, UTET, 1974, p. XXI.
4 N. Abbagnano, Il lavoro storiografico in filosofia, in AA.VV., Verità e storia, cit.,
p. 25.
5 M. Dal Pra, Logica teorica e logica pratica nella storiografia filosofica, in AA.VV.,
Problemi di storiografia filosofica, cit., p. 47.
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considerava l’essere come valore conoscitivo, per privilegiare l’individuo
come compito pratico della ragione. Tutto questo avrebbe comportato una
massima apertura sull’essere,
il quale non risulterebbe affatto racchiudibile entro orizzonti di determinabilità assoluta; il condizionamento dell’essere, liberato dalla pretesa universalità della situazionalità e dell’intuitività, viene a mancare d’un principio presupposto; ora la pre-supposizione in questione non è altro che il collocarsi dell’essere fuori della storia6.
L’abbandono di ogni struttura teoretica, con il suo apparato schematico
tranquillizzante e la sua logica speculativa, implicava l’accettazione di un
percorso basato sulla categoria del possibile (trascendentalismo possibile
della prassi), in cui diventava chiaro il ricorso ad un processo storico aperto, non più fondato su garanzie sicure7. Dal Pra sosteneva, appunto, che la
storia è fatta di possibilità possibili e non garantite8. L’acquisizione di questa dimensione del possibile, unita alla riconquista del tempo, ridava valore all’aspetto storico che, ormai privo di ogni aura di sacralità, veniva considerato come l’ambito nel quale rientravano gli accadimenti, le scelte, i rischi che inevitabilmente accompagnano la vita degli uomini9.
Dal Pra si poneva in un atteggiamento critico nei confronti del “teoricismo” metafisico idealistico che rifiutava qualsiasi filosofia passata che
non fosse inseribile all’interno del suo piano unitario. I neoidealisti erano
mossi dal bisogno di porre un discrimine fra filosofie giuste e filosofie “erronee”, non rientranti nella dimensione meta-storica alla quale essi facevano riferimento:
6
Ivi, pp. 51-52.
Per cogliere la problematicità del pensiero di Mario Dal Pra negli anni ’40 e ’50 non
si debbono dimenticare gli scritti di ispirazione blondeliana, fra cui occorre citare Pensiero e realtà, Verona, La Scaligera, 1940; Necessità dell’universalismo cristiano, Vicenza,
Collezioni del “Palladio”, 1943; Valori cristiani e cultura immanentistica, Padova, CEDAM, 1944. Tuttavia, relativamente agli anni di cui qui ci occupiamo, ricordiamo i numerosi scritti e articoli su riviste varie, fra cui Id., Critica, metafisica e immanentismo, «Rivista di filosofia», 3 (1952), pp. 243-260; Sul concetto di criticità, «Rivista critica di storia della filosofia», 1 (1953), pp. 1-13; Sul trascendentalismo della prassi, in Il problema della filosofia oggi, Atti del XVI Congresso nazionale di filosofia, Bologna 19-22 marzo 1953,
Roma-Milano, Bocca, 1953, pp. 532-540.
8 Così M. Dal Pra: «Proprio in quanto tale, la storia rimane aperta all’integrazione dell’essere; la mancanza del presupposto come datità le consente di essere interamente storia,
cioè interamente libertà» (M. Dal Pra, Logica teorica e logica pratica, cit., p. 52).
9 Ivi, p. 55.
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La prospettiva teoricistica […] si trova davanti delle posizioni filosofiche
che non riescono ad inserirsi né positivamente né negativamente nel suo
piano unitario; queste dovrebbero restare ai margini della ricostruzione storica [...]. Le stesse posizioni teoricistiche, solo al limite assumono atteggiamento di pura indifferenza di fronte a delle filosofie passate; per contro,
il loro atteggiamento più normale comporta che le filosofie passate si distribuiscano in due categorie, quelle vere e quelle false, quelle da accettare e quelle da respingere; e le stesse filosofie rispetto alle quali si potrebbe
nutrire indifferenza, in una posizione limite, finiscono per essere assunte in
una delle due categorie accennate10.
Il trascendentalismo della prassi proponeva, invece, di superare qualsiasi giudizio atto a cogliere elementi di “erroneità” nelle filosofie passate, anche perché assumeva un’ottica umile, nella quale la verità non fosse
né garantita né unitaria, ma semplicemente fosse – in sintonia con il concetto di possibilità possibile – una «verità possibile»11.
La verità possibile si fondava su “periodizzamenti”, ossia sull’individuazione di fasi non chiuse in se stesse, ma aventi la funzione di tappe miranti ad acquisire una posizione sempre più matura, fino a raggiungere un
punto di vista che si riteneva criticamente appropriato. Il concetto di appropriatezza, tuttavia, era sempre contingente, proprio perché il trascendentalismo della prassi intendeva porsi al di là di ogni “verità metafisica”,
individuando le varie pieghe e sfumature dell’essere12. La rigidità della storia veniva superata dal fatto che il dato contingente proponeva di per sé
una libertà interpretativa, limitata peraltro dal rischio di erroneità13. Il modello interpretativo proposto da Dal Pra prendeva le distanze da ogni forma di rigidità storica, sia quella teoricistica, viziata da dogmatismo metafisico, sia quella definita “storiografia obiettiva”, con la quale Dal Pra intendeva riferirsi ad una impostazione storiografica
10
Ivi, pp. 56-57.
Ibidem.
12 Ivi, p. 58.
13 «Le filosofie del passato vengono chiamate in causa non già dalla struttura eterna
dell’essere che fa loro il processo per il suo mancato riconoscimento, bensì da una libera iniziativa di interpretazione, che ne è consapevole. È per una libera iniziativa e non per fedeltà alle strutture eterne ed alla loro intuizione che nasce il discorso interpretativo; con esso
nascono anche i suoi limiti, che tendono ad escludere due posizioni estreme: la mancanza
stessa dell’interpretazione e la considerazione metafisica della stessa» (Ibidem).
11
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che ritiene non aver alcun senso il discorso con le filosofie passate che voglia rifarsi ad un presente; tale storiografia pensa che il passato vada lasciato stare come passato e viene intanto livellando nel passato tutta la storia; è la storiografia che ‘tutto comprende’ e ‘tutto perdona’, in quanto ritiene che tutto valga lo stesso14.
Teoricismo, dogmatismo, metafisica, “storiografia obiettiva” erano tutti aspetti che finivano per richiamare come dato ricorrente quello legato alla temporalità. Trascendentalismo della prassi significava estensione della temporalità, non solo nel senso di avere uno sguardo retrospettivo verso il passato, ma anche come necessità di pensare al futuro, pur senza la
pretesa di incanalarlo secondo “leggi” vincolanti15. Dal Pra faceva così
comprendere che la riconquista del dato temporale avrebbe gettato nuova
luce sull’uomo, inquadrandolo in una prospettiva che, sebbene non fosse
tranquillizzante, era tuttavia rispondente al vero e, soprattutto, ai bisogni
umani.
Denunciando le difficoltà del teoricismo idealistico, il trascendentalismo della prassi evidenziava che il compito più urgente era quello «di svuotare il dato teoretico d’ogni dogmaticità e risalire al suo condizionamento
pratico, ossia a una interpretazione della praticità trascendentale del valore ontologico»16. Diventava fondamentale, per Dal Pra, liberarsi dal peso
delle convenzioni, delle credenze stabilizzate, dei presupposti assoluti ed
avviarsi verso la costruzione di nuovi valori. La storiografia doveva seguire tale cambiamento e superare ogni ipoteca metafisica, in quanto ogni analisi che voglia essere veramente storica non può non collocarsi in una dimensione temporale, altrimenti finirebbe per avvitarsi su se stessa, avvolgendosi in una tautologia, che si disporrebbe lontano da ogni pretesa di poter affermare una comprensione storica.
14
Ivi, p. 59.
«Mancando nel trascendentalismo della prassi la designazione metafisica d’un dato
assoluto, viene a mancare ogni preclusione di diritto all’affermarsi del futuro. Lo sforzo
massimo del trascendentalismo della prassi si concreta anzi nel tenere aperto il futuro della storia del pensiero. Ciò significa tener fermo che il futuro potrà muoversi su strade diverse
da quelle designate dal trascendentalismo della prassi, proprio perché esso non dimostra, nel
senso corrente della parola, e quindi non si arbitra di aver presente intuitivisticamente come il passato così anche il futuro» (ivi, p. 61).
16 A. Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, cit., pp. 248-249.
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2. Antonio Banfi e Giulio Preti: continuità e discontinuità del tempo storico
Anche Antonio Banfi – nonostante si collocasse su posizioni diverse, a causa della presa di distanza dall’esistenzialismo cui Dal Pra guardava invece
con un certo favore17 – sottolineava il fatto che il metodo hegeliano, per
quanto sostenibile nel suo assunto generale, era però manchevole nel seguire la concretezza dei fatti ed incapace di adattarsi elasticamente alle varie esigenze, a causa della sua rigida ed extra-temporale astrattezza18. Del
resto, già da qualche tempo Banfi si era posto l’esigenza di affermare un indirizzo pragmatico nella ricerca filosofica ed aveva intravisto nel marxismo la corrente che meglio poteva assolvere a quel compito. Di conseguenza, anche il sapere storico doveva esprimere tale inderogabile bisogno19. In questo contesto doveva essere evidente il fatto che «La coscienza temporale è estremamente dialettica», che essa fa capo alle «dimensioni del tempo vissuto […] l’orizzonte della nostra vita e della nostra azione»20, e che la filosofia e la storiografia filosofica, pienamente partecipi di
questa «coscienza», dovevano esplicitare la problematicità del reale21.
Banfi andava alla radice del problema metodologico: «Come ogni forma di storiografia, la storiografia filosofica presenta aspetti di continuità e
di discontinuità»22; ora, il compito assegnato alla metodologia è vero che
non consiste nel semplificare questa complessità ma consiste piuttosto nel
comprenderla in una concezione universalmente unitaria dei suoi momenti, come sostenuto dagli idealisti; è altrettanto vero, però, che è estrema-
17 Banfi considera l’esistenzialismo come un’irrazionalistica filosofia della crisi, il cui
fondamentale assunto teoretico consisterebbe nel «fissarsi all’essenza dell’inessenziale» e
la cui prerogativa principale espliciterebbe «la tragedia grottesca – l’ultima tragedia romantica – del medio ceto intellettuale»; quest’ultimo, «nel suo isolamento sociale, ha perduto ogni energia spiritualmente creativa, ed esasperato a tal punto la sua tormentata culturalità, da ridurla a mera negazione della cultura» (A. Banfi, L’uomo copernicano, Milano, Mondadori, 1950, pp. 80-81).
