FACOLTA` DI SCIENZE POLITICHE GRAN BRETAGNA E IMPERO

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FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE
CORSO DI LAUREA
INTERNAZIONALI
MAGISTRALE
IN
RELAZIONI
GRAN BRETAGNA E IMPERO OTTOMANO:
gli anni del gelo diplomatico
(1878-1914)
Tesi di laurea in Storia dei Balcani in età contemporanea
Candidato:
Relatore:
Edon Qesari
prof. Francesco Guida
Correlatore
:
dott. Antonio D’Alessandri
Anno Accademico 2006-2007
1
La mia dedica più speciale va ai miei
due fratelli, Bonny e Davide, nonché
al mio nipotino Eden. Grazie alla loro
fiducia, alla loro pazienza e, più
importante di tutto, grazie al loro
appoggio, io sono giunto in questo
giorno. Vi amo!
Edon
Inoltre
vorrei
ringraziare
enormemente anche il prof. Guida per
il suo sempre disponibile aiuto. La
sua
gentilezza
e le
sue attente
osservazioni hanno aiutato anche uno
studente
testardo
come
me
completare questa tesi di laurea.
2
a
Introduzione……………………………………………………pag. 5
Capitolo I Verso il gelo: l’alleanza anglo-turca e le ragioni del
suo deterioramento (1878-1898) ………………………….pag. 11
1. La geopolitica post-berlinese vista da Costantinopoli
2. Il principio dell’integrità ottomana e gli interessi britannici nell’area
3. Nuove tendenze nella politica estera turca: i sospetti di ‘Abdül Hamid verso
Londra e il panislamismo
4. L’invasione britannica dell’Egitto
4.1 Genesi e svolta dell’impresa egiziana
4.2 Conseguenze e strategie: Costantinopoli o il Cairo?
Capitolo II
Dentro le mura dell’Impero: l’influenza di ‘Abdül
Hamid nella politica interna ottomana (anni ’80 e ’90 del XIX
secolo)……………………………………………………………..pag. 55
1. L’assolutismo costituzionale di Hamid: uno sguardo alla politica interna ottomana
2. L’economia ottomana e la sua dipendenza dai capitali europei
3. Alle prese con i vicini di casa: la Turchia e i nuovi Stati balcanici
4. La questione armena e l’impasse britannico
Capitolo III Da Londra a Berlino: le retrovie del nuovo asse
turco-tedesca (1898-1908)…………..………………………….pag. 87
1. L’entrata in scena della Germania: la visita di Guglielmo II a Costantinopoli
2. L’intermezzo della ferrovia che divide
3. Il nuovo corso politico della diplomazia inglese
3
4. Ulteriori instabilità balcaniche: un problema chiamato Macedonia
Capitolo IV
I Giovani Turchi e la caduta di ‘Abdül Hamid II: la
definitiva rottura con Londra (1902-1909)……………………………
………………………………...pag. 123
1. Le prime forme d’opposizione in seno all’Impero e i tentativi d’unità
2. I Giovani Turchi in azione
2.1
La rivoluzione sbarca a Costantinopoli
2.2
La posizione di Londra e le sue divisioni interne
3. Le varie reazioni a catena: Bulgaria, Bosnia e Creta si staccano da Costantinopoli
4. Gli errori inglesi e la detronizzazione di Abdül Hamid II
Epilogo storico Lo scioglimento dei dubbi: dall’inimicizia alla
guerra(1909-1914)……………………………………………pag. 165
Bibliografia……………………………………………………..pag. 187
4
Introduzione:
La tematica che questa tesi di laurea si propone di analizzare è il difficile
rapporto fra due Stati, Impero Ottomano e Gran Bretagna, negli anni che vanno dal
1878 al 1909, tenendo uno sguardo anche agli avvenimenti storici che decorrono fino
all’inizio della Prima Guerra Mondiale (1914). Ovviamente le relazioni diplomatiche
prese qui in considerazione sono amplissime, e tenendo conto di questo fatto abbiamo
cercato di restringere l’area tematica ad un preciso quesito: perché queste due Potenze,
alleate strette fino al 1878, dopo il Congresso di Berlino registrarono un raffreddamento
diplomatico nei loro rapporti che li porterà ad essere nemiche contrapposte durante la
Grande Guerra? Fu senz’altro uno strappo dettato da vari ragionamenti di politica
estera, i quali, in ogni caso, non ebbero mai una motivazione unilaterale.
Nell’ultimo ventennio del XIX secolo, il vasto Impero governato dai Sultani
di Costantinopoli aveva perso gran parte del suo splendore che per secoli ne aveva fatto
una Potenza temibile per le altre nazioni europee. Entrato nel gioco politico delle
Grandi Potenze, già prima dell’epoca napoleonica, l’Impero Ottomano ne aveva subito,
insieme alla propria decadenza politica, anche le direttive in campo economico e
militare. Nel mappamondo come concepito a Londra, la posizione geopolitica di
Costantinopoli era vista quale un’arma per la difesa di quegli interessi territoriali per i
quali da decenni l’Impero Britannico si stava espandendo verso l’Asia. Durante tutti i
conflitti ottocenteschi, e specialmente in quelle che la storiografia identifica come Crisi
d’Oriente, Londra aveva provveduto alla difesa territoriale e politica dello Stato turco, il
quale proprio per effetto delle debolezze che abbiamo citato, veniva definito come il
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“Malato del Bosforo”. Ovviamente i motivi furono tra i più pragmatici. L’espansione
britannica in Asia aveva un diretto rivale: la presenza russa, la quale si estendeva fino
alle vallate del Panshir, in Afghanistan, mettendo sotto diretta pressione i possedimenti
coloniali inglesi in India. Quella che Pietroburgo chiamava una “missione storica”, cioè
la liberazione del Patriarcato di Costantinopoli dagli usurpatori islamici, divenne il faro
di guardia della politica estera britannica per la difesa dei propri interessi che
coincidevano con la permanenza in vita dell’Impero Ottomano. In più, attraverso il suo
immenso territorio passavano anche tutte le rotte commerciali inglesi che dal
Mediterraneo Orientale si spingevano fino al subcontinente indiano.
Il raffreddamento dei rapporti anglo-ottomani avviene tuttavia in un’epoca
di grandi cambiamenti geopolitici. Dopo il Congresso di Berlino molti statisti britannici
– in particolare Salisbury – iniziano a dubitare dell’efficacia di mantenere ancora in vita
un principio di politica estera qual’era l’alleanza e la difesa dei vasti territori ottomani.
Fino all’esecutivo di Disraeli (1879) le linee guida della diplomazia britannica erano
state quelle di evitare a qualsiasi costo l’implicazione inglese in qualche alleanza
permanente. A parte il breve intermezzo di Castlereigh (1820), dalle decisioni prese al
Congresso di Vienna (1815) in avanti, la Gran Bretagna aveva sempre rifiutato di
prendere parte attiva nelle dispute che avvenivano fra le altre Potenze europee. In
generale, per quanto riguardava gli affari continentali, il governo di Londra preferiva
volgere lo sguardo verso i suoi interessi extraeuropei. Tale scelta veniva dedotta anche
da una visione che i governanti di Downing Street avevano delle capacità politicomilitari del loro Paese. In generale per i Britannici, l’Inghilterra era l’ago della bilancia
di quel tanto celebrato principio di Equilibrio della Potenza, vero assioma politico delle
relazioni internazionali all’epoca. Per Londra, l’intervento della Gran Bretagna nelle
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diatribe europee doveva avvenire solo nel momento che la crescita egemonica di una
Nazione – o eventualmente di un’alleanza fra Nazioni – diventava talmente forte da
mettere a rischio il succitato principio. Per tutto il resto, disinteressato ai tumultuosi
territori europei, il governo britannico preferiva tacere ed osservare ciò che avveniva in
continente fra i suoi maggiori partners, costruendo e sciogliendo alleanze ad hoc che
avevano solo un’efficacia momentanea. Una di queste era proprio il tacito patto
stipulato con i Califfi di Costantinopoli; il quale in seguito divenne un principio guida
permanente proprio perché altrettanto permanente stava diventando anche la “guerra
fredda” fra gli Inglesi e lo Zar nei vasti territori asiatici. Insomma, sebbene i problemi
economici e politici per far rimanere in vita un cadavere militare qual’era l’Impero
Ottomano erano enormi, l’utilità di usarlo come cuscinetto nei confronti della spinta
russa verso l’India, faceva sì che per quasi mezzo secolo l’alleanza anglo-ottomana
diventasse un dogma della politica estera dei due Paesi.
Non fu più così agli albori della Belle Epoque; intanto era avvenuta
l’eccezionale crescita politico-militare della Germania bismarckiana la quale, dopo
l’avvento al trono di Guglielmo II, non solo divenne una diretta concorrente della Gran
Bretagna, ma altresì una minaccia esplicita a quell’Equilibrio di Potenza di cui da tanto
tempo gli Inglesi si consideravano guardiani. La tesi qui proposta tenta ovviamente di
analizzare anche i possibili accordi che Londra e Berlino cercarono di contrattare –
soprattutto in affari di politica coloniale – ma sia per ragioni interne alla politica
britannica, sia per l’aggressività diplomatica che il Kaiser tenne verso le Potenze
europee, tali accordi non vennero mai firmati. Ma non solo! L’improvvisa crescita
tedesca non solo divenne un fattore di minaccia per gli interessi inglesi – soprattutto con
l’avanzata colonialistica tedesca senza precedenti fuori dai territori europei – ma creò
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oltretutto le premesse per un cambiamento radicale nella politica estera britannica.
Verso i primi del Novecento, Londra accettò di creare le basi di un’alleanza politica – e
quasi subito dopo militare – con il governo francese, mosso anche da ragioni
irredentistiche (vedi Alsazia-Lorena) ad essere il primo antagonista della politica
tedesca in Europa. Inizialmente soltanto in modo indiretto, sia per paura verso le mosse
tedesche, sia per effetto delle pazienti politiche francesi – con calma e vigore da quasi
vent’anni la diplomazia francese aveva operato per raggiungere importanti accordi con
Londra – gli Inglesi finirono per entrare in un’alleanza militare, lo scopo bellico della
quale metteva la parola fine alle precedenti politiche ottocentesche di neutralità in
Europa.
Intanto, anche a Costantinopoli, sia i punti di vista sia l’operato concreto
della diplomazia turca, erano notevolmente cambiati. Forte della sua spinta ideologica
anti-occidentale, il Sultano che approdò al trono ottomano dopo il 1876, Abdül Hamid
II, progressivamente aveva rifiutato, a differenza dei suoi predecessori, ogni tentativo di
mantenere in vita l’alleanza con Londra. Contemporaneamente ad un raffreddamento
proveniente dal Foreign Office, la politica estera ottomana anziché dirigersi verso un
solo protettore preferì giocare fra i vari interessi economici che, chi più chi meno, tutte
la Grandi Potenze avevano in Turchia. Gli eventi storici che susseguirono non fecero
che accelerare tali tendenze. Insieme al rendersi conto del fatto che l’amicizia di Londra
effettivamente costava sempre di più – l’esempio più chiaro era la cessione agli Inglesi
dell’isola di Cipro come base militare – l’invasione britannica dell’Egitto (1882)
affievolì sempre più la collaborazione diplomatica fra Londra e Costantinopoli. Inoltre
ciò che fece infuocare ulteriormente gli animi nella capitale turca fu l’esplicita
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intromissione inglese a favore delle riforme politico-amministrative che il Sultano
doveva attuare nelle regioni abitate dalla popolazione armena.
Tali risentimenti non fecero che peggiorare da ambo le parti nel momento in
cui, attraverso l’affare della costruzione di una ferrovia che collegasse Costantinopoli a
Baghdad, il Sultano avviò rapporti sempre più stretti con la Germania di Guglielmo II.
Se da una parte la temibile crescente penetrazione tedesca in Medio Oriente e altrove
spinse l’Impero Britannico in trattative con i Francesi, dall’altra, questi ultimi, già dal
1892 militarmente alleati con Pietroburgo, permisero, tramite la loro mediazione, di far
sedere allo stesso tavolo i governi inglese e russo. Il successo di tali colloqui portò non
soltanto all’ufficiale proclamazione della Triplice Intesa (Parigi – Londra – Pietroburgo)
ma anche l’accordo finale fra i sovrani britannico e russo a proposito degli storici
antagonismi in terra asiatica. Ed è proprio questo il momento cruciale tramite il quale
possiamo sinteticamente spiegare il fallimento definitivo dell’alleanza anglo-ottomana:
una volta venuta meno l’inimicizia fra Londra e Pietroburgo sull’Asia, una volta
esaurita la necessità di proteggere il Medio Oriente dalla presenza russa, la Gran
Bretagna semplicemente non aveva più bisogno del cuscinetto chiamato Costantinopoli.
Ciò che avvalora di più questa tesi è anche il fatto che gli Inglesi erano stanchi di
spingere gli Ottomani in riforme interne che loro comunque rifiutavano di attuare. Anzi,
il fatto che l’Impero Ottomano da tempo flirtasse con il nemico naturale della Entente
Cordiele, la Germania, rendeva non soltanto indifferenti gli Ottomani agli occhi di
Londra ma addirittura nemici.
Tutto ciò che avvenne dopo il definitivo accordo fra lo zar Nicola II e il re
Edoardo VII (1907) fu soltanto un peggioramento dei rapporti fra i due vecchi amici di
cui questa tesi tratta. La Rivoluzione dei Giovani Turchi, liberali per ispirazione e
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quindi almeno in linea di principio filo britannici, non portò ad un significativo
miglioramento della situazione. Anche con i politici post-hamidiani, soprattutto dopo la
rottura fra questi e Londra all’indomani della reazione che sconvolse i destini
dell’Impero Ottomano (1909), Londra non ricucì le buone relazioni, anche se tentativi
da parte di una parte dell’entourage britannica vi furono. Tuttavia la spinta pro-tedesca
fu enormemente più potente nelle stanze governative della Sublime Porta e con ciò
eventi, scontri e mancanza di condizioni spinsero le due parti a non tollerarsi più. Va
tenuto conto che dopo l’accordo definitivo con la Russia, la Gran Bretagna ovviamente
teneva molto di più a quest’alleato, storicamente e irriducibilmente antiturco, che a far
rivivere una Turchia che nell’impotenza giorno dopo giorno perdeva i territori.
Insomma, scelte epocali che sia da una parte che dall’altra fecero sì che una delle più
salde alleanze ottocentesche, proprio agli albori del Novecento, subisse una
degradazione tale da spingere i suoi componenti ad essere nemici giurati proprio alla
vigilia della Prima Guerra Mondiale.
La ricerca storica di un argomento del genere impone un’elencazione
precisa di tutti i materiali che, come ho accennato pure prima, necessita di
circoscrizione tematica. In sé l’oggetto di studio è ampissimo, quindi occorre precisare
che lo spazio dei miei interessi si è concentrato sulla direzione degli affari esteri –
innanzitutto ottomano – lasciando in margine le spiegazioni più approfondite per quanto
riguarda le vicende storiche della politica interna nell’impero inglese e quello turco.
In primis l’occorrenza maggiore di materiale da usare come prima fonte mi
ha spinto nella ricerca di documenti ufficiali, scambi di note diplomatiche, dichiarazioni
governative ma anche opinioni personali di quelle che erano le personalità più influenti
10
dell’epoca. Il materiale derivante dagli uffici e dalle legate consolari turche è
ovviamente interpretabile da quella che era la lingua ottomana del tempo, che, prima
della riforma repubblicana avviata da Mustafa Qemal Ataturk, si decifrava in caratteri
arabi e in parte persiani. Documenti del genere sono stati disponibili – ovviamente
tradotti – dal eccezionale fondo di prime fonti della Biblioteca di Storia Moderna e
Contemporanea con sede a Roma. Sebbene l’operosità seria che un lavoro del genere
impone, avrebbe richiesto una ricerca più approfondita negli archivi della Foreign
Office, ho potuto trovare molti documenti provenienti da lì proprio nella stessa
istituzione citata prima. Anche nel regno Unito, come nella maggioranza degli altri
Paesi, l’archivio del Ministero degli Affari Esteri è separato in tutto dall’Archivio dello
Stato (che raduna tutti i dicasteri della restante amministrazione pubblica). Essendo il
mio uno studio che cerca di analizzare fatti ed eventi storici non troppo recenti (18781914) la disponibilità di documenti catalogati, e in più delle volte, pubblicati in volumi
divulgabili a tutti, è molto accessibile. Come sappiamo, c’è un margine di tempo il
quale incide sulla resa pubblica di certi documenti. Appunto, per questi documenti di
un’utilità d’informazione del periodo da me preso in esame, non soltanto sono
disponibili negli archivi inglesi, ma addirittura tradotti.
Nel fondo della Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea ho trovato
molti documenti ufficiali facenti parte dell’interscambio diplomatico del governo
inglese. Molti sono in inglese altri catalogati in vari compendi nella loro traduzione in
italiano. Tali compendi hanno un’elencazione in base agli anni per poi dopo procedere
in una catalogazione in base ai Paesi. Il funzionamento di questo metodo permette di
accedere in modo abbastanza veloce, in alcuni casi anche tramite via Internet, al periodo
1878-1914 per poi selezionare la voce “Ottoman Empire”. In quelli anni i governi
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occidentali godevano di molti privilegi nel loro trattamento diplomatico a
Costantinopoli. Oltre al regime delle Capitolazioni, abbastanza efficace nel dare una
propria voluta impostazione ai movimenti del governo turco, gli azionisti occidentali
godevano dell’extra-territorialità anche per quanto riguarda le poste le quali erano state
cedute dalla Sublime Porta a diverse compagnie francesi. Questo per spiegare il fatto
che negli archivi, inglesi in questo caso, e italiani esiste materiale di scambio fra
personalità e comunque fra autorità influenti all’epoca, molto più ampio di altri Paesi
europei. Le azioni eversive del Comitato “Unione e Progresso” (braccio politicomilitare dei Giovani Turchi) erano nella maggioranza dei casi sponsorizzati dalle legate
occidentali nella capitale e nelle altre città turche. Quindi parliamo di fascicoli, giornali
clandestini, manifesti, interscambio d’opinioni fra protagonisti dell’epoca, che proprio
per l’esistenza di un regime talmente incontrollato di posta, è possibile trovare oggi
negli archivi dei Ministeri degli Affari Esteri. In parte, insieme a molti giornali, rivistei
e approfondimenti di mensili dell’epoca, questi materiali possono essere consultati nella
Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea.
Oltre, essendo che la mia ricerca riguarda le mosse nella politica estera
ottomana e le reazioni derivanti della diplomazia inglese, ho ritenuto opportuno trovare
i riferimenti di fonti primarie nei due stupendi volumi di C.S. Lowe “British Foreign
Policy 1902-1914” e “British Foreign Policy: the documents 1902-1922”. Lo stesso si
può dire di uno dei testi più sistematici riguardo alla mia tematica – che nello specifico
non è stata molto trattata dalla storiografia contemporanea – che è il “British policy
toward the Ottoman Empire 1908-1914” di J. Heller.
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Capitolo I
Verso il gelo: l’alleanza anglo-turca e le ragioni del suo
deterioramento (1878-1898)
1. La geopolitica post-berlinese vista da Costantinopoli
Tracciare una linea di separazione fra le tendenze della diplomazia ottomana
antecedenti allo svolgimento del Congresso di Berlino e il nuovo paradigma di politica
estera che si sarebbe sviluppato subito dopo, impone l’individuazione di alcuni elementi
cruciali nella realtà geopolitica europea del tardo Ottocento. Le cosiddette “Crisi
d’Oriente”, emblema di una decadenza spirituale ancorché politica del potere
pluricentenario della Sublime Porta, erano diventate delle consuetudini, tramite le quali
le Grandi Potenze europee cercavano di regolare i conti dei propri interessi nelle aree
balcanica e medio orientale. Sia nel caso della prima Crisi d’Oriente, sfociata nella
guerra di Crimea (1853-56), sia nel caso della seconda (1875-78), conclusa con il
Congresso di Berlino, l’intervento politico e spesso esplicitamente militare da parte
delle Grandi Potenze, fu decisivo per una soluzione accettabile da tutte le parti in
gioco1. Partendo da questa fatto possiamo notare una chiara evoluzione storica nel
trattamento che le Potenze riservavano ai governanti di Costantinopoli. Confrontando le
diverse soluzioni di ciascuna crisi è impossibile non vedere differenze nel rapporto di
dipendenza politica cui l’Impero Ottomano doveva soggiacere da un periodo all’altro.
1
Va annotato che secondo l’opinione di molti storici – per citarne uno, basti il nome del
balcanologo francese Georges Castellan – le Crisi d’Oriente in verità furono ben tre durante il corso
dell’Ottocento. Infatti si annovera fra queste la crisi degli anni ’30 durante la quale il tentativo
secessionista di Mehemed Alì, pascià d’Egitto, nei confronti del Sultano coinvolse le maggiori Potenze
europee. A queste ultime, in particolare al Regno Unito, va attribuito il merito d’aver mantenuto la terra
dei Faraoni entro i confini della sovranità ottomana.
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Il congresso di Parigi (1856), chiudendo le trattative per la fine della guerra
turco-russa1, mise l’accento sul riconoscimento esplicito dell’Impero Ottomano come
facente parte del concerto europeo. Ne scaturì un trattato che, affermando il principio
dell’integrità ottomana, metteva quest’ultima per la prima volta de iure sotto la garanzia
delle Grandi Potenze. Questo fatto veniva rafforzato da due punti centrali delle
dichiarazioni finali, i quali affermavano il rispetto dell’integrità territoriale dello Stato
turco aggiungendo formalmente la non ingerenza nei suoi affari interni. Inoltre il Mar
Nero veniva dichiarato neutrale e per quanto riguarda gli Stretti, essi dovevano rimanere
chiusi in tempo di pace alle navi belliche.
Il Congresso di Berlino (15 giugno 1878), d’altro canto, asserì gli stessi
principi ma solo dopo aver già prestabilito delle consistenti modifiche nei confini
balcanici e non solo. Serbia, Montenegro e Romania, fino a quel momento solo
formalmente vincolati dalla sovranità ottomana, riuscivano ad ottenere la piena
indipendenza mentre la provincia bosniaca insieme al sancak di Novi Pazar, dopo essere
stati occupati militarmente dagli austro-ungarici, anche se soltanto a titolo
amministrativo, passavano per trenta anni sotto il “protettorato” di Vienna. Il rischio di
avere nei propri confini una Grande Bulgaria direttamente controllata dallo zar, fu
evitato soltanto al prezzo di dover cedere le province orientali di Kars e Ardahan e la
Bessarabia meridionale2 alla Russia, alla quale Costantinopoli avrebbe dovuto pagare
anche un’indennità di guerra. Infine, come forma di ricompensa per l’ennesima
dimostrazione di tutela che l’Impero Britannico aveva dato verso gli interessi ottomani
nello svolgimento dei lavori durante il Congresso, Costantinopoli cedette a Londra la
1
Doveroso ricordare che in tale conflitto presero parte anche le armate della Gran Bretagna,
della Francia di Napoleone III e della Sardegna di Cavour, schierate dalla parte di Costantinopoli.
2
La Bessarabia meridionale faceva parte dei Principati uniti della Romania (denominazione
dello Stato romeno antecedente al Congresso di Berlino). Per minimizzare questa perdita territoriale, in
compenso, a Bucarest venne dato il territorio della Dobrugia settentrionale, fino allora facente parte della
Bulgaria, a sua volta sotto sovranità ottomana.
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sovranità sull’isola di Cipro. Tra l’altro queste cessioni territoriali, di certo non
generose, oltre a segnare chiaramente una retrocessione delle posizioni ottomane nei
Balcani, furono accompagnate dal riconoscimento del diritto protocollare per le Grandi
Potenze (quindi Gran Bretagna, Francia, Russia, Austro-Ungheria, Italia e Germania) di
intervenire nel caso che il processo delle riforme nelle province abitate dagli Armeni
fosse stato ritenuto inadeguato.
Il processo di cambiamento dei confini non si fermò qua. Lo smembramento
del residuo territorio imperiale avanzò ulteriormente sia nell’entroterra balcanico sia nei
territori africani, da tempo questi ultimi non più inchinati alla volontà governativa del
Sultano. Nel 1881 la Tessaglia e una piccola parte dell’Epiro meridionale entrarono a
far parte della Grecia, mentre l’occupazione della Tunisia da parte della Francia (1881)
e l’impresa inglese in Egitto (1882) eliminarono anche quel margine di sovranità che il
potere ottomano conservava formalmente nel continente nero (eccetto il territorio libico
ancora de iure sotto Costantinopoli) . Inoltre, sebbene fosse rimasta nel seno
dell’Impero, la Bulgaria, dopo che le decisioni prese a Berlino l’avevano divisa
territorialmente1, nel 1885, acquisendo successiva autonomia, riuscì a far riunire due
parti integranti, a nord e a sud dei Balcani.
L’arricchimento territoriale che avvenne in questo modo alle spalle di una
formazione statale in continua decadenza, non fece altro che acuire la sostanziale crisi
morale che già da tempo pesava sulla responsabilità degli uomini di Stato ottomani.
Alla classe politica ottomana si presentava un gran quesito riguardante le scelte fino ad
ora fatte nell’orientamento delle alleanze internazionali. Con simili risultati politici si
1
Tagliando i fili alle speranze russe di un grande Stato bulgaro indipendente, le altre Potenze
avevano deciso la divisione del territorio bulgaro in due entità: il Principato di Bulgaria, autonoma
politicamente ma tributaria del sultano, e la Rumelia Orientale semi-autonoma ma con un governo
cristiano approvato da Costantinopoli. Un caso a parte costituiva la Macedonia, ordinario territorio
imperiale, sull’eredità della quale gli anni dopo Berlino vedranno vari irredentismi balcanici scatenarsi,
prima di tutti quello bulgaro.
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poteva ancora far affidamento sull’Europa? E poi, dietro tutte le questioni pratiche,
un’importante domanda necessitava sempre più di una doverosa risposta: alla fin fine
l’occidentalizzazione come condotta di civiltà era proprio la scelta migliore?
Tali questioni, sollevate in primis dalla società civile e dagli intellettuali, non
tardarono a proporle anche i politici più influenti. Per di più se in quei anni, con la sola
area albanese-macedone ancora in possesso e la fascia libica simbolicamente ottomana,
il tradizionale “Malato del Bosforo” appariva più che mai asiatico e mussulmano. Il
fatto che il continuum di perdite territoriali avveniva sotto lo sguardo e per di più sotto
diretta responsabilità di Londra e Parigi, faceva riflettere prima di tutti il sultano ‘Abdül
Hamid II. Stavolta non era la Russia che minacciava i possedimenti imperiali ottomani,
ma proprio due Stati che il regime della Sublime Porta aveva considerato il perno delle
sue alleanze in generale e in chiave anti-russa in particolare. Il passato non troppo
remoto1 giustificava in un certo senso le varie scelte filo-francesi e filo-inglesi ma era
più che visibile che i tempi erano cambiati. Ciò che sembrava evidente all’entourage
ottomana era che Francia e Gran Bretagna, desiderose di apparire come campioni
dell’integrità ottomana, facevano buon viso a cattivo gioco e il prezzo da pagare per la
loro protezione stava diventando troppo alto. La perdita di Cipro seguita dalle
operazioni francesi e inglesi in Tunisia ed Egitto, non facevano che avvalorare questa
tesi. Le interpretazioni potevano essere tante ma le soluzioni dovevano coincidere con il
mantenimento dell’Impero.
Negli anni dell’imperialismo colonialista l’atmosfera delle relazioni inter-statali
assumeva sempre più connotati di aggressività fra le Potenze. In questi giochi di
alleanze la Turchia aveva sempre e comunque potuto preservare se stessa. Ritenendosi
1
Parigi e Londra avevano giocato un ruolo fondamentale nella crisi del 1853 e nella successiva
guerra di Crimea fornendo un decisivo aiuto militare alla Turchia in diretto conflitto con lo zar.
16
deficitaria rispetto ai guadagni degli alleati storici, l’inizio degli anni ’80 vede la
Turchia sul “mercato” delle alleanze europee. Erano anni sicuramente non chiari per
capire i vantaggi di un approccio diplomatico piuttosto che un altro. Il Vecchio
Continente era in una fase storicamente transitoria dove il passato – l’equilibrio
metternichiano della potenza – era stato superato dall’ouverture del II Reich. Ma
azzardare un possibile accordo con qualsiasi Grande Potenza era anche una rischiosa
scommessa sul futuro dato che ancora non erano chiare le alleanze possibili fra le grandi
capitali europee. Questo valeva per gli Stati balcanici neoindipendenti ma valeva
soprattutto per il “Malato del Bosforo” il quale non poteva certo sopravvivere senza la
protezione di un “amico” potente. Costantinopoli non si fidava più di Parigi e Londra
ma non poteva neanche prendere qualsiasi iniziativa liberamente, dato che,
economicamente per la Francia e strategicamente per l’Inghilterra, l’Impero Ottomano
era una risorsa che difficilmente avrebbero lasciato senza combattere anche contro il
Sultano stesso. Hamid di certo non poteva abbandonare un’alleanza costosa ma efficace
per una incerta. L’obiettivo di questa tesi è anche quello di far capire che ogni mossa
ottomana in politica estera era duramente condizionata dagli sviluppi internazionali che
avvenivano sulla scena europea.
Come vedremo, i principali orientamenti delle più importanti capitali europee
non erano molto chiari. C’era una gran confusione presso tutte le Cancellerie
diplomatiche avendo queste capito che l’epoca della concordanza fra i cugini sovrani
seguita alle battaglie napoleoniche era da tempo finita. Oltre ad una concertazione
ereditata dal Congresso di Vienna (1815) le Grandi Potenze dell’epoca ancora non
avevano ben chiarito la direzione delle loro offensive diplomatiche. Il futuro di ciascuna
Potenza non era scontato e i tempi dell’antagonismo fra due alleanze continentali –
17
Triplice Intesa ed Imperi Centrali – ancora non erano venuti. Innanzitutto per
Costantinopoli allearsi con un’altra Potenza, che non fosse Francia e Inghilterra, voleva
dire trasferire a questa tutti i privilegi di qualsiasi tipo che Parigi e Londra già
godevano. Ovviamente questi ultimi due non l’avrebbero mai permesso e nessun
governo era disposto a rischiare una guerra con Inghilterra e Francia per le sorti di un
Impero Ottomano che a malapena si reggeva in piedi. In tale contesto, non certo adatto
per avventurismi diplomatici, Hamid mise il suo Impero in una silenziosa aspettativa
muovendosi con cautela e calcoli sempre più sofisticati verso un cambiamento in
politica estera che solo nei primi del Novecento diventerà dichiarato.
Per il momento l’Europa tardo-bismarckiana si presentava davanti agli
osservatori ottomani come un affresco non chiaro di interessi – e di conseguenti
conflittualità – ancora latenti. Il Regno Unito, se da una parte era, come per tradizione
imperiale, preso dagli eventi extra-europei, dall’altra non nascondeva la sua rivalità per
le risorse africane con la Terza Repubblica francese. Quest’ultima era uscita
dall’isolamento che la diplomazia del Cancelliere di Ferro le aveva causato durante gli
anni ‘70 e riuscì a trovare un buon accordo con gli Inglesi sulla Tunisia. Ovviamente
non c’era segno di alleanza; anzi Londra temeva molto l’intesa possibile fra Parigi e
Pietroburgo, i cui interessi erano spesso in conflitto con quelli britannici in Asia
Centrale. Naturalmente gli occhi di ‘Abdül Hamid si puntano verso Berlino, Potenza di
punta della concertazione europea, ma nello schema di alleanze escogitate da Bismarck
l’Impero Ottomano non risultava determinante. Il fine di Bismarck rimaneva una pace
duratura per la Germania, la quale dopo l’unità era entrata nella sua fase di stabilità,
dedita alla conservazione delle vittorie ottenute negli anni ’60-’70 contro Austria e
Francia. L’equilibrio europeo spesso nella storia della diplomazia moderna trovava il
18
suo punto di splendore quando l’Est europeo rimaneva immune da conflitti fra Russia e
Impero Asburgico. Così almeno riteneva il capo del governo tedesco, il quale prefissato
lo scopo, trovò il mezzo d’attuazione nella Seconda Lega degli Imperatori (1881) fra
Impero tedesco, Austria e Russia, vero atto di arbitraggio nelle controversie austrorusse1. Ovviamente c’era chi mal sopportava questo schema germano-centrico e in tutti i
modi, in particolare sfruttando mezzi economico-finanziari, cercava di evitarlo. Fu il
caso della Francia – la prima Lega degli Imperatori (1872) aveva come scopo il suo
isolamento diplomatico – la quale cercò in primis l’espansione mediterranea e poi una
possibile intesa con la Russia. Ci riuscì dopo che la tela cadde sulla scena bismarckiana
(1892) e in ciò contribuì anche il fatto che nel bene o nel male gli interessi francesi e
russi convergevano su Costantinopoli.
In questa situazione il Sultano restava alla ricerca di un alleato mantenendo
un distacco non netto – l’influenza inglese lo rendeva impossibile – con Londra.
Oltretutto, pure quest’ultima si sentiva alquanto isolata. L’avvicinamento fra Parigi e
Pietroburgo era un ottimo motivo per non cambiare alleanza, sebbene a proposito
dell’Impero Ottomano, in questo caos di alleanze anche Londra iniziava a pensarla
diversamente. Con l’avvento della Germania post-bismarckiana, la Russia non rinnovò
più la Lega degli Imperatori e preferì attuare un’alleanza di più ampio raggio con la
Francia. Nel 1892 le due Potenze firmarono l’Entente Cordelle mentre la Germania, già
nel 1882 temendo proprio una rivalità con la Russia, aveva firmato con l’AustriaUngheria e l’Italia la Triplice Alleanza. Più tardi, dopo aver superato altri momenti di
crisi internazionali (come l’incidente di Fashoda e le conflittualità sull’Africa) anche
1
Impedendo screzi e conflitti armati fra i due contendenti nei Balcani e oltre, la Lega degli
Imperatori si basava sulla garanzia per gli Stretti e sulla divisione in sfere di influenza fra Russia e
Austria-Ungheria dell’Europa dell’Est. Di conseguenza Vienna cercò un sistema di alleanza con la Serbia
nello stesso 1881 e con la Romania nel 1883.
19
Londra entrò a far parte della Intesa Cordiale. Di tutti questi passaggi, importanti per
capire molti risvolti epocali, ne parleremo in seguito, anche perché essi sono
importantissimi per analizzare la condotta di Londra verso Costantinopoli e viceversa.
Lo spettro della Grande Guerra, già prima della Belle Epoque, bussava alle porte del
Vecchio Continente. Contestualizzata in questi sviluppi la decadente alleanza angloottomana ne subiva tutti gli influssi.
1. Il principio dell’integrità ottomana e gli interessi britannici
nell’area
Non si può tralasciare un fatto abbastanza chiaro per la nostra analisi: ogni passo
ottomano verso la ricerca di un nuovo “protettore”, ogni tentativo di trovare
“scorciatoie” diplomatiche verso tale fine, effettivamente teneva conto anche di un
raffreddamento palese che proveniva dalla Cancelleria inglese dell’epoca. L’arrivo dei
Liberali alla guida del governo londinese, la metamorfosi subita dal loro capo William
Ewart Gladstone nei confronti del tradizionale alleato turco dopo l’evidenza dei
cosiddetti “orrori bulgari”, facevano pensare a Costantinopoli che Londra stesse
preparando nuovi piani d’azione riguardanti l’area ottomana. L’invasione dell’Egitto e i
progetti di costruire basi militari nella zona di Suez, come nella stessa Cipro, non
facevano che aumentare i dubbi dei politici hamidiani. L’elementare considerazione
sulla quale per decenni Londra prefissava nel perno dei suoi obiettivi strategici la
20
protezione dell’integrità ottomana, veniva da sempre spiegata, almeno a titolo analitico,
attraverso la difesa dei suoi cruciali collegamenti commerciali con il subcontinente
indiano e il Golfo Persico. Fra queste perle dell’Impero Britannico e il Mediterraneo,
base della flotta inglese, si estendeva l’Impero degli Osmanli; rassicurare e difendere
questo Stato in perenne agitazione era per Londra la preoccupazione principale. Prima e
dopo l’apertura del Canale di Suez, uno Stato forte, in grado di controllare
Costantinopoli e gli Stretti - il quale di conseguenza avrebbe potuto avere il libero
accesso sull’Egeo, e vie cruciali del Caucaso, passando per l’Armenia verso la
Mesopotamia e il Golfo Persico - sarebbe stato una minaccia permanente sulle vie
commerciali per l’India. Quest’ultima era il gioiello dell’Inghilterra, e come Disraeli
affermava, la vera essenza dell’Impero. L’assicurazione dell’integrità territoriale di
Costantinopoli era il mezzo più sicuro per la sua salvaguardia. La stessa equazione
geografica valeva anche per i territori interni asiatici dove la paura dell’espansionismo
russo verso l’India portava i governi inglesi a far affidamento su una sottospecie di
protezionismo politico nei riguardi del già disintegrante Impero Ottomano. Questa
forma di utilitarismo politico, divenuto
il dogma per eccellenza dell’arsenale
diplomatico inglese, fu usato nel 1833 contro la Russia e nel 1840 contro Mohamed Alì
e Luigi Filippo. Gli stessi Francesi dopo lo adottarono e nell’entrata vittoriosa a
Sebastopoli consacrarono il principio dell’integrità ottomana come uno dei fondamenti
dell’equilibrio europeo avendo anch’essi molti interessi da difendere in Oriente1.
Durante il secolo XIX l’idea secondo la quale l’espansionismo russo era il
peggior nemico degli interessi britannici nel mondo era diventata sempre di più il luogo
comune dell’opinione pubblica europea. Anche per il fatto che la Russia zarista durante
1
René Pinon, L’Europe et l’Empire Ottoman. Les aspects actuels de la Question d’Orient ,
Librairie Académique, Paris, 1917, pag. 43
21
la seconda metà dell’Ottocento aveva elaborato un piano di conquista, diventato
consueto, con il quale sempre più dominando le steppe centrali dell’Asia, si avvicinava
all’India Britannica. La “vittima” delle aggressioni russe spesso si trovava così lontana
dal centro degli affari internazionali, che in pochi erano gli Occidentali i quali avevano
una chiara idea di ciò che stava accadendo. Di tutte le Grandi Potenze solo il governo
di Sua Maestà si preoccupava delle sorti dell’Asia centrale, anche perché le altre non
avevano interessi diretti da difendere. Infatti con l’avanzamento dell’espansionismo
russo nel Sud, aumentavano anche le giustificazioni teoriche del Primo Ministro russo,
il principe Alessandro Gorčakov, il quale – come egli stesso affermava - spesso non
sapeva che cosa attuava ed escogitava l’esercito russo1. Si ripeteva sempre davanti alla
rappresentanza diplomatica inglese che gli avanzamenti territoriali verso il Pakistan non
avvenivano per diretta pressione dello Zar, anche se nella fattispecie si trattava di un
monarca assoluto, ma per il ruolo dominante che ricopriva l’amministrazione militare.
“E’ assolutamente doveroso che in presenza di grossi concentramenti militari si trovi il
modo per tenere attive le truppe… Quando inizia il sistema delle conquiste,
l’appropriazione di un territorio porta ad un altro e la più grande difficoltà diventa
quella di fermarsi2”. Nel 1868, dopo che l’esercito russo aveva invaso Samarcanda
(nell’odierno Uzbekistan), Gorčakov disse all’ambasciatore inglese in Russia, sir
Andrew Buchanan, che il suo gabinetto non solo era stato costretto all’occupazione
della città ma avrebbe abbandonato in brevissimi tempi le sue postazioni là 3. All’inizio
tali perifrasi diplomatiche riuscivano per il momento ad attenuare i timori abbastanza
espliciti delle autorità britanniche. Ma dopo che lo stesso giochetto venne usato nel
1
Henry Kissinger, Diplomacy, New York, 1994, pag. 150
Lord Augustus Loftus (all’epoca ambasciatore britannico a Pietroburgo) Diplomatic
Reminiscenses, serie II, riportato in Henry Kissinger, op.cit., pag. 151
3
Ovviamente la città rimase sotto la sovranità russa fino alla disintegrazione dell’Unione
Sovietica.
2
22
1872 e 1875 per l’invasione lampo di Kiva e Kokand, due principati (khanati) a nord
dell’Afganistan1, il problema del contenimento dell’avanzata russa nei confronti dei
possedimenti coloniali britannici divenne inevitabilmente urgente. Questo significava
che a questo temuto allargamento russo verso l’India gli Inglesi dovevano far fronte
tramite il rafforzamento, o perlomeno la difesa, del più grande nemico russo nel Medio
Oriente: appunto l’Impero Ottomano.
Quando la poltrona di premier toccò a Benjamin Disraeli2, il primo Conte di
Beaconsfield non aveva la benché minima intenzione di lasciar fare gli stessi giochetti
in relazione a Costantinopoli. Spingendo i Turchi a rifiutare il Memorandum di
Berlino3, egli lasciò mano libera al Sultano per la dura repressione dell’insurrezione
bulgara. Però furono proprio le barbarie turche in quella occasione a far rivoltare contro
l’Impero Ottomano l’opinione pubblica inglese ed a far definire immorale da parte di
Gladstone la politica diplomatica del suo rivale conservatore. Tuttavia il Primo Ministro
inglese non rimase solo. Dal 1815, in Europa, esisteva l’opinione generica secondo la
quale il destino dell’Impero Ottomano doveva essere deciso in una soluzione concertata
e non da una sola Potenza, perlomeno non dalla Russia. La reazione militare russa –
seguita alle reazioni ottomane contro i Bulgari - e lo stesso Trattato di Santo Stefano,
1
Henry Kissiger, Diplomacy. cit., pag 152
Benjamin Disraeli, Primo Conte di Beaconsfield (1804 -1881). È stato Primo Ministro del
Regno Unito due volte: dal 27 febbraio al 3 dicembre 1868 e dal 1874 al 1880. Di origine ebraica, si
convertì alla fede anglicana. Ben presto Disraeli entrò nella vita politica nelle file dei Whigs (Liberali) per
poi passare ai Conservatori a seguito di un rovescio elettorale. Tra il 1859 ed il 1867 è stato uno dei capi
dell'opposizione al governo liberale in carica e nel 1868 divenne primo ministro, per cadere poco dopo a
causa di una riforma elettorale che riportò al governo i liberali. Eletto nuovamente primo ministro nel
1874, si distinse per un politica estera vigorosamente imperialistica. Nel 1876 fece proclamare la regina
Vittoria imperatrice delle Indie. In politica interna attuò delle misure economiche atte ad andare incontro
ai ceti più disagiati ed allargò la base censoria dei cittadini con diritto di voto. Nel 1880 fu
inaspettatamente sconfitto dai Liberali di William Ewart Gladstone e si ritirò
2
3
Il Memorandum di Berlino, (13 maggio del 1876), firmato dal ministro degli Esteri asburgico
Andràssy, includeva una serie di riforme da attuare a favore delle popolazioni cristiane nell’Impero
Ottomano. Sostenuto anche dai Russi, questo memorandum prevedeva anche delle sanzioni in caso di
mancato adempimento.
23
imposto dal brillante generale Ignatiev, prospettavano la possibilità del controllo degli
Stretti da parte di Pietroburgo – assolutamente inaccettabile da parte inglese per gli
stessi interessi che su abbiamo indicato – e l’influenza dominante della politica russa
sugli Slavi balcanici – cosa non accettabile da parte del governo austro-ungherese.
Stavolta era lo Zar a trovarsi alle strette, da una parte con la minaccia inglese di guerra
se le truppe russe toccavano Costantinopoli e dall’altra con la stessa minaccia da parte
di Vienna se la spartizione dei Balcani non fosse avvenuta in coerenza con gli interessi
austro-ungheresi nella penisola.
Era chiaro che il Congresso di Berlino agendo come un ennesimo tentativo
di salvaguardia dell’integrità – più politica che territoriale – dell’Impero Ottomano, per
Londra sarebbe stato anche l’ultimo atto con il quale gli Inglesi creavano il retroterra
diplomatico classico nella protezione dei loro interessi asiatici. Seguendo una tradizione
già consolidata dai tempi di Canning, resa celebre con Palmerstone, Disraeli ancora una
volta sceglieva di fare il possibile per il mantenimento in vita dell’Impero turco,
rischiando con ciò anche la guerra con lo Zar. Il risultato fu evidente: sebbene la Russia
avesse vinto la guerra sul campo contro la Turchia, la sua partita diplomatica fu
perdente nei confronti degli Inglesi a Berlino. Il Congresso di Berlino, per esplicita
volontà inglese non toccò il regime internazionale che vigeva sugli Stretti, stabilito dalle
convenzioni del 1841, 1856 e del 1871. L’articolo 63 del trattato di Berlino recitava:
The Treaty of Paris of March 30, 1856, as well as the
Treaty of London of March 13, 1871, are maintained in all such
24
of their provisions as are not abrogated or modified by the
preceding stipulations1.
Tale articolo, implicitamente annullava l’articolo 24 del Trattato di Santo
Stefano che modificava appunto il regime internazionale degli Stretti. La sua
interpretazione, e la conseguente natura dei rapporti fra Sultano e Potenze, venne a capo
di una grande divergenza fra Inghilterra e Russia.
Nella riunione parlamentare del 11 luglio 1878, Lord Salisbury, segretario
agli Esteri di Sua Maestà Vittoria, ed insieme a Disraeli rappresentante dell’Impero
Britannico a Berlino, fece la seguente dichiarazione:
Considérant que le Traité de Berlin changera une partie
importante des arrangements sanctionnés par le Traité de Paris
de 1856 et que l’interprétation de l’article 2 du traité de
Londres peut aussi être sujette à des contestations, je déclare,
de part de l’Angleterre, que les obligations de Sa Majesté
britannique, concernant la clôture des Détroits, se bornent à un
engagement envers le Sultan à respecter à cet égard les
déterminations de Sa Majesté, conformes à l’esprit des traités
existant2.
