EGITTO ALLE ORIGINI DI UNA CRISI A cura di Corrado Bevilacqua STORIA Egitto Stato dell’Africa nordorientale, che si estende anche in territorio tradizionalmente considerato asiatico, a E dell’istmo di Suez (penisola del Sinai). Seconda grande civiltà del Vicino Oriente, quella egiziana si sviluppò con caratteristiche per alcuni aspetti affini al modello mesopotamico, nell’economia (agricoltura basata sull’irrigazione, canalizzazione delle acque, intensi rapporti commerciali con i Paesi mediterranei e asiatici), nella divisione del lavoro e nella stratificazione sociale, nella struttura piramidale del potere al cui vertice era un re, nell’organizzazione urbana e nella monumentalità architettonica. Ebbe tuttavia alcuni aspetti propri, che originavano dalle tradizioni preistoriche del popolo del Nilo o derivavano dalla sua particolare posizione geografica. Paesi, città e villaggi si snodavano lungo il corso del Nilo. A E e a O si apriva il deserto che, se pur attraversato già in tempi preistorici da piccole carovane di mercanti, costituiva una barriera insuperabile per qualsiasi popolazione volesse passarlo in armi. Questa posizione di isolamento fisico rendeva l’E. un’unità a sé stante, difendibile da ogni penetrazione esterna, protetta da tre «porte» – verso la Libia a O, la Nubia a S, l’istmo di Suez e il massiccio del Sinai a E –, mentre le vie di comunicazione e di scambio si addensavano sul Nilo e sul mare. Da tale dimensione geografica derivano la continuità, la solidità e la durata del regno, e anche il suo conservatorismo culturale. La storia dell’E. faraonico si suddivide in grandi periodi di stabilità (Antico, Medio e Nuovo regno), corrispondenti alle 30 dinastie che si avvicendarono nel governo del Paese, alternati a periodi di crisi (intermedi), in cui il potere centrale si dissolse e si frammentò, a vantaggio di principi locali. Antico regno. L’E. predinastico si componeva di una moltitudine di minuscoli regni, ciascuno sotto l’autorità di un dio locale, rappresentato da un principe che ne era anche il sommo sacerdote. In seguito, processi di annessione e di conquista portarono alla formazione di organismi politici sempre più vasti, fino alla costituzione di due Stati, l’Alto E. e il Basso E., corrispondenti alla Valle e al Delta del Nilo. Parallelamente, al vincolo dell’organizzazione tribale, fondato su legami parentali e sull’immediatezza dei rapporti di vita comunitari, si sostituivano interessi comuni tali da giustificare la dipendenza da un unico reggente. La riunione dei due organismi in un solo Stato nazionale fu compiuta dal re dell’Alto E. Menes, con il quale ha inizio la I dinastia (2850 a.C. ca.) e che spostò la residenza regale a Menfi, lungo la linea di separazione delle due terre prima indipendenti. ll nuovo Stato ebbe una legge, una burocrazia e una religione condivise. Pur consapevoli delle diversità, le due parti del regno si saldarono in virtù della comune dipendenza dal Nilo e della dottrina della natura ultraterrena del sovrano. L’Antico regno raggiunse il suo apice tra la III e la V dinastia (2682-2322 ca.). La III ebbe inizio con Nebka, cui seguì Gioser, la cui tomba a Saqqara fu il primo grande edificio d’E. costruito in pietra. Di Snefru, primo faraone della IV dinastia, i documenti contemporanei attestano spedizioni in Nubia, in Libia, nel Sinai, mentre i nomi di Cheope, Chefren e Micerino sono legati alle piramidi di Giza. Con la V dinastia il culto di Ra, dio del Sole, divinità suprema, assunse pieno valore dinastico, concludendosi così una tendenza manifestatasi già sotto Gioser e dovuta alla crescente importanza del sacerdozio eliopolitano. Il sovrano si dichiarò figlio del dio, codificando una sporadica iniziativa della precedente dinastia. L’amministrazione si articolò e un visir fu posto accanto al re, mentre numerosi funzionari, personalmente scelti dal sovrano, vennero a costituire una nobiltà che gravitava attorno alla corte, anche se per ragioni d’ufficio era dislocata in provincia. I tratti salienti della VI dinastia (23222191 ca.), originaria di Menfi e avente in Pepi I e Pepi II le due figure più rappresentative, furono un’intensa vita artistica e l’affermarsi dell’influenza egizia in Nubia. Tuttavia, nello stesso periodo esplose una crisi economica e politica che maturava da tempo. La monarchia divina si era appoggiata soprattutto alla casta sacerdotale, che ne aveva ricevuto beni e privilegi; nello stesso tempo il complicarsi dell’amministrazione aveva dato una crescente autorità a funzionari, mentre i nomarchi (i capi dei nòmi, i distretti amministrativi) e le autorità provinciali tendevano a fissarsi sul luogo in cui esercitavano la carica e a trasmetterla in eredità. Primo periodo intermedio. Dal tentativo della monarchia, che aveva nella casta sacerdotale e nella nobiltà due forze rivali, di riprendere il controllo delle terre date in beneficio derivò una guerra civile da cui l’E. uscì frazionato e indebolito. Cominciò per il paese un periodo oscuro. Da Menfi i re della VII e VIII dinastia (secondo una tradizione si succedettero 70 faraoni nel giro di 70 giorni) continuarono a pretendere di esercitare un governo, puramente nominale, su tutto il Paese, di fatto ignorati dai principi delle varie province. In seguito, una famiglia di Eracleopoli nel Fayyum (IX e X dinastia) dominò per qualche decennio in una zona non ben definita del Delta e nel Medio E., soccombendo poi di fronte al prevalere dei potentati di Tebe. Medio regno. Con la XI dinastia, a opera di Montuhotep II (2046-1995), si ricomposero le spinte centrifughe e fu ricostituita l’unità territoriale, ma a prezzo del crollo della monarchia di diritto divino. Mentre al faraone si opponevano i nomarchi e altri principi, nella vita economica l’artigianato assunse maggiore indipendenza e si formò una classe borghese e piccolo-borghese. Parallelamente vi fu un rinnovato sviluppo della scienza e dell’arte. Montuhotep e i suoi successori condussero con successo spedizioni in Nubia e viaggi commerciali a oriente e sul Mar Rosso. Il controllo, se non ancora l’occupazione e conquista, della zona costiera della Palestina era essenziale per impedire l’insediamento di potenze straniere ai confini del Paese e soprattutto per esercitare una forma di «imperialismo» mercantile, assicurando il monopolio dei terminali delle vie commerciali tra Mediterraneo ed entroterra orientale. Quello della XII dinastia (1976-1794/3) è uno dei periodi meglio noti della storia egiziana. Fondatore ne fu Amenemhat I, che portò Ammone, il dio di Tebe, al grado di divinità principale, verificò le frontiere dei nòmi, costruì nel Delta fortezze di difesa contro i beduini e combatté contro i libi. I suoi successori Sesostri III e Amenemhat III svolsero una politica altrettanto incisiva. Il primo realizzò la conquista della Nubia, il secondo la bonifica del Fayyum. In Nubia fu allestita una catena di fortificazioni e i confini dello Stato vennero spostati fino alla seconda cataratta; nel Fayyum si misero in opera grandiosi progetti di irrigazione, con la costruzione di una diga e il convogliamento delle acque alluvionali in numerosi canali. Fu questa l’età di più raffinata vita dell’E.: una monarchia solida accanto a funzionari efficienti, un popolo impegnato in opere civili, un attivismo bellico che dava sicurezza alle frontiere; e, insieme, il fiorire dell’attività artistica e la stesura delle opere classiche della letteratura egizia. La stabilità sociale e politica non durò a lungo e seguirono anni di confusione poco documentati. Secondo periodo intermedio. Con la XII dinastia si concluse il Medio regno. Le dinastie XIII e XIV (1794/3-1670 ca.) furono rappresentate da re in gran parte noti solo di nome, la cui debolezza si manifestava nel rapido succedersi e nella frequenza delle usurpazioni. Se l’E. continuava a vivere come società, era in virtù della capacità di azione autonoma delle sue strutture amministrative. A E del Delta s’infiltrarono tribù asiatiche, gli hyksos («re dei Paesi stranieri» e, secondo una falsa etimologia, «re pastori»), che si costruirono una piazzaforte ad Avaris e di là mossero verso il resto del Paese. Non riuscirono tuttavia a ottenere il dominio su tutto l’E. se non per un breve periodo, durante il quale i principi locali probabilmente mantennero la loro autorità, benché limitati da un controllo e obbligati a un tributo. Fra le famiglie di dinasti emerse per importanza quella di Tebe, che riunì intorno a sé le altre dell’Alto E. e si pose a capo di un movimento di ribellione contro gli stranieri. Nuovo regno. La XVIII dinastia (1550-1292) inaugurò la