FACOLTA’ DI SCIENZE POLITICHE CORSO DI LAUREA INTERNAZIONALI MAGISTRALE IN RELAZIONI GRAN BRETAGNA E IMPERO OTTOMANO: gli anni del gelo diplomatico (1878-1914) Tesi di laurea in Storia dei Balcani in età contemporanea Candidato: Relatore: Edon Qesari prof. Francesco Guida Correlatore : dott. Antonio D’Alessandri Anno Accademico 2006-2007 1 La mia dedica più speciale va ai miei due fratelli, Bonny e Davide, nonché al mio nipotino Eden. Grazie alla loro fiducia, alla loro pazienza e, più importante di tutto, grazie al loro appoggio, io sono giunto in questo giorno. Vi amo! Edon Inoltre vorrei ringraziare enormemente anche il prof. Guida per il suo sempre disponibile aiuto. La sua gentilezza e le sue attente osservazioni hanno aiutato anche uno studente testardo come me completare questa tesi di laurea. 2 a Introduzione……………………………………………………pag. 5 Capitolo I Verso il gelo: l’alleanza anglo-turca e le ragioni del suo deterioramento (1878-1898) ………………………….pag. 11 1. La geopolitica post-berlinese vista da Costantinopoli 2. Il principio dell’integrità ottomana e gli interessi britannici nell’area 3. Nuove tendenze nella politica estera turca: i sospetti di ‘Abdül Hamid verso Londra e il panislamismo 4. L’invasione britannica dell’Egitto 4.1 Genesi e svolta dell’impresa egiziana 4.2 Conseguenze e strategie: Costantinopoli o il Cairo? Capitolo II Dentro le mura dell’Impero: l’influenza di ‘Abdül Hamid nella politica interna ottomana (anni ’80 e ’90 del XIX secolo)……………………………………………………………..pag. 55 1. L’assolutismo costituzionale di Hamid: uno sguardo alla politica interna ottomana 2. L’economia ottomana e la sua dipendenza dai capitali europei 3. Alle prese con i vicini di casa: la Turchia e i nuovi Stati balcanici 4. La questione armena e l’impasse britannico Capitolo III Da Londra a Berlino: le retrovie del nuovo asse turco-tedesca (1898-1908)…………..………………………….pag. 87 1. L’entrata in scena della Germania: la visita di Guglielmo II a Costantinopoli 2. L’intermezzo della ferrovia che divide 3. Il nuovo corso politico della diplomazia inglese 3 4. Ulteriori instabilità balcaniche: un problema chiamato Macedonia Capitolo IV I Giovani Turchi e la caduta di ‘Abdül Hamid II: la definitiva rottura con Londra (1902-1909)…………………………… ………………………………...pag. 123 1. Le prime forme d’opposizione in seno all’Impero e i tentativi d’unità 2. I Giovani Turchi in azione 2.1 La rivoluzione sbarca a Costantinopoli 2.2 La posizione di Londra e le sue divisioni interne 3. Le varie reazioni a catena: Bulgaria, Bosnia e Creta si staccano da Costantinopoli 4. Gli errori inglesi e la detronizzazione di Abdül Hamid II Epilogo storico Lo scioglimento dei dubbi: dall’inimicizia alla guerra(1909-1914)……………………………………………pag. 165 Bibliografia……………………………………………………..pag. 187 4 Introduzione: La tematica che questa tesi di laurea si propone di analizzare è il difficile rapporto fra due Stati, Impero Ottomano e Gran Bretagna, negli anni che vanno dal 1878 al 1909, tenendo uno sguardo anche agli avvenimenti storici che decorrono fino all’inizio della Prima Guerra Mondiale (1914). Ovviamente le relazioni diplomatiche prese qui in considerazione sono amplissime, e tenendo conto di questo fatto abbiamo cercato di restringere l’area tematica ad un preciso quesito: perché queste due Potenze, alleate strette fino al 1878, dopo il Congresso di Berlino registrarono un raffreddamento diplomatico nei loro rapporti che li porterà ad essere nemiche contrapposte durante la Grande Guerra? Fu senz’altro uno strappo dettato da vari ragionamenti di politica estera, i quali, in ogni caso, non ebbero mai una motivazione unilaterale. Nell’ultimo ventennio del XIX secolo, il vasto Impero governato dai Sultani di Costantinopoli aveva perso gran parte del suo splendore che per secoli ne aveva fatto una Potenza temibile per le altre nazioni europee. Entrato nel gioco politico delle Grandi Potenze, già prima dell’epoca napoleonica, l’Impero Ottomano ne aveva subito, insieme alla propria decadenza politica, anche le direttive in campo economico e militare. Nel mappamondo come concepito a Londra, la posizione geopolitica di Costantinopoli era vista quale un’arma per la difesa di quegli interessi territoriali per i quali da decenni l’Impero Britannico si stava espandendo verso l’Asia. Durante tutti i conflitti ottocenteschi, e specialmente in quelle che la storiografia identifica come Crisi d’Oriente, Londra aveva provveduto alla difesa territoriale e politica dello Stato turco, il quale proprio per effetto delle debolezze che abbiamo citato, veniva definito come il 5 “Malato del Bosforo”. Ovviamente i motivi furono tra i più pragmatici. L’espansione britannica in Asia aveva un diretto rivale: la presenza russa, la quale si estendeva fino alle vallate del Panshir, in Afghanistan, mettendo sotto diretta pressione i possedimenti coloniali inglesi in India. Quella che Pietroburgo chiamava una “missione storica”, cioè la liberazione del Patriarcato di Costantinopoli dagli usurpatori islamici, divenne il faro di guardia della politica estera britannica per la difesa dei propri interessi che coincidevano con la permanenza in vita dell’Impero Ottomano. In più, attraverso il suo immenso territorio passavano anche tutte le rotte commerciali inglesi che dal Mediterraneo Orientale si spingevano fino al subcontinente indiano. Il raffreddamento dei rapporti anglo-ottomani avviene tuttavia in un’epoca di grandi cambiamenti geopolitici. Dopo il Congresso di Berlino molti statisti britannici – in particolare Salisbury – iniziano a dubitare dell’efficacia di mantenere ancora in vita un principio di politica estera qual’era l’alleanza e la difesa dei vasti territori ottomani. Fino all’esecutivo di Disraeli (1879) le linee guida della diplomazia britannica erano state quelle di evitare a qualsiasi costo l’implicazione inglese in qualche alleanza permanente. A parte il breve intermezzo di Castlereigh (1820), dalle decisioni prese al Congresso di Vienna (1815) in avanti, la Gran Bretagna aveva sempre rifiutato di prendere parte attiva nelle dispute che avvenivano fra le altre Potenze europee. In generale, per quanto riguardava gli affari continentali, il governo di Londra preferiva volgere lo sguardo verso i suoi interessi extraeuropei. Tale scelta veniva dedotta anche da una visione che i governanti di Downing Street avevano delle capacità politicomilitari del loro Paese. In generale per i Britannici, l’Inghilterra era l’ago della bilancia di quel tanto celebrato principio di Equilibrio della Potenza, vero assioma politico delle relazioni internazionali all’epoca. Per Londra, l’intervento della Gran Bretagna nelle 6 diatribe europee doveva avvenire solo nel momento che la crescita egemonica di una Nazione – o eventualmente di un’alleanza fra Nazioni – diventava talmente forte da mettere a rischio il succitato principio. Per tutto il resto, disinteressato ai tumultuosi territori europei, il governo britannico preferiva tacere ed osservare ciò che avveniva in continente fra i suoi maggiori partners, costruendo e sciogliendo alleanze ad hoc che avevano solo un’efficacia momentanea. Una di queste era proprio il tacito patto stipulato con i Califfi di Costantinopoli; il quale in seguito divenne un principio guida permanente proprio perché altrettanto permanente stava diventando anche la “guerra fredda” fra gli Inglesi e lo Zar nei vasti territori asiatici. Insomma, sebbene i problemi economici e politici per far rimanere in vita un cadavere militare qual’era l’Impero Ottomano erano enormi, l’utilità di usarlo come cuscinetto nei confronti della spinta russa verso l’India, faceva sì che per quasi mezzo secolo l’alleanza anglo-ottomana diventasse un dogma della politica estera dei due Paesi. Non fu più così agli albori della Belle Epoque; intanto era avvenuta l’eccezionale crescita politico-militare della Germania bismarckiana la quale, dopo l’avvento al trono di Guglielmo II, non solo divenne una diretta concorrente della Gran Bretagna, ma altresì una minaccia esplicita a quell’Equilibrio di Potenza di cui da tanto tempo gli Inglesi si consideravano guardiani. La tesi qui proposta tenta ovviamente di analizzare anche i possibili accordi che Londra e Berlino cercarono di contrattare – soprattutto in affari di politica coloniale – ma sia per ragioni interne alla politica britannica, sia per l’aggressività diplomatica che il Kaiser tenne verso le Potenze europee, tali accordi non vennero mai firmati. Ma non solo! L’improvvisa crescita tedesca non solo divenne un fattore di minaccia per gli interessi inglesi – soprattutto con l’avanzata colonialistica tedesca senza precedenti fuori dai territori europei – ma creò 7 oltretutto le premesse per un cambiamento radicale nella politica estera britannica. Verso i primi del Novecento, Londra accettò di creare le basi di un’alleanza politica – e quasi subito dopo militare – con il governo francese, mosso anche da ragioni irredentistiche (vedi Alsazia-Lorena) ad essere il primo antagonista della politica tedesca in Europa. Inizialmente soltanto in modo indiretto, sia per paura verso le mosse tedesche, sia per effetto delle pazienti politiche francesi – con calma e vigore da quasi vent’anni la diplomazia francese aveva operato per raggiungere importanti accordi con Londra – gli Inglesi finirono per entrare in un’alleanza militare, lo scopo bellico della quale metteva la parola fine alle precedenti politiche ottocentesche di neutralità in Europa. Intanto, anche a Costantinopoli, sia i punti di vista sia l’operato concreto della diplomazia turca, erano notevolmente cambiati. Forte della sua spinta ideologica anti-occidentale, il Sultano che approdò al trono ottomano dopo il 1876, Abdül Hamid II, progressivamente aveva rifiutato, a differenza dei suoi predecessori, ogni tentativo di mantenere in vita l’alleanza con Londra. Contemporaneamente ad un raffreddamento proveniente dal Foreign Office, la politica estera ottomana anziché dirigersi verso un solo protettore preferì giocare fra i vari interessi economici che, chi più chi meno, tutte la Grandi Potenze avevano in Turchia. Gli eventi storici che susseguirono non fecero che accelerare tali tendenze. Insieme al rendersi conto del fatto che l’amicizia di Londra effettivamente costava sempre di più – l’esempio più chiaro era la cessione agli Inglesi dell’isola di Cipro come base militare – l’invasione britannica dell’Egitto (1882) affievolì sempre più la collaborazione diplomatica fra Londra e Costantinopoli. Inoltre ciò che fece infuocare ulteriormente gli animi nella capitale turca fu l’esplicita 8 intromissione inglese a favore delle riforme politico-amministrative che il Sultano doveva attuare nelle regioni abitate dalla popolazione armena. Tali risentimenti non fecero che peggiorare da ambo le parti nel momento in cui, attraverso l’affare della costruzione di una ferrovia che collegasse Costantinopoli a Baghdad, il Sultano avviò rapporti sempre più stretti con la Germania di Guglielmo II. Se da una parte la temibile crescente penetrazione tedesca in Medio Oriente e altrove spinse l’Impero Britannico in trattative con i Francesi, dall’altra, questi ultimi, già dal 1892 militarmente alleati con Pietroburgo, permisero, tramite la loro mediazione, di far sedere allo stesso tavolo i governi inglese e russo. Il successo di tali colloqui portò non soltanto all’ufficiale proclamazione della Triplice Intesa (Parigi – Londra – Pietroburgo) ma anche l’accordo finale fra i sovrani britannico e russo a proposito degli storici antagonismi in terra asiatica. Ed è proprio questo il momento cruciale tramite il quale possiamo sinteticamente spiegare il fallimento definitivo dell’alleanza anglo-ottomana: una volta venuta meno l’inimicizia fra Londra e Pietroburgo sull’Asia, una volta esaurita la necessità di proteggere il Medio Oriente dalla presenza russa, la Gran Bretagna semplicemente non aveva più bisogno del cuscinetto chiamato Costantinopoli. Ciò che avvalora di più questa tesi è anche il fatto che gli Inglesi erano stanchi di spingere gli Ottomani in riforme interne che loro comunque rifiutavano di attuare. Anzi, il fatto che l’Impero Ottomano da tempo flirtasse con il nemico naturale della Entente Cordiele, la Germania, rendeva non soltanto indifferenti gli Ottomani agli occhi di Londra ma addirittura nemici. Tutto ciò che avvenne dopo il definitivo accordo fra lo zar Nicola II e il re Edoardo VII (1907) fu soltanto un peggioramento dei rapporti fra i due vecchi amici di cui questa tesi tratta. La Rivoluzione dei Giovani Turchi, liberali per ispirazione e 9 quindi almeno in linea di principio filo britannici, non portò ad un significativo miglioramento della situazione. Anche con i politici post-hamidiani, soprattutto dopo la rottura fra questi e Londra all’indomani della reazione che sconvolse i destini dell’Impero Ottomano (1909), Londra non ricucì le buone relazioni, anche se tentativi da parte di una parte dell’entourage britannica vi furono. Tuttavia la spinta pro-tedesca fu enormemente più potente nelle stanze governative della Sublime Porta e con ciò eventi, scontri e mancanza di condizioni spinsero le due parti a non tollerarsi più. Va tenuto conto che dopo l’accordo definitivo con la Russia, la Gran Bretagna ovviamente teneva molto di più a quest’alleato, storicamente e irriducibilmente antiturco, che a far rivivere una Turchia che nell’impotenza giorno dopo giorno perdeva i territori. Insomma, scelte epocali che sia da una parte che dall’altra fecero sì che una delle più salde alleanze ottocentesche, proprio agli albori del Novecento, subisse una degradazione tale da spingere i suoi componenti ad essere nemici giurati proprio alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. La ricerca storica di un argomento del genere impone un’elencazione precisa di tutti i materiali che, come ho accennato pure prima, necessita di circoscrizione tematica. In sé l’oggetto di studio è ampissimo, quindi occorre precisare che lo spazio dei miei interessi si è concentrato sulla direzione degli affari esteri – innanzitutto ottomano – lasciando in margine le spiegazioni più approfondite per quanto riguarda le vicende storiche della politica interna nell’impero inglese e quello turco. In primis l’occorrenza maggiore di materiale da usare come prima fonte mi ha spinto nella ricerca di documenti ufficiali, scambi di note diplomatiche, dichiarazioni governative ma anche opinioni personali di quelle che erano le personalità più influenti 10 dell’epoca. Il materiale derivante dagli uffici e dalle legate consolari turche è ovviamente interpretabile da quella che era la lingua ottomana del tempo, che, prima della riforma repubblicana avviata da Mustafa Qemal Ataturk, si decifrava in caratteri arabi e in parte persiani. Documenti del genere sono stati disponibili – ovviamente tradotti – dal eccezionale fondo di prime fonti della Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea con sede a Roma. Sebbene l’operosità seria che un lavoro del genere impone, avrebbe richiesto una ricerca più approfondita negli archivi della Foreign Office, ho potuto trovare molti documenti provenienti da lì proprio nella stessa istituzione citata prima. Anche nel regno Unito, come nella maggioranza degli altri Paesi, l’archivio del Ministero degli Affari Esteri è separato in tutto dall’Archivio dello Stato (che raduna tutti i dicasteri della restante amministrazione pubblica). Essendo il mio uno studio che cerca di analizzare fatti ed eventi storici non troppo recenti (18781914) la disponibilità di documenti catalogati, e in più delle volte, pubblicati in volumi divulgabili a tutti, è molto accessibile. Come sappiamo, c’è un margine di tempo il quale incide sulla resa pubblica di certi documenti. Appunto, per questi documenti di un’utilità d’informazione del periodo da me preso in esame, non soltanto sono disponibili negli archivi inglesi, ma addirittura tradotti. Nel fondo della Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea ho trovato molti documenti ufficiali facenti parte dell’interscambio diplomatico del governo inglese. Molti sono in inglese altri catalogati in vari compendi nella loro traduzione in italiano. Tali compendi hanno un’elencazione in base agli anni per poi dopo procedere in una catalogazione in base ai Paesi. Il funzionamento di questo metodo permette di accedere in modo abbastanza veloce, in alcuni casi anche tramite via Internet, al periodo 1878-1914 per poi selezionare la voce “Ottoman Empire”. In quelli anni i governi 11 occidentali godevano di molti privilegi nel loro trattamento diplomatico a Costantinopoli. Oltre al regime delle Capitolazioni, abbastanza efficace nel dare una propria voluta impostazione ai movimenti del governo turco, gli azionisti occidentali godevano dell’extra-territorialità anche per quanto riguarda le poste le quali erano state cedute dalla Sublime Porta a diverse compagnie francesi. Questo per spiegare il fatto che negli archivi, inglesi in questo caso, e italiani esiste materiale di scambio fra personalità e comunque fra autorità influenti all’epoca, molto più ampio di altri Paesi europei. Le azioni eversive del Comitato “Unione e Progresso” (braccio politicomilitare dei Giovani Turchi) erano nella maggioranza dei casi sponsorizzati dalle legate occidentali nella capitale e nelle altre città turche. Quindi parliamo di fascicoli, giornali clandestini, manifesti, interscambio d’opinioni fra protagonisti dell’epoca, che proprio per l’esistenza di un regime talmente incontrollato di posta, è possibile trovare oggi negli archivi dei Ministeri degli Affari Esteri. In parte, insieme a molti giornali, rivistei e approfondimenti di mensili dell’epoca, questi materiali possono essere consultati nella Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea. Oltre, essendo che la mia ricerca riguarda le mosse nella politica estera ottomana e le reazioni derivanti della diplomazia inglese, ho ritenuto opportuno trovare i riferimenti di fonti primarie nei due stupendi volumi di C.S. Lowe “British Foreign Policy 1902-1914” e “British Foreign Policy: the documents 1902-1922”. Lo stesso si può dire di uno dei testi più sistematici riguardo alla mia tematica – che nello specifico non è stata molto trattata dalla storiografia contemporanea – che è il “British policy toward the Ottoman Empire 1908-1914” di J. Heller. 12 Capitolo I Verso il gelo: l’alleanza anglo-turca e le ragioni del suo deterioramento (1878-1898) 1. La geopolitica post-berlinese vista da Costantinopoli Tracciare una linea di separazione fra le tendenze della diplomazia ottomana antecedenti allo svolgimento del Congresso di Berlino e il nuovo paradigma di politica estera che si sarebbe sviluppato subito dopo, impone l’individuazione di alcuni elementi cruciali nella realtà geopolitica europea del tardo Ottocento. Le cosiddette “Crisi d’Oriente”, emblema di una decadenza spirituale ancorché politica del potere pluricentenario della Sublime Porta, erano diventate delle consuetudini, tramite le quali le Grandi Potenze europee cercavano di regolare i conti dei propri interessi nelle aree balcanica e medio orientale. Sia nel caso della prima Crisi d’Oriente, sfociata nella guerra di Crimea (1853-56), sia nel caso della seconda (1875-78), conclusa con il Congresso di Berlino, l’intervento politico e spesso esplicitamente militare da parte delle Grandi Potenze, fu decisivo per una soluzione accettabile da tutte le parti in gioco1. Partendo da questa fatto possiamo notare una chiara evoluzione storica nel trattamento che le Potenze riservavano ai governanti di Costantinopoli. Confrontando le diverse soluzioni di ciascuna crisi è impossibile non vedere differenze nel rapporto di dipendenza politica cui l’Impero Ottomano doveva soggiacere da un periodo all’altro. 1 Va annotato che secondo l’opinione di molti storici – per citarne uno, basti il nome del balcanologo francese Georges Castellan – le Crisi d’Oriente in verità furono ben tre durante il corso dell’Ottocento. Infatti si annovera fra queste la crisi degli anni ’30 durante la quale il tentativo secessionista di Mehemed Alì, pascià d’Egitto, nei confronti del Sultano coinvolse le maggiori Potenze europee. A queste ultime, in particolare al Regno Unito, va attribuito il merito d’aver mantenuto la terra dei Faraoni entro i confini della sovranità ottomana. 13 Il congresso di Parigi (1856), chiudendo le trattative per la fine della guerra turco-russa1, mise l’accento sul riconoscimento esplicito dell’Impero Ottomano come facente parte del concerto europeo. Ne scaturì un trattato che, affermando il principio dell’integrità ottomana, metteva quest’ultima per la prima volta de iure sotto la garanzia delle Grandi Potenze. Questo fatto veniva rafforzato da due punti centrali delle dichiarazioni finali, i quali affermavano il rispetto dell’integrità territoriale dello Stato turco aggiungendo formalmente la non ingerenza nei suoi affari interni. Inoltre il Mar Nero veniva dichiarato neutrale e per quanto riguarda gli Stretti, essi dovevano rimanere chiusi in tempo di pace alle navi belliche. Il Congresso di Berlino (15 giugno 1878), d’altro canto, asserì gli stessi principi ma solo dopo aver già prestabilito delle consistenti modifiche nei confini balcanici e non solo. Serbia, Montenegro e Romania, fino a quel momento solo formalmente vincolati dalla sovranità ottomana, riuscivano ad ottenere la piena indipendenza mentre la provincia bosniaca insieme al sancak di Novi Pazar, dopo essere stati occupati militarmente dagli austro-ungarici, anche se soltanto a titolo amministrativo, passavano per trenta anni sotto il “protettorato” di Vienna. Il rischio di avere nei propri confini una Grande Bulgaria direttamente controllata dallo zar, fu evitato soltanto al prezzo di dover cedere le province orientali di Kars e Ardahan e la Bessarabia meridionale2 alla Russia, alla quale Costantinopoli avrebbe dovuto pagare anche un’indennità di guerra. Infine, come forma di ricompensa per l’ennesima dimostrazione di tutela che l’Impero Britannico aveva dato verso gli interessi ottomani nello svolgimento dei lavori durante il Congresso, Costantinopoli cedette a Londra la 1 Doveroso ricordare che in tale conflitto presero parte anche le armate della Gran Bretagna, della Francia di Napoleone III e della Sardegna di Cavour, schierate dalla parte di Costantinopoli. 2 La Bessarabia meridionale faceva parte dei Principati uniti della Romania (denominazione dello Stato romeno antecedente al Congresso di Berlino). Per minimizzare questa perdita territoriale, in compenso, a Bucarest venne dato il territorio della Dobrugia settentrionale, fino allora facente parte della Bulgaria, a sua volta sotto sovranità ottomana. 14 sovranità sull’isola di Cipro. Tra l’altro queste cessioni territoriali, di certo non generose, oltre a segnare chiaramente una retrocessione delle posizioni ottomane nei Balcani, furono accompagnate dal riconoscimento del diritto protocollare per le Grandi Potenze (quindi Gran Bretagna, Francia, Russia, Austro-Ungheria, Italia e Germania) di intervenire nel caso che il processo delle riforme nelle province abitate dagli Armeni fosse stato ritenuto inadeguato. Il processo di cambiamento dei confini non si fermò qua. Lo smembramento del residuo territorio imperiale avanzò ulteriormente sia nell’entroterra balcanico sia nei territori africani, da tempo questi ultimi non più inchinati alla volontà governativa del Sultano. Nel 1881 la Tessaglia e una piccola parte dell’Epiro meridionale entrarono a far parte della Grecia, mentre l’occupazione della Tunisia da parte della Francia (1881) e l’impresa inglese in Egitto (1882) eliminarono anche quel margine di sovranità che il potere ottomano conservava formalmente nel continente nero (eccetto il territorio libico ancora de iure sotto Costantinopoli) . Inoltre, sebbene fosse rimasta nel seno dell’Impero, la Bulgaria, dopo che le decisioni prese a Berlino l’avevano divisa territorialmente1, nel 1885, acquisendo successiva autonomia, riuscì a far riunire due parti integranti, a nord e a sud dei Balcani. L’arricchimento territoriale che avvenne in questo modo alle spalle di una formazione statale in continua decadenza, non fece altro che acuire la sostanziale crisi morale che già da tempo pesava sulla responsabilità degli uomini di Stato ottomani. Alla classe politica ottomana si presentava un gran quesito riguardante le scelte fino ad ora fatte nell’orientamento delle alleanze internazionali. Con simili risultati politici si 1 Tagliando i fili alle speranze russe di un grande Stato bulgaro indipendente, le altre Potenze avevano deciso la divisione del territorio bulgaro in due entità: il Principato di Bulgaria, autonoma politicamente ma tributaria del sultano, e la Rumelia Orientale semi-autonoma ma con un governo cristiano approvato da Costantinopoli. Un caso a parte costituiva la Macedonia, ordinario territorio imperiale, sull’eredità della quale gli anni dopo Berlino vedranno vari irredentismi balcanici scatenarsi, prima di tutti quello bulgaro. 15 poteva ancora far affidamento sull’Europa? E poi, dietro tutte le questioni pratiche, un’importante domanda necessitava sempre più di una doverosa risposta: alla fin fine l’occidentalizzazione come condotta di civiltà era proprio la scelta migliore? Tali questioni, sollevate in primis dalla società civile e dagli intellettuali, non tardarono a proporle anche i politici più influenti. Per di più se in quei anni, con la sola area albanese-macedone ancora in possesso e la fascia libica simbolicamente ottomana, il tradizionale “Malato del Bosforo” appariva più che mai asiatico e mussulmano. Il fatto che il continuum di perdite territoriali avveniva sotto lo sguardo e per di più sotto diretta responsabilità di Londra e Parigi, faceva riflettere prima di tutti il sultano ‘Abdül Hamid II. Stavolta non era la Russia che minacciava i possedimenti imperiali ottomani, ma proprio due Stati che il regime della Sublime Porta aveva considerato il perno delle sue alleanze in generale e in chiave anti-russa in particolare. Il passato non troppo remoto1 giustificava in un certo senso le varie scelte filo-francesi e filo-inglesi ma era più che visibile che i tempi erano cambiati. Ciò che sembrava evidente all’entourage ottomana era che Francia e Gran Bretagna, desiderose di apparire come campioni dell’integrità ottomana, facevano buon viso a cattivo gioco e il prezzo da pagare per la loro protezione stava diventando troppo alto. La perdita di Cipro seguita dalle operazioni francesi e inglesi in Tunisia ed Egitto, non facevano che avvalorare questa tesi. Le interpretazioni potevano essere tante ma le soluzioni dovevano coincidere con il mantenimento dell’Impero. Negli anni dell’imperialismo colonialista l’atmosfera delle relazioni inter-statali assumeva sempre più connotati di aggressività fra le Potenze. In questi giochi di alleanze la Turchia aveva sempre e comunque potuto preservare se stessa. Ritenendosi 1 Parigi e Londra avevano giocato un ruolo fondamentale nella crisi del 1853 e nella successiva guerra di Crimea fornendo un decisivo aiuto militare alla Turchia in diretto conflitto con lo zar. 16 deficitaria rispetto ai guadagni degli alleati storici, l’inizio degli anni ’80 vede la Turchia sul “mercato” delle alleanze europee. Erano anni sicuramente non chiari per capire i vantaggi di un approccio diplomatico piuttosto che un altro. Il Vecchio Continente era in una fase storicamente transitoria dove il passato – l’equilibrio metternichiano della potenza – era stato superato dall’ouverture del II Reich. Ma azzardare un possibile accordo con qualsiasi Grande Potenza era anche una rischiosa scommessa sul futuro dato che ancora non erano chiare le alleanze possibili fra le grandi capitali europee. Questo valeva per gli Stati balcanici neoindipendenti ma valeva soprattutto per il “Malato del Bosforo” il quale non poteva certo sopravvivere senza la protezione di un “amico” potente. Costantinopoli non si fidava più di Parigi e Londra ma non poteva neanche prendere qualsiasi iniziativa liberamente, dato che, economicamente per la Francia e strategicamente per l’Inghilterra, l’Impero Ottomano era una risorsa che difficilmente avrebbero lasciato senza combattere anche contro il Sultano stesso. Hamid di certo non poteva abbandonare un’alleanza costosa ma efficace per una incerta. L’obiettivo di questa tesi è anche quello di far capire che ogni mossa ottomana in politica estera era duramente condizionata dagli sviluppi internazionali che avvenivano sulla scena europea. Come vedremo, i principali orientamenti delle più importanti capitali europee non erano molto chiari. C’era una gran confusione presso tutte le Cancellerie diplomatiche avendo queste capito che l’epoca della concordanza fra i cugini sovrani seguita alle battaglie napoleoniche era da tempo finita. Oltre ad una concertazione ereditata dal Congresso di Vienna (1815) le Grandi Potenze dell’epoca ancora non avevano ben chiarito la direzione delle loro offensive diplomatiche. Il futuro di ciascuna Potenza non era scontato e i tempi dell’antagonismo fra due alleanze continentali – 17 Triplice Intesa ed Imperi Centrali – ancora non erano venuti. Innanzitutto per Costantinopoli allearsi con un’altra Potenza, che non fosse Francia e Inghilterra, voleva dire trasferire a questa tutti i privilegi di qualsiasi tipo che Parigi e Londra già godevano. Ovviamente questi ultimi due non l’avrebbero mai permesso e nessun governo era disposto a rischiare una guerra con Inghilterra e Francia per le sorti di un Impero Ottomano che a malapena si reggeva in piedi. In tale contesto, non certo adatto per avventurismi diplomatici, Hamid mise il suo Impero in una silenziosa aspettativa muovendosi con cautela e calcoli sempre più sofisticati verso un cambiamento in politica estera che solo nei primi del Novecento diventerà dichiarato. Per il momento l’Europa tardo-bismarckiana si presentava davanti agli osservatori ottomani come un affresco non chiaro di interessi – e di conseguenti conflittualità – ancora latenti. Il Regno Unito, se da una parte era, come per tradizione imperiale, preso dagli eventi extra-europei, dall’altra non nascondeva la sua rivalità per le risorse africane con la Terza Repubblica francese. Quest’ultima era uscita dall’isolamento che la diplomazia del Cancelliere di Ferro le aveva causato durante gli anni ‘70 e riuscì a trovare un buon accordo con gli Inglesi sulla Tunisia. Ovviamente non c’era segno di alleanza; anzi Londra temeva molto l’intesa possibile fra Parigi e Pietroburgo, i cui interessi erano spesso in conflitto con quelli britannici in Asia Centrale. Naturalmente gli occhi di ‘Abdül Hamid si puntano verso Berlino, Potenza di punta della concertazione europea, ma nello schema di alleanze escogitate da Bismarck l’Impero Ottomano non risultava determinante. Il fine di Bismarck rimaneva una pace duratura per la Germania, la quale dopo l’unità era entrata nella sua fase di stabilità, dedita alla conservazione delle vittorie ottenute negli anni ’60-’70 contro Austria e Francia. L’equilibrio europeo spesso nella storia della diplomazia moderna trovava il 18 suo punto di splendore quando l’Est europeo rimaneva immune da conflitti fra Russia e Impero Asburgico. Così almeno riteneva il capo del governo tedesco, il quale prefissato lo scopo, trovò il mezzo d’attuazione nella Seconda Lega degli Imperatori (1881) fra Impero tedesco, Austria e Russia, vero atto di arbitraggio nelle controversie austrorusse1. Ovviamente c’era chi mal sopportava questo schema germano-centrico e in tutti i modi, in particolare sfruttando mezzi economico-finanziari, cercava di evitarlo. Fu il caso della Francia – la prima Lega degli Imperatori (1872) aveva come scopo il suo isolamento diplomatico – la quale cercò in primis l’espansione mediterranea e poi una possibile intesa con la Russia. Ci riuscì dopo che la tela cadde sulla scena bismarckiana (1892) e in ciò contribuì anche il fatto che nel bene o nel male gli interessi francesi e russi convergevano su Costantinopoli. In questa situazione il Sultano restava alla ricerca di un alleato mantenendo un distacco non netto – l’influenza inglese lo rendeva impossibile – con Londra. Oltretutto, pure quest’ultima si sentiva alquanto isolata. L’avvicinamento fra Parigi e Pietroburgo era un ottimo motivo per non cambiare alleanza, sebbene a proposito dell’Impero Ottomano, in questo caos di alleanze anche Londra iniziava a pensarla diversamente. Con l’avvento della Germania post-bismarckiana, la Russia non rinnovò più la Lega degli Imperatori e preferì attuare un’alleanza di più ampio raggio con la Francia. Nel 1892 le due Potenze firmarono l’Entente Cordelle mentre la Germania, già nel 1882 temendo proprio una rivalità con la Russia, aveva firmato con l’AustriaUngheria e l’Italia la Triplice Alleanza. Più tardi, dopo aver superato altri momenti di crisi internazionali (come l’incidente di Fashoda e le conflittualità sull’Africa) anche 1 Impedendo screzi e conflitti armati fra i due contendenti nei Balcani e oltre, la Lega degli Imperatori si basava sulla garanzia per gli Stretti e sulla divisione in sfere di influenza fra Russia e Austria-Ungheria dell’Europa dell’Est. Di conseguenza Vienna cercò un sistema di alleanza con la Serbia nello stesso 1881 e con la Romania nel 1883. 