1
Great Britain, Parlamentary papers, 1878, vol. 83, 690-705 in Diplomacy in the Near and
Middle East. A documentary record 1535-1914, by J.C. Hurewitz, D.Van Nostrand Company, INC, New
York, 1956, vol. 1, pag. 91
2
René Pinon, L’Europe et l’Empire Ottoman, cit. pag. 84
25
L’indomani, il conte Šuvalov, omologo di Salisbury, domandò l’inserimento
nel protocollo di una dichiarazione sullo stesso soggetto:
Les plénipotentiaires de Russie, sans pouvoir se rendre
exactement compte de la pro position de M. le second
plénipotentiaire de la Grande-Bretagne, concernant la clôture
des Détroits, se bornent demander, de leur côté, l’insertion au
protocole de l’observation, qu’à leur avis, le principe de la
clôture des Détroits est un principe européen net que les
stipulations conclues à cet égard en 1841, 1856 et 1871
confirmées actuellement par le traité de Berlin, sont
obligatoires de la part de toutes les puissances…non seulement
vis-à-vis du Sultan, mais encore de toutes les puissances de ces
transactions1.
Ora, giuridicamente inteso, una semplice dichiarazione inserita in un
protocollo non può avere la forza di modificare un principio – quello stabilito
internazionalmente a proposito degli Stretti – consacrato da più convenzioni. Ma non
dimentichiamoci che il congresso berlinese prima di costituire una fonte per la
normativa internazionale, era stato il trionfo della politica estera britannica. Siccome
lord Beaconsfield aveva salvato l’Impero Ottomano da un’umiliante fine, la sua volontà
faceva legge a Costantinopoli. In questo senso assicurare al Sultano il diritto d’apertura
o chiusura degli Stretti voleva dire donare questa esclusività alla Gran Bretagna
medesima. Del resto tale implicita interpretazione venne resa chiara anche da Salisbury
1
Ivi. pag. 84
26
in persona nel 1885 – ora nella veste di premier – il quale ammise la possibilità che se
eventualmente il Sultano in circostanze particolari non dovesse agire per volontà propria
ma sotto pressione di un'altra Potenza, l’Inghilterra si riservava il diritto di intervenire
nel Bosforo senza offrire motivazioni alle altre cancellerie1. Con l’acquisizione di Cipro
l’Inghilterra otteneva anche una base militare permanente per la sua flotta nel
Mediterraneo Orientale. L’impresa d’Egitto inoltre non dava nessun adito affinché non
si pensasse che interessi prettamente economici non spingevano Londra a prendere in
mano anche la stessa governabilità amministrativa e politica di un Paese qualora lo
ritenesse giusto.
Tornando quindi sui dubbi iniziali delle autorità di Costantinopoli, queste si
chiedevano se il raffreddamento post-berlinese di Londra – che a volta sfociava in atti
prettamente anti-turchi, come la concordia con Parigi intorno alla conquista francese
della
Tunisia
o
la
stessa
occupazione
dell’Egitto
–
questo
cambiamento
comportamentale insomma, non fosse dovuto ad una diversa strategia, non più filo-turca
quindi, per difendere i propri interessi verso i Russi. In ogni caso le scelte erano due e la
paura che gli Inglesi “avessero scelto il Cairo invece di Costantinopoli” – dopo la
conquista dell’Egitto - spingeva le più alte personalità vicine ad ‘Abdül Hamid II a
mutare le equazioni oramai classiche dell’orientamento diplomatico turco2. Primo:
l’alleanza con Londra, sebbene era stata efficace per la durata della vita dell’Impero,
soprattutto dopo Berlino, si era dimostrata molto costosa. Secondo: se gli Inglesi
sembravano così riluttanti, a differenza di prima, a difendere, ma anzi insistono con
manifestazioni a favore di movimenti separatisti dentro l’Impero (vedi questione
1
Ivi. pag. 86
Questa è una famosa tesi lanciata negli anni ottanta del Novecento dallo storico Keith M.
Willson. Per la sua importanza cruciale nell’interpretazione del raffreddamento diplomatico fra
Costantinopoli e Londra torneremo a discuterla nel prossimo paragrafo.
2
27
armena), forse erano anch’essi alla ricerca di un nuovo alleato in chiave anti-russa in
Asia. Restavano pur sempre dei dubbi, ma l’impressione dei Turchi era che Londra, per
fermare l’espansionismo russo in Asia, adesso facesse più affidamento su un
protettorato inglese in Armenia o su diretti collegamenti con gli Arabi o magari con la
causa bulgara.
I primi screzi pubblicamente ammessi nelle relazioni diplomatiche angloottomane si ebbero durante i due gabinetti Gladstone (1880-1885 e 1886). Senza nulla
togliere alle riflessioni e alla metamorfosi della politica estera ottomana, la personalità e
l’influenza decisiva che William Ewart Gladstone1 ebbe sulla diplomazia inglese
sicuramente contribuirono ad aumentare il raffreddamento fra Costantinopoli e Londra.
Nelle relazioni internazionali rimane sempre un po’ difficile parlare di amicizia sincera
fra due Paesi. Oggi sappiamo che l’impresa d’Egitto fu preparata già nel 1875 proprio
da quel governo Disraeli che tanto s’era speso sulla scena mondiale come protettore
degli interessi e dell’integrità territoriale turca. Tuttavia fu proprio la politica del suo
antagonista liberale a dare scacco matto ai tentativi di ripristinare la vecchia alleanza fra
i due Imperi. Notoriamente attaccato alle radici della fede cristiana, Gladstone aveva già
1
William Ewart Gladstone (1809 – 1898) Primo Ministro del Regno Unito per quattro volte:
dal 1868 al 1874, dal 1880 al 1885, nel 1886 e dal 1892 al 1894. E’ famosa nella storia parlamentare
britannica la sua rivalità con Disraeli. Iniziò la sua vita politica nelle file dei conservatori. Nel governo
conservatore di Aberdeen ricoprì la carica di cancelliere dello scacchiere riesaminando l'intero sistema
dell'income tax. A causa della sua ostilità verso il coinvolgimento britannico nella guerra di Crimea, si
dimise dal governo. Dopo le elezioni del 1859, Gladstone passò al partito Liberale di Palmerston che gli
offrì di nuovo la direzione del cancellierato dello scacchiere. Nel 1867 conquistò la leadership del partito
Liberale e nel 1868 divenne per la prima volta primo ministro. Il primo governo Gladstone avviò delle
profonde riforme tra le quali la separazione tra Stato e Chiesa in Irlanda e la riforma agraria. Battuto dai
Conservatori di Disraeli nelle elezioni del 1874 guidò l'opposizione sino al 1880, anno in cui, grazie ad
una schiacciante vittoria elettorale, formò il suo secondo governo che fu turbato da varie crisi
internazionali tra le quali la prima guerra Boera e l'uccisione di Gordon in Sudan nella guerra contro i
Dervisci del Mahdi. Il tentativo di concedere una larga autonomia all'Irlanda decretò la caduta del suo
terzo governo, il più breve, che durò meno di sei mesi. Dal 1 febbraio al 25 luglio del 1886. Quando nel
1892 tornò al governo ripresentò il suo progetto di autonomia irlandese e questa volta riuscì a farlo
approvare dal parlamento, ma la Camera dei Lords successivamente bocciò definitivamente la sua legge.
Nel 1893 si dimise da primo ministro per motivi di salute ma rimase deputato sino al 1895.
28
speso nel 1875 il suo capitale politico nel criticare la maggioranza conservatrice per
aver aiutato gli Ottomani anche dopo essersi resi responsabili degli “orrori bulgari”. La
spietata repressione ottomana suscitò non solo un’ondata di simpatia verso
l’insurrezione bulgara da parte dell’opinione pubblica inglese ma anche una grande
indignazione tale che il capo dei Liberali alla Camera dei Comuni cercò di sfruttare al
massimo per i suoi fini elettorali. Sicuramente Disraeli ebbe successo nella conduzione
della politica estera britannica durante la seconda Crisi d’Oriente, soprattutto per quel
che riguarda il tentativo di sminuire la portata dell’influenza russa nei Balcani dopo il
Trattato di Santo Stefano. Ma in un’epoca nella quale il romanticismo nazionalistico
ebbe la meglio nei confronti del pragmatismo politico, il paternalismo cristiano di
Gladstone riuscì a far trionfare una politica che cercava di distogliere la troppa
attenzione da un impero ormai morente. Nel mezzo dei conflitti balcanici che
precedettero il Congresso di Berlino, Gladstone pubblico un famosissimo pamphlet dal
titolo “Bulgarian horrors and the Question of the East” (1876) nel quale la sua
posizione, di certo non ortodossa rispetto all’allora consolidata tradizione della
diplomazia britannica, appariva in netto contrasto con quella di Disraeli per quanto
riguarda l’appoggio incondizionato di quest’ultimo verso la Turchia. Il suo zelo
oratoriale è ben rispecchiabile in questi passi:
Let the Turks now carry away their abuses, in the only
possible manner, namely, by carrying off themselves. Their
Zaptiehs and their Mudirs, their Bimbashis and Yuzbachis, their
Kaimakans and their Pashas, one and all, bag and baggage,
shall, I hope, clear out from the province that they have
29
desolated and profaned. This thorough riddance, this most
blessed deliverance, is the only reparation we can make to those
heaps and heaps of dead, the violated purity alike of matron and
of maiden and of child; to the civilization which has been
affronted and shamed; to the laws of God, or, if you like, of
Allah; to the moral sense of mankind at large. There is not a
criminal in a European jail, there is not a criminal in the South
Sea Islands, whose indignation would not rise and over-boil at
the recital of that which has been done, which has too late been
examined, but which remains unvented, which has left behind
all the foul and all the fierce passions which produced it and
which may again spring up in another murderous harvest from
the soil soaked and reeking with blood and in the air tainted
with every imaginable deed of crime and shame. That such
things should be done once is a damning disgrace to the portion
of our race which did them; that the door should be left open to
their ever so barely possible repetition would spread that shame
over the world1.
Inoltre, da tempo diverse lobbies influenti nella diplomazia britannica si
erano convinte che l’entourage ottomana fosse ormai completamente incapace di
difendere gli interessi inglesi nel Mediterraneo Orientale e nel Medio Oriente. L’uscita
pubblica di Gladstone, a favore dei vari risorgimenti balcanici – per lo più di chiara
1
William Ewart Gladstone, Bulgarian horrors and the Question of the East, passi ripresi dal sito
web www.wikipedia.org, alla voce “Gladstone”.
30
ispirazione cristiana – e contro i metodi brutali dell’esercito ottomano, non fece altro
che supportare l’idea che la ricerca di un’alternativa a Costantinopoli era inevitabile. In
sintesi, Gladstone trovò una via già spianata che lui, sia per convinzione sia per
necessità di politica interna, contribuì a rendere semi-ufficiale1. Per il leader liberale si
sarebbe rivelata una carta vincente. I suoi discorsi durante la celeberrima campagna
midlothiana2 del 1880 avrebbero causato la perdita delle elezioni da parte dei
Conservatori. Il raffreddamento fra Londra e Impero Ottomano ebbe la sua pietra
miliare proprio in Gladstone, sebbene l’amministrazione hamidiana a Costantinopoli
certo non si impegnò nel miglioramento dei rapporti. I Turchi si limitarono soltanto ad
osservare che l’alleanza con gli Inglesi dava frutti solo a questi ultimi e comunque era
un’alleanza costosa (vedi Cipro). Nella scelta fra il tentativo di migliorare i rapporti e il
cambiamento di strategia, lo Yilldiz Saraji scelse quest’ultimo. La stessa cosa Londra
già, silenziosamente, aveva iniziato a fare. Tuttavia, va spiegato già adesso, che lo
strappo non avverrà mai del tutto. Il degrado dei rapporti anglo-turchi, iniziato dopo il
Congresso di Berlino e culminato nelle reciproche dichiarazioni di guerra nel 1914,
trovò origine nelle diffidenze di Gladstone ma ebbe le sue vere cause in ben altro.
3. Nuove tendenze nella politica estera turca: i sospetti di
‘Abdül Hamid verso Londra e il panislamismo
Imponendo una diversa interpretazione delle relazioni internazionali e dei
suoi rapporti con Londra, dopo l’impresa anglo-egiziana, la diplomazia hamidiana
operò un tentativo di ricerca di una nuova Potenza amica. Muovendosi in acque neutrali
1
Ricordiamo che la decisione politica di intraprendere l’occupazione dell’Egitto fu presa, a
discapito delle proteste ufficiali del governo turco, durante il ministero Gladstone del 1880-1885.
2
Passata alla storia come la prima vera campagna elettorale, quella midlothiana prende nome dal
seggio uninominale di Edinburghshire, o diversamente Midlothian, in Scozia, dove Gladstone vinse le
elezioni del 1880. Divenne famosa per una serie di discorsi concentrati nella critica della politica estera
disraeliana.
31
essa cercava di non dare agio a provocazioni anti-russe, in un periodo nel quale, dopo la
vittoria di Pirro a Berlino le ambizioni dello Zar verso gli Stretti iniziavano a
temperarsi. La politica estera russa aveva subito notevoli cambiamenti di rotta nei
decenni successivi al congresso di Berlino, il più significativo dei quali fu la definitiva
rottura con l’Austria-Ungheria e la Germania. Sebbene la Lega dei Tre Imperatori fosse
naufragata sugli scogli della crisi balcanica, nel giugno 1881 una nuova alleanza fra i tre
imperatori fu conclusa per la durata di tre anni e rinnovata per altri tre nel 1884.
Secondo la sua clausola essenziale, se una delle Potenze firmatarie, Germania, Austria e
Russia, si fosse trovata coinvolta in una guerra con una quarta Potenza, salvo la Turchia,
le altre due avrebbero mantenuto un’amichevole neutralità. Alessandro III infatti, dopo i
vari fallimenti dei suoi predecessori durante l’Ottocento, capiva benissimo che non
poteva mirare direttamente a Costantinopoli. La clausola “salvo la Turchia” intendeva
proprio questo. Anche una Potenza amica, come l’Impero Asburgico, nel caso
dell’Impero Ottomano, non sarebbe certo rimasto in una “amichevole neutralità” se
Pietroburgo si fosse azzardato a toccare territori d’interesse esplicitamente d’interesse
austriaco come i Balcani. A differenza del trattato originario fra i tre Imperi
conservatori (quello del ’71) lo scopo degli altri due non era più l’antagonismo con la
Francia, vero obbiettivo di Bismarck che vedeva la sicurezza della Germania
nell’isolamento di Parigi. Da parte di Pietroburgo non poteva essere più così. La Francia
restava l’unico possibile partner nella lunga prospettiva, oltre ad avere molto da offrire
economicamente. Molte istanze politiche russe – in particolare il prudente ministro
degli Esteri Nikolaj Giers - diffidavano di queste scelte, anche perché il tradizionale
orientamento filotedesco della diplomazia russa era duro a morire. Ma d’altro canto i
Francesi si rivelarono prontissimi a sottoscrivere i prestiti di Stato russi, oltre ad
32
investire direttamente nell’economia russa. Inoltre questo fatto non obbligava soltanto a
scelte nei confronti di Parigi ma anche nei confronti di Costantinopoli dove il capitale
francese superava quello inglese, ed era diventato predominante1. Il continuo
finanziamento francese naturalmente richiedeva come conditio sin qua non una
pacificazione – nei limiti del possibile - dei rapporti russo-turchi. Seguendo tale
direzione, la scelta della normalizzazione dei rapporti fra Costantinopoli e Pietroburgo
in funzione del mantenimento dello status-quo inizia ad essere vincente anche per un
precisa mira espansionistica russa stavolta in direzione dell’Estremo Oriente. Si rivela
quindi abbastanza chiaro il perché Hamid II vedesse più allarmato le mosse inglesi – in
un periodo fra l’altro nel quale il governo londinese stava insistendo troppo per l’avvio
delle riforme nelle regioni abitate dagli Armeni – di quanto facesse nei riguardi del
tradizionale nemico del Nord2.
In ogni caso, per quanto riguarda il Sultano, abbiamo a che fare con uno
statista abbastanza prudente nel giudicare totalmente erronea una condotta autarchica
nella politica estera da parte di Costantinopoli. Tale realismo portò il suo entourage ad
auspicare un nuovo protettore, ovviamente nella veste di alleato, in un tempo in cui le
finanze dell’Impero si reggevano soltanto grazie agli investimenti occidentali. Sebbene
la Francia stesse acquisendo nettamente la superiorità economica rispetto alle altre
Potenze – sostenendo a volte anche la debole politica estera ottomana -, nella sua
fattispecie, il governo di Parigi rimaneva ancora debole politicamente3. Vecchio alleato
a fianco degli Inglesi, il governo francese tuttavia non aveva tutte le carte in regola per
potersi considerare ancora affidabile da parte turca. L’occupazione francese della
Tunisia era stata sicuramente più il risultato della rivalità italo-francese in Nord Africa
1
Nicholas V. Riasanovsky, Storia della Russia, RCS Libri, Milano, 2004, pag. 448-449
Histoire de l’Empire Ottoman, cit., pag.567
3
Ivi. pag.580
2
33
che di uno scontro diretto fra Parigi e Costantinopoli. Tuttavia il fatto che investimenti
finanziari - era dagli anni ’40 che la Francia era in tal senso presente in Tunisia - fossero
usati come mezzo politico per diminuire ulteriormente i possedimenti dell’Impero
Ottomano certo non produsse grande entusiasmo presso i Turchi. Effettivamente, dopo
la conquista dell’Algeria (1830) Parigi era abbastanza restia nell’intraprendere altre
avventure coloniali. Ma non volendo lasciare tutto a Roma, e avendo in tasca
l’approvazione inglese – era la ricompensa per la posizione accondiscendente verso
Londra nella Convenzione di Cipro1 – Parigi si decise a muoversi. Usando come
pretesto alcuni movimenti delle truppe tunisine nella frontiera algerina, l’esercito
francese riuscì ad occupare tutto il Paese, forzando il bey locale ad accettare la
“protezione” di Parigi. Ai Turchi non rimaneva che il fait accompli, dopo che le Potenze
in silenzio, Inghilterra per prima, approvarono l’azione francese2 con l’unica eccezione
dell’Italia.
Non si poteva neanche far affidamento sulla Germania bismarchiana la quale
sebbene avesse già intuito le ambizioni britanniche, lasciò mano libera al loro colpo di
mano in Egitto (1882). Tuttavia riguardo a questa seconda possibilità d’alleanza stretta
la diplomazia hamidiana rimase in aspettativa. La neutralità iniziale era anche un mezzo
per poter giudicare meglio un possibile rafforzamento dei contatti con Berlino, cosa che
la defenestrazione di Bismarck e il successivo orientamento tedesco verso la Weltpolitik
ben presto favorirà3.
Preoccupazione, dall’altro canto, destavano gli sviluppi in corso presso le
popolazioni arabe. Qua prendeva sempre più forma l’idea di un Califfato arabo usurpato
1
La convenzione di Cipro includeva una serie di accordi fra Costantinopoli e Londra riguardanti
le riforme che il governo turco doveva fare nelle zone abitate dagli Armeni. Dopo torneremo più
concretamente su questa tematica.
2
Stanford j. Shaw – Ezel Kural Shaw, History of Ottoman Empire and Modern Turkey, vol. II,
Cambridge University Press, London, 1977, pag. 192
3
Histoire de l’Empire Ottoman (sous le direction de Robert Mantran), cit. pag. 568
34
dal potere politico ottomano. Questo fatto, che preludeva all’infuocarsi di un vero e
proprio nazionalismo arabo, e ovviamente inaspriva ancora di più i rapporti fra Londra e
Costantinopoli. Era inevitabile che anche in questo caso ‘Abdül Hamid vedesse la mano
degli Inglesi, per di più se le idee sopracitate erano sostenute dai più noti giornali
britannici. Difese in principio dai cristiani maroniti con sede in Libano, le premesse del
nazionalismo arabo divennero sempre più conosciute a Londra soprattutto dopo la
pubblicazione nel 1881 del libro The future of Islam di Wilfrid Scaven Bluht, poeta e
agente britannico1. Uno scopo chiaramente più insurrezionale aveva il “Comitato arabo
della Turchia” con sede a Parigi. Fondato da Negib Azoury bey il comitato aveva
firmato il “Manifeste aux nations éclairéès et humanitaires de l’Europe et de l’Amérique
du Nord” invitando nel suo programma militari e in generale soggetti arabi, soggiogati
dal regime del Sultano, a ribellarsi, proclamando la loro volontà indipendentistica di
istaurare un’amministrazione araba in luogo di quella ottomana. Ovviamente alla figura
del Turco oppressore anche in questo caso veniva contrapposta la gloriosa reminiscenza
storica dei Califfati Ommiadi e Abassidi2.
In effetti, mai del tutto gli Arabi si erano inchinati all’occupazione ottomana.
Sebbene territorialmente
la penisola arabica appartenesse ufficialmente alla
giurisdizione del padiscià, l’indipendenza delle tribù nomadi era presso che indiscussa.
Il sultano ‘Abdül Hamid come i suoi predecessori, ereditava il titolo di Califfo – anche
se di certo Costantinopoli non fungeva da Roma dei Mussulmani sparsi nel mondo – ma
il suo compito spirituale diventava difficile per il fatto che il suo sangue non era arabo e
la parentela col Profeta era inesistente. Nei trent’anni che precedettero l’impresa
britannica in Egitto con l’azione politica, prima ancora che con la forza, sia per effetto
1
2
Ivi. pag.575
René Pinon, L’Europe et l’Empire Ottoman, cit. pagg. 380-381
35
delle divergenze fra i notabili locali, sia come conseguenza delle dissidenze religiose, i
valì di Costantinopoli erano riusciti nell’intento di porre a capo delle principali
agglomerazioni arabe delle personalità devote al potere ottomano. Soldi ed intrighi della
capitale turca, oltre a corteggiare il Gran Sceriffo della Mecca, avevano fatto sì che il
dispiegamento militare ottomano in Arabia fosse imponente. Il 7° Corpo d’Armata turco
venne stazionato a Sanaa, nello Yemen. Inoltre, tale penetrazione turca divenne
maggiore al crescere delle continue perdite territoriali che l’Impero subiva in Europa. In
tal modo, ‘Abdül Hamid non fece che ufficializzare la scelta asiatica a discapito di
quella europea.
Non fu in ogni caso un’operazione facile. Malgrado le importazioni delle
politiche hamidiane le rivolte anti-turche abbondavano nella penisola arabica. Più che
l’influenza inglese, a causarle erano soprattutto le spinte centrifughe dei capiclan locali.
Nel 1884 l’emiro di Nedjed, Ibn- Esseud aveva intrapreso la ricostruzione del vecchio
impero wahabita. Nel 1904 sconfisse l’emiro rivale dello Chammar, Abdel-Aziz-ibnRascid, il quale aveva messo la sua personale influenza a servizio della supremazia
ottomana. In seguito, alleandosi con Muberek, sultano del Kuwait – quest’ultimo
sostenuto dagli Inglesi aveva già fatto riconoscere la propria indipendenza – Ibn-Esseud
riuscirà progressivamente a riunire intorno a sé le principali tribù dell’Arabia centrale e
ad espandere la propria influenza fino ai nomadi del deserto siriano e alla Mesopotamia.
Sebbene si cercasse di reagire militarmente a questa volontà esplicita di secessionismo
arabo la politica del bastone funzionò ben poco con gli Arabi. Il comandante del 6°
Corpo d’Armata stanziato a Baghdad, Feizi pascià marciò contro gli insorti (estate
1904) ma, oltre a subire una clamorosa sconfitta, la sua azione da gendarme non fece
36
che aggravare la situazione. Infatti un’altra rivolta, stavolta nello Yemen subentrò poco
dopo1.
In tale contesto, una politica più accomodante e diplomatica verso le
popolazioni arabe divenne la priorità degli orientamenti ottomani nel Medio Oriente.
Volendo conquistare la simpatia almeno dei sudditi di bassa estrazione sociale, il
Califfo di Costantinopoli iniziò ad usare la carota al posto del bastone. Di lì a poco, la
voce della spesa pubblica che veniva pianificata per soddisfare le richieste della
popolazione araba, ben presto soppiantò i grandi finanziamenti che il governo stava già
facendo in Anatolia. Tra il 1882 e il 1908 furono costruite due ferrovie, delle quali la
prima riguardava la rete interna anatolica (lunga 1850 km) e la seconda abbracciava una
gran parte del mondo arabo estendendosi dalla Siria all’Hegiaz (lunga 2.350 km). La
seconda ferrovia, che collegava Damasco con la Mecca e Medina riguardava il 47%
delle costruzioni ferroviari imperiali, contro il 37% della ferrovia anatolica. Sebbene lo
scopo riconosciuto fosse di facilitare il pellegrinaggio delle masse islamiche verso le
città sante, l’intenzione reale era di semplificare le mobilitazione delle truppe in caso di
eventuali rivolte. Ma la ferrovia costituiva anche un motivo d’orgoglio essendo la più
grande opera pubblica costruita esclusivamente senza finanziamenti occidentali. Inoltre
la sua costruzione avveniva in un epoca in cui le grandi riforme istituzionali stavano
facendo avvicinare sempre più alcune personalità arabe nella leadership della capitale.
Ciò riguardava religiosi influenti vicini al Sultano, ministri (come il maronita libanese
Selim Melhame pascià) e il reclutamento di più ufficiali di provenienza araba2.
1
René Pinon, L’Europe et l’Empire Ottoman. Les aspects actuels de la question d’orient, cit.
2
Ivi. pag. 576
pag 378
37
4. L’invasione britannica dell’Egitto
4. 1. Genesi e svolta dell’impresa egiziana
L’occupazione dell’Egitto da parte della Gran Bretagna dal 1882 al 1922 trova
spiegazione in motivi di sicurezza nazionale, imperiale e prestigio internazionale da
parte di Londra. La salvaguardia di una via d’accesso che rendesse più facile il
collegamento fra il Mediterraneo e il Mar Rosso costituiva una costante preoccupazione
degli affari inglesi in India. Varie questioni di politica interna ed estera rendevano la
questione egiziana il fiore all’occhiello della diplomazia vittoriana. Fino al momento
dell’invasione l’attenzione di Londra era rivolta verso la sola questione della
Compagnia del Canale1. Nel novembre 1875, come abbiamo già detto in precedenza, fu
Disraeli stesso ad indicare alla regina Vittoria che “the Canal should belong to
England”, ritenendo la somma di 4.000.000 di sterline più che adeguata per la sua
acquisizione2. Fu lui stesso, come capo del governo inglese, ad acquistare quindi da
Ismail pascià i 9/20 delle azioni del Canale di Suez rendendosi pioniere della
penetrazione britannica in Africa settentrionale ed orientale.
1
Il canale tutt’oggi permette il trasporto su acqua dall'Europa all'Asia, senza circumnavigare
l'Africa. Prima della costruzione del canale, alcuni trasporti venivano effettuati scaricando le navi e
trasportando le merci via terra dal Mediterraneo al Mar Rosso (o viceversa), dove venivano reimbarcate.
Già nel 1504 alcuni mercanti veneziani proposero ai sultani mamelucchi regnanti in Egitto di collegare il
Mar Rosso con il Mediterraneo tagliando il canale di Suez. E di questa possibilità si parlò, in ambiente
ottomano, per tutto il corso del Cinquecento, in particolar modo nel 1568 con il gran visir Mehmed
pascià. Venne infine costruito tra il 1859 e il 1869 da una compagnia francese (Compagnie Universelle
du Canal Maritime de Suez) diretta da Ferdinand de Lesseps, mentre il progetto fu realizzato da Luigi
Negrelli, un ingegnere trentino. Il canale era di proprietà del governo egiziano e della Francia. La prima
nave lo attraversò il 17 febbraio 1867. Si stima che un milione e mezzo di egiziani lavorarono al canale, e
che 125.000 di essi morirono, principalmente a causa del colera. Il canale ebbe un effetto immediato e
fondamentale sui commerci mondiali e giocò un ruolo importante nell'aumentare la penetrazione europea
in Africa. Il debito estero costrinse l'Egitto a vendere la sua quota di partecipazione nel canale al Regno
Unito mentre la Francia già partecipava in qualità di prima nazione ad aver investito nella sua
costruzione.
2
David Steele, Britain and Egypt 1882-1914: the conteinment of Islamic Nationalism in
Imperialism and Nationalism in the Middle East. The anglo-egyptian experience 1882-1982 (edited by
Keith m. Wilson), Mansell Publishing Limited, London, 1983 pag I
38
Tuttavia l’acquisizione non supponeva il controllo assoluto del Canale, anche
perché le azioni controllate dai Inglesi (il 44% del totale) non avrebbero avuto diritto di
voto fino al 18951. I malintesi con Parigi dal altro canto erano tanti, e a Londra, ogni
azione francese che riguardava la direzione della Compagnia del Canale, veniva vista
con sospetto. In fondo, in Francia, ai vertici del potere, non si era mai rinunciato all’idea
napoleonica di invadere l’Egitto. Però, a torto o a ragione, l’acquisizione di Disraeli,
oltre ad impegnare le finanze britanniche in una ulteriore impresa coloniale, si dimostrò
anche un investimento particolarmente fruttuoso per il denaro pubblico. Soltanto fra il
1875 e il 1895 il governo di Sua Maestà ricevette dal Canale più di 200.000 sterline
all’anno2.
L’antagonismo fra le due Potenze liberali sul suolo africano non può venir
compreso senza tener conto tali interessi in crescita e soprattutto gli antecedenti
concernenti la perenne ricerca di bilanciamento di forze fra esse in Europa e Medio
Oriente. Nel 1829-1830, Francia e Inghilterra avevano potuto trovare un accordo sul
futuro della Grecia e del Belgio. Un po’ più difficile ma riuscito fu il consenso sulla
Turchia e i suoi possedimenti europei dopo la Guerra di Crimea (1854-1856). Su questa
scia, ciò che avvenne in Africa negli anni ’80 era un semplice continuum della
diplomazia europea con l’importante eccezione che né Austria né Russia nutrivano
ambizioni nel sud del Mediterraneo. Il tacito consenso inglese all’invasione di Tunisi da
parte della Francia costituiva una mera sub-clausola di generici accordi ricercati nel
momento in cui si discuteva il futuro dei Balcani.
Lord Salisbury, come Segretario degli Affari Esteri nel biennio 1878-1880 aveva
reso possibile l’istituzionalizzazione del controllo anglo-francese sulle finanze
1
Niall Ferguson, Empire: how Britain made the modern world, Penguin Books, London, 2004
2
Ivi. pag 232
pag. 231
39
dell’Egitto, onerate al massimo dall’indebitamento che il regime dei Khedivé1 aveva con
le banche occidentali. Nello stesso tempo, per impulso francese le finanze egiziane
venivano riorganizzate sotto il controllo diretto di una commissione multinazionale,
nella quale Inghilterra, Francia ed Italia avevano pari rappresentanza. Ad un’azione di
controllo seguì l’altra. Già nel 1876 l’istituzionalizzazione della Banca internazionale
per il Debito Pubblico creò le premesse per direttive politiche oltre che economiche.
Due anni più tardi, Parigi e Londra obbligarono l'Egitto a nominare due loro esperti alla
guida dei dicasteri delle Finanze e dei Lavori Pubblici. Nel 1881 infine, sfruttando
l'estrema debolezza del dominio turco e giustificando il proprio operato con la necessità
di proteggere gli investimenti europei nella zona del Canale di Suez, il Regno Unito e la
Francia crearono le condizioni per la sostituzione del Khedivé Ismail con il più
accondiscendente Tewfik2.
La situazione tuttavia non si tranquillizzò, anche perché, verso la fine del 1879,
prese piede una rivolta antieuropea guidata da un militare fanatico di nome Arabi
pascià. Per circa tre anni tale rivolta riguardò soltanto i centri periferici del Paese. Ma
quando verso la fine del 1881 la capitale stessa parve minacciata, senza comunicare
attraverso i canali formali con il Sultano, i governi di Parigi e Londra mandarono una
Nota al loro beniamino al Cairo, sottolineando la disponibilità ad intervenire in caso gli
interessi anglo-francesi fossero stati toccati3. Le proteste della Porta, seguite qualche
giorno dopo, nel gennaio del 1882, servirono a ben poco. Costantinopoli, oltreché
aiutare indirettamente il golpe militare di Arabi Pascià, aveva ben poco in mano. Anche
1
Il regime khediviale (letteralmente “vicereale”) fu la forma governativa istaurata in Egitto
durante l’epoca di Mehmed Alì pascià, formalmente ossequente nei confronti della Sublime Porta, ma
sostanzialmente del tutto autonoma. I viceré derivavano tutti dalla famiglia di Mehmed Alì, il primo
Khedivè de facto perché tale titolo fu riconosciuto dal sultano soltanto quando il trono egiziano venne
governato dal nipote Ismail pascià.
2
Daniel Steele, Britain and Egypt, cit. pag 5
3
Great Britain, Parlamentary papers, 1882, vol.82, pag. 6-7, 148-149, 182, in Diplomacy in the
Near and Middle East. A documentary record 1535-1914 by J.C. Hurewitz, cit., pagg. 195-196
40
se le due Potenze si guardavano bene dall’intraprendere azioni unilaterali in Egitto –
una circolare del Foreign Office del febbraio 1882 istruiva i suoi rappresentanti a
Vienna, Berlino e Roma proprio sull’insistenza a mantenere lo status-quo ottomano1 – il
rischio di anarchia appariva il più imminente pericolo da scongiurare. Nella prima metà
del 1882 i nazionalisti stavano diventando sempre più minacciosi verso le postazioni
anglo-francesi ad Alessandria e la posizione di Tewfiq sembrava sull’orlo del
precipizio. Sebbene nel maggio dello stesso anno truppe di Parigi e Londra
pattugliassero la costa egiziana, l’11 giugno disordini antieuropei esplosero nella città,
già centro della civiltà ellenistica, facendo temere per la vita di tutti i 37.000 Europei
residenti in Egitto.
Durante gli anni dell’opposizione, Gladstone s’era mostrato duramente contrario
all’ideologia imperialistica dei conservatori. Aveva criticato le guerre anglo-afgane e
demagogicamente, ben più di una volta, aveva dichiarato erronea l’acquisizione delle
azioni per il controllo del Canale voluto da Disraeli. Ma tornato al governo, alla metà
del 1880, il suo governo liberale attuò uno delle più grandi inversioni di marcia della
diplomazia vittoriana2. Dopo essere rimasto incerto fra l’azione congiunta con la
Francia e la piena internazionalizzazione del Canale, il capo dei Whigs mise in disparte
l’ultima scelta a favore della prima. Tante ragioni e troppi interessi andavano ben oltre
le promesse elettorali pacifistiche. Il ruolo di gendarme venne svolto però dalla sola
Royal Army, la quale senza esitare agì unilateralmente nel luglio del 1882 approfittando
di una crisi politica in Francia, che durante tutto l’anno paralizzò la sua politica estera3.
Spinto dai “falchi” del suo Gabinetto e avuta assicurazione dai Rothschild che la
1
Ibidem.
Niall Ferguson, op. cit. pag. 233
3
Il riferimento è ai fatti legati al fallimento della società bancaria “Union générale” (gennaio
1882), il primo grande crac della storia finanziaria francese, al quale, oltre una grande instabilità politica
e parlamentare, segui la crisi delle borse di Lione e Parigi.
2
41
Francia non si sarebbe opposta – loro stessi avevano finanziato Disraeli per
l’acquisizione delle azioni sul Canale – il 31 di luglio Gladstone dette ordine d’attacco
contro Arabi Pascià. L’entrata delle navi inglesi nel porto di Alessandria venne seguita
dalla fanteria del gen. sir Garnet Wolseley. Il 13 settembre, nello spazio di mezz’ora i
tre squadroni della Household Cavalry portarono a sorpresa l’assalto distruggendo più
della metà delle truppe di Arabi a Tel-el-Kebir. Il giorno dopo l’occupazione si estese al
Cairo; il leader della rivolta fu imprigionato e inviato in esilio a Ceylon1.
Dal momento che la possibilità di un conflitto fra Francia e Inghilterra si
dimostrò inesistente, dopo l’astensione fiacca di Parigi, Londra organizzò subito le
cerimonie per formalizzare il fait accompli. La prima conferenza sulla pace, organizzata
a Costantinopoli, fallì nel suo tentativo di produrre una formula condivisa. In quella
specifica occasione la performance diplomatica degli Ottomani fu veramente pessima.
Una ragione in più affinché la Gran Bretagna continuasse il suo permanente controllo
dell’Egitto. Ciò venne reso chiaro anche dalle azioni circostanti del Foreign Office. Il
mantenimento dell’autorità politica britannica al Cairo, almeno per la durata
dell’occupazione, fu l’idea chiara delle istruzioni circolari che il Segretario agli Esteri di
Gladstone, lord Granville mandò ai rappresentanti diplomatici inglesi nelle capitali
europee. In essa, oltre a prescrivere le ragioni per le quali Londra riteneva giusto
l’intervento armato in Egitto (The course of events has thrown upon Her Majesty’s
Government the task, which they would willingly have shared with other Powers, of
suppressing the military rebellion in Egypt, and restore peace in that country…British
force remains in Egypt for the preservation of public tranquillity2), il capo della
diplomazia inglese rendeva chiare le misure che il suo governo avrebbe attuato
1
Niall Ferguson, op. cit. pag 233
Great Britain, Parlamentary papers, 1883, vol. 83, pag. 38-40 in Diplomacy in the Near and
Middle… cit. pagg. 197-199
2
42
nell’amministrazione interna egiziana. In queste rientravano, oltre alla maggiore
accessibilità degli Occidentali in posti pubblici, la soppressione della schiavitù e l’idea
dello sviluppo politico in senso liberale delle istituzioni egiziane. Insomma, senza
lasciar adito a dubbi, chiaramente Londra esprimeva lo scopo di radicarsi bene nella
governabilità politica del Paese.
Del resto niente di nuovo vi era se guardiamo ai precedenti diplomatici. Già
nell’ottobre 1879, in una lettera mandata ad Edward Malet, emissario e console generale
di Sua Maestà in Egitto, Salisbury, in qualità di capo della Foreign Office sotto Disraeli
spiegava il senso delle azioni britanniche nel Nord Africa. Cercando di giustificare ogni
azione preventiva britannica continuava a considerare le implicazioni britanniche nel
Paese come non sovvertitrici del vigente regime politico.
:
The leading aim of our policy in Egypt is the maintenance of
the neutrality of that country, that is to say, the maintenance of
such a state of things that no great Power shall be more
powerful there than England…Egypt is too much in view of the
whole world and there are too many interests attaching to it…
An opinion would grow up in Europe in favour of intervention,
which, in this case would mean occupation; and if England
could not satisfy it, she would not be able to prevent some other
Power from doing so. They enable us to exercise a general
control without taking over the government. In the Oriental
countries,
where
Embassies
are
powerful,
the
native
competitors for place are very ready to enrol themselves as
43
clients of one Power or the other. But their friendship is not
trustworthy1.
Tuttavia, senza farsi scudo di qualsiasi promessa diplomatica, Salisbury
avvertiva:
It should further be born in mind that if the Ottoman Empire
were to fall to pieces, and Egypt become independent, the part
of Egypt which interests England is the sea-coast, including the
railway and the other communications across the Isthmus. If it
should happen that Egypt were divided and the sea-coast and
communications remained under the dominant influence of
England…England would have no reason to be dissatisfied with
it2.
Dopo aver ordinato l’inizio delle operazioni che avrebbero preceduto
l’instaurazione del regime coloniale inglese nel Cairo, Gladstone, a sua volta, avrebbe
spiegato a più parti che la sua intenzione non era quella di occupare del tutto l’Egitto,
non avendo altresì fra i suoi piani l’accelerazione della disgregazione ottomana. Infatti il
governo liberale britannico fece il possibile per dare un’immagine più accettabile ai
Turchi della sua impresa egiziana. Il prestigio internazionale di ‘Abdül Hamid, a pochi
anni da Berlino, aveva subito un duro colpo. I tentativi di accordarsi col Sultano per una
souzerainité turca sull’Egitto, ormai totalmente in mano inglese, furono fatti per
1
Great Britain, Pubblic Record Office F.O. 78/2997 in Diplomacy in the Near and Middle East ,
( a cura di J.C. Hurewitz) cit. pag. 191
2
Ivi. pag. 193
44
neutralizzare qualsiasi voglia disperata di rivincita da parte di Costantinopoli. Il
riconoscimento della speciale posizione inglese, sancito dalla Convenzione di
Costantinopoli (1885), fu troppo blando; non per niente
il Sultano vedeva
l’occupazione militare di una parte integrante del suo impero come un’azione
inaccettabile. In quella sede alle posizioni intransigenti di Hamid non furono estranee la
manifestazione di sostegno che Russia e Francia – in procinto di allearsi su diversi
scenari internazionali - fecero alla Turchia. La ricerca di un precedente politico al quale
si potesse ispirare il regime inglese in Egitto non dette in ogni caso risultati. Finché la
presenza londinese avesse continuato a costituire un anomalia, almeno comparandola
agli altri regimi coloniali, la posizione internazionale del Sultano avrebbe tratto il
massimo del vantaggio.
Salisbury ebbe in seguito successo lì dove Gladstone fallì, riuscendo ad adeguare
la posizione ufficiale di Costantinopoli alla piena volontà britannica1. L’ex-ministro di
Disraeli, ritornato al governo alla metà del 1885 istruì il suo emissario a Costantinopoli
Wolff perché accettasse i termini di una evacuazione britannica ma senza fissare limiti
di tempo. Il Sultano dovette accontentarsi di un condominuum anglo-turco, per il quale
Inghilterra e Turchia avrebbero mandato due rispettivi Alti Commissari presso il
Khedivé. Segui un’altra Convenzione di Costantinopoli (1887), stavolta senza
l’intromissione delle altre Potenze, e una terza ancora, l’anno dopo, sulla libera
navigazione attraverso il Canale di Suez. Con qualche premessa in più e con delle
rigorosissime precauzioni per il passaggio delle navi belliche nel Canale2, la
convenzione del 1888 cercò di dare l’assicurazione al Sultano che Suez non sarebbe
1
Ivi. pag 6
2
Per esempio, che una nave da guerra che passasse il Canale non doveva partecipare a nessun
atto bellico se non a tre miglia dall’uscita e dall’entrata di Suez; così pure due battelli nemici non
potevano passare il Canale se non a una distanza temporale di ventiquattro ore.
45
stato una minaccia alla sicurezza turca1. Lo status giuridico dell’Egitto in seno
all’Impero Britannico in realtà non fu mai chiarito fino alla sua indipendenza formale,
proclamata nel 1922. Già nella sopracitata Convenzione del 1887 la chiarezza
terminologica non era parte degli accordi fra Costantinopoli e Londra. L’art. V è
fondamentale per capire tale punto. La durata temporale della permanenza britannica in
Egitto veniva allungata a tre anni, estensibile se l’ordine pubblico in Egitto fosse messo
in pericolo da cause solo genericamente menzionate. Con tali indicazioni, il trovare un
alibi per il prolungamento della sua posizione militare al Cairo diventava un gioco da
ragazzi per Londra. I trent’anni della sua occupazione, durante i quali Londra indicherà
la sua colonia semplicemente come un possedimento della Corona, dimostreranno
l’estrema facilità con cui l’Inghilterra usò tali escamotage. Ed è proprio a partire
dall’esempio inglese in Egitto che nella lingua diplomatica moderna nacque la categoria
dei “protettorati velati”.
4. 2. Conseguenze e strategie: Costantinopoli o il Cairo?2
Il passaggio di potere fra Gladstone e Salisbury venne dibattuto nella storiografia
britannica degli anni ’80 come il cambiamento di rotta dell’attenzione britannica verso
gli affari medio-orientali. In generale, la considerazione che i rapporti tesi fra Hamid e
1
René Pinon, L’Europe et l’Empire Ottoman. Les aspects actuels de la Question d’Orient, pag.
98
2
Questo paragrafo, cercando di analizzare le conseguenze dell’impresa egiziana, prende spunto
da una famosa tesi, elaborato a metà degli anni ’80, dallo storico inglese Keith M. Wilson. E’ importante
dire che il materiale in questione – il titolo completo è Costantinople or Cairo: Lord Salisbury and the
partition of the Ottoman Empire – include una ipotesi storica che molti ottomanisti diverse volte l’hanno
messa in dubbio. E’ un ipotesi, perché il tentativo di sostituire la posizione di Costantinopoli nella
strategia inglese di difesa con quella del Cairo non avvenne mai e questo lo ammette anche lo stesso
Wilson. Però tale saggio si riserva il diritto di ammettere la possibilità che un piano, rassomigliante
almeno, c’era nelle intenzioni di Salisbury. Rimane in ogni caso una supposizione che parte da diversi
documenti dell’epoca, sebbene molti altri storici (fra i quali Mantran e Georgeon) citano il quesito
(Costantinopoli o Cairo?) più come un tormentoso dubbio di Hamid che una reale iniziativa da parte di
Londra. Per questi studiosi, la possibilità di rimanere da soli nei confronti di Pietroburgo angosciava da
tempo la mente del Sultano, a partire anche dal fatto che ancora egli non aveva trovato un alleato per
poter sostituire Londra. In questo senso, ai fini di estendere la tesi anche a delle ipotesi non totalmente
condivise, ci siamo ritenuti in dovere di dedicare una completa descrizione al saggio di Wilson.
46
Gladstone contribuirono ad accelerare il raffreddamento fra le due diplomazie, è
precedente all’evidenza storica che vede in Salisbury1 l’architetto della sostituzione
strategica di Costantinopoli con il Cairo. Spieghiamoci meglio! Sembrerebbe, proprio
sulla base dei fatti, che Londra inizia a perdere l’interesse sugli Stretti proprio quando
proporzionalmente si rafforza la sua posizione in Egitto. L’assunto che la Turchia sia
l’unica salvaguardia degli interessi britannici contro l’influenza russa nei Dardanelli e
nel Caucaso, inizia così a barcollare alla fine degli anni ’80. Certo il predecessore
liberale di Salisbury non aveva fatto poco per acuire i rapporti con il Malato del
Bosforo. Dall’altra parte però fu la nuova diplomazia inaugurata dal capo dei
Conservatori successore di Disraeli che cercò di impostare una dottrina di politica estera
praticando ciò che prima era solo propaganda elettorale. Il vero obiettivo di Salisbury
diventa quello di sostituire l’importanza strategica di Costantinopoli rivalutando la
posizione del Cairo a difesa degli interessi commerciali inglesi. Se e quanto ci potesse
riuscire era in ogni caso da verificare.