fase «imperiale» della storia egiziana. Finita la dominazione degli hyksos, era necessario rimettere in efficienza tutta la macchina dello Stato. Per molti decenni l’E. fu un Paese militare. La politica di ampliamento delle conquiste al Sud e di espansione in Asia, avviata da Thutmosi I, fu portata avanti da Thutmosi III, che con una serie di spedizioni raggiunse l’Eufrate. Al talento militare si univa l’intelligenza politica: i Paesi conquistati (Fenicia, Palestina) conservavano la loro struttura, limitandosi il re a stabilire in loco ispettori egizi e a imporre un tributo annuo e gravami per il mantenimento delle truppe. Grazie alla pratica di condurre i figli dei notabili locali a compiere la loro educazione in E. e all’intenso sviluppo dei traffici, la cultura egizia si diffuse anche per una via diversa da quella delle armi. Si apriva così un’età di grandi scambi, durante la quale le dottrine tradizionali si estesero ad altri territori, mentre l’internazionalismo politico, sociale ed economico e l’universalismo religioso producevano effetti di innovazione e ibridazione anche in Egitto. La nuova società cosmopolita legata ai centri urbani divenne più eterogenea e secolarizzata, rinunciando agli elementi classici e sociali che avevano regolato da sempre la vita degli egizi. Una parentesi fu rappresentata dal regno di Amenhotep IV (1351-1334), che abbandonò Tebe trasferendo la capitale in una città nuova, Akhetaton (oggi Tell el-Amarna), e cambiò nome assumendo quello di Akhenaton. Amenhotep varò una radicale riforma religiosa, volta all’adorazione esclusiva di Aton (il disco solare), che fu anteposto ad Ammone, protettore fino ad allora della dinastia e dell’Egitto. Oltre che religioso, l’atonismo aveva anche un significato politico, mirando da un lato al ridimensionamento economico e politico dei sacerdoti di Ammone e dall’altro alla fondazione di un culto del Sole creatore provvidenziale, nel cui sistema al sovrano era data una funzione demiurgica, e perciò una più assoluta autorità. Nessuno dei due scopi fu raggiunto: Akhenaton fu incompreso anche dal popolo che rimaneva legato alle vecchie tradizioni, e alla sua morte furono ripristinati gli antichi culti, la nuova città fu rasa al suolo e, con Tutankhamon, la capitale tornò a Tebe. Intanto, dietro la pressione della nuova potenza degli ittiti, l’impero in Asia si andava sgretolando. Il primo regno importante della XIX dinastia fu quello di Sethi I (1290-1279/8), che avviò una politica di riconquista in Asia, affrontò con un qualche successo gli ittiti e rese più sicura e funzionale la strada militare attraverso il deserto del Sinai, valendosi di posti di guardia e della sorveglianza dei luoghi di rifornimento d’acqua: ogni fonte lungo la strada era vigilata da una torre, migdol, con un presidio permanente. Il successore Ramses II (1279-1213) si trovò a dover affrontare nuovamente gli ittiti. La battaglia, a Qadesh, fu di esito incerto, ma la minaccia della potenza assira indusse i rivali a concludere un trattato che pose i due imperi su un piano di assoluta parità, stringendo un accordo che assicurò quasi 50 anni di pace in Oriente. In questo periodo assunse particolare importanza Tanis, nel Delta del Nilo: non lontano dall’Asia e dal Mediterraneo, il sito della nuova capitale amministrativa appariva preferibile per gli interessi internazionali dell’E. e per la riconquista dell’impero. Tebe rimase il centro religioso e la residenza di vacanza del sovrano. Intanto imponenti migrazioni, iniziate verso il 1400, avevano portato popoli di varia origine dalle contrade nordorientali indoeuropee verso le regioni costiere del Mediterraneo: erano questi i «popoli del mare» che distrussero l’equilibrio esistente nell’Oriente antico, dando inizio a nuove civiltà, tra cui la micenea. Anche se, durante la XX dinastia, Ramses III (1183/2-1152/1) riuscì a evitare il pericolo di un’invasione dell’E., consolidandosi anche in Palestina e in Siria, il dilagare dei popoli del mare in Anatolia, Cilicia e Siria settentrionale, con l’annientamento dell’impero ittita, costituì per l’E. una grave minaccia, in quanto entrarono in crisi l’antica e sicura procedura dello scambio di grano e oro egizi contro l’argento anatolico, come pure il commercio di ferro che proveniva dal Paese degli ittiti. In una condizione di generale debolezza, sotto gli altri faraoni della dinastia, da Ramses IV a Ramses XI, l’E. perse autorità fuori delle frontiere e benessere all’interno. Alla morte di Ramses XI lo Stato si divise in due regni e solo un compromesso permise la riunificazione. Tra la XXI e la XXV dinastia (1070-655/3) il processo di decadenza si accentuò. Bande di mercenari libici s’installarono in E., che si andò configurando non più come uno Stato efficiente, ma come un insieme di piccoli Stati legati da rapporti commerciali. Il dominio si riduceva al governo esercitato nel Delta dai principi-mercanti di Tanis e a quello esercitato a Tebe dai principi-sacerdoti di Ammone, mentre emergeva un nuovo fattore di potenza con l’influsso crescente di principi libici originari del Fayyum. L’E. fu assalito dagli assiri che per due volte saccheggiarono Tebe (nel 666 e 664 a.C.). Alla crisi seguì ancora un periodo di rinascenza con l’epoca saita (XXVI dinastia, 664-525), di cui fu fondatore Psammetico I, che profittò della ribellione della Lidia contro gli assiri per liberarsi del loro dominio e con iniziative accorte favorì i traffici commerciali nell’attivissima zona del Delta. Forte all’interno, l’E. tornò a intervenire nell’area asiatica con l’obiettivo di occupare la Fenicia. Nel secolo successivo, tuttavia, i faraoni non furono in grado di resistere alla nuova potenza affermatasi in Asia, quella dei persiani. Psammetico III fu sconfitto a Pelusio e Menfi (525) e l’E. divenne una provincia dell’impero persiano. Nell’invasione persiana storicamente si individua l’evento che pose fine alla civiltà egizia. I nuovi regnanti, inizialmente attenti agli usi e culti locali, con il tempo manifestarono intenzioni più consone a una potenza coloniale, facendo esplodere ribellioni a vantaggio di dinastie locali. Età ellenistica. La dominazione persiana si concluse con l’occupazione dell’E. da parte di Alessandro Magno (332 a.C.) che, sebbene salutato come un liberatore, non ricostituì però il vecchio E., ma fondò un nuovo regno, connotato da elementi di tipo ellenistico, i cui protagonisti erano ormai greci e non egizi. L’E. fu governato in un primo tempo da Cleomene di Naucrati, poi, dopo la morte di Alessandro e le spartizioni avvenute tra i suoi generali, fu assegnato a Tolomeo di Lago, il capostipite della dinastia che resse l’E. per circa tre secoli (321-30 a.C.). Come tutti i macedoni, i Tolomei erano largamente permeati di grecità e avviarono un processo di ellenizzazione del Paese. L’elemento indigeno però non fu asservito; i sovrani, i generali e i funzionari erano macedoni o greci, ma elementi nativi si mantennero a capo dei nòmi e nei ruoli inferiori. La storia politico-militare del regno tolemaico fu inizialmente tesa ad affermare, contro gli altri diadochi ed epigoni, l’autorità dei Tolomei. Vi fu poi la secolare contesa con la Siria per il possesso della Celesiria, che ebbe alterne vicende e talvolta parve chiudersi con il successo tolemaico, altre volte mise in pericolo l’esistenza stessa del regno (presa di Menfi a opera di Antioco IV di Siria, 169 a.C.). Le lotte dinastiche si fecero più accese e continue a partire dalla prima metà del 2° sec. a.C. e contribuirono a indebolire le capacità di resistenza dell’E. alle pressioni esterne, tra le quali stava emergendo quella di Roma. Il dominio effettivo dei romani s’istituì in E. dopo la battaglia di Azio (31 a.C.), che vanificò il progetto dell’ultima regina, Cleopatra VII, di ricostituire un grande impero orientale. La dinastia tolemaica favorì in ogni modo l’incivilimento del Paese. L’agricoltura ebbe notevole impulso da opere di bonifica (Delta, Fayyum) e dall’introduzione di nuove colture e specie zootecniche; le attività industriali furono potenziate e protette, il commercio favorito dalla creazione di nuove carovaniere e dallo sviluppo di istituzioni di tipo finanziario. Si ampliò a dismisura il mercato sul quale collocare i prodotti artigianali. L’impero commerciale tolemaico si estendeva fino a Tripoli, al Libano, a Cipro, all’intera costa della Libia e alle isole dell’Egeo, a eccezione di Creta e Rodi. Agli aspetti positivi della politica mercantile promossa dai Tolomei si contrapponevano tuttavia l’oneroso fiscalismo e l’eccessiva burocratizzazione del paese. Il maggiore ricorso a