19 Londra entrò a far parte della Intesa Cordiale. Di tutti questi passaggi, importanti per capire molti risvolti epocali, ne parleremo in seguito, anche perché essi sono importantissimi per analizzare la condotta di Londra verso Costantinopoli e viceversa. Lo spettro della Grande Guerra, già prima della Belle Epoque, bussava alle porte del Vecchio Continente. Contestualizzata in questi sviluppi la decadente alleanza angloottomana ne subiva tutti gli influssi. 1. Il principio dell’integrità ottomana e gli interessi britannici nell’area Non si può tralasciare un fatto abbastanza chiaro per la nostra analisi: ogni passo ottomano verso la ricerca di un nuovo “protettore”, ogni tentativo di trovare “scorciatoie” diplomatiche verso tale fine, effettivamente teneva conto anche di un raffreddamento palese che proveniva dalla Cancelleria inglese dell’epoca. L’arrivo dei Liberali alla guida del governo londinese, la metamorfosi subita dal loro capo William Ewart Gladstone nei confronti del tradizionale alleato turco dopo l’evidenza dei cosiddetti “orrori bulgari”, facevano pensare a Costantinopoli che Londra stesse preparando nuovi piani d’azione riguardanti l’area ottomana. L’invasione dell’Egitto e i progetti di costruire basi militari nella zona di Suez, come nella stessa Cipro, non facevano che aumentare i dubbi dei politici hamidiani. L’elementare considerazione sulla quale per decenni Londra prefissava nel perno dei suoi obiettivi strategici la 20 protezione dell’integrità ottomana, veniva da sempre spiegata, almeno a titolo analitico, attraverso la difesa dei suoi cruciali collegamenti commerciali con il subcontinente indiano e il Golfo Persico. Fra queste perle dell’Impero Britannico e il Mediterraneo, base della flotta inglese, si estendeva l’Impero degli Osmanli; rassicurare e difendere questo Stato in perenne agitazione era per Londra la preoccupazione principale. Prima e dopo l’apertura del Canale di Suez, uno Stato forte, in grado di controllare Costantinopoli e gli Stretti - il quale di conseguenza avrebbe potuto avere il libero accesso sull’Egeo, e vie cruciali del Caucaso, passando per l’Armenia verso la Mesopotamia e il Golfo Persico - sarebbe stato una minaccia permanente sulle vie commerciali per l’India. Quest’ultima era il gioiello dell’Inghilterra, e come Disraeli affermava, la vera essenza dell’Impero. L’assicurazione dell’integrità territoriale di Costantinopoli era il mezzo più sicuro per la sua salvaguardia. La stessa equazione geografica valeva anche per i territori interni asiatici dove la paura dell’espansionismo russo verso l’India portava i governi inglesi a far affidamento su una sottospecie di protezionismo politico nei riguardi del già disintegrante Impero Ottomano. Questa forma di utilitarismo politico, divenuto il dogma per eccellenza dell’arsenale diplomatico inglese, fu usato nel 1833 contro la Russia e nel 1840 contro Mohamed Alì e Luigi Filippo. Gli stessi Francesi dopo lo adottarono e nell’entrata vittoriosa a Sebastopoli consacrarono il principio dell’integrità ottomana come uno dei fondamenti dell’equilibrio europeo avendo anch’essi molti interessi da difendere in Oriente1. Durante il secolo XIX l’idea secondo la quale l’espansionismo russo era il peggior nemico degli interessi britannici nel mondo era diventata sempre di più il luogo comune dell’opinione pubblica europea. Anche per il fatto che la Russia zarista durante 1 René Pinon, L’Europe et l’Empire Ottoman. Les aspects actuels de la Question d’Orient , Librairie Académique, Paris, 1917, pag. 43 21 la seconda metà dell’Ottocento aveva elaborato un piano di conquista, diventato consueto, con il quale sempre più dominando le steppe centrali dell’Asia, si avvicinava all’India Britannica. La “vittima” delle aggressioni russe spesso si trovava così lontana dal centro degli affari internazionali, che in pochi erano gli Occidentali i quali avevano una chiara idea di ciò che stava accadendo. Di tutte le Grandi Potenze solo il governo di Sua Maestà si preoccupava delle sorti dell’Asia centrale, anche perché le altre non avevano interessi diretti da difendere. Infatti con l’avanzamento dell’espansionismo russo nel Sud, aumentavano anche le giustificazioni teoriche del Primo Ministro russo, il principe Alessandro Gorčakov, il quale – come egli stesso affermava - spesso non sapeva che cosa attuava ed escogitava l’esercito russo1. Si ripeteva sempre davanti alla rappresentanza diplomatica inglese che gli avanzamenti territoriali verso il Pakistan non avvenivano per diretta pressione dello Zar, anche se nella fattispecie si trattava di un monarca assoluto, ma per il ruolo dominante che ricopriva l’amministrazione militare. “E’ assolutamente doveroso che in presenza di grossi concentramenti militari si trovi il modo per tenere attive le truppe… Quando inizia il sistema delle conquiste, l’appropriazione di un territorio porta ad un altro e la più grande difficoltà diventa quella di fermarsi2”. Nel 1868, dopo che l’esercito russo aveva invaso Samarcanda (nell’odierno Uzbekistan), Gorčakov disse all’ambasciatore inglese in Russia, sir Andrew Buchanan, che il suo gabinetto non solo era stato costretto all’occupazione della città ma avrebbe abbandonato in brevissimi tempi le sue postazioni là 3. All’inizio tali perifrasi diplomatiche riuscivano per il momento ad attenuare i timori abbastanza espliciti delle autorità britanniche. Ma dopo che lo stesso giochetto venne usato nel 1 Henry Kissinger, Diplomacy, New York, 1994, pag. 150 Lord Augustus Loftus (all’epoca ambasciatore britannico a Pietroburgo) Diplomatic Reminiscenses, serie II, riportato in Henry Kissinger, op.cit., pag. 151 3 Ovviamente la città rimase sotto la sovranità russa fino alla disintegrazione dell’Unione Sovietica. 2 22 1872 e 1875 per l’invasione lampo di Kiva e Kokand, due principati (khanati) a nord dell’Afganistan1, il problema del contenimento dell’avanzata russa nei confronti dei possedimenti coloniali britannici divenne inevitabilmente urgente. Questo significava che a questo temuto allargamento russo verso l’India gli Inglesi dovevano far fronte tramite il rafforzamento, o perlomeno la difesa, del più grande nemico russo nel Medio Oriente: appunto l’Impero Ottomano. Quando la poltrona di premier toccò a Benjamin Disraeli2, il primo Conte di Beaconsfield non aveva la benché minima intenzione di lasciar fare gli stessi giochetti in relazione a Costantinopoli. Spingendo i Turchi a rifiutare il Memorandum di Berlino3, egli lasciò mano libera al Sultano per la dura repressione dell’insurrezione bulgara. Però furono proprio le barbarie turche in quella occasione a far rivoltare contro l’Impero Ottomano l’opinione pubblica inglese ed a far definire immorale da parte di Gladstone la politica diplomatica del suo rivale conservatore. Tuttavia il Primo Ministro inglese non rimase solo. Dal 1815, in Europa, esisteva l’opinione generica secondo la quale il destino dell’Impero Ottomano doveva essere deciso in una soluzione concertata e non da una sola Potenza, perlomeno non dalla Russia. La reazione militare russa – seguita alle reazioni ottomane contro i Bulgari - e lo stesso Trattato di Santo Stefano, 1 Henry Kissiger, Diplomacy. cit., pag 152 Benjamin Disraeli, Primo Conte di Beaconsfield (1804 -1881). È stato Primo Ministro del Regno Unito due volte: dal 27 febbraio al 3 dicembre 1868 e dal 1874 al 1880. Di origine ebraica, si convertì alla fede anglicana. Ben presto Disraeli entrò nella vita politica nelle file dei Whigs (Liberali) per poi passare ai Conservatori a seguito di un rovescio elettorale. Tra il 1859 ed il 1867 è stato uno dei capi dell'opposizione al governo liberale in carica e nel 1868 divenne primo ministro, per cadere poco dopo a causa di una riforma elettorale che riportò al governo i liberali. Eletto nuovamente primo ministro nel 1874, si distinse per un politica estera vigorosamente imperialistica. Nel 1876 fece proclamare la regina Vittoria imperatrice delle Indie. In politica interna attuò delle misure economiche atte ad andare incontro ai ceti più disagiati ed allargò la base censoria dei cittadini con diritto di voto. Nel 1880 fu inaspettatamente sconfitto dai Liberali di William Ewart Gladstone e si ritirò 2 3 Il Memorandum di Berlino, (13 maggio del 1876), firmato dal ministro degli Esteri asburgico Andràssy, includeva una serie di riforme da attuare a favore delle popolazioni cristiane nell’Impero Ottomano. Sostenuto anche dai Russi, questo memorandum prevedeva anche delle sanzioni in caso di mancato adempimento. 23 imposto dal brillante generale Ignatiev, prospettavano la possibilità del controllo degli Stretti da parte di Pietroburgo – assolutamente inaccettabile da parte inglese per gli stessi interessi che su abbiamo indicato – e l’influenza dominante della politica russa sugli Slavi balcanici – cosa non accettabile da parte del governo austro-ungherese. Stavolta era lo Zar a trovarsi alle strette, da una parte con la minaccia inglese di guerra se le truppe russe toccavano Costantinopoli e dall’altra con la stessa minaccia da parte di Vienna se la spartizione dei Balcani non fosse avvenuta in coerenza con gli interessi austro-ungheresi nella penisola. Era chiaro che il Congresso di Berlino agendo come un ennesimo tentativo di salvaguardia dell’integrità – più politica che territoriale – dell’Impero Ottomano, per Londra sarebbe stato anche l’ultimo atto con il quale gli Inglesi creavano il retroterra diplomatico classico nella protezione dei loro interessi asiatici. Seguendo una tradizione già consolidata dai tempi di Canning, resa celebre con Palmerstone, Disraeli ancora una volta sceglieva di fare il possibile per il mantenimento in vita dell’Impero turco, rischiando con ciò anche la guerra con lo Zar. Il risultato fu evidente: sebbene la Russia avesse vinto la guerra sul campo contro la Turchia, la sua partita diplomatica fu perdente nei confronti degli Inglesi a Berlino. Il Congresso di Berlino, per esplicita volontà inglese non toccò il regime internazionale che vigeva sugli Stretti, stabilito dalle convenzioni del 1841, 1856 e del 1871. L’articolo 63 del trattato di Berlino recitava: The Treaty of Paris of March 30, 1856, as well as the Treaty of London of March 13, 1871, are maintained in all such 24 of their provisions as are not abrogated or modified by the preceding stipulations1. Tale articolo, implicitamente annullava l’articolo 24 del Trattato di Santo Stefano che modificava appunto il regime internazionale degli Stretti. La sua interpretazione, e la conseguente natura dei rapporti fra Sultano e Potenze, venne a capo di una grande divergenza fra Inghilterra e Russia. Nella riunione parlamentare del 11 luglio 1878, Lord Salisbury, segretario agli Esteri di Sua Maestà Vittoria, ed insieme a Disraeli rappresentante dell’Impero Britannico a Berlino, fece la seguente dichiarazione: Considérant que le Traité de Berlin changera une partie importante des arrangements sanctionnés par le Traité de Paris de 1856 et que l’interprétation de l’article 2 du traité de Londres peut aussi être sujette à des contestations, je déclare, de part de l’Angleterre, que les obligations de Sa Majesté britannique, concernant la clôture des Détroits, se bornent à un engagement envers le Sultan à respecter à cet égard les déterminations de Sa Majesté, conformes à l’esprit des traités existant2. 1 Great Britain, Parlamentary papers, 1878, vol. 83, 690-705 in Diplomacy in the Near and Middle East. A documentary record 1535-1914, by J.C. Hurewitz, D.Van Nostrand Company, INC, New York, 1956, vol. 1, pag. 91 2 René Pinon, L’Europe et l’Empire Ottoman, cit. pag. 84 25 L’indomani, il conte Šuvalov, omologo di Salisbury, domandò l’inserimento nel protocollo di una dichiarazione sullo stesso soggetto: Les plénipotentiaires de Russie, sans pouvoir se rendre exactement compte de la pro position de M. le second plénipotentiaire de la Grande-Bretagne, concernant la clôture des Détroits, se bornent demander, de leur côté, l’insertion au protocole de l’observation, qu’à leur avis, le principe de la clôture des Détroits est un principe européen net que les stipulations conclues à cet égard en 1841, 1856 et 1871 confirmées actuellement par le traité de Berlin, sont obligatoires de la part de toutes les puissances…non seulement vis-à-vis du Sultan, mais encore de toutes les puissances de ces transactions1. Ora, giuridicamente inteso, una semplice dichiarazione inserita in un protocollo non può avere la forza di modificare un principio – quello stabilito internazionalmente a proposito degli Stretti – consacrato da più convenzioni. Ma non dimentichiamoci che il congresso berlinese prima di costituire una fonte per la normativa internazionale, era stato il trionfo della politica estera britannica. Siccome lord Beaconsfield aveva salvato l’Impero Ottomano da un’umiliante fine, la sua volontà faceva legge a Costantinopoli. In questo senso assicurare al Sultano il diritto d’apertura o chiusura degli Stretti voleva dire donare questa esclusività alla Gran Bretagna medesima. Del resto tale implicita interpretazione venne resa chiara anche da Salisbury 1 Ivi. pag. 84 26 in persona nel 1885 – ora nella veste di premier – il quale ammise la possibilità che se eventualmente il Sultano in circostanze particolari non dovesse agire per volontà propria ma sotto pressione di un'altra Potenza, l’Inghilterra si riservava il diritto di intervenire nel Bosforo senza offrire motivazioni alle altre cancellerie1. Con l’acquisizione di Cipro l’Inghilterra otteneva anche una base militare permanente per la sua flotta nel Mediterraneo Orientale. L’impresa d’Egitto inoltre non dava nessun adito affinché non si pensasse che interessi prettamente economici non spingevano Londra a prendere in mano anche la stessa governabilità amministrativa e politica di un Paese qualora lo ritenesse giusto. Tornando quindi sui dubbi iniziali delle autorità di Costantinopoli, queste si chiedevano se il raffreddamento post-berlinese di Londra – che a volta sfociava in atti prettamente anti-turchi, come la concordia con Parigi intorno alla conquista francese della Tunisia o la stessa occupazione dell’Egitto – questo cambiamento comportamentale insomma, non fosse dovuto ad una diversa strategia, non più filo-turca quindi, per difendere i propri interessi verso i Russi. In ogni caso le scelte erano due e la paura che gli Inglesi “avessero scelto il Cairo invece di Costantinopoli” – dopo la conquista dell’Egitto - spingeva le più alte personalità vicine ad ‘Abdül Hamid II a mutare le equazioni oramai classiche dell’orientamento diplomatico turco2. Primo: l’alleanza con Londra, sebbene era stata efficace per la durata della vita dell’Impero, soprattutto dopo Berlino, si era dimostrata molto costosa. Secondo: se gli Inglesi sembravano così riluttanti, a differenza di prima, a difendere, ma anzi insistono con manifestazioni a favore di movimenti separatisti dentro l’Impero (vedi questione 1 Ivi. pag. 86 Questa è una famosa tesi lanciata negli anni ottanta del Novecento dallo storico Keith M. Willson. Per la sua importanza cruciale nell’interpretazione del raffreddamento diplomatico fra Costantinopoli e Londra torneremo a discuterla nel prossimo paragrafo. 2 27 armena), forse erano anch’essi alla ricerca di un nuovo alleato in chiave anti-russa in Asia. Restavano pur sempre dei dubbi, ma l’impressione dei Turchi era che Londra, per fermare l’espansionismo russo in Asia, adesso facesse più affidamento su un protettorato inglese in Armenia o su diretti collegamenti con gli Arabi o magari con la causa bulgara. I primi screzi pubblicamente ammessi nelle relazioni diplomatiche angloottomane si ebbero durante i due gabinetti Gladstone (1880-1885 e 1886). Senza nulla togliere alle riflessioni e alla metamorfosi della politica estera ottomana, la personalità e l’influenza decisiva che William Ewart Gladstone1 ebbe sulla diplomazia inglese sicuramente contribuirono ad aumentare il raffreddamento fra Costantinopoli e Londra. Nelle relazioni internazionali rimane sempre un po’ difficile parlare di amicizia sincera fra due Paesi. Oggi sappiamo che l’impresa d’Egitto fu preparata già nel 1875 proprio da quel governo Disraeli che tanto s’era speso sulla scena mondiale come protettore degli interessi e dell’integrità territoriale turca. Tuttavia fu proprio la politica del suo antagonista liberale a dare scacco matto ai tentativi di ripristinare la vecchia alleanza fra i due Imperi. Notoriamente attaccato alle radici della fede cristiana, Gladstone aveva già 1 William Ewart Gladstone (1809 – 1898) Primo Ministro del Regno Unito per quattro volte: dal 1868 al 1874, dal 1880 al 1885, nel 1886 e dal 1892 al 1894. E’ famosa nella storia parlamentare britannica la sua rivalità con Disraeli. Iniziò la sua vita politica nelle file dei conservatori. Nel governo conservatore di Aberdeen ricoprì la carica di cancelliere dello scacchiere riesaminando l'intero sistema dell'income tax. A causa della sua ostilità verso il coinvolgimento britannico nella guerra di Crimea, si dimise dal governo. Dopo le elezioni del 1859, Gladstone passò al partito Liberale di Palmerston che gli offrì di nuovo la direzione del cancellierato dello scacchiere. Nel 1867 conquistò la leadership del partito Liberale e nel 1868 divenne per la prima volta primo ministro. Il primo governo Gladstone avviò delle profonde riforme tra le quali la separazione tra Stato e Chiesa in Irlanda e la riforma agraria. Battuto dai Conservatori di Disraeli nelle elezioni del 1874 guidò l'opposizione sino al 1880, anno in cui, grazie ad una schiacciante vittoria elettorale, formò il suo secondo governo che fu turbato da varie crisi internazionali tra le quali la prima guerra Boera e l'uccisione di Gordon in Sudan nella guerra contro i Dervisci del Mahdi. Il tentativo di concedere una larga autonomia all'Irlanda decretò la caduta del suo terzo governo, il più breve, che durò meno di sei mesi. Dal 1 febbraio al 25 luglio del 1886. Quando nel 1892 tornò al governo ripresentò il suo progetto di autonomia irlandese e questa volta riuscì a farlo approvare dal parlamento, ma la Camera dei Lords successivamente bocciò definitivamente la sua legge. Nel 1893 si dimise da primo ministro per motivi di salute ma rimase deputato sino al 1895. 28 speso nel 1875 il suo capitale politico nel criticare la maggioranza conservatrice per aver aiutato gli Ottomani anche dopo essersi resi responsabili degli “orrori bulgari”. La spietata repressione ottomana suscitò non solo un’ondata di simpatia verso l’insurrezione bulgara da parte dell’opinione pubblica inglese ma anche una grande indignazione tale che il capo dei Liberali alla Camera dei Comuni cercò di sfruttare al massimo per i suoi fini elettorali. Sicuramente Disraeli ebbe successo nella conduzione della politica estera britannica durante la seconda Crisi d’Oriente, soprattutto per quel che riguarda il tentativo di sminuire la portata dell’influenza russa nei Balcani dopo il Trattato di Santo Stefano. Ma in un’epoca nella quale il romanticismo nazionalistico ebbe la meglio nei confronti del pragmatismo politico, il paternalismo cristiano di Gladstone riuscì a far trionfare una politica che cercava di distogliere la troppa attenzione da un impero ormai morente. Nel mezzo dei conflitti balcanici che precedettero il Congresso di Berlino, Gladstone pubblico un famosissimo pamphlet dal titolo “Bulgarian horrors and the Question of the East” (1876) nel quale la sua posizione, di certo non ortodossa rispetto all’allora consolidata tradizione della diplomazia britannica, appariva in netto contrasto con quella di Disraeli per quanto riguarda l’appoggio incondizionato di quest’ultimo verso la Turchia. Il suo zelo oratoriale è ben rispecchiabile in questi passi: Let the Turks now carry away their abuses, in the only possible manner, namely, by carrying off themselves. Their Zaptiehs and their Mudirs, their Bimbashis and Yuzbachis, their Kaimakans and their Pashas, one and all, bag and baggage, shall, I hope, clear out from the province that they have 29 desolated and profaned. This thorough riddance, this most blessed deliverance, is the only reparation we can make to those heaps and heaps of dead, the violated purity alike of matron and of maiden and of child; to the civilization which has been affronted and shamed; to the laws of God, or, if you like, of Allah; to the moral sense of mankind at large. There is not a criminal in a European jail, there is not a criminal in the South Sea Islands, whose indignation would not rise and over-boil at the recital of that which has been done, which has too late been examined, but which remains unvented, which has left behind all the foul and all the fierce passions which produced it and which may again spring up in another murderous harvest from the soil soaked and reeking with blood and in the air tainted with every imaginable deed of crime and shame. That such things should be done once is a damning disgrace to the portion of our race which did them; that the door should be left open to their ever so barely possible repetition would spread that shame over the world1. Inoltre, da tempo diverse lobbies influenti nella diplomazia britannica si erano convinte che l’entourage ottomana fosse ormai completamente incapace di difendere gli interessi inglesi nel Mediterraneo Orientale e nel Medio Oriente. L’uscita pubblica di Gladstone, a favore dei vari risorgimenti balcanici – per lo più di chiara 1 William Ewart Gladstone, Bulgarian horrors and the Question of the East, passi ripresi dal sito web www.wikipedia.org, alla voce “Gladstone”. 30 ispirazione cristiana – e contro i metodi brutali dell’esercito ottomano, non fece altro che supportare l’idea che la ricerca di un’alternativa a Costantinopoli era inevitabile. In sintesi, Gladstone trovò una via già spianata che lui, sia per convinzione sia per necessità di politica interna, contribuì a rendere semi-ufficiale1. Per il leader liberale si sarebbe rivelata una carta vincente. I suoi discorsi durante la celeberrima campagna midlothiana2 del 1880 avrebbero causato la perdita delle elezioni da parte dei Conservatori. Il raffreddamento fra Londra e Impero Ottomano ebbe la sua pietra miliare proprio in Gladstone, sebbene l’amministrazione hamidiana a Costantinopoli certo non si impegnò nel miglioramento dei rapporti. I Turchi si limitarono soltanto ad osservare che l’alleanza con gli Inglesi dava frutti solo a questi ultimi e comunque era un’alleanza costosa (vedi Cipro). Nella scelta fra il tentativo di migliorare i rapporti e il cambiamento di strategia, lo Yilldiz Saraji scelse quest’ultimo. La stessa cosa Londra già, silenziosamente, aveva iniziato a fare. Tuttavia, va spiegato già adesso, che lo strappo non avverrà mai del tutto. Il degrado dei rapporti anglo-turchi, iniziato dopo il Congresso di Berlino e culminato nelle reciproche dichiarazioni di guerra nel 1914, trovò origine nelle diffidenze di Gladstone ma ebbe le sue vere cause in ben altro. 3. Nuove tendenze nella politica estera turca: i sospetti di ‘Abdül Hamid verso Londra e il panislamismo Imponendo una diversa interpretazione delle relazioni internazionali e dei suoi rapporti con Londra, dopo l’impresa anglo-egiziana, la diplomazia hamidiana operò un tentativo di ricerca di una nuova Potenza amica. Muovendosi in acque neutrali 1 Ricordiamo che la decisione politica di intraprendere l’occupazione dell’Egitto fu presa, a discapito delle proteste ufficiali del governo turco, durante il ministero Gladstone del 1880-1885. 2 Passata alla storia come la prima vera campagna elettorale, quella midlothiana prende nome dal seggio uninominale di Edinburghshire, o diversamente Midlothian, in Scozia, dove Gladstone vinse le elezioni del 1880. Divenne famosa per una serie di discorsi concentrati nella critica della politica estera disraeliana. 31 essa cercava di non dare agio a provocazioni anti-russe, in un periodo nel quale, dopo la vittoria di Pirro a Berlino le ambizioni dello Zar verso gli Stretti iniziavano a temperarsi. La politica estera russa aveva subito notevoli cambiamenti di rotta nei decenni successivi al congresso di Berlino, il più significativo dei quali fu la definitiva rottura con l’Austria-Ungheria e la Germania. Sebbene la Lega dei Tre Imperatori fosse naufragata sugli scogli della crisi balcanica, nel giugno 1881 una nuova alleanza fra i tre imperatori fu conclusa per la durata di tre anni e rinnovata per altri tre nel 1884. Secondo la sua clausola essenziale, se una delle Potenze firmatarie, Germania, Austria e Russia, si fosse trovata coinvolta in una guerra con una quarta Potenza, salvo la Turchia, le altre due avrebbero mantenuto un’amichevole neutralità. Alessandro III infatti, dopo i vari fallimenti dei suoi predecessori durante l’Ottocento, capiva benissimo che non poteva mirare direttamente a Costantinopoli. La clausola “salvo la Turchia” intendeva proprio questo. Anche una Potenza amica, come l’Impero Asburgico, nel caso dell’Impero Ottomano, non sarebbe certo rimasto in una “amichevole neutralità” se Pietroburgo si fosse azzardato a toccare territori d’interesse esplicitamente d’interesse austriaco come i Balcani. A differenza del trattato originario fra i tre Imperi conservatori (quello del ’71) lo scopo degli altri due non era più l’antagonismo con la Francia, vero obbiettivo di Bismarck che vedeva la sicurezza della Germania nell’isolamento di Parigi. Da parte di Pietroburgo non poteva essere più così. La Francia restava l’unico possibile partner nella lunga prospettiva, oltre ad avere molto da offrire economicamente. Molte istanze politiche russe – in particolare il prudente ministro degli Esteri Nikolaj Giers - diffidavano di queste scelte, anche perché il tradizionale orientamento filotedesco della diplomazia russa era duro a morire. Ma d’altro canto i Francesi si rivelarono prontissimi a sottoscrivere i prestiti di Stato russi, oltre ad 32 investire direttamente nell’economia russa. Inoltre questo fatto non obbligava soltanto a scelte nei confronti di Parigi ma anche nei confronti di Costantinopoli dove il capitale francese superava quello inglese, ed era diventato predominante1. Il continuo finanziamento francese naturalmente richiedeva come conditio sin qua non una pacificazione – nei limiti del possibile - dei rapporti russo-turchi. Seguendo tale direzione, la scelta della normalizzazione dei rapporti fra Costantinopoli e Pietroburgo in funzione del mantenimento dello status-quo inizia ad essere vincente anche per un precisa mira espansionistica russa stavolta in direzione dell’Estremo Oriente. Si rivela quindi abbastanza chiaro il perché Hamid II vedesse più allarmato le mosse inglesi – in un periodo fra l’altro nel quale il governo londinese stava insistendo troppo per l’avvio delle riforme nelle regioni abitate dagli Armeni – di quanto facesse nei riguardi del tradizionale nemico del Nord2. In ogni caso, per quanto riguarda il Sultano, abbiamo a che fare con uno statista abbastanza prudente nel giudicare totalmente erronea una condotta autarchica nella politica estera da parte di Costantinopoli. Tale realismo portò il suo entourage ad auspicare un nuovo protettore, ovviamente nella veste di alleato, in un tempo in cui le finanze dell’Impero si reggevano soltanto grazie agli investimenti occidentali. Sebbene la Francia stesse acquisendo nettamente la superiorità economica rispetto alle altre Potenze – sostenendo a volte anche la debole politica estera ottomana -, nella sua fattispecie, il governo di Parigi rimaneva ancora debole politicamente3. Vecchio alleato a fianco degli Inglesi, il governo francese tuttavia non aveva tutte le carte in regola per potersi considerare ancora affidabile da parte turca. L’occupazione francese della Tunisia era stata sicuramente più il risultato della rivalità italo-francese in Nord Africa 1 Nicholas V. Riasanovsky, Storia della Russia, RCS Libri, Milano, 2004, pag. 448-449 Histoire de l’Empire Ottoman, cit., pag.567 3 Ivi. pag.580 2 33 che di uno scontro diretto fra Parigi e Costantinopoli. Tuttavia il fatto che investimenti finanziari - era dagli anni ’40 che la Francia era in tal senso presente in Tunisia - fossero usati come mezzo politico per diminuire ulteriormente i possedimenti dell’Impero Ottomano certo non produsse grande entusiasmo presso i Turchi. Effettivamente, dopo la conquista dell’Algeria (1830) Parigi era abbastanza restia nell’intraprendere altre avventure coloniali. Ma non volendo lasciare tutto a Roma, e avendo in tasca l’approvazione inglese – era la ricompensa per la posizione accondiscendente verso Londra nella Convenzione di Cipro1 – Parigi si decise a muoversi. Usando come pretesto alcuni movimenti delle truppe tunisine nella frontiera algerina, l’esercito francese riuscì ad occupare tutto il Paese, forzando il bey locale ad accettare la “protezione” di Parigi. Ai Turchi non rimaneva che il fait accompli, dopo che le Potenze in silenzio, Inghilterra per prima, approvarono l’azione francese2 con l’unica eccezione dell’Italia. Non si poteva neanche far affidamento sulla Germania bismarchiana la quale sebbene avesse già intuito le ambizioni britanniche, lasciò mano libera al loro colpo di mano in Egitto (1882). Tuttavia riguardo a questa seconda possibilità d’alleanza stretta la diplomazia hamidiana rimase in aspettativa. La neutralità iniziale era anche un mezzo per poter giudicare meglio un possibile rafforzamento dei contatti con Berlino, cosa che la defenestrazione di Bismarck e il successivo orientamento tedesco verso la Weltpolitik ben presto favorirà3. Preoccupazione, dall’altro canto, destavano gli sviluppi in corso presso le popolazioni arabe. Qua prendeva sempre più forma l’idea di un Califfato arabo usurpato 1 La convenzione di Cipro includeva una serie di accordi fra Costantinopoli e Londra riguardanti le riforme che il governo turco doveva fare nelle zone abitate dagli Armeni. Dopo torneremo più concretamente su questa tematica. 