Pare che tutte le considerazioni al riguardo abbiano inizio da una riunione della
Direction of Naval and Military Intelligence britannica la quale nel 1892 fa sapere al
premier Salisbury l’eccezionale crescita in qualità e quantità della flotta russa nel Mar
1
Robert Arthur Talbot Gascoyne-Cecil, Terzo Marchese di Salisbury (1830 - 1903) Ha fatto
parte del Partito Conservatore. Fu Primo Ministro del Regno Unito tre volte: dal 1885 al 1886, dal 1886 al
1892 e dal 1895 al 1902. Divenne il più radicale teorico del conservatorismo dei tories sostenendo con gli
scritti e con la parola, nel Parlamento e sulla stampa, la legittimità e la funzione politica dei privilegi delle
classi ricche. Eletto ai Comuni nel 1853, prese posizione contro la riforma elettorale proposta da sir John
Russell provocandone la caduta nel 1867; l'anno dopo, ministro con Benjamin Disraeli, rassegnò le
dimissioni quando questi ritenne opportuno ripresentare la legge. Nel 1868 nella Camera Alta prese
posizione tra gli oppositori di William Ewart Gladstone. Tornato al potere con Disraeli nel 1874 ne
assecondò, come ministro per l'India, la politica imperiale condividendo gli allori del premier nel
Congresso di Berlino. Durante il periodo dal 1895 al 1902 che interessò la guerra boera, seppe
fronteggiare con abilità i riflessi psicologici e politici sfavorevoli alla Gran Bretagna.
47
Nero. L’incapacità della flotta del Regno Unito di prevenire ed eventualmente
contrattaccare un coup de main russo su Costantinopoli viene in questo occasione
direttamente ammessa. La possibilità di una tale ipotesi sta alla base del memorandum
del giugno 1892 dove Salisbury in persona scrive:
The protection of Constantinople from Russian conquest
has been the turning point of the policy of Great Britain for at
least forty years, and to a certain extent for forty years before
that. It has been constantly assumed, both in England and
abroad, that this protection of Constantinople was the special
interest of Great Britain. It is our principal, if not our only,
interest in the Mediterranean sea, for if Russia were mistress of
Constantinople, and of the influence which Constantinople has
in the Levant, the route to India through the Suez Canal would
be so much exposed as not to be available except in times of the
profoundest peace. There is no need to dwell on the effect which
the Russian possession of Constantinople would have upon the
Oriental mind, and upon our position in India, which is so
largely
dependent
on
prestige…the
matter
of
present
importance is its effect on the Mediterranean; and I cannot see,
if Constantinople were no longer defensible, that any other
interest in the Mediterranean is left to effendi…There is nothing
48
(except Constantinople) in the Mediterranean worth the
maintenance of so large and costly a force1
Sinteticamente descritta la tesi di Wilson analizza l’opinione di Salisbury intorno
alla presenza britannica nel Mediterraneo. Per il premier il controllo da parte di Londra
di questo mare era un dato di fatto. Era inutile quindi lasciar sperperare tanta forza
bellica e non concentrarla lì dove gli interessi britannici sarebbero stati –
nell’immaginario di Salisbury – ben presto messe a rischio, ovvero nel Bosforo.
Tuttavia, ritenendo che era anche probabile una débacle nei confronti di Pietroburgo,
nella mente del leader conservatore, sempre più prendeva piede l’idea di sostituire
questo punto non troppo sicuro. Sostenuti dai Francesi, diretti concorrenti economici di
Londra in Turchia, i Russi potevano anche semplicemente egemonizzare la vita politica
turca rendendo vani tutti i tentativi strategici attuati dai governi inglesi precedenti.
Proprio a causa di tale rischio Salisbury iniziò a teorizzare l’evacuazione dalle posizioni
ottomane prima che il temibile diventasse reale.
Non da subito però. Lasciata da parte dopo la caduta dei Conservatori in quello
stesso anno (1892), la strategia riformatrice che il memorandum sopracitato
comportava, ritornò in voga quando il partito di Salisbury riprese il potere nel luglio del
1895. La sua logica in fondo era semplice. La paura di non poter controbattere i Russi per giunta alleati ora militarmente con i Francesi - nel Bosforo spingeva le teste d’uovo
di Londra verso nuove alternative. Nella sua posizione geografica l’Egitto veniva
valutato come una strada ancora più breve verso l’India, in quanto faceva assicurare il
controllo sul Canale di Suez, e nel caso quest’ultimo fosse rimasto chiuso, contatti più
1
Keith M. Wilson, Costantinople or Cairo: Lord Salisbury and the partition of the Ottoman
Empire in Imperialism and Nationalism in the Middle-East… cit. pag. 27
49
vantaggiosi con l’entroterra arabica. Rimaneva inoltre anche la finestra d’accesso,
attraverso il Nilo, ai domini britannici dall’Uganda in giù da dove Londra poteva
strategicamente controllare tutto l’Oceano Indiano. La sicurezza dell’Egitto tuttavia
dipendeva dal mantenimento della supremazia navale britannica nel Mediterraneo, e con
una Russia in piena “esplosione” nel Mar Nero, essa non era più sicura a lungo andare.
Oltre ciò, le considerazioni seguivano l’una l’altra. Se il corso del tempo avesse sempre
più confermato il rischio di una presenza russa in Asia Minore, se la Francia rafforzava
l’alleanza con Pietroburgo, magari sostituendo il Sultano in Siria, l’unico modo che
aveva l’Inghilterra per mantenere il suo dominio in India, concludeva la Naval
Intelligence, sarebbe stato quello di una veloce occupazione completa dell’Egitto
costruendo una nuova base militare ad Alessandria – aggiungendola a quelle di Malta,
Gibilterra e Cipro1. In questo caso la serie di “se”, più che ipotesi immaginabili,
rifletteva una piena certezza delle Forze Militari della Corona Britannica. Ecco perché
il Cairo era e doveva essere la nuova linea della politica estera e di sicurezza britannica
nel futuro.
Se ne fece ben poco però! In atto vi era anche una contrapposizione ardua fra i
vertici della Marina e una parte dell’establishment politico al quale faceva da pendant il
Primo Ministro in persona. Sebbene temessero la crescita militare russa, i Capi di Stato
Maggiore non erano convinti assertori di una politica preventiva che abbandonasse
senza battere chiodo le mura di Costantinopoli. Effettivamente, piani del genere non
vennero mai presi in considerazione dai militari britannici. Nell’immediato quindi, il
Comitato della Difesa consigliò arduamente il rafforzamento delle posizioni navali
britanniche intorno ai Dardanelli proprio per evitare l’uscita russa da quello che gli
Inglesi da sempre consideravano il grande lago russo (il Mar Nero). Loro ancora
1
Keith M. Wilson op. cit. pag 30
50
consideravano l’Egitto una seconda scelta e, per l’interesse delle rotte commerciali
inglesi verso l’India, al massimo un “second best”. Solo in caso di ulteriori fallimenti
strategici nella difesa di Costantinopoli l’apparato della marina britannica nel
Mediterraneo si sarebbe dimostrato determinato ad attuare una permanente – e più
formalizzata - occupazione dell’Egitto. Nessun passo seriamente impegnativo di
conseguenza venne fatto affinché realmente l’Egitto diventasse il faro degli interessi
orientali di Londra. Alessandria e la sua tanto pianificata base militare non ricevette una
sterlina, e nel 1901 il Military Intelligence Department informò il Gabinetto che nel
caso di un possibile impegno bellico dell’Impero, l’Egitto sarebbe rimasto fuori.
L’armata egiziana includeva solo 13.000 uomini e in fondo la loro fedeltà non era
indubbia. Un po’ pochi del resto per un rischio nel quale Londra vedeva contro di sé
Francia e Russia insieme. In più, qualsiasi impiego delle truppe inglesi a est di Suez
sarebbe stato inquadrato nel più vasto quadro della difesa dell’India. Gli effettivi
militari e navali britannici sembravano incapaci persino di difendere la posizione
alessandrina anche verso un raid attuato da 5.000 soldati europei1.
Analizzando più attentamente, sembrerebbe che i reports provenienti dalle
diverse branche dell’intelligence britannica troppo spesso automaticamente si
traducevano in politica effettiva senza tener conto della reale misura dei rischi. La
strategia di sostituire Costantinopoli con il Cairo, in quanto chiave d’accesso e di
sicurezza degli interessi inglesi in Medio-Oriente, fallì non soltanto per misure non
prese in tempo. Prima di tutto influì il continuo rifiuto, oltre che dei militari, degli stessi
membri del Gabinetto di approvare la risoluzione proposta da Salisbury per l’invio della
flotta britannica negli Stretti e lo spostamento del baricentro al Cairo. La posizione del
leader conservatore non si differenziava da quella dei suoi colleghi sulla politica da
1
Ivi. pag 31
51
perseguire, bensì sui tempi d’attuazione. Salisbury fallì nel tentativo di persuadere i suoi
ministri che l’attacco russo a Costantinopoli era imminente. Di conseguenza, non
riuscendo a dimostrare che lo Zar avrebbe avuto l’audacia di attaccare il punto focale
degli interessi britannici, il premier inglese non ebbe successo nell’indicare il modo di
contrattaccare.
La chiarezza di questo punto è fondamentale. Non ci sarebbero stati dubbi che il
Gabinetto britannico unanimemente avrebbe reagito ad una reale mossa bellica russa
negli Stretti. Questo va oltre la politica di Salisbury la quale rimase, se così si può dire,
più preventiva che attiva. Scrivendo all’ambasciatore austriaco a Londra – Vienna non
desiderava altro che una spinta anti-russa nella politica inglese – Salisbury indicava che
la riluttanza di prendere altri impegni oltre a quelli che già c’erano non presumeva “that
Great Britain was not to be taken in defence of the Ottoman Empire against Russian
aggression”1. Tutti i ministri, dietro al premier, conservatori o liberali che fossero erano
pronti a reagire alle minacce russe ma finché un reale attacco anti-inglese non fosse
venuto da Pietroburgo, Salisbury sarebbe rimasto da solo nelle sue nuove strategie
preventive.
In ogni caso, minimizzando anche l’influenza dei fattori tecnici, la politica
britannica ancora non era pronta per cambiamenti radicali nei suoi orientamenti
internazionali. L’Impero Ottomano diventava un alleato sempre più difficile e il
degrado dei rapporti anglo-turchi era evidente, ma ciò non lasciava spazio a cambi di
manovra. L’Egitto non venne mai visto come un alternativa soddisfacente alla possibile
soggiogo del Sultano da parte dei Russi – all’ombra dei quali Londra vedeva Parigi,
riluttante nell’accettare l’impresa inglese in Egitto . Del resto la pragmaticità e l’estrema
prudenza degli Inglesi superava la loro voglia d’intraprendenza. Sebbene nuove
1
Keith M. Wilson Constantinople or Cairo… cit. 34
52
tendenze abbiano ispirato ipotetiche nuove strategie, il raffreddamento fra Londra e
Costantinopoli, che alla fine porterà allo scontro frontale nel corso della Grande Guerra,
non sarà radicale, perlomeno fin’allora. Questo si avvertì anche negli eventi balcanici e
quelli armeni. Al di là della baldanza cristiana di Gladstone e delle conseguenze
pratiche della nuova diplomazia di Salisbury, il piano di sostituire Costantinopoli in
quanto alleato, almeno fino alla rivoluzione giovane turca (1908), mai si effettuerà del
tutto. Molti ragionamenti hanno avuto influenza determinante nel mantenimento dello
status-quo anche se le nozze fra le due capitali da tempo erano finite.
Sebbene in una serie di dichiarazioni pubbliche e private nel 1896, il Primo
Ministro inglese cercava di smorzare voci e supposizioni di una conflittualità latente fra
Pietroburgo e Londra ( it is…a superstition of an antiquated diplomacy that there is any
necessary antagonism between Russia and Great Britain1) il fatto che la sua stessa
maggioranza non condividesse le sue paure sulla Russia non li permise di certo di
cercare delle soluzioni nello spostamento Costantinopoli – Cairo. L’intenzione di un
cambiamento radicale è una cosa. L’effetto reale che esso produce, soprattutto se
fallisce, è un altro. Il terzo Marchese di Salisbury potrebbe essere apparso ai
parlamentari dell’epoca un grande uomo di Stato, sostenitore della continuità. Nei fatti,
oggi appare più come un continuatore per forza di cose. Il maggior problema che si
presenta al suo ritorno al potere, nel agosto 1895, è il rapporto con gli Ottomani (in
relazione soprattutto alla questione armena). Nella presentazione del suo programma
davanti alla Camera dei Lord il 15 agosto 1895 Salisbury affermava:
There is no party more anxious than that with which I
have the honour to be connected to maintain the integrity and
1
Ivi. pag 33
53
the independence of the Ottoman Empire, which is sanctioned
by treaties. The Sultan will make a grave and calamitous
mistake if, for the sake of maintaining a mere formal
independence … he refuses to accept the assistance and to listen
to the advice of the European Powers in extirpating from his
dominions an anarchy (il riferimento ovviamente va ai fatti in
Armenia – n.d.a.) and a weakness which no treaties and
sympathy will prevent from being fatal in the long run to the
Empire over which he rules1.
Tuttavia, è impossibile non notare nell’approccio di Salisbury verso tale
questione certe contraddizioni e certe discrepanze. Da una parte il premier conservatore
appare abbastanza riluttante all’idea di partecipare a un’azione punitiva contro le misure
estremamente violente che il Sultano stava facendo attuare contro la popolazione
armena. Dall’altra il rischio di un coinvolgimento diretto da parte inglese avrebbe
aumentato la possibilità di dare la carta bianca alla Marina russa, essendo da sempre la
causa armena parte del bagaglio propagandistico anti-turco di Pietroburgo. In
conseguenza di tale rischio per gli Inglesi, che equivaleva ad una buona opportunità per
i Russi, i piani per preparare le operazioni si spostano in qualche altro settore del
territorio ottomano – magari nella striscia arabica. Ma anche su questo punto Salisbury
sapeva che la distinzione fra un intervento inglese nel Bosforo e altrove era meramente
falsa. L’unico risultato che poteva produrre un’azione del genere era l’incitamento
indiretto del desiderio russo di riaprire la Questione Orientale. Anche in questo caso, più
che ad un arrendersi davanti alla realtà delle relazioni internazionali, Salisbury segue la
1
Keith M. Wilson op. cit. 41
54
via classica della diplomazia britannica; affidandosi allo status-quo ante lui tiene più
fede a quelle equazioni geopolitiche che fino in quel momento reggevano la sicurezza
esterna britannica. Che la Turchia doveva essere un alleato da difendere, al di là
dell’antipatia che Salisbury o Gladstone potevano provare nei confronti del Sultano, era
uno di questi. Per giunta, in quel momento, ogni premier doveva essere un continuatore
e la possibilità di modificare alleanze e strategie appariva inverosimile.
I should myself very much prefer to give Russia the
South and East of the Black Sea – and open the Dardanelles to
all powers; set up some kind of autonomy in Egypt; take for
ourselves the southern slope of the Taurus with Syria and
Mesopotamia – pay off the French with Tripoli and a hunch of
Morocco – Italy with Albania, and Austria with Salonika. But
alas! These are mere dreams – nobody agrees with me…1
Come sostiene Keith M. Wilson, il sogno del Marchese era quello di essere al
posto di lord Aberdeen e di poter ricevere dallo zar Nicola I nel 1853 la proposta di
spartizione dell’Impero Ottomano. Lui avrebbe senza dubbio accettato. Lo considerava
la migliore soluzione per la Questione Orientale e la miglior sicurezza per la
continuazione prospera del commercio inglese con l’India. Nel governo conservatore
del biennio 1895-1896 le priorità – Egitto chiamato in causa – non cambiarono.
L’Egitto sarebbe stato senz’altro un baluardo per il colonialismo inglese in direzione
dell’Africa. Avrebbe sicuramente costituito la spinta dell’Impero britannico per unire il
Capo con il Cairo, ma non avrebbe, per il momento, cambiato l’alleanza di ferro che
1
Keith M. Wilson op. cit. pag. 43
55
doveva continuare ad esistere, prescindendo dai rapporti molto tesi, fra Costantinopoli e
Londra. La tradizionale diplomazia inglese che vedeva nell’integrità ottomana la
migliore scelta assicurativa, resa veritiera come un assioma matematico da Palmerstone,
a Salisbury sembrava totalmente sbagliata ed a tratti dogmaticamente stupida. Ma lui
era un conservatore e per giunta laureato in matematica ad Oxford. Chi meglio di lui
poteva adeguarsi alla realtà? Senza contare in tutto ciò il suo precedente personale
contributo, fornito a Berlino quando a fianco di Disraeli era stato Salisbury stesso a
determinare il mantenimento in vita dell’Impero degli Osmanli ancora una volta.
56
Capitolo II
Dentro le mura dell’Impero:
l’influenza di ‘Abdül Hamid nella politica interna
ottomana
(anni ’80 e ’90 del XIX secolo)
1. L’assolutismo costituzionale di Hamid: uno sguardo alla
politica interna ottomana
Tutte le questioni di politica estera discusse fin qua, sono cruciali per spiegare
anche l’ulteriore condotta in politica interna da parte del padiscià ‘Abdül Hamid II.
L’ultimo sultano assolutista della dinastia secolare degli Ottomani, salì al trono in
seguito alla crisi che scaturì dopo la deposizione, nel 1876, di ‘Abdül Aziz. Inizialmente
al posto suo venne designato suo nipote, Murat V ma per cause di salute – il giovane
sultano soffriva di crisi nevrotiche – il suo regno durò meno di tre mesi. Fu, quindi,
deposto a sua volta dal fratello ‘Abdül Hamid, il quale tenne fortemente le redini del
potere fino al 1909. Il maestro di questi colpi di scena era stato Mithat pascià (18221883), abile diplomatico di carriera con esperienze a Vienna, Parigi e Londra prima che
egli stesso diventasse, per poco tempo, Gran Visir e padre della Costituzione del ’76. La
sua politica, oltre ai sopracitati intrighi di palazzo, seguiva un preciso piano di sviluppo
interno della vita istituzionale dell’Impero. Mithat pascià era un convinto assertore del
Tanzimat, processo di riforme politiche che, già ideato dai riformisti dell’Impero, venne
imposto successivamente anche dal fattore internazionale1. Sul piano amministrativo,
1
I primi decreti che riguardavano una ristrutturazione politica-sociale dell’Impero Ottomano,
rivolti ovviamente all’innovazione istituzionale, vennero avviate già nel 1826. Quel anno era avvenuta la
57
per la prima volta le correnti moderate dentro la Sublime Porta cercavano di mettere sul
piede d’uguaglianza la posizione dei mussulmani con le altre religioni dell’Impero –
cosa ovviamente vietata dalla sharia. L’impulso fondamentale degli anni ’60 era quello
di dare dei colori moderni occidentali alla forma di governo ottomana. Partendo da
queste premesse, la Costituzione sancita dal Gran Visir nel 1876 – che riproponeva tutte
le riforme per anni attuate o da attuare del Tanzimat - non fu un fulmine a ciel, sereno
sebbene la stampa europea, nel migliore dei casi, la motivò come una trovata politica
per far fronte alla Seconda Crisi d’Oriente.
Questo complesso di innovazioni fu tuttavia la più scomoda eredità che la parte
politica vicina ad Hamid – nettamente conservatore – dovette accollarsi, sebbene il
nuovo sultano, trovandosi nel bel mezzo di una crisi non mancò d’indossare una
maschera moderata. Inizialmente approvò la Costituzione di Mithat Pascià anche
perché, con tutte le novità istituzionali che la nuova Carta apportava, il sultano avrebbe
comunque mantenuto potestà considerevoli. Nel nuovo ruolo, il padiscià oltre a
nominare i ministri, aveva il potere di convocare e sciogliere il Parlamento e di internare
tutti gli individui giudicati pericolosi dalle autorità pubbliche. In poche parole, un
“Impero autoritario” - abbastanza rassomigliante con quello di Napoleone III - nel quale
‘Abdül Hamid avrebbe cambiato così velocemente la sua posizione, che già un anno
dopo, un’altra faccia della Turchia sarebbe stata visibile agli occhi occidentali. A
soppressione dei Giannizzeri, corpo d’elite dell’esercito ottomano, che fino in quel momento aveva
rappresentato la parte più tradizionalista in seno ai palazzi del potere. Tali componenti erano nel principio
figli dei re cristiani usurpati dal potere degli Osmanli. In seguito, aderendo alla setta dei dervisci, presero
la difesa del più duro conservatorismo religioso mantenendo sempre uno sguardo critico verso qualsiasi
tentativo modernizzante dell’Impero. Potenti ed influenti fino al punto da ricattare diverse volte i vari
sultani, i Giannizzeri avevano fatto di tutto per mantenere intatta la struttura gerarchica imperiale, che
ovviamente dava loro una posizione privilegiata. Dopo la loro soppressione tuttavia, i passi verso le
riforme furono lentissimi. Il Congresso di Parigi (1856), che seguì la guerra di Crimea, dette un ulteriore
spinta, anche impositiva, verso tale direzione. Dopo esso infatti varie iniziative riformistiche vennero
ufficializzate tramite una bolla imperiale (il cosiddetto decreto di Khatt-i humayun).
58
febbraio il Sultano ritirò la nomina a Mithat Pascià mandandolo in Europa1, mentre il
Parlamento, riunito a marzo, venne sciolto poco dopo motivando tale atto con la guerra
in corso fra la Russia e l’Impero Ottomano .
Dopo la conclusione del Congresso di Berlino e l’ufficializzazione delle perdite
territoriali, la politica riformatrice della Turchia iniziò ad spostarsi a favore dell’ala
conservatrice. Il Sultano è il primo che tenta una forma di reazione all’enorme influenza
che persone, pervase da ideali occidentali, hanno negli ambienti della corte. Inizia a
liquidare tali tendenze già dopo il tentativo di detronizzazione a favore del fratello
Murat V da parte di ‘Ali Suavi (maggio 1878). Tale congiura, ricca di implicazioni
massoniche e liberali, fece sì che la diffidenza del Sultano si estendesse, oltre che alle
persone, anche alla forma che la governance ottomana aveva assunto fino in quel
momento. Richiamati all’ordine gli oppositori, Hamid non convocherà più, per circa
trent’anni, il Parlamento, non abolendo ma ufficialmente sospendendo la Costituzione.
Questa forma di regime, molto autoritaria verso qualsiasi alternativa di pensiero politico
e nello stesso momento orientata verso una visione tradizionalista del rapporto fra Stato
e Religione, assunse le sembianze di un assolutismo costituzionale. Liquidate, in seguito
al fallimento del sopracitato putch, quelle marginali forme di opposizione che
continuavano a sopravvivere nella capitale turca, persero quasi tutte le personalità di
riferimento. L’intellettuale Namik Kemal per esempio, subirà la stessa sorte del
principale ispiratore dei liberali, Mithat Pascià, venendo ufficialmente allontanato dal
Sultano con la nomina di governatore della provincia di Sakiz (l’odierna Chios, Grecia)2
. Con la Costituzione sospesa, benché formalmente ancora in vigore, l’assolutismo
1
Ritornò ben presto in carica pubblica come governatore della Siria e poi di Smirne. Nel 1881
per volontà di Hamid venne condannato a morte, pena tramutata in esilio a Taif (in Arabia) dove mesi
dopo verrà trovato impiccato, a quanto pare, per ordine diretto dello stesso Sultano.
2
Già noto per le sue adesioni massoniche e per i suoi scritti dove la tendenza liberale in politica
interna si mescolava con una forma di nazionalismo a favore di un risorgimento medio-orientale, Namik
Kemal aveva già subito una forma più esplicita di esilio nel 1873.
59
hamidiano istaurerò un governo pienamente centrato nell’autorità moralmente
intransigente del suo Sultano. Notoriamente orientato verso forme purificatrici
dell’antica ispirazione islamica da parte dello Stato, ‘Abdül Hamid – molto dedito a far
vedere il suo attaccamento alla preghiera e alla retta religiosa che aveva dato alla sua
vita privata – dava così le premesse ad un cambiamento nella concezione dei rapporti
governativi. Egli segna in pieno la fine del regime basato sulla supremazia effettiva dei
Gran Visir sui Sultani. Simbolo di tale decadenza è anche lo spostamento del centro
politico dalla Sublime Porta – sede nonché simbolo ottocentesco del dominio del
Consiglio dei Ministri su qualsiasi attività d’ordine pubblico – alle istanze più
conservatrici e mondanamente più povere di sfarzo dello Yildiz Saraji, sede del Sultano.
Direttamente responsabili davanti alla sola autorità di ‘Abdül Hamid in persona, i
ministri, da quel momento in poi, seguirono lo rotta segnata dal Sultano, in reazione a
quella politica d’ispirazione liberale e costituzionalista la quale, per lui, era stata la
causa principale nell’indebolimento dell’autorità pubblica del Califfo.
L’idea di nazione, proprio in parallelo al suo trionfo in Europa, nello stesso
periodo trova il suo pieno sviluppo a partire dagli anni ’80 del XIX secolo anche dentro
l’Impero Ottomano. Sicuramente, nella portata intellettuale e politica, gli avvenimenti
occidentali, a partire dalla Rivoluzione francese in poi, non restarono senza eco nella
Turchia del Tanzimat. Come ben sappiamo, il complesso delle riforme che portava
questo nome cercò, ovviamente sotto influsso britannico ancorché europeo, di dare alla
realtà ottomana una nuova forma d’identità, rinnovata rispetto alle vecchie radici
islamiche. Naturalmente in Turchia l’aspetto più rilevante di tale nazionalismo era il
concetto di nazione basato sull’unità territoriale. In questo, le differenze con la tipologia
europea di nazionalismo non mancarono. Un po’ per lo stato di cose, un po’ per
60
convenienza politica, rinchiusi in un Impero multiculturale, gli ispiratori del
nazionalismo osmanli andarono in ben altre direzioni rispetto allo svilupparsi del
romanticismo europeo. Se alla base del concetto di comunanza etnica in Occidente
c’erano le tre categorie essenziali della Sturm und Drang tedesca – quindi comunanza di
lingua, storia e religione per definire l’appartenenza etnica – gli intellettuali turchi
cercarono di scegliere altre vie di nation building. I leader della cosiddetta Nazione
Ottomana premevano per una dottrina che ispirasse la raison d’être di tutti i sudditi
dell’Impero nella vatan (patria) ottomana, quindi nella dinastia regnante1. E’ un
concetto sicuramente molto astratto, almeno per l’obbiettivo che esso si prefissò. Le
difficoltà con i risorgimenti balcanici rendevano difficili i tentativi d’assimilazione. In
più l’influsso dell’estremo nazionalismo presso le popolazioni cristiane, e cioè le
briciole delle prime teorizzazioni razzistiche in Europa (sulla scia degli studi di
Gobineau, Chamberlain ecc.) sicuramente non contribuì al successo di tale
assimilazione.
Intanto le novità abbondavano anche nel campo dell’organizzazione interna. Con
l’epoca di Hamid finisce il pluriennale concetto de ”l’ottomanismo”, maggiore apporto
del Tanzimat. L’idea della ricerca dell’uguaglianza civica per tutti, mussulmani e non,
per poter così creare una nuova forma di cittadinanza basata sulla nazione
genericamente ottomana, lascia il posto ad una nuova ideologia definita “pan-islamista”.
Basata una visione concreta nella realtà geopolitica dell’Impero, che, con le ultime
perdite territoriali, vedeva passare in termini percentuali le file della popolazione
mussulmana dal 68% al 76%. Questa nuova concezione politica andava a cercare
proprio nell’Islam, in quanto religione ed organizzazione politica, la sua identità e
1
David Kushner, The rise of Turkish nationalism 1876-1908, Frank Cass, London, 1977 pag. 7
61
conseguente spirito di mobilitazione2. E’ inoltre una risposta ai vari movimenti “pan”
che nasceranno nel tardo-romanticismo europeo. In particolare l’Impero Ottomano si
trova direttamente in conflitto con il movimento pan-slavista sia territorialmente nei
Balcani che politicamente nelle sedi internazionali e con la Russia. Facendo studiare
molto di più le materie religiose di quanto si facesse precedentemente, Hamid II, egli
stesso membro della confraternita dei kadiri, conduceva una vita di esemplare sobrietà.
Ciò fu anche un mezzo ben scelto di propaganda per dimostrare la sua netta separazione
dalla politica fatta di sfarzo e lussi del precedente regime della Sublime Porta. Infatti
non si può dire che questo pan-islamismo non dette i suoi frutti, almeno nel ridare più
spessore alla sua funzione principale di Califfo – ben lungi dall’essere nella tradizione
un papa islamico. Il Sultano era ben conscio di non poter capeggiare tutti i mussulmani
del mondo sebbene sussulti di preoccupazione per una rivolta pan-islamica contro il
colonialismo iniziasse a farsi sentire in Occidente. Infine, la rinascita religiosa ad uso
interno fu anche ideata come mezzo per sconfiggere la nuova ondata nazionalistica
presso le popolazioni mussulmane.
Gli Albanesi per esempio, dopo lo scioglimento della Lega di Prizren (1880),
non cessarono di avanzare le loro richieste d’autonomia, essendo ben consci che restare
dentro i confini ottomani era anche l’unico mezzo per la loro salvaguardia territoriale
dagli appetiti dei nuovi Stati balcanici. Però, la miccia accesa dalla Lega, seppur
inizialmente considerata un beneficio da parte delle autorità turche – i leaders albanesi
anche nei loro contatti internazionali non avevano mai fatto ceno ad una piena
indipendenza da Costantinopoli – segnò anche l’avvio del rinascimento culturale
schipetaro. La richiesta di poter usare la bandiera nazionale, insieme all’insegnamento
scolastico della lingua albanese, era segno di un altro problema e di un altro
2
Histoire de l’Empire Ottoman, cit. pag. 574
62
nazionalismo nascente. Questione che, se consideriamo soltanto le richieste legate alle
nazionalità di religione islamica, non faceva che aggiungersi a quella dei Curdi. Presso
questi ultimi infatti, i notabili locali già avevano concluso degli accordi reciproci per
una politica comune verso il centro del potere ottomano.
Pan-islamismo quindi, il quale anche se solo di facciata, rimaneva comunque un
mezzo politico, sia per mobilitare i mussulmani dell’Impero intorno al loro Califfo, sia
per riallacciare i rapporti già allentati con gli Arabi. Però, oltre ogni esagerazione, va
detto che la religione in quanto valore politico non ritrovò più il suo antico splendore
precedente all’epoca del Tanzimat. Anzi se prendiamo in esame gli sviluppi in
determinati campi dell’attività pubblica, come per esempio la giustizia, l’influsso della
secolarizzazione fu addirittura maggiore nell’epoca di Hamid di quanto fosse stata
precedentemente. Il codice religioso applicato alla cosa pubblica perse sempre più
influenza e gli ulema continuarono a dipendere dal potere civile1. In campo di pura
elaborazione teologica, Costantinopoli perdeva così il suo prestigio cedendo il passo al
Cairo. Agli albori del XX secolo infatti, era la capitale egiziana che stava evolvendo in
qualità di centro di ricerca islamica. Nel campo della teologia tradizionale gli avanzati
studi dell’Università al-Azhar (letteralmente “La fiorita”) stavano ridando spessore ad
un luogo di cultura che manteneva la tradizione degli studi religiosi che risaliva al X
secolo. Non di meno l’importanza del Cairo – ormai centro del colonialismo inglese nel
Nord Africa – era evidente anche nell’operato di coloro che cercavano, senza subire
influssi diretti con l’occidentalizzazione, una modernizzazione dell’Islam.
Tuttavia
va
precisato
un
punto
fondamentale.
L’opinione
diffusa
nell’ottomanistica del XX secolo, particolarmente negativa nei riguardi di Hamid II, ha
avuto recentemente dei cambiamenti importanti per i quali il Sultano autoritario della
1
Ivi. pag. 577
63
Turchia di fine Ottocento più che affossatore, è stato un continuatore, con significativi
tratti dispotici, delle riforme avviate nell’epoca del Tanzimat1. Gli sviluppi specifici
dell’epoca, al di là della forma particolarmente orientata verso un inasprimento delle
libertà appena promosse dalla Costituzione di Mithat pascià, dimostrano alcuni lati di
sviluppo interno positivi. All’alta corruzione e all’enorme differenziazione degli
stipendi, seguita alla crescita della burocrazia centralizzata, si assistette alla formazione
di alti funzionari, i quali trovarono la loro preparazione nelle scuole d’amministrazione
già promosse dal Tanzimat ma solo dopo realmente applicate. Il coronamento di queste
riforme di istruzione vide l’apertura di una Scuola di diritto e di una delle finanze per la
preparazione specializzata dei nuovi funzionari imperiali. Inoltre, dopo l’inaugurazione
dell’Accademia artistica e di una intera rete di scuole secondarie, a Costantinopoli, nel
1900 viene istituita la prima Università dell’Impero, scopo principale della quale era
trattenere i giovani nel Paese per non subire quindi la contaminazione di idee
occidentali e liberali delle università europee. Modernizzazione quindi, la quale, oltre al
enorme indebitamento estero che portava, comunque continuava a svilupparsi sotto
l’egida della più dura centralizzazione. Segno di tutto questo è anche lo sviluppo che
ebbe in quell’epoca l’attività intensa della polizia segreta la quale si attivo in diversi
campi, a partire dalla censura e l’organizzazione del spionaggio interno (i famosi
jurnalci) fino all’introduzione del sistema dei passaporti (imitando la Russia la quale
per prima nel mondo attuò questa forma di controllo dei flussi migratori).
Tali aspetti “repressivi” furono ben visibili anche nello sviluppo che ebbe la
stampa all’epoca di ‘Abdül Hamid. La mano pressante della censura qui dette la sua
prova migliore. Sia nelle pubblicazioni ufficiali che cercavano di imprimere sempre di
1
Histoire de l’Empire Ottoman (sous la direction de Robert Mantran) – capitolo a cura di
François Georgeon, cit. pag. 570
64
più l’idea della legalità imperiale, sia nella clandestinità dei pamphlet e dei giornali dei
Giovani Turchi, la stampa durante l’assolutismo hamidiano è stata sempre giudicata
come inefficiente e deviante nel trattare i reali problemi del Paese. Vari metodi, incluse
tasse sulla stampa o intimidazioni a editori e giornalisti, furono usati dal regime per
imporre la sua scelta riguardo all’informazione. L’effetto immediato fu quello di ridurre
il giornalismo ad una mera raccolta di cronaca1.
In ogni caso, a prescindere dalla loro impotenza e della loro riduzione
quantitativa, giornali e riviste al tempo di Hamid segnarono anche alcuni sviluppi
positivi. Tecnicamente, la metodologia editoriale migliorò, aumentando anche il numero
dei giornali in circolazione. Durante gli ultimi anni dell‘800 i tre maggiori quotidiani
della capitale – il Sabah (il Mattino), il Tercüman-ı Hakikat (L’interprete della verità) e
l’Ikdam (la Forza) - distribuivano 30.000 copie circa al giorno. Inoltre, forse per il fatto
che la discussione degli affari interni veniva abbastanza oppressa dalla “verità
ufficiale”, giornali e riviste trattarono più di prima aspetti rilevanti della scena
internazionale, dedicandosi molto alle traduzioni e pubblicazioni di varie opere
straniere. E’ in quest’epoca che la stampa dà il suo maggior contributo all’apertura del
mondo ottomano con l’estero. Senza dubbio, in un modo pervasivo e comunque
implicito, ciò dette un contributo allo sviluppo dell’idea di occidentalizzazione della
vita all’interno dell’Impero2. L’approccio moderato, e a volte fin troppo azzardante,
della stampa liberale dell’epoca dette una spinta decisiva nella discussione di vari
argomenti. Fra questi, di primaria importanza era la letteratura e la lingua cercando di
offrire tribune di argomentazioni e polemiche fra le varie correnti ideologiche che
dominavano la scena intellettuale di Costantinopoli. Secolarismo, Occidentalismo,
1
2
David Kushner op. cit. pag. 14
Ivi. pag. 15
65
Nazionalismo e Islamismo suscitarono grandi dibattiti e conferenze pubbliche che
animarono una fiacca, fin’allora, atmosfera dialettica. Sotto questo guscio trovarono
rifugio le varie voci, che dando un aspetto di rinascimento culturale, contribuirono
all’anticipazione del movimento nazionalistico turco. Partendo dal presupposto che la
letteratura turca doveva liberarsi dalla secolare influenza araba e persiana, linguisti
come Şemsedding Sami Frasheri, il romanziere Ahmed Mithat e l’orientalista Necib
Asım cercarono di portare nell’ambiente culturale ottomano quella vitalità e quel
dinamismo democratico che loro stessi avevano conosciuto nelle capitali europee.
2. L’economia ottomana e la sua dipendenza dai capitali europei
Gli anni che intercorrono dall’occupazione inglese in Egitto all’occupazione
italiana della Libia (1882-1911) abbracciano un periodo durante il quale i possedimenti
ottomani non furono intaccati da altre imprese colonialistiche. Rappresentano tuttavia
anche trent’anni nei quali nulla impedisce alle Grandi Potenze di legiferare e perseguire
i propri interessi tramite i vantaggi derivati dai trattati commerciali con la Porta e
soprattutto dai privilegi assunti con lo speciale regime delle Capitolazioni1.
Formalmente queste ultime erano dettate dalla necessità, mancando nei territori
ottomani codici speciali per il commercio e la navigazione ed essendo la legge
musulmana, basata sul Corano, inapplicabile agli stranieri, considerati "infedeli". In sé
le Capitolazioni garantivano agli stranieri:
1
Tale regime aveva le sue radici nelle speciali concessioni che erano state fatte nei territori
dell'Impero bizantino alle Repubbliche marinare italiane a decorrere dalla fine del secolo XI. Le
concessioni si proponevano di garantire ai cittadini di tali Repubbliche, spesso giunti in quei territori al
seguito dei crociati, una certa sicurezza ed autonomia, attraverso il riconoscimento della libertà di
commercio e del diritto di avere proprie giurisdizioni nazionali. Dopo la caduta dell'Impero d'Oriente e
l'insediamento dell'Impero Ottomano a Costantinopoli, i privilegi tradizionali delle antiche "colonie"
straniere ebbero successiva conferma da parte dei Sultani.
66
1. ampia libertà d’esercizio del commercio, dell’arte, della professione e della
fede religiosa;
2. la inaccessibilità del proprio domicilio da parte della polizia locale;
3. la inapplicabilità della legge musulmana civile e penale;
4. la esenzione dalle imposte.
Dopo la bancarotta seguita all’inizio della “Seconda Crisi d’Oriente” (1875) e
soprattutto dopo i risultati finali del Congresso di Berlino, l’entourage hamidiana cercò
di entrare in contatto con vari creditori e con i detentori dei Buoni di Tesoro ottomani
per la negoziazione di nuove condizioni di debito. Il risultato immediato fu reso
pubblico tramite il cosiddetto “Decreto di Muharrem” edito nel 1881, il quale, nel suo
punto principale, si impegnava a ridurre e cercare di consolidare l’enorme debito estero
che da tempo l’amministrazione ottomana si tirava dietro. Tale scopo fu reso esplicito
tramite la pubblicazione di una speciale ordinanza, secondo la quale molte entrate come
il monopolio del sale, tasse di bollo e l’imposta sugli alcolici, proprio perché dovevano
servire al risanamento del bilancio pubblico, venivano gestite da un organismo
finanziario distinto dal Ministero di competenza. Inoltre l’amministrazione del Debito
Pubblico veniva affidata ad una speciale commissione, nella cui composizione
entravano un inglese, un francese, un tedesco, un italiano, un austro-ungherese, un
ottomano e due rappresentanti dei banchieri di Galata. Tale amministrazione, presieduta
a turno dal rappresentante francese e da quello inglese, già nella sua composizione dava
adito all’idea che la dipendenza invece di diminuire s’accresceva. Infatti, tutti i membri
stranieri della commissione erano normalmente gli ambasciatori rappresentanti a
Costantinopoli dei propri Paesi. Tuttavia il buon funzionamento dell’organo permise
nuovi crediti con tassi d’interesse più bassi (i quali passarono dal 5% al 3%)1.
1
Histoire de l’Empire Ottoman… cit. pag.578
67
Per il resto il “Decreto di Muharrem” rappresentò una perdita di sovranità. A
parte i benefici finanziari, comunque ben circoscritti nel tempo, esso contribuì
notevolmente all’ulteriore ingrossamento della burocrazia interna. Alla fine del regno di
‘Abdül Hamid II solo la sopracitata Amministrazione del Debito Pubblico impiegava
5.500 persone – ben più della stesso Ministero delle Finanze – ed il 30% delle entrate
statali1.
Inoltre, altre istituzioni ben salde a Costantinopoli contribuivano a far
aumentare la dipendenza delle finanze imperiali dall’operato economico degli
investitori stranieri. Le due principali banche, la Banca Ottomana, creata con capitali
soprattutto francesi, e la Deutche Bank, impiantata nella capitale dal 1888,
capeggiavano l’elenco delle sedi verso le quali l’ostilità antieuropea era più difusa. Ma
vanno aggiunte anche Debito Pubblico e Monopolio dei Tabacchi (con ben 9.000
impiegati e anche questo creato tramite capitali francesi nel 1883) le quali erano le
tipiche società azionarie con dirigenti stranieri e una manodopera in maggioranza
mussulmana.
Come si ha modo di osservare, la politica del commercio estero attuata durante
l’epoca di Hamid, oltre ad utilizzare meglio i finanziamenti rispetto all’epoca di
‘Abdül-‘Aziz (1861-1876), vide, al contrario dei progetti prefissati, un’autentica
invasione da parte dei capitali stranieri. Gli investimenti fatti durante gli anni 1888-1896
costituiscono il 40%
degli investimenti attuati tramite finanze estere nell’Impero
Ottomano dagli albori del suo splendore fino al 19142. Gli investimenti nel settore
produttivo restarono bassi. Essi toccarono a malapena il 10% e non contribuiranno
affatto allo sviluppo industriale dell’Impero, ma piuttosto alla creazione di strutture in
1
2
Ivi. pag. 579
Servet Pamuk Ottoman Empire and European Capitalism 1801-1927 pag. 134
68
funzione delle esportazioni di materie prime agricole e dell’apertura di nuovi mercati
per i prodotti manufatti europei.
Fu un epoca che conobbe un vero boom di presenza dei capitali francesi ai quali
seguì una linea crescente di investimenti dalla stessa provenienza: 85 milioni franchi nel
1881, 292 milioni nel 1895 per poter toccare il picco nel 1909 dove la somma derivata
dagli investitori francesi era costituita da ben 511 milioni di franchi. Questa
moltiplicazione per sei degli apporti finanziari esteri in trent’anni comprendeva
investimenti soprattutto nelle ferrovie, ma anche per la costruzione di moli e porti (il
73% del complessivo). Senza contare gli investimenti delle banche dove l’81%
riguardava appunto capitali francesi.
Le cifre del grafico sottostante cercano di mettere anche dei rapporti comparativi
con gli altri capitali d’investimento stranieri presenti nell’Impero durante la stessa
epoca:
60,00%
50,00%
40,00%
anno 1888
anno 1914
30,00%
20,00%
10,00%
0,00%
capitali britannici
capitali francesi
69
capitali tedeschi
La disaffezione verso gli investimenti di provenienza britannica, che va in
parallelo con l’affluenza dei capitali francesi, è il fatto più percepibile dal Congresso di
Berlino in poi. La quota dei capitali inglesi che vengono investiti sul mercato ottomano
dal 1888 al 1914 passa dal 56% ad un modesto 15,3%. Man mano che avanza il
raffreddamento diplomatico, e a questo punto anche economico fra Londra e
Costantinopoli, avviene in massa un penetramento di investimenti francesi che all’inizio
della Grande Guerra rappresentarono più della metà di tutti gli investimenti stranieri
nell’Impero (50,4%). Nello stesso tempo interessante è notare anche il forte afflusso
tedesco che in termini di crescita risulterà maggiore di quello francese. I tedeschi infatti,
presenti ben poco nello sviluppo del capitalismo ottomano prima del 1888 (1,1%), come
conseguenza anche degli orientamenti politici sia del Sultano che dei suoi oppositori
dopo la sua caduta, toccarono quota 27% verso la fine
della prima decade del
Novecento1.
Il semble d’ailleurs, qu’en Turquie, depuis quelque
années, pour des raisons politiques, les anglais prennent une
part moins active aux affaires; une campagne de presse leur a
fait vendre la plus grande partie du papier ottoman dont ils
étaient porteurs; leurs capitaux, devenus plus timides, ne
cherchent pas d’entreprises nouvelles et s’abstiennent même de
participer à celles qui leur sont offertes. La politique
britannique semble renoncer à son rôle de protection de
1
Histoire de l’Empire Ottoman, cit. pag. 580
70
l’Empire ottomane et n’attacher d’importance qu’à surveiller
les avenues de l’Egypte et les bords du golfe Persique2.
Alla fine quella francese è un’influenza che spazia in ben altri piani oltre che su
quello economico; è una questione a tutto campo nell’Impero Ottomano. La grandeur
della cultura d’Oltralpe conquista anche il campo culturale, ancor prima di quello
linguistico. Il francese attraversa il suo periodo d’oro di lingua franca nei rapporti di
qualsiasi genere: consolari, economici e culturali. A parte il fatto che tutti i giornali
d’epoca nell’Impero hanno la loro edizione in francese, anche la lingua d’ufficio che si
parlava all’interno della Banca Centrale, del Debito Pubblico o del Monopolio rimaneva
sempre il francese. Gli oppositori inoltre del regime di Hamid, fossero le loro azioni
esplicite o meno, sicuramente erano i più grandi beneficiari dell’influenza enorme che la
cultura politica francese esercitava sulla vita intellettuale dell’Impero.
Comunque sia, tentativi di ridurre la dipendenza vi furono e parecchi. Un
esempio è l’aumento che le autorità turche decisero sulla tassa sulle importazioni. Ma
furono quasi sempre tentativi ben limitati e comunque sia ad essi seguivano ulteriori
concessioni e soprattutto era in contrapposizione con l’immutabilità delle Capitolazioni.
Queste ultime rimanevano sacrosanti diritti intoccabili per i governi stranieri. Il governo
del Giappone giunse a negare l’apertura di una sua rappresentanza diplomatica a
Costantinopoli per il fatto di non aver ricevuto i privilegi capitolari nel 1907. La stessa
cosa accadde anche con le poste, le quali, anche in qualità di società azionarie,
appartenevano agli Occidentali. Zeppe di funzionari stranieri furono anche un comodo
mezzo per i Giovani Turchi per la diffusione dei loro giornali e opuscoli clandestini. Il
2
René Pinon, L’Europe et l’Empire Ottoman. Les aspects actuels de la question d’orient,cit.
pag.354
71
tentativo estremo di chiudere o perlomeno nazionalizzare le poste non a caso fallì per
diretta pressione occidentale.