manodopera servile e la concorrenza delle imprese schiavistiche andarono a svantaggio dei contadini liberi e favorirono la formazione del latifondo, con conseguenze che a lungo andare si sarebbero rivelate rovinose. Per legittimare il loro potere e ottenere il favore popolare, i Tolomei vollero collegarsi all’antica storia egizia assumendo le prerogative tipiche dei faraoni. Il sovrano era assoluto e da lui dipendevano direttamente tutti i rami dell’amministrazione, compreso l’esercito che, costituito inizialmente di greco-macedoni, verso la fine del 3° sec. accolse anche indigeni che a poco a poco pervennero agli alti gradi. Età romana e bizantina. Dopo la vittoria di Azio e la morte di Cleopatra, Augusto riordinò l’E. come territorio alle dipendenze dell’imperatore, sotto l’amministrazione di un governatore di rango equestre, il praefectus Aegypti, che godeva di onori quasi regi. Lingua ufficiale rimase la greca, e l’amministrazione non subì sostanziali mutamenti: accanto al prefetto erano lo iuridicus per gli affari giudiziari e l’idiologus per gli affari finanziari. Le città greche ebbero una limitata autonomia; a capo dei nòmi furono messi strateghi di nomina prefettizia. Nel periodo romano l’E. non ebbe vita prospera e pacifica, malgrado gli interventi presi a suo favore da alcuni imperatori come Adriano o Settimio Severo. La regione si depauperò notevolmente, soprattutto nelle campagne: gran parte delle ricchezze affluivano a Roma e i magistrati locali esercitavano un pesante fiscalismo, in quanto personalmente responsabili delle somme che dovevano raccogliere dalle rispettive zone o città. Alle difficoltà economiche si aggiungevano altri fattori: i contrasti razziali esplosi più volte in sommosse contro gli ebrei, le ribellioni degli indigeni, le invasioni esterne, le insurrezioni di pretendenti all’impero. Nella riforma di Diocleziano, l’E. fu diviso in quattro province e incorporato nella diocesi di Oriente. Alla stessa epoca risale il confronto conclusivo fra il cristianesimo in espansione e lo Stato romano politeistico: l’ultima persecuzione (iniziata sotto Diocleziano e conclusa sotto Massimino nel 311) fu più cruenta qui che altrove. Alla caduta dell’impero d’Occidente (476) l’E. divenne possedimento bizantino, rimanendo politicamente diviso nelle quattro province dioclezianee, ora rette da duchi di origine egiziana. Furono imposte tasse gravose consistenti in una parte rilevante del raccolto del grano, l’attività industriale si andò limitando alle cave di marmo, il commercio con l’Oriente, prima intenso, diminuì quando Costantinopoli si servì di linee più dirette e si rivolse maggiormente verso l’Etiopia. Con la crisi economica declinò rapidamente anche la vita sociale: i piccoli proprietari diventarono man mano locatari e poi servi dei latifondisti. Età medievale. Nel 641 gli arabi sotto il comando di ‛Amr ibn al-‛As batterono i bizantini e conquistarono la fortezza di Babilonia d’E.; da qui si sviluppò la città di Fustat, centro del governo e primo nucleo dell’attuale Cairo. Il Paese fu lentamente arabizzato, ma non del tutto islamizzato. Esso era amministrato da governatori dipendenti dal governo centrale. Ahmed ibn Tulun (868-884) estese il suo dominio su Palestina e Siria. Il governatore Mohammed ibn Tughj al-Ikhshid e i suoi discendenti regnarono da sovrani autonomi (935-969) ancorché non del tutto staccati dal califfato di Baghdad. Nel 969 la dinastia dei Fatimidi si impossessò dell’E. per mano di Giawhar, generale del califfo al-Mu‛izz che vi trasferì la sua capitale fondando Il Cairo. Sotto i Fatimidi, sciiti, l’E. divenne il Paese più importante dell’islam; essi furono però spodestati dal governo dai loro generali turchi o curdi. Nel 1171 Salah al-din (Saladino) si proclamò re dell’E.; con lui comincia la dinastia degli Ayyubidi che riprese la Siria, conquistò la Mesopotamia e l’Africa settentrionale fino a Tripoli e occupò gran parte della penisola araba. Presto però gli Ayyubidi perdettero quasi tutti i territori annessi e caddero sotto il potere dei capi delle loro milizie turche composte di schiavi (mamluk), da cui il nome di mamelucchi che assunsero le due dinastie dei Bahiriti e Burgiti. Questo periodo è ricco di sovrani di grande valore: Baibars, Qalawun, Barquq, Qa’it Bey. Nel 1517 i Turchi ottomani sconfissero nelle loro guerre d’espansione l’ultimo sultano mamelucco Tuman Bey e incorporarono l’E. al loro grande impero. Età moderna e contemporanea. Nel 16°-18° sec. l’autorità turca sull’E. fu temperata da quella, di fatto perdurante, dei mamelucchi. La spedizione napoleonica (1798) e l’occupazione francese durata fino al 1801 misero in crisi questo antiquato regime politico-sociale. Qui emerse la grande personalità di Mohammed ‛Ali, un ufficiale albanese giunto in E. con l’esercito turco alla fine dell’occupazione francese; fattosi nominare governatore nel 1805, annientò i mamelucchi nel 1811 e iniziò una grandiosa opera di ammodernamento tecnico del Paese, di cui divenne l’effettivo padrone. Tra i suoi successori spicca suo nipote Isma‛il (1863-79), il primo a portare il titolo di khedivè, colui che promosse la realizzazione del Canale di Suez (1869), dando inizio a una sempre crescente ingerenza europea, che culminò nel 1882 nell’occupazione inglese (durata fino al 1914) in cui l’E. divenne un protettorato britannico. L’agitazione nazionalista condusse nel 1922 alla proclamazione del regno indipendente d’E., sotto Fu’ad. L’E. s’ispirò per la politica al modello parlamentare europeo, diviso fra la corona e i partiti politici (in primo luogo il WAFD, fondato da Zaghlul Pascià e rimasto a lungo in primo piano nella direzione della politica egiziana). I rapporti con la corona vissero alterne vicende, con atti di forza del sovrano, sospensioni della Costituzione, scioglimenti della Camera e resistenze parlamentari. Quelli con la Gran Bretagna compirono un’importante tappa con il trattato del 1936, che ridusse l’occupazione militare nella zona del Canale, ma legò l’E. in un’alleanza militare che lo coinvolse nella Seconda guerra mondiale. Con la fine della guerra si ripropose per l’E. il problema dell’acquisizione della piena indipendenza, a cui si sovrappose la questione della Palestina che rendeva incandescente il clima, aggravato da numerosi atti di terrorismo e azioni di guerriglia nella zona del Canale. In Palestina la Lega araba, della quale l’E. era stato uno dei principali promotori (1945), si dimostrò incapace di mobilitare la solidarietà araba per impedire l’instaurarsi dello Stato di Israele (1948). Al fallimento della politica estera e al generale decadimento della situazione interna reagì nel 1952 l’elemento militare con una rivolta incruenta; il re Faruq, dispotico e corrotto, fu deposto ed esiliato e il potere fu assunto da una giunta militare capeggiata dal generale M. Negib. Fu varata una riforma agraria (la terra fu in parte assegnata ai contadini e in parte organizzata in cooperative), la Costituzione vigente fu abrogata, i partiti furono soppressi e fu abolita la monarchia. Nel 1954 il vice di Negib, G. ‛Abd alNasir (Nasser), assunse i poteri del presidente e con lui lo sviluppo dell’E. subì una decisa accelerazione. Il populismo di Nasser promosse i ceti medi emergenti colpendo l’intreccio di interessi feudali e neocoloniali che aveva ritardato lo sviluppo e l’emancipazione del Paese. Con la Gran Bretagna venne raggiunta un’intesa (1954) per il definitivo ritiro delle truppe dalla zona del Canale. In politica estera Nasser aderì allo schieramento dei Paesi non allineati e del Terzo mondo. Nel 1956 si aprì una crisi nei rapporti con USA e Gran Bretagna, quando queste potenze e la Banca mondiale si rifiutarono di finanziare la diga di Assuan. La nazionalizzazione della Compagnia del Canale di Suez, decisa allora da Nasser, suscitò una reazione particolarmente aspra da parte di Francia e Gran Bretagna, che, in concomitanza dell’invasione del Sinai da parte di Israele, diedero inizio a un’operazione militare nella zona di Suez (operazione interrotta dall’intervento ONU). Dopo il fallimento della fusione di E. e Siria nella Repubblica araba unita (1958; un colpo di Stato provocò la secessione della Siria nel 1961) e dell’accordo con lo Yemen per la costituzione degli Stati arabi uniti, anche il tentativo di unione interaraba del partito Ba‛th al potere sia in Iraq sia in Siria non ebbe fortuna (1963) e l’E. entrò in contrasto con l’Arabia Saudita in occasione della guerra nello Yemen. Nel 1967 le tensioni con Israele sfociarono nella fulminea occupazione israeliana del Sinai e della striscia di Gaza (guerra