18 A. Banfi, Osservazioni sul naturalismo antico, in AA.VV., Problemi di storiografia
filosofica, cit., p. 7.
19 «La coscienza o il sapere storico che è l’orizzonte del presente, in quanto abbraccia
nel loro movimento passato e futuro, non è mai un semplice sapere teoretico, ma porta in
sé, come suo momento essenziale, l’intenzionalità pragmatica» (A. Banfi, L’uomo copernicano, cit., p. 192).
20
Ivi, p. 172.
21 Ivi, p. 186.
22 A. Banfi, Osservazioni sul naturalismo antico, cit., p. 7.
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mente riduttivo pensare di definire una realtà culturale indicandone il significato ideale e scartando «i suoi concreti momenti fenomenologici». Sono, al riguardo, emblematiche le seguenti affermazioni:
È facile, sotto l’influsso di una tendenza spiritualistica o idealistica, e, in genere di un finalismo dogmatico della filosofia dello spirito, illudersi di definire una realtà culturale – sia essa l’educazione, il diritto, la morale, l’arte, la religione, la filosofia – con l’indicare il suo presunto significato o valore ideale, scartando, come accidentali, i suoi concreti momenti fenomenologici, gli aspetti cioè del suo essere storico ed umano23.
La critica alla dimensione extra-temporale si caricava così, in Banfi, di
un più ampio bisogno di opporsi alle astrattezze di un “dover essere” che
assorbe e rende vana l’esplicitazione di ogni particolarità. Da qui, l’opportunità di sostituire allo “spirito oggettivo” hegeliano, secondo cui l’arte, la religione, la filosofia rappresentano gli aspetti della autocoscienza assoluta, una dimensione culturale nella quale i suddetti aspetti «si determinano e si svolgono fenomenologicamente in strutture e processi di concretezza storica, corrispondenti alla complessa natura del loro fondamento antropologico, o, in genere, della loro umanità»24.
Banfi rilevava come, nel tentativo di ricondurre tutto all’eterno presente, si finisse per smarrire la complessità della stessa filosofia, al cui interno si agita una diversità di prospettive e una differente mutevolezza di piani25. La filosofia aveva, prima di tutto, la prerogativa della concretezza – secondo Banfi – e non poteva escludere la molteplicità dei piani e dei contenuti che via via possono presentarsi in una indagine completa. Un’indagine su alcuni fondamentali movimenti (la Scolastica o il post-kantismo) o
personalità (ad esempio Nicola Cusano) evidenziavano, nella ricerca storica, momenti di continuità alternate a fasi di discontinuità; tutto questo
produce una dialetticità ben più complessa di quella alla quale fanno riferimento i filosofi neoidealisti; da qui l’imporsi di una ricerca atta a rivedere le prospettive e a distinguere, pur in una ricerca di connessione dei fe-
23
Ibidem.
Ivi, p. 8.
25 «V’è il piano psicologico dell’esperienza e del pensiero dei singoli filosofi, vi è quello mitico-teoretico del sistema, v’è quello della particolare sintesi costruttiva o retorico-dimostrativa delle singole opere. […] E infine più profondo è il piano della struttura sociale
che sottostà agli altri e determina contenuti, valori e problemi nel loro senso umano» (ibidem).
24
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nomeni, i momenti di continuità e discontinuità. L’esempio del naturalismo greco serviva a Banfi per chiarire la compresenza proprio di elementi di continuità e discontinuità che nella visione neoidealistica della contemporaneità della storia non sarebbero stati messi a fuoco. Banfi metteva, così, in evidenza il fatto che l’origine del naturalismo affondava le sue
radici nella coscienza mitica «che la precede, l’accompagna, le presta toni
e iniziative ed altre ne assorbe, così che la lotta che tra loro s’ingaggia non
sempre ha tono d’aperto conflitto, ma spesso di commistione profonda, in
quella che è la storia della filosofia o del sapere»26. In questo modo Banfi
poneva subito l’accento sulla necessità – per il pensiero filosofico – di evidenziare la relazione fra vita concreta e formazione delle idee e del sapere, superando l’astratto concetto di unità della filosofia idealistica. Certo,
la mentalità mitica si riferiva anch’essa ad una unità che ne determinava le
coordinate e gli orizzonti; tuttavia, essa si circoscriveva pure entro determinati limiti spaziali e temporali e concretamente li caratterizzava.
La concezione naturalistica vera e propria, poi, emergeva da questo contesto mitico ma era caratterizzata da una serie di esperienze diverse e prive di connessione fra loro27, che inscrivevano nell’unità generale quelle discontinuità cui prima si accennava. Le riflessioni di Banfi miravano, pertanto, a mettere in risalto, in primo luogo, l’importanza di fenomeni filosofici un po’ trascurati dall’idealismo, e in secondo luogo a evidenziare la
complessità dei fenomeni filosofici e storici, per comprendere veramente i
quali il punto di vista non poteva essere quello extra-temporale e astratto
del neoidealismo ma doveva essere un punto di vista concreto e calato nel
tempo.
L’argomento in questione era, come ebbe a dire Giulio Preti, il punctum
dolens della teoria idealistica della storia. In Preti si scorgeva, in maniera
forse ancor più marcata rispetto ad altri esponenti della filosofia italiana
post-idealistica degli anni Cinquanta, una esigenza rifondativa della filosofia. Ce ne accorgiamo dal fatto che egli poneva come basilari della sua
argomentazione alcuni elementi ritenuti costanti della filosofia tradizionale, sottoponendoli ad un esame attento e rigoroso. Questioni come, ad
esempio, la costanza dei problemi che attraverserebbero tutta la storia della filosofia o come la convinzione che tutta la filosofia si ridurrebbe ad una
serie limitata di posizioni di fronte alla realtà erano messi in discussione
26
27
Ivi, pp. 10-12.
Ivi, p. 14.
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da Preti senza riserve o timori reverenziali. Da qui egli muoveva per sottoporre ad indagine le tesi della continuità e discontinuità nella storia della
filosofia, alle quali – come si è visto – già accennava Banfi. Preti si poneva il quesito di come intendere lo sviluppo storico: esso doveva essere inteso
come uno sviluppo continuo, senza soluzioni di continuità, tale che ogni
pensiero successivo è il naturale sviluppo del precedente; oppure come un
divenire a sbalzi, presentante ad ogni figura nuova un’assoluta, impreveduta
unità?28
Ma l’apparente alternativa era subito risolta:
La tesi più «ingenua» è quella della continuità. Secondo tale concezione lo
sviluppo del pensiero sarebbe uno sviluppo omogeneo: ciò che si pensa è
conseguenza di ciò che è stato pensato e contiene le premesse di ciò che si
penserà nell’avvenire. Sicché nella storia della filosofia non si conterrebbero mai novità29.
L’attacco alla filosofia neoidealistica veniva sferrato da Preti identificando la posizione neoidealistica con quella della tesi “continuista”, definita senza troppi indugi come «ingenua». La storia intesa all’insegna della continuità conteneva in sé, come «un presupposto più o meno inconsapevole», l’abitudine di considerare i filosofi del passato come se vivessero
e scrivessero nel tempo presente30. Ora, tale metodologia, eccezion fatta
per qualche caso, possedeva il limite della illusorietà31. Preti sosteneva la
dinamicità del pensiero filosofico, inadatto per sua natura a chiudersi nell’astrattezza e votato ad immergersi nella vitalità degli individui e della società. D’altro canto, nemmeno le discontinuità sarebbero state pienamente compatibili col pensiero filosofico, qualora fossero state prese in senso
astratto32. Secondo Preti era chiaramente la riconsiderazione di una nuova
28
G. Preti, Continuità e discontinuità nella storia della filosofia, in AA.VV., Problemi
di storiografia filosofica, cit., p. 65.
29
Ivi, pp. 66-67.
30 Ivi, p. 67.
31 «Entro certi limiti questo procedimento può avere anche una sua legittimità: ma solo in questi tre casi, che si tratti di un giudizio pragmatico, o paradigmatico o estrattivo»
(ibidem).
32
«Se la tesi della continuità soffoca l’originalità e distrugge il movimento nel pensiero filosofico, la tesi della discontinuità rischia di cadere nella «filastrocca di opinioni» o
nel «miracolo» di un pensiero che viene su dal nulla» (ivi, p. 73).
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dimensione temporale a porsi come risolutiva per la ricerca di una nuova
metodologia della storiografia filosofica:
La reale dialettica delle strutture del pensiero è la dialettica delle strutture
sociali. Il tempo reale («esteriore», empirico) coincide con questa dialettica. Gli uomini mettono del tempo a nascere e a morire, a moltiplicarsi e
quindi i rapporti di popolazione a mutarsi. Le macchine mettono del tempo a produrre, a logorarsi, a rifarsi, le persone mettono del tempo a spostarsi, a comunicare. La società si muta nel tempo, come ogni altro fenomeno naturale, empirico: perciò la filosofia muta nel tempo33.
Richiamandosi esplicitamente a Hegel, Preti sosteneva la presenza di
due istanze temporali: l’una ideale, intesa come puro ritmo dialettico; l’altra empirica e attenta alla varietà “effettuale”; chiaramente l’idealismo assegnava valore solo alla prima, annullando la seconda, in quanto ritenuta
accidentale ed insignificante34. La storiografia post-idealistica, invece, diede importanza a quest’ultima, invertendo le priorità e, anzi, eliminando
completamente l’istanza del tempo astratto. Pur riconoscendo all’idealismo, ed a Hegel in particolare, la formazione di un metodo storiografico apprezzabile, un «optimum relativo», che, attraverso la dialettica rispetta molte esigenze fondamentali, Preti ne rifiutava l’impostazione astratta e arbitraria, in nome di una reale dialettica delle strutture sociali, coincidente con
il prodursi del tempo reale. L’accettazione di quest’ultimo porta a comprendere la totale convertibilità degli uomini con il tempo stesso, per cui se
è vero che «tempora mutantur, et nos mutamur in illis, […] è anche vero il
contrario: che i tempi mutano con il nostro mutare». E Preti rafforzava il
concetto, affermando che «o l’appunto dialettico serve interamente a spiegare i fatti empirici risolvendone l’accidentalità […], o non serve a niente,
se non a fare un duplicato che diventa eo ipso dogmatico e metafisico»35.