Si cercava invero di aiutare ma soprattutto di controllare e dirigere lo sviluppo
economico turco mediante forme di appalto esclusivo e a lungo termine. Le ingerenze
europee continuarono su molti punti sebbene la formale sovranità ottomana continuo ad
esistere.
Una situazione variegata, insomma, e in grande contraddizione con il
programma proclamato da ‘Abdül Hamid. Anche se, da gran realista, il Sultano era il
primo ad essere cosciente che un cambiamento radicale della situazione di dipendenza,
non era né possibile né consigliabile, per il budiet estremamente povero di cui le
autorità disponevano a Costantinopoli. In fin dei conti la politica a lungo raggio di
Hamid era proprio questa: muoversi a pari passo da ciascuna presenza economica
straniera senza dare più privilegi ad una a discapito dell’altra. Insomma, equilibrare con
prudenza le varie influenze occidentali per poi riuscire ad “addomesticarle”. Di
conseguenza i governi che rappresentavano questi interessi sarebbero stati i primi a
necessitare della sopravivenza e dell’integrità dell’Impero Ottomano. E’ vero che la
Turchia era ormai una semi-colonia ma continuava ad avere una classe politica
autonoma e una burocrazia relativamente reattiva. ‘Abdül Hamid era il perno di questa
piramide che silenziosamente cercava di manovrare sebbene il suo ruolo non ispirasse
più la grandiosità di una volta. Era sicuramente un Sultano dipendente ma c’è chi nota
anche elementi di grande fermezza in lui. Come disse l’ambasciatore inglese all’epoca
Lord Dufferin: “La verità è che nessun ambasciatore riuscirà mai a mettersi il Sultano in
72
tasca”. Ma forse non a caso questa affermazione viene proprio da un rappresentante
britannico1.
3. Alle prese con i vicini di casa: la Turchia e i nuovi Stati
balcanici
I tre anni che seguirono i lavori del Congresso di Berlino registrarono come
sviluppo delle decisioni prese nella capitale tedesca, la delimitazione dei confini fisati
dagli accordi e la stabilizzazione del nuovo ordine di cose, che nel caso della Romania,
della Bosnia, del Montenegro e della Grecia si riveleranno più difficili delle aspettative.
Infatti, mettere d’accordo i contendenti balcanici, sia fra loro, che in rapporto con lo
Stato ottomano, non fu certo un processo di pochi mesi.
La Romania attenderà ben tre anni la soluzione definitiva della sua frontiera,
contestata dalle autorità bulgare. La contesa riguardava la provincia trans-danubiana
della Dobrugia dove le autorità bulgare – ancora sotto l’altra sovranità ottomana cercarono di tracciare una frontiera tale da poter escludere la città di Silistria dal nuovo
territorio romeno. Bucarest ebbe la definitiva sovranità sulla tanto celebrata fortezza
soltanto nel giugno del 1880 e comunque senza registrare un definitivo accordo per
soddisfare ambo le parti.
Dall’altra parte, l’entrata delle truppe austro-unghariche in territorio bosniaco
non avvenne certo nella più idilliaca tranquillità. Già contestatori delle tendenze liberali
manifestate dalle stesse autorità turche, i capi-tribù mussulmani in Bosnia non potevano
1
Feraze Abdullah Yasam The Ottoman Empire and the European Great Powers 1884-1887 tesi
dattil., London, 1984 citato in Histoire de l’Empire Ottoman cit. 604
73
che reagire in armi alla nuova amministrazione di Vienna, per giunta cristiana. Una vera
e propria insurrezione seguì la deposizione dell’ultimo governatore turco, al posto del
quale - sotto la dichiarazione di una guerra santa alle truppe cristiane - venne messo un
fanatico dal nome Hagi Loja1. Agli ordini del Barone von Philippovich le truppe di
Vienna aprirono il fuoco sopra Sarajevo, punto focale della rivolta, ponendo fine alle
ultime resistenze alla fine del agosto 1878. Per quanto riguarda il governatorato delle tre
località nel sancak di Novipazar – ottenuti anche questi a Berlino - le cose procedettero
più tranquillamente. Nel suo capoluogo, Plevlje, gli austriaci mandarono un console
civile dove le autorità giuridiche, amministrative e finanziarie turche continuarono a coesistere con Vienna. Le truppe militari del Sultano erano stazionate laddove l’esercito
austro-ungherese già controllava come territorio austro-ungherese. Le relazioni
amichevoli fra i due contendenti furono mantenute stabili durante tutta la occupazione
mista anche dalla volontà pacificatoria di Ferik Suleyman, pascià perpetuo a Plevlje2.
Anche se non si può scordare l’instabilità permanente della provincia bosniaca, in sé le
azioni militari austriache nei Balcani registrarono un successo. Anzi, nel 1881 Vienna
raggiunse anche un ottimo risultato diplomatico firmando con il Ministro degli affari
esteri serbo M. Mijatovic una convenzione segreta, per la quale, quest’ultimo
s’assumeva la responsabilità di placare qualsiasi irredentismo serbo verso la Bosnia
ricevendo in cambio l’approvazione di Vienna per le rivendicazioni di Belgrado “in
direzione della vallata del Vardar”. Tale convenzione, resa pubblica solo nel 1889.
Messo all’imbarazzo davanti alle voci nazionalistiche il re Alessandro descriverà tale
accordo come “un atto di tradimento”3.
1
William Miller The Ottoman Empire and its successors 1801-1927, Frank Cass & Co. LTD.,
Abingdon,Oxon, 1966, pag. 401
2
Ivi. pag. 402
3
Ivi. pag 403
74
Problemi più seri invece dovevano affrontare la Grecia e il Montenegro. Infatti,
mentre la monarchia asburgica si espandeva nel sud, aggiudicandosi pienamente il titolo
di “sentinella dei Balcani”, il piccolo principato montenegrino non riusciva a prendere il
possesso di alcuni territori aggiudicatigli dalle Grandi Potenze. I distretti di Plava e
Gucija, abitate in maggioranza da Albanesi mussulmani, rimanevano abbastanza restii a
venir inglobate nel territorio governato da Cetinje. I loro abitanti, “first-class fighting
men, who cared for neither the Congress nor the sultan”, anche per ostilità di vicinato
note già da tempo, reagirono subito ai tentativi d’entrata dell’esercito montenegrino nei
loro territori. La Lega di Prizren, rinata dopo la repressione che ebbe l’indomani del
Congresso berlinese da parte delle truppe ottomane, ebbe un ruolo fondamentale nella
reazione che vi fu. Fu essa stessa che organizzò l’attentato a Djakova alla persona di
Mehmet Alì, plenipotenziario del Sultano, mandato presso gli Albanesi proprio per
convincerli ad inclinarsi alla volontà di Berlino1. Nel 1879, dopo che le ostilità ebbero
preso totalmente forma, si vide anche il raggiungimento di un’alternativa offerta dalla
proposta del Conte Corti, ambasciatore italiano a Costantinopoli. In cambio dei distretti
di Plava e Gucija l’accordo fra le Potenze offriva al nuovo Stato del Montenegro due
altri distretti contigui, quelli di Hoti e Gruda. Ma di nuovo il fare i conti senza l’oste
rivelò enorme difficoltà a mettere in pratica proposte disegnate esclusivamente a
tavolino. Queste zone, abitate dalla tribù dei Malisori, etnicamente albanesi ma cattolici
romani religiosamente, da tempo godevano di uno status dell’autogoverno in base agli
accordi secolari che avevano con l’occupante ottomano. Davanti alla prospettiva di una
perdita dell’autonomia regionale e, come era naturale, influenzati anche loro dal
1
Stavro Skendi, The Albanian National Awakening 1878-1912, Princeton University Press, 1967
pag 35
75
nascente nazionalismo albanese, gli abitanti di Hoti e Gruda reagirono ai vani tentativi
d’occupazione da parte dei Montenegrini.
In tale situazione, caduti nel vuoto gli appelli delle Grandi Potenze e falliti i
tentativi di coercizione da parte dell’esercito ottomano, mentre le autorità di
Costantinopoli giustamente apparivano accondiscendenti verso la reazione albanese, fu
Londra stessa che decise di prendere in mano la situazione. Gladstone era tornato al
potere in Inghilterra e le sue simpatie filo-montenegrine facilitarono la via d’uscita
dall’impasse creato. Un’ultima proposta venne dalla conferenza delle Grandi Potenze,
riunite nel giugno del 1880 a Berlino. In lieu dello schema di Corti, l’ultima alternativa
rimaneva quella di concedere la cittadella marina di Ulçin (italianizzato Dulcigno) alla
sovranità del Montenegro. Come era prevedibile vi fu un ennesimo rifiuto da parte
albanese e ciò spinse il governo britannico ad attuare una dimostrazione navale. La mera
suggestione ebbe l’effetto sperato. Avendo davanti le truppe montenegrine in attesa
dell’assalto e rimaste senza rifornimenti per causa della quarantena marina della Royal
Navy e di alcune navi delle altre Potenze, le autorità turche dentro le mura dell’antica
fortezza veneziana, aprirono le porte della città senza fare resistenza1. Il principe Nicola
II, assicurato dell’entrata pacifica del suo esercito dentro Dulcigno (novembre 1880)
non mancò di ringraziare pubblicamente la Gran Bretagna per il suo impegno nel favore
delle rivendicazioni montenegrine. Fu naturalmente l’ultimo atto di protezionismo
inglese a favore di questo piccolo popolo balcanico. Per anni gli inglesi lasceranno non
rappresentato il loro Paese nelle istanze consolari a Cetinje. Il non essere presenti e
l’assenza delle autorità di Sua Maestà al Giubileo montenegrino della Sovranità farà sì
che le simpatie di Cetinje verso Londra, che potevano essere grandi, degenerarono in
una perdita totale di prestigio. I successori di Gladstone non avrebbero più avuto la sua
1
Stavro Skendi, op. cit. pag. 37
76
preoccupazione legata ai conflitti balcanici essendo che il cuore e gli interessi della
Union Jack battevano altrove, e comunque fuori dai confini europei1.
Un’altra ratifica delle frontiere dovette imbattersi nell’apatia politica ottomana,
di nuovo sfruttando le azioni belliche delle bande nazionalistiche albanesi. E’ il caso
delle concessioni territoriali che il congresso di Berlino fece al regno della Grecia. Il
pari di Beaconsfield (Disraeli) aveva detto alle massime autorità elleniche che il loro
Paese aveva un’ottima prospettiva e che quindi l’ingrandimento territoriale poteva
benissimo attendere. In realtà, la Grecia dovette aspettare tre anni per poter ricevere una
parte del territorio assegnato ad essa e ben trenta per il rimanente. Anche se gli accordi
firmati fra le Grandi Potenze davano così poco spazio alle aspirazioni della Megali Idea
- Creta, Macedonia, Tracia e molte isole dell’Egeo rimanevano sotto sovranità ottomana
- la condotta della Porta iniziò ad essere come d’abitudine dilatoria, proprio nel
momento che elementi della Lega albanese – più radicali di quelli che avevano reagito
alle azioni montenegrine nel Nord – iniziavano ad apparire nella regione dell’Epiro. La
commissione congiunta greco-turca che fu incaricata per la negoziazione dei nuovi
punti di confine iniziò i suoi lavori sotto l’egida di Francia e Inghilterra. Per quanto
riguarda la Tessaglia, le discussioni s’incepparono nel momento che i Turchi cercarono
di tenere entro i loro confini la città di Tricalla, che gli Ellenici volevano come
capoluogo della loro nuova provincia, essendo l’altra grande città, Larisa, nella sua
maggioranza, mussulmana. Non andarono meglio le negoziazioni dirette con gli
Albanesi dell’Epiro. A loro la controparte greca propose la creazione di un regno
ellenico-albanese il quale doveva riconoscere in quanto sovrano la persona di re Giorgio
1
William Miller The Ottoman Empire and its… cit. pag. 406
77
o suo figlio. Ma ovviamente gli Albanesi, già risentiti dopo la perdita di Ulcin a favore
dei Montenegrini, non vollero sapere di coesistenza politica1.
La situazione, anche in questo caso, conobbe la risvolta con la salita al potere di
Gladstone a Downing Street nel 1880. Nella conferenza svolta a Berlino (giugno 1880),
ugualmente come per la questione montenegrina, gli inviati britannici e francesi
cooperarono per trovare una soluzione comune. Inizialmente, come la nuova tendenza
di certo non filo-turca di Gladstone lasciava intendere, l’operato dei plenipotenziari di
Parigi e Londra fu apertamente a favore di Atene. I confini richiesti per la Grecia da
parte di questi ultimi si spostavano sempre più verso il Nord entrando nel territorio
ottomano. Al primo rifiuto turco il primo ministro greco Trikoupis minacciò la
mobilitazione dell’esercito greco2. Ma la spavalderia ellenica ebbe la sua battuta
d’arresto dopo un cambiamento di ministero in Francia. Il nuovo ministro degli Esteri
francese Barthélemy St-Hilaire, considerato a torto un filo-ellenico, iniziò ad adottare ai
lavori della conferenza degli argomenti che il suo collega britannico non tardò a
qualificare come filo turchi rispetto alla posizione ufficiale delle altre Potenze. In queste
condizioni il compromesso finale diventò sempre più difficile da raggiungere. Bismarck
cercò di convincere i Turchi a cedere Creta a fronte dell’Epiro – con una più consistente
popolazione mussulmana - e vi riuscì. Il 14 del marzo 1881, dopo estenuanti mesi di
trattative, Costantinopoli offriva in cambio del mantenimento dell’Epiro Creta stessa
con alcune piccole isole del Egeo. Ma la politica ufficiale di Atene era quella di
preferire un territorio della terraferma, per i quali comunque vi era da tener conto delle
aspirazioni di altri Stati balcanici, all’enosis con Creta dove la stragrande maggioranza
etnica ellenica era sicura. Presto o tardi questa strategia si rivelerà vincente per il futuro
1
2
Georges Castellan, Histoire des Balcans, Paris, Fayard, 1991 pag 354
William Miller, The Ottoman Empire and… cit. pag. 408
78
ingrandimento territoriale della Grecia. Ma era altrettanto chiaro che la richiesta greca
di vedersi aggiudicare Preveza avrebbe spinto i Turchi ad usare la cesione della città
come un casus belli. In un momento nel quale le Potenze erano pervase dalla volontà di
pace, la Grecia militarmente non era preparata alla guerra contro l’Impero Ottomano
ancora troppo forte per1.
Finalmente il 24 di maggio arrivò il compromesso sotto diretta pressione
occidentale. La convenzione firmata da ambo le parti prevedeva che la nuova linea di
confine si sarebbe stabilita sulla linea Volos-Arta permettendo quindi al Regno ellenico
di acquisire, a parte tutta la Tessalia, anche il distretto di Arta nell’Epiro del sud. Una
frontiera non certo ideale: rispetto alla composizione etnica gran parte dei territori
sicuramente non erano ellenici.
Sebbene la città di Arta verrà consegnata alle autorità di Atene soltanto nel 1884,
insieme a una bella fetta del debito pubblico ottomano relativamente a questi territori,
probabilmente la soluzione rispecchiava soltanto un ennesima corsa delle Potenze
europee a scrollarsi le responsabilità di un nuovo conflitto balcanico. Le occasioni
infatti continuavano ad essere abbondanti e nondimeno vennero sfruttate. E’ il caso
dell’isola di Creta sulla quale si era registrata la più totale indifferenza da parte dei
partecipanti al Congresso di Berlino. L’isola era tornata sotto la piena sovranità
ottomana (1840) dopo un intermezzo abbastanza tranquillo in cui era stata affidata al
pascià d’Egitto Mohammed Alì. Dopo, vari atti di ribellione (1841, 1858, 1866-67), da
parte della popolazione cristiana dell’isola2, e dopo varie richieste di interessamento da
parte del governo di Atene, la questione di Creta aveva bussato alla porta delle Grandi
Potenze. La revisione dei confini sicuramente non si poteva fare senza di loro e in
1
Ivi. pag. 409
Si calcola che nella metà del XIX secolo 1/3 della popolazione cretese fosse costituita da coloni
di provenienza turca e abitanti dell’isola convertiti all’Islam.
2
79
questo caso la Francia appariva dubbiosa mentre l’Inghilterra continuava a sostenere il
“Malato del Bosforo”1. Dopo il 1868 la Porta fece alcune promesse fra le quali
l’attuazione dello Statuto Organico per l’isola che doveva dare una sorta di
governamento costituzionale.
Ma le riforme come l’esperienza notava, anche in questo caso procedettero
lentissime. Nel 1890 il governatore di Creta rimaneva un mussulmano, mentre
l’Assemblea consultiva mista a stento si riuniva. L’appoggio che poteva venire dalla
madrepatria poteva essere soltanto verbale. Il cambio degli esecutivi fra conservatori e
liberali ad Atene venne segnato da una pesante crisi finanziaria. Nel 1892, il governo
conservatore di Theodoros Deliyannis, causa la conflittualità perenne con il re Giorgio I
proprio a proposito della precaria situazione economica del Paese, indisse nuove
elezioni. Vennero vinte dai liberali di Charilaos Trikoupis ma neanche questi riuscì a
fermare i sovra costi della politica (eccessivi finanziamenti ai partiti) e la stagnante
altissima corruzione dell’amministrazione pubblica. Non poteva che dichiarare, in un
atmosfera sempre più offuscata dal pessimismo economico, la bancarotta dello Stato
ellenico. I tentativi di accreditarsi finanziatori interni ed esteri vi furono ma essi
sistematicamente fallirono. Il tentativo di istituzionalizzare un sistema impositivo
altissimo dette anche il colpo di grazia a Trikoupis. Nel 1895 egli rassegnerà le
dimissioni e quattro mesi più tardi le elezioni verranno vinte nuovamente da Delyannis.
Nello stesso 1895, un gruppo di ufficiali di basso grado formò la cosiddetta Etniki
Hetaria (Società degli Amici) col chiaro intento la realizzazione dell’enosis fra Grecia e
Creta. Cercando di mettere subito i programmi in pratica, essa mandò nell’isola
volontari surriscaldando gli animi dell’opinione pubblica. Costretta de facto dal clima
effervescente, il governo conservatore Delyannis – sebbene proprio come Trikoupis
1
Georges Castellan Histoire des Balcans cit. pag.354
80
avesse appellato alla calma - intervenne mandando anch’esso il 3 febbraio 1897 10.000
truppe a Creta comandate dal primo aiutante del re1.
Il risultato fu, almeno per la maggioranza degli osservatori, imprevedibile. Ad
aprile la Sublime Porta contrattaccò richiedendo ed ottenendo la neutralità degli altri
Stati balcanici. Già inizialmente sbandate, le truppe greche non ebbero sul campo la
stessa fortuna che sulla stampa europea – verranno raggiunte anche da un gruppo di
garibaldini in aiuto a pochi giorni di distanza. In meno di un mese infatti l’esercito
ellenico comandato dal principe Costantino venne messo in ginocchio da un esercito
ottomano ben preparato da consiglieri militari tedeschi2. Quest’avventura militare
poteva finire con risultati peggiori se le pressioni delle Grandi Potenze – in primo piano
Russia e Austro-Ungheria – intimorite, non avessero spinto verso la pace. Per sminuire
la portata del successo militare turco le Potenze attuarono una quarantena navale intorno
all’isola bloccando l’invio di altre truppe da parte del Sultano. Questo fatto mando le
parti al tavolino, aiutando gli Ellenici alla firma del Trattato di pace (dicembre 1897)
dove le condizioni imposte a loro non furono particolarmente punitive. Costantinopoli
otteneva una modifica leggera del confine macedono-epirota, prendendo anche un
risarcimento di 4 milioni di lire turche per i danni di guerra. Ma nello stesso tempo, il
massacro di alcuni ufficiali britannici – e in particolare del viceconsole - a Creta,
probabilmente da parte delle truppe del Sultano, spinse le Potenze a richiedere
l’allontanamento dell’esercito ottomano dall’isola. Da quel momento, per proposta
diretta europea, Creta verrà governata dal secondogenito del re, il principe Giorgio, in
qualità di alto commissario3. Ovviamente il nuovo governatore promise il rispetto e la
1
Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw, History of Ottoman Empire and Modern Turkey, voll. II, cit.
2
Histoire de l’Empire Ottoman (sous le direction de Robert Mantran) cit. pag. 604
Georges Castellan, op.cit. pag 356
pag. 207
3
81
protezione della popolazione locale di fede islamica. Ma il fatto ch’egli avesse chiesto
una milizia unicamente greca1 per far fronte ai problemi di ordine pubblico lasciava
poco sperare in una pacifica convivenza fra cristiani e mussulmani. Un fatto che nel
bene e nel male accorciò, e di molto, la via verso l’enosis.
4. La questione armena e l’impasse britannico
“Non, il n’y a pas de question arménienne. Il y a une grande et redoutable
question d’Orient, dont celle-là n’est qu’une de faces multiples”2. Così si esprimeva
nelle pagine della Revue des Deux Mondes del 1° dicembre 1895 M. Francis de
Pressensé, noto giornalista dell’epoca, ed in verità meglio non poteva dire. I problemi
con la popolazione armena non furono mai questioni leggere per l’amministrazione
locale e centrale ottomana e non tardarono ad allarmare tutta l’opinione pubblica
europea. Dopo la guerra russo-turca e il Congresso di Berlino, la crisi legata alle riforme
armene fu la più grave mai affrontata dalla diplomazia europea. Dal 1863 era stata
garantita una “Costituzione armena” la quale stava alla base dell’Assemblea Nazionale
Generale che, riunita biennalmente a Costantinopoli sotto la presidenza del Patriarca,
istituiva una sede legislativa per gli affari religiosi e civili della popolazione armena
sotto il Sultano. Ma il trasferimento di potere dalla Porta a favore del Palazzo non creò
buone premesse affinché la decentralizzazione potesse funzionare realmente. Già al
Congresso di Berlino, a discapito dell’insistenza turca di tenere da parte la questione, gli
Armeni avevano presentato una petizione segreta, nella quale, rinunciando a tutti gli
intenti politici, richiedevano per la loro patria un tipo d’autonomia modellata
1
2
Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw op.cit. pag 207
René Pinon L’Europe e l’Empire Ottoman cit. pag. 41
82
sull’esempio libanese, cioè con un governatore cristiano1. Al suo posto le dichiarazioni
finali degli uomini politici europei si limitarono a vaghe promesse di maggiori riforme e
sicurezza. Ciò che fece scaturire la crisi post-berlinese è in realtà legata ad un articolo
(quello nr. 61) del Congresso, il quale recita:
La Sublime Porte s’engage à réaliser, sans plus de
retard, les améliorations et les reformes qu’exigent les besoins
locaux dans les provinces habituées par les Arméniens, et à
garantir leur sécurité contre les Circassiens et les Kurdes. Elle
donnera connaissance périodiquement des mesures prises à cet
effet aux Puissances, qui en surveilleront l’application2
Dopo il 1878 l’attuazione di tali riforme tanto proclamate diventano la questione
più difficile da risolvere per lo status-quo dell’integrità turca. Intorno a questa vicenda
lo Stato di Hamid II si trova proprio nel bel mezzo delle divergenze fra Londra e
Pietroburgo. La fervente propaganda della stampa zarista a favore delle richieste
d’autodeterminazione armena non era vista senza preoccupazione dalle istanze
governative britanniche. La diplomazia di sua Maestà temeva l’uso politico che
l’Impero Russo poteva fare della sopracitata questione. Come abbiamo spiegato anche
in precedenza, la spinta militare russa verso i territori caucasici veniva sempre più
percepita come una minaccia incombente sulle Indie britanniche. Dalla guerra di Crimea
attraverso finanziamenti e commerci, il Gabinetto di Londra aveva sempre cercato di
fare dell’Armenia una cliente inglese. Ad ogni tentativo francese di esercitare il
1
2
William Miller The Ottoman Empire and it’s Successors 1801-1927 cit. pag 428
Rene Pinon op. cit. pag 42
83
protettorato sui cattolici maroniti in Libano, l’Inghilterra rispondeva col suo protettorato
ambito in Armenia. In più, in chiave nettamente anti-turca, le mosse del governo inglese
seguivano anche un orientamento simpatizzante a favore degli Armeni da parte
dell’opinione pubblica nel Regno Unito. Una via di mezzo venne trovata con la
convenzione di Cipro (1879). Firmata da plenipotenziari inglesi e turchi, questo patto
rendeva ufficiale l’impegno britannico nei confronti degli Armeni a favore delle riforme
politico-amministrative. Infatti, nel 1879-1880 il governo londinese mandò, ovviamente
con la piena contrarietà russa, consoli militari nelle zone abitate dalla popolazione
armena. Inoltre per l’ennesima e forse l’ultima volta l’Inghilterra si prefissava
ufficialmente l’impegno di difendere l’Anatolia Orientale contro ogni tipo di
aggressione esterna1. Ma era, come è ben chiaro, anche una forma di protezione
barattata, stavolta più esplicitamente che mai, con la difesa degli interessi di Londra.
Volendo ottenere il favore degli Armeni, allo scopo di allontanare l’influenza russa
dalle loro vicende politiche, la Gran Bretagna si prestava ad insistere di più per le
riforme in quelle zone. Senza ovviamente mettere a repentaglio l’integrità ottomana in
una questione dove questo rischio realmente c’era. Per ‘Abdül Hamid infatti l’Armenia
fu l’ennesimo problema su almeno due fronti. Innanzitutto è un problema di radice
nazionale e, come i vari problemi con le tendenze nazionalistiche nei Balcani
insegnavano, andava troncato già dall’inizio. L’attività rivoluzionaria bulgara da sempre
costituiva un esempio politico per i militanti indipendentisti Armeni. D’altro canto, la
questione armena rimaneva anche un problema territoriale, soprattutto in un contesto
dove l’Impero, appena uscito da enormi perdite nei Balcani, non aveva per niente
intenzione di far ripetere gli stessi fallimenti nell’Anatolia Orientale, più contigua
territorialmente alla Turchia.
1
Histoire de l’Empire Ottoman cit. pag 604
84
I disordini del biennio 1894-1896 iniziarono con alcuni scontri abbastanza
violenti fra Curdi e Armeni. Sotto l’egida della restaurazione dell’ordine pubblico le
autorità centrali intervennero mandando truppe turche a fianco dei Curdi. Il loro
comandante Zekki pascià creò in poche settimane un vero e proprio stato di terrore nel
distretto di Sausun bruciando 24 villaggi e massacrando nel più crudele dei modi la
popolazione locale. Vani furono i tentativi di Francia, Russia e Gran Bretagna di
pretendere la testa dei responsabili intanto che Zekki Pascià veniva decorato a
Costantinopoli. La commissione d’indagine istituita dalle Potenze non portò a nulla e lo
stesso risultato dettero anche i vari meeting dimostrativi organizzati a Londra o Parigi.
La risposta venne il 30 settembre 1895 quando una manifestazione degli Armeni a
Costantinopoli fini in un bagno di sangue nella capitale e a Trebisonda1. Ma era
soltanto l’inizio!
Mentre gli ambasciatori europei si apprestavano a preparare una bozza delle
possibili riforme da presentare al Sultano una cruenta serie di grandi massacri prese
piede in Asia Minore. Nei mesi di ottobre e novembre ogni parte dell’Impero fu bagnata
da sangue armeno, a causa delle uccisioni di massa ad opera di un ufficiale del Sultano
dal nome Shakir pascià. L’ambasciatore britannico all’epoca scriveva ai suoi superiori
una stima approssimativa delle morti registrate in quelle sei settimane la quale si
aggirava intorno nella cifra di 30.000 persone. Questa specie di notte di San Bartolomeo
turco tuttavia continuò. Azioni punitive nelle varie città e soprattutto a Costantinopoli
nel quartiere armeno furono all’ordine del giorno, fino ai giorni 27-28 agosto 1896
quando nella sola capitale perirono più di 6000 Armeni2
1
2
William Miller Ottoman empire and… cit. pag. 429
Ivi. pag. 430
85
L’Europa tuttavia, se escludiamo sporadiche voci di dissenso, mai non
intervenne. Neanche colui che aveva assunto il ruolo di simpatizzante ufficiale di
qualsiasi movimento di autodeterminazione cristiana all’interno dell’Impero Ottomano,
William Gladstone, non fece neanche il minimo tentativo per trascinare le Potenze in
un’azione collettiva. Si limitò ad una memorabile filippica nella quale, accostando i
massacri armeni agli orrori bulgari, appellava ‘Abdül Hamid come il “Grande
Assassino”1. L’Inghilterra di Salisbury (succeduto nel 1895 a Lord Kimberly nel ruolo
di Segretario agli Esteri) del resto non poteva in tali condizioni agire da sola. Sebbene
delle minacce furono fatte (“c’è un centro di corruzione e malattia e la sua
decomposizione rischia di prendere anche la parte sana della società europea…il tempo
di usare la forza ancora non è finito2) soldi, condizioni e altri ben più importanti
impegni imperiali non permettevano certo al premier conservatore – come lui stesso
ironicamente affermava – di mandare la Royal Navy sul monte Ararat3. D’altra parte la
Russia nella sua parte paternalistica, perseguitava gli Armeni sul proprio territorio
osteggiando in primis l’ispirazione socialista che era nell’indole del movimento
indipendentistico armeno. Cinicamente l’ambasciatore russo Lobanov dichiarò che il
suo Paese non avrebbe, data l’esperienza negativa in Europa, creato un'altra Bulgaria in
Asia Minore. L’unica opzione rimaneva la Francia, che ospitava una ben consolidata ed
attiva diaspora armena. Ma anche il governo di Parigi rimase un’opzione troppo blanda
sebbene l’ira contro il “Sultano rosso” abbondava in ogni giornale francese. Alleato
strategico dei Russi davanti all’acuirsi dei rapporti con Germania ed Impero Asburgico,
rimaneva in più il primo creditore mondiale di Costantinopoli. La Francia sarà la
Nazione che accosterà di più il dovere delle riforme da parte del governo turco alla
1
Ivi. pag. 431
René Pinon L’Europe e l’Empire Ottoman… cit. pag. 46
3
Histoire de l’Empire Ottoman cit. pag. 605
2
86
necessità dell’integrità ottomana. In una nota del dicembre 1896 Parigi condannava
come impresa avventuristica ogni politica che agisce isolata verso l’Impero Ottomano1.
Dopo quell’anno la Francia ritirerà anche quell’appoggio che inizialmente aveva dato
alle voci di riforma che venivano dalla sua diaspora armena2.
Tuttavia la mancanza di attivismo politico a favore della questione armena trova
una spiegazione anche nella divisione che esisteva fra gli stessi militanti armeni.
Sebbene le somiglianze con i movimenti balcanici fossero evidenti, presso gli Armeni
mancava un riferimento politico ben preciso. Greci, Serbi, Bulgari, Kutzo-Valacchi
nella spinta verso le loro richieste irredentistiche avevano pur sempre un appoggio più o
meno esplicito da parte di Atene, Belgrado, Sofia o Bucarest. Nel caso armeno la
mancanza di uno Stato indipendente in funzione delle loro richieste radicali o meno, era
sentita molto. A maggior ragione perché le divisioni interne tra le varie organizzazioni
di stampo nazionalistico erano soltanto un corollario alla loro divisione territoriale fra
Russia, Turchia e Persia. Gli Armeni erano uniti nel sentiero ideologico – tutti
professavano più o meno l’indipendenza come obiettivo finale - ma molto divisi nelle
leadership e nelle clientele. Fra il 1902 e il 1907 molte società patriottiche armene, non
trovando un miglior modo organizzativo, finiranno per appoggiare e, dopo, confluire nel
movimento dei Giovani Turchi.
1
2
René Pinon op. cit. pag. 51
Histoire de l’Empire Ottoman cit. pag. 605
87
88
Capitolo III
Da Londra a Berlino: le retrovie del nuovo asse turcotedesca
(1898-1908)
1. L’entrata in scena della Germania: la visita di Guglielmo II
a Costantinopoli
Il II Reich tedesco nei due capitoli precedenti è stato trattato in misura
marginale. La ragione più ovvia resta quella legata agli orientamenti principali sulla
scena internazionale da parte della politica bismarchiana. Il Cancelliere di Ferro aveva
ricostruito la mappa dell’Europa facendo del concetto di forza – e del suo derivato
militare – il cardine della sua politica d’equilibrio fra le Potenze. Lo scopo raggiunto –
l’unificazione della Germania venne sancita nel 1870 – richiedeva il necessario
impegno per la sua preservazione. Negli anni della sua iniziazione politica (anni’50),
Bismarck aveva sostenuto una politica isolazionista per la Prussia. Allontanandosi da
tutti i battibecchi europei, aveva potuto dar mano libera alla sua politica di scegliere
l’alleato più favorevole e necessariamente fargli guerra se l’interesse nazionale lo
richiedeva. In questo modo si mettevano da parte amicizie permanenti, le quali
potevano soltanto bloccare la libertà d’iniziativa del suo Paese.
Dopo il 1870, tentando di consolidare l’unificazione tedesca, Bismarck cercò
di ritornare sui passi della tradizionale alleanza con Austria e Russia. Il motivo che lo
spinse fu sicuramente la situazione senza precedenti creatasi durante gli anni ’70
89
nell’equilibrio europeo. La Germania era diventata troppo forte per restare isolata anche
perché il resto dell’Europa, sentendosi minacciato, poteva riunirsi militarmente contro
essa. Era diventata un gigante che aveva bisogno di amici. Il Cancelliere tentò in questo
modo di capovolgere completamente il suo operato in politica estera. Abbandonando la
libertà di manovra, il nuovo modus vivendi et operandi della Germania divenne la
costruzione di una serie di alleanze fini e complesse per poter così evitare sia potenziali
coalizioni anti-tedesche, sia spinte imperialistiche dei suoi partner, pericolose per
l’equilibrio europeo e, dunque, per la stessa Germania 1. In qualsiasi alleanza, spesso
contraddittoria l’una con l’altra, la Germania era quasi sempre più vicina ai suoi vari
componenti di quanto questi fossero l’uno con l’altro. Spesso tale schema complicato è
stato criticato in quanto settecentesco nel momento che la diplomazia europea sosteneva
tutt’altro modo di mantenere l’equilibrio di forze. Tuttavia Bismarck riuscì a costruire
un numero di alleanze le quali in parte cooperavano, in parte concorrevano ad assicurare
l’Austria da un attacco russo, la Russia da un’avventura austriaca, la Germania dallo
stare sola e a contenere le mire dello Zar nel Mediterraneo con l’aiuto della Gran
Bretagna. Calcoli infiniti e sottili ma che risultarono esatti per tutta la durata della
carriera bismarchiana. Francia e Inghilterra invece, fuori dal sistema bismarchiano, fino
all’incidente di Fashoda, per poco non si scontrarono sull’Egitto. Parigi raffreddò i suoi
rapporti con Roma, in seguito alla conquista di Tunisi, e Londra continuava a frenare la
Russia nella suo espansionismo verso gli Stretti. In sé, la realpolitik di Bismarck riuscì a
contenere anche le stesse ambizioni tedesche che avrebbero potuto minare l’unità della
Germania e la pace del Continente. Il capo del governo di Berlino infatti, finché poté,
1
Sommariamente queste alleanze le abbiamo citate anche in precedenza. Il loro nucleo era
costituito dai tre trattati più importanti: la Lega dei Tre Imperatori (Germania, Austria-Ungheria, Russia
1881), la Triplice Alleanza (Germania, Austria-Ungheria, Italia 1882) e il Trattato di Controassicurazione
con la Russia del 1887.
90
posticipò gli appetiti coloniali tedeschi fino alla metà degli anni ‘80 evitando lo scontro
con l’imperialismo britannico, e circoscrivendo in Europa la politica estera tedesca in
funzione del mantenimento dello status-quo.
Alla fine il modello che Bismarck immaginò per ricostruire la mappa
dell’Europa ebbe pienamente successo nel modello vigente delle relazioni
internazionali, ma non si dimostrò tanto pratico da venire applicato a pieno dai suoi
successori. Quando la novità tattica della politica bismarckiana venne ad esaurirsi, si
vide anche la sua incapacità di istituzionalizzarsi. I suoi discepoli e concorrenti
prestavano attenzione più alle guerre che il Cancelliere di ferro aveva fatto per ottenere
la supremazia tedesca sull’Europa, che ai minuziosi preparativi che tale opera
richiedeva.
Tutto cambia, infatti, quando il sipario cade sull’uomo che più di chiunque
altro aveva contribuito al processo d’unificazione della patria tedesca. L’incoronazione
a Kaiser di Guglielmo II, sia per volontà dell’imperatore medesimo, sia per una certa
tendenza di respiro antibismarchiano dentro gli stessi elementi della corte, completò il
definitivo strappo con la precedente politica estera. Preparandosi ad esautorare
Bismarck, alla fine degli anni ’80, l’entourage politica tedesca inneggiava alle
manifestazioni della forza, senza tuttavia percepire l’analisi profonda nella quale essa si
basava1. Va da sé che tale atteggiamento si traducesse in un antagonismo totale rispetto
all’idea bismarckiana di astenersi, quando l’obbiettivo nazionale viene raggiunto,
dall’usare la forza. Come spesso si diceva nelle loro dichiarazioni più altisonanti, per gli
uomini di Stato tedeschi, la Germania doveva essere il martello della diplomazia
europea e non la sua incudine2. In questo senso, alla guida dell’Impero Tedesco, i
1
2
Henry Kissinger, Diplomacy, New York, 1994 pag 135
Ivi. pag 170
91
successori di Bismarck, affascinati da una emozionante espansione della potenza
tedesca, combinarono la forza con l’indecisione, portando il loro Paese prima
all’isolamento, poi alla guerra.
L’artefice di queste scelte, l’imperatore Guglielmo II1, era una personalità
ossessionata dalla volontà di dimostrare l’importanza della supremazia tedesca.
Cercando di costituire una nuova teoria dello Stato, i suoi ideologi sancirono la nascita
della Weltpolitik (alla lettera: politica globale), senza mai chiarire il significato esatto
del termine e la sua corrispondenza con gli interessi nazionali della Germania. Piena di
slogan e con un vuoto intellettuale indelebile, quest’ideologia non solo stravolse gli
schemi bismarckiani ma cambio anche la mappa geopolitica delle alleanze. A discapito
delle sue complicatissime manovre, il Cancelliere di Ferro non aveva mai toccato
l’assunto principale della diplomazia ottocentesca: il tradizionale equilibrio di forza,
emblema non solo della concertazione viennese ma in generale della pace europea. Il
nuovo Kaiser invece era più che insoddisfatto di queste condizioni, senza riuscire a
comprendere che la crescita della militarizzazione tedesca andava di pari passo con
l’incoraggiamento di coalizioni antitedesche. Infatti ancora nel 1898, Francia e Regno
Unito erano ai ferri corti riguardo all’Egitto mentre l’inimicizia fra Inglesi e Russi in
1
Guglielmo II di Prussia e Germania (1859 - 1941) ultimo imperatore tedesco (Kaiser) e
ultimo re (König) di Prussia dal 1888 al 1918. Il suo regno fu contraddistinto dalla spinta militaristica tesa
ad affermare il potere tedesco. Cercò di espandere i possedimenti coloniali tedeschi, "un posto al sole".
Con il Piano Tirpitz, attraverso le leggi navali del 1897 e 1900, la Marina Tedesca venne rafforzata fino a
rivaleggiare con quella del Regno Unito. La sua personalità e le sue politiche oscillarono tra
l'antagonizzare e il compiacere Regno Unito, Francia e Russia. Dimise Otto von Bismarck nel 1890 e
abbandonò le attente politiche del Cancelliere, sostituendolo con Leo Graf von Caprivi, che a sua volta fu
sostituito dal principe Hohenlohe-Schillingsfurst nel 1894. A quest'ultimo successe il principe Von Bülow
nel 1900 e Bethmann-Hollweg nel 1909. Tutti questi Cancellieri erano funzionari civili anziani e non
politici come Bismarck. Guglielmo voleva impedire il sorgere di un altro Bismarck. Nonostante il suo
atteggiamento è difficile dire se cercò la prima guerra mondiale, anche se fece ben poco per impedirla. Si
era alleato con l'Austria-Ungheria ed incoraggiò la sua linea dura nei Balcani. Durante la guerra fu
Comandante in Capo ma perse rapidamente il controllo di tutta la politica tedesca e la sua popolarità
precipitò. Come risultato dell'esplosione della Rivoluzione tedesca, l'abdicazione del Kaiser venne
annunciata da Max von Baden il 9 novembre 1918.
92
Asia continuava a dare ossigeno al morente Impero Ottomano. Nessuno in quell’epoca
avrebbe mai immaginato un’alleanza fra Londra, Parigi e Pietroburgo, ispiratrice diretta
della quale non poteva che essere a contrario quella diplomazia tedesca che a dieci anni
dall’allontanamento di Bismarck (1890) era diventata così testarda e minacciosa1.
La visita di Guglielmo II a Costantinopoli (ottobre 1898) avvenne quando i
tentativi di ricerca di un nuovo alleato da parte di ‘Abdül Hamid erano diventati di
dominio pubblico2. Era abbastanza chiaro, perfino a Londra, che il Sultano stava
cercando di sostituire il vecchio, ma ormai consumato, alleato a favore di uno nuovo.
Dopo i fatti d’Armenia, saltare da una diatriba all’altra fra i vari interessi occidentali
dentro l’Impero era diventato impossibile. Negli anni ‘90 del XIX secolo diveniva
chiara la volontà di polarizzazione in Europa. Fra un’alleanza sempre più stretta francorussa e un definitivo accordo austro-tedesco, Costantinopoli non poteva più governare la
propria economia e pianificare l’avvenire del suo Impero semplicemente restando in
mezzo agli antagonismi europei. I tempi parevano abbastanza maturi per una scelta
definitiva essendo che lo ”splendido
isolamento” (termine coniato da Salisbury)
spingeva sempre l’Inghilterra fuori dai confini europei distogliendo la sua attenzione
dall’Impero Ottomano. Sebbene la diplomazia ufficiale del terzo Marchese di Salisbury
continuasse ad essere tradizionalmente solidale con quella dei suoi predecessori, era
chiaramente visibile che gli impegni principali dell’Impero britannico erano altrove
(Egitto, Sudan, Sud Africa ecc.). Dall’altra parte, la Russia, dopo il completamento
1
Va aggiunto che Bismarck nel suo testamento politico più volte raccomandò di non combattere
mai su due fronti: cioè contro Francia e Russia contemporaneamente. Tale monito ben due volte ( nella
Prima e nella Seconda Guerra mondiale) venne dimenticato dai suoi successori. L’elemento più
importante della sua visione storico-politica è stato il capire lo schema seicentesco posto a fondamento
della dominazione francese nel Continente (mantenere, secondo Richelieu, un’Europa centrale
perennemente disunita) e di conseguenza realizzare l’inverso a favore della Germania (unire sotto Berlino
l’Europa centrale ed isolare quindi la Francia).
2
Era la seconda visita che il Kaiser tedesco faceva a Costantinopoli. La prima venne svolta nel
1889 quando ancora non vi era stata una definizione ufficiale della nuova politica estera tedesca.
93
della Transiberiana, rivolgeva il suo sguardo verso l’Estremo Oriente. La
normalizzazione dei rapporti col tradizionale nemico settentrionale durante gli ultimi
anni dello Zar Alessandro III e i primi del regno di Nicola II, spingesse i policy makers
di Costantinopoli a guardare con più interesse alla Germania. Questa, aveva appena
iniziato a dare uno sguardo fuori dall’Europa col suo principio di “pacifica presenza” in
Africa, e nel Vicino e Estremo Oriente. Rinchiuso nei suoi schemi, Bismarck non aveva
programmato nessun piano di alleanza con la Turchia. Sicuro dell’idea che le alleanze
storicamente servivano ad un Paese per accrescere la sua sicurezza, l’architetto
dell’unità tedesca era troppo pessimista riguardo all’utilità di un asse Costantinopoli Berlino. Quindi a parte piccole missioni di ufficiali militari tedeschi, come quella del
1882, Bismarck durante tutto il suo operato diplomatico guardò con indifferenza
all’Impero Ottomano.
Non fu così per gli investimenti tedeschi in terra ottomana. I capitali di
provenienza dalla Germania erano sicuramente inferiori a quelli che venivano dalla
Francia ma comunque raggiungevano un non modesto 23,2% all’epoca della visita del
94
Kaiser
a
Costantinopoli.
25,00%
20,00%
15,00%
presenza tedesca DP
10,00%
5,00%
0,00%
1881
1898
1914
Banca Ottomana, Deutche Bank e Debito Pubblico rappresentano nell’ultimo
periodo di vita della Turchia Ottomana il trio al vertice dell’establishment economico di
Costantinopoli. I dati succitati indicano che la presenza del capitale tedesco
nell’Amministrazione del Debito Pubblico ottomano era in crescita1. Le considerazioni
sulla crescente preponderanza tedesca nell’economia ottomana ovviamente non vanno
esagerate. L’importanza di Berlino continuava ad essere inferiore al peso della Francia
1
Histoire de l’Empire Ottoman (sous la direction de Robert Mantran) cit. pag. 607
95
nei capitali investiti e al peso della Gran Bretagna sul piano commerciale. Dall’altro lato
è impossibile non notare un elemento sorprendente a riguardo della penetrazione
tedesca: la sua rapidità.
Infatti, fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, il più visibile, ma
anche più controverso, segno della pénétration pacifique rimane l’enorme investimento
di Berlino a favore delle strade ferrate nell’Impero Ottomano. Ovviamente, la
costruzione che attirò più attenzione fu la ferrovia Costantinopoli-Baghdad, già
concordata durante la visite del Kaiser, ma neanche prima di essa i Tedeschi erano
rimasti indifferenti a questo settore cresciente in Asia occidentale. Durante gli anni ’90,
un azienda tedesca (la Société du Chemin de Fer Ottoman d’Anatolie) completò due
collegamenti ferroviari tra il Bosforo, Angora e Konya. Inoltre piccoli tratti, sempre
costruiti dalla sopracitata azienda, che raggiungevano Adana, Mosul e Bassora
costituiranno la premessa per la quale, gli stessi finanziatori di prima, premeranno per
costruire la ferrovia del secolo1. Fino al 1890, la società era stata gestita tramite la
comunanza anche di capitali inglesi i quali però vennero venduti ai Tedeschi.