2 Stanford j. Shaw – Ezel Kural Shaw, History of Ottoman Empire and Modern Turkey, vol. II, Cambridge University Press, London, 1977, pag. 192 3 Histoire de l’Empire Ottoman (sous le direction de Robert Mantran), cit. pag. 568 34 dal potere politico ottomano. Questo fatto, che preludeva all’infuocarsi di un vero e proprio nazionalismo arabo, e ovviamente inaspriva ancora di più i rapporti fra Londra e Costantinopoli. Era inevitabile che anche in questo caso ‘Abdül Hamid vedesse la mano degli Inglesi, per di più se le idee sopracitate erano sostenute dai più noti giornali britannici. Difese in principio dai cristiani maroniti con sede in Libano, le premesse del nazionalismo arabo divennero sempre più conosciute a Londra soprattutto dopo la pubblicazione nel 1881 del libro The future of Islam di Wilfrid Scaven Bluht, poeta e agente britannico1. Uno scopo chiaramente più insurrezionale aveva il “Comitato arabo della Turchia” con sede a Parigi. Fondato da Negib Azoury bey il comitato aveva firmato il “Manifeste aux nations éclairéès et humanitaires de l’Europe et de l’Amérique du Nord” invitando nel suo programma militari e in generale soggetti arabi, soggiogati dal regime del Sultano, a ribellarsi, proclamando la loro volontà indipendentistica di istaurare un’amministrazione araba in luogo di quella ottomana. Ovviamente alla figura del Turco oppressore anche in questo caso veniva contrapposta la gloriosa reminiscenza storica dei Califfati Ommiadi e Abassidi2. In effetti, mai del tutto gli Arabi si erano inchinati all’occupazione ottomana. Sebbene territorialmente la penisola arabica appartenesse ufficialmente alla giurisdizione del padiscià, l’indipendenza delle tribù nomadi era presso che indiscussa. Il sultano ‘Abdül Hamid come i suoi predecessori, ereditava il titolo di Califfo – anche se di certo Costantinopoli non fungeva da Roma dei Mussulmani sparsi nel mondo – ma il suo compito spirituale diventava difficile per il fatto che il suo sangue non era arabo e la parentela col Profeta era inesistente. Nei trent’anni che precedettero l’impresa britannica in Egitto con l’azione politica, prima ancora che con la forza, sia per effetto 1 2 Ivi. pag.575 René Pinon, L’Europe et l’Empire Ottoman, cit. pagg. 380-381 35 delle divergenze fra i notabili locali, sia come conseguenza delle dissidenze religiose, i valì di Costantinopoli erano riusciti nell’intento di porre a capo delle principali agglomerazioni arabe delle personalità devote al potere ottomano. Soldi ed intrighi della capitale turca, oltre a corteggiare il Gran Sceriffo della Mecca, avevano fatto sì che il dispiegamento militare ottomano in Arabia fosse imponente. Il 7° Corpo d’Armata turco venne stazionato a Sanaa, nello Yemen. Inoltre, tale penetrazione turca divenne maggiore al crescere delle continue perdite territoriali che l’Impero subiva in Europa. In tal modo, ‘Abdül Hamid non fece che ufficializzare la scelta asiatica a discapito di quella europea. Non fu in ogni caso un’operazione facile. Malgrado le importazioni delle politiche hamidiane le rivolte anti-turche abbondavano nella penisola arabica. Più che l’influenza inglese, a causarle erano soprattutto le spinte centrifughe dei capiclan locali. Nel 1884 l’emiro di Nedjed, Ibn- Esseud aveva intrapreso la ricostruzione del vecchio impero wahabita. Nel 1904 sconfisse l’emiro rivale dello Chammar, Abdel-Aziz-ibnRascid, il quale aveva messo la sua personale influenza a servizio della supremazia ottomana. In seguito, alleandosi con Muberek, sultano del Kuwait – quest’ultimo sostenuto dagli Inglesi aveva già fatto riconoscere la propria indipendenza – Ibn-Esseud riuscirà progressivamente a riunire intorno a sé le principali tribù dell’Arabia centrale e ad espandere la propria influenza fino ai nomadi del deserto siriano e alla Mesopotamia. Sebbene si cercasse di reagire militarmente a questa volontà esplicita di secessionismo arabo la politica del bastone funzionò ben poco con gli Arabi. Il comandante del 6° Corpo d’Armata stanziato a Baghdad, Feizi pascià marciò contro gli insorti (estate 1904) ma, oltre a subire una clamorosa sconfitta, la sua azione da gendarme non fece 36 che aggravare la situazione. Infatti un’altra rivolta, stavolta nello Yemen subentrò poco dopo1. In tale contesto, una politica più accomodante e diplomatica verso le popolazioni arabe divenne la priorità degli orientamenti ottomani nel Medio Oriente. Volendo conquistare la simpatia almeno dei sudditi di bassa estrazione sociale, il Califfo di Costantinopoli iniziò ad usare la carota al posto del bastone. Di lì a poco, la voce della spesa pubblica che veniva pianificata per soddisfare le richieste della popolazione araba, ben presto soppiantò i grandi finanziamenti che il governo stava già facendo in Anatolia. Tra il 1882 e il 1908 furono costruite due ferrovie, delle quali la prima riguardava la rete interna anatolica (lunga 1850 km) e la seconda abbracciava una gran parte del mondo arabo estendendosi dalla Siria all’Hegiaz (lunga 2.350 km). La seconda ferrovia, che collegava Damasco con la Mecca e Medina riguardava il 47% delle costruzioni ferroviari imperiali, contro il 37% della ferrovia anatolica. Sebbene lo scopo riconosciuto fosse di facilitare il pellegrinaggio delle masse islamiche verso le città sante, l’intenzione reale era di semplificare le mobilitazione delle truppe in caso di eventuali rivolte. Ma la ferrovia costituiva anche un motivo d’orgoglio essendo la più grande opera pubblica costruita esclusivamente senza finanziamenti occidentali. Inoltre la sua costruzione avveniva in un epoca in cui le grandi riforme istituzionali stavano facendo avvicinare sempre più alcune personalità arabe nella leadership della capitale. Ciò riguardava religiosi influenti vicini al Sultano, ministri (come il maronita libanese Selim Melhame pascià) e il reclutamento di più ufficiali di provenienza araba2. 1 René Pinon, L’Europe et l’Empire Ottoman. Les aspects actuels de la question d’orient, cit. 2 Ivi. pag. 576 pag 378 37 4. L’invasione britannica dell’Egitto 4. 1. Genesi e svolta dell’impresa egiziana L’occupazione dell’Egitto da parte della Gran Bretagna dal 1882 al 1922 trova spiegazione in motivi di sicurezza nazionale, imperiale e prestigio internazionale da parte di Londra. La salvaguardia di una via d’accesso che rendesse più facile il collegamento fra il Mediterraneo e il Mar Rosso costituiva una costante preoccupazione degli affari inglesi in India. Varie questioni di politica interna ed estera rendevano la questione egiziana il fiore all’occhiello della diplomazia vittoriana. Fino al momento dell’invasione l’attenzione di Londra era rivolta verso la sola questione della Compagnia del Canale1. Nel novembre 1875, come abbiamo già detto in precedenza, fu Disraeli stesso ad indicare alla regina Vittoria che “the Canal should belong to England”, ritenendo la somma di 4.000.000 di sterline più che adeguata per la sua acquisizione2. Fu lui stesso, come capo del governo inglese, ad acquistare quindi da Ismail pascià i 9/20 delle azioni del Canale di Suez rendendosi pioniere della penetrazione britannica in Africa settentrionale ed orientale. 1 Il canale tutt’oggi permette il trasporto su acqua dall'Europa all'Asia, senza circumnavigare l'Africa. Prima della costruzione del canale, alcuni trasporti venivano effettuati scaricando le navi e trasportando le merci via terra dal Mediterraneo al Mar Rosso (o viceversa), dove venivano reimbarcate. Già nel 1504 alcuni mercanti veneziani proposero ai sultani mamelucchi regnanti in Egitto di collegare il Mar Rosso con il Mediterraneo tagliando il canale di Suez. E di questa possibilità si parlò, in ambiente ottomano, per tutto il corso del Cinquecento, in particolar modo nel 1568 con il gran visir Mehmed pascià. Venne infine costruito tra il 1859 e il 1869 da una compagnia francese (Compagnie Universelle du Canal Maritime de Suez) diretta da Ferdinand de Lesseps, mentre il progetto fu realizzato da Luigi Negrelli, un ingegnere trentino. Il canale era di proprietà del governo egiziano e della Francia. La prima nave lo attraversò il 17 febbraio 1867. Si stima che un milione e mezzo di egiziani lavorarono al canale, e che 125.000 di essi morirono, principalmente a causa del colera. Il canale ebbe un effetto immediato e fondamentale sui commerci mondiali e giocò un ruolo importante nell'aumentare la penetrazione europea in Africa. Il debito estero costrinse l'Egitto a vendere la sua quota di partecipazione nel canale al Regno Unito mentre la Francia già partecipava in qualità di prima nazione ad aver investito nella sua costruzione. 2 David Steele, Britain and Egypt 1882-1914: the conteinment of Islamic Nationalism in Imperialism and Nationalism in the Middle East. The anglo-egyptian experience 1882-1982 (edited by Keith m. Wilson), Mansell Publishing Limited, London, 1983 pag I 38 Tuttavia l’acquisizione non supponeva il controllo assoluto del Canale, anche perché le azioni controllate dai Inglesi (il 44% del totale) non avrebbero avuto diritto di voto fino al 18951. I malintesi con Parigi dal altro canto erano tanti, e a Londra, ogni azione francese che riguardava la direzione della Compagnia del Canale, veniva vista con sospetto. In fondo, in Francia, ai vertici del potere, non si era mai rinunciato all’idea napoleonica di invadere l’Egitto. Però, a torto o a ragione, l’acquisizione di Disraeli, oltre ad impegnare le finanze britanniche in una ulteriore impresa coloniale, si dimostrò anche un investimento particolarmente fruttuoso per il denaro pubblico. Soltanto fra il 1875 e il 1895 il governo di Sua Maestà ricevette dal Canale più di 200.000 sterline all’anno2. L’antagonismo fra le due Potenze liberali sul suolo africano non può venir compreso senza tener conto tali interessi in crescita e soprattutto gli antecedenti concernenti la perenne ricerca di bilanciamento di forze fra esse in Europa e Medio Oriente. Nel 1829-1830, Francia e Inghilterra avevano potuto trovare un accordo sul futuro della Grecia e del Belgio. Un po’ più difficile ma riuscito fu il consenso sulla Turchia e i suoi possedimenti europei dopo la Guerra di Crimea (1854-1856). Su questa scia, ciò che avvenne in Africa negli anni ’80 era un semplice continuum della diplomazia europea con l’importante eccezione che né Austria né Russia nutrivano ambizioni nel sud del Mediterraneo. Il tacito consenso inglese all’invasione di Tunisi da parte della Francia costituiva una mera sub-clausola di generici accordi ricercati nel momento in cui si discuteva il futuro dei Balcani. Lord Salisbury, come Segretario degli Affari Esteri nel biennio 1878-1880 aveva reso possibile l’istituzionalizzazione del controllo anglo-francese sulle finanze 1 Niall Ferguson, Empire: how Britain made the modern world, Penguin Books, London, 2004 2 Ivi. pag 232 pag. 231 39 dell’Egitto, onerate al massimo dall’indebitamento che il regime dei Khedivé1 aveva con le banche occidentali. Nello stesso tempo, per impulso francese le finanze egiziane venivano riorganizzate sotto il controllo diretto di una commissione multinazionale, nella quale Inghilterra, Francia ed Italia avevano pari rappresentanza. Ad un’azione di controllo seguì l’altra. Già nel 1876 l’istituzionalizzazione della Banca internazionale per il Debito Pubblico creò le premesse per direttive politiche oltre che economiche. Due anni più tardi, Parigi e Londra obbligarono l'Egitto a nominare due loro esperti alla guida dei dicasteri delle Finanze e dei Lavori Pubblici. Nel 1881 infine, sfruttando l'estrema debolezza del dominio turco e giustificando il proprio operato con la necessità di proteggere gli investimenti europei nella zona del Canale di Suez, il Regno Unito e la Francia crearono le condizioni per la sostituzione del Khedivé Ismail con il più accondiscendente Tewfik2. La situazione tuttavia non si tranquillizzò, anche perché, verso la fine del 1879, prese piede una rivolta antieuropea guidata da un militare fanatico di nome Arabi pascià. Per circa tre anni tale rivolta riguardò soltanto i centri periferici del Paese. Ma quando verso la fine del 1881 la capitale stessa parve minacciata, senza comunicare attraverso i canali formali con il Sultano, i governi di Parigi e Londra mandarono una Nota al loro beniamino al Cairo, sottolineando la disponibilità ad intervenire in caso gli interessi anglo-francesi fossero stati toccati3. Le proteste della Porta, seguite qualche giorno dopo, nel gennaio del 1882, servirono a ben poco. Costantinopoli, oltreché aiutare indirettamente il golpe militare di Arabi Pascià, aveva ben poco in mano. Anche 1 Il regime khediviale (letteralmente “vicereale”) fu la forma governativa istaurata in Egitto durante l’epoca di Mehmed Alì pascià, formalmente ossequente nei confronti della Sublime Porta, ma sostanzialmente del tutto autonoma. I viceré derivavano tutti dalla famiglia di Mehmed Alì, il primo Khedivè de facto perché tale titolo fu riconosciuto dal sultano soltanto quando il trono egiziano venne governato dal nipote Ismail pascià. 2 Daniel Steele, Britain and Egypt, cit. pag 5 3 Great Britain, Parlamentary papers, 1882, vol.82, pag. 6-7, 148-149, 182, in Diplomacy in the Near and Middle East. A documentary record 1535-1914 by J.C. Hurewitz, cit., pagg. 195-196 40 se le due Potenze si guardavano bene dall’intraprendere azioni unilaterali in Egitto – una circolare del Foreign Office del febbraio 1882 istruiva i suoi rappresentanti a Vienna, Berlino e Roma proprio sull’insistenza a mantenere lo status-quo ottomano1 – il rischio di anarchia appariva il più imminente pericolo da scongiurare. Nella prima metà del 1882 i nazionalisti stavano diventando sempre più minacciosi verso le postazioni anglo-francesi ad Alessandria e la posizione di Tewfiq sembrava sull’orlo del precipizio. Sebbene nel maggio dello stesso anno truppe di Parigi e Londra pattugliassero la costa egiziana, l’11 giugno disordini antieuropei esplosero nella città, già centro della civiltà ellenistica, facendo temere per la vita di tutti i 37.000 Europei residenti in Egitto. Durante gli anni dell’opposizione, Gladstone s’era mostrato duramente contrario all’ideologia imperialistica dei conservatori. Aveva criticato le guerre anglo-afgane e demagogicamente, ben più di una volta, aveva dichiarato erronea l’acquisizione delle azioni per il controllo del Canale voluto da Disraeli. Ma tornato al governo, alla metà del 1880, il suo governo liberale attuò uno delle più grandi inversioni di marcia della diplomazia vittoriana2. Dopo essere rimasto incerto fra l’azione congiunta con la Francia e la piena internazionalizzazione del Canale, il capo dei Whigs mise in disparte l’ultima scelta a favore della prima. Tante ragioni e troppi interessi andavano ben oltre le promesse elettorali pacifistiche. Il ruolo di gendarme venne svolto però dalla sola Royal Army, la quale senza esitare agì unilateralmente nel luglio del 1882 approfittando di una crisi politica in Francia, che durante tutto l’anno paralizzò la sua politica estera3. Spinto dai “falchi” del suo Gabinetto e avuta assicurazione dai Rothschild che la 1 Ibidem. Niall Ferguson, op. cit. pag. 233 3 Il riferimento è ai fatti legati al fallimento della società bancaria “Union générale” (gennaio 1882), il primo grande crac della storia finanziaria francese, al quale, oltre una grande instabilità politica e parlamentare, segui la crisi delle borse di Lione e Parigi. 2 41 Francia non si sarebbe opposta – loro stessi avevano finanziato Disraeli per l’acquisizione delle azioni sul Canale – il 31 di luglio Gladstone dette ordine d’attacco contro Arabi Pascià. L’entrata delle navi inglesi nel porto di Alessandria venne seguita dalla fanteria del gen. sir Garnet Wolseley. Il 13 settembre, nello spazio di mezz’ora i tre squadroni della Household Cavalry portarono a sorpresa l’assalto distruggendo più della metà delle truppe di Arabi a Tel-el-Kebir. Il giorno dopo l’occupazione si estese al Cairo; il leader della rivolta fu imprigionato e inviato in esilio a Ceylon1. Dal momento che la possibilità di un conflitto fra Francia e Inghilterra si dimostrò inesistente, dopo l’astensione fiacca di Parigi, Londra organizzò subito le cerimonie per formalizzare il fait accompli. La prima conferenza sulla pace, organizzata a Costantinopoli, fallì nel suo tentativo di produrre una formula condivisa. In quella specifica occasione la performance diplomatica degli Ottomani fu veramente pessima. Una ragione in più affinché la Gran Bretagna continuasse il suo permanente controllo dell’Egitto. Ciò venne reso chiaro anche dalle azioni circostanti del Foreign Office. Il mantenimento dell’autorità politica britannica al Cairo, almeno per la durata dell’occupazione, fu l’idea chiara delle istruzioni circolari che il Segretario agli Esteri di Gladstone, lord Granville mandò ai rappresentanti diplomatici inglesi nelle capitali europee. In essa, oltre a prescrivere le ragioni per le quali Londra riteneva giusto l’intervento armato in Egitto (The course of events has thrown upon Her Majesty’s Government the task, which they would willingly have shared with other Powers, of suppressing the military rebellion in Egypt, and restore peace in that country…British force remains in Egypt for the preservation of public tranquillity2), il capo della diplomazia inglese rendeva chiare le misure che il suo governo avrebbe attuato 1 Niall Ferguson, op. cit. pag 233 Great Britain, Parlamentary papers, 1883, vol. 83, pag. 38-40 in Diplomacy in the Near and Middle… cit. pagg. 197-199 2 42 nell’amministrazione interna egiziana. In queste rientravano, oltre alla maggiore accessibilità degli Occidentali in posti pubblici, la soppressione della schiavitù e l’idea dello sviluppo politico in senso liberale delle istituzioni egiziane. Insomma, senza lasciar adito a dubbi, chiaramente Londra esprimeva lo scopo di radicarsi bene nella governabilità politica del Paese. Del resto niente di nuovo vi era se guardiamo ai precedenti diplomatici. Già nell’ottobre 1879, in una lettera mandata ad Edward Malet, emissario e console generale di Sua Maestà in Egitto, Salisbury, in qualità di capo della Foreign Office sotto Disraeli spiegava il senso delle azioni britanniche nel Nord Africa. Cercando di giustificare ogni azione preventiva britannica continuava a considerare le implicazioni britanniche nel Paese come non sovvertitrici del vigente regime politico. : The leading aim of our policy in Egypt is the maintenance of the neutrality of that country, that is to say, the maintenance of such a state of things that no great Power shall be more powerful there than England…Egypt is too much in view of the whole world and there are too many interests attaching to it… An opinion would grow up in Europe in favour of intervention, which, in this case would mean occupation; and if England could not satisfy it, she would not be able to prevent some other Power from doing so. They enable us to exercise a general control without taking over the government. In the Oriental countries, where Embassies are powerful, the native competitors for place are very ready to enrol themselves as 43 clients of one Power or the other. But their friendship is not trustworthy1. Tuttavia, senza farsi scudo di qualsiasi promessa diplomatica, Salisbury avvertiva: It should further be born in mind that if the Ottoman Empire were to fall to pieces, and Egypt become independent, the part of Egypt which interests England is the sea-coast, including the railway and the other communications across the Isthmus. If it should happen that Egypt were divided and the sea-coast and communications remained under the dominant influence of England…England would have no reason to be dissatisfied with it2. Dopo aver ordinato l’inizio delle operazioni che avrebbero preceduto l’instaurazione del regime coloniale inglese nel Cairo, Gladstone, a sua volta, avrebbe spiegato a più parti che la sua intenzione non era quella di occupare del tutto l’Egitto, non avendo altresì fra i suoi piani l’accelerazione della disgregazione ottomana. Infatti il governo liberale britannico fece il possibile per dare un’immagine più accettabile ai Turchi della sua impresa egiziana. Il prestigio internazionale di ‘Abdül Hamid, a pochi anni da Berlino, aveva subito un duro colpo. I tentativi di accordarsi col Sultano per una souzerainité turca sull’Egitto, ormai totalmente in mano inglese, furono fatti per 1 Great Britain, Pubblic Record Office F.O. 78/2997 in Diplomacy in the Near and Middle East , ( a cura di J.C. Hurewitz) cit. pag. 191 2 Ivi. pag. 193 44 neutralizzare qualsiasi voglia disperata di rivincita da parte di Costantinopoli. Il riconoscimento della speciale posizione inglese, sancito dalla Convenzione di Costantinopoli (1885), fu troppo blando; non per niente il Sultano vedeva l’occupazione militare di una parte integrante del suo impero come un’azione inaccettabile. In quella sede alle posizioni intransigenti di Hamid non furono estranee la manifestazione di sostegno che Russia e Francia – in procinto di allearsi su diversi scenari internazionali - fecero alla Turchia. La ricerca di un precedente politico al quale si potesse ispirare il regime inglese in Egitto non dette in ogni caso risultati. Finché la presenza londinese avesse continuato a costituire un anomalia, almeno comparandola agli altri regimi coloniali, la posizione internazionale del Sultano avrebbe tratto il massimo del vantaggio. Salisbury ebbe in seguito successo lì dove Gladstone fallì, riuscendo ad adeguare la posizione ufficiale di Costantinopoli alla piena volontà britannica1. L’ex-ministro di Disraeli, ritornato al governo alla metà del 1885 istruì il suo emissario a Costantinopoli Wolff perché accettasse i termini di una evacuazione britannica ma senza fissare limiti di tempo. Il Sultano dovette accontentarsi di un condominuum anglo-turco, per il quale Inghilterra e Turchia avrebbero mandato due rispettivi Alti Commissari presso il Khedivé. Segui un’altra Convenzione di Costantinopoli (1887), stavolta senza l’intromissione delle altre Potenze, e una terza ancora, l’anno dopo, sulla libera navigazione attraverso il Canale di Suez. Con qualche premessa in più e con delle rigorosissime precauzioni per il passaggio delle navi belliche nel Canale2, la convenzione del 1888 cercò di dare l’assicurazione al Sultano che Suez non sarebbe 1 Ivi. pag 6 2 Per esempio, che una nave da guerra che passasse il Canale non doveva partecipare a nessun atto bellico se non a tre miglia dall’uscita e dall’entrata di Suez; così pure due battelli nemici non potevano passare il Canale se non a una distanza temporale di ventiquattro ore. 45 stato una minaccia alla sicurezza turca1. Lo status giuridico dell’Egitto in seno all’Impero Britannico in realtà non fu mai chiarito fino alla sua indipendenza formale, proclamata nel 1922. Già nella sopracitata Convenzione del 1887 la chiarezza terminologica non era parte degli accordi fra Costantinopoli e Londra. L’art. V è fondamentale per capire tale punto. La durata temporale della permanenza britannica in Egitto veniva allungata a tre anni, estensibile se l’ordine pubblico in Egitto fosse messo in pericolo da cause solo genericamente menzionate. Con tali indicazioni, il trovare un alibi per il prolungamento della sua posizione militare al Cairo diventava un gioco da ragazzi per Londra. I trent’anni della sua occupazione, durante i quali Londra indicherà la sua colonia semplicemente come un possedimento della Corona, dimostreranno l’estrema facilità con cui l’Inghilterra usò tali escamotage. Ed è proprio a partire dall’esempio inglese in Egitto che nella lingua diplomatica moderna nacque la categoria dei “protettorati velati”. 4. 2. Conseguenze e strategie: Costantinopoli o il Cairo?2 Il passaggio di potere fra Gladstone e Salisbury venne dibattuto nella storiografia britannica degli anni ’80 come il cambiamento di rotta dell’attenzione britannica verso gli affari medio-orientali. In generale, la considerazione che i rapporti tesi fra Hamid e 1 René Pinon, L’Europe et l’Empire Ottoman. Les aspects actuels de la Question d’Orient, pag. 98 2 Questo paragrafo, cercando di analizzare le conseguenze dell’impresa egiziana, prende spunto da una famosa tesi, elaborato a metà degli anni ’80, dallo storico inglese Keith M. Wilson. E’ importante dire che il materiale in questione – il titolo completo è Costantinople or Cairo: Lord Salisbury and the partition of the Ottoman Empire – include una ipotesi storica che molti ottomanisti diverse volte l’hanno messa in dubbio. E’ un ipotesi, perché il tentativo di sostituire la posizione di Costantinopoli nella strategia inglese di difesa con quella del Cairo non avvenne mai e questo lo ammette anche lo stesso Wilson. Però tale saggio si riserva il diritto di ammettere la possibilità che un piano, rassomigliante almeno, c’era nelle intenzioni di Salisbury. Rimane in ogni caso una supposizione che parte da diversi documenti dell’epoca, sebbene molti altri storici (fra i quali Mantran e Georgeon) citano il quesito (Costantinopoli o Cairo?) più come un tormentoso dubbio di Hamid che una reale iniziativa da parte di Londra. Per questi studiosi, la possibilità di rimanere da soli nei confronti di Pietroburgo angosciava da tempo la mente del Sultano, a partire anche dal fatto che ancora egli non aveva trovato un alleato per poter sostituire Londra. In questo senso, ai fini di estendere la tesi anche a delle ipotesi non totalmente condivise, ci siamo ritenuti in dovere di dedicare una completa descrizione al saggio di Wilson. 46 Gladstone contribuirono ad accelerare il raffreddamento fra le due diplomazie, è precedente all’evidenza storica che vede in Salisbury1 l’architetto della sostituzione strategica di Costantinopoli con il Cairo. Spieghiamoci meglio! Sembrerebbe, proprio sulla base dei fatti, che Londra inizia a perdere l’interesse sugli Stretti proprio quando proporzionalmente si rafforza la sua posizione in Egitto. L’assunto che la Turchia sia l’unica salvaguardia degli interessi britannici contro l’influenza russa nei Dardanelli e nel Caucaso, inizia così a barcollare alla fine degli anni ’80. Certo il predecessore liberale di Salisbury non aveva fatto poco per acuire i rapporti con il Malato del Bosforo. Dall’altra parte però fu la nuova diplomazia inaugurata dal capo dei Conservatori successore di Disraeli che cercò di impostare una dottrina di politica estera praticando ciò che prima era solo propaganda elettorale. Il vero obiettivo di Salisbury diventa quello di sostituire l’importanza strategica di Costantinopoli rivalutando la posizione del Cairo a difesa degli interessi commerciali inglesi. Se e quanto ci potesse riuscire era in ogni caso da verificare. Pare che tutte le considerazioni al riguardo abbiano inizio da una riunione della Direction of Naval and Military Intelligence britannica la quale nel 1892 fa sapere al premier Salisbury l’eccezionale crescita in qualità e quantità della flotta russa nel Mar 1 Robert Arthur Talbot Gascoyne-Cecil, Terzo Marchese di Salisbury (1830 - 1903) Ha fatto parte del Partito Conservatore. Fu Primo Ministro del Regno Unito tre volte: dal 1885 al 1886, dal 1886 al 1892 e dal 1895 al 1902. Divenne il più radicale teorico del conservatorismo dei tories sostenendo con gli scritti e con la parola, nel Parlamento e sulla stampa, la legittimità e la funzione politica dei privilegi delle classi ricche. Eletto ai Comuni nel 1853, prese posizione contro la riforma elettorale proposta da sir John Russell provocandone la caduta nel 1867; l'anno dopo, ministro con Benjamin Disraeli, rassegnò le dimissioni quando questi ritenne opportuno ripresentare la legge. Nel 1868 nella Camera Alta prese posizione tra gli oppositori di William Ewart Gladstone. Tornato al potere con Disraeli nel 1874 ne assecondò, come ministro per l'India, la politica imperiale condividendo gli allori del premier nel Congresso di Berlino. Durante il periodo dal 1895 al 1902 che interessò la guerra boera, seppe fronteggiare con abilità i riflessi psicologici e politici sfavorevoli alla Gran Bretagna. 