dei Sei giorni), ridimensionando le ambizioni di Nasser. Alla morte di Nasser (1970) il suo posto fu preso da Anwar as-Sadat. Nel 1971 fu approvata una nuova Costituzione che ripristinava il nome di E. al posto di RAU; nello stesso anno Sadat allontanò la «sinistra» nasseriana, pur firmando un trattato di amicizia e di cooperazione con l’URSS (in seguito denunciato). Al fine di riconquistare il Sinai, Sadat si avvicinò agli USA per sfruttare la loro influenza su Israele. Dopo l’attacco a sorpresa di E. e Siria (1973) contro Israele e il successivo contrattacco , furono raggiunti accordi (1974-75) che restituirono all’E. una porzione del Sinai con i pozzi petroliferi. Sadat varò infine alcune riforme liberaleggianti: l’apertura ai capitali esteri e maggiore pluralismo politico (nel 1978 fu fondato il Partito nazionale democratico, in sostituzione dell’Unione socialista araba). Gli accordi di Camp David (1978) fra E. e Israele, raggiunti con la mediazione degli USA, si tradussero in trattato di pace (1979; Israele lasciò il Sinai nel 1982). Dopo l’assassinio di Sadat (1981) divenne presidente M.H. Mubarak, che confermò le linee generali della politica di Sadat, avviando tuttavia un processo di graduale riavvicinamento ai Paesi arabi (nel 1998 l’E. fu riammesso nella Lega araba) e di distensione con l’URSS (ristabilimento nel 1984 delle relazioni diplomatiche interrotte nel 1981). Nel 1998 l’E. diede vita, insieme a Giordania, Iraq e Repubblica araba dello Yemen (dal 1990 Repubblica dello Yemen), al Consiglio di cooperazione arabo. Anche le relazioni con l’OLP migliorarono (riconoscimento dello Stato di Palestina, 1988) e l’E. assunse il ruolo di mediatore nel conflitto israeliano-palestinese. Con la crisi scaturita dall’invasione irachena del Kuwait (1990), Il Cairo assunse la leadership del fronte antiracheno. Le difficoltà economiche del Paese, fortemente indebitato, e l’aumento degli squilibri sociali favorirono però la crescita dei gruppi integralisti islamici. Il regime di Mubarak (riconfermato nel 1993 e nel 1999) accentuò la repressione contro l’intensificata azione terroristica dei gruppi integralisti islamici che, diretta in particolare contro i turisti e le banche di investimento straniere, minacciava di aggravare la già difficile situazione economica del Paese. La crescita del malcontento, oltre che per la grave situazione economica, per le misure illiberali attuate dal governo, convinse infine Mubarak a fare un tentativo di apertura alle forze di opposizione (con l’esclusione della Fratellanza musulmana, al-Ikhwan al-muslimun, Partito fondamentalista islamico ufficialmente non riconosciuto), che però si arenò, mentre la tensione sociale e gli attentati terroristici proseguirono. Dopo un grave attentato del 1997 a Luxor, alcuni leader dei movimenti integralisti Jihad («Guerra santa») e Jama‛a alislamiyya («Gruppo islamico») annunciarono l’avvio di una strategia non violenta, cui si accompagnò una politica del governo più conciliante. La tensione fra E. e Sudan, scaturita in scontri armati ad Hala’ib, zona di confine contesa fra i due Paesi (1995-96), si allentò, mentre peggiorarono i rapporti con Israele, in seguito alla linea intransigente assunta da questo nei confronti dei palestinesi. L’E. riprese il ruolo di mediatore nella regione, ma i suoi sforzi per arrivare a una soluzione del problema palestinese furono compromessi dalla ripresa dell’intifada nel corso del 2000, cui fece seguito la condanna del Cairo nei confronti di Israele. Le elezioni legislative svoltesi nel 2000, intanto, ribadirono la vittoria dei candidati del Partito nazionale democratico, vicino al presidente. Dopo gli attentati di New York dell’11 sett. 2001, Mubarak offrì agli Stati Uniti il suo appoggio alla lotta contro il terrorismo, ma dovette fronteggiare il riacutizzarsi dell’opposizione integralista, soprattutto dopo i bombardamenti sull’Afghanistan e la recrudescenza degli scontri in Palestina. Rieletto nel 2005, Mubarak si è impegnato ad attuare riforme politiche liberali, che tuttavia non si sono realizzate per la recrudescenza del terrorismo fondamentalista (attentato di Sharm al-Shaikh, 2005). Al contrario, nel 2007 sono state trasformate in leggi costituzionali le norme speciali antiterrorismo introdotte dopo l’assassinio del presidente Sadat, oltre a restrizioni all’attività politica dei movimenti religiosi, mirate a indebolire l’opposizione dei Fratelli musulmani. Il 2011 è stato per l’Egitto un anno di fondamentale trasformazione politica: dopo trent’anni di presidenza di Ḥosnī Mubārak, infatti, dal febbraio 2011 il governo del paese è nelle mani del Consiglio supremo delle forze armate, organo apicale dei militari egiziani incaricato di gestire la delicata fase di transizione seguita alle proteste popolari che, nella più ampia cornice della ‘Primavera araba’, hanno determinato la caduta di un regime tra i più stabili e longevi del Medio Oriente. Un processo di transizione ancora in itinere e senz’altro complicato, come in ogni caso di mutamento istituzionale, che se da un lato sembra saldamente instradato nel solco di una progressiva democratizzazione del paese, con in agenda la calendarizzazione di tutti i prossimi appuntamenti elettorali (elezioni legislative e presidenziali), dall’altro restituisce un quadro politico, presente ma soprattutto futuro, ancora incerto sia nei suoi risvolti esterni che in quelli domestici. Paese chiave negli equilibri mediorientali, per oltre trent’anni l’Egitto è stato l’alleato privilegiato degli Stati Uniti nella regione, nonché l’unico stato arabo, insieme alla Giordania, ad avere intrattenuto rapporti con Israele. Se è ipotizzabile che la riorganizzazione dei poteri e delle forze politiche in atto possa produrre un cambio nelle posizioni egiziane su alcune tematiche specifiche o modificare la temperatura di alcune relazioni bilaterali (difficile per esempio che si riconfermerà una sintonia con Israele come quella registrata negli ultimi anni, ma sono prevedibili novità anche nei confronti dell’Iran) è altrettanto plausibile aspettarsi che la politica estera del Cairo non subirà grandi sconvolgimenti nelle sue priorità e nelle sue linee direttrici. Dalla partnership con Washington, che d’altro canto ha finora appoggiato le spinte del cambiamento in Egitto, alla ricerca di stabilità non solo della regione mediorientale e quindi del suo confine orientale, ma anche delle relazioni con il Sudan a sud e con la Libia a ovest. L’instabilità politica attraversata, seppur con notevoli differenze, tanto dalla Libia quanto dal Sudan – il primo alle prese con l’intervento militare della Nato contro il regime di Gheddafi, il secondo alle prese con la fase di turbolenza che sta accompagnando il processo di secessione del Sudan meridionale – aggiunge, inoltre, ulteriore incertezza anche per ciò che riguarda il futuro più prossimo dell’area di vicinato, aumentando per questa via l’attenzione internazionale e la posta in gioco sugli esiti della transizione egiziana. Se una Libia stabile risulta fondamentale per l’Egitto in considerazione del lungo confine condiviso tra i due paesi, il mantenimento di buone relazioni col Sudan è, e resterà, ugualmente di vitale importanza negli interessi del Cairo, vista la posizione chiave che il vicino meridionale ricopre nell’afflusso delle acque del Nilo. La relazione senz’altro più al riparo dall’incertezza dell’attuale fase di trasformazione politica domestica è comunque quella con l’Unione Europea. Negli anni l’Egitto ha sviluppato intensi rapporti con Bruxelles, con cui dal 2004 è in vigore l’Accordo di associazione per la liberalizzazione degli scambi dei prodotti industriali nell’ambito del Partenariato euro-mediterraneo. Insieme agli altri partner mediterranei il paese è stato ammesso nella Politica europea di vicinato e dal 2008 nell’Unione per il Mediterraneo, di cui ha detenuto la copresidenza di turno, insieme alla Francia, fino alla caduta di Mubārak. Dopo la caduta di re Farouk nel golpe militare del 1952, l’Egitto è stato trasformato in una repubblica, sebbene da allora nel paese sia stato di fatto in vigore un regime autoritario sostenuto dai militari. La Costituzione del 1971 – successivamente più volte emendata – conferisce al presidente ampi poteri: oltre al comando delle forze armate, infatti, al capo dello stato spetta la nomina del primo ministro e del consiglio dei ministri, nonché dei governatori provinciali, dei comandi delle forze armate e di sicurezza, delle più importanti figure religiose e dei giudici dell’Alta corte. A ciò si aggiunge anche un diritto di veto sulle leggi. Un