L’esclusività di tali azioni rivelava più che mai l’infiltrazione tedesca in zone che da
sempre venivano considerate strategiche dal governo di Londra. Stavolta gli interessi
non si intrecciavano soltanto nella capitale turca, ma anche in zone dove fin’allora la
presenza inglese era stata indiscussa2.
A Costantinopoli inoltre, il Reich veniva rappresentato doppiamente, da
un’ambasciata e un ufficio consolare. Le personalità di Stato tedesche che vennero
mandate vicino al Sultano erano veramente tante, ma più di tutti spicca il nome del
1
Ulrich Trumpener, Germany and the End of the Ottoman Empire in The Great Powers and the
Ottoman Empire (edited by Marian Kent), George Allen & Unwin, London, 1984, pag. 118
2
C.J.Lowe – M.L. Dockrill, The mirage of power. British Foreign Policy 1902-1914, Routledge
& Kegan Paul, London, 1972, pagg. 3-4
96
barone Adolf Marschall von Bieberstein (ambasciatore tedesco fino al 1912). Questo
giurista di origine bavarese, ex segretario della Auswartige Amt (Ufficio Estero) dopo
Bismarck, in poco tempo trasformerà la sua posizione sul Bosforo nel più importante
avamposto mediorientale del II Reich. In sé, dai suoi contemporanei, venne visto come
il vero architetto dell’alleanza turco-tedesca1
La Germania infatti, a partire dal 1899, iniziò ad avere il pieno monopolio
soprattutto sugli armamenti della Turchia. Già a partire dagli anni ’80 il produttore
maggiore d’artiglieria tedesca, la Krupp di Essen, mandò migliaia di armi leggere e
pesanti alle truppe del Sultano, quasi sempre coadiuvato dagli ufficiali tedeschi presenti
in Turchia. Il suggerimento tedesco di rafforzare un esercito più “continentale” che
“marittimo” venne accettato in pieno dai Turchi. Infatti, fino all’entrata della Turchia
nella Grande Guerra il ruolo tedesco nella Marina ottomana rimane meramente
marginale. Le ragioni politiche non furono d’altronde estranee a questo affidamento
tempestivo alla Germania: l’idea di lasciare Londra per Berlino era venuta formandosi
nella mente di ‘Abdül Hamid II da quando l’interessamento tedesco per i settori
dell’esercito e della ferrovia era diventato palese. Tuttavia la mancanza di altre
ragionevoli alternative alla chiusura dei mercati di armamenti che francesi e inglesi
stavano facendo ai turchi non fece che accelerare tale scelta. Qualche prova pratica del
resto già c’era stata. Tra il 1883 e il 1896 il generale tedesco Colmar von der Clotz
venne incaricato dal Sultano ad intraprendere la ricostruzione dell’esercito ottomano2.
Tale operazione contemplò anche l’invio di vari futuri alti ufficiali ottomani a seguire
programmi d’addestramento in Germania. Non poco si è scritto riguardo all’influenza
tedesca che avrebbero subito le stelle nascenti dei Giovani Turchi che proprio in quei
1
2
Ulrich Trumpener, op.cit., pag. 113
Histoire de l’Empire Ottoman… cit. pag. 607
97
quadri dell’esercito ottomano formatisi in Germania trovarono esponenti e teorici i quali
formularono i primi slogan organizzativi. Oltre ad Enver pascià, primo fra tutti a
stringere rapporti con i quadri tedeschi, vanno menzionati Ahmed Izzet pascià (ministro
della Guerra nel 1913-14), Mahmud Sevket pascià (Gran Vizir nel 1913) e altri giovani
ufficiali che faranno dell’ispirazione prussiana la loro anima guida nella nuova Turchia1.
Abbiamo già accennato al fatto che la presenza di consiglieri tedeschi nelle
file dell’esercito imperiale fu determinante per la vittoria contro i Greci nel 1897 –
anche se tecnicamente l’esercito greco non era in grado di intimidire nessuno. Quella
occasione del resto mostrò il risultato positivo che si poteva ottenere affidandosi
militarmente ai tedeschi e, al contrario, l’esito negativo che comportò l’affidamento alla
diplomazia degli ex-amici inglesi durante i colloqui di pace. Come anche sopra abbiamo
detto, la Grecia perse la guerra, ma sicuramente “vinse la pace”, dato che le condizioni
imposte al governo d’Atene furono tutt’altro che restrittive. Se Creta, casus belli del
conflitto, appariva dopo il trattato di pace più lontana che mai dal controllo dell’Impero
Ottomano, il “merito” non poteva che essere dell’ennesima sottomissione alle direttive
inglesi. L’evidenza di tale fatto rendeva giustizia al tentativo hamidiano di accattivarsi
un altro alleato.
Sicuramente non sarebbe stata un’azione di successo scontato. Considerando
diritti ed interessi che le altre Potenze avevano nell’Impero, spesso la politica turca di
Guglielmo II è stata criticata ferocemente. Uno storico inglese, notoriamente antiimperialista, Gottlieb, ha affermato che mentre le Potenze della Intesa “were each
tugging at the best portions of the Empire from outside”, i Tedeschi dal canto loro
“endevouring to hold it together by capturing the whole from within”2. Questa
1
2
Ulrich Trumpener, op.cit. pag. 116
W. W. Gottlieb, Studies in secret diplomacy during the First World War, London, 1957, pag.
32
98
affermazione, contiene reali verità ma anche un pizzico di esagerazione. Mettersi contro
le altre Potenze, con la speranza di poter far rivivere l’Impero turco, per poi assicurarlo
come fedele alleato del Reich, fu sicuramente un grossolano errore da parte di
Guglielmo II. Tuttavia non è ancora chiaro se l’affidamento e la protezione che lui offri
in molte sedi internazionali al regime di Hamid fosse una sua precisa politica nei
confronti di Costantinopoli, oppure se tale scelta di campo fosse frutto di mutate
relazioni con le altre Potenze. Rimane sicuramente il fatto che dalla metà degli anni ’90
al 1908 le relazioni fra Berlino e Costantinopoli furono amichevoli e in alcuni casi
veramente cordiali. Tuttavia non si possono nascondere anche i vari ripensamenti che il
Kaiser ebbe a proposito del Sultano. Ciò sembra ancora più chiaro dai vari
tentennamenti che si ebbero nella questione della ferrovia di Baghdad.
2. L’intermezzo della ferrovia che divide
Al di là delle controversie e delle normali interazioni fra le Potenze, la storica
visita di Guglielmo II del 1898 a Costantinopoli delineò, almeno in linea di principio, la
costruzione di una ferrovia di ampia lunghezza nel territorio ottomano. Nel dettaglio, il
collegamento via treno che avrebbe dovuto collegare la parte asiatica dell’Impero – agli
albori del secolo tecnologico la Turchia aveva un estensione soprattutto asiatica – con
quello che ne rimaneva nel continente europeo, costituiva il progetto più ambito dalla
classe politica di Costantinopoli. Il grande affaire della nuova amicizia turco-tedesca
consisteva proprio in questo. Sebbene un vecchio piano già esistesse, il finanziamento
estero costituiva la questione più problematica per la Sublime Porta; soprattutto dopo la
99
costruzione della ferrovia Damasco-Hidjaz che aveva nettamente ridotto il budget
imperiale. Il ruolo principale nella nuova progettazione ferroviaria doveva venir giocato
dalla Deutche Bank, interessata dal 1888 a simili appalti. La diffidenza politica verso gli
Inglesi presto si tradusse in controversia aperta riguardo al nuovo progetto che doveva
collegare Costantinopoli a Baghdad. Hamid non vedeva di certo di buon occhio l’offerta
londinese di costruire la ferrovia, anche perché in questo modo avrebbe
opportunisticamente usato tale progetto per poter sorvegliare meglio i suoi interessi
dall’India all’Egitto. Volendo distaccarsi dall’Impero britannico, il Sultano preferiva
decisamente ridurre e non aumentare gli interessi inglesi sul suo territorio. Lo stesso
ragionamento valeva anche per la Francia: Parigi stava dimostrando grande
interessamento, ai limiti dell’interferenza politica, per le zone della Siria e del Libano.
Darle in mano il controllo sulla costruzione di una ferrovia tanto cruciale, significava
assecondare de iure le sue ambizioni.
La Germania, almeno nella testa del Padiscià, prometteva più soldi e meno
vincoli, sebbene il legame fra questi fattori fosse enorme. Sicuramente l’establishment
hamidiano sapeva questa cosa ma il fatto che già nel 1888 i Tedeschi avessero ottenuto
in concessione e quindi costruito il tratto ferroviario Izmit-Ankara, creava maggiore e
reciproca accondiscendenza fra Berlino e Costantinopoli1. Nella cerchia del Sultano, da
tempo, c’era chi, come Damad Mahmud pascià o Sa’id pascià che apertamente
sostenevano l’offerta di Londra, ma, e non solo in quella occasione, il veto di Hamid fu
irrevocabile. Del resto, e l’abbiamo sottolineato anche prima, l’arrivo di Guglielmo
nella capitale turca non fece che ufficializzare il cambiamento di rotta che il Sultano già
pianificava. L’abbandono dell’Inghilterra per la Germania con la ferrovia di Baghdad
diventò così un fatto esplicitamente ammesso.
1
Histoire de l’Empire Ottoman (sous la direction de Robert Mantran) cit. pag 608
100
Non fu tuttavia un’impresa facile neanche per i Tedeschi stessi. Un vecchio
detto turco recita che il pesce marcio inizia a puzzare dalla testa. Infatti ben presto
problemi d’ogni genere con i finanziamenti di Berlino vennero a galla. Una linea
d’espresso che collegava Berlino con Costantinopoli (via Vienna) già esisteva e i
banchieri tedeschi avevano in mente, almeno all’inizio, il solo prolungamento fino ad
Ankara. In un certo senso furono costretti dalle insistenze del Kaiser ad andare più là,
spingendo la tratta fino a Baghdad1. Finché la linea non oltrepassò l’Anatolia problemi
fra i vari interessi non vi furono, tranne piccoli screzi con la Russia riguardo ai privilegi
che quest’ultima godeva in Armenia e Iran. Però, già un anno dopo la partenza dei
lavori, nel 1899, le concessioni fatte crearono molti attriti fra le Potenze. La costruzione
della ferrovia metteva in gioco zone di enorme interesse economico e strategico.
Naturalmente, il più ambito rimaneva il Golfo Persico, vero cumulo di interessi e
influenze fra le varie capitali europee. Inoltre, se tali discordie contribuirono al
rallentamento dei lavori, appena i soldi iniziarono a mancare, Berlino fermò subito la
costruzione della Baghdad Express.
La compagnia che si occupava della costruzione, in apparente contraddizione
con la sua iniziale condotta, iniziò a richiedere l’assistenza di capitali anglo-francesi.
Nel 1902 l’offerta che venne fatta agli investitori inglesi venne accettata, ma solo in
linea di massima. Il Segretario agli Esteri Lansdowne infatti, sebbene fosse convinto
dell’importanza strategica della ferrovia, era sicuro che l’opinione pubblica non avrebbe
accolto con entusiasmo l’implicazione economica di Londra nello stesso affaire di
Berlino2. Egli giustificò i negoziati anglo-tedeschi con il fatto che l’Inghilterra non
poteva lasciar completare la linea senza prendere in mano almeno la parte ferroviaria
1
2
Niall Ferguson Empire. How Britain made the modern world cit. pag. 302
C.J. Lowe – M.L. Dockrill The mirage of power. British Foreign Policy. 1902-1914, cit., pag. 4
101
intorno al Golfo Persico. Controllare tutta la Mesopotamia tramite una via ferrata,
dichiarava Lansdowne, voleva dire accrescere i benefici del commercio inglese in zona,
favorendo anche il miglioramento dei rapporti fra Berlino e Londra. Niente venne alla
galla però, in conseguenza anche dell’ostruzionismo parlamentare e dell’arrendevolezza
del ministro inglese, il quale in non poche occasioni ammise che “I am afraid that in the
long run our attitude will be hard to explain”1 i suoi piani diplomatici. Gli unici risultati
che produsse questo tentativo di riavvicinamento delle posizioni fra Germania e
Inghilterra furono le dichiarazioni di Lansdowne davanti alla Camera dei Lord. Egli
avrebbe visto ogni “establishment of a naval base or a fortified port in the Persian Gulf
as a very grave menace to our interests”2. Questo ovviamente non poteva giovare ad un
possibile accordo fra Londra e Berlino.
Posizioni politicamente antagonistiche una con l’altra ben presto fecero le loro
apparizioni anche nella scena interna turca. Le controversie erano tante e la divisione in
due campi contrapposti non serviva certo a rimuovere le difficoltà. Da un lato, il fronte
dei banchieri non si fece scrupoli nella richiesta di far intervenire le altre Potenze
sebbene questo non giovasse alla causa politica; in questo modo il fine lucrativo che la
ferrovia nascondeva risaltò davanti agli occhi di tutti. Dall’altro, i politici, con Hamid in
testa, avevano il sospetto che far mostrare al pubblico l’insufficienza dei finanziamenti
tedeschi potesse contribuire al fallimento dell’intero piano. Ciò sarebbe stato sia un
costo in termini economici che un primo smacco alla nuova alleanza turco-tedesca, nella
quale Hamid tanto sperava.
Il compromesso non tardò tuttavia ad essere realizzato. Intorno alla ferrovia
Costantinopoli-Baghdad c’erano enormi interessi e così tante opportunità di guadagno
1
2
Ibidem.
Ivi, pag. 4
102
che le Potenze ben presto abbassarono reciprocamente guardia. L’accordo venne nel
1903 fra la Deutsche Bank e la Banca Ottomana – la costituzione della quale era stata
opera di capitali soprattutto francesi. In base ad esso – e gli Inglesi non furono estranei –
il 30% dei capitali investiti nella costruzione della ferrovia dovevano essere francesi. A
ciò, i governanti di Parigi aggiunsero un altra escamotage: non permisero alla società
tedesca che si occupava della Baghdad Express di venir quotata con i propri titoli nella
borsa della capitale francese. Questo atto in teoria serviva a contenere i crescenti
guadagni che i Tedeschi, in quanto maggiori azionisti nella compagnia di costruzione,
altrimenti avrebbero ottenuto. Infatti si temeva che l’autorizzazione allo sfruttamento
del territorio da parte di Berlino avrebbe apportato alla Germania non solo benefici
economici ma anche la possibilità di poter costruire un vero e proprio “corridoio
tedesco” nell’Impero Ottomano1. Dal 1904, anno dell’inaugurazione della prima sezione
della ferrovia, fino al 1909 un numero infinito di rapporti e memorandum pervennero a
Londra da parte dei dipartimenti più preoccupati della crescente presenza tedesca in
Medio Oriente. Il Foreign Office, il Board of Trade, l’Ammiragliato e il Committee of
Imperial Defence si misero dettagliatamente a esaminare il rischio tedesco per gli
interessi britannici in Mesopotamia e nel Golfo Persico. La loro conclusione, secondo le
affermazioni in particolare del Committee, era che la dominazione economica
precedeva quella politica e insieme costituivano l’opera recente della Germania in
Medio Oriente2. Ovviamente nessuno credeva nella possibilità di una dislocazione di
truppe tedesche e turche che potessero minacciare l’India ma in ogni caso non si poteva
escludere l’ambizione tedesca ad approfittare del commercio regionale. Durante
l’autocrazia di ‘Abdül Hamid infatti, poco si poté fare a favore di una concessione
1
Histoire de l’Empire Ottoman cit. pag. 608
Marian Kent Great Britain and the end of the Ottoman Empire in The Great Powers and the
Ottoman Empire cit. pag. 181
2
103
totalmente inglese per la costruzione della ferrovia e dopo il 1907 il dialogo con la
stessa Germania divenne veramente difficile per gli Inglesi. A differenza dei suoi
interlocutori, la Germania preferiva negoziazioni individuali a quelle à quatre
(Inghilterra, Russia, Germania, Francia) comprendendo il rischio d’isolamento che tale
metodo avrebbe portato1. Gli ultimi tentativi vennero fatti nei due anni precedenti. Nello
stesso 1907 fu il capo della Foreign Office Grey colui che offri l’opportunità di un
condivisione anglo-tedesca della ferrovia, preferendo un compromesso ancora una volta
à quatre, mentre le speranze del suo vice Hardinge venivano deluse anche dopo la
vittoria della rivoluzione Giovane Turca a Costantinopoli. I nuovi governanti ottomani,
come vedremo dettagliatamente nel prossimo capitolo, non fecero molto per svincolarsi
dalle direttive tedesche.
Le difficoltà riguardo alla costruzione della ferrovia comunque serpeggiavano
in ogni dove. Economicamente i costi non si sanarono per il bilancio centrale ottomano.
Costantinopoli, secondo gli accordi, nella costruzione della ferrovia, avrebbe dovuto
pagare la cosiddetta “garanzia chilometrica” (cioè per ogni chilometro costruito il
pagamento per il ferro usato). Ciò ovviamente pesava tantissimo sulle casse dell’Impero
con conseguenze deleterie per la sua politica fiscale. A ciò contribuirono anche le
tensioni di natura sociale create dai disaccordi quotidiani fra manodopera mussulmana e
capisquadra greci e armeni. Ben presto tali difficoltà si trasformarono in aperti tumulti
che culminarono con lo sciopero generale del 19082. Inoltre, tramite il loro accordo con
lo Sceicco del Kuwait, nell’ottobre del 1907, gli Inglesi misero il bastone fra le ruote
per il procedimento dei lavori. Secondo tale accordo la Gran Bretagna avrebbe
1
C.J. Lowe – M.L. Dockrill, The mirage of power. British Foreign Policy. 1902-1914, cit., pag.
2
Histoire de l’Empire Ottoman cit. pag. 609
87
104
esercitato il controllo su ogni territorio del sceiccato dove la Baghdad Express avrebbe
dovuto passare vicina3.
Inoltre, sul diplomatico, le speranze di Hamid si realizzarono solo a metà. In
seguito agli accordi fra le Potenze, il Sultano fu costretto a riprendere la vecchia politica
d’incastro dei vari interessi europei, volta a fargli combaciare e ad usarli a proprio
vantaggio. Questa tattica, che in origine doveva fungere da garanzia per l’integrità
ottomana, non ebbe stavolta i risultati sperati. Sebbene smembramento reale dei
possedimenti imperiali non vi fu, nulla fermò i vari Stati europei dallo spartirsi varie
zone d’influenza. La Russia per esempio, coll’accordo cosiddetto del Mar Nero firmato
con i Turchi nel 1900, acquisì il diritto assoluto sulle costruzioni di vie ferrate nel NordEst dell’Anatolia. La Francia, per giunta, conquistò il monopolio assoluto sulla zona
siriana, dove già nel 1892-1902 aveva costruito 700 km di strade. Tutto ciò senza
contare il fatto che la penetrazione tedesca in Medio Oriente implicitamente dava il
beneplacito al riavvicinamento anglo-russo. In quegli anni la spinta esercitata sui
governi verso una soluzione bellica delle conflittualità rimaste sul piano diplomatiche
era enorme; tutto sembrava indurre alla guerra definitiva. Sicuramente non si può dire
che la concessione data ai tedeschi per la “Baghdad Express” fu l’unica vera causa
dell’inimicizia anglo-tedesca che porterà le due Nazioni alla Grande Guerra. Ma non si
può certo negare che il piano aggiuntivo fatto da Berlino per l’allungamento della tratta
ferroviaria fino a Bassora non abbia contribuito a scaldare gli animi. Ogni chilometro
aggiunto faceva temere a Londra, che i tentacoli tedeschi s’avvicinassero alla
Mesopotamia, piena di oleodotti britannici in cerca dell’oro nero.
E’ interessante quindi notare che l’effetto domino creato dalla spinta di Hamid
verso il Kaiser certo non creò buone prospettive per l’Impero Ottomano. Il Malato del
3
Marian Kent op.cit. pag 179
105
Bosforo era sopravissuto alla cancrena ottocentesca solo grazie alle inimicizie fra
Londra e Pietroburgo. Abbiamo speso gran parte del primo capitolo nello spiegare che
l’integrità ottomana era l’unica arma che gli Inglesi avevano a disposizione nella loro
battaglia contro l’orso russo in Asia. Questo ovviamente ci fa capire quanto fu erronea
la scelta del Sultano – cosciente o meno – di spingere l’ex-alleato britannico nelle
braccia dello storico nemico russo. Tutto questo avveniva nello stesso momento quando
i rapporti fra Berlino e Pietroburgo non solo non erano più nella quiete degli anni di
Bismarck ma anzi peggioravano ogni giorno di più. Da lì, il passo verso il definitivo
accordo anglo-franco-russo, già in rotta con Berlino, fu veramente breve. Col senno di
poi, si può finalmente affermare che la scelta di campo dell’Impero Ottomano, a dieci
anni dalla Prima Guerra Mondiale, fu la peggiore che si potesse fare.
3. Il nuovo corso politico della diplomazia inglese
Negli anni ’90, come già abbiamo detto in precedenza, la politica estera
inglese continuava ad essere ancorata allo “splendido isolamento” (termine coniato da
Salisbury). I Britannici, con enorme orgoglio, consideravano il loro Paese una sorta di
bilanciere equilibrato in Europa, il peso del quale preveniva la conquista della
supremazia da parte di una delle coalizioni continentali. Tuttavia a partire dall’ultimo
lustro dell’Ottocento si assiste ad un cambiamento di rotta nella concezione diplomatica
inglese, protagonista della quale doveva essere, per ironia della sorte, l’uomo che
rappresentava il tradizionalismo tout court nel modo di governare la politica estera del
Regno Unito: il marchese di Salisbury.
106
Tentando un plutarchiano parallelismo, Kissinger ha cercato di mettere in
evidenza la somiglianza fra la diplomazia tardo-isolazionista di Salisbury e quella di
fine Guerra Fredda attuata dal presidente George Bush Senior negli Stati Uniti.
“Ambedue presero le redini del potere di un mondo in tramonto sebbene per nessuno
dei due questo fu chiaro. Ambedue fecero scalpore, sapendo guidare ciò che avevano
preso in eredità. La concezione di Bush sulle relazioni internazionali era stata dettata
dalla Guerra Fredda, la fine della quale lui seppe gestire con successo; Salisbury fece la
sua formazione durante l’epoca di Palmerstone, quando la potenza marina della Gran
Bretagna non conosceva rivali e l’antagonismo anglo-russo in Asia non trovava
soluzioni. Ambedue questi fattori conobbero la fine durante il suo governo”1.
Convinto del suo ruolo d’assertore dello status-quo, e cosciente di essere
troppo conservatore per poter cambiare una tradizione lunga decenni, il marchese, anche
quando tentò una via alternativa alla vecchia alleanza anglo-turca, pretese la
continuazione della politica estera britannica sugli stessi binari già percorsi dai suoi
predecessori; questo naturalmente supponeva una linea dura contro le altre potenze
imperiali, ma soprattutto la volontà inglese di farsi coinvolgere in alleanze continentali
solo quando la scelta fosse ritenuta obbligatoria. Per Salisbury il significato di tutto ciò
era l’attivismo della potenza britannica nei mari e lo scostamento della diplomazia di
Sua Maestà da ogni coalizione ordinaria europea.
Ovviamente si dovette rendere conto che la posizione politica del suo Paese
era fin troppo cambiata e condizionata dal quadro politico interno alla vigilia del nuovo
secolo. La sua potenza economica ormai era comparabile a quella della Germania e il
nuova asse Parigi-Pietroburgo sempre più diventava una minaccia per i possedimenti
imperiali inglesi. Ad iniziare dall’India, la perla dell’Impero, la quale si trovava
1
Henry Kissinger Diplomacy cit. pag 177
107
circondata dalla presenza francese in Indocina e dai Russi nel Nord. Sicuramente la
dominance britannica reggeva ancora ma l’influenza ordinatrice che ella aveva nel
diciannovesimo secolo si stava lentamente esaurendo. Oppositori, lobbies economiche e
suoi stessi colleghi di governo, negli anni 1890, comprendevano la necessità della
politica tradizionale inglese d’adattarsi alle nuove inaspettate realtà internazionali. Anzi,
il campo coloniale negli ultimi anni si stava assistendo anche all’esordio della
Germania. Ovviamente di tensioni continentali fra Parigi, Pietroburgo e Berlino ce
n’erano tante ma sul mare l’obbiettivo della loro aggressività diventava comunemente la
flotta britannica. Ciò succedeva sempre più spesso anche perché, l’Impero Britannico
non possedeva soltanto l’India, il Canada, l’Australia ed una buona fetta del continente
nero, ma voleva la supremazia anche su territori che, per ragioni dichiaratamente
strategiche, considerava essenziali, sebbene non volesse controllarli direttamente. Fra
questi, oltre la Turchia, il governo di Londra includeva il Golfo Persico, la Cina e il
Marocco1.
I tempi, come era chiaro, non offrivano tutte le comodità possibili. Durante
gli anni ’90 la posizione della Gran Bretagna era messa costantemente in pericolo dalle
mire russe sull’Afganistan, nel Bosforo e in Cina settentrionale e dalle intrusioni
francesi in Marocco ed Egitto. La caotica realtà geopolitica stava spingendo
gradualmente l’Inghilterra, per la disperazione dei tradizionalisti, fuori dallo splendido
isolamento. In tale direzione determinante fu per il Foreign Office l’allarme che venne
dopo la decisione russa nel 1900 di entrare in diretti contatti con l’Amir dell’Afganistan.
Ancora più preoccupante fu i crediti economici che l’energico ministro delle Finanze
russo, il conte Sergei Vitte, sganciò a favore dello scià persiano. Ovviamente ciò
1
Henry Kissinger op cit. pag. 178
108
includeva favori e permissioni che il governo di Teheran assicurava in modo implicito a
Pietroburgo in tutto il territorio persico, eccezione fatta per il Golfo1.
Il primo passo verso nuovi ingaggi continentali si fece nel nome di relazioni
più ravvicinanti con la nuova Germania guglielmiana. Per la flotta britannica
l’eccezionale crescita militare tedesca pareva una minaccia. Seguendo i dettati
dell’ammiraglio Alfred Tirpitz, segretario della Marina Imperiale, nel 1897 la Germania
iniziò la costruzione di una flotta che ben presto allarmò la cancellerie britannica2.
Almeno per il momento Londra scelse di contrattare con Berlino. Infatti, coll’Accordo
Mediterraneo del 1887, la Gran Bretagna, in modo implicito, entrò nella Triplice
Alleanza (un’altra sofisticata creazione di Bismarck che doveva rispondere alla Lega dei
Tre Imperatori) con L’Impero tedesco, quello austo-ungarico e l’Italia3. La speranza era
che Vienna e Roma potessero in qualche modo aiutare le trattative inglesi con la Francia
nel nord Africa. Ben presto però si vide che tali negoziati erano più che inutili. I
Tedeschi, convinti che Russia e Gran Bretagna avevano bisogno dell’amicizia berlinese
pensarono di trattare contemporaneamente con loro, senza stabilire la natura delle
trattative, e peggio ancora, senza capire che tale atteggiamento avrebbe spinto Londra e
Pietroburgo ad accordarsi per proprio conto e indipendentemente da Berlino. Come
abbiamo avuto anche prima la possibilità di analizzare, la diplomazia tedesca della
Weltpolitik fu eccessivamente sbrigativa, volendo afferrare un risultato vantaggioso
prima di offrire qualcosa in cambio. Ovviamente lo faceva per far tenere sotto scacco
più potenziali rivali contemporaneamente; l’unica cosa che tuttavia che il governo del
1
C.J. Lowe – M.L. Dockrill, The mirage of power, cit. pag. 60
Ulrich Trumpener Germany and the End of the Ottoman Empire in The Great Powers and the
Ottoman Empire cit. pag. 111
3
Ivi. pag. 178
2
109
Kaiser non capiva era che tali metodi non facevano che insospettire ancora di più gli
altri Paesi.
Un atteggiamento sostanzialmente inverso a quello tenuto dalla Francia, dedita
al temporeggiamento, la quale, in modo lento e graduale, aspettò per vent’anni la Russia
e quindici l’Inghilterra perché potessero offrirle un accordo. Dalla Guerra di Crimea e
soprattutto dalla sconfitta di Sedan (1870) la politica estera di Parigi aveva cercato
sempre una via d’uscita ufficiale al fatto di essere sempre ricordata quale rischio per
l’equilibrio europeo. Ora che, con l’uscita di scena del paciere d’Europa Bismarck, il
marchio di tale rischio, sempre di più, lo stava assumendo la Germania di Guglielmo II,
Parigi si dette da fare per stringere quelle alleanze assicurative che per trent’anni aveva
pazientemente aspettato.
La prima mossa diplomatica del Kaiser, che irrevocabilmente si trasformò in
un corso fatale, fu attuata nel 1890, quando la guida del Reich in persona, rifiutò il
rinnovo del Trattato di Rassicurazione con lo Zar per un altro triennio. Rifiutando
l’ouverture russa, Guglielmo e i suoi consiglieri, tagliarono quello che forse era il nodo
più importante di tutto il sistema sofisticato di alleanze incrociate da Bismarck. Era
proprio la bifocale essenza di una cordialità con la Russia e nello stesso tempo con
l’Austria, che dette al Cancelliere di Ferro l’arma per bilanciare la paura austriaca e
l’ambizione balcanica della Russia. Rompendo tale nodo Berlino si diresse verso una
via che neanche ad essa era chiara. Sempre più l’uso di Vienna in quanto leva, faceva
percepire in Russia, che il Kaiser avrebbe dato carta bianca all’Austria in qualsiasi
avventurismo balcanico. In termini politici, l’abbandono dello Zar da parte tedesca, fu
un errore imperdonabile che non solo spinse la Russia verso un accordo con Parigi – per
Bismarck, non a torto, l’isolamento della grandeur francese era la chiave di sicurezza
110
per Berlino – ma spinse diplomaticamente all’isolamento la stessa Germania. Guglielmo
aveva calcolato che Parigi e Pietroburgo non avrebbero mai messo su un’alleanza,
perché la Russia non aveva nessun interesse a combattere per l’Alsazia – Lorena e dal
canto suo la Francia non avrebbe avuto nessun motivo ad impegnarsi per gli Slavi nei
Balcani. Fu un errore elementare, anche perché, sebbene queste due Nazioni lontane
nascondevano scopi diversi, tutt’e due capivano che potevano raggiungerli solo
attraverso la sconfitta, o perlomeno l’indebolimento, tedesco. Obbiettivo che soltanto
congiungendo le loro rispettive forze Parigi e Pietroburgo potevano raggiungere. Un
anno dopo il diniego tedesco al Trattato di Rassicurazione, Francia e Russia (1890)
sottoscrissero la Cordiale Intesa, assicurando così l’appoggio diplomatico reciproco. Nel
1894 ad esso seguì una convenzione militare, che a differenza del primo accordo, non
accennava alla Gran Bretagna quale possibile nemico contro il quale bisognava allearsi.
Infatti dopo il fallimento delle trattative sui temi coloniali fra Londra e
Berlino, la Gran Bretagna ben presto s’era ritirata da qualsiasi ipotesi di una coalizione
con la Germania. Tale impegno da parte britannica Guglielmo II l’aveva desiderato
enormemente, ma ancora una volta l’Inghilterra s’era rifiutata di far parte d’una
coalizione esplicitamente militare. L’impazienza del Kaiser non fece che aumentare le
riserve britanniche, fortemente dubbiosi verso i corteggiamenti tedeschi. La diplomazia
tedesca infatti, non arrivò mai a capire che la Gran Bretagna si sarebbe lasciata
coinvolgere in un conflitto o in un’alleanza quando essa stessa l’avrebbe ritenuto
opportuno; e anche in questo caso l’avrebbe fatto, scegliendo alleanze ad hoc
temporaneamente brevi, oppure accordi semplicemente diplomatici, senza appendici
militari. La baldanza eccessiva con la quale i Tedeschi contrattavano con gli Inglesi
sicuramente non poteva convincere questi ultimi che un accordo con Berlino, almeno
111
inizialmente, era meglio di nulla. L’ulteriore spinta tedesca verso l’Impero Ottomano
dette il colpo di grazia ai tentativi di Berlino di allearsi con Londra. Per giunta, dopo
aver perso un alleato quale la Russia, il Kaiser, con le sue spavalde ambizioni
mediorientali, rendeva ostile un potenziale amico quale l’Inghilterra. In pochi anni,
tranne il debole alleato asburgico, la Germania aveva buttato via tutte le carte utili per
poter evitare l’isolamento, spingendo verso un accordo essenzialmente antitedesco le tre
più potenti nazioni europee.
Nell’ottobre 1900, causa la salute cagionevole, Salisbury smise di essere
contemporaneamente premier e segretario agli Esteri, mantenendo soltanto la prima
funzione. Al posto suo venne il giovane ed energico lord Lansdowne, fermamente
convinto che l’Inghilterra non poteva più assicurare i propri interessi tramite
l’isolazionismo. Inizialmente, il nuovo capo della diplomazia britannica tentò tutte le
strade possibili per raggiungere un accordo con Berlino, ad iniziare dalla ferrovia di
Baghdad. Però, messo in minoranza dentro il suo stesso partito, ben presto egli ridusse
ad accordi meramente formali tutti i tentativi di conciliazione con il Reich. Al suo invito
di costituire una semplice alleanza diplomatica senza impegni molto concreti, il nuovo
cancelliere tedesco Bülow rispose con un'altra offerta di coalizione militare al fianco
della Triplice. Ciò che l’impazienza tedesca non fece, lo ottenne la pazienza francese,
riuscendo a convincere Londra a firmare esattamente quel patto militare che per tanti
anni Berlino aveva sognato. Durante il 1903 Lansdowne sì preoccupo maggiormente di
trovare un accordo con Parigi piuttosto che col governo tedesco. Causa ne fu anche la
deteriorante crisi fra Inglesi e Francesi sovra la predominanza sul Marocco1. Inoltre, il
segretario agli Esteri, per primo si convinse che un assestamento delle posizioni
antagonistiche con la Francia avrebbe spinto anche la Russia verso un compromesso
1
C.J. Lowe – M.L. Dockrill, op.cit. pag. 5
112
con Londra. Restia verso le avventuristiche imprese del suo alleato nell’Estremo
Oriente, la Francia iniziò a programmare un’alleanza a tre con Pietroburgo e Londra
anche a favore di un isolamento tedesco, ora più vicino che mai.
Alla crescente diffidenza inglese verso Berlino sicuramente aveva
contribuito
anche
il
prolungamento
della
Baghdad
Express
verso
territori
dichiaratamente d’interesse britannico come la Mesopotamia. La prima decade del XX
secolo stava dimostrando che la Germania, coscientemente o meno, stava
progressivamente sostituendo la Russia nella parte di béte noire degli Inglesi nel Golfo.
Nel 1909, quando già le parti ebbero finalmente chiarito le proprie pretese irrinunciabili,
il Comitato della Difesa Imperiale a Londra dichiarava che:
British claims to political predominance in the Gulf are
based mainly upon the fact of our commercial interests having
hitherto been predominant, and should our trade, as a result of
a German forward policy, be impaired, our political influence
would proportionately diminish.
Inoltre il Viceré inglese in India, lord Curzon, avvertì il rischio di una tale
diminuzione dell’influenza politica inglese dichiarando che:
…the Gulf is part of the maritime frontier of India…It is
a foundation principle of British policy that we cannot allow the
growth of any rival or predominant political interest in the
waters of the Gulf…1
1
Marian Kent Great Britain and the end of the Ottoman Empire in The Great Powers and the
Ottoman Empire cit. pag. 172
113
I Francesi d’altronde offrivano in concreto un compromesso dando
disponibilità immediata e mostrando più spirito di cautela verso gli interessi
commerciali di Londra1. Nel 1903, di conseguenza, la Gran Bretagna iniziò una
sistematica trattativa per risolvere i principali quesiti coloniali con la Francia. Due visite
ufficiali durante l’anno, quella del re Edoardo a Parigi e quella di ritorno del presidente
Loubet a Londra, spinsero Lansdowne ad entrare in veloci e strette trattative con il
Primo Ministro Delcassé. Queste riguardarono posizioni di compromesso che le parti
dovevano trovare in primis sul Marocco. Alla buona riuscita di questi – Londra
riconobbe la posizione predominante di Parigi in Marocco mentre quest’ultima accettò
in maniera definitiva gli interessi strategici britannici in Egitto - segui la firma nel 1904
della Cordiale Intesa2. Le conseguenze furono più che pratiche: sebbene non lo abbia
mai ammesso pubblicamente, il governo inglese abbandonava la posizione di bilanciere
e si legava con una delle due alleanze contrapposte. Quasi subito dopo, Londra prese
tutte le misure possibili per trovare una eguale soluzione nelle contese con la Russia.
Aveva già avuto una rassicurazione da parte dell’ambasciatore francese che Parigi
avrebbe fatto il possibile per liberare l’Impero Britannico dalle pressioni russe, ovunque
loro fossero esercitate. A buon mercato, buona rendita quindi.
Come l’intesa anglo-francese, l’accordo fra Russia e Inghilterra iniziò come
una forma di compromesso coloniale. A Londra al potere erano ritornati i Liberali i
quali erano ancor più riluttanti verso gli avanzamenti russi in Asia Centrale. Lansdowne
1
Accordi fra Berlino e Londra intorno alla spartizione dell’Africa effettivamente vi furono ed
anche con successo. La Gran Bretagna chiese alla Germania le foci del Nilo e pezzi territoriali dell’Africa
Orientale, inclusa l’isola dello Zanzibar. La Germania dal canto suo otteneva come quid pro quo una
striscia territoriale che collegava l’Africa sudoccidentale con il fiume Zambesi. Il preludio di un’alleanza
anglo-tedesca tuttavia non vi fu anche perché i mal intendimenti sfociarono a partire dalle ambigue
posizioni di Berlino durante le guerre boere (1899-1902).
2
C.J. Lowe – M.L. Dockrill op. cit. pag. 5
114
aveva creato il background per una possibile intesa e la vittoria del Giappone sulla
Russia nel 1905, ebbe l’effetto di demolire le ambizioni russe nell’Estremo Oriente. Il
ministro degli Esteri russo che seguì la battuta d’arresto a Port Arthur, Alessandro
Isvolskij, s’impegnò sin dall’inizio per poter distendere gli antagonismi del suo Paese
con le altre Potenze in Asia, concentrando l’operato del proprio governo verso una
ricostruzione interna1. Nel estate del 1907 quindi, durante lo storico incontro fra Nicola
II e Edoardo VII a Reval, non c’era nessun rischio per Londra ad offrire a Pietroburgo
condizioni più favorevoli nell’Afganistan ed in Persia. Quanto era grande la
preoccupazione inglese sulla Germania si vedeva non soltanto nella volontà di
contrattare con gli ex-nemici russi ma anche nell’accomodamento che Londra fece a
questi ultimi sui Dardanelli. Fu proprio qui la vera metamorfosi della politica estera in
collegamento alla tematica che questa tesi tratta. A partire da questi accordi le relazioni
anglo-russe, che durante l’Ottocento proprio sulla questione degli Stretti, avevano
sempre incappato, definitivamente si distesero. Come ebbe a dire il Segretario inglese
agli Esteri, sir Edward Grey: “ Buone relazioni amichevoli con la Russia vuol dire
rinunciare alla nostra vecchia politica di chiusura degli Stretti e abbattimento di
qualsiasi ostruzionismo dei confronti di essa nelle Conferenze internazionali”2.
Accordatisi sull’Asia Russi e Inglesi potevano trovare anche punti di vista
sostanzialmente uguali non solo riguardo la Germania ma anche sui nuovi amici di essa
come l’Impero Ottomano. Al crescente impegno tedesco negli affari dell’Impero
ottomano corrispondeva una progressiva perdita d’influenza da parte dei Britannici. Per
decenni la speciale amicizia anglo-ottomana si era basata su un trattamento bifocale da
parte di Londra. Essa da una parte insisteva sulla doverosità di chiare riforme
1
2
Ivi. pag. 64
Henry Kissinger Diplomacy cit. pag. 192
115
nell’ordinamento politico ottomano, segno questo di un’esplicita intromissione negli
affari interni di Costantinopoli. Dall’altra parte Londra premeva e assicurava in tutte le
conferenze internazionali l’integrità e l’indipendenza dell’Impero. Dopo le trattative con
Pietroburgo il secondo punto non è più utile per la Gran Bretagna e sul primo neanche
se la sente più di insistere. Infatti tra le due date cruciali del degrado dei rapporti fra i
due imperi, 1882 e 1908, i politici inglesi sempre più si convincevano che il
miglioramento delle condizioni per i cristiani sotto il Sultano voleva dire tagliare una
volta per tutte il nodo gordiano, cioè procedere nella spartizione della Turchia. A questo
punto, di quanto Londra fosse stanca di Costantinopoli e di quanto guardava
pessimisticamente alla classe politica turca, bastano a farlo capire queste parole del
primo dragomanno britannico a Costantinopoli, Gerald Fitzmaurice, nell’aprile 1908:
During the last few years our policy, if I may so call it,
in Turkey has been and for some time to come will be, to attempt
the impossible task of furthering our commercial interests while
pursuing a course (in Macedonia, Armenia, Turco-Persian
Boundary etc.) which the Sultan interprets as pre-eminently
hostile in aim and tendency. These two lines are diametrically
opposed and consequently incompatible with one another. In a
highly centralised theocracy like the Sultanate and Caliphate
combined, with its pre-economic conceptions, every big trade
etc. concession is regarded as an Imperial favour to be
bestowed on the seemingly friendly, a category in which,
needless to say, we are not included…1
1
Fitzmaurice a Sir Willim Tyrell (segretario personale di Grey), in Marian Kent op. cit. pag. 178
116
Insomma, era anche una chiara confessione da parte di uno dei personaggi
più scuri ma contemporaneamente più influenti dello stato maggiore inglese a
Costantinopoli; dopo decenni di trattative con un cadavere vivo, era indifferente se
tenerlo ancora in vita o meno. Bastò questo a far capire non solo al Sultano ma anche ai
suoi oppositori che ormai il nuovo governo liberale inglese non avrebbe avuto nessuno
scrupolo nell’operare contro l’integrità ottomana.
Grey e i suoi ufficiali furono maggiormente irritati quando verso la fine del
1907 la Germania, ignorando l’opinione russa e britannica inizio tentativi verso
concessioni bancarie a Teheran. Appare esatta quindi l’affermazione del vice di Grey,
Hardinge, secondo il quale “Germany is driving Russia into our arms” anche per quanto
riguardava i persistenti disguidi anglo-russi intorno alla Persia1. Infatti l’incontro fra i
due sovrani a Reval (9-10 giugno 1908), cambiando il tono della scena internazionale,
definitivamente chiariva anche le intenzioni della nuova politica estera britannica. La
rassegnazione sulle riforme da fare in Turchia era solo il sintomo di un nuovo
riallineamento europeo e non solo un ammissione del fatto che le riforme precedenti
erano fallite. Da sempre a favore di una concertazione europea, dopo Reval, gli uomini
del Foreign Office iniziano a parlare più precisamente di raggruppamenti fra le Potenze,
abbattendo per la prima volta l’ipotesi di una concertazione2. Questo non faceva che
approfondire la spinta antiturca dentro la diplomazia inglese, la quale, a partire dalle
concessioni che Costantinopoli aveva dato alla Germania, considerava già l’Impero
Ottomano parte di una coalizione ad essa contrapposta.
1
2
C.J. Lowe – M.L. Dockrill op. cit. pg. 80
Joseph Heller British policy towards the Ottoman Empire Frank Cass and Co., London, 1983
117
4. Ulteriori instabilità balcaniche: un problema chiamato
Macedonia
Intanto che l’attenzione internazionale girava intorno all’ottica
mediorientale, all’alba del XX secolo, un nuovo problema, di carattere tipicamente
balcanico, prendeva piede sui tavoli delle diplomazie europee. La Macedonia, era una
nozione geografica, per secoli privata d’una identità etnica chiaramente riconosciuta da
tutti i popoli contigui. Sicuramente questa non era una singolarità nella lunga storia
conflittuale dei Balcani; ma il fatto che, ancora verso la fine del XIX secolo, la regione
macedone non avesse conosciuto l’eco di un vero rinascimento nazionale rendeva
questa terra appetibile per vecchi e nuovi Stati ex-ottomani. In un’epoca nella quale i
Paesi erano costantemente attirati dal modello vigente dello Stato-Nazione, tutte le
conflittualità sull’eredità dei territori ottomani, fra Grecia, Serbia e Bulgaria ebbero una
manifestazione esplosiva in Macedonia. Questo del resto era abbastanza motivato e per
giunta scontato: di mezzo c’era la composizione etnica della regione, vero miscuglio di
popolazioni e origini. Subentrava inoltre un altro imbroglio di carattere decisamente
storico-politico: il confuso rapporto statistico fra queste popolazioni, criterio importante
per il dialogo fra i nazionalismi infuocati dell’epoca. Fedeli al vecchio sistema di
censimento, il milet, le autorità ottomane dividevano la popolazione in gruppi
prettamente confessionali. Di conseguenza la popolazione macedone poteva essere
catalogata come mussulmana, ebraica o cristiana riconoscendo ognuna di queste
componenti l’autorità suprema nel suo leader spirituale. Dopo il 1870 i cristiani rimasti
118
dentro i confini dei territori soggetti al Sultano vennero assoggettati a due dipendenze
politico-religiose: l’antico Patriarcato di Costantinopoli e l’Esarcato bulgaro fondato nel
1870. Sin dall’inizio, i rapporti fra le due istituzioni, una di cultura greco-bizantina e
l’altra d’ispirazione slava, non furono mai buoni. I tentativi di sabotaggio dell’autorità
dell’uno a favore dell’attività dell’altro furono all’ordine del giorno. Questo fu
l’ennesimo esempio di come il nazionalismo etnico riusciva nei Balcani ad attirare
verso i suoi scopi anche la Chiesa ortodossa. Infatti, a partire dall’indipendenza greca
(1830), ogni risorgimento nazionale era stato accompagnato dalla dichiarazione di
autocefalia (cioè indipendenza dal Patriarcato di Costantinopoli) della rispettiva Chiesa
locale. L’Esarcato bulgaro fu solo uno di questi esempi sebbene la sua sede continuò ad
essere nella capitale ottomana. Inoltre, destava molto interesse la posizione strategica
della Macedonia benché economicamente la regione fosse povera. Il suo territorio, vero
ponte fra il modo asiatico e quello europeo, stava al centro delle più importanti rotte
commerciali della penisola balcanica. Soprattutto era Salonicco, il suo capoluogo, che
in sé racchiudeva modernità e capitalismo essendo la più importante città dell’Impero
Ottomano dopo Costantinopoli.