Indispensabile era quindi «reintegrare la storia della filosofia nel tempo
empirico (‘esteriore’) inteso non più come il duplicato fenomenico di un
ritmo dialettico noumenico, ma come unico ritmo, solo reale, del divenire
storico effettivo»36. Preti evidenziava la necessità di un più vivo contatto con
le cose e portava alle estreme conseguenze, attraverso la storiografia filosofica, la proposta già avanzata negli anni ’30 di «un immanentismo che fos33
Ivi, p. 83.
Ivi, p. 79.
35 Ibidem.
36 Ibidem..
34
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se esigenza di vita, che rappresentasse lo sforzo della filosofia di porsi in
contatto con l’esperienza, con la nostra esperienza, riconoscendola come
tale, prendendone tutta la responsabilità»37. Di conseguenza, in lui andava
sempre più facendosi pressante la necessità di aspirare ad uno storicismo
che andasse oltre un piano puramente descrittivo e non si soffermasse esclusivamente sulla riproduzione di uno schema hegeliano, fondato su una antitesi che si toglie per affermare una sintesi posta su un punto più alto e più
maturo della storia38. Ad attestare la sua attenzione per gli sviluppi della filosofia post-idealistica vi è, d’altro canto, tutta la produzione critica che caratterizzò la sua riflessione speculativa degli anni ’50, a partire dal libro su
Newton (1950), in cui era già di per sé un elemento di novità il fatto di soffermarsi sulla figura di uno scienziato, anziché su quella di un filosofo inteso alla maniera tradizionale. La distanza dal neoidealismo si faceva evidente in quei passi in cui Preti subordinava esplicitamente «le opinioni [di
Newton] in materia di metafisica e di teologia», e in generale «il suo pensiero filosofico, spesso profondo e sempre assai importante», alle conclusioni di ricerche, condotte «attraverso la sua meditazione e sperimentazione»39. In questo modo, egli rendeva evidente l’allargamento del campo storiografico da lui messo in pratica. Dove però la caratteristica del pensiero di
Preti toccava il punto più alto di quegli anni era nel libro Praxis ed empirismo (1957), in cui si concentravano e giungevano a maturazione tutte le riflessioni fatte in precedenza. La necessità di pensare ad una filosofia che
non fosse solo atta a comprendere, ma anche e soprattutto ad agire e a modificare la realtà, e il bisogno di costruire una «cultura democratica»40 portavano Preti a rivedere in modo radicale tutto il pensiero italiano, a cominciare proprio dalla necessità di affrontare la storia secondo una temporalità
concreta ed empirica. Quest’ultima diventava parte di una ricerca volta a
«scientifizzare» la filosofia41. In questo modo, Preti finiva per mettere a fuo-
37
G. Preti, Difesa del principio di immanenza, «Sophia», 2-3 (1935), p. 300.
In Preti era vivissimo «l’interesse per gli sviluppi della filosofia posthegeliana, secondo lo schema tracciato dal Loewith, per Feuerbach e il Marx giovane, per Kierkegaard
e per gli esistenzialisti a cui s’avvicinava con originale apertura il pragmatismo di Dewey»,
A. Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, cit., p. 220.
39 G. Preti, Newton, Milano, Garzanti, 1950, pp. 18-19.
40 G. Preti, Praxis ed empirismo, Torino, Einaudi, 1957, pp. 11-31.
41
«Si tratta […] della costruzione di una cultura e, per cominciare, di una filosofia, che
affronti i suoi problemi […] con i due criteri in uso nelle scienze: della possibile verificazione empirica e del possibile controllo linguistico (‘logico’)» (ivi, p. 30).
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co alcune problematiche, come quella riguardante la categoria di “causa”
che, messa da parte dalla filosofia neoidealistica, in quanto troppo legata alla concezione naturalistica, inquadrata all’interno di determinate «costanti
associative» non soltanto non sarebbe stata impropria ma sarebbe risultata
fondamentale ai fini della conoscenza dei fenomeni storici:
Se per «leggi storiche» si intendono delle grandi necessità metafisiche, […],
allora è giusto […] negarne ogni validità ed esistenza. Ma se per «leggi» si
intendono certe costanti associative, per cui determinati eventi e complessi di eventi («situazioni») sono «causa di», cioè appaiono costantemente
legati a certi altri eventi, negarne l’esistenza di «leggi» storiche equivale a
negarne qualsiasi comprensibilità e conoscibilità a tutti gli eventi, passati
presenti e futuri42.
Il lavoro storiografico avrebbe tratto giovamento dalla maggiore vastità del campo di interesse e sarebbe stato spinto ad elaborare strumenti metodici più articolati, capaci di affrontare questa maggiore complessità. Alla storia della filosofia, intesa come storia del problema gnoseologico, si
contrapponeva «la consapevolezza che i mutamenti, […], non concernono
un sistema di teoremi, ma investono un’intera struttura, riguardano categorie, metodi, regole operative, linguaggio»43. Il compito dello storico diventava sempre più complesso a mano a mano che si immettevano parametri fino a quel momento ignorati, grazie ai quali il fatto storico poteva essere inquadrato in maniera più organica e più aderente alla realtà, andando oltre le scansioni disciplinari rigide e ponendo come «universo di discorso [...] il medesimo delle scienze dell’uomo»44.
3. Paolo Rossi: il tempo empirico e il passaggio dalla storiografia filosofica alla storia delle idee
L’esigenza di introdurre il tempo empirico nel dominio della storiografia filosofica si faceva d’altro canto pressante anche perché, nello scenario culturale di quel periodo, veniva assumendo una posizione significativa la corrente marxista che, ponendo i fatti economici a fondamento dello sviluppo storico, considerava di conseguenza la dimensione temporale come uno
42
Ivi, p. 159.
Ibidem.
44 G. Preti, Praxis ed empirismo, cit., p. 174.
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dei fattori determinanti di ogni analisi storico-filosofica. Preti stesso fu indotto ad accettare, sul piano metodologico, il materialismo storico, in quanto esso sosteneva la priorità dei fatti economici e questi ultimi erano «direttamente rappresentabili come fatti fisici e quindi il loro ‘tempo’ era insieme un tempo fisico e un tempo storico»45. Nella valorizzazione del tempo, acquistò importanza anche il problema riguardante i vari mutamenti
che intervengono nel processo storico. Essi, non più inglobati nell’astrattezza del procedimento dialettico, servivano a sottolineare la diversità dei
momenti storici e ad aderire ai particolari concreti di un avvenimento. Ciò
condusse a restituire interesse a fatti e personalità precedentemente trascurati. A questo proposito, giova ricordare che il neoidealismo, nel considerare le filosofie passate come tappe di uno sviluppo, la cui meta era la
realizzazione piena dell’autocoscienza (che si raggiungeva con la filosofia
crociana e gentiliana), aveva emarginato, parzialmente o completamente, i
filosofi che non rientravano in quella progressione. I pensatori e i movimenti che non mostravano appigli sufficienti per rientrare nel piano storico “unitario” adottato dal neoidealismo, erano considerati senz’altro come
errori e, perciò, messi fuori dalla storia; figure intellettuali come quelle di
Bacone, Locke, Rousseau furono così lasciate a margine della considerazione intellettuale e filosofica46. Una delle preoccupazioni più urgenti della storiografia filosofica degli anni Cinquanta fu proprio quella di riabilitare le correnti e i pensatori che erano stati emarginati o, addirittura cancellati dal processo storico. Fra i criteri più efficaci adottati per raggiungere questo scopo, ci fu la moltiplicazione degli oggetti di indagine storiografica; la scienza e la filologia rientrarono, in tal modo, tra gli interessi della storiografia filosofica e in tali settori si impegnarono, in particolare, Paolo Rossi ed Eugenio Garin.
Paolo Rossi intervenne nel dibattito sulla storiografia filosofica con un
saggio pubblicato su Problemi di storiografia filosofica (1951). Nel prendere in esame la figura di Socrate, figura che come poche nella storia della filosofia ci appaiono familiari, Paolo Rossi ci avvertiva della difficoltà di
inquadrare in modo pieno il filosofo greco, «non appena si affacci l’esigenza di una rappresentazione storica»47, a causa della molteplicità di da-
45 G. Preti, Problemi di scienza della storia, «Studi filosofici», 1946, p. 236; il passo è
riportato in P. Rossi, Storia e filosofia. Saggi sulla storiografia filosofica, cit., p. 62.
46
Cfr. M. Dal Pra, Logica teorica e logica pratica, cit., pp. 39-42.
47 Paolo Rossi, Per una storia della storiografia socratica, in AA.VV., Problemi di storiografia filosofica, cit., p. 85.
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ti e della diversità delle fonti. Le difficoltà non sarebbero dovute solo al
fatto che Socrate non ha lasciato nulla di scritto, ma anche e soprattutto al
fatto che in Socrate è molto stretta l’unione fra persona e dottrina48. Per un
opportuno inquadramento della figura di Socrate nella storia, Rossi si soffermava sulle caratteristiche assunte dalla storiografia nel corso del tempo.
Al centro dell’attenzione di Rossi vi era soprattutto la storiografia hegeliana che aveva avuto l’indubbio merito di cogliere «l’aspetto più profondo della predicazione e della personalità socratiche in quel loro porsi come il tragico destino che rispecchiava in sé la profondità di una crisi che investiva le radici stesse della spiritualità ellenica». Hegel aveva riportato Socrate alla vita del suo tempo, «immerso in una radicale storicità proprio
perché da essa rifiorisse il significato assoluto della sua posizione umana»
e ne aveva sottratto l’immagine a quell’aura di miticità che le era stata intessuta intorno dalla storiografia precedente49. Tuttavia, Hegel – e con lui
la storiografia idealistica nel suo complesso – era rimasto imbrigliato nella rete rigida del procedimento dialettico:
Ma il problema che veniva in tal modo ponendosi di fronte a Hegel era
estremamente complesso proprio perché la sua concezione della storia in
genere e della storia della filosofia in particolare era forse la meno atta a rilevare e a valutare la «personalità» dei filosofi, giacché essi rischiavano
continuamente di convertirsi in astratti momenti di un processo dialettico
rispetto al quale essi assumevano la veste di empiriche (e quindi in ultima
analisi irrilevanti) incarnazioni50.