importante referendum costituzionale, avente in oggetto la modifica di alcuni articoli riguardanti prevalentemente le prerogative delle più importanti istituzioni del paese, tra cui in primis proprio la presidenza, è stato il primo passo tangibile sulla via di una progressiva democratizzazione del sistema egiziano post-Mubārak. L’appuntamento referendario dello scorso 19 marzo ha segnato un momento di alta partecipazione alla vita politica nazionale, registrando un’affluenza superiore al 40% (dato superiore alla percentuale delle ultime legislative) e ha determinato l’introduzione di diverse misure per un riequilibrio dei poteri, ancorché parziale, tra le istituzioni egiziane. Accanto alle modifiche di merito sancite dalla sua approvazione, la consultazione referendaria è stata una cartina di tornasole significativa per osservare e valutare lo stato di salute degli schieramenti e delle diverse formazioni partitiche che si stanno delineando in questa fase di riorganizzazione politica domestica. Da una parte, infatti, il fronte del sì, uscito trionfatore, ha visto schierati sulla stessa posizione un insolito tandem, composto dai Fratelli musulmani e dal partito dell’ex presidente Mubārak, il Partito nazionale democratico(Pnd). Entrambi i soggetti hanno mobilitato con successo i rispettivi apparati, dimostrando di essere pronti per affrontare le elezioni legislative nazionali e presidenziali in calendario. Il fronte del no, invece, ha raccolto tutta la galassia dei movimenti, dei partiti e delle personalità che hanno animato le rivolte di Piazza Tahrir: da due dei prossimi candidati alle presidenziali come ʿAmr Mūsā (l’attuale segretario generale della Lega araba) e Muhammad alBarādeī (ex presidente dell’Iaea e Premio Nobel per la pace nel 2005) a diversi movimenti come quello dei Giovani per la rivoluzione, passando per partiti egiziani come quello di al-Ghad, i liberali del Neo Wafd, o ancora il Tagammu (Raggruppamento nazionale unionista progressista) e il Partito socialista arabo-egiziano. Composizione dell'Assemblea del popolo Tutti questi soggetti, pur nelle rispettive peculiarità, hanno optato per la riscrittura ex novo della Costituzione, preferendo un sistema dove il Parlamento assumesse maggiore centralità rispetto alla presidenza. Sono stati poi tutti favorevoli a un prolungamento temporale del governo ad interim dei militari, fondamentale – dalla loro prospettiva e in vista delle elezioni legislative e presidenziali – per guadagnare in radicamento territoriale e per dotarsi di apparati più strutturati, andando così a colmare parte del divario che proprio sotto questi due aspetti segnano i loro maggiori ritardi rispetto al Pnd e ancor di più alla Fratellanza musulmana. Referendum costituzionale, durata della transizione e una calendarizzazione delle prossime elezioni sono quindi stati il centro di gravità nel dibattito politico interno sviluppatosi a seguito delle dimissioni di Mubārak e dello scioglimento del Parlamento, che erano entrambi dominati dal partito dell’ex presidente: il nuovo governo militare, oltre a garantire il ripristino dell’ordine e della normalità post rivoluzionaria, si è infatti incaricato di riscrivere le regole del gioco nella competizione politica interna all’Egitto e quindi di assolvere un compito propedeutico alle nuove consultazioni elettorali. Sono stati molteplici i fattori alla radice delle proteste che hanno determinato la caduta del regime di Mubārak: l’effetto domino innescato in tutto il mondo arabo dalla ‘rivoluzione dei gelsomini’ in Tunisia, un sistema di potere politico e di interessi economici marcatamente sbilanciato intorno alla figura del presidente e alla sua cerchia di collaboratori, un regime interno repressivo e asfissiante per le opposizioni politiche e sociali, e ancora una disoccupazione galoppante specie negli ultimi anni e tra le fasce di popolazione più giovani e maggiormente scolarizzate. Con più di 80 milioni di abitanti, di cui il 30% sotto i 14 anni, l’Egitto è lo stato più popoloso del mondo arabo La sua popolazione è quasi raddoppiata negli ultimi trent’anni e la crescita demografica continua a essere superiore alla capacità dell’economia nazionale di sostenerla. Inoltre, considerato che la maggior parte del territorio egiziano è desertico, più del 97% della popolazione egiziana vive in una ristretta area lungo la fertile valle del Nilo e intorno al delta del fiume (che costituisce meno del 5% del territorio del paese), con un tasso di densità molto elevato che in alcune zone della capitale raggiunge più di 100.000 abitanti per chilometro quadrato. Ciò spiega perché la riduzione della pressione demografica – il tasso di crescita della popolazione era stimato al 2% nel 2010 – costituisca uno degli obiettivi principali del governo. Il graduale processo di liberalizzazione dell’economia, se da una parte ha favorito la crescita economica del paese, dall’altra ha prodotto un rialzo dei prezzi e una caduta dei salari che, di fatto, hanno peggiorato le condizioni di vita della popolazione, metà della quale vive al di sotto della soglia di povertà. A ciò si aggiunge anche il problema della disoccupazione, nonostante i dati ufficiali l’attestino al 9%. Prima delle rivolte che hanno portato alla caduta di Mubārak, l’Egitto era stato teatro negli ultimi anni di dure manifestazioni contro il governo, come per esempio la ‘rivolta del pane’ del 2008, provocata dal rialzo del prezzo dei cereali. Il paese non è estraneo neanche a tensioni di carattere religioso tra la maggioranza musulmano sunnita e la minoranza cristiano-copta, che conta circa il 10% della popolazione. Gli Egiziani, circa il 94% della popolazione, sono il gruppo etnico dominante. Il restante 6% è costituito da Beduini, che abitano nei deserti a est del Nilo e nel Sinai, da Berberi, che si concentrano nell’Oasi di Siwa a ovest del Nilo, e dai Nubiani, che vivono nell’Alto Nilo. Nel corso degli ultimi decenni in Egitto è confluito anche un numero difficilmente quantificabile di rifugiati politici provenienti dall’Iraq e dal Sudan, che si sono aggiunti ai rifugiati palestinesi affluiti qui dal 1948. Sanità La fase di avvicinamento alle elezioni presidenziali del 2011 aveva accentuato il controllo autoritario sulla vita politica del paese da parte di Mubārak. Ciò aveva comportato ulteriori restrizioni alla partecipazione politica, che in Egitto si attestava su livelli più elevati rispetto ad altri paesi arabi, determinando un declassamento del paese nei ranking mondiali per indici di democraticità, come confermato, per esempio, in quello dell’Intelligence Unit de «The Economist», in cui l’Egitto ha perso 19 posizioni dal 2008, collocandosi al 139° posto su 167 paesi nel 2010. In un contesto caratterizzato da repressione e controllo capillare, la protesta politica, la disaffezione nei confronti del regime e le istanze di apertura democratica degli egiziani hanno spesso trovato espressione su internet, che in Egitto non è soggetto a filtro, sebbene non siano mancati il blocco e l’oscuramento di alcuni siti considerati sensibili. Sono così stati sempre più frequenti i siti e i blog di esponenti delle opposizioni laiche ma anche religiose, oltre che di intellettuali indipendenti, tanto che la rete sembrava essere diventata lo strumento più naturale per aggirare la censura di stato. La rilevanza di questa ‘vitalità virtuale’, d’altra parte, è emersa con tutta le sue potenzialità proprio durante le proteste antiregime di inizio 2011, in cui social network come Facebook e Twitter si sono dimostrati mezzi fondamentali per diffondere la mobilitazione all’interno del paese, specie tra le fasce più giovani della popolazione, e per darne visibilità al di fuori. Partecipazione e libertà Lo stato ha sempre dominato i media e mantenuto il monopolio della stampa e della distribuzione delle pubblicazioni: non sono stati rari i casi di giornalisti che hanno subito persecuzioni e arresti. Alle forti limitazioni della libertà di stampa e di informazione si è unito negli ultimi anni un aumento dei casi di tortura all’interno delle carceri. A partire dal 2006 particolarmente dura è stata per esempio la repressione nei confronti dei Fratelli musulmani, i cui membri hanno subito arresti e detenzioni arbitrari e processi spesso sommari da parte dei tribunali militari. In Egitto è stata in vigore fino alla fine del regime di Mubārak la legge di emergenza nazionale, che limitava le garanzie costituzionali, attribuendo tra l’altro alla polizia ampi poteri discrezionali nel reprimere manifestazioni pubbliche, arrestare e detenere cittadini anche in mancanza di accuse o