I dissidi in Macedonia nacquero inizialmente sotto il profilo delle affiliazioni
religiose. In una regione la cui popolazione veniva rivendicata sul piano etnico e
religioso da Atene, Sofia, Belgrado e dove c’era una non indifferente popolazione
albanese (mussulmana, ma il nazionalismo albanese avrà pochi connotati religiosi) gli
scontri erano ovviamente tanti. La lotta per l’influenza e per la conseguente
appropriazione territoriale iniziò nell’ambito delle scuole. Negli ultimi decenni dell’800,
varie scuole di lingua greca, serba e bulgara vennero istituite e finanziate dai tre governi
paladini delle proprie popolazioni. In più s’aggiunse anche la Romania, la quale non si
119
tirò indietro nel difendere le prerogative culturali di una piccola ma solida minoranza
kutzo-valacca in Macedonia. Da qua alla lotta politica il passo fu veramente breve.
Dopo il 1878, la Bulgaria, la quale, dopo il Trattato di Santo Stefano, in un attimo aveva
visto la realizzazione e il ridimensionamento del proprio irredentismo1, mise tutto il
dinamismo possibile nella sua azione patriottica. Da quel momento in poi, l’equazione
esarchista=bulgaro fu l’espressione ufficiale della politica bulgara in Macedonia.
Questo fatto ovviamente non poteva non passare tramite lo scontro con la Megali Idea
greca e in un secondo momento con la Načertanie serba, emblema ambedue del
nazionalismo formato Balcani; infatti nella turbolenta penisola ogni riferimento
irredentistico, per una serie di concause storiche, trovava la sua ispirazione negli Imperi
defunti del Medioevo. Siccome la Macedonia era stata territorio di Bisanzio, somma
ispirazione per i Greci, ma anche parte dell’Impero serbo durante l’epoca di Stefan
Dušan, sia Atene che Belgrado vedevano nella conquista della regione il primo passo
verso la grande rinascita dei loro rispettivi popoli.
Fatto sta che queste ultime due capitali, dopo gli anni ’80, per circostanze di
politica internazionale rivolsero l’attenzione altrove – la Grecia verso Tessaglia e Creta,
mentre la Serbia verso i territori bosniaci. In quegli anni fu l’influenza bulgara che
divenne sempre più preponderante in Macedonia. Questo si vide anche nelle difficoltà
che le autorità militari ottomane avevano nel domare le guerriglie degli komitadži
bulgari presenti nella regione. Internazionalmente, il problema macedone venne
percepito sempre più come un problema d’autodeterminazione del popolo bulgaro.
1
Il Trattato di Santo Stefano (3 marzo 1878), seguito all’armistizio turco-russo di Adrianopoli,
prevedeva la creazione di una Bulgaria autonoma la quale doveva comprendere entro i suoi confini la
Tracia, la Macedonia (esclusa Salonicco), una grande fetta di territori albanesi e una spaziosa uscita sul
Mar Egeo. Questa Grande Bulgaria venne ovviamente osteggiata a Berlino perché le altre Potenze
vedevano in essa la mano lunga dei Russi nella penisola balcanica (secondo il Trattato le truppe russe
avrebbero dovuto stanziarsi là per almeno due anni). Infatti dopo il Congresso di Berlino la Bulgaria,
seppur in due entità autonome (Bulgaria propriamente detta e Rumelia) tornò sotto la vassallità diretta
ottomana.
120
Tuttavia, voci di dissenso, a proposito della omologazione fra la questione macedone e
quella bulgara, vi furono. Importante è citare il movimento che partì da alcuni studenti
macedoni a Pietroburgo – capeggiati dal mentore del Risorgimento macedone, Krsto
Misirkov – i quali ben presto iniziarono a separare la loro richiesta d’indipendenza da
quella bulgara. Questo scontro si vide sia culturalmente – per dar più adito alle loro
scelte i macedoni scelsero come lingua ufficiale il dialetto di Veleš, differente dal
bulgaro ma anche dal serbo – ma conflitti vi furono anche sul piano d’azione.
La radicalizzazione della politica bulgara in Macedonia, con molti tratti di
esplicito terrorismo, spinse verso la creazione della VMRO (Organizzazione
Rivoluzionaria
Interna
Macedone)
nel
1893.
Sebbene
tale
organizzazione
sovraintendesse a una formazione militare bulgara, le sue teste d’uovo erano
generalmente autonomisti convinti, cioè personaggi che appoggiavano la lotta
antiottomana ma in funzione di una Macedonia a se stante. Le reazioni in loco al
programma “La Macedonia ai Macedoni” furono ben più dure di quelle contro il
secolare invasore ottomano. Per meglio controllare l’attività della VMRO nel 1895 a
Sofia venne istituito il Comitato Supremo Macedone, scopo cardine del quale era
l’unione della regione contesa con la Bulgaria1. Già un anno prima, rispondendo alla
supremazia sempre più evidente dei Bulgari in Macedonia, Atene creò una Filiki
Hetaria nella regione. Ben presto le rappresaglie rivendicative fra Greci e Bulgari
divennero più violente della stessa guerra contro il comune invasore ottomano.
L’accelerazione della instabilità macedone, oltre a suscitare echi al estero, divenne
questione del giorno di tutte le Cancellerie diplomatiche europee.
Maggior preoccupazione destò la soluzione totale che la Turchia tentò contro
la VMRO dopo l’insurrezione chiamata di Sant’Elia (2 agosto, secondo il calendario
1
Georges Castellan, op. cit. pag. 376
121
giuliano), del 1903. Si parlò di terribili rappresaglie da parte delle truppe di Hamid –
200 villaggi bruciati, 4700 abitanti massacrati, 3000 donne stuprate – che fecero tornare
alla mente gli “orrori bulgari” del 18771. Le reazioni europee furono immediate. Gli
Inglesi dal canto loro, furono i primi a muoversi a favore delle riforme nella provincia
balcanica. Le varie atrocità turche presto svegliarono gli animi anticonformisti ed
umanitari e nello stesso 1903 un Balcan Committee venne istituito a Londra con la
partecipazione dei Liberali2. Tuttavia le manovre del governo britannico non potevano
che essere limitate dalla preponderante influenza di altre due Potenze molto più
influenti in loco.
Già nel 1897 Francesco Giuseppe e Nicola II si erano incontrati per
concordare un possibile status quo da ambo le parti per la Macedonia. Per gli Austriaci,
come un po’ per tutti, la responsabilità per quello che avveniva in Macedonia era in
parte legata al malfunzionamento dell’apparato statale ottomano, in parte per una chiara
volontà degli Stati limitrofi di combattere e distruggere l’elemento rivale nella regione.
Vienna era inoltre cosciente del fatto che l’Impero Ottomano poteva trovare o la forza
di sopravvivere o l’ultimissimo respiro proprio in Macedonia. Nell’ultima ipotesi ciò
poteva scaturire soltanto una feroce caccia al metro quadrato da parte degli balcanici.
Sapendo già che ciò voleva dire una eventuale guerra europea, i due sovrani di
Pietroburgo e Vienna, fortunatamente più sensibili di quello che sarebbero divenuti nel
1914, decisero di fermare ogni possibile tentativo bellico3. Ne uscì una serie di proposte,
coattive nei riguardi del Sultano, definitesi nel “programma di Mürzsteg” (dal nome del
castello dove s’incontrarono i due imperatori). Queste prevedevano la creazione di una
1
Ivi. pag. 377
C.J. Lowe – M.L. Dockrill, The mirage of Power cit. pag. 77
3
F.R. Bridge, The Habsburg Monrchy and the Ottoman Empire in The Great powers… cit. pag.
2
42
122
gendarmeria internazionale per la Macedonia, la quale, divisa in cinque settori, veniva
affidata alle cinque Potenze interessate alla questione (Inghilterra, Francia, Italia,
Austria, Russia). Questa organizzazione interna doveva, secondo la lettera, venir diretta
da Hilmi Pascià in qualità di ispettore generale, coadiuvato da due agenti civili (un russo
e un austro-ungherese). Ma la serie di riforme non doveva terminare qua. Sviando la
richiesta inglese di ampliare il regime internazionale anche alle questioni finanziarie
della regione, il quarto articolo del programma istaurava nella regione di tre distretti
“nazionali”: bulgaro, greco e serbo. A partire da qua, prenderà sempre più piede la
politica d’eliminazione dell’intruso da parte di questi tre protagonisti – e l’eliminazione
era quasi sempre fisica.
Nonostante tutto il terrorismo non si placcò in Macedonia, aggiungendosi
anche la regolazione di conti che avvenne fra le parti interne della VMRO. I due
successivi congressi di Salonicco e Rila divennero l’arena centrale dove si scontrarono
supremisti filo-bulgari e autonomisti macedoni. Sebbene i primi accusarono
pubblicamente i secondi per la disfatta di Sant’Elia, dopo il 1905 l’idea di una
Macedonia sovrana divenne sempre più di dominio pubblico1. Questo non fece che
accelerare l’instabilità e, insieme con questa, aumentarono le pressioni occidentali sul
Sultano per favorire ulteriori riforme nella regione. Il governo liberale inglese e il suo
ministro degli Esteri Edward Grey non fecero passi al di là di pretendere dal Sultano la
concreta applicazione delle riforme. Il capo diplomatico inglese era abbastanza
dubbioso sulla possibilità di placcare la situazione sempre più caotica attraverso
pressioni in direzione della sola Costantinopoli, senza farle anche agli Stati balcanici.
1
Ivi. pag. 378
123
Era il tempo in cui proprio in territorio macedone stava partendo la reazione
più energica all’autoritarismo di ‘Abdül Hamid; quella dei Giovani Turchi che nel 1908
stravolgeranno il potere dell’ultimo “vero” Sultano turco.
124
Quarto capitolo
I Giovani Turchi e la caduta di ‘Abdül Hamid II:
la definitiva rottura con Londra
(1902-1909)
1. Le prime forme d’opposizione in seno all’Impero e i tentativi
d’unità
Il ricatto sugli affari di politica estera non fu l’unica forma di pressione che
le varie capitali europee usarono per spingere Costantinopoli ad accettare le loro
rispettive richieste. Manovrare le tendenze di politica interna al di dentro della capitale
fu un’altra forma di persuasione altrettanto praticata . Ovviamente “conquistare il
castello dal di dentro” era un’impresa più ardita del solito se le condizioni istituzionali
interne erano quelle nelle quali ‘Abdül Hamid regnava. Con una Costituzione sospesa e
una vigilanza governativa autoritariamente condotta, c’era ben poco da sperare negli
sviluppi di un’opposizione interna al regime. Di fatto la prima attività di rinomanza
pubblica da parte di una formazione anti-Hamid ebbe luogo solo nel 1902 a Parigi.
In ogni caso, il I Congresso dei Giovani Turchi non era proprio la
primissima genesi di quel movimento che da lì a sei anni avrebbe stravolto i destini del
potere ottomano. Già nel 1889, durante il primo centenario della presa di Bastiglia, nella
Scuola di medicina militare a Costantinopoli si costituirono le prime cellule politiche
clandestine. Ispirate alla Carboneria italiana e ai nichilisti russi dell‘800, queste piccole
organizzazioni non per caso nascevano nei settori della medicina e dell’esercito, avvolti
125
dalle riforme già nel XVIII secolo e quindi più modernizzati1. Gli arruolamenti
avvenivano in maggioranza nelle Scuole superiori della capitale (Accademia militare,
Scuola veterinaria, Scuola d’amministrazione) a loro volta toccate dal Tanzimat e dalle
riforme di Hamid medesimo. Vedremo dopo che medici e militari resteranno sempre in
prima linea nell’evoluzione del movimento anche se le file di questa prima opposizione
si ingrossarono di disparati elementi politici. L’orbita di queste nuove reclute andava
dalle personalità degli ulema ad alti ufficiali già in servizio. Sarà un problema
aggiuntivo a quello della censura ovviamente, perché l’eterogeneità formativa rendeva
anche difficile l’unione delle varie iniziative. In realtà i Giovani Turchi più che un
movimento era una nebulosa galassia sparsa dentro e fuori l’Impero (Cairo, Romania,
Londra e soprattutto Parigi e Ginevra). L’idea portante della loro aggregazione era
quella di rigettare la basilare premessa del Tanzimat, concepito secondo i dettati di
‘Abdül Hamid, per il quale la vera modernizzazione dell’Impero poteva venire
realizzata soltanto tramite imposizione elitaria dall’alto. Dal loro lato, i Giovani Turchi
argomentavano che, qualora tali riforme strutturali avessero avuto successo, la loro
portata sarebbe stata irrimediabilmente fallimentare fino a che non ci fossero stati reali
cambiamenti nel tessuto sociale e politico del Paese2
Verso la metà degli anni ’90 due intellettuali iniziarono ad assumere il ruolo di
capi dell’opposizione in esilio: Ahmed Rıza (1859-1930) convinto positivista e Mizancı
Murad (1853-1912) sostenitore di idee più moderate. Come è comprensibile la simpatia
verso le posizioni dei Giovani Turchi venne da molte istanze governative in Europa,
causa le antipatie e incomprensioni che queste avevano con Hamid. Oltre ai giornali,
che offrivano volentieri una tribuna per gli attacchi al regime di Costantinopoli furono
1
Histoire de l’Empire Ottoman cit. pag 621
Stanford J. Shaw – Ezel Kural Shaw History of the Ottoman Empire and Modern Turkey voll.
II, Cambridge University Press, London, 1977, pag. 255
2
126
le poste straniere che dettero più filo da torcere alla polizia del Sultano. Queste infatti
aiutavano clandestinamente la diffusione degli opuscoli e dei libri di propaganda
dell’opposizione in tutti i territori dell’Impero.
Però un problema di base esisteva, e questo era l’impossibilità di tenere sulla
stessa linea di pensiero ed azione una opposizione così dispersiva. Alla confusione
interna infatti andava aggiunto anche il diniego, seguito dalla repressione, di ogni forma
di pensiero alternativo al regime ad opera del Sultano. A partire dal 1896 si assiste
infatti all’apogeo di ‘Abdül Hamid ed al consolidamento del suo potere assolutista. In
seguito alla stroncatura che lui fece alla ribellione armena, un anno dopo, le sue armate
uscirono vittoriose in Tessaglia contro i Greci. Inoltre nel 1898, la storica visita di
Guglielmo II gli portò anche l’appoggio determinante di una Grande Potenza europea.
L’euforia di questi apparenti successi spinse gli elementi vicini al Sultano, fra il 1896 e
il 1898, ad attuare una spietata eliminazione di ogni forma d’opposizione presente nel
Paese. L’approccio che venne usato toccò tutte le forme. La semplice persuasione
tramite proposte corruttive fu una delle armi di maggior successo. A partire da Murad
stesso – che nel 1897 con un clamoroso voltafaccia rientrò in Turchia – molti exoppositori vennero fatte ricompensare con vari posti d’impiego nelle ambasciate
ottomane all’estero. Le spie al di dentro del movimento, fra i quali anche il capo della
polizia segreta Ahmed Celaleddin, davano così prova di un eccellente lavoro, creando
varie fratture interne. Da meno comunque non furono neanche i metodi brutali come la
repressione di un complotto nell’Accademia militare, scoperto in anticipo, in seguito al
quale tutti gli allievi ufficiali vennero mandati in esilio in Tripolitania. Per finire, non
meno conseguenze ebbero anche le pressioni esercitate da parte di consoli ed
127
ambasciatori ottomani sui governi che accoglievano le iniziative dei Giovani Turchi
(Belgio, Francia, Svizzera)1.
Tuttavia, nel 1899, a quei pochi Giovanni Turchi rimasti venne un aiuto
inaspettato. Il cognato del sultano in persona Damad Mahmud pascià e i suoi due figli
Sabaheddin e Lutfullah offrirono il loro servizio alla causa dell’opposizione. Per Hamid
il colpo fu senza precedenti; avendo attuato una complessa rete di eliminazioni
politiche, tutto ad un tratto lui vedeva che le “conversioni” avvenivano pure dentro al
Palazzo. Il dissidio fra Damad e il padiscià non venne reso pubblico ma pareva che la
causa centrale fosse la questione della “Baghdad Express”, per il finanziamento della
quale il cognato avrebbe voluto l’Inghilterra in prima fila. Fallito nel suo intento, il
celebre rinnegato preferì partire per l’esilio con i suoi figli, ma non partecipò mai alle
attività dei Giovani Turchi. Diede comunque il suo prezioso aiuto alla questione politica
dell’opposizione pubblicando ben volentieri a Londra il giornale “Osmanlı”2. Va da sé
che fu proprio l’Inghilterra a dargli rifugio, essendo il governo di Sua Maestà
fortemente deluso dalle decisioni prese a Costantinopoli intorno alla ferrovia.
Il congresso di Parigi, organizzato nel febbraio del 1902, avrebbe dovuto dare
uno spirito d’unità al movimento dei Giovanni Turchi al fine di redigere un comune
piano di azione. Anche se tanti antagonismi interni furono ben presto superati, il
problema dei rapporti fra etnia turca ed altre nazionalità divise in due i Giovani Turchi.
Formalmente c’era consenso sul fatto che sarebbero stati i militari, in quanto centro
d’organizzazione modernizzata, a mettere in atto ciò che la sola propaganda non poteva
fare. Sulla struttura del potere invece, precisamente sui rapporti centro-periferia
nell’Impero, il Congresso di Parigi non fece altro che polarizzare di più il dibattito
1
2
Histoire de l’Empire Ottoman… cit. pag. 612
Ivi. pag. 613
128
interno. In sostanza i due gruppi contrapposti vennero cappeggiati uno da Sabaheddin, –
primogenito di Damad nonché sostenitore dell’idea che l’Europa avrebbe dovuto
intervenire per il ripristino della Costituzione del ’76 – appoggiato dai rappresentanti
non turchi, in particolare dagli Armeni, e dall’altro da Ahmed Rıza, sostenuto invece
dalla minoranza del Congresso.
Ammiratore dei filosofi Le Play e Edmond Demoulins – quest’ultimo
teorizzava che la superiorità politica delle istituzioni anglosassoni deriva dall’essere una
società fondata su basi individualistiche e non comunitarie – Sabaheddin proponeva una
ricerca minuziosa dei fattori sociali che rendevano possibile il mantenimento del regime
hamidiano. Per lui il difetto maggiore consisteva nella mancanza dell’iniziativa privata
nell’Impero Ottomano. Ovviamente idea base di una futura politica di privatizzazione
doveva essere il decentramento del potere a favore delle istituzioni locali, che nelle
condizioni
della
Turchia
automaticamente
diventavano
anche
istituzioni
di
rappresentanza etnica. Tale idea, naturalmente appoggiata in pieno dai delegati armeni,
faceva paura ai centralisti di Rıza. Troppa autonomia secondo loro avrebbe potuto
causare lo smembramento dello Stato ottomano e dato che i due scopi essenziali dei
Giovani Turchi dovevano essere la Costituzione ripristinata e l’integrità dell’Impero, ciò
poteva avvenire per Rıza solo nelle condizioni di un autoritarismo centralizzato.
I tentativi di placare gli antagonismi vi furono soprattutto da parte di
Sabaheddin. Egli cercò di temperare le contraddizioni intorno ad una soluzione comune
la quale scaricava sulla persona di Hamid tutte le disgrazie che affliggevano l’Impero,
ritenendo ovviamente di primaria importanza i principi di unità e integrità dello Stato.
In più, il principe garantì massima fedeltà alla casa degli Osman, anche perché solo la
dinastia fondatrice poteva offrire, anche secondo la minoranza del Congresso, quell’idea
129
di centralismo autoritario di cui lo Stato aveva bisogno1. Alla fine però, l’intransigenza
delle posizioni di certo non liberali di Rıza non consentì sbocchi concreti al Congresso
di Parigi. Esso si chiuderà con un nulla di fatto proprio per gli scontri determinatissimi
fra i suoi due maggiori protagonisti. Anche se solo temporaneamente le strade dei
Giovani Turchi si divisero. Nel 1906 Sabaheddin fondò a Parigi la “Lega dell’iniziativa
privata e del decentramento” con un giornale ufficiale, il “Terakki” (Progresso).
Tuttavia, la sua politica non dimostrò mai una piena comprensione della realtà turca,
essendo che il suo stesso artefice venne esiliato all’età di 22 anni dal Paese2.
Ciò che seguì al I Congresso dei Giovani Turchi (ufficialmente appellato
Congresso degli Ottomani Liberali) fu soltanto un ulteriore inasprirsi delle rispettive
posizioni. Il dissenso post-parigino si sviluppò anche intorno alla questione del metodo
che i rivoluzionari avrebbero dovuto usare. Mentre Sabaheddin e i suoi seguaci erano
favorevoli ad un’eventuale uso di violenza al fine di abbattere il regime hamidiano, la
frangia turca del movimento prediligeva metodi più legalistici. Convenivano in questo
perché secondo loro doveva essere l’esercito, quindi una struttura statale, a prendere in
mano la situazione. Come Rıza scrisse in un suo diffusissimo opuscolo, il soldato
ottomano era passato da conquistatore di terre lontane a ultimo difensore della patria.
Però più che a mo’ di conclusione, l’idea della supremazia militare nella cosa
pubblica, venne come diretta conseguenza delle evoluzioni in vista: progressivamente
furono proprio gli ufficiali che danno il cambio ai capi definitivamente in esilio. Il
Congresso di Salonicco, durante il quale venne fondato il Comitato Ottomano della
Libertà, sancì proprio questa nuova realtà dei fatti. Non a caso infatti, il congresso si
svolse in Macedonia, una delle regioni più turbolente ma anche modernizzate
1
2
Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw History of Ottoman Empire and… cit. pag 258
Histoire de l’Empire Ottoman… cit. pag. 614
130
dell’Impero. L’elemento turco era considerevole e l’importanza strategica della capitale,
Salonicco, ne fa il centro di grandi crocevia commerciali fra l’Occidente e il Levante.
Fortemente inasprita dagli interventi europei in loco, l’etnia turca in Macedonia non era
più, come una volta, costituita da solitari pascià in rotta col Sultano ma da una fiorente
borghesia ottomana, ansiosa di modernizzazione del centro. Anche i jonturchi qua
hanno nette differenze con i vertici all’estero. Ovviamente appartengono in
maggioranza alla casta militare, ma non sono più studenti; bensì uomini d’azione.
Fermamente patrioti prima di essere liberali, i capi militari turchi in Macedonia si
trovavano in posizione ferocemente contraria alle interferenze europee negli affari
dell’Impero. E se ciò finora era successo soprattutto in Macedonia – governata da una
gendarmeria internazionale – la colpa veniva attribuita al debole e corrotto regime di
‘Abdül Hamid II.
In origine tale gruppo aveva dieci membri nella sua composizione centrale. Fra
questi, membri di spicco del futuro panorama politico turco, come Tal’aat, al tempo
impiegato nella direzione delle poste a Salonicco, e un giovane Mustafa Kemal, capo
del gruppo “Patria e Libertà” a Damasco. Nato a Salonicco, Kemal, era stato uno degli
studenti eccellenti dell’Accademia Militare, organizzata dai tedeschi, dove aveva anche
coltivato, a partire dal 1905, i primi legami con le organizzazioni clandestine dedite al
risorgimento culturale turco. Sebbene i contatti più assidui fossero stati quelli con il
comitato “Unione e Progresso” di Riza, anche Kemal, come i suoi colleghi ufficiali,
pensava che l’eterogeneità estrema delle componenti di tale comitato nuoceva ai fini
dell’azione. Inoltre maggiori contatti vennero presi con il movimento nazionalistico
albanese, il capo del quale Ismail Qemal bey Vlora, dopo anni di ascesa politica nelle
strutture del regime, da tempo aveva aderito alle richieste giovani-turche1.
1
Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw cit. pag. 265
131
In seguito, gli ufficiali fondarono un’altra organizzazione segreta, “La Società
della Libertà”, sul modello delle associazioni clandestine macedoni, strutturate in
piccole cellule, segrete e indipendenti una dall’altra1. Proprio qui spiccò un’altra
personalità, determinante per l’avvenire politico della Turchia, Enver Pascià (18811922), addetto allo Stato Maggiore di Hilmi Pascià e sostenitore delle tesi
“panturaniche”. Molti erano i legami con la massoneria, soprattutto con le logge
d’obbedienza francese e italiana. Midhat Şükrü e lo stesso Tal’aat erano da tempo
affiliati nei vari ordini, ma non si può dire che i Giovani Turchi usarono queste leve per
penetrare nell’ambiente tessalonicese. Piuttosto per il fatto che le logge straniere,
protette dalle Capitolazioni, offrivano maggior riparo e una rete di relazioni ai membri2.
Attraverso queste gli ufficiali creavano contatti anche con la middle-class ebraica della
città (che con il 40% della popolazione totale costituiva la maggioranza relativa) la
quale era per il mantenimento di Salonicco entro le mura dell’Impero.
Nel 1907 si crearono nuove premesse per l’unione dei vari componenti
jonturchi e a settembre di quell’anno una fusione riunì in un’unica formazione politica il
gruppo salonicchese con il Comitato “Unione e Progresso” di Ahmed Rıza. Il nuovo
comitato ebbe il nome del secondo ma di fatto fu totalmente dominato dagli ufficiali
macedoni. Sempre nel 1907, un secondo congresso a Parigi, aveva potuto riunire il
gruppo di Rıza a quelli di Sabaheddin e ai militanti armeni del Daşnak (Federazione
Rivoluzionaria Armena), quando oramai prendeva sempre più piede l’idea di un colpo
di mano militare a Costantinopoli3. L’ideologia portante di questo nuovo congresso fu
sicuramente più radicale di quella che caratterizzò il primo. Alla dichiarazione finale, la
quale alla deposizione del Sultano premetteva l’instaurazione di un regime
1
Georges Castellan Histoire des Balcans, cit. pag. 385
Histoire de l’Empire Ottoman… cit. pag. 617
3
Ivi. pag. 619
2
132
rappresentativo, non era estranea l’influenza armena4. I rappresentanti di tale nazione
ovviamente speravano di poter sfruttare i mezzi violenti dei militari macedoni al fine
delle loro richieste politiche. Ovviamente ciò non passo inosservato agli occhi di
Ahmed Rıza. Inizialmente, convinto della necessità di un atteggiamento unitario, egli
tenne un atteggiamento non contrapposto ai vertici. Ma ben presto accusò il nuovo CUP
di voler adottare gli stessi metodi terroristici che gli Armeni avevano usato
precedentemente in Anatolia Orientale. Il suo scontro con Sabaheddin fu inevitabile e
ciò permise a Rıza di tornare alle sue posizioni iniziali. La riconciliazione delle diverse
cellule europee era stata totalmente un’illusione e l’allontanamento di uno dei suoi capi
(appunto Rıza) cambiò molte cose. Alla fine il ruolo giocato dalla diaspora europea
nella Rivoluzione Giovane Turca fu sostanzialmente marginale.
2. I Giovani Turchi in azione
2.1 La rivoluzione sbarca a Costantinopoli
Nel giugno del 1908, lo zar Nicola II e Sua Maestà britannica Edoardo VII si
incontrarono a Reval per discutere a proposito di varie questioni internazionali che
riguardavano le sfere d’interesse dei due Paesi. L’avvicinamento fra i due ex-rivali
nell’Asia Centrale causò sicuramente sorpresa nell’intero scenario politico mondiale.
Da tempo l’Inghilterra s’era avvicinata all’asse Parigi-Pietroburgo e il fatto che adesso
le questioni sollevate per decenni venivano cordialmente affrontate in un incontro fra
sovrani illustri dava maggior addito alle polarizzazione continentali. Sebbene
ufficialmente scopo cardine dell’incontro erano gli sviluppi in corso in Persia, Tibet e
Afghanistan, le voci di perplessità e preoccupazione non mancarono nella stampa
4
Staford Shaw – Ezel Kural Shaw op.cit. pag. 265
133
ufficiale ottomana. Forse proprio alla vigilia di tale incontro le voci discordanti intorno
alla politica estera scelta da Hamid aumentarono anche dentro le stesse mura del
Palazzo. I dubbi sull’intelligenza di spingere verso il tavolo delle trattative il nemico e
l’amico storico della Turchia stavano scaldando quelli che più che mai temevano per le
sorti dell’integrità ottomana.
I colloqui tra i due sovrani vennero tenuti segreti ma la propaganda tedesca,
sostenuta da quella austriaca, fece circolare immediatamente la notizia di un possibile
intento disgregativo ai danni di Costantinopoli. Preso da queste notizie e sempre più
preoccupato dalla situazione in Macedonia, in luglio ‘Abdül Hamid decise di inviare
18.000 uomini tratti dalle divisioni anatoliche nella regione balcanica. I segni infatti
sembravano premonitori di ulteriori instabilità. In quei mesi c’era stato un aumento
sensibile degli assassinii di sicari e agenti dentro al Palazzo tanto da rendere notizia
pubblica questa crisi in corso nella Corte. Contemporaneamente, l’avvicinamento anglorusso aveva messo con le spalle al muro anche la strategia temporeggiatrice dei Giovani
Turchi nei confronti di Hamid. Costretti in questo modo a mantenere i loro piani
d’azione, loro decisero di agire contro il mal governo della situazione imperiale da parte
del Sultano. Il 3 luglio, uno dei loro capi, Niyazi Bey, si ritirò nelle montagne macedoni
con i suoi partigiani dando il segnale per una ribellione aperta. L’esempio suo, che
metteva in moto la rivoluzione, fu seguito da altri ufficiali della III Armata Macedone
(come è il caso del maggiore Enver)1.
L’arrivo dell’esercito anatolico non fece che aggravare la situazione per
Hamid, dato che i soldati mandati dal suo governo per domare gli intenti rivoltosi,
subito si unirono alle truppe macedoni. Tra il 20 e il 23 luglio delle insurrezioni guidate
da ufficiali e civili del Comitato “Unione e Progresso” scoppiarono in ogni parte della
1
Histoire de l’Empire Ottoman cit. pag. 619
134
Macedonia (Monastir, Sevres, Skopje e Firzovik) con varie richieste indirizzate
all’Yildiz Saraji a favore di un ripristino entro 24 ore della Costituzione del 1876; in
caso contrario la III Armata Macedone avrebbe marciato sulla capitale ottomana. Prima
che gli inviati raggiungessero il Sultano, il 23 luglio la stessa Costituzione originaria di
Mithat Pascià veniva proclamata a Monastir1. Il cedimento immediato di Hamid non
fece che sorprendere anche quelli che avrebbero dovuto beneficiare di questa resa
incondizionata. Di fatto, quella che doveva essere l’azione decisiva, cioè il coup de
main dei rivoltosi a Salonicco, non si fece, giacché il Padiscià, non disponendo più di
mezzi e forze contro il Comitato, prese i suoi capi alla sprovvista facendo ampie
aperture alle loro richieste. Già il 22 infatti Sa’id Pascià, figura decisamente liberale,
veniva nominato Gran Visir contemporaneamente alla pubblicazione di un’irade
imperiale che restaurava la sospesa e tanto richiesta Costituzione. Inoltre, all’annuncio
di una imminente riconvocazione del Parlamento che venne il giorno dopo,
l’entusiasmo della capitale invase tutti gli animi dell’Impero. Dichiarando che la
sospensione che egli aveva fatto dei lavori parlamentari era dovuta all’impegno
necessario per le modernizzazione del Paese, Hamid dichiarava che i tempi erano ora
maturi, e i rischi esterni la favorivano, per la riapertura delle sessioni legislative2. Tutti
presero tali affermazioni per quello che realmente erano: almeno momentaneamente il
Sultano si arrendeva. Pareva proprio che l’azione fulminea in Macedonia, che secondo
le parole dello stesso Enver “aveva reso possibile la guarigione del Malato”, fosse
l’ultimo sospiro del trentennale regime di ‘Abdül Hamid II3.
Nelle ambasciate, il fattore internazionale presente nella capitale turca rimase
unanimemente sorpreso dalla rapidità degli eventi. Ma anche fuori l’eco di un così
1
Ivi. pag. 621
Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw History of Ottoman Empire… cit. pag. 267
3
Histoire de l’Empire Ottoman… cit. pag. 622
2
135
fulmineo regime’s change non passò certo inosservato. All’apatia che segui la posizione
tedesca rispose l’entusiasmo diretto del Foreign Office. Il 25 di giugno, il suo
vicesegretario permanente Hardinge, annunciava una nuova politica pro-ottomana per il
dicastero degli Esteri, appoggiando in pieno gli sforzi di Sa’id e Kamil di riformare il
proprio Paese. La nuova attitudine diplomatica verso Costantinopoli venne ufficializzata
da un discorso simpatizzante, anche se cauto, di Grey il 27 luglio alla Camera dei
Comuni:
If Turkey is going to improve the whole government of
the country and ensure that the Mahomedans and Christians
shall benefit equally by the improvement, that it is better that the
Macedonian question should be settled by the Turks taking in
hand and doing what for years we have been urging them to
do…of course we must await events; but at the present time I
can only say this: Our own sympathy must be with those who
are trying to introduce reforms1.
Ma anche il monito era abbastanza chiaro. Non potendo e soprattutto non
volendo ritornare alla vecchia politica di appoggio incondizionato Grey ben presto
chiariva che la sua politica rimaneva attendista. Era realmente convinto, come ebbe a
scrivere all’ambasciatore britannico a Costantinopoli, che “the effects upon the politics
of Europe of a strong and reformed Turkey would be very great”2. Ma d’altronde il
Segretario agli Esteri britannico non era affatto pronto a promettere granché al nuovo
1
Joseph Heller, British policy toward the Ottoman Empire, Frank Cass and Company Limited,
London, 1983, pag 10
2
C.J. Lowe – M.L. Dockrill, The mirage of power. British foreign policy 1902-1914, cit. pag. 81
136
regime, anche perché, prescindendo dal discorso delle riforme, ciò che Londra
s’aspettava dalla Rivoluzione era la marginalizzazione dell’influenza tedesca a
Costantinopoli. Grey si mostrò attento a non creare nessuna illusione che la Gran
Bretagna si sarebbe schierata in difesa del suo ex-alleato. Tutto quello che lui ebbe da
offrire fu che “ our diplomatic attitude will be benevolent and our influence used to
secure fair chance for them”. Il reale problema per Londra era un altro. In fondo i
Giovani Turchi “are not likely to be in a hurry to put themselves in the hand of any
foreign Power. There is a nationlist feeling in the new movement in Turkey which
would resent this”. Ma la cosa più importante era che “…we cannot revert to the old
policy of Lord Beaconsfield, we have now to be pro-Turkish without living rise to any
suspicion that we are anti-Russian” 1
2.2 Analisi e conseguenze della vittoria unionista
La vittoria ottenuta dai Giovani Turchi, senza dare battaglia, e il conseguente
cedimento inaspettato da parte del Sultano, presero alla sprovvista molti, fuori e dentro
il Paese. Guardando in retrospettiva, tuttavia, la rivoluzione si può collocare in quella
serie di crisi interne che dal 1907 avevano invaso l’Impero per ragioni finanziarie più
che ideologiche. Le raccolte del grano in Anatolia erano andate nel peggiore dei modi.
Un’economia sostanzialmente agricola come quella ottomana non poteva di certo
resistere all’impennata della pressione fiscale che segui. Questa situazione fece sì che
molti soldati, ufficiali e semplici burocrati abbandonassero i posti di lavoro.
Sicuramente la propaganda jonturca incise, ma se guardiamo nel concreto ciò che dette
più forza all’azione dei militari macedoni non furono le loro richieste istituzionali ma
1
Ivi. cit. pag 11
137
piuttosto che l’aria amareggiante che si respirava nelle tasche dei sudditi ottomani 1. La
parte più conservatrice dei Giovani Turchi, quella che più temeva azioni troppo
arrischiate, vedendo soddisfatti la maggior parte dei punti programmatici, pensò che
l’azione
dimostrativa
compiuta
dovesse
necessariamente
venir
seguita
dall’autoscioglimento del Comitato. Ma la maggioranza dei suoi membri, e ancor più
importante, i loro leader più influenti, optarono per la continuazione dell’attività politica
jonturca. L’immediato, tuttavia, riservò non grandi vittorie per loro. Infatti, gli
esponenti principali della rivoluzione di luglio, sebbene avessero vinto una storica
battaglia politica, restarono, almeno momentaneamente, ai margini delle istituzioni
ancora in mano all’entourage hamidiana. La ragione era tuttavia naturale: oltre al fatto
di essere potenti in Macedonia ma sostanzialmente sconosciuti e ininfluenti a
Costantinopoli, questi golpisti quasi intimiditi erano totalmente inesperti della politica
pratica2.
Il ricambio dei vertici del potere sicuramente iniziò già giorni dopo il
ripristino della Costituzione, ma venne attuato molto progressivamente. Lì per lì, il
ritorno della legalità costituzionale spinse il Sultano a fare un solenne giuramento di
fedeltà alla Carta dei diritti. Questo tuttavia non impedì alle autorità influenti a
Costantinopoli di lasciare il CUP all’ombra. Nei primi tempi, come d’altronde era
immaginabile, le funzioni chiave dello Stato vennero affidate a persone appartenenti
all’ancien regime. Personaggi di rilevante statura politica come Kamil Pascià, Hüseyin
Hilmi, Ahmed Tevfik o lo stesso Gran Visir Sa’id Pascià, notoriamente vicini alle
posizioni liberali e agli interessi inglesi, erano a questo punto nettamente a favore del
cambiamento. Comunque non fu una grande sorpresa dato che loro sedevano già prima
1
2
Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw op. cit. pag. 266
Histoire de l’Empire Ottoman… cit. pag. 622
138
accanto al Sultano, sebbene ora i poteri di Hamid si erano notevolmente ridotti. E’ la
ragione fondamentale per cui quella giovane turca non fu una rivoluzione a tutti gli
effetti. Anzi, guardando a mezzi e metodi usati, il 24 luglio aprì le porte e un vero e
proprio golpe riuscitissimo. Quello che seguì fu semplicemente una restaurazione di una
carta costituente, vecchia di trent’anni, la quale non promosse alcun reale cambio di
potere; per di più se questo evento, comunque di portata epocale, venne guidato da
uomini privi di un programma in campo sociale. Ed era proprio la questione sociale che
creava frizioni dentro lo stesso Comitato “Unione e Progresso” e che era la necessità
primaria per il Paese. Insomma, tutto doveva ancora avvenire. Col senno di poi, la tanto
celebrata Rivoluzione Giovane Turca, può essere guardata come un rinnovamento in
prospettiva, diventando la pietra miliare dei successivi 10 anni di vita del potere
ottomano.
Era l’atmosfera, piuttosto, che era caratterizzata da incandescenza
rivoluzionaria. I Giovani Turchi approfondirono, accelerarono e polarizzarono i
maggiori punti di vista che avevano segnato la vita politica dell’Impero Ottomano verso
la fine del diciannovesimo secolo. Ottomanismo e nazionalismo, liberalismo e
conservatorismo, Islamismo e Turchismo, democrazia ed autocrazia, centralizzazione e
decentramento – tutto ciò iniziò ad accompagnare la disputa sull’essenza dell’Impero e
segnò la svolta che portò l’Impero alla prima guerra mondiale.
Alcuni giorni dopo l’entrata dei vertici della III Armata Macedone nella
capitale, il 27 luglio, venne proclamata dalle autorità centrali un’amnistia generale.
Ovviamente le difficoltà furono innumerevoli per le autorità giudiziarie e quelle della
polizia siccome insieme ai detenuti politici vennero liberati anche tanti prigionieri
139
comuni. Inoltre, la moltiplicazione dei giornali, fin’allora clandestini, venne seguita dal
rientro di molti esuli, in primis Sabaheddin, accolti in modo festivo.
Ma passato l’entusiasmo generale, passate anche le frasi di circostanza
(Enver avrebbe presto proclamato: “Non ci sono più Bulgari, Greci, Valacchi, Ebrei o
Mussulmani. Siamo tutti fratelli, orgogliosamente Ottomani!1), i problemi che questa
ennesima Crisi d’Oriente sollevò furono tanti; innanzitutto vi era il quesito chiave: chi
doveva governare? Il Parlamento subito apparì bloccato dalle richieste ostruzionistiche
dei rappresentanti non-turchi. Soprattutto Greci e Armeni, siccome avevano dato un
importante aiuto ai Giovani Turchi in esilio, ora chiedevano ricompense nel senso di
un’allargata autonomia per le loro rispettive popolazioni2 ‘Abdül Hamid presto sparì
dalla politica pubblica limitandosi ad osservare, dando così più spazio e respiro
all’azione governativa della Sublime Porta. Quest’ultima, dal canto suo, intenta di
riappropriarsi di un potere perduto da trent’anni, voleva giocare sulle spalle di un
eventuale conflitto fra CUP e Sultano. Ma non fu affatto facile! I Giovani Turchi, visto
l’indifferentismo generale rivolto a loro nella capitale, dopo luglio, iniziarono ad agire
tramite il Comitato Centrale (Merkez-i Umumi) di “Unione e Progresso” rimasto a
Salonicco e per di più in condizioni di clandestinità. Ogni tanto si riservavano il diritto
di mandare piccole delegazioni alle quali normalmente partecipavano i soliti Tal’aat,
Rahmi, Cavid, il dott. Nazim Bahaeddin, Şakir o Ahmed Riza. Lo scopo, e poteva
essere solo quello, consisteva nel dare e imporre il proprio punto di vista al Gran Visir e
al Sultano. Ovviamente tale modo di agire, uguale ad gruppo di pressione occulto, non
tarderà a dare i primi screzi e fastidi.
1
2
Georges Castellan Histoire des Balcans cit. pag. 386
Staford Shaw – Ezel Kural Shaw op.cit. pag. 273
140
2.2 La posizione di Londra e le sue divisioni interne
Dal carteggio diplomatico che abbiamo avuto a disposizione, sembra che la
persona più entusiasta dei risultati che apportò la Rivoluzione di luglio sia stato il
vicesegretario permanente del Foreign Office Hardinge. Il vice di Grey, ma anche lo
stesso segretario agli Esteri, avrebbero in quella occasione dimostrato di essere
abbastanza ottimisti su una migliore prospettiva per l’alleanza anglo-turca dopo
l’emergere al potere dei Giovani Turchi. Ovviamente nella sua posizione politica Grey
non si sbilanciò mai tenendo conto anche di una possibile reazione russa che rimaneva
in ogni caso alquanto dubbiosa nei riguardi di qualsiasi spinta riformistica turca. Anzi,
per molti storici, soprattutto non britannici, Grey, a differenza dei suoi due predecessori
conservatori, Salisbury e Lansdowne, appare il personaggio chiave dello strappo netto
che avverrà fra Londra e Costantinopoli da lì a qualche mese. Non così per gli storici
inglesi, i quali anche basati su varie corrispondenze diplomatiche, affermano che, con
tutte le riserve effettivamente dietro le scene internazionali, Grey soprattutto attraverso
il suo vice Hardinge, si mise a disposizione dei nuovi governanti a Costantinopoli.
Proprio per non dar alito alle molte perplessità che vi erano state in seno ai Giovani
Turchi riguardo alle possibili future alleanze in politica estera, il Ministero degli Esteri
londinese tenne una posizione abbastanza moderata. Non vi fu quindi da parte londinese
una specifica richiesta di rottura ufficiale con le autorità di Berlino e proprio per il
carattere nazionalistico del nuovo regime Grey bocciò l’idea di mandare nei Dardanelli
una sezione della flotta reale1. Proprio in quei giorni venne inviato a Costantinopoli un
nuovo rappresentante in qualità di ambasciatore. In questa occasione, Hardinge ebbe
modo di dire:
1
Joseph Heller, British policy toward the Ottoman Empire, cit. pag. 12
141
We are quite convinced that a good administration in
Turkey will be of the greatest advantage to British interests,
although perhaps i twill not be to the advantage of other more
interested Powers… It is a splendid opportunity for Gerard
Lowther to arrive at Constantinople after such a crisis, and we
cannot help thinking that it may be possible in the near future to
entirely reverse our attitude and policy towards Turkey of the
last few years.1
In un certo senso, gli Inglesi erano convinti che a priori il successo della
rivoluzione era stato un colpo mortale per le ambizioni tedesche nell’Impero Ottomano,
dato che il suo maggior architetto, il Sultano, era stato letteralmente messo fuori gioco.
Quello che di conseguenza andava fatto era una paziente e progressiva ricucitura. A
questo servirono i primi avvisi del nuovo ambasciatore Lowther il quale, appena
approdato a Costantinopoli, consigliò un progetto di sostituzione dell’attaché tedesco
vicino alla Sublime Porta, guidato dal generale Von der Glotz con un gruppo di
consiglieri finanziari e navali inglesi che gli dovevano fare da contrappeso2.
Accordati con Vienna e Pietroburgo, i quali ribadirono la loro volontà di non
intervento negli affari turchi, la politica seguita da Grey sostanzialmente non era nuova.
Essa di nuovo si concentrava sulle riforme interne, consigliando le autorità ottomane di
non fare il passo più lungo della gamba. Questo, il segretario britannico agli Esteri, lo
collegava soprattutto al rinnovamento dell’amministrazione interna, troppo corrotta ed
1
Hardinge to Barclay (Costantinople), 30 June 1908, F.O. 800/193 A in C.J. Lowe – M.L.
Dockrill, British Foreign Policy: the documents 1902-1914, cit. pag. 464
2
Joseph Heller, op. cit. pag. 12
142
inefficace, e dal consolidamento finanziario. Ovviamente non era una filosofia
altruistica. Con l’assicurazione del nuovo regime turco Grey auspicava anche una nuova
apertura dei mercati ottomani ai capitali inglesi. Nello stesso tempo non tutto era così
scontato per Londra. La reazione che ebbe Mallet, il capo della Eastern Department, alla
nomina da parte di Costantinopoli di una consigliere finanziario francese per il
risanamento, fu abbastanza violenta1.