47 Nero. L’incapacità della flotta del Regno Unito di prevenire ed eventualmente contrattaccare un coup de main russo su Costantinopoli viene in questo occasione direttamente ammessa. La possibilità di una tale ipotesi sta alla base del memorandum del giugno 1892 dove Salisbury in persona scrive: The protection of Constantinople from Russian conquest has been the turning point of the policy of Great Britain for at least forty years, and to a certain extent for forty years before that. It has been constantly assumed, both in England and abroad, that this protection of Constantinople was the special interest of Great Britain. It is our principal, if not our only, interest in the Mediterranean sea, for if Russia were mistress of Constantinople, and of the influence which Constantinople has in the Levant, the route to India through the Suez Canal would be so much exposed as not to be available except in times of the profoundest peace. There is no need to dwell on the effect which the Russian possession of Constantinople would have upon the Oriental mind, and upon our position in India, which is so largely dependent on prestige…the matter of present importance is its effect on the Mediterranean; and I cannot see, if Constantinople were no longer defensible, that any other interest in the Mediterranean is left to effendi…There is nothing 48 (except Constantinople) in the Mediterranean worth the maintenance of so large and costly a force1 Sinteticamente descritta la tesi di Wilson analizza l’opinione di Salisbury intorno alla presenza britannica nel Mediterraneo. Per il premier il controllo da parte di Londra di questo mare era un dato di fatto. Era inutile quindi lasciar sperperare tanta forza bellica e non concentrarla lì dove gli interessi britannici sarebbero stati – nell’immaginario di Salisbury – ben presto messe a rischio, ovvero nel Bosforo. Tuttavia, ritenendo che era anche probabile una débacle nei confronti di Pietroburgo, nella mente del leader conservatore, sempre più prendeva piede l’idea di sostituire questo punto non troppo sicuro. Sostenuti dai Francesi, diretti concorrenti economici di Londra in Turchia, i Russi potevano anche semplicemente egemonizzare la vita politica turca rendendo vani tutti i tentativi strategici attuati dai governi inglesi precedenti. Proprio a causa di tale rischio Salisbury iniziò a teorizzare l’evacuazione dalle posizioni ottomane prima che il temibile diventasse reale. Non da subito però. Lasciata da parte dopo la caduta dei Conservatori in quello stesso anno (1892), la strategia riformatrice che il memorandum sopracitato comportava, ritornò in voga quando il partito di Salisbury riprese il potere nel luglio del 1895. La sua logica in fondo era semplice. La paura di non poter controbattere i Russi per giunta alleati ora militarmente con i Francesi - nel Bosforo spingeva le teste d’uovo di Londra verso nuove alternative. Nella sua posizione geografica l’Egitto veniva valutato come una strada ancora più breve verso l’India, in quanto faceva assicurare il controllo sul Canale di Suez, e nel caso quest’ultimo fosse rimasto chiuso, contatti più 1 Keith M. Wilson, Costantinople or Cairo: Lord Salisbury and the partition of the Ottoman Empire in Imperialism and Nationalism in the Middle-East… cit. pag. 27 49 vantaggiosi con l’entroterra arabica. Rimaneva inoltre anche la finestra d’accesso, attraverso il Nilo, ai domini britannici dall’Uganda in giù da dove Londra poteva strategicamente controllare tutto l’Oceano Indiano. La sicurezza dell’Egitto tuttavia dipendeva dal mantenimento della supremazia navale britannica nel Mediterraneo, e con una Russia in piena “esplosione” nel Mar Nero, essa non era più sicura a lungo andare. Oltre ciò, le considerazioni seguivano l’una l’altra. Se il corso del tempo avesse sempre più confermato il rischio di una presenza russa in Asia Minore, se la Francia rafforzava l’alleanza con Pietroburgo, magari sostituendo il Sultano in Siria, l’unico modo che aveva l’Inghilterra per mantenere il suo dominio in India, concludeva la Naval Intelligence, sarebbe stato quello di una veloce occupazione completa dell’Egitto costruendo una nuova base militare ad Alessandria – aggiungendola a quelle di Malta, Gibilterra e Cipro1. In questo caso la serie di “se”, più che ipotesi immaginabili, rifletteva una piena certezza delle Forze Militari della Corona Britannica. Ecco perché il Cairo era e doveva essere la nuova linea della politica estera e di sicurezza britannica nel futuro. Se ne fece ben poco però! In atto vi era anche una contrapposizione ardua fra i vertici della Marina e una parte dell’establishment politico al quale faceva da pendant il Primo Ministro in persona. Sebbene temessero la crescita militare russa, i Capi di Stato Maggiore non erano convinti assertori di una politica preventiva che abbandonasse senza battere chiodo le mura di Costantinopoli. Effettivamente, piani del genere non vennero mai presi in considerazione dai militari britannici. Nell’immediato quindi, il Comitato della Difesa consigliò arduamente il rafforzamento delle posizioni navali britanniche intorno ai Dardanelli proprio per evitare l’uscita russa da quello che gli Inglesi da sempre consideravano il grande lago russo (il Mar Nero). Loro ancora 1 Keith M. Wilson op. cit. pag 30 50 consideravano l’Egitto una seconda scelta e, per l’interesse delle rotte commerciali inglesi verso l’India, al massimo un “second best”. Solo in caso di ulteriori fallimenti strategici nella difesa di Costantinopoli l’apparato della marina britannica nel Mediterraneo si sarebbe dimostrato determinato ad attuare una permanente – e più formalizzata - occupazione dell’Egitto. Nessun passo seriamente impegnativo di conseguenza venne fatto affinché realmente l’Egitto diventasse il faro degli interessi orientali di Londra. Alessandria e la sua tanto pianificata base militare non ricevette una sterlina, e nel 1901 il Military Intelligence Department informò il Gabinetto che nel caso di un possibile impegno bellico dell’Impero, l’Egitto sarebbe rimasto fuori. L’armata egiziana includeva solo 13.000 uomini e in fondo la loro fedeltà non era indubbia. Un po’ pochi del resto per un rischio nel quale Londra vedeva contro di sé Francia e Russia insieme. In più, qualsiasi impiego delle truppe inglesi a est di Suez sarebbe stato inquadrato nel più vasto quadro della difesa dell’India. Gli effettivi militari e navali britannici sembravano incapaci persino di difendere la posizione alessandrina anche verso un raid attuato da 5.000 soldati europei1. Analizzando più attentamente, sembrerebbe che i reports provenienti dalle diverse branche dell’intelligence britannica troppo spesso automaticamente si traducevano in politica effettiva senza tener conto della reale misura dei rischi. La strategia di sostituire Costantinopoli con il Cairo, in quanto chiave d’accesso e di sicurezza degli interessi inglesi in Medio-Oriente, fallì non soltanto per misure non prese in tempo. Prima di tutto influì il continuo rifiuto, oltre che dei militari, degli stessi membri del Gabinetto di approvare la risoluzione proposta da Salisbury per l’invio della flotta britannica negli Stretti e lo spostamento del baricentro al Cairo. La posizione del leader conservatore non si differenziava da quella dei suoi colleghi sulla politica da 1 Ivi. pag 31 51 perseguire, bensì sui tempi d’attuazione. Salisbury fallì nel tentativo di persuadere i suoi ministri che l’attacco russo a Costantinopoli era imminente. Di conseguenza, non riuscendo a dimostrare che lo Zar avrebbe avuto l’audacia di attaccare il punto focale degli interessi britannici, il premier inglese non ebbe successo nell’indicare il modo di contrattaccare. La chiarezza di questo punto è fondamentale. Non ci sarebbero stati dubbi che il Gabinetto britannico unanimemente avrebbe reagito ad una reale mossa bellica russa negli Stretti. Questo va oltre la politica di Salisbury la quale rimase, se così si può dire, più preventiva che attiva. Scrivendo all’ambasciatore austriaco a Londra – Vienna non desiderava altro che una spinta anti-russa nella politica inglese – Salisbury indicava che la riluttanza di prendere altri impegni oltre a quelli che già c’erano non presumeva “that Great Britain was not to be taken in defence of the Ottoman Empire against Russian aggression”1. Tutti i ministri, dietro al premier, conservatori o liberali che fossero erano pronti a reagire alle minacce russe ma finché un reale attacco anti-inglese non fosse venuto da Pietroburgo, Salisbury sarebbe rimasto da solo nelle sue nuove strategie preventive. In ogni caso, minimizzando anche l’influenza dei fattori tecnici, la politica britannica ancora non era pronta per cambiamenti radicali nei suoi orientamenti internazionali. L’Impero Ottomano diventava un alleato sempre più difficile e il degrado dei rapporti anglo-turchi era evidente, ma ciò non lasciava spazio a cambi di manovra. L’Egitto non venne mai visto come un alternativa soddisfacente alla possibile soggiogo del Sultano da parte dei Russi – all’ombra dei quali Londra vedeva Parigi, riluttante nell’accettare l’impresa inglese in Egitto . Del resto la pragmaticità e l’estrema prudenza degli Inglesi superava la loro voglia d’intraprendenza. Sebbene nuove 1 Keith M. Wilson Constantinople or Cairo… cit. 34 52 tendenze abbiano ispirato ipotetiche nuove strategie, il raffreddamento fra Londra e Costantinopoli, che alla fine porterà allo scontro frontale nel corso della Grande Guerra, non sarà radicale, perlomeno fin’allora. Questo si avvertì anche negli eventi balcanici e quelli armeni. Al di là della baldanza cristiana di Gladstone e delle conseguenze pratiche della nuova diplomazia di Salisbury, il piano di sostituire Costantinopoli in quanto alleato, almeno fino alla rivoluzione giovane turca (1908), mai si effettuerà del tutto. Molti ragionamenti hanno avuto influenza determinante nel mantenimento dello status-quo anche se le nozze fra le due capitali da tempo erano finite. Sebbene in una serie di dichiarazioni pubbliche e private nel 1896, il Primo Ministro inglese cercava di smorzare voci e supposizioni di una conflittualità latente fra Pietroburgo e Londra ( it is…a superstition of an antiquated diplomacy that there is any necessary antagonism between Russia and Great Britain1) il fatto che la sua stessa maggioranza non condividesse le sue paure sulla Russia non li permise di certo di cercare delle soluzioni nello spostamento Costantinopoli – Cairo. L’intenzione di un cambiamento radicale è una cosa. L’effetto reale che esso produce, soprattutto se fallisce, è un altro. Il terzo Marchese di Salisbury potrebbe essere apparso ai parlamentari dell’epoca un grande uomo di Stato, sostenitore della continuità. Nei fatti, oggi appare più come un continuatore per forza di cose. Il maggior problema che si presenta al suo ritorno al potere, nel agosto 1895, è il rapporto con gli Ottomani (in relazione soprattutto alla questione armena). Nella presentazione del suo programma davanti alla Camera dei Lord il 15 agosto 1895 Salisbury affermava: There is no party more anxious than that with which I have the honour to be connected to maintain the integrity and 1 Ivi. pag 33 53 the independence of the Ottoman Empire, which is sanctioned by treaties. The Sultan will make a grave and calamitous mistake if, for the sake of maintaining a mere formal independence … he refuses to accept the assistance and to listen to the advice of the European Powers in extirpating from his dominions an anarchy (il riferimento ovviamente va ai fatti in Armenia – n.d.a.) and a weakness which no treaties and sympathy will prevent from being fatal in the long run to the Empire over which he rules1. Tuttavia, è impossibile non notare nell’approccio di Salisbury verso tale questione certe contraddizioni e certe discrepanze. Da una parte il premier conservatore appare abbastanza riluttante all’idea di partecipare a un’azione punitiva contro le misure estremamente violente che il Sultano stava facendo attuare contro la popolazione armena. Dall’altra il rischio di un coinvolgimento diretto da parte inglese avrebbe aumentato la possibilità di dare la carta bianca alla Marina russa, essendo da sempre la causa armena parte del bagaglio propagandistico anti-turco di Pietroburgo. In conseguenza di tale rischio per gli Inglesi, che equivaleva ad una buona opportunità per i Russi, i piani per preparare le operazioni si spostano in qualche altro settore del territorio ottomano – magari nella striscia arabica. Ma anche su questo punto Salisbury sapeva che la distinzione fra un intervento inglese nel Bosforo e altrove era meramente falsa. L’unico risultato che poteva produrre un’azione del genere era l’incitamento indiretto del desiderio russo di riaprire la Questione Orientale. Anche in questo caso, più che ad un arrendersi davanti alla realtà delle relazioni internazionali, Salisbury segue la 1 Keith M. Wilson op. cit. 41 54 via classica della diplomazia britannica; affidandosi allo status-quo ante lui tiene più fede a quelle equazioni geopolitiche che fino in quel momento reggevano la sicurezza esterna britannica. Che la Turchia doveva essere un alleato da difendere, al di là dell’antipatia che Salisbury o Gladstone potevano provare nei confronti del Sultano, era uno di questi. Per giunta, in quel momento, ogni premier doveva essere un continuatore e la possibilità di modificare alleanze e strategie appariva inverosimile. I should myself very much prefer to give Russia the South and East of the Black Sea – and open the Dardanelles to all powers; set up some kind of autonomy in Egypt; take for ourselves the southern slope of the Taurus with Syria and Mesopotamia – pay off the French with Tripoli and a hunch of Morocco – Italy with Albania, and Austria with Salonika. But alas! These are mere dreams – nobody agrees with me…1 Come sostiene Keith M. Wilson, il sogno del Marchese era quello di essere al posto di lord Aberdeen e di poter ricevere dallo zar Nicola I nel 1853 la proposta di spartizione dell’Impero Ottomano. Lui avrebbe senza dubbio accettato. Lo considerava la migliore soluzione per la Questione Orientale e la miglior sicurezza per la continuazione prospera del commercio inglese con l’India. Nel governo conservatore del biennio 1895-1896 le priorità – Egitto chiamato in causa – non cambiarono. L’Egitto sarebbe stato senz’altro un baluardo per il colonialismo inglese in direzione dell’Africa. Avrebbe sicuramente costituito la spinta dell’Impero britannico per unire il Capo con il Cairo, ma non avrebbe, per il momento, cambiato l’alleanza di ferro che 1 Keith M. Wilson op. cit. pag. 43 55 doveva continuare ad esistere, prescindendo dai rapporti molto tesi, fra Costantinopoli e Londra. La tradizionale diplomazia inglese che vedeva nell’integrità ottomana la migliore scelta assicurativa, resa veritiera come un assioma matematico da Palmerstone, a Salisbury sembrava totalmente sbagliata ed a tratti dogmaticamente stupida. Ma lui era un conservatore e per giunta laureato in matematica ad Oxford. Chi meglio di lui poteva adeguarsi alla realtà? Senza contare in tutto ciò il suo precedente personale contributo, fornito a Berlino quando a fianco di Disraeli era stato Salisbury stesso a determinare il mantenimento in vita dell’Impero degli Osmanli ancora una volta. 56 Capitolo II Dentro le mura dell’Impero: l’influenza di ‘Abdül Hamid nella politica interna ottomana (anni ’80 e ’90 del XIX secolo) 1. L’assolutismo costituzionale di Hamid: uno sguardo alla politica interna ottomana Tutte le questioni di politica estera discusse fin qua, sono cruciali per spiegare anche l’ulteriore condotta in politica interna da parte del padiscià ‘Abdül Hamid II. L’ultimo sultano assolutista della dinastia secolare degli Ottomani, salì al trono in seguito alla crisi che scaturì dopo la deposizione, nel 1876, di ‘Abdül Aziz. Inizialmente al posto suo venne designato suo nipote, Murat V ma per cause di salute – il giovane sultano soffriva di crisi nevrotiche – il suo regno durò meno di tre mesi. Fu, quindi, deposto a sua volta dal fratello ‘Abdül Hamid, il quale tenne fortemente le redini del potere fino al 1909. Il maestro di questi colpi di scena era stato Mithat pascià (18221883), abile diplomatico di carriera con esperienze a Vienna, Parigi e Londra prima che egli stesso diventasse, per poco tempo, Gran Visir e padre della Costituzione del ’76. La sua politica, oltre ai sopracitati intrighi di palazzo, seguiva un preciso piano di sviluppo interno della vita istituzionale dell’Impero. Mithat pascià era un convinto assertore del Tanzimat, processo di riforme politiche che, già ideato dai riformisti dell’Impero, venne imposto successivamente anche dal fattore internazionale1. Sul piano amministrativo, 1 I primi decreti che riguardavano una ristrutturazione politica-sociale dell’Impero Ottomano, rivolti ovviamente all’innovazione istituzionale, vennero avviate già nel 1826. Quel anno era avvenuta la 57 per la prima volta le correnti moderate dentro la Sublime Porta cercavano di mettere sul piede d’uguaglianza la posizione dei mussulmani con le altre religioni dell’Impero – cosa ovviamente vietata dalla sharia. L’impulso fondamentale degli anni ’60 era quello di dare dei colori moderni occidentali alla forma di governo ottomana. Partendo da queste premesse, la Costituzione sancita dal Gran Visir nel 1876 – che riproponeva tutte le riforme per anni attuate o da attuare del Tanzimat - non fu un fulmine a ciel, sereno sebbene la stampa europea, nel migliore dei casi, la motivò come una trovata politica per far fronte alla Seconda Crisi d’Oriente. Questo complesso di innovazioni fu tuttavia la più scomoda eredità che la parte politica vicina ad Hamid – nettamente conservatore – dovette accollarsi, sebbene il nuovo sultano, trovandosi nel bel mezzo di una crisi non mancò d’indossare una maschera moderata. Inizialmente approvò la Costituzione di Mithat Pascià anche perché, con tutte le novità istituzionali che la nuova Carta apportava, il sultano avrebbe comunque mantenuto potestà considerevoli. Nel nuovo ruolo, il padiscià oltre a nominare i ministri, aveva il potere di convocare e sciogliere il Parlamento e di internare tutti gli individui giudicati pericolosi dalle autorità pubbliche. In poche parole, un “Impero autoritario” - abbastanza rassomigliante con quello di Napoleone III - nel quale ‘Abdül Hamid avrebbe cambiato così velocemente la sua posizione, che già un anno dopo, un’altra faccia della Turchia sarebbe stata visibile agli occhi occidentali. A soppressione dei Giannizzeri, corpo d’elite dell’esercito ottomano, che fino in quel momento aveva rappresentato la parte più tradizionalista in seno ai palazzi del potere. Tali componenti erano nel principio figli dei re cristiani usurpati dal potere degli Osmanli. In seguito, aderendo alla setta dei dervisci, presero la difesa del più duro conservatorismo religioso mantenendo sempre uno sguardo critico verso qualsiasi tentativo modernizzante dell’Impero. Potenti ed influenti fino al punto da ricattare diverse volte i vari sultani, i Giannizzeri avevano fatto di tutto per mantenere intatta la struttura gerarchica imperiale, che ovviamente dava loro una posizione privilegiata. Dopo la loro soppressione tuttavia, i passi verso le riforme furono lentissimi. Il Congresso di Parigi (1856), che seguì la guerra di Crimea, dette un ulteriore spinta, anche impositiva, verso tale direzione. Dopo esso infatti varie iniziative riformistiche vennero ufficializzate tramite una bolla imperiale (il cosiddetto decreto di Khatt-i humayun). 58 febbraio il Sultano ritirò la nomina a Mithat Pascià mandandolo in Europa1, mentre il Parlamento, riunito a marzo, venne sciolto poco dopo motivando tale atto con la guerra in corso fra la Russia e l’Impero Ottomano . Dopo la conclusione del Congresso di Berlino e l’ufficializzazione delle perdite territoriali, la politica riformatrice della Turchia iniziò ad spostarsi a favore dell’ala conservatrice. Il Sultano è il primo che tenta una forma di reazione all’enorme influenza che persone, pervase da ideali occidentali, hanno negli ambienti della corte. Inizia a liquidare tali tendenze già dopo il tentativo di detronizzazione a favore del fratello Murat V da parte di ‘Ali Suavi (maggio 1878). Tale congiura, ricca di implicazioni massoniche e liberali, fece sì che la diffidenza del Sultano si estendesse, oltre che alle persone, anche alla forma che la governance ottomana aveva assunto fino in quel momento. Richiamati all’ordine gli oppositori, Hamid non convocherà più, per circa trent’anni, il Parlamento, non abolendo ma ufficialmente sospendendo la Costituzione. Questa forma di regime, molto autoritaria verso qualsiasi alternativa di pensiero politico e nello stesso momento orientata verso una visione tradizionalista del rapporto fra Stato e Religione, assunse le sembianze di un assolutismo costituzionale. Liquidate, in seguito al fallimento del sopracitato putch, quelle marginali forme di opposizione che continuavano a sopravvivere nella capitale turca, persero quasi tutte le personalità di riferimento. L’intellettuale Namik Kemal per esempio, subirà la stessa sorte del principale ispiratore dei liberali, Mithat Pascià, venendo ufficialmente allontanato dal Sultano con la nomina di governatore della provincia di Sakiz (l’odierna Chios, Grecia)2 . Con la Costituzione sospesa, benché formalmente ancora in vigore, l’assolutismo 1 Ritornò ben presto in carica pubblica come governatore della Siria e poi di Smirne. Nel 1881 per volontà di Hamid venne condannato a morte, pena tramutata in esilio a Taif (in Arabia) dove mesi dopo verrà trovato impiccato, a quanto pare, per ordine diretto dello stesso Sultano. 2 Già noto per le sue adesioni massoniche e per i suoi scritti dove la tendenza liberale in politica interna si mescolava con una forma di nazionalismo a favore di un risorgimento medio-orientale, Namik Kemal aveva già subito una forma più esplicita di esilio nel 1873. 59 hamidiano istaurerò un governo pienamente centrato nell’autorità moralmente intransigente del suo Sultano. Notoriamente orientato verso forme purificatrici dell’antica ispirazione islamica da parte dello Stato, ‘Abdül Hamid – molto dedito a far vedere il suo attaccamento alla preghiera e alla retta religiosa che aveva dato alla sua vita privata – dava così le premesse ad un cambiamento nella concezione dei rapporti governativi. Egli segna in pieno la fine del regime basato sulla supremazia effettiva dei Gran Visir sui Sultani. Simbolo di tale decadenza è anche lo spostamento del centro politico dalla Sublime Porta – sede nonché simbolo ottocentesco del dominio del Consiglio dei Ministri su qualsiasi attività d’ordine pubblico – alle istanze più conservatrici e mondanamente più povere di sfarzo dello Yildiz Saraji, sede del Sultano. Direttamente responsabili davanti alla sola autorità di ‘Abdül Hamid in persona, i ministri, da quel momento in poi, seguirono lo rotta segnata dal Sultano, in reazione a quella politica d’ispirazione liberale e costituzionalista la quale, per lui, era stata la causa principale nell’indebolimento dell’autorità pubblica del Califfo. L’idea di nazione, proprio in parallelo al suo trionfo in Europa, nello stesso periodo trova il suo pieno sviluppo a partire dagli anni ’80 del XIX secolo anche dentro l’Impero Ottomano. Sicuramente, nella portata intellettuale e politica, gli avvenimenti occidentali, a partire dalla Rivoluzione francese in poi, non restarono senza eco nella Turchia del Tanzimat. Come ben sappiamo, il complesso delle riforme che portava questo nome cercò, ovviamente sotto influsso britannico ancorché europeo, di dare alla realtà ottomana una nuova forma d’identità, rinnovata rispetto alle vecchie radici islamiche. Naturalmente in Turchia l’aspetto più rilevante di tale nazionalismo era il concetto di nazione basato sull’unità territoriale. In questo, le differenze con la tipologia europea di nazionalismo non mancarono. Un po’ per lo stato di cose, un po’ per 60 convenienza politica, rinchiusi in un Impero multiculturale, gli ispiratori del nazionalismo osmanli andarono in ben altre direzioni rispetto allo svilupparsi del romanticismo europeo. Se alla base del concetto di comunanza etnica in Occidente c’erano le tre categorie essenziali della Sturm und Drang tedesca – quindi comunanza di lingua, storia e religione per definire l’appartenenza etnica – gli intellettuali turchi cercarono di scegliere altre vie di nation building. I leader della cosiddetta Nazione Ottomana premevano per una dottrina che ispirasse la raison d’être di tutti i sudditi dell’Impero nella vatan (patria) ottomana, quindi nella dinastia regnante1. E’ un concetto sicuramente molto astratto, almeno per l’obbiettivo che esso si prefissò. Le difficoltà con i risorgimenti balcanici rendevano difficili i tentativi d’assimilazione. In più l’influsso dell’estremo nazionalismo presso le popolazioni cristiane, e cioè le briciole delle prime teorizzazioni razzistiche in Europa (sulla scia degli studi di Gobineau, Chamberlain ecc.) sicuramente non contribuì al successo di tale assimilazione. Intanto le novità abbondavano anche nel campo dell’organizzazione interna. Con l’epoca di Hamid finisce il pluriennale concetto de ”l’ottomanismo”, maggiore apporto del Tanzimat. L’idea della ricerca dell’uguaglianza civica per tutti, mussulmani e non, per poter così creare una nuova forma di cittadinanza basata sulla nazione genericamente ottomana, lascia il posto ad una nuova ideologia definita “pan-islamista”. Basata una visione concreta nella realtà geopolitica dell’Impero, che, con le ultime perdite territoriali, vedeva passare in termini percentuali le file della popolazione mussulmana dal 68% al 76%. Questa nuova concezione politica andava a cercare proprio nell’Islam, in quanto religione ed organizzazione politica, la sua identità e 1 David Kushner, The rise of Turkish nationalism 1876-1908, Frank Cass, London, 1977 pag. 7 61 conseguente spirito di mobilitazione2. E’ inoltre una risposta ai vari movimenti “pan” che nasceranno nel tardo-romanticismo europeo. In particolare l’Impero Ottomano si trova direttamente in conflitto con il movimento pan-slavista sia territorialmente nei Balcani che politicamente nelle sedi internazionali e con la Russia. Facendo studiare molto di più le materie religiose di quanto si facesse precedentemente, Hamid II, egli stesso membro della confraternita dei kadiri, conduceva una vita di esemplare sobrietà. Ciò fu anche un mezzo ben scelto di propaganda per dimostrare la sua netta separazione dalla politica fatta di sfarzo e lussi del precedente regime della Sublime Porta. Infatti non si può dire che questo pan-islamismo non dette i suoi frutti, almeno nel ridare più spessore alla sua funzione principale di Califfo – ben lungi dall’essere nella tradizione un papa islamico. Il Sultano era ben conscio di non poter capeggiare tutti i mussulmani del mondo sebbene sussulti di preoccupazione per una rivolta pan-islamica contro il colonialismo iniziasse a farsi sentire in Occidente. Infine, la rinascita religiosa ad uso interno fu anche ideata come mezzo per sconfiggere la nuova ondata nazionalistica presso le popolazioni mussulmane. Gli Albanesi per esempio, dopo lo scioglimento della Lega di Prizren (1880), non cessarono di avanzare le loro richieste d’autonomia, essendo ben consci che restare dentro i confini ottomani era anche l’unico mezzo per la loro salvaguardia territoriale dagli appetiti dei nuovi Stati balcanici. Però, la miccia accesa dalla Lega, seppur inizialmente considerata un beneficio da parte delle autorità turche – i leaders albanesi anche nei loro contatti internazionali non avevano mai fatto ceno ad una piena indipendenza da Costantinopoli – segnò anche l’avvio del rinascimento culturale schipetaro. La richiesta di poter usare la bandiera nazionale, insieme all’insegnamento scolastico della lingua albanese, era segno di un altro problema e di un altro 2 Histoire de l’Empire Ottoman, cit. pag. 574 62 nazionalismo nascente. Questione che, se consideriamo soltanto le richieste legate alle nazionalità di religione islamica, non faceva che aggiungersi a quella dei Curdi. Presso questi ultimi infatti, i notabili locali già avevano concluso degli accordi reciproci per una politica comune verso il centro del potere ottomano. Pan-islamismo quindi, il quale anche se solo di facciata, rimaneva comunque un mezzo politico, sia per mobilitare i mussulmani dell’Impero intorno al loro Califfo, sia per riallacciare i rapporti già allentati con gli Arabi. Però, oltre ogni esagerazione, va detto che la religione in quanto valore politico non ritrovò più il suo antico splendore precedente all’epoca del Tanzimat. Anzi se prendiamo in esame gli sviluppi in determinati campi dell’attività pubblica, come per esempio la giustizia, l’influsso della secolarizzazione fu addirittura maggiore nell’epoca di Hamid di quanto fosse stata precedentemente. Il codice religioso applicato alla cosa pubblica perse sempre più influenza e gli ulema continuarono a dipendere dal potere civile1. In campo di pura elaborazione teologica, Costantinopoli perdeva così il suo prestigio cedendo il passo al Cairo. Agli albori del XX secolo infatti, era la capitale egiziana che stava evolvendo in qualità di centro di ricerca islamica. Nel campo della teologia tradizionale gli avanzati studi dell’Università al-Azhar (letteralmente “La fiorita”) stavano ridando spessore ad un luogo di cultura che manteneva la tradizione degli studi religiosi che risaliva al X secolo. Non di meno l’importanza del Cairo – ormai centro del colonialismo inglese nel Nord Africa – era evidente anche nell’operato di coloro che cercavano, senza subire influssi diretti con l’occidentalizzazione, una modernizzazione dell’Islam. Tuttavia va precisato un punto fondamentale. L’opinione diffusa nell’ottomanistica del XX secolo, particolarmente negativa nei riguardi di Hamid II, ha avuto recentemente dei cambiamenti importanti per i quali il Sultano autoritario della 1 Ivi. pag. 577 63 Turchia di fine Ottocento più che affossatore, è stato un continuatore, con significativi tratti dispotici, delle riforme avviate nell’epoca del Tanzimat1. Gli sviluppi specifici dell’epoca, al di là della forma particolarmente orientata verso un inasprimento delle libertà appena promosse dalla Costituzione di Mithat pascià, dimostrano alcuni lati di sviluppo interno positivi. All’alta corruzione e all’enorme differenziazione degli stipendi, seguita alla crescita della burocrazia centralizzata, si assistette alla formazione di alti funzionari, i quali trovarono la loro preparazione nelle scuole d’amministrazione già promosse dal Tanzimat ma solo dopo realmente applicate. Il coronamento di queste riforme di istruzione vide l’apertura di una Scuola di diritto e di una delle finanze per la preparazione specializzata dei nuovi funzionari imperiali. Inoltre, dopo l’inaugurazione dell’Accademia artistica e di una intera rete di scuole secondarie, a Costantinopoli, nel 1900 viene istituita la prima Università dell’Impero, scopo principale della quale era trattenere i giovani nel Paese per non subire quindi la contaminazione di idee occidentali e liberali delle università europee. Modernizzazione quindi, la quale, oltre al enorme indebitamento estero che portava, comunque continuava a svilupparsi sotto l’egida della più dura centralizzazione. Segno di tutto questo è anche lo sviluppo che ebbe in quell’epoca l’attività intensa della polizia segreta la quale si attivo in diversi campi, a partire dalla censura e l’organizzazione del spionaggio interno (i famosi jurnalci) fino all’introduzione del sistema dei passaporti (imitando la Russia la quale per prima nel mondo attuò questa forma di controllo dei flussi migratori). Tali aspetti “repressivi” furono ben visibili anche nello sviluppo che ebbe la stampa all’epoca di ‘Abdül Hamid. La mano pressante della censura qui dette la sua prova migliore. Sia nelle pubblicazioni ufficiali che cercavano di imprimere sempre di 1 Histoire de l’Empire Ottoman (sous la direction de Robert Mantran) – capitolo a cura di François Georgeon, cit. pag. 570 64 più l’idea della legalità imperiale, sia nella clandestinità dei pamphlet e dei giornali dei Giovani Turchi, la stampa durante l’assolutismo hamidiano è stata sempre giudicata come inefficiente e deviante nel trattare i reali problemi del Paese. Vari metodi, incluse tasse sulla stampa o intimidazioni a editori e giornalisti, furono usati dal regime per imporre la sua scelta riguardo all’informazione. L’effetto immediato fu quello di ridurre il giornalismo ad una mera raccolta di cronaca1. In ogni caso, a prescindere dalla loro impotenza e della loro riduzione quantitativa, giornali e riviste al tempo di Hamid segnarono anche alcuni sviluppi positivi. Tecnicamente, la metodologia editoriale migliorò, aumentando anche il numero dei giornali in circolazione. Durante gli ultimi anni dell‘800 i tre maggiori quotidiani della capitale – il Sabah (il Mattino), il Tercüman-ı Hakikat (L’interprete della verità) e l’Ikdam (la Forza) - distribuivano 30.000 copie circa al giorno. Inoltre, forse per il fatto che la discussione degli affari interni veniva abbastanza oppressa dalla “verità ufficiale”, giornali e riviste trattarono più di prima aspetti rilevanti della scena internazionale, dedicandosi molto alle traduzioni e pubblicazioni di varie opere straniere. E’ in quest’epoca che la stampa dà il suo maggior contributo all’apertura del mondo ottomano con l’estero. Senza dubbio, in un modo pervasivo e comunque implicito, ciò dette un contributo allo sviluppo dell’idea di occidentalizzazione della vita all’interno dell’Impero2. L’approccio moderato, e a volte fin troppo azzardante, della stampa liberale dell’epoca dette una spinta decisiva nella discussione di vari argomenti. Fra questi, di primaria importanza era la letteratura e la lingua cercando di offrire tribune di argomentazioni e polemiche fra le varie correnti ideologiche che dominavano la scena intellettuale di Costantinopoli. Secolarismo, Occidentalismo, 1 2 David Kushner op. cit. pag. 14 Ivi. pag. 15 65 Nazionalismo e Islamismo suscitarono grandi dibattiti e conferenze pubbliche che animarono una fiacca, fin’allora, atmosfera dialettica. Sotto questo guscio trovarono rifugio le varie voci, che dando un aspetto di rinascimento culturale, contribuirono all’anticipazione del movimento nazionalistico turco. Partendo dal presupposto che la letteratura turca doveva liberarsi dalla secolare influenza araba e persiana, linguisti come Şemsedding Sami Frasheri, il romanziere Ahmed Mithat e l’orientalista Necib Asım cercarono di portare nell’ambiente culturale ottomano quella vitalità e quel dinamismo democratico che loro stessi avevano conosciuto nelle capitali europee. 