prove precise, nonché condurre indagini e perquisizioni senza autorizzazione. Il livello di corruzione all’interno delle istituzioni e della pubblica amministrazione rimane elevato, tanto che nel 2009 l’Egitto risultava al 111° posto nell’indice sulla percezione della corruzione di Trasparency International: un problema, quello della corruzione, che senza dubbio finirà in agenda sul tavolo del nuovo governo che prenderà le redini del paese dopo la transizione. Istruzione e benessere Tra i paesi del mondo arabo l’Egitto è la terza più grande economia dopo l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Dal 2006 al 2008 l’economia egiziana è cresciuta in media del 7%, registrando una flessione (4,7%) nel 2009 a causa delle ripercussioni della crisi economica internazionale, per poi riprendersi nel 2010 (5,1%). La forte domanda interna ha contribuito a fare uscire l’Egitto dalla crisi. La ripresa è stata accompagnata da un incremento degli investimenti privati a fronte di una riduzione degli investimenti pubblici, dall’aumento degli introiti del Canale di Suez, dalla crescita del settore turistico e delle esportazioni. Alla buona performance economica dell’Egitto negli ultimi anni hanno contribuito le riforme economiche in senso liberista avviate a partire dal 2004. Nel 2008 il paese compariva tra i primi dieci ‘top reformer’ nella classifica di 183 paesi stilata da Banca mondiale nel rapporto Doing Business. La progressiva liberalizzazione dell’economia ha favorito l’afflusso di investimenti diretti esteri (ide) in Egitto che, nel periodo di boom (2003-08) degli ide verso la sponda sud del Mediterraneo, è stato il principale paese di destinazione degli investimenti, provenienti soprattutto dagli stati del Golfo e dall’Europa. Tuttavia, lo scoppio delle rivolte interne e l’instabilità politica che ne è seguita hanno bloccato la ripresa della crescita economica prevista anche per il 2011: le stime del Fondo monetario internazionale (Imf) sono passate dal 5,5% di fine 2010 all’1,0%, (aprile 2011). Il forte calo delle attività economiche come conseguenza della crisi politica ha infatti avuto un inevitabile impatto negativo sul quadro macroeconomico. Una ripresa dovrebbe registrarsi in quasi tutti i settori a partire dal 2012 (+4,0%, Imf). Finché la situazione politica interna non si stabilizzerà appare invece più lento il rilancio del settore turistico che, con introiti nel 2009-10 pari a 11,6 miliardi di dollari, costituisce una buona fetta del pil egiziano. La crisi del settore turistico e il calo delle esportazioni amplieranno nel 2011 il deficit di conto corrente. Questo, unito alla riduzione degli investimenti diretti esteri, impatterà negativamente sulla bilancia dei pagamenti. In tale contesto, il proseguimento del processo di riforme economiche e delle liberalizzazioni, così come del piano di investimenti nel settore infrastrutturale attraverso partnership pubblico-private, non è tra le priorità del governo transitorio, maggiormente concentrato invece sulla fornitura di beni e servizi essenziali e sulla creazione di nuovi posti di lavoro attraverso progetti nel settore dei lavori pubblici. Se ciò contribuirà da un lato ad affrontare il problema della disoccupazione, dall’altro, unito all’incremento della spesa in sussidi, farà aumentare il deficit fiscale. Sebbene i costi delle rivolte e della transizione siano elevati, le prospettive di crescita appaiono incoraggianti per una ripresa economica del paese nel lungo termine. Confronto del PIL assoluto La composizione del PIL ECONOMIA Alla composizione del pil egiziano concorrono principalmente il settore manifatturiero (16,2%), petrolio e gas (14,1%), l’agricoltura (13,6%), la vendita al dettaglio e all’ingrosso (10,8%), il turismo e i trasporti (8,3%), i servizi finanziari (7,6%). Importanti sono anche il settore delle costruzioni (4,6%) e gli introiti del Canale di Suez (3,7%). La crescita economica ha consentito all’Egitto di ridurre la propria dipendenza dagli aiuti esterni, soprattutto statunitensi, che oggi concorrono a meno dell’1% del pil. Nonostante solo il 3% del territorio egiziano sia fertile, l’Egitto esporta prodotti agricoli (principalmente frutta, riso e cotone) per un valore di circa due miliardi di dollari all’anno. Tra i paesi del Nord Africa, l’Egitto è il terzo produttore di petrolio e di gas. Nonostante un costante calo nei livelli della produzione di petrolio – 35 milioni di tonnellate all’anno, mentre alla metà del 2009 le riserve si attestavano ormai a 570 milioni di tonnellate – l’estrazione del greggio continua a rappresentare una voce importante dell’economia egiziana. L’impoverimento dei giacimenti del Golfo di Suez ha portato all’avvio di attività esplorative nelle aree di frontiera, come il Deserto Occidentale al confine con la Libia, le aree off-shore del Mediterraneo e i territori del Sinai. Le esplorazioni sono state intraprese da compagnie straniere (in primis Bp e Eni) in collaborazione con la compagnia statale Egyptian General Petroleum Corporation (Egpc). Un’importante infrastruttura per l’esportazione del petrolio è la Suez-Mediterranean Pipeline (Sumed), detenuta al 50% dall’Egitto. Essa rappresenta una via di transito alternativa e complementare rispetto al Canale di Suez per il petrolio proveniente dal Mar Rosso e destinato nel Mediterraneo. Il calo della produzione di petrolio è compensato dalle riserve di gas naturale, stimate a 2170 miliardi di metri cubi (dato riferito alla metà del 2009). Consumo e produzione di gas e petrolio Il governo, che incoraggia nuove esplorazioni, ha incentivato l’utilizzo del gas naturale, in particolare per le centrali elettriche, anche concedendo licenze ad aziende private che si occupano dell’estensione della rete di trasmissione e di distribuzione del gas. Ben oltre la metà della produzione giornaliera di gas – proveniente prevalentemente dal delta del Nilo e dal Deserto Occidentale – viene utilizzata per generare elettricità. Il governo egiziano, inoltre, ha provveduto a sviluppare un’articolata rete per l’esportazione del gas naturale. Attraverso l’Arab Gas Pipeline il gas egiziano giunge in Giordania, Siria e Libano e in prospettiva dovrebbe arrivare anche in Turchia. A partire dal 2005 il gas egiziano viene esportato anche come gas naturale liquefatto (Gnl), di cui l’Egitto è oggi tra i primi dieci maggiori esportatori al mondo. Infine, il paese sta puntando sullo sviluppo delle energie rinnovabili. Secondo gli obiettivi stabiliti dal governo prima della caduta di Mubārak, entro il 2020 il settore delle energie rinnovabili dovrebbe coprire circa il 20% della produzione totale di energia: più della metà dovrebbe essere rappresentata dall’eolica. Energia e Ambiente POLITICA INTERNAZIONALE L’Egitto, grazie alla sua posizione geografica strategica, ha svolto un ruolo chiave nella politica e nella sicurezza mediorientale a partire dalla Prima guerra mondiale. Nel corso del Novecento potenze come il Regno Unito, l’Unione Sovietica e da ultimo gli Stati Uniti lo hanno considerato di grande importanza nelle loro strategie a livello regionale e mondiale. In particolare, il Canale di Suez si è dimostrato cruciale non solo per la sicurezza del Golfo, ma anche delle rotte del commercio tra l’Asia e l’Europa. Dopo le guerre contro Israele del 1956, 1967 e 1973, il presidente al-Sādāt ha inaugurato un nuovo corso nella politica regionale egiziana, sfociato nella firma degli Accordi di Camp David nel 1978 e del Trattato di pace con Israele nel 1979. Se il riavvicinamento a Tel Aviv, da un lato, ha portato alla rottura delle relazioni diplomatiche con gli stati arabi e all’espulsione dalla Lega Araba dal 1979 al 1989, dall’altro è valso all’Egitto la concessione di aiuti economici e militari statunitensi per oltre due miliardi di dollari all’anno. Dalla fine degli anni Settanta l’Egitto si è adoperato per assicurare la stabilità e la pace regionale. Ciò non ha però impedito al paese di contribuire alla forza internazionale contro l’Iraq durante la guerra del Golfo del 1990-91 con 35.000 effettivi, il contingente più numeroso dopo quelli statunitense e britannico. Allo stesso modo, il paese ha fornito il proprio sostegno logistico agli Stati Uniti per l’invasione e l’occupazione dell’Iraq nel 2003, nonostante Mubārak fosse contrario al rovesciamento del regime di Saddam Hussein per il timore di ricadute negative sulla stabilità regionale e di un ridimensionamento della partnership con gli Stati Uniti, nonché del flusso di aiuti provenienti da Washington. L’enfasi sulla stabilità regionale, cui è improntata la politica di difesa