La figura di Socrate era emblematica proprio perché, come aveva rilevato lo stesso Hegel, in lui la speculazione filosofica, cioè il pensiero, si
fondeva con la vita stessa ed era difficile distinguere l’aspetto filosofico da
quello più propriamente umano. Sebbene riconoscesse all’idealismo hegeliano l’indubbio merito della sistematicità, Paolo Rossi non risparmiava altrettante critiche a Hegel, proprio in virtù del fatto che, di fronte ad una
personalità complessa come quella di Socrate, Hegel non aveva saputo inglobarlo in maniera efficace nel suo sistema di pensiero se non ricorrendo
48 «Unione questa che appare presente e operante in ogni dottrina, ma proprio perché,
nel caso di Socrate, questa unione si attuò con particolarissima intensità, la ricostruzione di
una dottrina socratica perde significato ove non sia anche una presa di posizione ed un dialogo con quella persona socratica che solo un’intuizione simpatetica può comprendere e
avvicinare» (ibidem).
49 Ivi, pp. 88-89.
50 Ivi, p. 94.
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all’espediente di rifarsi alla critica aristotelica, con la quale Socrate poteva rientrare «nello schema di una storia della filosofia che procede per superamenti e solo su questa base il pensiero platonico-aristotelico poteva
apparirgli come l’inveramento di quello socratico»51. La debolezza di siffatto sistema consisteva nel fatto che in tal modo l’umanità e la problematicità dell’esperienza socratica rischiavano di andare perdute, in quanto
«L’irriducibilità della persona e dell’esperienza di Socrate erano nuovamente solo il momento di un processo che non conosce ritorni, fratture o discontinuità»52.
Pur riconoscendo a Hegel di aver superato le accidentalità della storiografia precedente, Rossi non poteva fare a meno di notare che la storiografia successiva aveva compiuto un passo avanti grazie alla capacità di rompere l’unitarietà caratteristica della storiografia hegeliana ed idealistica più
in generale, dal momento che in essa si avvertiva sempre più pressante l’inconciliabile contrasto fra senso storico e senso assoluto53. In altre parole,
anche Rossi, come altri esponenti della cultura filosofica italiana degli anni Cinquanta, non poteva fare a meno di evidenziare la frattura presente in
seno allo hegelismo fra il punto di vista astrattamente speculativo e la necessità di calarsi in una dimensione temporale concreta. Ragion per cui,
«Lo schema dialettico andava così rivelando la sua fecondità inesauribile
e insieme la sua insufficienza, ma, sull’infrangersi della sua formale, schematica fissità, nuove, infinite vie si aprivano alla ricerca»54. E le infinite
vie di cui Paolo Rossi parlava non potevano certamente escludere il tempo
storico concreto.
Nel saggio presentato su Problemi di storiografia filosofica, Rossi non
citava espressamente i neoidealisti; tuttavia, nel sottoporre ad esame la filosofia hegeliana, egli automaticamente finiva per inglobare nella critica
anche Croce e Gentile. Il panorama della storiografia socratica, che procedeva oltre Hegel, aveva lo scopo di mostrare le varie possibilità metodologiche fornite dai vari pensatori, oltrepassando quelle rigidezze che erano
state, invece, riportate in auge dai neoidealisti.
L’attività di Paolo Rossi e la sua opera di revisione critica della storiografia filosofica procedettero instancabili nel corso degli anni ’50 e giun-
51
Ibidem.
Ibidem.
53 Ibidem.
54 Ivi, p. 96.
52
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sero fino alla pubblicazione del libro Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza, in cui il filosofo inglese veniva inquadrato in un’ottica completamente diversa da quella nella quale era stato collocato fino a quel momento55. Nel passaggio dal primo saggio sulla storiografia socratica a questo volume su Bacone, Paolo Rossi spostava il suo interesse dalla storia
della storiografia filosofica a una storia della cultura che somigliava a quel
tipo di lavoro scientifico che fuori d’Italia già si chiamava «storia delle
idee»56. La filosofia neoidealistica aveva considerato tutta la produzione
baconiana come preparatoria rispetto al piano di lavoro tracciato nella Distributio operis del 1620, riducendo di fatto il pensiero baconiano al Novum
organum e al De augmentis scientiarum57. In questa atmosfera di semplificazione Guido De Ruggiero aveva sostenuto che in Bacone «non c’è vero sviluppo dottrinale: egli pensa per aforismi»58, mentre uno studioso come Fausto Nicolini considerava la posizione di Bacone nei confronti dei geroglifici come semplice «spunto superficiale»59, e Benedetto Croce non
comprendeva pienamente l’influenza che alcuni fondamentali sviluppi del
pensiero di Bacone potevano avere avuto su Vico60. L’indagine di Rossi approfondiva, inoltre, anche altri aspetti tradizionalmente trascurati dai neoidealisti, come l’importanza della retorica e l’importanza della metodologia
scientifica nella filosofia di Bacone. La pecca fondamentale, in tutto questo, era stata quella di non aver saputo seguire il percorso storico compiuto dal filosofo inglese, fatto di indagini sempre più approfondite e di ripensamenti, nell’ottica di una nuova costruzione del sapere. La manchevolezza della storiografia neoidealistica era dovuta all’appiattimento della
storia sulla filosofia; non a caso, qualche anno più tardi, Paolo Rossi, nel
libro Storia e filosofia. Saggi sulla storiografia filosofica, avrebbe affer55
P. Rossi, Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza (1957), Bologna, il Mulino,
2004.
56
Cfr. M. Pasini, D. Rolando (a cura di), Il neoilluminismo italiano, cit., p. XXIII.
P. Rossi, Francesco Bacone, cit., pp. 282-283.
58 G. De Ruggiero, Storia della filosofia. La filosofia moderna, I: L’età cartesiana, Bari, Laterza, 1930, p. 17, citato in P. Rossi, Francesco Bacone, cit., p. 283.
59 G.B. Vico, La scienza nuova, a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza, 1913, p. 383, citato in P. Rossi, Francesco Bacone, cit., p. 283. Cfr. anche F. Nicolini, Saggi vichiani, Napoli, Giannini, 1955, p. 29.
60 B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza, 1911, pp. 63-64, cfr. P.
Rossi, Francesco Bacone, cit., p. 283; altrettanto si può dire di Gentile, per il quale Bacone «non poteva avere un significato per Vico» (G. Gentile, Studi vichiani, Sansoni, Firenze
1927, p. 41); cfr. ancora P. Rossi, Francesco Bacone, cit., p. 34.
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mato che «Di fronte alla risoluzione idealistica della storia in filosofia e
alla teorizzazione dell’‘inevitabile prepotenza filosofica’ si fa quindi valere da più parti la necessità di tener conto, facendo opera storiografica, del
fatto che la ‘storicità’ delle dottrine filosofiche è costituita proprio dal loro presentarsi in forma storica»61, ribadendo in tal modo il fatto che diventava sempre più necessario liberarsi del punto di vista della “contemporaneità” della storia e della fusione unitaria di essa con la filosofia.
4. Eugenio Garin: il tempo empirico e la rivalutazione della filologia
Le scelte metodologiche fatte da Paolo Rossi erano anche frutto di riflessioni sugli studi compiuti da Eugenio Garin e dal suo rifiuto di ogni atteggiamento metodico inteso a “unificare” le varie manifestazioni del pensiero62. Era stato Garin che, in occasione del Convegno fiorentino del 1956,
aveva scritto la relazione nella quale era stato sottoposto a critica il concetto
stesso di unità63. Il rifiuto di Garin era dovuto al fatto che quella categoria
vanificava la ricerca storica, annientandola attraverso i suoi procedimenti
semplificatori: «L’astratta e meccanica applicazione del canone dell’unità
– affermava Garin – ha chiuso alla comprensione figure e momenti essenziali»64.
61
Paolo Rossi, Storia e filosofia. Saggi sulla storiografia filosofica, cit., p. 61; il passo
è riportato anche in Id., Sulla storiografia filosofica italiana, cit., p. 91.
62 P. Rossi stesso afferma: «Il tema del rapporto magia-modernità, che si era affacciato
nella mia vita quando Garin pubblicò nel 1955 i Testi umanistici sull’ermetismo, non mi ha
più abbandonato» (P. Rossi, Francesco Bacone, cit., p. 30). L’interpretazione di Garin in
chiave nettamente anti-idealistica, fornita dai neoilluministi, è stata recentemente messa in
discussione: cfr. M. Pasini, D. Rolando (a cura di), Il neoilluminismo italiano, cit., p. XXIII.
63 Su quel convegno (comprese le altre categorie discusse, quella di precorrimento e
quella di superamento) e sugli altri tenuti prima e dopo si consultino, fra gli altri: M.A. Del
Torre, Il dibattito sulla storiografia filosofica degli anni ’50, cit.; M. Pasini, D. Rolando (a
cura di), Il Neoilluminismo italiano, cit. Sulla polemica Garin-Paci riguardante la categoria di “precorrimento” e il ruolo dello storico della filosofia in relazione alla filosofia, si
veda soprattutto E. Garin, La filosofia come sapere storico, cit.; dello stesso, si veda anche
il già ricordato contributo al Convegno fiorentino del 1956, L’“unità” nella storiografia filosofica, cit.
64 E. Garin, La filosofia come sapere storico, cit., p. 12. Si veda pure M.A. Del Torre,
Il dibattito sulla storiografia filosofica degli anni ’50, cit., p. 708. Va comunque sottolineato che Garin rifiuta la categoria di unità non solo nell’impostazione idealistica crociana
e gentiliana, ma anche nella versione delle unit-ideas di Lovejoy.
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Il punto fondamentale, per Garin65, era quello di sostenere l’idea stessa
di storicità; il lavoro dello storico non consisteva nel postulare l’unità (e
con essa i precorrimenti e i superamenti), ma nel trovare rapporti, distinzioni e differenze, tra i quali può anche individuarsi qualche fattore unificante, ma soltanto alla fine del processo di ricerca, e non applicando schematicamente un modulo fisso di interpretazione66:
La larga e profonda penetrazione delle correnti idealistiche, facenti capo
da un lato a B. Croce e dall’altro a G. Gentile, favorì in Italia una vasta fioritura di studi di storia della filosofia caratterizzati soprattutto in due sensi:
in primo luogo, una prepotente esigenza speculativa si opponeva volutamente e dichiaratamente alla storiografia dei neokantiani e dei positivisti,
accusata di vuota erudizione, di filologia, e di vane preoccupazioni per una
irraggiungibile obiettività. In secondo luogo, la stessa rigida impostazione
teoretica privilegiava quei pensatori e momenti che, in qualche modo, potessero considerarsi preannuncianti la problematica e le soluzioni del nuovo idealismo. Far storia non significò ricercare i tentativi dell’umanità, o la
voce autentica degli altri67.