2. L’economia ottomana e la sua dipendenza dai capitali europei Gli anni che intercorrono dall’occupazione inglese in Egitto all’occupazione italiana della Libia (1882-1911) abbracciano un periodo durante il quale i possedimenti ottomani non furono intaccati da altre imprese colonialistiche. Rappresentano tuttavia anche trent’anni nei quali nulla impedisce alle Grandi Potenze di legiferare e perseguire i propri interessi tramite i vantaggi derivati dai trattati commerciali con la Porta e soprattutto dai privilegi assunti con lo speciale regime delle Capitolazioni1. Formalmente queste ultime erano dettate dalla necessità, mancando nei territori ottomani codici speciali per il commercio e la navigazione ed essendo la legge musulmana, basata sul Corano, inapplicabile agli stranieri, considerati "infedeli". In sé le Capitolazioni garantivano agli stranieri: 1 Tale regime aveva le sue radici nelle speciali concessioni che erano state fatte nei territori dell'Impero bizantino alle Repubbliche marinare italiane a decorrere dalla fine del secolo XI. Le concessioni si proponevano di garantire ai cittadini di tali Repubbliche, spesso giunti in quei territori al seguito dei crociati, una certa sicurezza ed autonomia, attraverso il riconoscimento della libertà di commercio e del diritto di avere proprie giurisdizioni nazionali. Dopo la caduta dell'Impero d'Oriente e l'insediamento dell'Impero Ottomano a Costantinopoli, i privilegi tradizionali delle antiche "colonie" straniere ebbero successiva conferma da parte dei Sultani. 66 1. ampia libertà d’esercizio del commercio, dell’arte, della professione e della fede religiosa; 2. la inaccessibilità del proprio domicilio da parte della polizia locale; 3. la inapplicabilità della legge musulmana civile e penale; 4. la esenzione dalle imposte. Dopo la bancarotta seguita all’inizio della “Seconda Crisi d’Oriente” (1875) e soprattutto dopo i risultati finali del Congresso di Berlino, l’entourage hamidiana cercò di entrare in contatto con vari creditori e con i detentori dei Buoni di Tesoro ottomani per la negoziazione di nuove condizioni di debito. Il risultato immediato fu reso pubblico tramite il cosiddetto “Decreto di Muharrem” edito nel 1881, il quale, nel suo punto principale, si impegnava a ridurre e cercare di consolidare l’enorme debito estero che da tempo l’amministrazione ottomana si tirava dietro. Tale scopo fu reso esplicito tramite la pubblicazione di una speciale ordinanza, secondo la quale molte entrate come il monopolio del sale, tasse di bollo e l’imposta sugli alcolici, proprio perché dovevano servire al risanamento del bilancio pubblico, venivano gestite da un organismo finanziario distinto dal Ministero di competenza. Inoltre l’amministrazione del Debito Pubblico veniva affidata ad una speciale commissione, nella cui composizione entravano un inglese, un francese, un tedesco, un italiano, un austro-ungherese, un ottomano e due rappresentanti dei banchieri di Galata. Tale amministrazione, presieduta a turno dal rappresentante francese e da quello inglese, già nella sua composizione dava adito all’idea che la dipendenza invece di diminuire s’accresceva. Infatti, tutti i membri stranieri della commissione erano normalmente gli ambasciatori rappresentanti a Costantinopoli dei propri Paesi. Tuttavia il buon funzionamento dell’organo permise nuovi crediti con tassi d’interesse più bassi (i quali passarono dal 5% al 3%)1. 1 Histoire de l’Empire Ottoman… cit. pag.578 67 Per il resto il “Decreto di Muharrem” rappresentò una perdita di sovranità. A parte i benefici finanziari, comunque ben circoscritti nel tempo, esso contribuì notevolmente all’ulteriore ingrossamento della burocrazia interna. Alla fine del regno di ‘Abdül Hamid II solo la sopracitata Amministrazione del Debito Pubblico impiegava 5.500 persone – ben più della stesso Ministero delle Finanze – ed il 30% delle entrate statali1. Inoltre, altre istituzioni ben salde a Costantinopoli contribuivano a far aumentare la dipendenza delle finanze imperiali dall’operato economico degli investitori stranieri. Le due principali banche, la Banca Ottomana, creata con capitali soprattutto francesi, e la Deutche Bank, impiantata nella capitale dal 1888, capeggiavano l’elenco delle sedi verso le quali l’ostilità antieuropea era più difusa. Ma vanno aggiunte anche Debito Pubblico e Monopolio dei Tabacchi (con ben 9.000 impiegati e anche questo creato tramite capitali francesi nel 1883) le quali erano le tipiche società azionarie con dirigenti stranieri e una manodopera in maggioranza mussulmana. Come si ha modo di osservare, la politica del commercio estero attuata durante l’epoca di Hamid, oltre ad utilizzare meglio i finanziamenti rispetto all’epoca di ‘Abdül-‘Aziz (1861-1876), vide, al contrario dei progetti prefissati, un’autentica invasione da parte dei capitali stranieri. Gli investimenti fatti durante gli anni 1888-1896 costituiscono il 40% degli investimenti attuati tramite finanze estere nell’Impero Ottomano dagli albori del suo splendore fino al 19142. Gli investimenti nel settore produttivo restarono bassi. Essi toccarono a malapena il 10% e non contribuiranno affatto allo sviluppo industriale dell’Impero, ma piuttosto alla creazione di strutture in 1 2 Ivi. pag. 579 Servet Pamuk Ottoman Empire and European Capitalism 1801-1927 pag. 134 68 funzione delle esportazioni di materie prime agricole e dell’apertura di nuovi mercati per i prodotti manufatti europei. Fu un epoca che conobbe un vero boom di presenza dei capitali francesi ai quali seguì una linea crescente di investimenti dalla stessa provenienza: 85 milioni franchi nel 1881, 292 milioni nel 1895 per poter toccare il picco nel 1909 dove la somma derivata dagli investitori francesi era costituita da ben 511 milioni di franchi. Questa moltiplicazione per sei degli apporti finanziari esteri in trent’anni comprendeva investimenti soprattutto nelle ferrovie, ma anche per la costruzione di moli e porti (il 73% del complessivo). Senza contare gli investimenti delle banche dove l’81% riguardava appunto capitali francesi. Le cifre del grafico sottostante cercano di mettere anche dei rapporti comparativi con gli altri capitali d’investimento stranieri presenti nell’Impero durante la stessa epoca: 60,00% 50,00% 40,00% anno 1888 anno 1914 30,00% 20,00% 10,00% 0,00% capitali britannici capitali francesi 69 capitali tedeschi La disaffezione verso gli investimenti di provenienza britannica, che va in parallelo con l’affluenza dei capitali francesi, è il fatto più percepibile dal Congresso di Berlino in poi. La quota dei capitali inglesi che vengono investiti sul mercato ottomano dal 1888 al 1914 passa dal 56% ad un modesto 15,3%. Man mano che avanza il raffreddamento diplomatico, e a questo punto anche economico fra Londra e Costantinopoli, avviene in massa un penetramento di investimenti francesi che all’inizio della Grande Guerra rappresentarono più della metà di tutti gli investimenti stranieri nell’Impero (50,4%). Nello stesso tempo interessante è notare anche il forte afflusso tedesco che in termini di crescita risulterà maggiore di quello francese. I tedeschi infatti, presenti ben poco nello sviluppo del capitalismo ottomano prima del 1888 (1,1%), come conseguenza anche degli orientamenti politici sia del Sultano che dei suoi oppositori dopo la sua caduta, toccarono quota 27% verso la fine della prima decade del Novecento1. Il semble d’ailleurs, qu’en Turquie, depuis quelque années, pour des raisons politiques, les anglais prennent une part moins active aux affaires; une campagne de presse leur a fait vendre la plus grande partie du papier ottoman dont ils étaient porteurs; leurs capitaux, devenus plus timides, ne cherchent pas d’entreprises nouvelles et s’abstiennent même de participer à celles qui leur sont offertes. La politique britannique semble renoncer à son rôle de protection de 1 Histoire de l’Empire Ottoman, cit. pag. 580 70 l’Empire ottomane et n’attacher d’importance qu’à surveiller les avenues de l’Egypte et les bords du golfe Persique2. Alla fine quella francese è un’influenza che spazia in ben altri piani oltre che su quello economico; è una questione a tutto campo nell’Impero Ottomano. La grandeur della cultura d’Oltralpe conquista anche il campo culturale, ancor prima di quello linguistico. Il francese attraversa il suo periodo d’oro di lingua franca nei rapporti di qualsiasi genere: consolari, economici e culturali. A parte il fatto che tutti i giornali d’epoca nell’Impero hanno la loro edizione in francese, anche la lingua d’ufficio che si parlava all’interno della Banca Centrale, del Debito Pubblico o del Monopolio rimaneva sempre il francese. Gli oppositori inoltre del regime di Hamid, fossero le loro azioni esplicite o meno, sicuramente erano i più grandi beneficiari dell’influenza enorme che la cultura politica francese esercitava sulla vita intellettuale dell’Impero. Comunque sia, tentativi di ridurre la dipendenza vi furono e parecchi. Un esempio è l’aumento che le autorità turche decisero sulla tassa sulle importazioni. Ma furono quasi sempre tentativi ben limitati e comunque sia ad essi seguivano ulteriori concessioni e soprattutto era in contrapposizione con l’immutabilità delle Capitolazioni. Queste ultime rimanevano sacrosanti diritti intoccabili per i governi stranieri. Il governo del Giappone giunse a negare l’apertura di una sua rappresentanza diplomatica a Costantinopoli per il fatto di non aver ricevuto i privilegi capitolari nel 1907. La stessa cosa accadde anche con le poste, le quali, anche in qualità di società azionarie, appartenevano agli Occidentali. Zeppe di funzionari stranieri furono anche un comodo mezzo per i Giovani Turchi per la diffusione dei loro giornali e opuscoli clandestini. Il 2 René Pinon, L’Europe et l’Empire Ottoman. Les aspects actuels de la question d’orient,cit. pag.354 71 tentativo estremo di chiudere o perlomeno nazionalizzare le poste non a caso fallì per diretta pressione occidentale. Si cercava invero di aiutare ma soprattutto di controllare e dirigere lo sviluppo economico turco mediante forme di appalto esclusivo e a lungo termine. Le ingerenze europee continuarono su molti punti sebbene la formale sovranità ottomana continuo ad esistere. Una situazione variegata, insomma, e in grande contraddizione con il programma proclamato da ‘Abdül Hamid. Anche se, da gran realista, il Sultano era il primo ad essere cosciente che un cambiamento radicale della situazione di dipendenza, non era né possibile né consigliabile, per il budiet estremamente povero di cui le autorità disponevano a Costantinopoli. In fin dei conti la politica a lungo raggio di Hamid era proprio questa: muoversi a pari passo da ciascuna presenza economica straniera senza dare più privilegi ad una a discapito dell’altra. Insomma, equilibrare con prudenza le varie influenze occidentali per poi riuscire ad “addomesticarle”. Di conseguenza i governi che rappresentavano questi interessi sarebbero stati i primi a necessitare della sopravivenza e dell’integrità dell’Impero Ottomano. E’ vero che la Turchia era ormai una semi-colonia ma continuava ad avere una classe politica autonoma e una burocrazia relativamente reattiva. ‘Abdül Hamid era il perno di questa piramide che silenziosamente cercava di manovrare sebbene il suo ruolo non ispirasse più la grandiosità di una volta. Era sicuramente un Sultano dipendente ma c’è chi nota anche elementi di grande fermezza in lui. Come disse l’ambasciatore inglese all’epoca Lord Dufferin: “La verità è che nessun ambasciatore riuscirà mai a mettersi il Sultano in 72 tasca”. Ma forse non a caso questa affermazione viene proprio da un rappresentante britannico1. 3. Alle prese con i vicini di casa: la Turchia e i nuovi Stati balcanici I tre anni che seguirono i lavori del Congresso di Berlino registrarono come sviluppo delle decisioni prese nella capitale tedesca, la delimitazione dei confini fisati dagli accordi e la stabilizzazione del nuovo ordine di cose, che nel caso della Romania, della Bosnia, del Montenegro e della Grecia si riveleranno più difficili delle aspettative. Infatti, mettere d’accordo i contendenti balcanici, sia fra loro, che in rapporto con lo Stato ottomano, non fu certo un processo di pochi mesi. La Romania attenderà ben tre anni la soluzione definitiva della sua frontiera, contestata dalle autorità bulgare. La contesa riguardava la provincia trans-danubiana della Dobrugia dove le autorità bulgare – ancora sotto l’altra sovranità ottomana cercarono di tracciare una frontiera tale da poter escludere la città di Silistria dal nuovo territorio romeno. Bucarest ebbe la definitiva sovranità sulla tanto celebrata fortezza soltanto nel giugno del 1880 e comunque senza registrare un definitivo accordo per soddisfare ambo le parti. Dall’altra parte, l’entrata delle truppe austro-unghariche in territorio bosniaco non avvenne certo nella più idilliaca tranquillità. Già contestatori delle tendenze liberali manifestate dalle stesse autorità turche, i capi-tribù mussulmani in Bosnia non potevano 1 Feraze Abdullah Yasam The Ottoman Empire and the European Great Powers 1884-1887 tesi dattil., London, 1984 citato in Histoire de l’Empire Ottoman cit. 604 73 che reagire in armi alla nuova amministrazione di Vienna, per giunta cristiana. Una vera e propria insurrezione seguì la deposizione dell’ultimo governatore turco, al posto del quale - sotto la dichiarazione di una guerra santa alle truppe cristiane - venne messo un fanatico dal nome Hagi Loja1. Agli ordini del Barone von Philippovich le truppe di Vienna aprirono il fuoco sopra Sarajevo, punto focale della rivolta, ponendo fine alle ultime resistenze alla fine del agosto 1878. Per quanto riguarda il governatorato delle tre località nel sancak di Novipazar – ottenuti anche questi a Berlino - le cose procedettero più tranquillamente. Nel suo capoluogo, Plevlje, gli austriaci mandarono un console civile dove le autorità giuridiche, amministrative e finanziarie turche continuarono a coesistere con Vienna. Le truppe militari del Sultano erano stazionate laddove l’esercito austro-ungherese già controllava come territorio austro-ungherese. Le relazioni amichevoli fra i due contendenti furono mantenute stabili durante tutta la occupazione mista anche dalla volontà pacificatoria di Ferik Suleyman, pascià perpetuo a Plevlje2. Anche se non si può scordare l’instabilità permanente della provincia bosniaca, in sé le azioni militari austriache nei Balcani registrarono un successo. Anzi, nel 1881 Vienna raggiunse anche un ottimo risultato diplomatico firmando con il Ministro degli affari esteri serbo M. Mijatovic una convenzione segreta, per la quale, quest’ultimo s’assumeva la responsabilità di placare qualsiasi irredentismo serbo verso la Bosnia ricevendo in cambio l’approvazione di Vienna per le rivendicazioni di Belgrado “in direzione della vallata del Vardar”. Tale convenzione, resa pubblica solo nel 1889. Messo all’imbarazzo davanti alle voci nazionalistiche il re Alessandro descriverà tale accordo come “un atto di tradimento”3. 1 William Miller The Ottoman Empire and its successors 1801-1927, Frank Cass & Co. LTD., Abingdon,Oxon, 1966, pag. 401 2 Ivi. pag. 402 3 Ivi. pag 403 74 Problemi più seri invece dovevano affrontare la Grecia e il Montenegro. Infatti, mentre la monarchia asburgica si espandeva nel sud, aggiudicandosi pienamente il titolo di “sentinella dei Balcani”, il piccolo principato montenegrino non riusciva a prendere il possesso di alcuni territori aggiudicatigli dalle Grandi Potenze. I distretti di Plava e Gucija, abitate in maggioranza da Albanesi mussulmani, rimanevano abbastanza restii a venir inglobate nel territorio governato da Cetinje. I loro abitanti, “first-class fighting men, who cared for neither the Congress nor the sultan”, anche per ostilità di vicinato note già da tempo, reagirono subito ai tentativi d’entrata dell’esercito montenegrino nei loro territori. La Lega di Prizren, rinata dopo la repressione che ebbe l’indomani del Congresso berlinese da parte delle truppe ottomane, ebbe un ruolo fondamentale nella reazione che vi fu. Fu essa stessa che organizzò l’attentato a Djakova alla persona di Mehmet Alì, plenipotenziario del Sultano, mandato presso gli Albanesi proprio per convincerli ad inclinarsi alla volontà di Berlino1. Nel 1879, dopo che le ostilità ebbero preso totalmente forma, si vide anche il raggiungimento di un’alternativa offerta dalla proposta del Conte Corti, ambasciatore italiano a Costantinopoli. In cambio dei distretti di Plava e Gucija l’accordo fra le Potenze offriva al nuovo Stato del Montenegro due altri distretti contigui, quelli di Hoti e Gruda. Ma di nuovo il fare i conti senza l’oste rivelò enorme difficoltà a mettere in pratica proposte disegnate esclusivamente a tavolino. Queste zone, abitate dalla tribù dei Malisori, etnicamente albanesi ma cattolici romani religiosamente, da tempo godevano di uno status dell’autogoverno in base agli accordi secolari che avevano con l’occupante ottomano. Davanti alla prospettiva di una perdita dell’autonomia regionale e, come era naturale, influenzati anche loro dal 1 Stavro Skendi, The Albanian National Awakening 1878-1912, Princeton University Press, 1967 pag 35 75 nascente nazionalismo albanese, gli abitanti di Hoti e Gruda reagirono ai vani tentativi d’occupazione da parte dei Montenegrini. In tale situazione, caduti nel vuoto gli appelli delle Grandi Potenze e falliti i tentativi di coercizione da parte dell’esercito ottomano, mentre le autorità di Costantinopoli giustamente apparivano accondiscendenti verso la reazione albanese, fu Londra stessa che decise di prendere in mano la situazione. Gladstone era tornato al potere in Inghilterra e le sue simpatie filo-montenegrine facilitarono la via d’uscita dall’impasse creato. Un’ultima proposta venne dalla conferenza delle Grandi Potenze, riunite nel giugno del 1880 a Berlino. In lieu dello schema di Corti, l’ultima alternativa rimaneva quella di concedere la cittadella marina di Ulçin (italianizzato Dulcigno) alla sovranità del Montenegro. Come era prevedibile vi fu un ennesimo rifiuto da parte albanese e ciò spinse il governo britannico ad attuare una dimostrazione navale. La mera suggestione ebbe l’effetto sperato. Avendo davanti le truppe montenegrine in attesa dell’assalto e rimaste senza rifornimenti per causa della quarantena marina della Royal Navy e di alcune navi delle altre Potenze, le autorità turche dentro le mura dell’antica fortezza veneziana, aprirono le porte della città senza fare resistenza1. Il principe Nicola II, assicurato dell’entrata pacifica del suo esercito dentro Dulcigno (novembre 1880) non mancò di ringraziare pubblicamente la Gran Bretagna per il suo impegno nel favore delle rivendicazioni montenegrine. Fu naturalmente l’ultimo atto di protezionismo inglese a favore di questo piccolo popolo balcanico. Per anni gli inglesi lasceranno non rappresentato il loro Paese nelle istanze consolari a Cetinje. Il non essere presenti e l’assenza delle autorità di Sua Maestà al Giubileo montenegrino della Sovranità farà sì che le simpatie di Cetinje verso Londra, che potevano essere grandi, degenerarono in una perdita totale di prestigio. I successori di Gladstone non avrebbero più avuto la sua 1 Stavro Skendi, op. cit. pag. 37 76 preoccupazione legata ai conflitti balcanici essendo che il cuore e gli interessi della Union Jack battevano altrove, e comunque fuori dai confini europei1. Un’altra ratifica delle frontiere dovette imbattersi nell’apatia politica ottomana, di nuovo sfruttando le azioni belliche delle bande nazionalistiche albanesi. E’ il caso delle concessioni territoriali che il congresso di Berlino fece al regno della Grecia. Il pari di Beaconsfield (Disraeli) aveva detto alle massime autorità elleniche che il loro Paese aveva un’ottima prospettiva e che quindi l’ingrandimento territoriale poteva benissimo attendere. In realtà, la Grecia dovette aspettare tre anni per poter ricevere una parte del territorio assegnato ad essa e ben trenta per il rimanente. Anche se gli accordi firmati fra le Grandi Potenze davano così poco spazio alle aspirazioni della Megali Idea - Creta, Macedonia, Tracia e molte isole dell’Egeo rimanevano sotto sovranità ottomana - la condotta della Porta iniziò ad essere come d’abitudine dilatoria, proprio nel momento che elementi della Lega albanese – più radicali di quelli che avevano reagito alle azioni montenegrine nel Nord – iniziavano ad apparire nella regione dell’Epiro. La commissione congiunta greco-turca che fu incaricata per la negoziazione dei nuovi punti di confine iniziò i suoi lavori sotto l’egida di Francia e Inghilterra. Per quanto riguarda la Tessaglia, le discussioni s’incepparono nel momento che i Turchi cercarono di tenere entro i loro confini la città di Tricalla, che gli Ellenici volevano come capoluogo della loro nuova provincia, essendo l’altra grande città, Larisa, nella sua maggioranza, mussulmana. Non andarono meglio le negoziazioni dirette con gli Albanesi dell’Epiro. A loro la controparte greca propose la creazione di un regno ellenico-albanese il quale doveva riconoscere in quanto sovrano la persona di re Giorgio 1 William Miller The Ottoman Empire and its… cit. pag. 406 77 o suo figlio. Ma ovviamente gli Albanesi, già risentiti dopo la perdita di Ulcin a favore dei Montenegrini, non vollero sapere di coesistenza politica1. La situazione, anche in questo caso, conobbe la risvolta con la salita al potere di Gladstone a Downing Street nel 1880. Nella conferenza svolta a Berlino (giugno 1880), ugualmente come per la questione montenegrina, gli inviati britannici e francesi cooperarono per trovare una soluzione comune. Inizialmente, come la nuova tendenza di certo non filo-turca di Gladstone lasciava intendere, l’operato dei plenipotenziari di Parigi e Londra fu apertamente a favore di Atene. I confini richiesti per la Grecia da parte di questi ultimi si spostavano sempre più verso il Nord entrando nel territorio ottomano. Al primo rifiuto turco il primo ministro greco Trikoupis minacciò la mobilitazione dell’esercito greco2. Ma la spavalderia ellenica ebbe la sua battuta d’arresto dopo un cambiamento di ministero in Francia. Il nuovo ministro degli Esteri francese Barthélemy St-Hilaire, considerato a torto un filo-ellenico, iniziò ad adottare ai lavori della conferenza degli argomenti che il suo collega britannico non tardò a qualificare come filo turchi rispetto alla posizione ufficiale delle altre Potenze. In queste condizioni il compromesso finale diventò sempre più difficile da raggiungere. Bismarck cercò di convincere i Turchi a cedere Creta a fronte dell’Epiro – con una più consistente popolazione mussulmana - e vi riuscì. Il 14 del marzo 1881, dopo estenuanti mesi di trattative, Costantinopoli offriva in cambio del mantenimento dell’Epiro Creta stessa con alcune piccole isole del Egeo. Ma la politica ufficiale di Atene era quella di preferire un territorio della terraferma, per i quali comunque vi era da tener conto delle aspirazioni di altri Stati balcanici, all’enosis con Creta dove la stragrande maggioranza etnica ellenica era sicura. Presto o tardi questa strategia si rivelerà vincente per il futuro 1 2 Georges Castellan, Histoire des Balcans, Paris, Fayard, 1991 pag 354 William Miller, The Ottoman Empire and… cit. pag. 408 78 ingrandimento territoriale della Grecia. Ma era altrettanto chiaro che la richiesta greca di vedersi aggiudicare Preveza avrebbe spinto i Turchi ad usare la cesione della città come un casus belli. In un momento nel quale le Potenze erano pervase dalla volontà di pace, la Grecia militarmente non era preparata alla guerra contro l’Impero Ottomano ancora troppo forte per1. Finalmente il 24 di maggio arrivò il compromesso sotto diretta pressione occidentale. La convenzione firmata da ambo le parti prevedeva che la nuova linea di confine si sarebbe stabilita sulla linea Volos-Arta permettendo quindi al Regno ellenico di acquisire, a parte tutta la Tessalia, anche il distretto di Arta nell’Epiro del sud. Una frontiera non certo ideale: rispetto alla composizione etnica gran parte dei territori sicuramente non erano ellenici. Sebbene la città di Arta verrà consegnata alle autorità di Atene soltanto nel 1884, insieme a una bella fetta del debito pubblico ottomano relativamente a questi territori, probabilmente la soluzione rispecchiava soltanto un ennesima corsa delle Potenze europee a scrollarsi le responsabilità di un nuovo conflitto balcanico. Le occasioni infatti continuavano ad essere abbondanti e nondimeno vennero sfruttate. E’ il caso dell’isola di Creta sulla quale si era registrata la più totale indifferenza da parte dei partecipanti al Congresso di Berlino. L’isola era tornata sotto la piena sovranità ottomana (1840) dopo un intermezzo abbastanza tranquillo in cui era stata affidata al pascià d’Egitto Mohammed Alì. Dopo, vari atti di ribellione (1841, 1858, 1866-67), da parte della popolazione cristiana dell’isola2, e dopo varie richieste di interessamento da parte del governo di Atene, la questione di Creta aveva bussato alla porta delle Grandi Potenze. La revisione dei confini sicuramente non si poteva fare senza di loro e in 1 Ivi. pag. 409 Si calcola che nella metà del XIX secolo 1/3 della popolazione cretese fosse costituita da coloni di provenienza turca e abitanti dell’isola convertiti all’Islam. 2 79 questo caso la Francia appariva dubbiosa mentre l’Inghilterra continuava a sostenere il “Malato del Bosforo”1. Dopo il 1868 la Porta fece alcune promesse fra le quali l’attuazione dello Statuto Organico per l’isola che doveva dare una sorta di governamento costituzionale. Ma le riforme come l’esperienza notava, anche in questo caso procedettero lentissime. Nel 1890 il governatore di Creta rimaneva un mussulmano, mentre l’Assemblea consultiva mista a stento si riuniva. L’appoggio che poteva venire dalla madrepatria poteva essere soltanto verbale. Il cambio degli esecutivi fra conservatori e liberali ad Atene venne segnato da una pesante crisi finanziaria. Nel 1892, il governo conservatore di Theodoros Deliyannis, causa la conflittualità perenne con il re Giorgio I proprio a proposito della precaria situazione economica del Paese, indisse nuove elezioni. Vennero vinte dai liberali di Charilaos Trikoupis ma neanche questi riuscì a fermare i sovra costi della politica (eccessivi finanziamenti ai partiti) e la stagnante altissima corruzione dell’amministrazione pubblica. Non poteva che dichiarare, in un atmosfera sempre più offuscata dal pessimismo economico, la bancarotta dello Stato ellenico. I tentativi di accreditarsi finanziatori interni ed esteri vi furono ma essi sistematicamente fallirono. Il tentativo di istituzionalizzare un sistema impositivo altissimo dette anche il colpo di grazia a Trikoupis. Nel 1895 egli rassegnerà le dimissioni e quattro mesi più tardi le elezioni verranno vinte nuovamente da Delyannis. Nello stesso 1895, un gruppo di ufficiali di basso grado formò la cosiddetta Etniki Hetaria (Società degli Amici) col chiaro intento la realizzazione dell’enosis fra Grecia e Creta. Cercando di mettere subito i programmi in pratica, essa mandò nell’isola volontari surriscaldando gli animi dell’opinione pubblica. Costretta de facto dal clima effervescente, il governo conservatore Delyannis – sebbene proprio come Trikoupis 1 Georges Castellan Histoire des Balcans cit. pag.354 80 avesse appellato alla calma - intervenne mandando anch’esso il 3 febbraio 1897 10.000 truppe a Creta comandate dal primo aiutante del re1. Il risultato fu, almeno per la maggioranza degli osservatori, imprevedibile. Ad aprile la Sublime Porta contrattaccò richiedendo ed ottenendo la neutralità degli altri Stati balcanici. Già inizialmente sbandate, le truppe greche non ebbero sul campo la stessa fortuna che sulla stampa europea – verranno raggiunte anche da un gruppo di garibaldini in aiuto a pochi giorni di distanza. In meno di un mese infatti l’esercito ellenico comandato dal principe Costantino venne messo in ginocchio da un esercito ottomano ben preparato da consiglieri militari tedeschi2. Quest’avventura militare poteva finire con risultati peggiori se le pressioni delle Grandi Potenze – in primo piano Russia e Austro-Ungheria – intimorite, non avessero spinto verso la pace. Per sminuire la portata del successo militare turco le Potenze attuarono una quarantena navale intorno all’isola bloccando l’invio di altre truppe da parte del Sultano. Questo fatto mando le parti al tavolino, aiutando gli Ellenici alla firma del Trattato di pace (dicembre 1897) dove le condizioni imposte a loro non furono particolarmente punitive. Costantinopoli otteneva una modifica leggera del confine macedono-epirota, prendendo anche un risarcimento di 4 milioni di lire turche per i danni di guerra. Ma nello stesso tempo, il massacro di alcuni ufficiali britannici – e in particolare del viceconsole - a Creta, probabilmente da parte delle truppe del Sultano, spinse le Potenze a richiedere l’allontanamento dell’esercito ottomano dall’isola. Da quel momento, per proposta diretta europea, Creta verrà governata dal secondogenito del re, il principe Giorgio, in qualità di alto commissario3. Ovviamente il nuovo governatore promise il rispetto e la 1 Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw, History of Ottoman Empire and Modern Turkey, voll. II, cit. 2 Histoire de l’Empire Ottoman (sous le direction de Robert Mantran) cit. pag. 604 Georges Castellan, op.cit. pag 356 pag. 207 3 81 protezione della popolazione locale di fede islamica. Ma il fatto ch’egli avesse chiesto una milizia unicamente greca1 per far fronte ai problemi di ordine pubblico lasciava poco sperare in una pacifica convivenza fra cristiani e mussulmani. Un fatto che nel bene e nel male accorciò, e di molto, la via verso l’enosis. 