egiziana, spiega i diversi tentativi di mediazione condotti dall’Egitto sia tra arabi e israeliani sia, più di recente, tra le diverse fazioni palestinesi. La fine del blocco di Gaza e l’accordo di riconciliazione tra Hamas e Fatah Uno dei segnali di maggiore discontinuità con gli ultimi anni di presidenza Mubārak ha riguardato la gestione del valico di Rafah, che collega l’Egitto alla Striscia di Gaza. Se infatti, da giugno 2007, il governo egiziano aveva aderito al blocco della Striscia voluto da Israele, limitando non solo il passaggio delle persone ma anche il traffico delle merci alla fine di maggio 2011 la giunta militare egiziana ha deciso per la sua riapertura. La decisione suggella un cambio di rotta nelle relazioni tra Egitto e Hamas, che era sempre stato inviso al regime di Mubārak a causa dei suoi legami con i Fratelli musulmani e con l’Iran, ed è figlia dell’accordo di riconciliazione raggiunto circa un mese prima, proprio al Cairo e sotto la mediazione delle autorità egiziane, tra le due più importanti fazioni palestinesi, Hamas appunto e Fatah. ISLAMISMO L’ultimo decennio del 20° sec. ha evidenziato i limiti e le crisi dell’islamismo militante, sia dal punto di vista ideologico sia sotto il profilo dell’azione politica. In quegli anni divenne evidente che la speranza di costituire in un qualsiasi Paese uno Stato islamico attraverso sollevazioni popolari era da considerarsi ormai tramontata. La rivoluzione islamica in Iran del 1979, che in un primo momento era apparsa come un possibile modello di riferimento, si era poi rivelata inadatta (viste le sue motivazioni, le sue peculiarità confessionali e i suoi caratteri nazionali) a innescare movimenti analoghi in altri Paesi musulmani. Lo spettacolare omicidio del presidente egiziano A. al-Sadat (1981), che nelle intenzioni degli esecutori avrebbe dovuto essere seguito da un’insurrezione più o meno generalizzata, aveva anch’esso registrato una sostanziale indifferenza della grande opinione pubblica. Alle frange più estreme dell’islamismo radicale non restò dunque altra scelta che quella di una profonda revisione dei propri metodi e obiettivi. È proprio alle soglie del nuovo millennio che comincia a profilarsi quella trasformazione dell’islamismo che alcuni studiosi, per differenziare questa fase dalle fasi precedenti, sono propensi a definire neofondamentalismo. La caratteristica principale di questa evoluzione è consistita in un ulteriore allontanamento da ogni presupposto tradizionale e religioso dell’islam, che i neofondamentalisti ignorano e verso il quale provano scarso interesse, per ribadire la natura ormai esclusivamente ideologica e politica del movimento. Fallito ogni tentativo di suscitare consensi attorno alla realizzazione di un non meglio definito Stato islamico, i vertici delle organizzazioni più radicali hanno fatto ricorso ad azioni di crescente spettacolarità mediatica, scollegate fra loro e senza una finalità politica immediata, con l’unico scopo di accreditarsi come unici veri difensori dei valori islamici e di delegittimare i regimi colpevoli di collusione con l’Occidente (in primo luogo Arabia Saudita, Egitto e Pakistan). La prima conseguenza di questa mutazione è stata il progressivo declino delle istanze nazionali, che sino ad allora avevano polverizzato i movimenti islamisti in una galassia di organizzazioni locali, per far posto a un progetto che richiamasse sempre più l’attenzione sul carattere internazionale e antioccidentale dell’azione islamista. Attori principali di questa nuova tendenza sono il saudita O. Bin Laden e l’egiziano A. al-Zawahiri. Pur se caratterizzati da origini e da formazioni diverse, entrambi hanno sperimentato la lotta armata nel corso del jihad antisovietico in Afghanistan negli anni Ottanta del Novecento, proseguendo successivamente l’esperienza nel periodo di esilio e peregrinazioni in Sudan, Yemen ed Europa, fra il 1992 e il 1995. La svolta internazionalista fu evidenziata da alcune azioni militari e attentati terroristici di particolare rilievo, messi a segno per indicare nel «nemico lontano», gli Stati Uniti, il nuovo obiettivo della lotta islamista: in questa logica vanno inquadrati gli attacchi contro i soldati statunitensi a Mogadiscio (Somalia) nell’ottobre 1993; l’incursione a Khobar (Arabia Saudita) del giugno 1996; i sanguinosi attentati contemporanei contro le ambasciate statunitensi in Kenya e in Tanzania del 7 agosto 1998; l’attacco alla nave da guerra USS Cole nel porto di Aden (Yemen) dell’ottobre 2000. Nel 1998, Bin Laden e al-Zawahiri furono fra gli ispiratori e i firmatari di un documento volto a costituire un Fronte islamico internazionale contro gli ebrei e i crociati. Il documento, infarcito di citazioni del Corano e di insegnamenti del profeta scelti in maniera estremamente selettiva, rappresentava un nuovo ed efficace modello comunicativo, con il quale si intendeva risvegliare l’orgoglio musulmano allo scopo di riscattare le secolari umiliazioni subite a opera dell’Occidente. L’intento era quello di suscitare, sfruttando una morale islamica universalmente condivisa, quei consensi che le opposizioni islamiste nazionali non erano riuscite a ottenere. La finalità primaria di tutto il movimento rimaneva pur sempre l’abbattimento di alcuni regimi islamici, ma per sensibilizzare le masse e chiamarle alla mobilitazione si voleva utilizzare la sponda della guerra al nemico occidentale. Il Fronte non era e non intendeva essere una concreta realtà politica o organizzativa. In realtà, dietro di esso c’era il nuovo protagonista dell’islamismo radicale estremo, emergente in quegli anni, anche se pressoché sconosciuto alle opinioni pubbliche: al-Qa‛ida. Le origini di questa entità (il cui nome in arabo significa «la base») vengono fatte risalire all’incirca al 1988, quando Bin Laden creò uno strumento informatico (qa‛ida al-ma’lumat, corrispondente all’inglese database) nel quale registrare i dati relativi ai vari militanti e alle organizzazioni con cui era entrato in contatto durante il periodo dei combattimenti in Afghanistan. Attorno a questo archivio elettronico si è andata con il tempo costituendo una concreta organizzazione, anche se vi sono dubbi sul fatto che essa possa essere considerata una precisa e definita struttura. Più che una «centrale del terrore», come viene descritta in molte fonti informative, al-Qa‛ida è probabilmente costituita da una serie non sempre omogenea di legami e contatti, di volta in volta attivati per l’esecuzione di azioni mirate. La necessità da parte di al-Qa‛ida di compiere gesti sempre più appariscenti si concretizzò nella realizzazione di un clamoroso e spettacolare atto terroristico, che portò l’attacco al cuore stesso della potenza egemone dell’Occidente. L’11 settembre 2001 un gruppo di attentatori suicidi si impossessò di alcuni aerei di linea e li fece abbattere contro obiettivi di rilevante significato simbolico nel territorio degli Stati Uniti. Gli attentati ebbero una risonanza mondiale inaudita, innescando una serie di conseguenze politiche internazionali di vastissima portata. La popolarità di al-Qa‛ida e di Bin Laden crebbe vertiginosamente, centrando in tal modo uno degli scopi principali dell’azione. Alcuni mesi dopo l’evento (dicembre 2001), al-Zawahiri cercò di sfruttarne la portata propagandistica con la diffusione di uno scritto, Cavalieri sotto la bandiera del profeta, la cui principale preoccupazione sembra essere stata quella di ridurre le distanze fra le masse islamiche e le avanguardie rivoluzionarie di cui egli si è sentito il primo ideologo. In questo atteggiamento si può rilevare tutta la fragilità della scelta strategica di al-Qa‛ida, che al di là di una indubbia ma superficiale popolarità, sembra ancora non aver acquisito il consenso sperato. È in questo quadro che va probabilmente interpretato il successivo crescendo di azioni terroristiche di ampia portata contro i Paesi occidentali, come gli attentati di Madrid (marzo 2004) e di Londra (giugno 2005), precedute e seguite da una sequenza di imprese analoghe in Paesi musulmani. Questa impennata dell’estremismo terrorista ha apparentemente portato a un vicolo cieco. Da una parte, la violenza del jihad globalizzato non ha guadagnato alla causa islamista fette significative dell’opinione pubblica; dall’altra, quella stessa opinione pubblica si è sentita minacciata dalla durezza delle reazioni occidentali, sviluppando una notevole diffidenza nei confronti di riforme democratiche imposte dall’esterno. In questo modo, gli unici ad aver tratto vantaggio dalla situazione sembrano essere i regimi locali, che hanno potuto intensificare