Le parole di Garin mettevano in chiaro la necessità di rimodellare la
concezione della storiografia filosofica. Ne risultava confutata l’idea stessa di un sapere assoluto. Secondo Garin occorreva superare la fusione della storia della filosofia nella filosofia68. La radice di questi mali era individuata nel procedimento di distinzione neoidealistico fra ciò che era vivo in
un pensatore, ossia i suoi momenti necessari, e ciò che era morto, vale a dire i momenti semplicemente accidentali. Tutto questo produceva inevitabilmente una definizione statica e immobilizzante della filosofia, in cui il
processo storico era completamente annullato.
L’esigenza di un inquadramento corretto dei vari momenti della filosofia passava attraverso il rifiuto di ogni formula precostituita e di ogni sche65 Per un inquadramento più approfondito sulla figura di Garin si veda la pubblicazione del fascicolo monografico Garin e il Novecento, dedicatogli dal «Giornale critico della
filosofia italiana», S. 88 (2009), 2.
66
E. Garin, Gli studi di storia della filosofia dal MedioEvo ai tempi moderni, in AA.VV.,
La filosofia contemporanea in Italia, cit., p. 251.
67 Ibidem.
68 Su tali questioni cfr. fra i tanti testi G. Sasso, Intorno alla storia della filosofia e ad
alcuni suoi problemi, in Id., Passato e presente nella storia della filosofia, Bari, Laterza,
1967, pp. 9-67, in cui l’Autore afferma, invece, l’esistenza di una sorta di aporia dello storicismo di Garin, con la conseguente difficoltà di produrre una forte alternativa a Croce e a
Gentile.
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ma dogmatico teoreticamente precostituito. Occorreva servirsi di ogni strumento per
ritrovare l’altrui pensiero nella sua schiettezza, attraverso la coscienza di
una distanza e dei suoi motivi, pur nel senso di una umana convergenza. Per
usare una immagine di Feuerbach, arrivare a muoversi nello spazio tollerante, senza cadere nell’insidia di una gerarchia della successione; ritrovare i tempi, ritrovare vivi negli anni loro gli uomini che sembravano morti e
muti: ossia ridare alle parole il senso preciso, ai pensieri tutte le radici; ritrovare degli errori la genesi che anche gli errori rende comprensibili; non
staccare le esangui ‘idee’, ma vederle, quali furono, parole d’uomini69.
Di conseguenza, era necessario – per Garin – riconsiderare l’importanza di una storia della filosofia vista come autonoma rispetto alla filosofia,
poiché «Fare storia della filosofia è fare storia, non disegnare una logica e
battezzarne con nomi e cognomi i momenti eterni»70. La storia della filosofia doveva, perciò, aprirsi a preoccupazioni e concezioni e visioni diverse e a modi diversi di intendere la filosofia, calandosi anche nei contesti vari e, possibilmente, immedesimandosi nelle problematiche altrui, dal momento che «Far storia non è costringerle in gerarchie, ma rendersi conto di
questa coesistenza umana, avviare il dialogo e intendere il senso di questa
collaborazione di parziali vedute»71. Il fare storia, quindi, per Garin implicava un allargarsi verso molteplici prospettive culturali, capaci di comprendere la società e i momenti storici presi in esame in una dimensione
plurale e aperta, seguendo le molteplici pieghe e angolazioni dei processi
sociali e culturali.
La dimensione temporale era la sola capace di restituire un’immagine
attendibile dell’operare degli uomini e della loro cultura72. La storia del neoidealismo era ispirata ad una esigenza metafisico-speculativa e appariva
svuotata di ogni storicità concreta; all’opposto, Garin consigliava di collocare i pensatori nell’orizzonte dei problemi del loro tempo, dove per tempo non si doveva intendere solo quello circoscritto alla riflessione filosofica, ma anche un orizzonte che si estendeva verso altri campi del sapere:
69
E. Garin, La storia della filosofia, in AA.VV., Verità e storia, cit., p. 104.
Ibidem.
71 Ivi, p. 105.
72 Garin, fra gli altri, fa l’esempio di Aristotele, la cui lettura astratta aveva bloccato per
secoli lo sviluppo del sapere, fino a quando, ripristinata la dimensione temporale, non è
emerso il vero significato culturale della sua speculazione filosofica; cfr. E. Garin, La filosofia come sapere storico, cit., p. 38.
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Gli antecedenti di un filosofo non è detto che si trovino nella ‘filosofia’ (sia
essa cercata nei problemi o nei sistemi) […]. Così Cartesio trovò alimento
e spinta a riflettere, più che in S. Agostino o S. Tommaso o negli aristotelici del suo tempo, in problemi e discussioni fisiche e matematiche, o fors’anche in libri ‘curiosi e strani’ […]. E Vico invece fu stimolato da problemi giuridici e storici e filologici, e così via73.
Ciò non significava in alcun modo assegnare alla filosofia un ruolo subordinato, e consentiva anzi un atteggiamento storiografico marcatamente
autonomo, sia verso la tradizione idealistica sia nei confronti di tendenze
critiche che si avviavano a divenire prevalenti. Quanto Garin esponeva all’interno del Convegno del 1956 era il frutto di studi maturati fra il 1946 e
il 1951, con la pubblicazione, dapprima in lingua tedesca (in Svizzera, a
Berna) e successivamente in italiano, del libro L’umanesimo italiano. Questo libro si proponeva soprattutto di rivalutare l’Umanesimo sul piano filosofico, contrapponendosi ad una tradizione che sminuiva, invece, l’apporto dell’Umanesimo in filosofia:
Una gran parte della storiografia contemporanea, più ancora che per obbedire a una giusta esigenza di continuità per una dichiarata o larvata polemica
contro i valori affermati dalla filosofia moderna, si è venuta mirabilmente
accordando nel rifiutare ogni significato profondo alle posizioni speculative rinascimentali, dichiarate prive di originalità rispetto al Medioevo nelle
loro istanze filosofiche, e per niente nuove o innovatrici anche nei loro
aspetti letterari74.
Garin giungeva ad affermare che anche coloro che, nel XV secolo, assumevano toni antiumanistici, avevano fatto tesoro della maggior conquista dell’umanesimo: «la preoccupazione storico-critica di cogliere gli autori nelle loro dimensioni»75. L’essenza della cultura umanistica si sostanziava nella valorizzazione della lezione dei filologi, lezione che divenne
indispensabile anche per gli stessi filosofi, presso i quali diventò sempre più
urgente la necessità di rifarsi a fonti originali, sottoposti ad accurati studi
storici, coadiuvati da testi corretti.
Nell’evidenziare l’importanza del ruolo della filologia nel contesto dell’Umanesimo, Garin faceva emergere il ruolo fondamentale della filologia
in generale, sottolineando che lo scopo non era evidenziare una futile eru73
Ivi, p. 72.
E. Garin, L’umanesimo italiano, Bari, Laterza, 1965, p. 8.
75
Ivi, p. 13.
74
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dizione, ma mettere in luce le relazioni nascoste agli stessi filosofi, all’interno delle quali si potevano cogliere i nessi fra storia delle idee, storia della scienza, storia della filosofia, discipline che, anche se da diverse angolazioni, contribuivano a costruire la storia degli uomini76. Si spiega così il
motivo dell’avvicinamento di Garin alla figura di Gramsci, in particolare
per quel che riguardava la consapevolezza della necessità di un rapporto fra
le idee e il mondo reale (economia, società, conflitti, tradizioni, cultura materiale) che faceva da sfondo a quelle idee77. La rivalutazione della filologia divenne, perciò, uno dei temi basilari delle teorie di Garin sulla storiografia filosofica, in opposizione alla riduzione di essa operata da Croce e
ridotta al livello di puro dato cronachistico, da distinguere nettamente dalla storia vera e propria78. La rivalutazione della filologia si opponeva, però, anche all’altro grande esponente del neoidealismo, Giovanni Gentile,
che, in una prolusione su Il concetto di filosofia (1907), aveva affermato:
Quale che sia il punto di vista da cui muove lo storico e l’indirizzo filosofico a cui obbedisce, egli non potrà ricercare, e infatti non ricerca mai se non
le soluzioni che sono state via via escogitate di un medesimo problema,
che per lui è il problema essenziale della filosofia… Onde il filosofo tollerante a parole, diventa storico intollerante coi fatti: perché i fatti all’impero della logica non si possono sottrarre, e la logica è intollerante per natura. Senza di che lo storico per far di cappello a tutti i modi d’intendere la
filosofia, dovrebbe servire tante storie quanti i modi da lui ammessi come
legittimi. Ora non solo, come ognun sa, uno storico solo non scrive se non
una storia sola; ma tutti gli storici insieme, chi ben rifletta, non scrivono né
anche essi più di una storia; e le stesse dispute intorno alla natura di questa
dimostrano manifestamente che tutti, in fondo, devono aver alle mani la
76
Per delineare il percorso filosofico di Garin, può essere utile, fra le altre cose, leggere E. Garin, Sessant’anni dopo, in Id., La filosofia come sapere storico, cit., pp. 119-158;
cfr. M. Ciliberto, La filosofia tra Pisa e Firenze, «Rivista di filosofia», 92 (2001), pp. 269309. Sulla rivalutazione della filologia negli studi storici, ben oltre la storiografia filosofica, si veda P. Rossi, Sulla storiografia filosofica italiana, cit., pp. 93-94.
77 Su Gramsci si veda, di Garin, Gramsci nella cultura italiana, in Id., La filosofia come sapere storico, cit., pp. 93-116, in cui si evidenzia, in particolare, l’importanza assunta
dal procedimento filologico e dalla storia intesa come storia concreta (e ci permettiamo di
aggiungere del tempo inteso come tempo reale) nel pensiero di Gramsci.
78 Aveva asserito in merito B. Croce: «Le raccolte di notizie si chiamano cronache, notamenti, memorie, annali, ma non già storie […]. In idea e in fatto le due cose sono diverse, e potrebbero andare e vanno scompagnate, e né il rame dei cronachisti né quello ben lucidato dei filologi sostituirà mai l’oro degli storici, ancorché avvolto in iscorie» (B. Croce,
La storia come pensiero e come azione [1938], Bari, Laterza, 1966, pp. 7-8).
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stessa materia, non potendovi essere disaccordo che non rampolli da un accordo fondamentale, né differenza tra cose che non siano sostanzialmente
identiche, e quindi anche materia possibile di paragone79.