4. La questione armena e l’impasse britannico “Non, il n’y a pas de question arménienne. Il y a une grande et redoutable question d’Orient, dont celle-là n’est qu’une de faces multiples”2. Così si esprimeva nelle pagine della Revue des Deux Mondes del 1° dicembre 1895 M. Francis de Pressensé, noto giornalista dell’epoca, ed in verità meglio non poteva dire. I problemi con la popolazione armena non furono mai questioni leggere per l’amministrazione locale e centrale ottomana e non tardarono ad allarmare tutta l’opinione pubblica europea. Dopo la guerra russo-turca e il Congresso di Berlino, la crisi legata alle riforme armene fu la più grave mai affrontata dalla diplomazia europea. Dal 1863 era stata garantita una “Costituzione armena” la quale stava alla base dell’Assemblea Nazionale Generale che, riunita biennalmente a Costantinopoli sotto la presidenza del Patriarca, istituiva una sede legislativa per gli affari religiosi e civili della popolazione armena sotto il Sultano. Ma il trasferimento di potere dalla Porta a favore del Palazzo non creò buone premesse affinché la decentralizzazione potesse funzionare realmente. Già al Congresso di Berlino, a discapito dell’insistenza turca di tenere da parte la questione, gli Armeni avevano presentato una petizione segreta, nella quale, rinunciando a tutti gli intenti politici, richiedevano per la loro patria un tipo d’autonomia modellata 1 2 Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw op.cit. pag 207 René Pinon L’Europe e l’Empire Ottoman cit. pag. 41 82 sull’esempio libanese, cioè con un governatore cristiano1. Al suo posto le dichiarazioni finali degli uomini politici europei si limitarono a vaghe promesse di maggiori riforme e sicurezza. Ciò che fece scaturire la crisi post-berlinese è in realtà legata ad un articolo (quello nr. 61) del Congresso, il quale recita: La Sublime Porte s’engage à réaliser, sans plus de retard, les améliorations et les reformes qu’exigent les besoins locaux dans les provinces habituées par les Arméniens, et à garantir leur sécurité contre les Circassiens et les Kurdes. Elle donnera connaissance périodiquement des mesures prises à cet effet aux Puissances, qui en surveilleront l’application2 Dopo il 1878 l’attuazione di tali riforme tanto proclamate diventano la questione più difficile da risolvere per lo status-quo dell’integrità turca. Intorno a questa vicenda lo Stato di Hamid II si trova proprio nel bel mezzo delle divergenze fra Londra e Pietroburgo. La fervente propaganda della stampa zarista a favore delle richieste d’autodeterminazione armena non era vista senza preoccupazione dalle istanze governative britanniche. La diplomazia di sua Maestà temeva l’uso politico che l’Impero Russo poteva fare della sopracitata questione. Come abbiamo spiegato anche in precedenza, la spinta militare russa verso i territori caucasici veniva sempre più percepita come una minaccia incombente sulle Indie britanniche. Dalla guerra di Crimea attraverso finanziamenti e commerci, il Gabinetto di Londra aveva sempre cercato di fare dell’Armenia una cliente inglese. Ad ogni tentativo francese di esercitare il 1 2 William Miller The Ottoman Empire and it’s Successors 1801-1927 cit. pag 428 Rene Pinon op. cit. pag 42 83 protettorato sui cattolici maroniti in Libano, l’Inghilterra rispondeva col suo protettorato ambito in Armenia. In più, in chiave nettamente anti-turca, le mosse del governo inglese seguivano anche un orientamento simpatizzante a favore degli Armeni da parte dell’opinione pubblica nel Regno Unito. Una via di mezzo venne trovata con la convenzione di Cipro (1879). Firmata da plenipotenziari inglesi e turchi, questo patto rendeva ufficiale l’impegno britannico nei confronti degli Armeni a favore delle riforme politico-amministrative. Infatti, nel 1879-1880 il governo londinese mandò, ovviamente con la piena contrarietà russa, consoli militari nelle zone abitate dalla popolazione armena. Inoltre per l’ennesima e forse l’ultima volta l’Inghilterra si prefissava ufficialmente l’impegno di difendere l’Anatolia Orientale contro ogni tipo di aggressione esterna1. Ma era, come è ben chiaro, anche una forma di protezione barattata, stavolta più esplicitamente che mai, con la difesa degli interessi di Londra. Volendo ottenere il favore degli Armeni, allo scopo di allontanare l’influenza russa dalle loro vicende politiche, la Gran Bretagna si prestava ad insistere di più per le riforme in quelle zone. Senza ovviamente mettere a repentaglio l’integrità ottomana in una questione dove questo rischio realmente c’era. Per ‘Abdül Hamid infatti l’Armenia fu l’ennesimo problema su almeno due fronti. Innanzitutto è un problema di radice nazionale e, come i vari problemi con le tendenze nazionalistiche nei Balcani insegnavano, andava troncato già dall’inizio. L’attività rivoluzionaria bulgara da sempre costituiva un esempio politico per i militanti indipendentisti Armeni. D’altro canto, la questione armena rimaneva anche un problema territoriale, soprattutto in un contesto dove l’Impero, appena uscito da enormi perdite nei Balcani, non aveva per niente intenzione di far ripetere gli stessi fallimenti nell’Anatolia Orientale, più contigua territorialmente alla Turchia. 1 Histoire de l’Empire Ottoman cit. pag 604 84 I disordini del biennio 1894-1896 iniziarono con alcuni scontri abbastanza violenti fra Curdi e Armeni. Sotto l’egida della restaurazione dell’ordine pubblico le autorità centrali intervennero mandando truppe turche a fianco dei Curdi. Il loro comandante Zekki pascià creò in poche settimane un vero e proprio stato di terrore nel distretto di Sausun bruciando 24 villaggi e massacrando nel più crudele dei modi la popolazione locale. Vani furono i tentativi di Francia, Russia e Gran Bretagna di pretendere la testa dei responsabili intanto che Zekki Pascià veniva decorato a Costantinopoli. La commissione d’indagine istituita dalle Potenze non portò a nulla e lo stesso risultato dettero anche i vari meeting dimostrativi organizzati a Londra o Parigi. La risposta venne il 30 settembre 1895 quando una manifestazione degli Armeni a Costantinopoli fini in un bagno di sangue nella capitale e a Trebisonda1. Ma era soltanto l’inizio! Mentre gli ambasciatori europei si apprestavano a preparare una bozza delle possibili riforme da presentare al Sultano una cruenta serie di grandi massacri prese piede in Asia Minore. Nei mesi di ottobre e novembre ogni parte dell’Impero fu bagnata da sangue armeno, a causa delle uccisioni di massa ad opera di un ufficiale del Sultano dal nome Shakir pascià. L’ambasciatore britannico all’epoca scriveva ai suoi superiori una stima approssimativa delle morti registrate in quelle sei settimane la quale si aggirava intorno nella cifra di 30.000 persone. Questa specie di notte di San Bartolomeo turco tuttavia continuò. Azioni punitive nelle varie città e soprattutto a Costantinopoli nel quartiere armeno furono all’ordine del giorno, fino ai giorni 27-28 agosto 1896 quando nella sola capitale perirono più di 6000 Armeni2 1 2 William Miller Ottoman empire and… cit. pag. 429 Ivi. pag. 430 85 L’Europa tuttavia, se escludiamo sporadiche voci di dissenso, mai non intervenne. Neanche colui che aveva assunto il ruolo di simpatizzante ufficiale di qualsiasi movimento di autodeterminazione cristiana all’interno dell’Impero Ottomano, William Gladstone, non fece neanche il minimo tentativo per trascinare le Potenze in un’azione collettiva. Si limitò ad una memorabile filippica nella quale, accostando i massacri armeni agli orrori bulgari, appellava ‘Abdül Hamid come il “Grande Assassino”1. L’Inghilterra di Salisbury (succeduto nel 1895 a Lord Kimberly nel ruolo di Segretario agli Esteri) del resto non poteva in tali condizioni agire da sola. Sebbene delle minacce furono fatte (“c’è un centro di corruzione e malattia e la sua decomposizione rischia di prendere anche la parte sana della società europea…il tempo di usare la forza ancora non è finito2) soldi, condizioni e altri ben più importanti impegni imperiali non permettevano certo al premier conservatore – come lui stesso ironicamente affermava – di mandare la Royal Navy sul monte Ararat3. D’altra parte la Russia nella sua parte paternalistica, perseguitava gli Armeni sul proprio territorio osteggiando in primis l’ispirazione socialista che era nell’indole del movimento indipendentistico armeno. Cinicamente l’ambasciatore russo Lobanov dichiarò che il suo Paese non avrebbe, data l’esperienza negativa in Europa, creato un'altra Bulgaria in Asia Minore. L’unica opzione rimaneva la Francia, che ospitava una ben consolidata ed attiva diaspora armena. Ma anche il governo di Parigi rimase un’opzione troppo blanda sebbene l’ira contro il “Sultano rosso” abbondava in ogni giornale francese. Alleato strategico dei Russi davanti all’acuirsi dei rapporti con Germania ed Impero Asburgico, rimaneva in più il primo creditore mondiale di Costantinopoli. La Francia sarà la Nazione che accosterà di più il dovere delle riforme da parte del governo turco alla 1 Ivi. pag. 431 René Pinon L’Europe e l’Empire Ottoman… cit. pag. 46 3 Histoire de l’Empire Ottoman cit. pag. 605 2 86 necessità dell’integrità ottomana. In una nota del dicembre 1896 Parigi condannava come impresa avventuristica ogni politica che agisce isolata verso l’Impero Ottomano1. Dopo quell’anno la Francia ritirerà anche quell’appoggio che inizialmente aveva dato alle voci di riforma che venivano dalla sua diaspora armena2. Tuttavia la mancanza di attivismo politico a favore della questione armena trova una spiegazione anche nella divisione che esisteva fra gli stessi militanti armeni. Sebbene le somiglianze con i movimenti balcanici fossero evidenti, presso gli Armeni mancava un riferimento politico ben preciso. Greci, Serbi, Bulgari, Kutzo-Valacchi nella spinta verso le loro richieste irredentistiche avevano pur sempre un appoggio più o meno esplicito da parte di Atene, Belgrado, Sofia o Bucarest. Nel caso armeno la mancanza di uno Stato indipendente in funzione delle loro richieste radicali o meno, era sentita molto. A maggior ragione perché le divisioni interne tra le varie organizzazioni di stampo nazionalistico erano soltanto un corollario alla loro divisione territoriale fra Russia, Turchia e Persia. Gli Armeni erano uniti nel sentiero ideologico – tutti professavano più o meno l’indipendenza come obiettivo finale - ma molto divisi nelle leadership e nelle clientele. Fra il 1902 e il 1907 molte società patriottiche armene, non trovando un miglior modo organizzativo, finiranno per appoggiare e, dopo, confluire nel movimento dei Giovani Turchi. 1 2 René Pinon op. cit. pag. 51 Histoire de l’Empire Ottoman cit. pag. 605 87 88 Capitolo III Da Londra a Berlino: le retrovie del nuovo asse turcotedesca (1898-1908) 1. L’entrata in scena della Germania: la visita di Guglielmo II a Costantinopoli Il II Reich tedesco nei due capitoli precedenti è stato trattato in misura marginale. La ragione più ovvia resta quella legata agli orientamenti principali sulla scena internazionale da parte della politica bismarchiana. Il Cancelliere di Ferro aveva ricostruito la mappa dell’Europa facendo del concetto di forza – e del suo derivato militare – il cardine della sua politica d’equilibrio fra le Potenze. Lo scopo raggiunto – l’unificazione della Germania venne sancita nel 1870 – richiedeva il necessario impegno per la sua preservazione. Negli anni della sua iniziazione politica (anni’50), Bismarck aveva sostenuto una politica isolazionista per la Prussia. Allontanandosi da tutti i battibecchi europei, aveva potuto dar mano libera alla sua politica di scegliere l’alleato più favorevole e necessariamente fargli guerra se l’interesse nazionale lo richiedeva. In questo modo si mettevano da parte amicizie permanenti, le quali potevano soltanto bloccare la libertà d’iniziativa del suo Paese. Dopo il 1870, tentando di consolidare l’unificazione tedesca, Bismarck cercò di ritornare sui passi della tradizionale alleanza con Austria e Russia. Il motivo che lo spinse fu sicuramente la situazione senza precedenti creatasi durante gli anni ’70 89 nell’equilibrio europeo. La Germania era diventata troppo forte per restare isolata anche perché il resto dell’Europa, sentendosi minacciato, poteva riunirsi militarmente contro essa. Era diventata un gigante che aveva bisogno di amici. Il Cancelliere tentò in questo modo di capovolgere completamente il suo operato in politica estera. Abbandonando la libertà di manovra, il nuovo modus vivendi et operandi della Germania divenne la costruzione di una serie di alleanze fini e complesse per poter così evitare sia potenziali coalizioni anti-tedesche, sia spinte imperialistiche dei suoi partner, pericolose per l’equilibrio europeo e, dunque, per la stessa Germania 1. In qualsiasi alleanza, spesso contraddittoria l’una con l’altra, la Germania era quasi sempre più vicina ai suoi vari componenti di quanto questi fossero l’uno con l’altro. Spesso tale schema complicato è stato criticato in quanto settecentesco nel momento che la diplomazia europea sosteneva tutt’altro modo di mantenere l’equilibrio di forze. Tuttavia Bismarck riuscì a costruire un numero di alleanze le quali in parte cooperavano, in parte concorrevano ad assicurare l’Austria da un attacco russo, la Russia da un’avventura austriaca, la Germania dallo stare sola e a contenere le mire dello Zar nel Mediterraneo con l’aiuto della Gran Bretagna. Calcoli infiniti e sottili ma che risultarono esatti per tutta la durata della carriera bismarchiana. Francia e Inghilterra invece, fuori dal sistema bismarchiano, fino all’incidente di Fashoda, per poco non si scontrarono sull’Egitto. Parigi raffreddò i suoi rapporti con Roma, in seguito alla conquista di Tunisi, e Londra continuava a frenare la Russia nella suo espansionismo verso gli Stretti. In sé, la realpolitik di Bismarck riuscì a contenere anche le stesse ambizioni tedesche che avrebbero potuto minare l’unità della Germania e la pace del Continente. Il capo del governo di Berlino infatti, finché poté, 1 Sommariamente queste alleanze le abbiamo citate anche in precedenza. Il loro nucleo era costituito dai tre trattati più importanti: la Lega dei Tre Imperatori (Germania, Austria-Ungheria, Russia 1881), la Triplice Alleanza (Germania, Austria-Ungheria, Italia 1882) e il Trattato di Controassicurazione con la Russia del 1887. 90 posticipò gli appetiti coloniali tedeschi fino alla metà degli anni ‘80 evitando lo scontro con l’imperialismo britannico, e circoscrivendo in Europa la politica estera tedesca in funzione del mantenimento dello status-quo. Alla fine il modello che Bismarck immaginò per ricostruire la mappa dell’Europa ebbe pienamente successo nel modello vigente delle relazioni internazionali, ma non si dimostrò tanto pratico da venire applicato a pieno dai suoi successori. Quando la novità tattica della politica bismarckiana venne ad esaurirsi, si vide anche la sua incapacità di istituzionalizzarsi. I suoi discepoli e concorrenti prestavano attenzione più alle guerre che il Cancelliere di ferro aveva fatto per ottenere la supremazia tedesca sull’Europa, che ai minuziosi preparativi che tale opera richiedeva. Tutto cambia, infatti, quando il sipario cade sull’uomo che più di chiunque altro aveva contribuito al processo d’unificazione della patria tedesca. L’incoronazione a Kaiser di Guglielmo II, sia per volontà dell’imperatore medesimo, sia per una certa tendenza di respiro antibismarchiano dentro gli stessi elementi della corte, completò il definitivo strappo con la precedente politica estera. Preparandosi ad esautorare Bismarck, alla fine degli anni ’80, l’entourage politica tedesca inneggiava alle manifestazioni della forza, senza tuttavia percepire l’analisi profonda nella quale essa si basava1. Va da sé che tale atteggiamento si traducesse in un antagonismo totale rispetto all’idea bismarckiana di astenersi, quando l’obbiettivo nazionale viene raggiunto, dall’usare la forza. Come spesso si diceva nelle loro dichiarazioni più altisonanti, per gli uomini di Stato tedeschi, la Germania doveva essere il martello della diplomazia europea e non la sua incudine2. In questo senso, alla guida dell’Impero Tedesco, i 1 2 Henry Kissinger, Diplomacy, New York, 1994 pag 135 Ivi. pag 170 91 successori di Bismarck, affascinati da una emozionante espansione della potenza tedesca, combinarono la forza con l’indecisione, portando il loro Paese prima all’isolamento, poi alla guerra. L’artefice di queste scelte, l’imperatore Guglielmo II1, era una personalità ossessionata dalla volontà di dimostrare l’importanza della supremazia tedesca. Cercando di costituire una nuova teoria dello Stato, i suoi ideologi sancirono la nascita della Weltpolitik (alla lettera: politica globale), senza mai chiarire il significato esatto del termine e la sua corrispondenza con gli interessi nazionali della Germania. Piena di slogan e con un vuoto intellettuale indelebile, quest’ideologia non solo stravolse gli schemi bismarckiani ma cambio anche la mappa geopolitica delle alleanze. A discapito delle sue complicatissime manovre, il Cancelliere di Ferro non aveva mai toccato l’assunto principale della diplomazia ottocentesca: il tradizionale equilibrio di forza, emblema non solo della concertazione viennese ma in generale della pace europea. Il nuovo Kaiser invece era più che insoddisfatto di queste condizioni, senza riuscire a comprendere che la crescita della militarizzazione tedesca andava di pari passo con l’incoraggiamento di coalizioni antitedesche. Infatti ancora nel 1898, Francia e Regno Unito erano ai ferri corti riguardo all’Egitto mentre l’inimicizia fra Inglesi e Russi in 1 Guglielmo II di Prussia e Germania (1859 - 1941) ultimo imperatore tedesco (Kaiser) e ultimo re (König) di Prussia dal 1888 al 1918. Il suo regno fu contraddistinto dalla spinta militaristica tesa ad affermare il potere tedesco. Cercò di espandere i possedimenti coloniali tedeschi, "un posto al sole". Con il Piano Tirpitz, attraverso le leggi navali del 1897 e 1900, la Marina Tedesca venne rafforzata fino a rivaleggiare con quella del Regno Unito. La sua personalità e le sue politiche oscillarono tra l'antagonizzare e il compiacere Regno Unito, Francia e Russia. Dimise Otto von Bismarck nel 1890 e abbandonò le attente politiche del Cancelliere, sostituendolo con Leo Graf von Caprivi, che a sua volta fu sostituito dal principe Hohenlohe-Schillingsfurst nel 1894. A quest'ultimo successe il principe Von Bülow nel 1900 e Bethmann-Hollweg nel 1909. Tutti questi Cancellieri erano funzionari civili anziani e non politici come Bismarck. Guglielmo voleva impedire il sorgere di un altro Bismarck. Nonostante il suo atteggiamento è difficile dire se cercò la prima guerra mondiale, anche se fece ben poco per impedirla. Si era alleato con l'Austria-Ungheria ed incoraggiò la sua linea dura nei Balcani. Durante la guerra fu Comandante in Capo ma perse rapidamente il controllo di tutta la politica tedesca e la sua popolarità precipitò. Come risultato dell'esplosione della Rivoluzione tedesca, l'abdicazione del Kaiser venne annunciata da Max von Baden il 9 novembre 1918. 92 Asia continuava a dare ossigeno al morente Impero Ottomano. Nessuno in quell’epoca avrebbe mai immaginato un’alleanza fra Londra, Parigi e Pietroburgo, ispiratrice diretta della quale non poteva che essere a contrario quella diplomazia tedesca che a dieci anni dall’allontanamento di Bismarck (1890) era diventata così testarda e minacciosa1. La visita di Guglielmo II a Costantinopoli (ottobre 1898) avvenne quando i tentativi di ricerca di un nuovo alleato da parte di ‘Abdül Hamid erano diventati di dominio pubblico2. Era abbastanza chiaro, perfino a Londra, che il Sultano stava cercando di sostituire il vecchio, ma ormai consumato, alleato a favore di uno nuovo. Dopo i fatti d’Armenia, saltare da una diatriba all’altra fra i vari interessi occidentali dentro l’Impero era diventato impossibile. Negli anni ‘90 del XIX secolo diveniva chiara la volontà di polarizzazione in Europa. Fra un’alleanza sempre più stretta francorussa e un definitivo accordo austro-tedesco, Costantinopoli non poteva più governare la propria economia e pianificare l’avvenire del suo Impero semplicemente restando in mezzo agli antagonismi europei. I tempi parevano abbastanza maturi per una scelta definitiva essendo che lo ”splendido isolamento” (termine coniato da Salisbury) spingeva sempre l’Inghilterra fuori dai confini europei distogliendo la sua attenzione dall’Impero Ottomano. Sebbene la diplomazia ufficiale del terzo Marchese di Salisbury continuasse ad essere tradizionalmente solidale con quella dei suoi predecessori, era chiaramente visibile che gli impegni principali dell’Impero britannico erano altrove (Egitto, Sudan, Sud Africa ecc.). Dall’altra parte, la Russia, dopo il completamento 1 Va aggiunto che Bismarck nel suo testamento politico più volte raccomandò di non combattere mai su due fronti: cioè contro Francia e Russia contemporaneamente. Tale monito ben due volte ( nella Prima e nella Seconda Guerra mondiale) venne dimenticato dai suoi successori. L’elemento più importante della sua visione storico-politica è stato il capire lo schema seicentesco posto a fondamento della dominazione francese nel Continente (mantenere, secondo Richelieu, un’Europa centrale perennemente disunita) e di conseguenza realizzare l’inverso a favore della Germania (unire sotto Berlino l’Europa centrale ed isolare quindi la Francia). 2 Era la seconda visita che il Kaiser tedesco faceva a Costantinopoli. La prima venne svolta nel 1889 quando ancora non vi era stata una definizione ufficiale della nuova politica estera tedesca. 93 della Transiberiana, rivolgeva il suo sguardo verso l’Estremo Oriente. La normalizzazione dei rapporti col tradizionale nemico settentrionale durante gli ultimi anni dello Zar Alessandro III e i primi del regno di Nicola II, spingesse i policy makers di Costantinopoli a guardare con più interesse alla Germania. Questa, aveva appena iniziato a dare uno sguardo fuori dall’Europa col suo principio di “pacifica presenza” in Africa, e nel Vicino e Estremo Oriente. Rinchiuso nei suoi schemi, Bismarck non aveva programmato nessun piano di alleanza con la Turchia. Sicuro dell’idea che le alleanze storicamente servivano ad un Paese per accrescere la sua sicurezza, l’architetto dell’unità tedesca era troppo pessimista riguardo all’utilità di un asse Costantinopoli Berlino. Quindi a parte piccole missioni di ufficiali militari tedeschi, come quella del 1882, Bismarck durante tutto il suo operato diplomatico guardò con indifferenza all’Impero Ottomano. Non fu così per gli investimenti tedeschi in terra ottomana. I capitali di provenienza dalla Germania erano sicuramente inferiori a quelli che venivano dalla Francia ma comunque raggiungevano un non modesto 23,2% all’epoca della visita del 94 Kaiser a Costantinopoli. 25,00% 20,00% 15,00% presenza tedesca DP 10,00% 5,00% 0,00% 1881 1898 1914 Banca Ottomana, Deutche Bank e Debito Pubblico rappresentano nell’ultimo periodo di vita della Turchia Ottomana il trio al vertice dell’establishment economico di Costantinopoli. I dati succitati indicano che la presenza del capitale tedesco nell’Amministrazione del Debito Pubblico ottomano era in crescita1. Le considerazioni sulla crescente preponderanza tedesca nell’economia ottomana ovviamente non vanno esagerate. L’importanza di Berlino continuava ad essere inferiore al peso della Francia 1 Histoire de l’Empire Ottoman (sous la direction de Robert Mantran) cit. pag. 607 95 nei capitali investiti e al peso della Gran Bretagna sul piano commerciale. Dall’altro lato è impossibile non notare un elemento sorprendente a riguardo della penetrazione tedesca: la sua rapidità. Infatti, fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, il più visibile, ma anche più controverso, segno della pénétration pacifique rimane l’enorme investimento di Berlino a favore delle strade ferrate nell’Impero Ottomano. Ovviamente, la costruzione che attirò più attenzione fu la ferrovia Costantinopoli-Baghdad, già concordata durante la visite del Kaiser, ma neanche prima di essa i Tedeschi erano rimasti indifferenti a questo settore cresciente in Asia occidentale. Durante gli anni ’90, un azienda tedesca (la Société du Chemin de Fer Ottoman d’Anatolie) completò due collegamenti ferroviari tra il Bosforo, Angora e Konya. Inoltre piccoli tratti, sempre costruiti dalla sopracitata azienda, che raggiungevano Adana, Mosul e Bassora costituiranno la premessa per la quale, gli stessi finanziatori di prima, premeranno per costruire la ferrovia del secolo1. Fino al 1890, la società era stata gestita tramite la comunanza anche di capitali inglesi i quali però vennero venduti ai Tedeschi. L’esclusività di tali azioni rivelava più che mai l’infiltrazione tedesca in zone che da sempre venivano considerate strategiche dal governo di Londra. Stavolta gli interessi non si intrecciavano soltanto nella capitale turca, ma anche in zone dove fin’allora la presenza inglese era stata indiscussa2. A Costantinopoli inoltre, il Reich veniva rappresentato doppiamente, da un’ambasciata e un ufficio consolare. Le personalità di Stato tedesche che vennero mandate vicino al Sultano erano veramente tante, ma più di tutti spicca il nome del 1 Ulrich Trumpener, Germany and the End of the Ottoman Empire in The Great Powers and the Ottoman Empire (edited by Marian Kent), George Allen & Unwin, London, 1984, pag. 118 2 C.J.Lowe – M.L. Dockrill, The mirage of power. British Foreign Policy 1902-1914, Routledge & Kegan Paul, London, 1972, pagg. 3-4 96 barone Adolf Marschall von Bieberstein (ambasciatore tedesco fino al 1912). Questo giurista di origine bavarese, ex segretario della Auswartige Amt (Ufficio Estero) dopo Bismarck, in poco tempo trasformerà la sua posizione sul Bosforo nel più importante avamposto mediorientale del II Reich. In sé, dai suoi contemporanei, venne visto come il vero architetto dell’alleanza turco-tedesca1 La Germania infatti, a partire dal 1899, iniziò ad avere il pieno monopolio soprattutto sugli armamenti della Turchia. Già a partire dagli anni ’80 il produttore maggiore d’artiglieria tedesca, la Krupp di Essen, mandò migliaia di armi leggere e pesanti alle truppe del Sultano, quasi sempre coadiuvato dagli ufficiali tedeschi presenti in Turchia. Il suggerimento tedesco di rafforzare un esercito più “continentale” che “marittimo” venne accettato in pieno dai Turchi. Infatti, fino all’entrata della Turchia nella Grande Guerra il ruolo tedesco nella Marina ottomana rimane meramente marginale. Le ragioni politiche non furono d’altronde estranee a questo affidamento tempestivo alla Germania: l’idea di lasciare Londra per Berlino era venuta formandosi nella mente di ‘Abdül Hamid II da quando l’interessamento tedesco per i settori dell’esercito e della ferrovia era diventato palese. Tuttavia la mancanza di altre ragionevoli alternative alla chiusura dei mercati di armamenti che francesi e inglesi stavano facendo ai turchi non fece che accelerare tale scelta. Qualche prova pratica del resto già c’era stata. Tra il 1883 e il 1896 il generale tedesco Colmar von der Clotz venne incaricato dal Sultano ad intraprendere la ricostruzione dell’esercito ottomano2. Tale operazione contemplò anche l’invio di vari futuri alti ufficiali ottomani a seguire programmi d’addestramento in Germania. Non poco si è scritto riguardo all’influenza tedesca che avrebbero subito le stelle nascenti dei Giovani Turchi che proprio in quei 1 2 Ulrich Trumpener, op.cit., pag. 113 Histoire de l’Empire Ottoman… cit. pag. 607 97 quadri dell’esercito ottomano formatisi in Germania trovarono esponenti e teorici i quali formularono i primi slogan organizzativi. Oltre ad Enver pascià, primo fra tutti a stringere rapporti con i quadri tedeschi, vanno menzionati Ahmed Izzet pascià (ministro della Guerra nel 1913-14), Mahmud Sevket pascià (Gran Vizir nel 1913) e altri giovani ufficiali che faranno dell’ispirazione prussiana la loro anima guida nella nuova Turchia1. Abbiamo già accennato al fatto che la presenza di consiglieri tedeschi nelle file dell’esercito imperiale fu determinante per la vittoria contro i Greci nel 1897 – anche se tecnicamente l’esercito greco non era in grado di intimidire nessuno. Quella occasione del resto mostrò il risultato positivo che si poteva ottenere affidandosi militarmente ai tedeschi e, al contrario, l’esito negativo che comportò l’affidamento alla diplomazia degli ex-amici inglesi durante i colloqui di pace. Come anche sopra abbiamo detto, la Grecia perse la guerra, ma sicuramente “vinse la pace”, dato che le condizioni imposte al governo d’Atene furono tutt’altro che restrittive. Se Creta, casus belli del conflitto, appariva dopo il trattato di pace più lontana che mai dal controllo dell’Impero Ottomano, il “merito” non poteva che essere dell’ennesima sottomissione alle direttive inglesi. L’evidenza di tale fatto rendeva giustizia al tentativo hamidiano di accattivarsi un altro alleato. Sicuramente non sarebbe stata un’azione di successo scontato. Considerando diritti ed interessi che le altre Potenze avevano nell’Impero, spesso la politica turca di Guglielmo II è stata criticata ferocemente. Uno storico inglese, notoriamente antiimperialista, Gottlieb, ha affermato che mentre le Potenze della Intesa “were each tugging at the best portions of the Empire from outside”, i Tedeschi dal canto loro “endevouring to hold it together by capturing the whole from within”2. Questa 1 2 Ulrich Trumpener, op.cit. pag. 116 W. W. Gottlieb, Studies in secret diplomacy during the First World War, London, 1957, pag. 32 98 affermazione, contiene reali verità ma anche un pizzico di esagerazione. Mettersi contro le altre Potenze, con la speranza di poter far rivivere l’Impero turco, per poi assicurarlo come fedele alleato del Reich, fu sicuramente un grossolano errore da parte di Guglielmo II. Tuttavia non è ancora chiaro se l’affidamento e la protezione che lui offri in molte sedi internazionali al regime di Hamid fosse una sua precisa politica nei confronti di Costantinopoli, oppure se tale scelta di campo fosse frutto di mutate relazioni con le altre Potenze. Rimane sicuramente il fatto che dalla metà degli anni ’90 al 1908 le relazioni fra Berlino e Costantinopoli furono amichevoli e in alcuni casi veramente cordiali. Tuttavia non si possono nascondere anche i vari ripensamenti che il Kaiser ebbe a proposito del Sultano. Ciò sembra ancora più chiaro dai vari tentennamenti che si ebbero nella questione della ferrovia di Baghdad. 