Ben presto infatti, nella scena interna turca, violenti scontri di potere
scoppiarono fra il vecchio Sa’id Pascià e gli Unionisti. Il primo, anche per un già
dimostrato orientamento filo britannico, era nettamente preferito da Londra per il
disegno di una nuova politica estera. La questione non fu evidentemente una delle più
formali. Di fatto la Costituzione riconosceva al Gran Visir il diritto di scegliere i
membri del Gabinetto ma nel disperato tentativo di neutralizzare le insistenze del CUP,
Sa’id dette al Sultano la prerogativa di nomina per due dicasteri, il Ministero della
Marina e quello della Guerra, istituzioni chiave per poter chiamare all’ordine i Giovani
Turchi. Il tentativo fra dibattiti e tensioni non tardò a fallire e Sa’id si vide costretto a
rassegnare le dimissioni.
Restii ad intervenire, gli Inglesi ovviamente non vedevano di buon occhio le
difficoltà che il governo di Sa’id aveva incontrato da parte dei militari. Sebbene in senso
formale la posizione di Sa’id e quella di Kamil erano più vicine al Sultano di quella dei
Giovani Turchi, l’appoggio e la sostanziale speranza che Hardinge aveva messo nelle
mani di questi due vecchi politici era enorme. In riferimento anche all’affaire della
Baghdad Express, dove le due personalità succitate si erano da tempo spese a favore
delle concessioni agli Inglesi, Londra non considerava intelligente affidarsi a dei
1
Ivi, pag. 13
143
militari che della politica internazionale erano sia ignari che inesperti. Come disse
Hardinge:
I can only hope that the Young Turk movement has a
permanent basis, and that it may perhaps be a bulwark to the
new Constitution. Unless this is so, I cannot help feeling that the
Sultan will not accept the present situation, but will endeavour
to upset it on the first possible occasion. In this course he would
no doubt be encouraged by Germany, since that power cannot
feel at all pleased at the blow her influence will receive in
Constantinople.1
L’ambasciatore Lowther era ancora più critico verso i Giovani Turchi. Già
un mese dopo la Rivoluzione, le sue riserve verso il nuovo regime erano evidenti. Nello
stesso tempo, dentro il suo staff, gli faceva eco una persona molto influente a
Costantinopoli, la vera eminenza grigia della presenza inglese in Turchia, il capo
dragomanni Fitzmaurice. Dal lato suo, quest’ultimo, sebbene riconosceva ai vertici del
CUP il fatto di essere “impersonal and have a great sense of responsibility” temeva
molto “a desperate internal struggle accompanied by disorders”, le quali, nella sua
analisi, potevano provocare l’intervento russo2.
Sicuramente ciò che Grey e Hardinge continuavano a temere era Hamid ma
forse, anche per l’incapacità analitica degli agenti britannici presenti a Costantinopoli,
essi non avevano fatto bene i calcoli. Attraverso Fitzmaurice, il 2 settembre, Lowther
1
2
Hardinge to Barclay…in C.J. Lowe – M.L. Dockrill op. cit. pag. 464
Fitzmaurice to Tyrrell, 25.08.1908. Pte. BD. V. no. 209, in Joseph Heller, op. cit. pag. 13
144
incontrò Mehmed Tal’aat e il dr. Bahaeddin Shakir, segretari dell’interno ed esterno
dipartimenti del CUP. Impressionato dalle loro idee moderate e dal loro orientamento
pro-Londra, Lowther enfatizzò l’importanza di tenere il Sultano fuori dal reale circolo
di potere. Ma fu oltremodo attento a non estendere più di tanto le sue istruzioni. Da più
vicino infatti, per chi respirava l’aria politica a Costantinopoli, sembrava che il gioco di
Sa’id veniva perfettamente retto dal Sultano in persona. Ma anche perché gli era
abbastanza chiaro, come ricordava sempre a Grey, che il movimento costituzionalista
era sempre di carattere tendenzialmente nazionalistico, con la conseguenza che ogni
posizione straniera veniva vista con sospetto.
Parallelamente al crescere dei dubbi unionisti su Hamid, si ebbero anche
previsioni sempre più pessimistiche da parte di Lowther. Quello che la rappresentanza
politica inglese a Costantinopoli temeva di più era una deriva dittatoriale da parte del
CUP. Sebbene la visione di Hardinge continuava ad essere speranzosa (…we intend to
persist and to do all we can to improve our finacial position in Turkey1), ciò che stroncò
ogni tentativo di rilancio dell’alleanza anglo-turca fu la posizione tenuta dal fattore
finanziario britannico. Rotschild e Baring rifiutarono di prendere parte al rinnovamento
economico dell’Impero Ottomano offrendo come motivazione il fatto che le finanze
turche per loro non offrivano abbastanza sicurezza. Soprattutto, ciò che ancora di più
causò la persistenza dell’inimicizia fra Londra e Costantinopoli era il fatto che le
condizioni del bilanciamento di forze in Europa erano irrimediabilmente cambiate. Il
fattore più importante per la politica estera britannica era ora la Russia e la necessità di
preservare l’amicizia anglo-russa – anche a spese ottomane – spiegava l’atteggiamento
in ogni caso anti-turco di quei giorni. Un esempio chiaro ne fu proprio una disputa
1
Ivi. pag. 14
145
territoriale fra Impero Ottomano e Persia nella quale Londra ribadì la sua forte
posizione in Mesopotamia tenendo le parti di Teheran.
In ogni modo, la nuova nomina a Gran Visir per Kamil Pascià, un altro
liberale precedentemente vicino al Sultano, non riuscì oltremodo a superare l’impasse
istituzionale. Peggio, il nuovo programma di riforme centralizzatrici non fece che
accrescere i timori sociali in un clima dove gli effetti stagnati della crisi sull’economia
s’erano appena fatti sentire. Più precisamente, esso proponeva novità importanti anche
in rapporto con le Potenze. I trattati si sarebbero ridiscussi e il regime delle
Capitolazioni avrebbe subito delle modifiche dando luogo a convenzioni specifiche con
le singole Potenze. A questo si aggiungevano nuove tasse sul lavoro e la proposta di
abolire i privilegi derivanti dal sistema del Millet1 L’ondata di scioperi che seguì la
nomina del nuovo premier (6 agosto) spinse il CUP a non affaccendarsi in affari di
politica economica e di guardare soltanto alla vigilanza della Costituzione. Ma questo
atteggiamento non sarebbe stato un antidoto valevole per spegnere i nuovi problemi.
Infatti, il peggio doveva ancora arrivare per gli Unionisti e per la Turchia stessa.
3. Le varie reazioni a catena: Bulgaria, Bosnia e Creta si
staccano da Costantinopoli
La nuova crisi d’Oriente trovò in questo modo il potere ottomano abbastanza
indebolito. Era naturale che la prima reazione da parte degli altri Stati all’anarchia
interna turca sarebbe stato il cercare di ricavarne qualcosa. I primi interessati furono gli
1
Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw op. cit. pag. 275
146
Austro-Ungheresi. Era infatti dal 1878 che i circoli dello Stato maggiore a Vienna
sognavano la completa annessione della Bosnia-Erzegovina, rafforzando così
nell’entroterra la loro presenza dominante sull’Adriatico. Sebbene de facto la regione
già venisse amministrata dagli Austriaci (insieme al Sangiaccato di Novi Pazar), a
livello giuridico essa ancora apparteneva al Sultano. Per le autorità asburgiche il
problema non consisteva tanto nelle reazioni di Costantinopoli, quanto nelle
preoccupanti grida nazionalistiche provenienti dalla Serbia, per la quale la Bosnia era
una sorte di Alsazia – Lorena.
Dal 1903, nella capitale serba molte cose erano cambiate. Il passaggio di
potere dalla dinastia dei Obrenović a quella dei Karagiorgević ridimensionò anche i
fondamentali orientamenti in politica estera da parte della Serbia. Mentre i sovrani della
prima famiglia rimasero strettamente legati alle direttive del Balhauseplatz, l’esordio al
trono da parte di Pietro I Karagiorgević (1903), diresse la diplomazia belgradese verso
posizioni più vicine alla Russia, vecchia antagonista dell’Austria nei Balcani.
L’annessione della Bosnia per gli Austriaci era in questo modo una doverosa
compensazione per rimettere a posto un equilibrio pericoloso.
Ma non tutto fu così chiaro sin dall’inizio. La Rivoluzione di luglio a
Costantinopoli fece ritornare nelle sedi internazionali la questione delle riforme a favore
delle popolazioni cristiane nei Balcani. Inizialmente il conte Aehrethal, ministro
asburgico degli Esteri, era molto dubbioso sugli intenti da perseguire e consigliò Gran
Bretagna e Russia di andare cauti con le proposte 1. Rimaneva infatti convinto
dell’inutilità di schemi troppo drastici a favore dei Cristiani che avrebbero soltanto
irrigidito le posizioni del Sultano. Il fatto che i disordini interni all’Impero fossero
1
F.R. Bridge, The Habsburg Monarchy and the Ottoman Empire 1900-1918 in The Great
Powers and the Ottoman Empire (edited by Marian Kent) cit. pag. 31
147
partiti dalla Macedonia dimostrava, secondo il ministro degli Esteri austriaco, quanto
erano fallimentari tali schemi (il riferimento ovviamente andava al Programma di
Mürzsteg, firmato anche da Vienna). In aggiunta gli eventi dell’estate 1908 avevano
rivelato quanto cinque anni di riforme non avessero stabilizzato la regione. Ma
sicuramente non poco contribuirono le incomprensioni fra i Giovani Turchi e la
situazione internazionale a far cambiare la iniziale cauta posizione asburgica.
Non altrettanto poco influirono i vari punti programmatici dei nuovi
governanti a Costantinopoli, secondo i quali, tutti i mussulmani balcanici, compresi i
Bosniaci avrebbero mandato dei rappresentanti nel riaperto parlamento Ottomano. Agli
occhi di Vienna ciò significava umiliare il prestigio internazionale di una Potenza da
trent’anni amministratrice, avendo essa stessa difficoltà nello stabilire il regime
giuridico della provincia bosniaca. La mossa conseguente, quella di annettere la
provincia bosniaca, fu fatta per cancellare ogni ambiguità riguardo ai reali confini fra i
due Imperi. In sé, era da tempo che il governo asburgico non si interessava più di tanto
della questione turca1. Non ci sarebbe dunque motivo di dubitare della sincerità di
Aehrenthal quando, scrivendo all’ambasciatore britannico, lo assicurava che “earnestly
desire the success of the constitutional movement in Turkey, if only because AustriaHungary needed a strong government in Constantinople”2. Vienna comunque non
poteva permettere un suo coinvolgimento nella crisi interna delle istituzioni turche e la
1
Al passaggio del secolo infatti si assiste ad un decrescente interessamento austriaco riguardo
alle tematiche che più avevano preoccupato Vienna durante l’ultima decade dell’Ottocento: Creta,
Albania e Stretti. Gli Austriaci erano stati ben contenti di lasciare Creta nelle mani della supervisione
delle quattro Potenze (le quali regolarmente informavano Vienna riguardo a possibili cambiamenti nello
status dell’isola). In Albania l’Impero Austro-Ungherese semplicemente rispettò gli accordi del 1897 e
1900 con Roma, per prevenire uno sbarco italiano sulle coste adriatiche. Poco poté fare del resto riguardo
alla penetrazione scolastica che Roma, Parigi e Vaticano stavano facendo in Albania, sempre più vicina
all’indipendenza. Infine, nella difesa degli Stretti dall’interferenza della Russia, gli Asburgici lasciarono
l’Inghilterra da sola. Nel 1903, il ministro degli Esteri di Francesco Giuseppe, Goluchowski, rifiutò di
unirsi alla protesta di Londra contro il passaggio di una nave russa disarmata attraverso i Dardanelli.
Preferì piuttosto dedicarsi, in condominum con i Russi, alla questione macedone.
2
F.R. Bridge cit. pag. 38
148
mancanza di chiarezza riguardo alla sua posizione in Bosnia sicuramente apportava
questo rischio, soprattutto dopo le sopracitate dichiarazioni jonturche.
Aehrenthal era fermamente convinto di questo, e il suo omologo a Pietroburgo
Isvolski aveva dei piani abbastanza affini, volendo inoltre ricompensare la Russia per
l’umiliazione subita a Port Arthur ad opera dei Giapponesi. Nel luglio 1908, il capo
della diplomazia russa propose alla controparte austriaca una serie di servigi corrisposti:
la Russia avrebbe accettato l’annessione della Bosnia da parte dell’Impero Asburgico
nello stesso tempo che la diplomazia viennese avrebbe facilitato l’apertura degli Stretti
per le navi dello Zar – chiuse dal 1841 a tutte le navi da guerra non turche1.
Lo scoppio della Rivoluzione a Costantinopoli qualche giorno dopo, dette ad
Aehrenthal l’occasione che serviva. Dopo un incontro svolto nel castello di Buchlau, i
due ministri trovarono in principio un accordo sulla reciproca compensazione da
effettuare. Mancarono, tuttavia, sia i verbali ufficiali del loro accordo, sia una data
prestabilita su quando comunemente agire. Pochi giorni dopo tocco al principe
Ferdinando di Bulgaria fare un viaggio a Vienna durante il quale lui espresse la volontà
del suo Paese di sciogliere ogni legame, anche formale, con il governo turco2.
Giudicandola una alternativa valevole per aumentare l’influenza austriaca a Sofia,
1
Georges Castellan Histoire des Balcans cit. 386
Il Principato bulgaro, che includeva de facto la Rumelia orientale (dal 1885) non aveva avuto
una vita facile fino in quel momento. Mentre il primo principe designato dall’Assemblea nazionale nel
1879, Alessandro di Battenberg, era stato costretto dai Russi ad abdicare (1886), neanche la Reggenza che
lo seguì ebbe una lunga esistenza. Il suo capo, S. Stambolov, fermo oppositore dell’influenza russa nel
Paese, dopo aver orientato la Bulgaria verso Germania ed Austro-Ungheria, istaurò una vera e propria
dittatura. Il principe che egli stesso mise nel trono, Ferdinando di Sax-Coburgo, stanco della rivalità con
la Russia, lo esautorò non molto dopo. Nel 1895 Stambolov morirà in seguito ad un complotto,
organizzato, pare, dalla Corte. Come in Serbia e Grecia, la vita politica bulgara si caratterizzava per
conflitti personali e clanici. Nella politica estera, usufruendo del diritto di rifiutare la presenza di truppe
ottomane sul proprio suolo, e godendo dell’appoggio russo, Ferdinando orientò la Bulgaria verso
l’attivismo in Tracia e soprattutto in Macedonia. Ovviamente la principale ambizione rimaneva la
Bulgaria di Santo Stefano e si sperava di poter attuare lo stesso schema di annientamento usato in
Rumelia anche alle altre limitrofi regioni d’etnia bulgara.
2
149
Aehrenthal lo spinse a prendere il titolo di zar, ripristinando cosi una medioevale
tradizione bulgara.
Alle opinioni seguirono i fatti. Il 5 ottobre 1908, Ferdinando dichiarò la
Bulgaria indipendente, precedendo di un giorno la dichiarazione di Aehrenthal, il quale
annunciava alle altre cancellerie europee l’annessione della Bosnia-Erzegovina da parte
dell’Impero Austro-Ungherese. A poche ore di distanza, anche l’Assemblea di Creta,
volendo approfittare a sua volta della crisi, annunciava l’unione (enosis) dell’isola col
regno della Grecia; un Comitato esecutivo, formato da cinque membri iniziò a
governarla nel nome di re Giorgio I1.
Erano sicuramente dei territori che solo a titolo formale costituivano territori
ancora del Padiscià, ma le novità non mancarono di suscitare un polverone diplomatico
così grande che seriamente la situazione pareva sull’orlo della guerra. I Turchi presero
l’occupazione austriaca nell’unico modo in cui potevano realmente prenderla: una
usurpazione di un loro territorio. Il nuovo regime a Costantinopoli in quel momento non
poteva che girare gli occhi verso l’Inghilterra dove in particolare il ministro degli Esteri
russo non godeva di grande simpatia. Rifiutando l’atto unilaterale austriaco, il governo
Asquith minacciò di ricorrere al suo diritto derivativi dai trattati internazionali di
Berlino (1878) e non riconoscere l’annessione se Vienna non si fosse concordata con i
Turchi almeno su un equo indennizzo2.
1
Ad Atene i problemi presentavano un'altra tipologia. Davanti alle proteste di Costantinopoli e a
quelle delle Potenze, le quali essendo garanti dello status cretese non erano state avvertite, il governo
greco esitò e rimase nell’immobilismo più totale. Dopo vari cambi nella direzione dell’esecutivo, gli
ufficiali crearono la “Lega Militare” con a capo il col. Zorbas, il quale diresse un pronunciamento militare
affine ad un colpo di Stato (15 agosto 1909). Sebbene appoggiati dall’opinione pubblica, gli ufficiali non
trovarono soluzioni alle problematiche politiche del momento. Ben presto chiesero l’appoggio del Primo
Ministro cretese Elefteros Venizelos che nell’ottobre 1910 prese il potere ad Atene avviando una riforma
dello Stato ellenico, ridimensionando il ruolo dei militari . L’annessione di Creta al regno della Grecia
avrà un riconoscimento internazionale soltanto dopo le Guerre Balcaniche con il Trattato di Londra .
2
C.J. Lowe – M.L. Dockrill, The mirage of power, cit. pag. 82
150
Il tono altamente moralizzante e indignato usato da Grey creò grande
irritazione nelle cancellerie diplomatiche viennesi tanto da far rimanere restie le autorità
austriache verso un accordo postumo con i Turchi. Ma ben presto dovettero convincersi
del contrario. Alle note ufficiali segui il boicottaggio delle merci austriache, grave
affronto per Vienna, la quale aveva importanti interessi commerciali nei mercati
ottomani. Dal canto suo, Belgrado reagì pesantemente inviando proteste agli amici russi
e francesi. Pietroburgo si trovò davanti ad un opinione pubblica infervorata dalla
propaganda panslavista. Il suo capo della diplomazia, Izvolski, non avendo fatto
nessuna consultazione precedente con i suoi colleghi di governo, si trovò sul palco degli
imputati. Cercò di accordarsi con Grey, il quale aveva annunciato un nuovo congresso
fra le Potenze per discutere della questione bosniaca. Ma il ministro degli Esteri inglese
ben presto ammonì il suo omologo russo che l’intenzione di tale conferenza sarebbe
stata la compensazione alla Turchia e non il cambiamento del regime degli Stretti come
Pietroburgo desiderava1. Trovandosi alle strette e volendo salvare la sua posizione
Izvolskij agì tempestivamente in difesa delle pretese serbe. La mossa che fece, negando
qualsiasi piano congiunto con gli Austriaci, non funzionò; il suo omologo asburgico lo
accusò di menzogna e di approfittarsi del fatto che i verbali dell’incontro non erano stati
compilati. La polemica che ne seguì, per mesi, suscitò enorme scalpore e attirò
l’attenzione di tutte le diplomazie europee. Il 21 marzo del 1909, con una forma
d’ultimatum diretto Guglielmo II prese le posizioni in difesa di Vienna: il ministro russo
avrebbe dovuto accettare apertamente l’annessione della Bosnia, se al contrario non
avrebbe voluto trovarsi davanti ad un azione comune austro-tedesca. Izvolskij, facendo
un passo indietro, entrò subito in contatto con Belgrado per poter placare gli animi.
1
Ivi, pag. 83
151
Stavolta, il gioco negoziale funzionò: in una nota del 31 marzo inviata
all’Austria e alle altre Potenze, la Serbia dichiarava che i suoi interessi non erano stati
minacciati dal fait accomplit in Bosnia-Erzegovina. Ad aprile, un altro accordo, stavolta
fra Vienna, Costantinopoli e Sofia, sancì il nuovo stato delle cose: il Sultano accettava
la doppia disintegrazione del suo Impero (Bosnia e Bulgaria), ricevendo in controparte
un indennizzo finanziario insieme alla consegna del Sangiaccato di Novi Pazar da parte
della monarchia asburgica1. Inoltre, il governo di Vienna si impegnava pubblicamente
ad aiutare la Porta nell’intento di abolire il regime delle Capitolazioni2. In tutti e due i
casi, il sultano rimaneva l’unico leader spirituale della vita religiosa dei Mussulmani sia
in Bulgaria che in Bosnia. Dal canto loro, i governi di questi Paesi assicuravano il
Califfo che non solo la politica da perseguire nei confronti dei suoi sudditi sarebbe stata
quella della tolleranza religiosa, ma anche che i rispettivi Stati avrebbero contribuito
finanziariamente alla costruzione di scuole islamiche.
Senza molto eco, ma determinante dietro le scene, era apparsa la posizione di
Berlino durante la crisi. Come per chiunque altro, la rivoluzione giovane turca
dell’estate 1908 e la conseguente resa di Hamid destò molta sorpresa anche nello staff di
Guglielmo II. La precipitosa situazione confusa spinse molte personalità tedesche
presenti a Costantinopoli, l’ambasciatore Marschall in primis, a lasciare il Paese3. Più
che ad intimidazioni, questa “fuga” generale era dovuta alla non chiara posizione del
CUP in politica estera. Sicuramente i vertici militari erano per la continuazione della
stretta amicizia con Berlino, ma non si potesse star indifferenti di fronte a molti Giovani
Turchi, che denunciando il supporto che i Tedeschi avevano dato al regime del Sultano,
1
Georges Castellan, Histoire des Balcans cit. 387
Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw, op. cit. pag. 277
3
Ulrich Trumpener, Germany and the end of the Ottoman Empire in The Great Powers and…
cit. pag. 123
2
152
guardavano con simpatia all’Inghilterra. La decisione da parte dell’Austria-Ungheria di
annettere la Bosnia-Erzegovina non fece che deteriorare ulteriormente la situazione. Era
chiaro che i Turchi avrebbero addossato una parte della colpa al Kaiser essendo Vienna
il suo maggiore alleato. Tuttavia, la diplomazia tedesca ebbe importanti possibilità, e le
sfrutto pienamente, per ribaltare la sua posizione presso i Giovani Turchi. Tramite
azioni diplomatiche molto astute, in particolare riguardo alla questione macedone e
quella cretese, la Wilhemstrasse gradualmente restaurò il suo prestigio nella capitale
ottomana. Il resto venne fatto dai grossolani errori dei diplomatici inglesi prima e
durante gli eventi dell’aprile 1909. Già a novembre i Giovani Turchi avevano chiesto –
dopo trent’anni che la diplomazia hamidiana si rifiutava – una rinnovata alleanza angloturca, ma non volendo incitarli verso posizioni sempre più intransigenti Grey rifiutò1.
Pietroburgo era uscito nuovamente senza nulla in tasca dopo questa crisi e accordarsi
con Costantinopoli voleva dire buttare al mare tutti gli apporti positivi che il
ravvicinamento anglo-russo da alcuni anni donava. Ovviamente la Foreign Office non
mancò di assicurare i Giovani Turchi che ogni altro tentativo anti-ottomano da parte di
Vienna avrebbe apportato la flotta britannica a fianco di Costantinopoli. Ma dopo
perdite così dannose come quelle di ottobre il CUP sicuramente non poteva
accontentarsi di una semplice ipotesi.
I veri perdenti dell’ennesima crisi orientale erano Serbia e Montenegro.
Soprattutto la prima, la quale di nuovo veniva privata di uno sbocco nel Mediterraneo,
avendo promesso di contenere le sue spinte irredentistiche verso la Bosnia, ormai
austriaca. Ma neanche la Russia era molto contenta non avendo essa ricevuto una
ricompensa soddisfacente delle sue ambizioni. Sebbene ci fu un accordo con la Porta –
secondo esso, la Russia annullava il 40% dei pagamenti ottomani in quanto indennità di
1
C.J. Lowe – M.L. Dockrill The mirage of power, cit. pag.83
153
guerra avendo preso Sofia il posto di Costantinopoli nei confronti di Pietroburgo1 - lo
zar Nicola II considerava un pericolo contro l’equilibrio del potere la spinta austriaca
nei Balcani. Fu quello infatti il momento decisivo in cui la Russia fa la tanto attesa
mossa di affiancarsi alla Triplice Intesa con Inghilterra e Francia abbandonando
definitivamente ogni possibile ipotesi di ritorno nel seno della Lega degli Imperatori.
L’accordo fra Vienna e Costantinopoli è abbastanza significativo in questo contesto. Il
risultato fu che, insieme alla nuova amicizia e concordanza anglo-russa, il
ravvicinamento, sotto spinta tedesca ovviamente, fra Impero Ottomano e Impero
Asburgico darà il colpo di grazia alla ormai remota amicizia fra Londra e
Costantinopoli. Varie ragioni, vari eventi e soprattutto tanti sbagli avevano spinto i due
ex-alleati verso due coalizioni contrapposte. Sicuramente la posizione di Grey fu
abbastanza accondiscendente verso le lamentele turche ma non così tanto da potersi
permettere il rischio di irritare i Russi. L’umiliazione che Pietroburgo subì dopo
l’ultimatum tedesco non lasciava spazio di manovra all’operato diplomatico
dell’esponente liberale. Anzi dagli stessi membri del suo Gabinetto Grey venne indotto
a non favoreggiare troppo i diritti ottomani di risarcimento economico. Churchill stesso
ammetteva che la presa di posizione inglese contro l’Austria era iperreattiva dal
momento che questa Potenza in fondo per trent’anni aveva amministrato la Bosnia. In
una disputa fuori da una sua area di interesse, come Grey dovette ammettere più tardi,
l’Inghilterra non offrire nulla “except advice, which is equivalent to suggesting a
settlement at the expense of other people, who are not prepared to make sacrifices or
dare not to face their own people if they do”2 Da qua alla inimicizia totale nella Grande
Guerra il passo fu veramente breve.
1
2
Ulrich Trumpener op.cit. pag. 277
C.J. Lowe – M.L. Dockrill, op.cit. pag. 85
154
4.G li errori inglesi e la detronizzazione di ‘Abdül Hamid II
Al ritrovato accordo esterno non seguì una pacificazione delle conflittualità
interne. Dentro le mura delle capitale ottomana delusioni, rancori e inimicizie non
davano certo l’aria di una quiete istituzionale. Gli avvenimenti di ottobre dettero un
duro colpo al prestigio, già da prima dubbio, che i Giovani Turchi avevano a
Costantinopoli. Il loro cavallo di battaglia, la difesa dell’integrità imperiale a
prescindere dalle riforme da attuare, era stato il primo ad essere abbattuto a pochi mesi
dal loro insediamento. Infatti, quello che il Sultano dalla mano forte era riuscito con
tanti sacrifici a non perdere in trent’anni - l’ultima perdita era stato l’Egitto nel 1882 – il
CUP l’aveva fatto in così poco tempo. Ovviamente alle pesanti critiche che venivano da
ogni parte, soprattutto da Sabaheddin, ormai ala distaccata da mesi dal CUP, il Comitato
rispondeva deviando le responsabilità sul mal governamento precedente. La stampa era
infuocata e le tensioni politiche ben presto trovarono il loro luogo ideale per sfociare.
Ma neanche al esterno la situazione pareva che migliorasse. Sebbene in
pubblico continuassero a dichiararsi simpatizzanti del nuovo regime, Grey e il premier
Asquith, progressivamente cambiarono le loro aspettative sui Giovani Turchi. Dopo la
crisi d’ottobre la posizione inglese passò da generici dubbi, in un aperto criticismo verso
Costantinopoli. In parte, tale atteggiamento veniva giustificato con una perdita
d’influenza che Londra pareva subisse nei palazzi di potere ottomani. Sebbene Kamil
rimanesse sostanzialmente filo-inglese, era ben chiaro che la sua personalità, davanti al
155
CUP fosse molto debole. Salivano le critiche della rappresentanza diplomatica inglese a
Costantinopoli e nello stesso tempo crescevano gli adepti dentro il Foreign Office di una
certa scuola gladstoniana riguardo ai rapporti anglo-ottomani. A subire l’influenza di
quest’ultima fu anche il cauto Hardinge, il quale vedeva nella mancanza e l’euforia
nazionalistica dei Giovani Turchi la causa della stagnazione dei loro rapporti con
Londra. Sostenendo l’ambasciatore Lowther in rotta col Comitato, il vicesegretario
permanente di Grey, da un atteggiamento ottimista arrivò a sostenere la necessità “that
is deliverable that this Young Turk Committee should disappear in the near future,
otherwise they will in course of time deteriorate”1. Nelle parole di Hardinge, quello che
il governo inglese temeva era non più un ritorno di Hamid quanto il sospetto che gli
orientamenti diplomatici del CUP sarebbero stati peggiori del precedente ostruzionismo
del Sultano verso Londra.
Nel novembre-dicembre dello stesso 1908 vennero organizzate le prime
consultazioni elettorali per l’insediamento del Parlamento bicamerale da poco riaperto.
L’atmosfera,
già
precedentemente
non
quiete,
divenne
ancor
più
litigiosa
dall’antagonismo crescente fra CUP e il suo maggior oppositore, il Partito Liberale
Ottomano (l’Osmanlı Ahrar Fırkası), capeggiato nientedimeno che dal principe
Sabaheddin. Mettendo l’accento sull’uguaglianza e sulle pari opportunità fra
mussulmani e non, sostenendo come programma il decentralismo amministrativo, il
PLO riuscì, come era prevedibile, a raccogliere il consenso delle nazionalità non turche.
Tuttavia questo non bastò! Le elezioni, svolte con il suffragio indiretto maschile,
vennero vinte quasi dappertutto dal CUP. Oltre ad una macchina organizzativa
efficientissima come l’esercito, gli unionisti avevano davanti un oppositore poco
1
Joseph Heller, British policy toward the Ottoman Empire 1908-1914, cit. pag. 24
156
coordinato da poter vincere. Lo stesso Gran Visir Kamil, candidato liberale nella
capitale, perse di misura contro un avversario sconosciuto del CUP1.
Il Parlamento venne aperto il 17 dicembre e Ahmed Rıza, ritornato nel seno
del CUP dopo l’allontanamento di Sabaheddin, ne divenne presidente. Alle celebrazioni
seguirono duri colpi d’attacco da parte dei rappresentanti dei popoli non turchi alla
Camera. I popoli balcanici – greci, slavi macedoni e albanesi – avevano diverse
concezioni riguardo al nuovo modo di organizzare i rapporti centro-periferia. Essi
andavano dalla completa indipendenza alla moderata autonomia. Tali punti di vista, che
in Macedonia si erano espressi tramite colpi d’arma, adesso potevano trovare luogo
nella tribuna del Parlamento, dove sedevano 60 rappresentanti arabi, 27 albanesi, 26
greci, 14 armeni, 10 slavi e 4 ebrei2 (quasi tutti facenti parte del PLO).
Debolissima all’interno, la posizione di Kamil venne a rafforzarsi
all’esterno, dopo che il 13 gennaio del 1909, l’ancora in carica Gran Visir, guadagno un
ulteriore favorevole voto di confidenza da parte delle cancellerie diplomatiche inglesi.
Quello che era visto come il nemico più diretto del CUP, in pochi giorni divenne la
persona più favorita da parte di Lowther, il quale, tramite questo appoggio,
pubblicamente si espresse contro il Comitato. Dichiarando che i tentativi di Kamil a
favore di un rapprochement con l’Austria dopo la crisi d’ottobre avrebbe inciso in una
maggior stabilità nell’Impero, la pressione che Lowther fece il Foreign Office a favore
del Gran Visir destò sospetto pure ad Hardinge. Sebbene quest’ultimo, in fondo sempre
sostenitore di una posizione moderata verso Costantinopoli (“A friendly Turkey is much
more convenient situation for us than an allied Turkey”), l’innumerevole dose di
pessimistiche note che l’ambasciata inglese mandava nei riguardi dei Giovani Turchi –
1
2
Histoire de l’Empire Ottoman (sous la direction de Robert Mantran) cit. pag. 625
Georges Castellan Histoire des Balcans cit. pag 388
157
per Lowther lo stato di diritto, insieme ad un Parlamento fantoccio, non erano che
deteriorati – fecero aumentare la crisi fra le due capitali1.
Nella scena interna maggiori scintille produsse lo scontro fra Porta e
Camera; anche stavolta la causa fu l’insistenza di Kamil di controllare direttamente la
nomina dei due dicasteri chiave (Guerra e Marina). Dopo una netta sfiducia della
Camera, il Gran Visir dette le dimissioni. Verrà sostituito nel febbraio 1909 da una
persona molto più fidata dal Comitato, Hüseyin Hilmi Pascià, già ispettore generale
della Rumelia prima della rivoluzione. Come è ben immaginabile fu Lowther il primo a
dare l’allarme ai suoi superiori a Londra. Di conseguenza, né la destituzione di Kamil e
né il nuovo premier vennero visti bene dai deputati liberali – una sessantina in tutto – i
quali, incitati anche da agenti britannici, accusarono il CUP di dittatura, politicizzazione
di un organo costituzionale quale l’esercito e favoreggiamento dell’etnia turca. L’unico
fatto che fece ancora ben sperare a Londra era che il dicastero ottomano degli Esteri era
stato dato a Rifaat, ex-ambasciatore a Londra ed ultimo pallido rappresentante della
corrente anglofila alla Porta. Tuttavia, la situazione precipitò più velocemente di quanto
il Foreign Office potesse sperare.
Infatti ai molti motti di protesta s’aggiunse l’aggressività degli ulema (Şeykh
ül-Islȃm) organizzatrici di tumulti popolari dove si chiedeva al Sultano il ristabilimento
della şari’a e la denuncia dei Giovani Turchi come dissacratori ispirati alla Rivoluzione
Francese e dalla Massoneria. Dietro gli attacchi delle autorità religiose c’era la figura
del ex-jonturco Murad Bey, in piena collisione con i suoi vecchi colleghi. Inoltre, un
ruolo non meno importante in questo risentimento generale verso il CUP venne giocato
dall’ambasciata britannica . Il suo primo dragomanno, Gerald Fitzmaurice, guidava la
1
Joseph Heller, op. cit. pag. 25
158
propaganda anti-Comitato di Londra attraverso le pagine del “Levant Herald”,
quotidiano inglese della capitale.
Anche se non era pienamente tranquilla, fino al mese di aprile, la situazione
pareva abbastanza controllabile, con il Sultano sempre restio ad esporsi ed il Comitato
che continuava a non muoversi da Salonicco. I fermenti erano seri ma reali impressioni
che dietro una protesta quasi sempre verbale c’era l’organizzazione di una vera e
propria reazione si videro solo il 7 di aprile. Quel giorno un giornalista notoriamente
anti-unionista, Hasan Fehmi, venne ucciso e quasi subito il crimine s’imputò al
Comitato1. La notte fra il 12 ed il 13 aprile, qualche giorno dopo la conclusione delle
trattative con Sofia e Vienna, avvenne l’ammutinamento di alcuni soldati del I° Corpo
d’Armata d’istanza a Costantinopoli. Quello che passò alla storia come “l’incidente del
31 marzo” (secondo il calendario islamico vigente) venne causato da adepti ossessionati
della Società dell’Unione Islamica (Ittihad-ı Muhammedi Cmiiyeti), organizzazione che
radunava gli ulema di secondo grado. L’indomani mattina, acclamati da una folla
immensa davanti alla piazza Sultan Ahmed, gli insorti chiesero la testa di Rıza, del
ministro della Guerra Ahmed Muhtar Pascià e l’immediato ripristino della stretta
osservanza religiosa. I giornali unionisti come il “Tanin” e lo “Şura-yi ümmet” vennero
saccheggiati e la violenza nelle strade non risparmiò nessuno: giovani ufficiali
diplomati, movimentisti costituzionalisti e deputati trovarono la morte per le strade di
Costantinopoli. Tutto questo, accompagnato da massacri spietati, nella capitale ma non
soltanto, contro la popolazione armena mentre greci e albanesi passivi applaudivano.
L’immobilismo totale delle forze dell’ordine insieme alla paralisi del dicastero militare
portò all’aggravarsi della crisi politica. Con il Parlamento effettivamente bloccato – i
deputati unionisti che si erano salvati restavano nascosti – il Sultano, uscì dal silenzio, e
1
Histoire de l’Empire Ottoman cit. pag. 626
159
come era immaginabile, aderì a quasi tutte le richieste dei ribelli. Ordinando alla
Camera l’osservanza della şari’a, ‘Abdül Hamid stroncò tutte le procedure
costituzionali nominando Gran Vizir l’anziano Ahmed Tevfik Pascià e a capo della
Camera il deputato albanese Ismail Qemali, simpatizzante iniziale dei Giovani Turchi
ma dopo loro fermo oppositore. In seguito, il vuoto istituzionale lasciato dagli unionisti
venne subito colmato dai liberali1.
Infatti la strutturazione del potere che avvenne dopo i fatti di aprile mostrò
anche il problema politico di fondo che aveva prodotto la rivoluzione di un anno prima.
L’Islam e in generale l’ispirazione religiosa-conservatrice veniva soltanto usata. Dietro
gli ulema e il Partito Liberale c’erano non soltanto ex giovani turchi messi in disparte
(come Sabaheddin) ma anche vecchi rappresentanti dell’elite politica allontanati dal
potere (primo fra tutti Kamil Pascià). Inoltre le riforme introdotte tempestivamente i
primi mesi dopo luglio avevano creato uno strato sociale molto diffidente verso i nuovi
governanti come potevano essere i vecchi ufficiali licenziati, burocrati delusi dalla
riorganizzazione amministrativa ma anche graduati venuti dalla gavetta che erano
rimasti fedeli al Sultano. Dopo un iniziale appoggio, l’opposizione ai Giovani Turchi si
era ingrossata nelle sue file anche dai rappresentanti delle minoranze cristiane, in rotta
contro il CUP dopo le sue decisioni centralistiche. Vanno aggiunti anche gli Albanesi,
sebbene i loro vertici a Costantinopoli, anche dopo il rifiuto che le autorità giovani
turche avevano fatto alle loro richieste di scuole in lingua locale, ancora non avevano
optato per la piena scelta indipendentistica.
Tuttavia, a dare l’appoggio più determinante alla reazione di aprile furono le
autorità diplomatiche inglesi presenti in diverse parti dell’Impero e ormai da tempo in
urto con il CUP. Non c’è molta concordia fra gli storici sulla ragione della chiusura
1
Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw, op. cit. pag 281
160
totale che vi fu nelle relazioni fra Inghilterra e Giovani Turchi. Sembrerebbe che le
contraddizioni partano dalle diverse posizioni che il Foreign Office e la presenza inglese
a Costantinopoli avevano nei confronti dei militari. Se Grey era comunque convinto che
la presenza giovane turca fosse positiva per i rapporti pacifici fra i due Paesi,
l’ambasciatore Lowther guardò alla restaurazione che seguì i fatti d’aprile come
l’istaurarsi di una dittatura militare filotedesca. Molti storici sostengono che la
posizione ufficiale del Regno Unito finì per favoreggiare la reazione, essendo che i
liberali di Sabaheddin erano nettamente più filo-inglesi del CUP. Questi, dopo aver
rifiutato qualsiasi possibile compromesso con la Russia, anche per un’affinità
programmatica nazionalistica, iniziò a guardare alla Triplice sempre più con interesse. Il
risultato fu la reintroduzione dell’influenza tedesca nei circoli di potere a
Costantinopoli. Tuttavia, più di ogni altra cosa, fu la questione della Baghdad Express
che contribuì al netto deterioramento dei rapporti anglo-ottomani in quest’ultimo
periodo del regno di ‘Abdül Hamid1. Ed è proprio qua che per altri storici, soprattutto
quelli britannici, come Heller o Lowe, il governo inglese tentò in tutti i modi di trovare
un accordo con Costantinopoli rifiutando l’idea di appoggiare, come molte lobbies
consigliavano, la reazione hamidiana d’aprile.
Appellandosi al buonsenso turco, il sottosegretario Hardinge, cercò dopo la
Rivoluzione di far assicurare al suo Paese la concessione sulla costruzione della ferrovia
nella regione mesopotamica. Anzi, proprio per la considerazione superiore che avevano
gli Inglesi per questa tratta rispetto al resto, egli cercò di convincere lo Stato maggiore
di Salonicco ad optare per un prolungamento della linea, esclusivamente inglese, oltre
Baghdad. Lo schema che adotto per convincere i suoi superiori fu lo stesso che
1
C.J. Lowe – M.L. Dockrill The mirage of power. British Foreign Policy. 1902-1914, cit. pag.
88
161
Lansdowne aveva adottato nel 1903. Come qualche anno prima, anche nel 1909 una
parte della diplomazia inglese propagandò l’idea che la partecipazione inglese alla
ferrovia avrebbe dovuto apportare maggiori profitti commerciali, nascondendo con ciò
la speranza di poter migliorare i rapporti con Berlino. Ma anche stavolta l’entusiasmo
non giustificò i risultati e l’ottimismo di Hardinge ben presto subì una disfatta. Mentre a
Costantinopoli il CUP eliminava ogni traccia di liberalismo filo-inglese, sempre più il
Foreign Office diventava diffidente verso qualsiasi patto Londra-Berlino. “The F.O. is
too anti-German just as not many years ago it was too anti-French” affermava uno
stretto collaboratore di Grey1. Di conseguenza, dati i tempi, qualsiasi potenziale amico
dei Tedeschi, Turchi soprattutto, facevano da pendant a questa politica. Sebbene lo
stesso Segretario agli Esteri appoggiasse il piano di Hardinge, si trovo presto fra
l’incudine e il martello. A Londra doveva apparire insolubilmente anti-Berlino mentre a
Costantinopoli doveva tener conto di un influenza che la Germania non aveva mai
effettivamente perso. Alla fine Grey scelse gli orientamenti del suo dicastero e insieme
ad Hardinge iniziò a diventare sempre meno flessibile nelle richieste verso il CUP. Si
può quindi dire che tutti e due sbagliarono nel non tentare una via meno anti-tedesca –
che del resto pareva provocatoria – a Costantinopoli. Allo sbandamento dei diplomatici
inglesi in Turchia, contribuì il legame indissolubile che Londra aveva creato con gli
investitori nella capitale turca. Tutto questo, quando i veri guardiani del potere, i militari
in Macedonia venivano contattati poco, anzi, dopo l’uscita di Sabaheddin,
sistematicamente ignorati. Qualcuno che si accorgeva c’era e Hardinge in modo
persistente continuò a cercare il compromesso con Costantinopoli fino al 1910 ma senza
successo. Già dopo le dimissioni di Kamil, quando effettivamente ogni mente sensata
avrebbe capito che la carota era meglio del bastone, Hardinge iniziò a consigliare a
1
C.J. Lowe – M.L. Dockrill op. cit. pag. 88
162
Lowther un atteggiamento più cauto e meno aggressivo verso il Comitato. L’appoggio
che il governo inglese dette alla reazione di aprile, allontanando anche quelle piccole
perplessità del CUP davanti all’alleanza con la Triplice, affossò da ambo le parti
qualsiasi residua ipotesi di ritorno dell’alleanza anglo-ottomana. Hardinge a quanto pare
era il primo a saperlo. La situazione riguardo alle azioni degli agenti inglesi nella
capitale turca era sfuggita di mano. Cerco in tutti modi di abbassare l’influenza
dell’elemento più anti-turco dentro il Foreign Office, Tilley, ma la successiva
implicazione inglese dimostrò il suo fallimento1. Le sue parole, pessimistiche e in un
certo senso profetiche, dimostrano l’enorme delusione di un uomo che nell’ultimo anno
si era speso parecchio per cercare di riallacciare i rapporti fra Impero Britannico e
quello Ottomano, anche se lui stesso aveva sbagliato ignorando o addirittura volendo
distruggere il CUP:
It is quite true that the Turks will probably turn to what
they consider to be the strongest combination, which at the
present moment is that of the Central Powers. Yet, if peace and
quiet continue in the Balkans for the next two years and if in the
meantime the Turks lean on Austria and Germany, they will, in
my opinion, find that they have put their money on the wrong
horse, and that it would have been much better for them to have
made friends with the Bulgarians and to have leaned on the
poker of the Triple Entente2.
1
Joseph Heller, British policy toward Ottoman Empire 1908-1914, cit. pag. 27
Hardinge to Lowther (Costantinople), 18 May 1909, F.O. 800/193A in C.J. Lowe – M.L.
Dockrill, British Foreign Policy: the documents 1902-1914, cit. pag. 467
2
163
Con la stessa rapidità con la quale aveva attirato l’attenzione dell’opinione
pubblica interna ed internazionale, la reazione conservatrice perse anche la sua energia
impositiva. Davanti al rischio di destabilizzazione dell’ordine pubblico, l’Armata
Macedone (chiamata anche Hareket Ordusu, “Armata d’azione”), sotto l’impulso di
Mahmud Şevket Pascià, il 24 aprile marciò su Costantinopoli istaurando tribunali
eccezionali per giudicare i ribelli e proclamando la legge marziale su tutto l’Impero. Fu
quel evento che realmente mostro anche agli occhi della diplomazia britannica il reale e
non indifferente potere dei Giovani Turchi. L’atto della loro restaurazione mostrò a
Grey che gli stessi attori che sembravano totalmente spacciati dopo la reazione d’aprile
costituivano effettivamente un elemento da prendere molto in considerazione. Infatti,
questa presa di coscienza farà sì che Londra, dopo il 30 d’aprile prenderà molto sul
serio i militari, e dialogherà con loro direttamente. Inizierà tuttavia anche a temerli.
Invece di cautela ciò portò soltanto ulteriore diffidenza con l’unico risultato che
simbolicamente la restaurazione giovane turca costituirà il vero punto di non ritorno
verso le reciproche dichiarazioni di guerra del ’14 fra Londra e Costantinopoli. Costretti
ad agire da soli, non spalleggiati da Londra durante l’ottobre ‘08 e più che mai risentiti
verso l’appoggio che lo spionaggio inglese aveva dato ai Liberali, i vertici militari
macedoni non avevano più dubbi sulle scelte diplomatiche da fare. Il loro modo
dirompente di far capire che erano più vivi che mai fu un preoccupante segnale in tal
senso. Nelle parole di Grey infatti:
It is, I think, unfortunate that the Committee should have
had this opportunity of showing how predominant is their
164
position. They badly wanted a knock, and I thought at one
moment that they have got it1.