Nel citare questo passo, Garin opportunamente considerava come racchiudere tutto il processo del pensiero nell’unicità della verità escludesse
ogni considerazione per la complessità del mondo reale. In realtà i neoidealisti non facevano altro che annullare la storia della filosofia, al cui fondamento si trova il tempo umano caratterizzato da una molteplicità di nessi e problemi80. Il ruolo della storia della filosofia era importante al fine di
caratterizzare la cultura come apertura al mondo, proprio per cogliere le
diverse prospettive rappresentate dal mondo umano:
Sì che ogni storia del pensiero, mentre svela il segreto di un tempo, svela
il segreto del nostro tempo. È, insomma, filosofia: anzi una filosofia ben definita; quella che riconosce molte vie di comprendere e di operare, e aspira ad essere, proprio di quella pluralità, comprensione e difesa81.
In virtù di tutte queste considerazioni, Garin, dunque, superava la concezione secondo la quale la storia doveva annullarsi facendo emergere la
sola filosofia. Era semmai la filosofia a doversi configurare come sapere
storico. Egli riteneva, infatti, fondamentale il compito della storia, le cui
componenti specifiche dovevano spiccare, in quanto rappresentavano una
forma ben definita di filosofia. La storia della filosofia, quindi, non doveva affidarsi a presupposti solo teorici, ma doveva aprirsi alle relazioni con
il mondano ed il mutevole. In conclusione, secondo Garin, fare storia era
di per sé un atto critico che, nell’analizzare gli avvenimenti, ne faceva emer-
79
Citato da E. Garin, La storia della filosofia, in AA.VV., Verità e storia, cit., p. 98.
Nota P. Rossi: «La polemica contro il filologismo e contro l’assurda pretesa di fare storiografia senza un punto di vista (che era stata uno dei meriti maggiori dei due maestri dell’idealismo italiano) si risolse [...] molto spesso nell’assenza di ogni metodo filologico e nell’ignoranza delle sue regole e della sua tecnica» (P. Rossi, Sulla storiografia filosofica italiana, cit., p. 77).
81
E. Garin, La storia della filosofia, cit., p. 105; osserva ancora P. Rossi: «In realtà dietro a quel richiamo alla filologia […] c’era l’esigenza di restituire serietà al mestiere di storico, c’era la consapevolezza che i procedimenti dell’indagine storiografica non hanno molto in comune con le retoriche celebrazioni del progressivo attuarsi dello spirito in una storia senza tempo e senza uomini. Si manifestava soprattutto, in quel richiamo alla filologia,
il rifiuto di ogni schema di tipo metafisico che pretendesse di liquidare tutti i problemi che
nascevano dall’esigenza di comprendere il passato come passato, come altro dal presente,
come diverso» (P. Rossi, Sulla storiografia filosofica italiana, cit., p. 93).
80
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gere automaticamente le connessioni, i fattori di sviluppo, i contesti e i vari aspetti determinanti ai fini della conoscenza filosofica di un pensatore o
di un movimento di pensiero82. In questo senso diventava utile l’impiego
della filologia, che non doveva essere considerata come acribia erudita ma
come capacità di approfondire la comprensione della realtà, secondo la lezione proveniente dall’Umanesimo.
5. Enzo Paci e Nicola Abbagnano: la dimensione esistenziale del tempo e
la revisione critica della filosofia di Vico
Risulta ormai con chiarezza che la questione del tempo, nel contesto della
storiografia post-idealistica degli anni Cinquanta, non era affatto formale
e non era motivata solamente dal bisogno di contrapporsi all’egemonia neoidealistica. In realtà, la temporalità costituì una caratteristica di notevole
rilievo, proprio perché evidenziava la dimensione finita e limitata dell’uomo. In questo senso il tempo empirico assunse anche un ruolo di tipo esistenziale. Così, in proposito, si pronunciava Enzo Paci:
Proprio questa impossibilità originaria, questa impossibilità dell’esistenza
di recuperare le ragioni di sé, l’impossibilità del circolo di ricuperare il proprio principio e di salvarsi nell’unità, proprio questa impossibilità è il tempo. Onde l’unico carattere metafisico dell’esistenza è la sua temporalità, la
sua finitezza, la sua irreversibilità, il suo consumarsi, il suo bisogno83.
Al tema del tempo, del resto, sempre Paci, aveva dedicato attenzione in
una delle sue opere più significative, Ingens Sylva. Saggio sulla filosofia di
Giambattista Vico (1949). Argomentando sulla formazione del mito in
Giambattista Vico, infatti, Paci aveva posto il tempo come dimensione fondamentale del processo storico:
Il problema del tempo si pone come determinazione dell’inizio dei tempi.
[…]. Ebbene, non c’è storicità e non c’è operare dell’uomo nella storia se
non si fissa un inizio […]. La storia comincia quando l’amorfa temporalità preistorica viene ordinata in un prima e in un dopo, quando cioè il mondo della natura viene negato nella sua caoticità temporale e intuito secon-
82
E. Garin, Osservazioni preliminari a una storia della filosofia, «Giornale critico della filosofia italiana», 38 (1959), pp. 1-55.
83 E. Paci, Hegel e il problema della storia della filosofia, in AA.VV., Verità e storia, cit.,
p. 166.
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do le dimensioni temporali: comincia allora la storicità, e cioè l’essere temporale dell’uomo storico84.
Sebbene nella lettura che Paci effettuava intorno alla questione del tempo nel contesto della Scienza nuova fossero presenti alcuni elementi di ambiguità, tuttavia sembra di poter affermare che all’interno di essa fosse anche posta con vigore l’istanza di una maggiore concretezza della lettura
del capolavoro vichiano. In questo modo Paci giungeva a proporre l’immagine-mito come fondamento della civilizzazione del mondo, come base della società, come istituzione cardine del sentimento religioso. L’immagine-mito, riempiendosi di significati arcani, contribuiva allo strutturarsi della società in classi sociali e rappresentava lo strumento della trasformazione della natura in civiltà. Se Croce si era semplicemente preoccupato di stabilire delle distinzioni fra mito e poesia e fra ruolo filosofico
e ruolo storico del mito in Vico, Paci affermava invece che nella speculazione vichiana il mito assumeva un ruolo centrale, in quanto rappresentava «la sintesi che rende possibili tutte le scienze»85. Non a caso l’istituzione del mito produceva quell’esemplarità di figure divine ed eroiche indispensabili per il costituirsi del mondo civile. Da questo punto di vista, la lettura di Paci avviava una interpretazione in chiave antropologica dell’opera di Vico, nell’ambito della quale il filosofo marchigiano si soffermava a
considerare il mito come produzione di forme inconsce, quasi come fondamento di una psicologia collettiva. Va da sé che tutta questa novità in-
84 E. Paci, Ingens sylva. Saggio sulla filosofia di Giambattista Vico, Milano, Bompiani,
19942, pp. 138-139. La centralità del problema temporale in Paci è sottolineata da C. Sini,
Introduzione a E. Paci, Il significato del Parmenide nella filosofia di Platone, Milano, Bompiani, 1988, p. XII. Vi è da dire però che sull’argomento Paci non ha sempre avuto una linea costante; ad esempio, in Esistenzialismo e storicismo (Milano, Mondadori, 1950) egli
sostiene: «C’è un problema della storia che è il problema stesso della filosofia considerata
come fondamento della storia universale. C’è, in altre parole, l’esigenza di Giambattista
Vico, il problema di una ‘storia ideale eterna’. Problema così vivo nel pensiero contemporaneo che non è il caso su di esso di insistere, ma che qui vogliamo ricordare perché risulti ben chiaro che la storicità esistenziale non risolve nella sua intierezza, come credono alcuni esistenzialisti, il problema della storia» (ivi, p. 144). La storia ideale eterna, infatti, secondo Paci è «l’essenza della storicità, e cioè l’uomo nel suo senso di creatore di opere secondo una legge universale, è nel presente, nell’eterna contemporaneità della storia», (E. Paci, Ingens sylva, cit., p. 144); mi permetto di rimandare a G. Gualtieri, La rilettura di Vico
nel secondo dopoguerra: gli scritti di Nicola Abbagnano e di Enzo Paci, «Philosophia», 2
(2010), pp. 117-126, in particolare pp. 124-126.
85 E. Paci, Ingens sylva, cit., p. 111.
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terpretativa non poteva avviarsi se non si poneva in discussione la logica del
tempo storico come “contemporaneità”.
D’altro canto, la concezione della storia intesa come “storia contemporanea” era considerata da Paci alla stregua di una antinomia della filosofia neoidealistica, in particolare crociana. Rimaneva, infatti, insoluto il modo in
cui si relazionano la atemporalità dello spirito e la temporalità concreta nella quale si manifesta la storia; ma questo era un problema che si era aperto
ben prima che avesse assunto un ruolo centrale nella filosofia neoidealistica:
Molte delle aporie dell’hegelismo nascono da questa fondamentale contraddizione del pensiero hegeliano, dal fatto che cioè che in Hegel il divenire è inteso in senso temporale per cui allo svolgimento storico dello spirito vien necessariamente posto un termine. Che questo sia un errore non
mi sembra che sia dubbio, tuttavia resta aperto il problema sul quale, in
modo vario, si affaticò il pensiero posthegeliano: ammesso che lo spirito come atto spirituale sia, per usare le parole stesse del Croce, fuori del tempo,
ed ammesso che la storia sia temporalità, come è possibile questa temporalità? Si risponde, in genere, che essa ha un carattere empirico, ma proprio
qui si pone il problema: che significato ha la parola “empirico”?86
In una serie di scritti di quegli anni, approfondendo l’argomento, Paci
andava alla radice metafisica del problema, che Croce aveva forse intuito
ed espresso negli ultimi scritti, attribuendo la temporalità concreta ai “fatti”, intesi come espressione di uno spirito pratico ed utilitario, senza però
fornirne una soluzione adeguata87. Paci individuava una sorta di paradosso
all’interno della filosofia crociana, in quanto, all’interno della filosofia dello spirito, notava la presenza di aspetti irriducibili allo “spirito”:
Se lo spirito, atto spirituale fuori del tempo, crea il tempo nel suo accadere empirico, il tempo del factum che è prima e poi, lo spirito lo crea rimanendo fuori del tempo, rimanendo atto? Se lo spirito crea il fatto empirico
temporale è necessario, prima di tutto, notare che nel momento nel quale lo
spirito, atto creatore fuori del tempo, crea il fatto temporale, lo spirito non
è il fatto temporale né si può identificare, quindi, con il fatto. Se lo spirito
fosse il fatto e identico con il fatto non sarebbe più lo spirito. Se è spirito e
non è il fatto vorrà dire, reciprocamente, che il fatto non è lo spirito. Si ritorna dunque alla domanda che già ci siamo posti: come è possibile, per la
filosofia dello spirito di Croce, che ci sia qualcosa che non è spirito?88
86
E. Paci, Esistenzialismo e storicismo, cit., p. 220.
B. Croce, Ultimi saggi, Bari, Laterza, 1935, pp. 53-56.
88 E. Paci, Esistenzialismo e storicismo, cit., pp. 220-221.
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L’impossibilità di conciliare la atemporalità o “contemporaneità” con la
dimensione concreta, ‘effettuale’, della storia, era infatti ritenuta, da Paci,
una delle questioni di maggiore debolezza della filosofia crociana e, più in
generale, neoidealistica, anche perché andava ad inserirsi nel cuore del rapporto fra filosofia e storia, fra filosofia intesa come logica, filosofia intesa
come metodologia della storia e divenire storico ed empirico dei fatti89.