2. L’intermezzo della ferrovia che divide Al di là delle controversie e delle normali interazioni fra le Potenze, la storica visita di Guglielmo II del 1898 a Costantinopoli delineò, almeno in linea di principio, la costruzione di una ferrovia di ampia lunghezza nel territorio ottomano. Nel dettaglio, il collegamento via treno che avrebbe dovuto collegare la parte asiatica dell’Impero – agli albori del secolo tecnologico la Turchia aveva un estensione soprattutto asiatica – con quello che ne rimaneva nel continente europeo, costituiva il progetto più ambito dalla classe politica di Costantinopoli. Il grande affaire della nuova amicizia turco-tedesca consisteva proprio in questo. Sebbene un vecchio piano già esistesse, il finanziamento estero costituiva la questione più problematica per la Sublime Porta; soprattutto dopo la 99 costruzione della ferrovia Damasco-Hidjaz che aveva nettamente ridotto il budget imperiale. Il ruolo principale nella nuova progettazione ferroviaria doveva venir giocato dalla Deutche Bank, interessata dal 1888 a simili appalti. La diffidenza politica verso gli Inglesi presto si tradusse in controversia aperta riguardo al nuovo progetto che doveva collegare Costantinopoli a Baghdad. Hamid non vedeva di certo di buon occhio l’offerta londinese di costruire la ferrovia, anche perché in questo modo avrebbe opportunisticamente usato tale progetto per poter sorvegliare meglio i suoi interessi dall’India all’Egitto. Volendo distaccarsi dall’Impero britannico, il Sultano preferiva decisamente ridurre e non aumentare gli interessi inglesi sul suo territorio. Lo stesso ragionamento valeva anche per la Francia: Parigi stava dimostrando grande interessamento, ai limiti dell’interferenza politica, per le zone della Siria e del Libano. Darle in mano il controllo sulla costruzione di una ferrovia tanto cruciale, significava assecondare de iure le sue ambizioni. La Germania, almeno nella testa del Padiscià, prometteva più soldi e meno vincoli, sebbene il legame fra questi fattori fosse enorme. Sicuramente l’establishment hamidiano sapeva questa cosa ma il fatto che già nel 1888 i Tedeschi avessero ottenuto in concessione e quindi costruito il tratto ferroviario Izmit-Ankara, creava maggiore e reciproca accondiscendenza fra Berlino e Costantinopoli1. Nella cerchia del Sultano, da tempo, c’era chi, come Damad Mahmud pascià o Sa’id pascià che apertamente sostenevano l’offerta di Londra, ma, e non solo in quella occasione, il veto di Hamid fu irrevocabile. Del resto, e l’abbiamo sottolineato anche prima, l’arrivo di Guglielmo nella capitale turca non fece che ufficializzare il cambiamento di rotta che il Sultano già pianificava. L’abbandono dell’Inghilterra per la Germania con la ferrovia di Baghdad diventò così un fatto esplicitamente ammesso. 1 Histoire de l’Empire Ottoman (sous la direction de Robert Mantran) cit. pag 608 100 Non fu tuttavia un’impresa facile neanche per i Tedeschi stessi. Un vecchio detto turco recita che il pesce marcio inizia a puzzare dalla testa. Infatti ben presto problemi d’ogni genere con i finanziamenti di Berlino vennero a galla. Una linea d’espresso che collegava Berlino con Costantinopoli (via Vienna) già esisteva e i banchieri tedeschi avevano in mente, almeno all’inizio, il solo prolungamento fino ad Ankara. In un certo senso furono costretti dalle insistenze del Kaiser ad andare più là, spingendo la tratta fino a Baghdad1. Finché la linea non oltrepassò l’Anatolia problemi fra i vari interessi non vi furono, tranne piccoli screzi con la Russia riguardo ai privilegi che quest’ultima godeva in Armenia e Iran. Però, già un anno dopo la partenza dei lavori, nel 1899, le concessioni fatte crearono molti attriti fra le Potenze. La costruzione della ferrovia metteva in gioco zone di enorme interesse economico e strategico. Naturalmente, il più ambito rimaneva il Golfo Persico, vero cumulo di interessi e influenze fra le varie capitali europee. Inoltre, se tali discordie contribuirono al rallentamento dei lavori, appena i soldi iniziarono a mancare, Berlino fermò subito la costruzione della Baghdad Express. La compagnia che si occupava della costruzione, in apparente contraddizione con la sua iniziale condotta, iniziò a richiedere l’assistenza di capitali anglo-francesi. Nel 1902 l’offerta che venne fatta agli investitori inglesi venne accettata, ma solo in linea di massima. Il Segretario agli Esteri Lansdowne infatti, sebbene fosse convinto dell’importanza strategica della ferrovia, era sicuro che l’opinione pubblica non avrebbe accolto con entusiasmo l’implicazione economica di Londra nello stesso affaire di Berlino2. Egli giustificò i negoziati anglo-tedeschi con il fatto che l’Inghilterra non poteva lasciar completare la linea senza prendere in mano almeno la parte ferroviaria 1 2 Niall Ferguson Empire. How Britain made the modern world cit. pag. 302 C.J. Lowe – M.L. Dockrill The mirage of power. British Foreign Policy. 1902-1914, cit., pag. 4 101 intorno al Golfo Persico. Controllare tutta la Mesopotamia tramite una via ferrata, dichiarava Lansdowne, voleva dire accrescere i benefici del commercio inglese in zona, favorendo anche il miglioramento dei rapporti fra Berlino e Londra. Niente venne alla galla però, in conseguenza anche dell’ostruzionismo parlamentare e dell’arrendevolezza del ministro inglese, il quale in non poche occasioni ammise che “I am afraid that in the long run our attitude will be hard to explain”1 i suoi piani diplomatici. Gli unici risultati che produsse questo tentativo di riavvicinamento delle posizioni fra Germania e Inghilterra furono le dichiarazioni di Lansdowne davanti alla Camera dei Lord. Egli avrebbe visto ogni “establishment of a naval base or a fortified port in the Persian Gulf as a very grave menace to our interests”2. Questo ovviamente non poteva giovare ad un possibile accordo fra Londra e Berlino. Posizioni politicamente antagonistiche una con l’altra ben presto fecero le loro apparizioni anche nella scena interna turca. Le controversie erano tante e la divisione in due campi contrapposti non serviva certo a rimuovere le difficoltà. Da un lato, il fronte dei banchieri non si fece scrupoli nella richiesta di far intervenire le altre Potenze sebbene questo non giovasse alla causa politica; in questo modo il fine lucrativo che la ferrovia nascondeva risaltò davanti agli occhi di tutti. Dall’altro, i politici, con Hamid in testa, avevano il sospetto che far mostrare al pubblico l’insufficienza dei finanziamenti tedeschi potesse contribuire al fallimento dell’intero piano. Ciò sarebbe stato sia un costo in termini economici che un primo smacco alla nuova alleanza turco-tedesca, nella quale Hamid tanto sperava. Il compromesso non tardò tuttavia ad essere realizzato. Intorno alla ferrovia Costantinopoli-Baghdad c’erano enormi interessi e così tante opportunità di guadagno 1 2 Ibidem. Ivi, pag. 4 102 che le Potenze ben presto abbassarono reciprocamente guardia. L’accordo venne nel 1903 fra la Deutsche Bank e la Banca Ottomana – la costituzione della quale era stata opera di capitali soprattutto francesi. In base ad esso – e gli Inglesi non furono estranei – il 30% dei capitali investiti nella costruzione della ferrovia dovevano essere francesi. A ciò, i governanti di Parigi aggiunsero un altra escamotage: non permisero alla società tedesca che si occupava della Baghdad Express di venir quotata con i propri titoli nella borsa della capitale francese. Questo atto in teoria serviva a contenere i crescenti guadagni che i Tedeschi, in quanto maggiori azionisti nella compagnia di costruzione, altrimenti avrebbero ottenuto. Infatti si temeva che l’autorizzazione allo sfruttamento del territorio da parte di Berlino avrebbe apportato alla Germania non solo benefici economici ma anche la possibilità di poter costruire un vero e proprio “corridoio tedesco” nell’Impero Ottomano1. Dal 1904, anno dell’inaugurazione della prima sezione della ferrovia, fino al 1909 un numero infinito di rapporti e memorandum pervennero a Londra da parte dei dipartimenti più preoccupati della crescente presenza tedesca in Medio Oriente. Il Foreign Office, il Board of Trade, l’Ammiragliato e il Committee of Imperial Defence si misero dettagliatamente a esaminare il rischio tedesco per gli interessi britannici in Mesopotamia e nel Golfo Persico. La loro conclusione, secondo le affermazioni in particolare del Committee, era che la dominazione economica precedeva quella politica e insieme costituivano l’opera recente della Germania in Medio Oriente2. Ovviamente nessuno credeva nella possibilità di una dislocazione di truppe tedesche e turche che potessero minacciare l’India ma in ogni caso non si poteva escludere l’ambizione tedesca ad approfittare del commercio regionale. Durante l’autocrazia di ‘Abdül Hamid infatti, poco si poté fare a favore di una concessione 1 Histoire de l’Empire Ottoman cit. pag. 608 Marian Kent Great Britain and the end of the Ottoman Empire in The Great Powers and the Ottoman Empire cit. pag. 181 2 103 totalmente inglese per la costruzione della ferrovia e dopo il 1907 il dialogo con la stessa Germania divenne veramente difficile per gli Inglesi. A differenza dei suoi interlocutori, la Germania preferiva negoziazioni individuali a quelle à quatre (Inghilterra, Russia, Germania, Francia) comprendendo il rischio d’isolamento che tale metodo avrebbe portato1. Gli ultimi tentativi vennero fatti nei due anni precedenti. Nello stesso 1907 fu il capo della Foreign Office Grey colui che offri l’opportunità di un condivisione anglo-tedesca della ferrovia, preferendo un compromesso ancora una volta à quatre, mentre le speranze del suo vice Hardinge venivano deluse anche dopo la vittoria della rivoluzione Giovane Turca a Costantinopoli. I nuovi governanti ottomani, come vedremo dettagliatamente nel prossimo capitolo, non fecero molto per svincolarsi dalle direttive tedesche. Le difficoltà riguardo alla costruzione della ferrovia comunque serpeggiavano in ogni dove. Economicamente i costi non si sanarono per il bilancio centrale ottomano. Costantinopoli, secondo gli accordi, nella costruzione della ferrovia, avrebbe dovuto pagare la cosiddetta “garanzia chilometrica” (cioè per ogni chilometro costruito il pagamento per il ferro usato). Ciò ovviamente pesava tantissimo sulle casse dell’Impero con conseguenze deleterie per la sua politica fiscale. A ciò contribuirono anche le tensioni di natura sociale create dai disaccordi quotidiani fra manodopera mussulmana e capisquadra greci e armeni. Ben presto tali difficoltà si trasformarono in aperti tumulti che culminarono con lo sciopero generale del 19082. Inoltre, tramite il loro accordo con lo Sceicco del Kuwait, nell’ottobre del 1907, gli Inglesi misero il bastone fra le ruote per il procedimento dei lavori. Secondo tale accordo la Gran Bretagna avrebbe 1 C.J. Lowe – M.L. Dockrill, The mirage of power. British Foreign Policy. 1902-1914, cit., pag. 2 Histoire de l’Empire Ottoman cit. pag. 609 87 104 esercitato il controllo su ogni territorio del sceiccato dove la Baghdad Express avrebbe dovuto passare vicina3. Inoltre, sul diplomatico, le speranze di Hamid si realizzarono solo a metà. In seguito agli accordi fra le Potenze, il Sultano fu costretto a riprendere la vecchia politica d’incastro dei vari interessi europei, volta a fargli combaciare e ad usarli a proprio vantaggio. Questa tattica, che in origine doveva fungere da garanzia per l’integrità ottomana, non ebbe stavolta i risultati sperati. Sebbene smembramento reale dei possedimenti imperiali non vi fu, nulla fermò i vari Stati europei dallo spartirsi varie zone d’influenza. La Russia per esempio, coll’accordo cosiddetto del Mar Nero firmato con i Turchi nel 1900, acquisì il diritto assoluto sulle costruzioni di vie ferrate nel NordEst dell’Anatolia. La Francia, per giunta, conquistò il monopolio assoluto sulla zona siriana, dove già nel 1892-1902 aveva costruito 700 km di strade. Tutto ciò senza contare il fatto che la penetrazione tedesca in Medio Oriente implicitamente dava il beneplacito al riavvicinamento anglo-russo. In quegli anni la spinta esercitata sui governi verso una soluzione bellica delle conflittualità rimaste sul piano diplomatiche era enorme; tutto sembrava indurre alla guerra definitiva. Sicuramente non si può dire che la concessione data ai tedeschi per la “Baghdad Express” fu l’unica vera causa dell’inimicizia anglo-tedesca che porterà le due Nazioni alla Grande Guerra. Ma non si può certo negare che il piano aggiuntivo fatto da Berlino per l’allungamento della tratta ferroviaria fino a Bassora non abbia contribuito a scaldare gli animi. Ogni chilometro aggiunto faceva temere a Londra, che i tentacoli tedeschi s’avvicinassero alla Mesopotamia, piena di oleodotti britannici in cerca dell’oro nero. E’ interessante quindi notare che l’effetto domino creato dalla spinta di Hamid verso il Kaiser certo non creò buone prospettive per l’Impero Ottomano. Il Malato del 3 Marian Kent op.cit. pag 179 105 Bosforo era sopravissuto alla cancrena ottocentesca solo grazie alle inimicizie fra Londra e Pietroburgo. Abbiamo speso gran parte del primo capitolo nello spiegare che l’integrità ottomana era l’unica arma che gli Inglesi avevano a disposizione nella loro battaglia contro l’orso russo in Asia. Questo ovviamente ci fa capire quanto fu erronea la scelta del Sultano – cosciente o meno – di spingere l’ex-alleato britannico nelle braccia dello storico nemico russo. Tutto questo avveniva nello stesso momento quando i rapporti fra Berlino e Pietroburgo non solo non erano più nella quiete degli anni di Bismarck ma anzi peggioravano ogni giorno di più. Da lì, il passo verso il definitivo accordo anglo-franco-russo, già in rotta con Berlino, fu veramente breve. Col senno di poi, si può finalmente affermare che la scelta di campo dell’Impero Ottomano, a dieci anni dalla Prima Guerra Mondiale, fu la peggiore che si potesse fare. 3. Il nuovo corso politico della diplomazia inglese Negli anni ’90, come già abbiamo detto in precedenza, la politica estera inglese continuava ad essere ancorata allo “splendido isolamento” (termine coniato da Salisbury). I Britannici, con enorme orgoglio, consideravano il loro Paese una sorta di bilanciere equilibrato in Europa, il peso del quale preveniva la conquista della supremazia da parte di una delle coalizioni continentali. Tuttavia a partire dall’ultimo lustro dell’Ottocento si assiste ad un cambiamento di rotta nella concezione diplomatica inglese, protagonista della quale doveva essere, per ironia della sorte, l’uomo che rappresentava il tradizionalismo tout court nel modo di governare la politica estera del Regno Unito: il marchese di Salisbury. 106 Tentando un plutarchiano parallelismo, Kissinger ha cercato di mettere in evidenza la somiglianza fra la diplomazia tardo-isolazionista di Salisbury e quella di fine Guerra Fredda attuata dal presidente George Bush Senior negli Stati Uniti. “Ambedue presero le redini del potere di un mondo in tramonto sebbene per nessuno dei due questo fu chiaro. Ambedue fecero scalpore, sapendo guidare ciò che avevano preso in eredità. La concezione di Bush sulle relazioni internazionali era stata dettata dalla Guerra Fredda, la fine della quale lui seppe gestire con successo; Salisbury fece la sua formazione durante l’epoca di Palmerstone, quando la potenza marina della Gran Bretagna non conosceva rivali e l’antagonismo anglo-russo in Asia non trovava soluzioni. Ambedue questi fattori conobbero la fine durante il suo governo”1. Convinto del suo ruolo d’assertore dello status-quo, e cosciente di essere troppo conservatore per poter cambiare una tradizione lunga decenni, il marchese, anche quando tentò una via alternativa alla vecchia alleanza anglo-turca, pretese la continuazione della politica estera britannica sugli stessi binari già percorsi dai suoi predecessori; questo naturalmente supponeva una linea dura contro le altre potenze imperiali, ma soprattutto la volontà inglese di farsi coinvolgere in alleanze continentali solo quando la scelta fosse ritenuta obbligatoria. Per Salisbury il significato di tutto ciò era l’attivismo della potenza britannica nei mari e lo scostamento della diplomazia di Sua Maestà da ogni coalizione ordinaria europea. Ovviamente si dovette rendere conto che la posizione politica del suo Paese era fin troppo cambiata e condizionata dal quadro politico interno alla vigilia del nuovo secolo. La sua potenza economica ormai era comparabile a quella della Germania e il nuova asse Parigi-Pietroburgo sempre più diventava una minaccia per i possedimenti imperiali inglesi. Ad iniziare dall’India, la perla dell’Impero, la quale si trovava 1 Henry Kissinger Diplomacy cit. pag 177 107 circondata dalla presenza francese in Indocina e dai Russi nel Nord. Sicuramente la dominance britannica reggeva ancora ma l’influenza ordinatrice che ella aveva nel diciannovesimo secolo si stava lentamente esaurendo. Oppositori, lobbies economiche e suoi stessi colleghi di governo, negli anni 1890, comprendevano la necessità della politica tradizionale inglese d’adattarsi alle nuove inaspettate realtà internazionali. Anzi, il campo coloniale negli ultimi anni si stava assistendo anche all’esordio della Germania. Ovviamente di tensioni continentali fra Parigi, Pietroburgo e Berlino ce n’erano tante ma sul mare l’obbiettivo della loro aggressività diventava comunemente la flotta britannica. Ciò succedeva sempre più spesso anche perché, l’Impero Britannico non possedeva soltanto l’India, il Canada, l’Australia ed una buona fetta del continente nero, ma voleva la supremazia anche su territori che, per ragioni dichiaratamente strategiche, considerava essenziali, sebbene non volesse controllarli direttamente. Fra questi, oltre la Turchia, il governo di Londra includeva il Golfo Persico, la Cina e il Marocco1. I tempi, come era chiaro, non offrivano tutte le comodità possibili. Durante gli anni ’90 la posizione della Gran Bretagna era messa costantemente in pericolo dalle mire russe sull’Afganistan, nel Bosforo e in Cina settentrionale e dalle intrusioni francesi in Marocco ed Egitto. La caotica realtà geopolitica stava spingendo gradualmente l’Inghilterra, per la disperazione dei tradizionalisti, fuori dallo splendido isolamento. In tale direzione determinante fu per il Foreign Office l’allarme che venne dopo la decisione russa nel 1900 di entrare in diretti contatti con l’Amir dell’Afganistan. Ancora più preoccupante fu i crediti economici che l’energico ministro delle Finanze russo, il conte Sergei Vitte, sganciò a favore dello scià persiano. Ovviamente ciò 1 Henry Kissinger op cit. pag. 178 108 includeva favori e permissioni che il governo di Teheran assicurava in modo implicito a Pietroburgo in tutto il territorio persico, eccezione fatta per il Golfo1. Il primo passo verso nuovi ingaggi continentali si fece nel nome di relazioni più ravvicinanti con la nuova Germania guglielmiana. Per la flotta britannica l’eccezionale crescita militare tedesca pareva una minaccia. Seguendo i dettati dell’ammiraglio Alfred Tirpitz, segretario della Marina Imperiale, nel 1897 la Germania iniziò la costruzione di una flotta che ben presto allarmò la cancellerie britannica2. Almeno per il momento Londra scelse di contrattare con Berlino. Infatti, coll’Accordo Mediterraneo del 1887, la Gran Bretagna, in modo implicito, entrò nella Triplice Alleanza (un’altra sofisticata creazione di Bismarck che doveva rispondere alla Lega dei Tre Imperatori) con L’Impero tedesco, quello austo-ungarico e l’Italia3. La speranza era che Vienna e Roma potessero in qualche modo aiutare le trattative inglesi con la Francia nel nord Africa. Ben presto però si vide che tali negoziati erano più che inutili. I Tedeschi, convinti che Russia e Gran Bretagna avevano bisogno dell’amicizia berlinese pensarono di trattare contemporaneamente con loro, senza stabilire la natura delle trattative, e peggio ancora, senza capire che tale atteggiamento avrebbe spinto Londra e Pietroburgo ad accordarsi per proprio conto e indipendentemente da Berlino. Come abbiamo avuto anche prima la possibilità di analizzare, la diplomazia tedesca della Weltpolitik fu eccessivamente sbrigativa, volendo afferrare un risultato vantaggioso prima di offrire qualcosa in cambio. Ovviamente lo faceva per far tenere sotto scacco più potenziali rivali contemporaneamente; l’unica cosa che tuttavia che il governo del 1 C.J. Lowe – M.L. Dockrill, The mirage of power, cit. pag. 60 Ulrich Trumpener Germany and the End of the Ottoman Empire in The Great Powers and the Ottoman Empire cit. pag. 111 3 Ivi. pag. 178 2 109 Kaiser non capiva era che tali metodi non facevano che insospettire ancora di più gli altri Paesi. Un atteggiamento sostanzialmente inverso a quello tenuto dalla Francia, dedita al temporeggiamento, la quale, in modo lento e graduale, aspettò per vent’anni la Russia e quindici l’Inghilterra perché potessero offrirle un accordo. Dalla Guerra di Crimea e soprattutto dalla sconfitta di Sedan (1870) la politica estera di Parigi aveva cercato sempre una via d’uscita ufficiale al fatto di essere sempre ricordata quale rischio per l’equilibrio europeo. Ora che, con l’uscita di scena del paciere d’Europa Bismarck, il marchio di tale rischio, sempre di più, lo stava assumendo la Germania di Guglielmo II, Parigi si dette da fare per stringere quelle alleanze assicurative che per trent’anni aveva pazientemente aspettato. La prima mossa diplomatica del Kaiser, che irrevocabilmente si trasformò in un corso fatale, fu attuata nel 1890, quando la guida del Reich in persona, rifiutò il rinnovo del Trattato di Rassicurazione con lo Zar per un altro triennio. Rifiutando l’ouverture russa, Guglielmo e i suoi consiglieri, tagliarono quello che forse era il nodo più importante di tutto il sistema sofisticato di alleanze incrociate da Bismarck. Era proprio la bifocale essenza di una cordialità con la Russia e nello stesso tempo con l’Austria, che dette al Cancelliere di Ferro l’arma per bilanciare la paura austriaca e l’ambizione balcanica della Russia. Rompendo tale nodo Berlino si diresse verso una via che neanche ad essa era chiara. Sempre più l’uso di Vienna in quanto leva, faceva percepire in Russia, che il Kaiser avrebbe dato carta bianca all’Austria in qualsiasi avventurismo balcanico. In termini politici, l’abbandono dello Zar da parte tedesca, fu un errore imperdonabile che non solo spinse la Russia verso un accordo con Parigi – per Bismarck, non a torto, l’isolamento della grandeur francese era la chiave di sicurezza 110 per Berlino – ma spinse diplomaticamente all’isolamento la stessa Germania. Guglielmo aveva calcolato che Parigi e Pietroburgo non avrebbero mai messo su un’alleanza, perché la Russia non aveva nessun interesse a combattere per l’Alsazia – Lorena e dal canto suo la Francia non avrebbe avuto nessun motivo ad impegnarsi per gli Slavi nei Balcani. Fu un errore elementare, anche perché, sebbene queste due Nazioni lontane nascondevano scopi diversi, tutt’e due capivano che potevano raggiungerli solo attraverso la sconfitta, o perlomeno l’indebolimento, tedesco. Obbiettivo che soltanto congiungendo le loro rispettive forze Parigi e Pietroburgo potevano raggiungere. Un anno dopo il diniego tedesco al Trattato di Rassicurazione, Francia e Russia (1890) sottoscrissero la Cordiale Intesa, assicurando così l’appoggio diplomatico reciproco. Nel 1894 ad esso seguì una convenzione militare, che a differenza del primo accordo, non accennava alla Gran Bretagna quale possibile nemico contro il quale bisognava allearsi. Infatti dopo il fallimento delle trattative sui temi coloniali fra Londra e Berlino, la Gran Bretagna ben presto s’era ritirata da qualsiasi ipotesi di una coalizione con la Germania. Tale impegno da parte britannica Guglielmo II l’aveva desiderato enormemente, ma ancora una volta l’Inghilterra s’era rifiutata di far parte d’una coalizione esplicitamente militare. L’impazienza del Kaiser non fece che aumentare le riserve britanniche, fortemente dubbiosi verso i corteggiamenti tedeschi. La diplomazia tedesca infatti, non arrivò mai a capire che la Gran Bretagna si sarebbe lasciata coinvolgere in un conflitto o in un’alleanza quando essa stessa l’avrebbe ritenuto opportuno; e anche in questo caso l’avrebbe fatto, scegliendo alleanze ad hoc temporaneamente brevi, oppure accordi semplicemente diplomatici, senza appendici militari. La baldanza eccessiva con la quale i Tedeschi contrattavano con gli Inglesi sicuramente non poteva convincere questi ultimi che un accordo con Berlino, almeno 111 inizialmente, era meglio di nulla. L’ulteriore spinta tedesca verso l’Impero Ottomano dette il colpo di grazia ai tentativi di Berlino di allearsi con Londra. Per giunta, dopo aver perso un alleato quale la Russia, il Kaiser, con le sue spavalde ambizioni mediorientali, rendeva ostile un potenziale amico quale l’Inghilterra. In pochi anni, tranne il debole alleato asburgico, la Germania aveva buttato via tutte le carte utili per poter evitare l’isolamento, spingendo verso un accordo essenzialmente antitedesco le tre più potenti nazioni europee. Nell’ottobre 1900, causa la salute cagionevole, Salisbury smise di essere contemporaneamente premier e segretario agli Esteri, mantenendo soltanto la prima funzione. Al posto suo venne il giovane ed energico lord Lansdowne, fermamente convinto che l’Inghilterra non poteva più assicurare i propri interessi tramite l’isolazionismo. Inizialmente, il nuovo capo della diplomazia britannica tentò tutte le strade possibili per raggiungere un accordo con Berlino, ad iniziare dalla ferrovia di Baghdad. Però, messo in minoranza dentro il suo stesso partito, ben presto egli ridusse ad accordi meramente formali tutti i tentativi di conciliazione con il Reich. Al suo invito di costituire una semplice alleanza diplomatica senza impegni molto concreti, il nuovo cancelliere tedesco Bülow rispose con un'altra offerta di coalizione militare al fianco della Triplice. Ciò che l’impazienza tedesca non fece, lo ottenne la pazienza francese, riuscendo a convincere Londra a firmare esattamente quel patto militare che per tanti anni Berlino aveva sognato. Durante il 1903 Lansdowne sì preoccupo maggiormente di trovare un accordo con Parigi piuttosto che col governo tedesco. Causa ne fu anche la deteriorante crisi fra Inglesi e Francesi sovra la predominanza sul Marocco1. Inoltre, il segretario agli Esteri, per primo si convinse che un assestamento delle posizioni antagonistiche con la Francia avrebbe spinto anche la Russia verso un compromesso 1 C.J. Lowe – M.L. Dockrill, op.cit. pag. 5 112 con Londra. Restia verso le avventuristiche imprese del suo alleato nell’Estremo Oriente, la Francia iniziò a programmare un’alleanza a tre con Pietroburgo e Londra anche a favore di un isolamento tedesco, ora più vicino che mai. Alla crescente diffidenza inglese verso Berlino sicuramente aveva contribuito anche il prolungamento della Baghdad Express verso territori dichiaratamente d’interesse britannico come la Mesopotamia. La prima decade del XX secolo stava dimostrando che la Germania, coscientemente o meno, stava progressivamente sostituendo la Russia nella parte di béte noire degli Inglesi nel Golfo. Nel 1909, quando già le parti ebbero finalmente chiarito le proprie pretese irrinunciabili, il Comitato della Difesa Imperiale a Londra dichiarava che: British claims to political predominance in the Gulf are based mainly upon the fact of our commercial interests having hitherto been predominant, and should our trade, as a result of a German forward policy, be impaired, our political influence would proportionately diminish. Inoltre il Viceré inglese in India, lord Curzon, avvertì il rischio di una tale diminuzione dell’influenza politica inglese dichiarando che: …the Gulf is part of the maritime frontier of India…It is a foundation principle of British policy that we cannot allow the growth of any rival or predominant political interest in the waters of the Gulf…1 1 Marian Kent Great Britain and the end of the Ottoman Empire in The Great Powers and the Ottoman Empire cit. pag. 172 113 I Francesi d’altronde offrivano in concreto un compromesso dando disponibilità immediata e mostrando più spirito di cautela verso gli interessi commerciali di Londra1. Nel 1903, di conseguenza, la Gran Bretagna iniziò una sistematica trattativa per risolvere i principali quesiti coloniali con la Francia. Due visite ufficiali durante l’anno, quella del re Edoardo a Parigi e quella di ritorno del presidente Loubet a Londra, spinsero Lansdowne ad entrare in veloci e strette trattative con il Primo Ministro Delcassé. Queste riguardarono posizioni di compromesso che le parti dovevano trovare in primis sul Marocco. Alla buona riuscita di questi – Londra riconobbe la posizione predominante di Parigi in Marocco mentre quest’ultima accettò in maniera definitiva gli interessi strategici britannici in Egitto - segui la firma nel 1904 della Cordiale Intesa2. Le conseguenze furono più che pratiche: sebbene non lo abbia mai ammesso pubblicamente, il governo inglese abbandonava la posizione di bilanciere e si legava con una delle due alleanze contrapposte. Quasi subito dopo, Londra prese tutte le misure possibili per trovare una eguale soluzione nelle contese con la Russia. Aveva già avuto una rassicurazione da parte dell’ambasciatore francese che Parigi avrebbe fatto il possibile per liberare l’Impero Britannico dalle pressioni russe, ovunque loro fossero esercitate. A buon mercato, buona rendita quindi. Come l’intesa anglo-francese, l’accordo fra Russia e Inghilterra iniziò come una forma di compromesso coloniale. A Londra al potere erano ritornati i Liberali i quali erano ancor più riluttanti verso gli avanzamenti russi in Asia Centrale. Lansdowne 1 Accordi fra Berlino e Londra intorno alla spartizione dell’Africa effettivamente vi furono ed anche con successo. La Gran Bretagna chiese alla Germania le foci del Nilo e pezzi territoriali dell’Africa Orientale, inclusa l’isola dello Zanzibar. La Germania dal canto suo otteneva come quid pro quo una striscia territoriale che collegava l’Africa sudoccidentale con il fiume Zambesi. Il preludio di un’alleanza anglo-tedesca tuttavia non vi fu anche perché i mal intendimenti sfociarono a partire dalle ambigue posizioni di Berlino durante le guerre boere (1899-1902). 