la repressione delle opposizioni islamiste in nome della lotta al terrorismo, e al contempo rimandano l’ormai improrogabile riforma politica interna col pretesto che non si possono meccanicamente trapiantare in tempi rapidi i sistemi sociali e di governo elaborati dall’Occidente. Una ulteriore confusione è imputabile al fatto che talvolta questi regimi vengono definiti come moderati, solo perché alleati dell’Occidente nella politica internazionale. Così, per es., il rapporto fra l’Arabia Saudita e i suoi oppositori viene spesso rappresentato come uno scontro fra l’islamismo moderato e l’islamismo radicale. Invero, i sauditi rappresentano l’ideologia rigorista della setta wahhabita e sono stati i principali responsabili della diffusione nel mondo islamico di un fondamentalismo puritano. Essi però non hanno mai favorito le tendenze rivoluzionarie dell’islamismo nel campo sociale e politico. Timorosi verso ogni tendenza che mirasse a scardinare gli ordini costituiti, hanno costretto all’opposizione le ali oltranziste dei movimenti islamici, pur condividendo con essi la medesima impostazione di fondo. Si è acceso così un dibattito serrato sul concetto della guerra legittima (jihad) e sulla sua utilizzazione. Inteso nella sua accezione moderna di lotta armata contro i poteri costituiti, il jihad è stato condannato dai wahhabiti e da altri cosiddetti moderati, più per motivi di opportunità politica che non per coerenza teologica, mentre l’islamismo estremista ne ha fatto l’essenza del suo messaggio rivoluzionario. Una divaricazione ancor più evidente si è manifestata allorché il concetto di jihad è stato associato alla violenza degli attentatori suicidi, che l’islam tradizionale non aveva mai autorizzato e che era rimasta sconosciuta anche al precedente radicalismo. I wahhabiti negarono che gli attentati suicidi potessero essere equiparati a un martirio, mentre i movimenti rivoluzionari cercarono (il primo esempio risale al 1989) di legittimare in base ai principi islamici l’utilizzo di questa forma estrema di lotta. Ben diversa è la situazione di un’altra variante dell’islamismo, che più propriamente potrebbe aspirare alla qualifica di moderato. Si tratta di una serie di formazioni politiche, di associazioni private, di organizzazioni non governative e di tendenze ideologiche che non si identificano nella causa della violenza armata. Pur potendo contare su una base sociale più ampia rispetto al radicalismo estremo, questi movimenti sono apparsi del tutto impotenti nella fase attuale. I loro rappresentanti non sono riusciti in genere a evidenziare con chiarezza la loro distanza dall’islamismo rivoluzionario, finendo con l’assumere posizioni incerte e non di rado ambigue. Alcuni studiosi, come il linguista egiziano N. Abu Zaid (contro il quale i fondamentalisti hanno imbastito un processo che l’ha condotto all’esilio in Europa), hanno persino messo in dubbio che vi sia reale distinzione fra islamismo radicale e islamismo moderato, sostenendo che fra queste due tendenze vi è una semplice diversità di intensità, e non di genere. In ogni caso, molti islamisti-riformisti si sono dimostrati inefficaci nelle loro proposte politiche, che tentano di coniugare in maniera non del tutto convincente concetti tipici dell’ideologia occidentale (democrazia, giustizia sociale, diritti umani) con elementi caratteristici della civiltà islamica. L’intento è quello di non fare apparire le riforme come incompatibili con i principi dell’islam, ma il risultato è stato finora modesto e non ha trovato una larga condivisione. Esemplare è, a questo proposito, lo scenario dell’islam trapiantato in Occidente. Le comunità musulmane immigrate in Europa o in America, strette fra il richiamo delle proprie origini e il desiderio di integrazione, sono alla continua ricerca di una nuova identità. Gli intellettuali d’origine islamica, ma nati nell’Occidente o cresciuti nella sua cultura, si sforzano in varia misura di reinterpretare il passato islamico alla luce del pensiero europeo. Le proposte sono ovviamente diverse, e oscillano fra una vera e propria metamorfosi dell’identità islamica e un atteggiamento più conservatore, ma nessuno di questi intellettuali sembra poter rappresentare davvero l’universo delle comunità immigrate, e del resto le loro idee hanno una scarsa ricaduta nei Paesi d’origine. L’equivoco di fondo che pesa su tutti questi tentativi è quello di ritenere che una certa occidentalizzazione della mentalità islamica porti necessariamente la società musulmana ad atteggiamenti più moderni e liberali. In realtà, come numerosi studi hanno messo in luce, l’islamismo deve molto del suo bagaglio culturale e ideologico all’odierna civiltà occidentale, e l’occidentalizzazione non è dunque incompatibile, anzi in molti casi addirittura favorisce l’assunzione di idee nonché di atteggiamenti tipicamente fondamentalisti. Delusi dall’immobilismo politico-sociale dei loro Paesi d’origine, ma decisi a non confondersi semplicemente con la civiltà che li ospita, molti giovani musulmani scelgono la via di una comunità virtuale, realizzata attraverso lo strumento più appariscente della globalizzazione: Internet. I siti islamici cui questi giovani accedono in modo crescente propongono di solito un islam convenzionale, generico e conformista, che si avvicina più alle idee dell’islamismo che non a quelle della religione tradizionale. È proprio sul concetto di tradizione che si è radicato uno degli equivoci più diffusi a proposito dell’islam contemporaneo. L’islamismo è stato in genere etichettato dagli studiosi occidentali come un movimento tradizionalista, laddove invece tutta la sua storia ha rappresentato un rovesciamento dei valori della cultura islamica tradizionale. Questo malinteso ha finito per influenzare settori sempre più ampi delle odierne società musulmane, che così vedono nelle idee dell’islamismo (non ha importanza se moderato o radicale) un rassicurante ritorno alle proprie radici, ignorando che esso rappresenta al contrario una profonda frattura rispetto al passato dell’islam. In modo analogo, anche molti intellettuali contemporanei che intendono trovare ricette alternative all’islamismo si sono fatti ingannare da questo errore di prospettiva e tendono a confondere le idee apparentemente conservatrici del radicalismo moderno con la tradizione secolare dell’islam. Ma islamismo e tradizione non stanno dalla stessa parte. Quest’ultima non si identifica né con il progressismo dell’islam laicizzante, né con le ideologie politiche e sociali del fondamentalismo, né con l’apparente conservatorismo religioso di alcuni Stati, né tantomeno con i programmi rivoluzionari della violenza islamista. La tradizione sopravvive principalmente nel mondo del sufismo e delle confraternite, che ancora governa ampi consensi nelle società musulmane, un mondo flessibile e accomodante, rispettoso di principi, ma aperto agli adattamenti, rigoroso, ma non rigorista. È da presumere che una parte significativa del futuro si giocherà proprio fra gli elementi rimasti fedeli alla tradizione e tutte queste altre varianti moderne dell’islam. La Società dei fratelli musulmani opera in Egitto dal 1928, unendo alle attività politiche iniziative sociali e caritatevoli. Bandita nel 1948 a causa della violenta opposizione contro il governo, la Fratellanza musulmana si è riorganizzata negli anni Settanta, rinunciando ufficialmente alla violenza e prendendo le distanze dai gruppi islamici più radicali. Nonostante il divieto di formare partiti su base religiosa, ai Fratelli musulmani è stato consentito di appoggiare candidati indipendenti, tanto che nel 2005 sono diventati la principale forza di opposizione in seno all’Assemblea del popolo. Tuttavia, la stretta autoritaria che ne è seguita ha impedito al movimento di ottenere un risultato simile alle elezioni parlamentari del novembre 2010. I Fratelli musulmani hanno così rinunciato all’unico seggio conquistato in segno di protesta. Nonostante ciò la loro popolarità è rimasta alta e la loro presenza diffusa tra la popolazione egiziana, soprattutto nelle ampie fasce più povere e marginalizzate, grazie anche a una straordinaria capacità organizzativa che gli consente di elargire servizi sociali e risorse e di sopperire alle carenze dei servizi pubblici. In genere i Fratelli musulmani non hanno avuto strette relazioni con le altre forze di opposizione, anche se non sono mancate alleanze ad hoc. Nel 2010, però, hanno sostenuto Muhammad al-Barādeῑ e la petizione del Movimento per il cambiamento, relativa alle riforme costituzionali, attraverso la raccolta di centinaia di migliaia di firme.