Inizialmente, i vertici militari in Macedonia, non necessariamente membri
del CUP, avevano optato per l’uso di mezzi politici nel tentativo di placcare l’anarchia
della capitale. Il Comitato infatti aveva cercato di richiamare tutti i suoi collaboratori
nell’Impero, incluse le minoranze cristiane, più danneggiate anziché favoreggiate dalla
controrivoluzione. L’unica risposta fu un sollevamento armeno ad Adana il quale venne
seguito da massacri e contro massacri con un complessivo numero di 20.000 vittime di
tutte le religioni. Mahmud Şevket vide in ciò il fallimento della via politica scelta dal
CUP e decise tramite il suo staff (dove c’erano figure di spicco della futura storia turca,
come Mustafa Kemal, Enver Bey e Ismet Inӧnü) l’alternativa militare all’offensiva
controrivoluzionaria2. Tre giorno dopo l’entrata nella capitale dell’armata macedone, la
Camera e il Senato, riunite in una seduta comune, leggendo anche una fatwa dello
Şeykh ül-Islȃm, mandavano ‘Abdül Hamid in esilio, dichiarandolo decaduto da ogni
funzione di Sultano e Califfo3. Veniva rimpiazzato dal fratello, l’anziano Mehmed
Reşad, con il nome di Maometto V (1909-1918) pallida somiglianza di un potere
svanito e di un epoca che definitivamente voltava pagina.
1
Joseph Heller, op. cit. pag. 29
Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw, op. cit. pag. 281
3
Avendo ordinato la resa davanti all’entrata dell’esercito a Costantinopoli, Hamid accettò la sua
deposizione senza obbiettarsi mai una volta presa la decisione. Insieme alla sua famiglia, venne mandato
in esilio a Salonicco, dalla quale venne riportato a Costantinopoli nel 1912 dopo che la città egea venne
assediata dagli eserciti balcanici. Morirà sei anni più tardi (10 febbraio 1918) nel suo palazzo di
Beylerbeyi, nella riva anatolica di Costantinopoli. Era questa una fine in oscurità e disgrazia per uno dei
più importanti sultani che la dinastia ottomana aveva mai avuto.
2
165
Epilogo storico
Lo scioglimento dei dubbi: dall’inimicizia alla guerra
(1909-1914)
La deposizione di Hamid, oltre a simboleggiare un epilogo storicamente
importante di una intera epoca dell’Impero Ottomano, segnò anche una via di non
ritorno per le relazioni anglo-turche fino alle reciproche dichiarazioni di guerra del
1914. Infatti da quel momento niente sarebbe più cambiato. Tentativi di ripresa vi
furono, e anche se il periodo 1909-1914 storicamente pone altre problematiche nei
rapporti fra Londra e Costantinopoli, ma possiamo affermare che i policy makers da
ambo le parti furono pienamente coscienti che le scelte fatte dopo la reazione di aprile
avrebbero portato le loro rispettive diplomazie verso un inevitabile scontro.
Nella capitale turca ben presto i nodi vennero al pettine. Bastarono solo
pochi mesi agli unionisti – anche se il fondamentale ruolo ad aprile non fu svolto dal
Comitato, bensì dai vecchi ufficiali dell’esercito in Macedonia – per tornare ad essere la
forza dominante nel Paese. In effetti, il nuovo sultano in età avanzata, Maometto V,
figlio di ‘Abdül Meçit, non rappresentava più una minaccia per il CUP. Se gli attriti di
Londra negli ultimi mesi si erano rivolti verso l’operato autonomo del Comitato, un
Sultano verso questo più docile, anche se i giudizi su Hamid erano rimasti invariati,
sicuramente non giovava agli interessi britannici nell’area. Per non parlare poi dei Gran
Visir che vennero nominati ovviamente col beneplacito del Comitato. Infatti, Hüseyin
Hilmi e dopo di lui, l’ex-ambasciatore a Roma Ibrahim Hakkı, risultarono personalità di
166
bassa levatura, almeno rispetto a Sa’id e Kamil, e, cosa più importante, a differenza di
questi ultimi, decisamente indifferenti alle direttive inglesi.
L’uomo forte del momento era senz’altro il capo dell’Esercito d’Azione
(Hareket Ordusu) che aveva domato l’insurrezione, Mahmud Şevket pascià. Sebbene
non amasse l’attività politica, questo forte ed intransigente soldato entrò a far parte del
governo Ibrahim come ministro della Guerra. Gli scontri non mancarono e a tratti la
loro ampiezza fece temere per il fragile equilibrio che dopo la reazione liberale si era
istaurata fra militari macedoni e intellettuali del CUP. Anche se gli unionisti si
appoggiarono al Corpo Ufficiali – non da identificare con i militari macedoni anche se
dopo aprile costituì una sorta di military connection fra essi e la classe politica nella
capitale – i rapporti fra CUP e Mahmud Şevket perseguirono lo stesso obiettivo:
mantenere l’integrità e l’unità dell’Impero1.
Tuttavia, fu proprio all’ombra dell’esercito che il CUP, iniziò la sua
riorganizzazione. Il suo Comitato Centrale (Merkez-i Umumi) ancora clandestino
continuò a stare a Salonicco (fino all’estate 1912) orientando le linee politiche in
congressi che si svolgevano almeno una volta all’anno. Le rivelazioni storiche più
evidenti dimostrano delle caratteristiche abbastanza contraddittorie del Comitato. Ai
tratti di una loggia massonica si mischiavano quelli di una organizzazione
rivoluzionaria. Ma non solo! L’attività iniziale del CUP, pur assumendo le
caratteristiche delle bande bulgare dei komitazi, assomigliava anche a quelle di un
partito politico nel senso moderno del termine. Queste contraddizioni concettuali ci
danno quindi l’idea chiara che sotto i termini “liberale” e “democratico” c’era ben altro:
gusto del segreto e della clandestinità, sistema di reti parallele, manipolazione e
1
Alberto Roselli, Il tramonto della mezzaluna, Biblioteca universale Rizzoli, Milano, 2003, pag. 12
167
propaganda, e non di meno, pressioni ma anche mezzi esplicitamente violenti per
preservare il potere1. In ogni caso, fra i suoi membri più attivi – Tal’aat, il dott. Nazim,
Ömer Naci, Mithat Şükrü – ancora non emergeva un capo sopra tutti – almeno non
prima del 1913. Infatti le grandi figure delle prime ore occupavano ormai posti onorifici
(Ahmed Rıza) oppure erano già passati all’opposizione (Ibrahim Temo). Altri, come
Nyiazi tornarono nelle caserme, oppure, come Enver, vennero inviati all’estero, nel suo
caso quale addetto militare in Germania.
Più che sulla divisione, il governo britannico cercò anche dopo il 1909 di
puntare sulla mancanza di chiarezza fra i vari elementi che costituivano l’establishment
ottomano. Sulla politica estera i punti importanti rimasero due: il non cedere davanti
alla sempre più caotica situazione macedone e la soppressione delle Capitolazioni, senza
rinunciare comunque ai capitali stranieri. Gli scopi erano gli stessi di ‘Abdül Hamid;
erano i mezzi che in questo caso facevano la differenza. Tra gli stessi Giovani Turchi
continuarono ad esserci delle conflittualità latenti. Se da una parte i civili premevano di
più per il progresso economico del Paese, i militari avevano saldamente nel cuore la sua
difesa. Un po’ per ragioni sentimentali (l’ispirazione della rivoluzione francese), un po’
per questioni ideologiche (il legame imprescindibile col liberalismo inglese), i civili,
capeggiati da Cavid bey, ministro delle Finanze, continuarono a premere su un alleanza
con le forze dell’Intesa. Non così, come è ben comprensibile, i vecchi militari, educati
alla maniera prussiana, come Ahmed Muhtar pascià o Mahmud Şevket, i quali dettero la
decisiva spinta all’allineamento finale della Turchia a fianco di Germania e Impero
asburgico. Infatti nella bifocale opzione fra sviluppo e difesa le scelte andarono ben
1
A. Nuri Yourdusev, Ottoman diplomacy: conventional or unconventional, Houndmills Palgrave
Macmillan, London, 2004, pag. 87
168
oltre le aspettative dei civili. Sia il Foreign Office, lungi dall’essere coerente con le
direttive di Hardinge, sia l’ambasciata britannica a Costantinopoli, continuavano a
nutrire dei forti sentimenti antiunionisti. Da qua alle direttive prettamente anti-turche la
strada fu breve. La paura di un contagio costituzionale in India ed in Egitto e la
destituzione dell’anglofilo Kamil, spinsero Londra a preferire i liberali agli unionisti,
troppo giacobini per i gusti inglesi. La rappresentanza inglese a Costantinopoli, troppo
indipendente da Londra nel giudizio di alcuni storici britannici, continuò ad appoggiare
l’opposizione liberale anche nell’inverno 19091. Sebbene dopo l’aprile di quell’anno il
Partito Liberale fosse praticamente scomparso, già a maggio, esso iniziò a riemergere
sotto forma di piccoli gruppi più o meno organizzati. Inoltre, nell’epoca della
contrapposizione fra le due Triplici, l’Inghilterra tenne maggior riguardo per i suoi più
stretti alleati, come la Russia, decisiva in quel momento per la protezione del fianco
Nord-Ovest dell’India.
Tuttavia, alle spinte pacificatorie e più pragmatiche di Grey non fecero eco i
continui scontri anglo-turco-tedeschi sulla ancora non completata ferrovia di Baghdad.
Questo affare, oltre alle solite problematiche di concessione, continuava ad mettere in
pericolo la posizione degli interessi britannici nell’area. Nel 1909, ponendo nuove
condizioni al rinnovo del contratto della compagnia di navigazione Lynch sul Tigri e
sull’Eufrate, Costantinopoli si scontrò anche con una violenta opposizione da parte dei
notabili e dei deputati arabi2. Ovviamente, per quanto riguarda le responsabilità il Gran
1
Edward Mead Earle, Turkey, the Great Powers and the Baghdad railroad, Macmillian and Co,
London, 1923, pag. 64
2
John B. Wolf, The diplomatic history of the Baghdad railroad, Octagon books, New York, 1973,
pag. 121
169
Visir Hüseyin Hilmi fece presto ad attribuirle a Londra, sebbene, preso fra due fuochi,
dovette dare le dimissioni.
Non andarono meglio per gli esponenti dei Giovani Turchi i negoziati con la
Francia. Anzi, con essa i rapporti diventarono ben più difficili, sebbene l’iniziale
simpatia di Parigi per dei rivoluzionari che professavano il loro attaccamento ai principi
del 1789 era stata grande. Ma Parigi era decisamente più preoccupata del Marocco. In
questo caso lo scontro fra Francia e Germania sul Marocco (1911) sembra abbastanza
premonitore1. Al dubbio dei rapporti con Berlino, alleato che i Turchi non volevano
rinunciare, s’aggiunsero per Parigi le diffidenze riguardo al nazionalismo jonturco e al
suo ambiguo atteggiamento verso il Debito Pubblico e il Monopolio dei Tabacchi (nei
quali, ricordiamo, la supremazia del controllo francese era evidente). Nel 1910, di fronte
alle accresciute spese militari, Cavid bey si era recato a Parigi per negoziare un nuovo
prestito. Ritornò a mani vuote siccome le garanzie politiche e gestionali – in particolare
legate agli acquisti di materiale militare – pretese dalla controparte francese, gli erano
sembrate inaccettabili2.
L’affaire Lynch e lo smacco del prestito francese rendevano chiara l’idea di
uno Stato bisognoso d’aiuto militare ma più geloso che mai della sua indipendenza.
‘Abdül Hamid II aveva puntato tutto sulla Germania. Ancora fino al 1910, almeno una
parte dei Giovani Turchi non si convinceva di questa scelta e teorizzava la politica
1
Una nuova crisi sul Marocco scoppiò nell'estate del 1911 tra Francesi e Tedeschi, che inviarono
una nave da guerra nel porto di Agadir; sembrò allora che fosse il preludio di una nuova guerra tra
Francia e Germania. La crisi fu invece risolta per via diplomatica, con il riconoscimento tedesco del
protettorato francese sul Marocco e concessioni territoriali alla Germania in Congo. Nel corso del XIX
secolo, divenuto il Marocco oggetto dell'interesse delle potenze coloniali, il sovrano alawita giunse ad
accettare nel 1912 il protettorato francese.
2
Hamit Batu – Jean Louis Bacque Grammont, L’Empire Ottoman, la Republique de la Turquie et la
France, Editions d'Amerique et d.Orient, Paris, 1986, pag. 286
170
dell’equilibrio fra le Potenze, volendo eliminare l’intatto monopolio tedesco. Tale
volontà si vide anche nella scelta degli esperti europei. Se l’esercito continuò ad essere
addestrato da ufficiali tedeschi – Van der Glotz riprese servizio nel dicembre 1910 – la
Marina veniva affidata ad un inglese, l’ammiraglio Gamble, e la riorganizzazione della
Gendarmeria venne affidata a degli esperti francesi. In ogni modo, il diniego di una
scelta netta, sebbene l’affondamento dei Liberali faceva capire che essa comunque
sarebbe stata non-inglese, fece trovare la Turchia più isolata che mai davanti all’attacco
italiano alla Tripolitania.
I Giovani Turchi erano consapevoli del pericolo che incombeva sulla loro
ultima provincia africana e proprio per questo fatto avevano cercato di limitare la
presenza italiana già da tempo istallata nella regione. Infatti, era da tanto che Roma
aveva puntato gli occhi sulla fascia libica, soprattutto nel desiderio di trovare
compensazioni alla presenza francese e inglese nel Nord Africa. A ciò contribuivano
anche altri fattori, come la spinta austriaca nei Balcani - che già aveva impedito le mire
italiane verso l’Albania – nonché una febbre nazionalista ed imperialista da decenni
presente nella politica interna italiana. Ancora prima di aprire un ufficio consolare nella
capitale ottomana, il Banco di Roma era penetrato in Tripolitania con ambiziosi progetti
d’investimenti in ferrovie, navigazione ed agricoltura. A quello che di anno in anno
diventava un sempre più ingombrante monopolio di capitali da parte di Roma, il
governo di Costantinopoli cercò di rispondere con diversi escamotage che avrebbero
dovuto fare pendant ad altri investimenti stranieri. Fu così che nel marzo 1910 il nuovo
vali di Tripoli, Ibrahim pascià, invitò varie ditte americane a investire in capitali per lo
sfruttamento dei fosfati libici, senza tuttavia curarsi del fatto che la difesa della
171
provincia era in condizioni precarie1. Era dai tempi di ‘Abdül Hamid che la milizia
locale si era dispersa.
La decisione di passare all’azione venne presa da Roma all’indomani degli
accordi franco-tedeschi sul Marocco. Dopo aver sferrato l’attacco alle coste libiche (29
novembre 1911), bastarono poche settimane all’esercito e alla marina italiana per
occupare tutta la fascia marittima senza incontrare nessuna seria resistenza. La
proclamazione ufficiale dell’annessione di Tripoli e Bengasi venne agli inizi di
novembre quando si stavano facendo sentire le prime reazioni da parte di
Costantinopoli. Il problema infatti era gravissimo; se si rivelavano incapaci di difendere
la Tripolitania, la reputazione che i Giovani Turchi s’erano addossati come antiimperialisti davanti agli Arabi si sarebbe dimostrata fasulla. Enver pascià venne inviato
immediatamente al fronte riuscendo ad organizzare sacche di resistenza che per anni
avrebbero impedito agli Italiani di penetrare nell’interno2. I mezzi ovviamente erano
pochi; c’era chi arrivò ad incitare il jihad subendo le reazioni dei moderati per i quali
tali modi avrebbero allontanato l’Inghilterra, l’unica, secondo loro, che poteva dare uno
spiraglio di speranza a Costantinopoli. Davanti ad una resistenza strisciante ma di lunga
prospettiva, Roma creò un diversivo, bombardando gli Stretti e impossessandosi delle
isole del Dodecaneso (aprile 1912). Una soluzione stringente venne nell’ottobre
successivo quando costrette dagli avvenimenti sempre più preoccupanti in Albania3 e da
1
Fabio Grassi, L’Italia e la questione turca, pag. 36
2
Ivi. pag. 40
3
Corteggiati dal Sultano Hamid II, ma dall’altra parte, partecipi al movimento jonturco (Ibrahim
Temo) – altri addirittura artefici della Rivoluzione (Niyazi bey) – gli Albanesi da tempo destavano
preoccupazioni nelle autorità centrali. Nel novembre 1908 i vertici delle tre confessioni presenti nel Paese
– mussulmani, cattolici ed ortodossi - si erano riuniti a Monastir per riaffermare il loro sostegno al
Comitato “Unione e Progresso”. Temendo una spartizione del territorio albanese da parte degli Stati
balcanici, i leaders locali si accontentarono di richieste d’autonomia per poter usare le autorità ottomane
come una garanzia d’integrità del Paese. Ma le tendenze centralizzatrici del CUP avevano ben presto
172
una seria crisi politica interna, le autorità del CUP accettarono di negoziare con Roma.
Col Trattato di Ouchy (15 ottobre) veniva siglata la pace: definitivamente la Tripolitania
diventava italiana, riservando il potere spirituale sugli indigeni mussulmani al Califfo
Maometto V1.
Il caos interno intanto montava. Dopo l’invasione della Tripolitania, alle
inevitabili dimissioni del Gran Visir Ibrahim Hakkı subentrò un “fantasma”, Sa’id
pascià. La stessa opposizione liberale, dopo un letargo di quasi quattro anni, iniziò a
dare i primi segnali di risveglio. All’inizio del 1912, costituendo il Partito dell’Intesa
Liberale (Hürriyet ve Itilaf Fırkası), il quale raggruppava tutti gli scontenti del regime,
gli oppositori vinsero una tornata elettorale parziale svolta a Costantinopoli.
L’immediata risposta del CUP fu pressoché inefficace. Sciogliendo le Camere, e
vincendo in modo plebiscitario le elezioni anticipate – il CUP del resto era l’unico
partito realmente organizzato, potendo servirsi di mezzi violenti – si pensò di far
calmare presto le acque2. Ma le cose si erano complicate per gli unionisti e sebbene nel
governo Sa’id bis furono gli unici ad occupare i posti chiave, la vittoria elettorale si
dimostrò fin troppo fragile.
Il colpo finale agli unionisti, proprio mentre sembrava che la loro ascesa
politica avesse raggiunto l’apice, doveva venire nell’estate del 1912, proprio dalla
innescato il fermento nelle montagne albanesi. Bastò questo, insieme all’azione politica di Ismail Qemali
in Parlamento, perché la reazione si tramutasse in rivolta aperta nel Kosovo (1910). Già un anno dopo, il
governo di Costantinopoli sembrava che cedesse davanti alle richieste del Comitato Nazionale Albanese
di Valona, che pretendeva un Albania amministrativamente unita, dotata di un suo parlamento e di un
esercito. Tuttavia accordi ufficiali non vi furono, col risultato che nella primavera del 1912 le terre
shqiptare erano di nuovo in rivolta. Ciò portò alla dichiarazione unilaterale d’indipendenza da parte degli
Albanesi (novembre 1912), anche a seguito dello scoppio della Prima Guerra Balcanica . Il
riconoscimento internazionale venne alcuni mesi dopo (luglio 1913) con la costituzione di un principato
fuori dai confini del quale rimaneva più della metà degli Albanesi etnici.
1
Il Trattato prevedeva anche l’evacuazione delle truppe italiane dal Dodecaneso, ma l’avvento
della Grande Guerra permise al governo di Roma di farvi permanere l’esercito fino a tutta la Seconda
Guerra Mondiale.
2
Stanford j. Shaw – Ezel Kural Shaw, History of Ottoman Empire and Modern Turkey, vol. II,
cit. pag. 357
173
Macedonia, provincia, fino a quel momento, fedelissima alle loro direttive. Intransigenti
nelle loro posizioni, anche dopo lo smacco delle elezioni d’inizio anno, vari gruppi antiCUP avevano creato, con sede a Salonicco, l’organizzazione degli Ufficiali Liberatori
(Halaskar Zabıtan) col chiaro intento di eliminare qualsiasi intervento politico negli
affari dell’Esercito. Ovviamente, il primo bersaglio che essi additarono fu il Comitato,
accusato d’aver creato una dittatura anche alle spese delle Forze Armate. Varie voci di
sommosse, minacce di pronunciamenti militari da tutte le parti dell’Impero, spinsero
alla caduta il governo di Sa’id (17 luglio), al posto del quale Ğazı Muhtar pascià formò
il cosiddetto “Gran Gabinetto”. Vennero esclusi tutti gli unionisti, i quali nelle elezioni
anticipate del 5 agosto persero anche l’ultima posizione politica che avevano in
Parlamento1.
Il ritiro silenzioso del CUP sorprese tanti, ma del resto fu anche una chiara
mossa politica per scrollarsi di dosso le responsabilità di una situazione internazionale
che stava decisamente precipitando. L’attacco italiano in Tripolitania, la caotica
situazione in Albania, le preoccupanti notizie che venivano dagli Stati confinanti
balcanici2, rendevano illusoria la gioia di quelli che dopo anni erano finalmente riusciti
a liberare il potere dalle grinfie del Comitato “Unione e Progresso”. Per quelli che erano
cresciuti col mito della Rivoluzione, ma poi disillusi e scontenti dopo le varie battute
1
William Miller The Ottoman Empire and its successors 1801-1927, cit. pag. 305
2
Già nella primavera del 1911, il premier greco Venizelos, fortemente sostenuto dalla Russia aveva
proposto al suo omologo bulgaro Gešov un’alleanza fra i due Paesi, quando i sostenitori di un’intesa
serbo-bulgara avevano già ottenuto una dichiarazione favorevole da parte del Patriarca greco per la
costituzione di un’unione doganale balcanica. Ma se già i tentativi di un accordo fra i suoi nemici non
facevano sperare niente di buono a Costantinopoli, ancora più chiaramente pericolosa sarebbe diventata la
situazione. Durante il marzo dell’anno dopo, nel bel mezzo della crisi italo-turca, Serbia e Bulgaria
firmavano un trattato che prevedeva l’autonomia e – nel caso quest’ipotesi dovesse dimostrasi
irrealizzabile – la spartizione della Macedonia. Due mesi dopo, subentrò un altro accordo, greco-bulgaro
stavolta, che eludendo il problema macedone, assicurava reciproca assistenza in caso di attacco ottomano.
Chiudono il cerchio delle alleanze – era chiara in prospettiva la serie delle Guerre Balcaniche – due
convenzioni militari che il Montenegro firmò nell’autunno con Serbia e Bulgaria.
174
d’arresto che lo Stato turco, anche sotto la guida del CUP, aveva subito, fu sicuramente
un chiaro segnale di cambiamento. Non fu certamente così per quelli che il giorno dopo
la débacle degli unionisti presero le redini del potere. In una situazione che non
prometteva miglioramenti, saggiamente gli unionisti decisero di farsi da parte
preferendo “vivere oggi per combattere domani”. La strategia del ritiro serviva affinché
qualcun altro prendesse su di sé le responsabilità dei fallimenti che inevitabilmente si
sarebbero registrati. Le crisi di governo ripetitive e il fallimento del processo
d’ammodernamento dell’esercito – nella struttura, negli armamenti e nella concezione
strategica – non ancora terminato del resto, non potevano certo aiutare la Turchia. La
pace sbrigativa con Roma e l’accomodamento alle richieste albanesi servirono poco
dato che il 17 ottobre le armate balcaniche sferrarono con pieno successo i primi
attacchi contro le ultime postazioni ottomane nella penisola balcanica.
In meno di un mese, come da molti fu prevedibile, l’esercito ottomano
venne messo in ginocchio davanti alle avanzate balcaniche. A novembre, mostrando la
sua incapacità di governare in modo stabile, il Partito dell’Intesa Liberale esautorava il
suo secondo premier dopo il colpo di mano dell’estate precedente, Ahmed Muhtar.
Venne subito rimpiazzato da una vecchia volpe noto per la sua anglofilia, Kamil pascià.
I contatti di quest’ultimo con i suoi amici a Downing Street tuttavia servirono a ben
poco. Sebbene gli scopi fossero abbastanza arditi – far intervenire la Triplice Intesa a
favore della Turchia – l’impegno che ottenne era poca cosa. A parte l’invio di qualche
nave britannica sugli Stretti, tra l’altro a solo titolo neutrale, e la promessa di una
mediazione londinese alle trattative di pace, null’altro ci si poté aspettare dal vecchio
protettore1. I tempi erano decisamente cambiati, e come l’età di Kamil, i fili che
legavano gli ultimi anglofili presenti a Costantinopoli con il governo di Londra si erano
1
Edward Mead Earle, op. cit. pag. 73
175
invecchiati. Nel governo inglese, e soprattutto nel Foreign Office, c’era nuova gente che
delle politiche dei tempi di Palmerston o di Disraeli sapeva poco o nulla. Inoltre, il
confronto europeo era nettamente cambiato. Una piccola incandescenza poteva far
accendere la miccia di un conflitto che almeno per ora le due Triplici volevano evitare.
Dunque, sia Londra, ancorché Berlino, preferirono attendere.
Il 3 dicembre, a Çatalca, venne firmato l’armistizio fra gli Stati Maggiori
bulgaro e turco e due settimane dopo i rappresentanti di Costantinopoli si riunirono con
quelli degli altri Paesi balcanici in una conferenza a Londra. Alle ampie richieste
balcaniche – Macedonia, Albania, tutte le isole dell’Egeo e la città di Adrianopoli –
l’Impero Ottomano si dimostrò solo parzialmente disponibile. Le concessioni turche
riguardarono la piena autonomia all’Albania, il riconoscimento di Creta alla Grecia e il
definitivo abbandono di tutti i territori a est di Adrianopoli (senza le isole egee).
L’impasse nella tavola delle trattative non tardò ad arrivare, facendo ulteriormente
crescere l’inquietudine a Costantinopoli. Qui l’opposizione unionista, ferma nel
mantenimento di Adrianopoli seconda capitale dell’Impero – peraltro ancora non
conquistata - prese il sopravvento accusando Kamil di arrendevolezza e incapacità di
difesa della Patria1.
La situazione degenerò ulteriormente nei primi del 1913. Enver, figura
imminente del CUP e abbastanza noto dopo l’organizzazione della resistenza libica,
irruppe in una seduta straordinaria della Sublime Porta e, pistola in mano, costrinse
Kamil a dimettersi. Portavoce di un disperato patriottismo reattivo e garante come
sempre dell’integrità imperiale, il CUP entrò al governo riservandosi i tre ministeri
chiave (Interni, Esteri e Finanze). Il dicastero della Guerra venne lasciato a quel primus
inter pares che avrebbe dovuto svolgere anche la funzione di capo del Governo,
1
Histoire de l’Empire Ottoman, cit. pag. 654
176
Mahmud Şevket pascià. La convivenza governativa venne iniziata nel nome dell’unità
nazionale e i membri principali dell’Intesa Liberale vennero lasciati liberi “purché
abbandonassero ogni inopportuna idea d’opposizione”1.
Tuttavia, il ritorno del CUP, il quale, usando la propaganda patriottica,
doveva evitare ogni cedimento al tavolo delle trattative, non fece che peggiorare la
situazione. Alla conferenza di Londra, dopo le notizie preoccupanti che venivano dalla
capitale turca, s’era deciso di interrompere i lavori fino all’arrivo di nuove direttive.
Esse vennero ma in un momento nel quale i rappresentanti bulgari avevano deciso di
abbandonare le trattative. Malgrado le ultime concessioni ottomane lasciavano mano
libera a Sofia anche su alcuni quartieri di Adrianopoli, il 3 febbraio truppe bulgare
riprendevano i bombardamenti su Çatalca nell’intento di travolgere anche l’ultima linea
di difesa ottomana. Nonostante lo sbandamento delle prime ore si fosse trasformato in
disperato eroismo, per l’esercito ottomano la sorte era segnata. Non bastò né il
guadagno di tempo durante i negoziati né tantomeno la fervente resistenza dei Giovani
Turchi ritornati alla guida delle Forze Armate. La resa delle tre principali città
balcaniche (Giannina, Adrianopoli e Scutari) in meno di un mese dimostrò ancora una
volta la netta superiorità delle truppe avversarie. Davanti all’evidenza Mahmud Şevket
dovette dimostrare che la baldanza nazionalista dei Giovani Turchi valeva poco o nulla
nello scacchiere europeo. Arrendendosi il 30 di maggio, il premier turco accettò le
direttive finali del Foreign Office. Davanti ad una fine annunciata e firmando un trattato
che lasciava solo una zona cuscinetto intorno a Costantinopoli (a sud della cosiddetta
linea Enos-Midia), l’Impero Ottomano definitivamente perdeva i suoi possedimenti
europei2.
1
2
Ivi. pag. 654
Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw, op. cit. pag. 374
177
Le ripercussioni non furono poche. Sebbene fossero riusciti ad evitare la
spartizione delle provincie asiatiche, vero scopo degli appetiti delle Grandi Potenze, la
situazione interna non era affatto tranquilla per l’establishment unionista. Desiderosi da
tempo di una rivincita politica e rafforzati dagli ultimi avvenimenti, i membri
dell’Intesa Liberale, sotto la guida di Kȃmil, stavano preparando un fulmineo colpo di
mano ai danni del CUP. Dietro c’era, come era ovvio da tanti anni a quella parte,
l’ambasciata inglese a Costantinopoli. Stavolta la ribellione riuscì soltanto in parte. L’11
giugno, proprio davanti all’entrata della Sublime Porta, Mahmud Şevket cadeva vittima
di un attentato. Al nuovo tentativo liberale di bloccare le istituzioni, stavolta il CUP
rispose in maniera efficace e rapida. Non lasciando che la situazione si paralizzasse,
tramite proclamazione dello stato d’assedio, arresti e condanne per sedici personalità
dell’opposizione, il Comitato non solo manteneva, ma accresceva il proprio potere.
Ovviamente le premesse di lunga vita erano poche ma, insieme ad un vento a favore
turco che pian piano veniva dai Balcani, gli unionisti riuscirono a ribaltare ben presto la
situazione interna.
Gli accordi prebellici, una volta che la disfatta turca era apparsa definitiva,
crearono le premesse per degli attriti fra gli alleati balcanici. I Bulgari, che avevano dato
il contributo principale alle più importanti operazioni in campo, pretesero tutta la zona
in questione: cioè la parte centrale della Macedonia, dalla Stara Planina al lago di Ohrid.
Dal canto suo, Belgrado, delusa nelle sue mire verso le terre albanesi dopo la conferma
che le Grandi Potenze avevano dato alla creazione di un Principato indipendente
dell’Albania, cercarono anch’essi compensazioni in Macedonia. La sola città di
Salonicco era materia di conflitto fra i plenipotenziari di Atene e Sofia, mentre il
governo di Bucarest, sfruttando la questione degli Aromeni in Macedonia, richiese dalla
178
Bulgaria la consegna della città di Silistria e di tutta la Dobrugia meridionale.
Completava tale quadro il conflitto nascente tra le Grandi Potenze: l’Impero Russo,
sentendo odore d’influenza, era per la conservazione della Lega Balcanica mentre
l’Austria-Ungheria chiedeva il suo scioglimento.
L’azione dello zar bulgaro Ferdinando I, cioè l’aver ordinato alle sue truppe
di attaccare le postazioni serbe e greche (30 giugno 1913), è stato aspramente criticato
anche da molti storici bulgari. Varie polemiche si sono fatte negli anni intorno a questo
ingaggio improvviso dei mezzi bellici contro gli stessi alleati con cui la Bulgaria aveva
vinto la guerra contro Costantinopoli. Era un reale attacco oppure una semplice
manifestazione di forza in risposta a diversi accordi greco-serbi sulla Macedonia? In
quella occasione, lo Zar consultò o meno il suo governo? Domande che rimangono
aperte.
Tuttavia, rimane un fatto: la Bulgaria, forse inaspettatamente, si trovò
isolata davanti ai suoi ex-alleati. Sfruttando la situazione, dopo trattative fulminee, in
guerra entrò pure il governo di Costantinopoli, ovviamente a fianco delle altre capitali
balcaniche e contro Sofia. Il 22 luglio, segnando anche la sorte di questa Seconda
Guerra Balcanica, le truppe turche al comando di Enver pascià ripresero la città di
Adrianopoli. In tutti i fronti l’esercito bulgaro subbì pesanti sconfitte, costringendo
Ferdinando a chiedere l’armistizio a un mese dall’inizio delle ostilità. Nella conferenza
di pace, svoltasi a Bucarest (10 agosto) la Bulgaria otteneva solo una piccola porzione
della Macedonia, perdendo anche la Dobrugia meridionale a favore dello Stato rumeno1.
Fra Costantinopoli e Sofia venne sottoscritto un trattato a riguardo dei territori della
Tracia: in base alle vittorie di Enver la Turchia riprendeva la zona intorno ad
1
La Grecia otteneva tutta la Macedonia egea, con le città di Salonicco e Kavala, mentre la Serbia
si guadagnava la Macedonia centrale e settentrionale – cioè la valle di Vardar.
179
Adrianopoli (Tracia Orientale) mentre la Bulgaria teneva il resto occidentale della
regione, assicurandosi così uno sbocco sul mar Egeo1.
Dopo anni di continue perdite le autorità di Costantinopoli finalmente
potevano vantare una piccola vittoria, e sebbene questa fosse di Pirro, poneva
comunque delle nuove basi per la ricostruzione dell’Impero. Un lustro dopo la sua
ouverture, la Rivoluzione jonturca poteva finalmente spiccare il volo e il nazionalismo,
come sua base originale di partenza, avrebbe dovuto guidare ad nuova meta il formarsi
di una nuova Turchia. Dopo le Guerre balcaniche infatti, l’Impero Ottomano diventava
sempre più omogeneo, almeno nella sua struttura religiosa. Sebbene in molti punti
territoriali – Smirne, litorale pontico, Anatolia Orientale, Libano – la presenza di
minoranze giudaico-cristiane fosse cospicua, la perdita di quasi tutti i territori europei
poneva nuovi
quesiti
sul
ideologia portante dello
Stato.
Progressivamente
l’Ottomanismo iniziò a declinare a favore di un esplicito Panturchismo e insieme
all’emergere di nuovi leaders – Enver era uno dei più promettenti – passi nazionalistici
vennero fatti anche negli orientamenti economici della vita imperiale.
Tramite l’uso del capitale inattivo indigeno, l’accrescere di valore dei beni
fondiari e in generale attraverso leggi sull’incentivazione dell’industria, si cercò di
stimolare la produzione interna. Il problema ovviamente era sempre costituito dalla
dipendenza dagli investimenti europei e le Capitolazioni. Le vie d’uscita non
riguardavano degli sbocchi concreti ma per molti intellettuali – Zıya Gӧkulp, Yusuf
Akçura o Tekin Alp – la soluzione consisteva nell’appropriazione delle basi del
capitalismo. Insomma, solo la formazione di una classe borghese nazionale poteva
offrire un’alternativa all’invasione economica straniera. “Si può considerare che il
risveglio nazionale turco coincida con l’emergere della borghesia turca nello Stato
1
Georges Castellan, Histoire des Balcans, cit. pag. 393
180
ottomano; se questa non incontra gravi impedimenti nella sua naturale crescita, sarà
garantito un forte sviluppo dello stato ottomano” scriveva nel aprile del 1914 Akçura1.
Ovviamente, tra di dire e il fare ci passava di mezzo un mare e la
“nazionalizzazione” del capitalismo in Turchia non poteva venir fatto dall’oggi al
domani. In ogni caso, nella pratica anche i nuovi unionisti post-1913 continuarono ad
usufruire di prestiti esteri e dell’apertura che venne dagli investitori stranieri. Infatti, nei
due anni che precedettero la Grande Guerra Costantinopoli concluse molti prestiti
finanziari fra i quali una che raggiungeva l’importo delle 22 milioni di lire turche – il
più grande dalla bancarotta del 18752. Molti dei problemi che avevano angosciato gli
affari economici della Turchia hamidiana si pensò di risolverli tramite una serie di
accordi bilaterali con le Potenze più influenti nell’Impero. Senza fare grandi riflessioni
politiche, in quella occasione, il governo unionista svendette le ferrovie e dette altre
concessioni – porti, lavori pubblici, servizi municipali ecc. – in cambio di lievi rintocchi
al regime delle Capitolazioni3.
Un esempio era l’accordo franco-ottomano del 9 aprile 1914. Tramite esso
le parti ricevevano:
Francia otteneva:
1. Otteneva il diritto di costruire numerose diramazioni ferroviarie,
soprattutto in Siria.
1
2
Histoire de l’Empire Ottoman, cit. pag. 658
Servet Pamuk Ottoman Empire and European Capitalism 1801-1927
3
Questo soprattutto in ambito fiscale: rialzo del 4% dei diritti doganali, applicazione integrale
per residenti e merci straniere della tassa di dazio ecc.
181
2. Prendeva in concessione molti porti nel Mar Nero e nella costa
siriana (Giaffa, Tripoli, Eraclea, Haifa).
3. La Sublime Porta le garantiva la preferenza in settori ad essa
particolarmente interessata.
Impero Ottomano otteneva:
1. Poteva aumentare i diritti doganali e far pagare tasse e imposte ai
mercanti francesi.
2. Otteneva una promessa ufficiale circa la revisione del suo regime
delle Capitolazioni.
3. Riceveva diversi prestiti fra i quali anche il citato da 22 milioni di lire
turche con la mediazione della Banca Ottomana1.
Si capisce col senno di poi, ma si intuiva anche all’epoca, l’impotenza turca
davanti alla penetrazione imperialistica europea. A Parigi mentre molti celebravano la
nuova amicizia franco-ottomana, altri come il giornale ”Humanité”, scrivevano: “I
capitalisti d’Europa negoziano la suddivisione della Turchia asiatica”2. Ovviamente
questo era un quotidiano socialista e le sue citazioni vanno prese con i guanti, tuttavia al
di là delle vedute la situazione in Turchia scivolava a sfavore delle Potenze liberali.
A iniziare dal regime interno, il quale attraverso una facciata democratica
estendeva il controllo su tutte le forme di vita politica nel Paese. Con un’opposizione
inesistente, un governo monocolore e un’opinione pubblica imbavagliata, la Turchia
viveva in piena dittatura. Dopo aver cercato tanto a lungo il consenso, da un punto
ideologico all’altro, nel 1914 il Comitato “Unione e Progresso” aveva effettivamente
raggiunto l’obbiettivo. Si trattava di un consenso anch’esso monocolore, cioè par
1
Hamit Batu – Jean Louis Bacque Grammont, L’Empire Ottoman, la Republique de la Turquie
et la France, cit. pag. 285
2
Histoire de l’Empire Ottoman, cit. 659
182
excellence turco, sebbene Arabi ed Armeni in molti casi flirtavano col regime. In più
avesse una caratteristica di spiccata originalità: sebbene il regime aveva in molti tratti
delle somiglianze con gli Imperi Centrali – qui tuttavia non c’erano delle dittature - la
Turchia era una dittatura senza dittatore. Dopo l’inizio della Prima Guerra Mondiale
sempre più si parlò di un triumvirato regnante formato da Tal’aat (ministro degli Interni
e futuro Gran Visir), Enver (ministro della Guerra) e Qemal pascià (ministro della
Marina). Ma ciò era più il prodotto dell’immaginario giornalistico europeo che un fatto
reale; anche il principale artefice della politica unionista, Tal’aat, era costretto a spartire
il potere con altri uomini forti del regime, e non ci riferiamo soltanto ai due sucitati. Si
trattava di una dittatura di Partito che, nel suo seno, aveva differenti personalità influenti
con altrettante differenti visioni politiche.
Fatto sta che nel luglio del 1914 l’attentato di Sarajevo trovava un Impero
Ottomano sicuramente molto indebolito ma che poteva ancora contare qualcosa nel
barcollante equilibrio delle forze europee. Per i vasti territori che dominava – senza
contare l’autorità religiosa del Califfo anche nei territori colonizzati – il governo
ottomano iniziò a ricevere vari corteggiamenti politici da ambo le Alleanze. A
Costantinopoli, anche dopo i chiari orientamenti degli ultimi anni, buona parte
dell’opinione pubblica e dei membri del CUP erano a favore della riconciliazione con
l’Intesa. Sembrava una strada più facile da percorrere anche perché Londra e Parigi
dichiararono che si sarebbero accontentate della semplice neutralità, e fecero di tutto per
ottenerla. Addirittura, una delle teste d’uovo del regime, Qemal, arrivò perfino a
proporre ai Francesi un’alleanza bellica in debita forma.
Invece, mentre gli eserciti dei due schieramenti avevano iniziato a trincerarsi e
nel momento che altri Paesi stavano sciogliendo i dubbi, il 2 di agosto, una notizia ad
183
effetto piombò nelle cancellerie europee: in gran segreto, dopo diverse settimane di
trattative, l’Impero Ottomano aveva appena firmato un’alleanza con Berlino. Non si
capì mai se la notizia, che non ebbe fonti ufficiali, fosse del tutto vera. Chiaro fu che
una mossa del genere, nell’ipotesi che fosse vera, sarebbe stata a solo scopo difensivo
verso la Russia. In ogni caso, almeno nella capitale turca, pochissimi si sorpresero.
Convinti delle decisioni turche, e preventivamente per assicurarsi l’appoggio degli
Arabi, le Potenze dell’Intesa iniziarono a propagare l’idea che la scelta di campo del
CUP fosse un incidente storico, commesso da persone imbevute di militarismo
prussiano. Ma al di là dell’eco suscitato da tale notizia, le motivazioni non furono
proprio così semplici.
Da una quarantina di anni, l’Impero aveva accumulato disfatte, perdite
territoriali e lacerazioni. L’orgoglio turco, oppure ottomano qual dir si voglia, aveva le
sue ferite, le sue Alsazia-Lorena. Sicuramente le passioni nazionalistiche, il fatto di
essersi formati nelle file dell’amicizia turco-tedesca avevano inciso nella scelta di
campo che venne fatta da Tal’aat ed Enver, ma era anche scontato che dopo tante
battute d’arresto tentare di recuperare almeno una parte delle umilianti perdite fosse
d’obbligo nella mente degli autocrati turchi. In più, la partecipazione alle ostilità era
anche una via d’uscita, forse troppo facile, per scrollarsi di dosso il giogo politico e
finanziario delle Potenze occidentali. Questo, almeno in linea di principio, doveva aver
spinto questo ristretto numero di persone a prendere tale decisione quanto mai logica. I
negoziati, condotti dall’ambasciatore tedesco a Costantinopoli von Wangenheim, e ai
quali parteciparono il Gran Visir Sa’id Halim, Tal’aat ed Enver, ebbero in più il pieno
avallo del Sultano Maometto V1.
1
Histoire de l’Empire Ottoman, cit. pag. 662
184
Tuttavia, se la Sublime Porta optò per la guerra, ciò non tolse che durante le
prime settimane del conflitto restò sulle sue, lasciando ancora sperare all’Intesa una
possibile neutralità. Costantinopoli aveva bisogno di tempo per poter portare a termine i
suoi preparativi militari. Ma le poche iniziative che si azzardò a prendere in questo
periodo la dicono già lunga sulle sue intenzioni. Infatti, nella prima metà di agosto vi fu
l’incidente del Goeben e del Breslau. Questi due incrociatori tedeschi, subito dopo aver
bombardato le basi francesi in Nord Africa, si erano rifugiate nelle acque ottomane ed
avendo la flotta britannica intimato alla Sublime Porta di rinviare le navi in alto mare o
di arenarle – conformemente al diritto di guerra – quest’ultima non esitò a dimostrare
che le aveva appena acquisite per farne, sotto i loro nuovi nomi Yavuz Sultan Selim e
Midilli, i gioielli della Marina ottomana. Intanto, il comandante dei due incrociatori,
l’ammiraglio Souchon, era stato messo alla testa della flotta imperiale del Mar Nero1.
Sarà solo l’inizio di diverse prese di posizione che ben presto chiariranno le intenzioni
dei governanti turchi.
L’8 settembre il Gran Visir annunciava l’abolizione delle Capitolazioni, dando
così soddisfazione ad una delle principali rivendicazioni dei nazionalisti ottomani. Per il
momento ebbe solo un efficacia simbolica ma quando il 27 dello stesso mese la Porta
usciva dall’ambiguità iniziale chiudendo gli Stretti anche alle navi commerciali, la
volontà di colpire le Potenze dell’Intesa nei loro interessi in zone venne resa
esplicitamente chiara. Qualche giorno più tardi, come conseguenza diretta della
soppressione del regime capitolare, i diritti doganali ottomani vennero alzati
1
Edward Cook, Britain and Turkey: the causes of the rapture, Macmillan, London, 1914, pag.
48
185
unilateralmente del 4%, facendo pendant alla chiusura degli uffici postali stranieri e alla
messa in bando di tutte le giurisdizioni non ottomane.
Nonostante questo, poiché la speranza è l’ultima a morire, neanche l’irreparabile
si era ancora consumato. La Porta ad ogni richiesta di chiarificazione ufficiale tardava
ad impegnarsi definitivamente, giacché gli Imperi Centrali avevano appena subito
pesanti smacchi sulla Marna ed in Galizia. Ma se da parte turca c’era, ed era naturale,
un ultimo dubbio sull’obiettività di una scelta pro-Berlino, da parte tedesca le sconfitte
sul fronte orientale erano una ragione in più per accelerare le pressioni su
Costantinopoli. Se l’Impero Ottomano apriva il fuoco, la diversificazione dei fronti
avrebbe dato respiro alle armate austro-tedesche. Infatti, la conseguenza del definitivo
schieramento ottomano sarebbe stata che i Russi si sarebbero visti costretti a portare le
truppe nel Caucaso e l’Inghilterra, volendo proteggere il Canale e l’Egitto, avrebbe
ridotto la pressione sul fronte occidentale. Sapendo tuttavia l’urgente necessità turca di
armi, ufficiali esperti e soprattutto denaro, alla fine il governo del Kaiser decise di
giocare la sua carta migliore: il 21 ottobre le prime casse d’oro arrivavano a
Costantinopoli. La carrellata degli eventi seguenti era ben prevedibile: il giorno dopo
Enver ordinava alla flotta del Mar Nero di attaccare immediatamente i porti russi mentre
alcuni giorni dopo, alla dichiarazione di guerra da parte della Russia – la quale si
avvaleva dei suoi “obblighi storici” – si aggiungevano le dichiarazioni di guerra da parte
di Londra e Parigi1. Insieme all’appello alla Guerra Santa, bandita dal Sultano in
persona, definitivamente in modo deciso l’Impero Ottomano compieva una scelta
storica ed epocale: poneva le ultime basi della sua fine. Esitazioni certamente vi furono.
Qualche disquisizione o addirittura dimissioni all’interno del CUP era prevedibile che ci
1
Histoire de l’Empire Ottoman, cit. pag. 663
186
sarebbero state. Ma non era sicuramente più il momento dei dubbi. Chi avrebbe voluto
l’ingresso in guerra ne avrebbe dovuto sopportare le conseguenze.
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