Gli eventi tragici della guerra appena trascorsa rendevano arduo il consenso con alcune affermazioni “olimpiche” fatte da Croce parecchi decenni prima90. E, sebbene negli ultimi anni lo stesso Croce meditasse sugli orrori del conflitto bellico, accentuando la sua attenzione per il “vitale”, nondimeno rimanevano troppe le incongruenze fra il modello teorico neoidealistico e gli avvenimenti reali.
Per quanto non facilmente riconducibile a un percorso unitario, anche
a causa della complessità delle direzioni e della ricchezza dei temi affrontati, la filosofia di Paci manifestava comunque un’esigenza costante ed era
«quella d’avvicinare la cultura da un punto di vista sempre più comprensivo e fenomenologicamente adeguato»91; ragion per cui non stupisce che
Paci finisse per volgere la sua speculazione essenzialmente alla problematica del finito, contrapponendosi alla metafisica assolutistica dei neoidealisti. La direzione intrapresa da Paci era volta ad evidenziare la dimensione dell’uomo come principio e termine del filosofare e in questo senso la
prospettiva antropologica risultava alquanto utile e propizia. All’interno di
questa prospettiva era proprio la temporalità ad assumere un ruolo di primo piano, dal momento che «il tempo caratterizzava l’esistenza nel suo
movimento verso il valore e la sua possibilità finale, ne garantiva la libertà e la storicità»; l’uomo era «un compito da perseguire» più che «una realtà già posseduta» ed era anche «luogo dell’incontro e della tensione tra
una serie di antitesi annullate fittiziamente dall’idealismo immanentistico,
tra l’individuale e l’universale, la materia e lo spirito, la natura e Dio, la sensibilità e la ragione, il niente e l’essere»92.
89
Ivi, p. 224.
«L’errore in quanto errore non esiste se non nel vero che lo corregge, e perciò non mai
come errore; il male nella coscienza che ne ha rimorso e si redime, e perciò non mai come
male ma come bene», B. Croce, Intorno all’idealismo attuale, Firenze, Libreria della Voce, 1914, che costituisce la pubblicazione in opuscolo del dibattito tra Croce e Gentile, Una
discussione tra filosofi amici, estratto da «La Voce» (1913), citato da M. Lancellotti, Croce e Gentile. La distinzione e l’unità dello spirito, Roma, Edizioni Studium, 1988, p. 110.
91 A. Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, cit., pp. 328-329.
92 Cfr. ivi, pp. 328-331.
90
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Per poter dare risposte adeguate ai problemi umani occorreva uscire dalla pura autocoscienza dalla prospettiva metafisica atemporale, e puntare ad
illuminare le strutture dell’esistenza nella loro finitezza e nella loro problematicità. Sicché se un dialogo occorreva instaurare con i neoidealisti, in
particolare con Croce, questo poteva darsi solo tenendo conto di quegli
aspetti che, all’interno del tessuto compatto della metafisica neoidealistica, maggiormente sembravano calarsi in una dimensione esistenziale93.
Le ricerche effettuate da Paci in quegli anni, compresa l’interpretazione vichiana del mito, miravano, pertanto, ad evidenziare tutto questo bagaglio di considerazioni sull’esistenza e sul suo inevitabile legame con la
temporalità. Né tali questioni perdettero di significato, nel corso degli anni ’50, quando Paci andò gradualmente ripensando i compiti e gli esiti della filosofia, con l’avvicinamento a nuovi contenuti e a nuovi contributi come quelli dell’empirismo, del naturalismo o del pensiero di Dewey e di
Whitehead.
La novità di interessi e prospettive, anzi, accrebbe il valore delle sue ricerche, come attestano i numerosi saggi e testi scritti in quegli anni, dai
Fondamenti di una sintesi filosofica (1951) a Tempo e Relazione (1954) ai
saggi apparsi su riviste varie, come «Aut-Aut» e «Archivio di filosofia», capaci di spaziare da questioni epistemologiche ad argomenti riguardanti l’arte e l’estetica. Nel corso di questi scritti emerse una più ampia dimensione
del reale, nel contesto della quale Paci sosteneva a più riprese che il reale
coincide con la situazione temporale e che persino la natura diventa, in
quest’ottica, forma relazionale di una struttura spazio-temporale94. In questo modo cadeva pure la tradizionale distinzione tra storia e natura e quest’ultima, entrando a far parte dello stesso processo storico, diventava parte integrante del tempo95. Il tempo veniva caricato così di ulteriore importanza, poiché finiva per diventare orizzonte di senso omnicomprensivo, dal
momento che solo all’interno della sua dimensione diventavano possibili
tutte le relazioni umane e naturali.
93 Paci ebbe un’attenzione particolare per il tema del ‘vitale’, caratteristico dell’ultimo
Croce; cfr. B. Croce, Indagine su Hegel e schiarimenti filosofici, Bari, Laterza, 1952; E.
Paci, La filosofia contemporanea (1957), Milano, Garzanti, 1966³, p. 65.
94 Cfr. E. Paci, Tempo e Relazione, Torino, Taylor, 1954, pp. 14 sgg.
95 Osservava problematicamente A. Santucci, ormai orientato verso una soluzione empiristica: «Paci insisteva [...] sul carattere metafisico dell’esperienza. L’esperienza non include forse l’uomo nel mondo e non lo impegna in una situazione storica e insieme naturale?» (A. Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, cit., p. 341); si veda anche R. Cantoni, Riabilitazione dell’uomo empirico, in AA.VV., Verità e storia, cit., p. 55.
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In maniera diversa, ma sempre seguendo un’ottica esistenzialistica, si
poneva Nicola Abbagnano. Nella Prefazione alla prima edizione della sua
Storia della filosofia (1946)96, Abbagnano evidenziava subito la necessità
di far riferimento ad una filosofia fondata sui bisogni umani. I malintesi
intorno alla filosofia nascevano infatti – secondo Abbagnano – proprio dal
fatto che, per molto tempo, la filosofia era stata considerata come una disciplina accessibile a pochi e distante dagli uomini. Abbagnano voleva costruire una connessione fra l’uomo e la filosofia, mostrando come, esaminando la storia della filosofia, emergesse la naturalezza di tale connessione. Egli specificava che la storia della filosofia era profondamente diversa
dalla scienza in quanto se, per quest’ultima, le dottrine passate non hanno
più significato, per la filosofia, al contrario, le dottrine passate possono risultare fondamentali. Ciò accade in quanto «una filosofia del passato, se è
stata veramente filosofia, non è un errore abbandonato e morto, ma una
fonte perenne di insegnamento e di vita»97.
Il fondamento del pensiero di Abbagnano si sostanziava attraverso la
valorizzazione dell’individualità del filosofo e, all’interno di quest’ultima,
della sua persona. Nella considerazione del pensiero di un determinato momento storico si è incarnata, infatti, per Abbagnano, proprio la persona del
filosofo, non solo in ciò che aveva di più suo, nella singolarità della sua
esperienza, del pensiero e della vita, ma anche nei suoi rapporti con gli altri, con l’ambiente e col mondo in cui egli visse. Era proprio tramite il filosofo in quanto persona che Abbagnano individuava la possibilità di attraversare la storia «attraverso l’oscurità dei secoli obliosi o le tradizioni deformanti»98, al fine di ottenere uno sguardo attento sui problemi reali, inscritti nella carne viva degli individui.
96 La portata di questo lavoro di Abbagnano è colta da P. Rossi, che afferma: «La Storia della filosofia di Nicola Abbagnano rappresenta il più vasto quadro storico d’insieme che
sia stato elaborato in Italia al di fuori delle prospettive idealistiche» (P. Rossi, Sulla storiografia filosofica italiana, cit., p. 92). Osserviamo qui che rilevare il differente ruolo che la
storia “interna” riveste rispettivamente per la filosofia e per le scienze è operazione diversa dal riconoscimento ai metodi e alla storia delle scienze di un interesse propriamente filosofico; cfr. N. Abbagnano, Filosofia, religione, scienza (1947), ora in Id., Scritti esistenzialisti, a cura di B. Maiorca, Torino, UTET, 1988, e dello stesso La metodologia delle
scienze nelle filosofie contemporanee, conferenza tenuta il 24 gennaio 1950 presso il Centro di Studi metodologici di Torino, quindi inserito in Id., Possibilità e libertà, Torino, Taylor, 1956, pp. 125-139.
97 N. Abbagnano, Prefazione a Storia della filosofia, cit, p. XXI.
98 Ivi, p. XXII.
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La storia della filosofia non poteva essere espressione di dottrine impersonali dialetticamente concatenate né poteva racchiudersi nell’ambito di
problemi eterni ma doveva necessariamente concretizzarsi in un tessuto di
rapporti umani, mossi sul piano di una comune disciplina di ricerca. Non
a caso, nell’approccio a questo indispensabile tentativo, Abbagnano metteva in campo una metodologia di indagine sintonizzata sul movente di
ogni rapporto umano: la necessità di comprendersi e comprendere. L’atto
di comprensione, però, non è affatto facile; spesso, infatti, esso fallisce ed
è destinato ad una “ripresa del tentativo di comprensione” che è parte integrante del processo filosofico. Ragion per cui, diceva Abbagnano, era del
tutto inutile, se non controproducente, mettere in evidenza gli errori dei filosofi e cercare di impartire loro lezioni di filosofia. Sarebbe stato opportuno, piuttosto, rifarsi ai filosofi del passato considerandoli come compagni di ricerca. Il passato aiuta a comprendere meglio il presente, anche perché «Il problema di ciò che noi siamo e dobbiamo essere è fondamentalmente identico col problema di ciò che furono e vollero essere, nella loro
sostanza, i filosofi del passato». Da cui la deduzione che «La storia della
filosofia salda insieme il passato e l’avvenire della filosofia. Questa saldatura è l’essenziale storicità della filosofia»99.
Tutto questo insieme di considerazioni portava Abbagnano a sottolineare l’importanza della cautela critica, della ricerca paziente dei testi, dell’aderenza alle intenzioni effettive dei filosofi. Questa impostazione metodologica si poneva, inevitabilmente, in una posizione di contrasto con l’idea
che la storia della filosofia evidenziasse un continuo progresso e portasse
alla formazione graduale di un unico corpo di verità; anche perché la filosofia altro non è che dialogo continuo e ininterrotto e il suo valore «non si
misura alla stregua del quantum di verità oggettiva che essa contiene, ma
solo alla stregua della sua capacità di servire come punto di riferimento
(magari soltanto polemico) per ogni tentativo di intendere se stessi e il mondo»100.
L’idealismo, imperniato com’era sulla convinzione che la filosofia fosse “un ordine necessario dialetticamente concatenato” esprimente una verità unica, che appare alla fine del processo, toglieva la libertà della ricerca filosofica e portava a negare la problematicità della filosofia stessa. La
problematicità diventava, dunque, il perno della ricerca filosofica e ad es-
99
Ivi, pp. XXII-XXIII.
Ivi, p. XXIV.
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sa era per sua natura connaturata la dimensione del tempo storico, in quanto emergente da uomini concreti “solidalmente legati dalla comune ricerca”. Per Abbagnano il campo delle ricerche storico-filosofiche era quindi
calato nel mondo concreto ed era costituito dalle interpretazioni delle esperienze umane. Una filosofia si caratterizzava sia dalla scelta delle esperienze che essa considerava umane sia dal particolare modo di interpretarle. Indispensabile, nella definizione di questo campo di ricerche, era l’atteggiamento critico che, per definirsi in modo compiuto, non poteva fare a
meno di assumere una prospettiva storica e, conseguentemente, una dimensione cronologica:
Soltanto con il riconoscimento dell’alterità storica e della prospettiva storiografica e con la tendenza della ricerca storiografica all’individuazione,
la cronologia degli eventi assume l’importanza decisiva che ha nella moderna metodologia storiografica. La collocazione di un evento nel tempo è
difatti elemento e condizione della sua individualità, e reciprocamente la determinazione della sua individualità esige il collocamento dell’evento nel
tempo. Se un evento non ha caratteri che consentano di riconoscerlo come
qualcosa di unico e di irripetibile, esso è di tutti i tempi e di nessuno: la sua
collocazione cronologica è irrilevante. La sua individualità, d’altra parte,
condiziona e nello stesso tempo esige questa collocazione101.
Da qui la conclusione di Abbagnano portava a dedurre che il tempo era
una dimensione della comprensione storica, dal momento che essa era inevitabilmente condizionata dal distacco storiografico e dalla prospettiva individuante che caratterizzava i fenomeni storici. Parlando del fatto che la
storicità della filosofia non può non ritrovarsi se non nella stretta connessione della filosofia con l’esistenza umana, Abbagnano sosteneva che quest’ultima, realizzandosi nel campo della possibilità, è una struttura temporale102. L’analisi della temporalità richiamava certamente le indagini di Heidegger sul tempo; tuttavia, mentre in quest’ultimo la temporalità autentica
si poneva, rispetto alla temporalità inautentica, in una sorta di equivalenza,
come un’alternativa all’interno di «un’originaria indifferenza ontologica»,
in Abbagnano la problematicità dell’esistere non va mai separata da considerazioni di valore. Il tempo era quindi espressione dell’instabilità dell’ente e della precarietà insita nel possesso di possibilità che fanno del-
101
N. Abbagnano, Il lavoro storiografico in filosofia, cit., pp. 25-26.
N. Abbagnano, La storicità della filosofia, in Id., La struttura dell’esistenza, Torino,
Paravia, 1939, pp. 187-201.
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l’uomo un ente finito. Il tempo era il luogo stesso del verificarsi delle possibilità dell’uomo, intese come possibilità “reali”, nonché il manifestarsi
dell’autenticità dell’esistenza stessa. Il mondo della storia diventava espressione dell’atto, ove l’uomo si fa carico della situazione, che assume come
fine determinato in ordine alla «possibilità trascendentale»103. La filosofia
e la storia della filosofia, rivalutate sul piano della concretezza temporale,
sarebbero state un valido apporto per la realizzazione e la esplicitazione
della ragione umana. In questo senso, il filosofare, identificandosi con la
storicità – intesa, ovviamente, come storicità empirica, e quindi consapevole della distinzione tra un presente con molte differenze e un passato colto nell’irriducibilità dei “momenti” e delle “epoche” che lo costituiscono
– consisteva nell’instaurarsi di un rapporto di coesistenza fra gli uomini:
Lo storicizzarsi della filosofia è perciò l’aprirsi dell’uomo non solo all’intelligenza della propria natura originaria ma, in virtù dello stesso movimento, è il suo aprirsi all’intelligenza del rapporto necessario fra gli uomini in quanto esistono104.
La dimensione del tempo empirico diventava, pertanto, la condizione
inaggirabile per interrogare gli uomini in ciò che sono stati e per comprendere ciò che diventeranno. La storia esprimeva il raccogliersi dell’uomo nel proprio destino e la fuoriuscita sia da una semplice curiosità effimera che da una costruzione metafisica astratta, per approdare ad una indagine approfondita sulle esistenze umane e sui singoli pensatori105.
Non a caso, proprio in quegli anni anche Abbagnano compiva, come
era già accaduto a Paci, una rilettura di Giambattista Vico, scrivendo l’«Introduzione» alla Scienza nuova e Opere scelte (1952), incentrando il suo
scritto sulla rivalutazione degli aspetti che nel filosofo napoletano erano
stati sottovalutati da Croce e dai neoidealisti, a cominciare dalla centralità
della religione. Abbagnano evidenziava la tragicità dell’esistenza umana
che traspariva dalla Scienza nuova, proprio mediante la dimensione reli-
103
Cfr. A. Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, cit., pp. 97-98.
N. Abbagnano, La storicità della filosofia, cit., p. 200.
105 Osserva in proposito A. Santucci: «Determinazione fondamentale del tempo, in quanto direzione della trascendenza esistenziale, appare quindi il futuro. Esso non si riferisce alle cose, la cui realtà è data dall’utilizzazione che ne opera l’ente e delle quali può asserirsi
soltanto la presenza: esso indica bensì il protendersi dell’ente verso l’essere secondo la trascendenza caratteristica della sua struttura e costituisce il fondamento della sua finitudine»
(A. Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, cit., p. 98).
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La dimensione del tempo nella storiografia filosofica italiana
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giosa della speculazione vichiana. Da qui egli poneva in risalto il fatto che
la storia vichiana fosse un insieme di «fluide possibilità», implicanti sempre la possibilità dell’errore, della caduta, del ricorso. In altre parole, Abbagnano poneva la necessità di affermare una umanizzazione della filosofia di Vico, abbassando i toni rispetto alla pretesa di assumere, come unico criterio della storia, l’avvento della coscienza pienamente spiegata. In
concomitanza con la valorizzazione del tempo storico inteso come tempo
empirico, Abbagnano inquadrava Vico non più come un appartato pensatore vivente in una roccaforte isolata ma, al contrario, come un intellettuale certo atipico, ma attivamente partecipe al dibattito culturale del suo tempo. Per il fatto di aver negato che la storia sia opera del caso o di una necessità immanente e di aver sostenuto la libertà e la responsabilità umana
nel corso storico, Vico poteva considerarsi un filosofo illuminista e non
semplicemente un precursore dell’idealismo. La rilettura di Vico si configurava, così, come un campo di prova per mostrare l’efficacia di una nuova metodologia storiografica106. Essa gettava luce su aspetti fino a quel momento mai messi in evidenza del filosofo napoletano e finiva per inquadrare l’intero XVIII secolo in un’ottica più ampia e più organica di quanto non fosse accaduto in precedenza.
Nell’elaborazione di quest’ultimo scritto su Vico veniva intanto producendosi una evoluzione del pensiero di Abbagnano, che, assumendo il sapere come un sapere problematico contrapposto al sapere assoluto dei neoidealisti, manifestava il bisogno di una struttura più rigorosa della filosofia. In questo modo, Abbagnano finiva per dare maggiore spazio anche alla scienza che, invece, come si è accennato, precedentemente era stata un
po’ emarginata dal suo pensiero. In questo clima si verificava l’Appello alla ragione e la fondazione del neoilluminismo107. Nacque così una serie di
saggi e di scritti, in gran parte orientati verso le scienze sociali, che invo106 P. Rossi individua due principali caratteri positivi nel metodo filosofico di Abbagnano: in primo luogo venivano recuperate «la dimensione del tempo e la alterità delle filosofie del passato»; in secondo luogo «veniva eliminata la pretesa idealistica di una storia
della filosofia come storia dell’essenziale e la filosofia tornava ad essere prodotto ed opera umana» (P. Rossi, Sulla storiografia filosofica italiana, cit., p. 93).
107 N. Abbagnano, L’appello alla ragione e le tecniche della ragione, «Rivista di filosofia», 43 (1952), pp. 24-44; si veda anche la recensione di F. Tatò, La ragione e le tecniche della ragione, «Aut-aut», 2 (1952), pp. 236-238; sulla varietà delle personalità ascrivibili al movimento, che tuttavia concordemente «muovevano ad aggiornare la nostra cultura e avvicinavano i problemi umani nella loro concretezza e senza progetti edificanti», si veda A. Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, cit., p. 292.
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Gaetano Antonio Gualtieri
cavano un nuovo atteggiamento metodologico consono ad una esigenza
rinnovata di maggiore produttività e latore di un legame con quei movimenti e quelle personalità della filosofia europea ed extra-europea che si
connettevano ad una nuova concezione della ragione. Queste esigenze si accompagnarono con i primi dibattiti e con i primi convegni del neoilluminismo che si tennero fra il 1953 e il 1962, su iniziativa proprio di Abbagnano. Nel corso di questa evoluzione speculativa non si registrarono novità significative riguardanti la concezione della dimensione temporale nella storiografia filosofica. Le questioni dibattute precedentemente erano state esaurienti e avevano stabilito una linea di ricerca ormai definitivamente
affermatasi. La metodologia neoidealistica era tramontata e al suo posto si
era affermata una metodologia atta ad esprimere un mondo di valori concreti, al cui centro si collocava una visione empirica del tempo.
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