2 C.J. Lowe – M.L. Dockrill op. cit. pag. 5 114 aveva creato il background per una possibile intesa e la vittoria del Giappone sulla Russia nel 1905, ebbe l’effetto di demolire le ambizioni russe nell’Estremo Oriente. Il ministro degli Esteri russo che seguì la battuta d’arresto a Port Arthur, Alessandro Isvolskij, s’impegnò sin dall’inizio per poter distendere gli antagonismi del suo Paese con le altre Potenze in Asia, concentrando l’operato del proprio governo verso una ricostruzione interna1. Nel estate del 1907 quindi, durante lo storico incontro fra Nicola II e Edoardo VII a Reval, non c’era nessun rischio per Londra ad offrire a Pietroburgo condizioni più favorevoli nell’Afganistan ed in Persia. Quanto era grande la preoccupazione inglese sulla Germania si vedeva non soltanto nella volontà di contrattare con gli ex-nemici russi ma anche nell’accomodamento che Londra fece a questi ultimi sui Dardanelli. Fu proprio qui la vera metamorfosi della politica estera in collegamento alla tematica che questa tesi tratta. A partire da questi accordi le relazioni anglo-russe, che durante l’Ottocento proprio sulla questione degli Stretti, avevano sempre incappato, definitivamente si distesero. Come ebbe a dire il Segretario inglese agli Esteri, sir Edward Grey: “ Buone relazioni amichevoli con la Russia vuol dire rinunciare alla nostra vecchia politica di chiusura degli Stretti e abbattimento di qualsiasi ostruzionismo dei confronti di essa nelle Conferenze internazionali”2. Accordatisi sull’Asia Russi e Inglesi potevano trovare anche punti di vista sostanzialmente uguali non solo riguardo la Germania ma anche sui nuovi amici di essa come l’Impero Ottomano. Al crescente impegno tedesco negli affari dell’Impero ottomano corrispondeva una progressiva perdita d’influenza da parte dei Britannici. Per decenni la speciale amicizia anglo-ottomana si era basata su un trattamento bifocale da parte di Londra. Essa da una parte insisteva sulla doverosità di chiare riforme 1 2 Ivi. pag. 64 Henry Kissinger Diplomacy cit. pag. 192 115 nell’ordinamento politico ottomano, segno questo di un’esplicita intromissione negli affari interni di Costantinopoli. Dall’altra parte Londra premeva e assicurava in tutte le conferenze internazionali l’integrità e l’indipendenza dell’Impero. Dopo le trattative con Pietroburgo il secondo punto non è più utile per la Gran Bretagna e sul primo neanche se la sente più di insistere. Infatti tra le due date cruciali del degrado dei rapporti fra i due imperi, 1882 e 1908, i politici inglesi sempre più si convincevano che il miglioramento delle condizioni per i cristiani sotto il Sultano voleva dire tagliare una volta per tutte il nodo gordiano, cioè procedere nella spartizione della Turchia. A questo punto, di quanto Londra fosse stanca di Costantinopoli e di quanto guardava pessimisticamente alla classe politica turca, bastano a farlo capire queste parole del primo dragomanno britannico a Costantinopoli, Gerald Fitzmaurice, nell’aprile 1908: During the last few years our policy, if I may so call it, in Turkey has been and for some time to come will be, to attempt the impossible task of furthering our commercial interests while pursuing a course (in Macedonia, Armenia, Turco-Persian Boundary etc.) which the Sultan interprets as pre-eminently hostile in aim and tendency. These two lines are diametrically opposed and consequently incompatible with one another. In a highly centralised theocracy like the Sultanate and Caliphate combined, with its pre-economic conceptions, every big trade etc. concession is regarded as an Imperial favour to be bestowed on the seemingly friendly, a category in which, needless to say, we are not included…1 1 Fitzmaurice a Sir Willim Tyrell (segretario personale di Grey), in Marian Kent op. cit. pag. 178 116 Insomma, era anche una chiara confessione da parte di uno dei personaggi più scuri ma contemporaneamente più influenti dello stato maggiore inglese a Costantinopoli; dopo decenni di trattative con un cadavere vivo, era indifferente se tenerlo ancora in vita o meno. Bastò questo a far capire non solo al Sultano ma anche ai suoi oppositori che ormai il nuovo governo liberale inglese non avrebbe avuto nessuno scrupolo nell’operare contro l’integrità ottomana. Grey e i suoi ufficiali furono maggiormente irritati quando verso la fine del 1907 la Germania, ignorando l’opinione russa e britannica inizio tentativi verso concessioni bancarie a Teheran. Appare esatta quindi l’affermazione del vice di Grey, Hardinge, secondo il quale “Germany is driving Russia into our arms” anche per quanto riguardava i persistenti disguidi anglo-russi intorno alla Persia1. Infatti l’incontro fra i due sovrani a Reval (9-10 giugno 1908), cambiando il tono della scena internazionale, definitivamente chiariva anche le intenzioni della nuova politica estera britannica. La rassegnazione sulle riforme da fare in Turchia era solo il sintomo di un nuovo riallineamento europeo e non solo un ammissione del fatto che le riforme precedenti erano fallite. Da sempre a favore di una concertazione europea, dopo Reval, gli uomini del Foreign Office iniziano a parlare più precisamente di raggruppamenti fra le Potenze, abbattendo per la prima volta l’ipotesi di una concertazione2. Questo non faceva che approfondire la spinta antiturca dentro la diplomazia inglese, la quale, a partire dalle concessioni che Costantinopoli aveva dato alla Germania, considerava già l’Impero Ottomano parte di una coalizione ad essa contrapposta. 1 2 C.J. Lowe – M.L. Dockrill op. cit. pg. 80 Joseph Heller British policy towards the Ottoman Empire Frank Cass and Co., London, 1983 117 4. Ulteriori instabilità balcaniche: un problema chiamato Macedonia Intanto che l’attenzione internazionale girava intorno all’ottica mediorientale, all’alba del XX secolo, un nuovo problema, di carattere tipicamente balcanico, prendeva piede sui tavoli delle diplomazie europee. La Macedonia, era una nozione geografica, per secoli privata d’una identità etnica chiaramente riconosciuta da tutti i popoli contigui. Sicuramente questa non era una singolarità nella lunga storia conflittuale dei Balcani; ma il fatto che, ancora verso la fine del XIX secolo, la regione macedone non avesse conosciuto l’eco di un vero rinascimento nazionale rendeva questa terra appetibile per vecchi e nuovi Stati ex-ottomani. In un’epoca nella quale i Paesi erano costantemente attirati dal modello vigente dello Stato-Nazione, tutte le conflittualità sull’eredità dei territori ottomani, fra Grecia, Serbia e Bulgaria ebbero una manifestazione esplosiva in Macedonia. Questo del resto era abbastanza motivato e per giunta scontato: di mezzo c’era la composizione etnica della regione, vero miscuglio di popolazioni e origini. Subentrava inoltre un altro imbroglio di carattere decisamente storico-politico: il confuso rapporto statistico fra queste popolazioni, criterio importante per il dialogo fra i nazionalismi infuocati dell’epoca. Fedeli al vecchio sistema di censimento, il milet, le autorità ottomane dividevano la popolazione in gruppi prettamente confessionali. Di conseguenza la popolazione macedone poteva essere catalogata come mussulmana, ebraica o cristiana riconoscendo ognuna di queste componenti l’autorità suprema nel suo leader spirituale. Dopo il 1870 i cristiani rimasti 118 dentro i confini dei territori soggetti al Sultano vennero assoggettati a due dipendenze politico-religiose: l’antico Patriarcato di Costantinopoli e l’Esarcato bulgaro fondato nel 1870. Sin dall’inizio, i rapporti fra le due istituzioni, una di cultura greco-bizantina e l’altra d’ispirazione slava, non furono mai buoni. I tentativi di sabotaggio dell’autorità dell’uno a favore dell’attività dell’altro furono all’ordine del giorno. Questo fu l’ennesimo esempio di come il nazionalismo etnico riusciva nei Balcani ad attirare verso i suoi scopi anche la Chiesa ortodossa. Infatti, a partire dall’indipendenza greca (1830), ogni risorgimento nazionale era stato accompagnato dalla dichiarazione di autocefalia (cioè indipendenza dal Patriarcato di Costantinopoli) della rispettiva Chiesa locale. L’Esarcato bulgaro fu solo uno di questi esempi sebbene la sua sede continuò ad essere nella capitale ottomana. Inoltre, destava molto interesse la posizione strategica della Macedonia benché economicamente la regione fosse povera. Il suo territorio, vero ponte fra il modo asiatico e quello europeo, stava al centro delle più importanti rotte commerciali della penisola balcanica. Soprattutto era Salonicco, il suo capoluogo, che in sé racchiudeva modernità e capitalismo essendo la più importante città dell’Impero Ottomano dopo Costantinopoli. I dissidi in Macedonia nacquero inizialmente sotto il profilo delle affiliazioni religiose. In una regione la cui popolazione veniva rivendicata sul piano etnico e religioso da Atene, Sofia, Belgrado e dove c’era una non indifferente popolazione albanese (mussulmana, ma il nazionalismo albanese avrà pochi connotati religiosi) gli scontri erano ovviamente tanti. La lotta per l’influenza e per la conseguente appropriazione territoriale iniziò nell’ambito delle scuole. Negli ultimi decenni dell’800, varie scuole di lingua greca, serba e bulgara vennero istituite e finanziate dai tre governi paladini delle proprie popolazioni. In più s’aggiunse anche la Romania, la quale non si 119 tirò indietro nel difendere le prerogative culturali di una piccola ma solida minoranza kutzo-valacca in Macedonia. Da qua alla lotta politica il passo fu veramente breve. Dopo il 1878, la Bulgaria, la quale, dopo il Trattato di Santo Stefano, in un attimo aveva visto la realizzazione e il ridimensionamento del proprio irredentismo1, mise tutto il dinamismo possibile nella sua azione patriottica. Da quel momento in poi, l’equazione esarchista=bulgaro fu l’espressione ufficiale della politica bulgara in Macedonia. Questo fatto ovviamente non poteva non passare tramite lo scontro con la Megali Idea greca e in un secondo momento con la Načertanie serba, emblema ambedue del nazionalismo formato Balcani; infatti nella turbolenta penisola ogni riferimento irredentistico, per una serie di concause storiche, trovava la sua ispirazione negli Imperi defunti del Medioevo. Siccome la Macedonia era stata territorio di Bisanzio, somma ispirazione per i Greci, ma anche parte dell’Impero serbo durante l’epoca di Stefan Dušan, sia Atene che Belgrado vedevano nella conquista della regione il primo passo verso la grande rinascita dei loro rispettivi popoli. Fatto sta che queste ultime due capitali, dopo gli anni ’80, per circostanze di politica internazionale rivolsero l’attenzione altrove – la Grecia verso Tessaglia e Creta, mentre la Serbia verso i territori bosniaci. In quegli anni fu l’influenza bulgara che divenne sempre più preponderante in Macedonia. Questo si vide anche nelle difficoltà che le autorità militari ottomane avevano nel domare le guerriglie degli komitadži bulgari presenti nella regione. Internazionalmente, il problema macedone venne percepito sempre più come un problema d’autodeterminazione del popolo bulgaro. 1 Il Trattato di Santo Stefano (3 marzo 1878), seguito all’armistizio turco-russo di Adrianopoli, prevedeva la creazione di una Bulgaria autonoma la quale doveva comprendere entro i suoi confini la Tracia, la Macedonia (esclusa Salonicco), una grande fetta di territori albanesi e una spaziosa uscita sul Mar Egeo. Questa Grande Bulgaria venne ovviamente osteggiata a Berlino perché le altre Potenze vedevano in essa la mano lunga dei Russi nella penisola balcanica (secondo il Trattato le truppe russe avrebbero dovuto stanziarsi là per almeno due anni). Infatti dopo il Congresso di Berlino la Bulgaria, seppur in due entità autonome (Bulgaria propriamente detta e Rumelia) tornò sotto la vassallità diretta ottomana. 120 Tuttavia, voci di dissenso, a proposito della omologazione fra la questione macedone e quella bulgara, vi furono. Importante è citare il movimento che partì da alcuni studenti macedoni a Pietroburgo – capeggiati dal mentore del Risorgimento macedone, Krsto Misirkov – i quali ben presto iniziarono a separare la loro richiesta d’indipendenza da quella bulgara. Questo scontro si vide sia culturalmente – per dar più adito alle loro scelte i macedoni scelsero come lingua ufficiale il dialetto di Veleš, differente dal bulgaro ma anche dal serbo – ma conflitti vi furono anche sul piano d’azione. La radicalizzazione della politica bulgara in Macedonia, con molti tratti di esplicito terrorismo, spinse verso la creazione della VMRO (Organizzazione Rivoluzionaria Interna Macedone) nel 1893. Sebbene tale organizzazione sovraintendesse a una formazione militare bulgara, le sue teste d’uovo erano generalmente autonomisti convinti, cioè personaggi che appoggiavano la lotta antiottomana ma in funzione di una Macedonia a se stante. Le reazioni in loco al programma “La Macedonia ai Macedoni” furono ben più dure di quelle contro il secolare invasore ottomano. Per meglio controllare l’attività della VMRO nel 1895 a Sofia venne istituito il Comitato Supremo Macedone, scopo cardine del quale era l’unione della regione contesa con la Bulgaria1. Già un anno prima, rispondendo alla supremazia sempre più evidente dei Bulgari in Macedonia, Atene creò una Filiki Hetaria nella regione. Ben presto le rappresaglie rivendicative fra Greci e Bulgari divennero più violente della stessa guerra contro il comune invasore ottomano. L’accelerazione della instabilità macedone, oltre a suscitare echi al estero, divenne questione del giorno di tutte le Cancellerie diplomatiche europee. Maggior preoccupazione destò la soluzione totale che la Turchia tentò contro la VMRO dopo l’insurrezione chiamata di Sant’Elia (2 agosto, secondo il calendario 1 Georges Castellan, op. cit. pag. 376 121 giuliano), del 1903. Si parlò di terribili rappresaglie da parte delle truppe di Hamid – 200 villaggi bruciati, 4700 abitanti massacrati, 3000 donne stuprate – che fecero tornare alla mente gli “orrori bulgari” del 18771. Le reazioni europee furono immediate. Gli Inglesi dal canto loro, furono i primi a muoversi a favore delle riforme nella provincia balcanica. Le varie atrocità turche presto svegliarono gli animi anticonformisti ed umanitari e nello stesso 1903 un Balcan Committee venne istituito a Londra con la partecipazione dei Liberali2. Tuttavia le manovre del governo britannico non potevano che essere limitate dalla preponderante influenza di altre due Potenze molto più influenti in loco. Già nel 1897 Francesco Giuseppe e Nicola II si erano incontrati per concordare un possibile status quo da ambo le parti per la Macedonia. Per gli Austriaci, come un po’ per tutti, la responsabilità per quello che avveniva in Macedonia era in parte legata al malfunzionamento dell’apparato statale ottomano, in parte per una chiara volontà degli Stati limitrofi di combattere e distruggere l’elemento rivale nella regione. Vienna era inoltre cosciente del fatto che l’Impero Ottomano poteva trovare o la forza di sopravvivere o l’ultimissimo respiro proprio in Macedonia. Nell’ultima ipotesi ciò poteva scaturire soltanto una feroce caccia al metro quadrato da parte degli balcanici. Sapendo già che ciò voleva dire una eventuale guerra europea, i due sovrani di Pietroburgo e Vienna, fortunatamente più sensibili di quello che sarebbero divenuti nel 1914, decisero di fermare ogni possibile tentativo bellico3. Ne uscì una serie di proposte, coattive nei riguardi del Sultano, definitesi nel “programma di Mürzsteg” (dal nome del castello dove s’incontrarono i due imperatori). Queste prevedevano la creazione di una 1 Ivi. pag. 377 C.J. Lowe – M.L. Dockrill, The mirage of Power cit. pag. 77 3 F.R. Bridge, The Habsburg Monrchy and the Ottoman Empire in The Great powers… cit. pag. 2 42 122 gendarmeria internazionale per la Macedonia, la quale, divisa in cinque settori, veniva affidata alle cinque Potenze interessate alla questione (Inghilterra, Francia, Italia, Austria, Russia). Questa organizzazione interna doveva, secondo la lettera, venir diretta da Hilmi Pascià in qualità di ispettore generale, coadiuvato da due agenti civili (un russo e un austro-ungherese). Ma la serie di riforme non doveva terminare qua. Sviando la richiesta inglese di ampliare il regime internazionale anche alle questioni finanziarie della regione, il quarto articolo del programma istaurava nella regione di tre distretti “nazionali”: bulgaro, greco e serbo. A partire da qua, prenderà sempre più piede la politica d’eliminazione dell’intruso da parte di questi tre protagonisti – e l’eliminazione era quasi sempre fisica. Nonostante tutto il terrorismo non si placcò in Macedonia, aggiungendosi anche la regolazione di conti che avvenne fra le parti interne della VMRO. I due successivi congressi di Salonicco e Rila divennero l’arena centrale dove si scontrarono supremisti filo-bulgari e autonomisti macedoni. Sebbene i primi accusarono pubblicamente i secondi per la disfatta di Sant’Elia, dopo il 1905 l’idea di una Macedonia sovrana divenne sempre più di dominio pubblico1. Questo non fece che accelerare l’instabilità e, insieme con questa, aumentarono le pressioni occidentali sul Sultano per favorire ulteriori riforme nella regione. Il governo liberale inglese e il suo ministro degli Esteri Edward Grey non fecero passi al di là di pretendere dal Sultano la concreta applicazione delle riforme. Il capo diplomatico inglese era abbastanza dubbioso sulla possibilità di placcare la situazione sempre più caotica attraverso pressioni in direzione della sola Costantinopoli, senza farle anche agli Stati balcanici. 1 Ivi. pag. 378 123 Era il tempo in cui proprio in territorio macedone stava partendo la reazione più energica all’autoritarismo di ‘Abdül Hamid; quella dei Giovani Turchi che nel 1908 stravolgeranno il potere dell’ultimo “vero” Sultano turco. 124 Quarto capitolo I Giovani Turchi e la caduta di ‘Abdül Hamid II: la definitiva rottura con Londra (1902-1909) 1. Le prime forme d’opposizione in seno all’Impero e i tentativi d’unità Il ricatto sugli affari di politica estera non fu l’unica forma di pressione che le varie capitali europee usarono per spingere Costantinopoli ad accettare le loro rispettive richieste. Manovrare le tendenze di politica interna al di dentro della capitale fu un’altra forma di persuasione altrettanto praticata . Ovviamente “conquistare il castello dal di dentro” era un’impresa più ardita del solito se le condizioni istituzionali interne erano quelle nelle quali ‘Abdül Hamid regnava. Con una Costituzione sospesa e una vigilanza governativa autoritariamente condotta, c’era ben poco da sperare negli sviluppi di un’opposizione interna al regime. Di fatto la prima attività di rinomanza pubblica da parte di una formazione anti-Hamid ebbe luogo solo nel 1902 a Parigi. In ogni caso, il I Congresso dei Giovani Turchi non era proprio la primissima genesi di quel movimento che da lì a sei anni avrebbe stravolto i destini del potere ottomano. Già nel 1889, durante il primo centenario della presa di Bastiglia, nella Scuola di medicina militare a Costantinopoli si costituirono le prime cellule politiche clandestine. Ispirate alla Carboneria italiana e ai nichilisti russi dell‘800, queste piccole organizzazioni non per caso nascevano nei settori della medicina e dell’esercito, avvolti 125 dalle riforme già nel XVIII secolo e quindi più modernizzati1. Gli arruolamenti avvenivano in maggioranza nelle Scuole superiori della capitale (Accademia militare, Scuola veterinaria, Scuola d’amministrazione) a loro volta toccate dal Tanzimat e dalle riforme di Hamid medesimo. Vedremo dopo che medici e militari resteranno sempre in prima linea nell’evoluzione del movimento anche se le file di questa prima opposizione si ingrossarono di disparati elementi politici. L’orbita di queste nuove reclute andava dalle personalità degli ulema ad alti ufficiali già in servizio. Sarà un problema aggiuntivo a quello della censura ovviamente, perché l’eterogeneità formativa rendeva anche difficile l’unione delle varie iniziative. In realtà i Giovani Turchi più che un movimento era una nebulosa galassia sparsa dentro e fuori l’Impero (Cairo, Romania, Londra e soprattutto Parigi e Ginevra). L’idea portante della loro aggregazione era quella di rigettare la basilare premessa del Tanzimat, concepito secondo i dettati di ‘Abdül Hamid, per il quale la vera modernizzazione dell’Impero poteva venire realizzata soltanto tramite imposizione elitaria dall’alto. Dal loro lato, i Giovani Turchi argomentavano che, qualora tali riforme strutturali avessero avuto successo, la loro portata sarebbe stata irrimediabilmente fallimentare fino a che non ci fossero stati reali cambiamenti nel tessuto sociale e politico del Paese2 Verso la metà degli anni ’90 due intellettuali iniziarono ad assumere il ruolo di capi dell’opposizione in esilio: Ahmed Rıza (1859-1930) convinto positivista e Mizancı Murad (1853-1912) sostenitore di idee più moderate. Come è comprensibile la simpatia verso le posizioni dei Giovani Turchi venne da molte istanze governative in Europa, causa le antipatie e incomprensioni che queste avevano con Hamid. Oltre ai giornali, che offrivano volentieri una tribuna per gli attacchi al regime di Costantinopoli furono 1 Histoire de l’Empire Ottoman cit. pag 621 Stanford J. Shaw – Ezel Kural Shaw History of the Ottoman Empire and Modern Turkey voll. II, Cambridge University Press, London, 1977, pag. 255 2 126 le poste straniere che dettero più filo da torcere alla polizia del Sultano. Queste infatti aiutavano clandestinamente la diffusione degli opuscoli e dei libri di propaganda dell’opposizione in tutti i territori dell’Impero. Però un problema di base esisteva, e questo era l’impossibilità di tenere sulla stessa linea di pensiero ed azione una opposizione così dispersiva. Alla confusione interna infatti andava aggiunto anche il diniego, seguito dalla repressione, di ogni forma di pensiero alternativo al regime ad opera del Sultano. A partire dal 1896 si assiste infatti all’apogeo di ‘Abdül Hamid ed al consolidamento del suo potere assolutista. In seguito alla stroncatura che lui fece alla ribellione armena, un anno dopo, le sue armate uscirono vittoriose in Tessaglia contro i Greci. Inoltre nel 1898, la storica visita di Guglielmo II gli portò anche l’appoggio determinante di una Grande Potenza europea. L’euforia di questi apparenti successi spinse gli elementi vicini al Sultano, fra il 1896 e il 1898, ad attuare una spietata eliminazione di ogni forma d’opposizione presente nel Paese. L’approccio che venne usato toccò tutte le forme. La semplice persuasione tramite proposte corruttive fu una delle armi di maggior successo. A partire da Murad stesso – che nel 1897 con un clamoroso voltafaccia rientrò in Turchia – molti exoppositori vennero fatte ricompensare con vari posti d’impiego nelle ambasciate ottomane all’estero. Le spie al di dentro del movimento, fra i quali anche il capo della polizia segreta Ahmed Celaleddin, davano così prova di un eccellente lavoro, creando varie fratture interne. Da meno comunque non furono neanche i metodi brutali come la repressione di un complotto nell’Accademia militare, scoperto in anticipo, in seguito al quale tutti gli allievi ufficiali vennero mandati in esilio in Tripolitania. Per finire, non meno conseguenze ebbero anche le pressioni esercitate da parte di consoli ed 127 ambasciatori ottomani sui governi che accoglievano le iniziative dei Giovani Turchi (Belgio, Francia, Svizzera)1. Tuttavia, nel 1899, a quei pochi Giovanni Turchi rimasti venne un aiuto inaspettato. Il cognato del sultano in persona Damad Mahmud pascià e i suoi due figli Sabaheddin e Lutfullah offrirono il loro servizio alla causa dell’opposizione. Per Hamid il colpo fu senza precedenti; avendo attuato una complessa rete di eliminazioni politiche, tutto ad un tratto lui vedeva che le “conversioni” avvenivano pure dentro al Palazzo. Il dissidio fra Damad e il padiscià non venne reso pubblico ma pareva che la causa centrale fosse la questione della “Baghdad Express”, per il finanziamento della quale il cognato avrebbe voluto l’Inghilterra in prima fila. Fallito nel suo intento, il celebre rinnegato preferì partire per l’esilio con i suoi figli, ma non partecipò mai alle attività dei Giovani Turchi. Diede comunque il suo prezioso aiuto alla questione politica dell’opposizione pubblicando ben volentieri a Londra il giornale “Osmanlı”2. Va da sé che fu proprio l’Inghilterra a dargli rifugio, essendo il governo di Sua Maestà fortemente deluso dalle decisioni prese a Costantinopoli intorno alla ferrovia. Il congresso di Parigi, organizzato nel febbraio del 1902, avrebbe dovuto dare uno spirito d’unità al movimento dei Giovanni Turchi al fine di redigere un comune piano di azione. Anche se tanti antagonismi interni furono ben presto superati, il problema dei rapporti fra etnia turca ed altre nazionalità divise in due i Giovani Turchi. Formalmente c’era consenso sul fatto che sarebbero stati i militari, in quanto centro d’organizzazione modernizzata, a mettere in atto ciò che la sola propaganda non poteva fare. Sulla struttura del potere invece, precisamente sui rapporti centro-periferia nell’Impero, il Congresso di Parigi non fece altro che polarizzare di più il dibattito 1 2 Histoire de l’Empire Ottoman… cit. pag. 612 Ivi. pag. 613 128 interno. In sostanza i due gruppi contrapposti vennero cappeggiati uno da Sabaheddin, – primogenito di Damad nonché sostenitore dell’idea che l’Europa avrebbe dovuto intervenire per il ripristino della Costituzione del ’76 – appoggiato dai rappresentanti non turchi, in particolare dagli Armeni, e dall’altro da Ahmed Rıza, sostenuto invece dalla minoranza del Congresso. Ammiratore dei filosofi Le Play e Edmond Demoulins – quest’ultimo teorizzava che la superiorità politica delle istituzioni anglosassoni deriva dall’essere una società fondata su basi individualistiche e non comunitarie – Sabaheddin proponeva una ricerca minuziosa dei fattori sociali che rendevano possibile il mantenimento del regime hamidiano. Per lui il difetto maggiore consisteva nella mancanza dell’iniziativa privata nell’Impero Ottomano. Ovviamente idea base di una futura politica di privatizzazione doveva essere il decentramento del potere a favore delle istituzioni locali, che nelle condizioni della Turchia automaticamente diventavano anche istituzioni di rappresentanza etnica. Tale idea, naturalmente appoggiata in pieno dai delegati armeni, faceva paura ai centralisti di Rıza. Troppa autonomia secondo loro avrebbe potuto causare lo smembramento dello Stato ottomano e dato che i due scopi essenziali dei Giovani Turchi dovevano essere la Costituzione ripristinata e l’integrità dell’Impero, ciò poteva avvenire per Rıza solo nelle condizioni di un autoritarismo centralizzato. I tentativi di placare gli antagonismi vi furono soprattutto da parte di Sabaheddin. Egli cercò di temperare le contraddizioni intorno ad una soluzione comune la quale scaricava sulla persona di Hamid tutte le disgrazie che affliggevano l’Impero, ritenendo ovviamente di primaria importanza i principi di unità e integrità dello Stato. In più, il principe garantì massima fedeltà alla casa degli Osman, anche perché solo la dinastia fondatrice poteva offrire, anche secondo la minoranza del Congresso, quell’idea 129 di centralismo autoritario di cui lo Stato aveva bisogno1. Alla fine però, l’intransigenza delle posizioni di certo non liberali di Rıza non consentì sbocchi concreti al Congresso di Parigi. Esso si chiuderà con un nulla di fatto proprio per gli scontri determinatissimi fra i suoi due maggiori protagonisti. Anche se solo temporaneamente le strade dei Giovani Turchi si divisero. Nel 1906 Sabaheddin fondò a Parigi la “Lega dell’iniziativa privata e del decentramento” con un giornale ufficiale, il “Terakki” (Progresso). Tuttavia, la sua politica non dimostrò mai una piena comprensione della realtà turca, essendo che il suo stesso artefice venne esiliato all’età di 22 anni dal Paese2. Ciò che seguì al I Congresso dei Giovani Turchi (ufficialmente appellato Congresso degli Ottomani Liberali) fu soltanto un ulteriore inasprirsi delle rispettive posizioni. Il dissenso post-parigino si sviluppò anche intorno alla questione del metodo che i rivoluzionari avrebbero dovuto usare. Mentre Sabaheddin e i suoi seguaci erano favorevoli ad un’eventuale uso di violenza al fine di abbattere il regime hamidiano, la frangia turca del movimento prediligeva metodi più legalistici. Convenivano in questo perché secondo loro doveva essere l’esercito, quindi una struttura statale, a prendere in mano la situazione. Come Rıza scrisse in un suo diffusissimo opuscolo, il soldato ottomano era passato da conquistatore di terre lontane a ultimo difensore della patria. Però più che a mo’ di conclusione, l’idea della supremazia militare nella cosa pubblica, venne come diretta conseguenza delle evoluzioni in vista: progressivamente furono proprio gli ufficiali che danno il cambio ai capi definitivamente in esilio. Il Congresso di Salonicco, durante il quale venne fondato il Comitato Ottomano della Libertà, sancì proprio questa nuova realtà dei fatti. Non a caso infatti, il congresso si svolse in Macedonia, una delle regioni più turbolente ma anche modernizzate 1 2 Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw History of Ottoman Empire and… cit. pag 258 Histoire de l’Empire Ottoman… cit. pag. 614 130 dell’Impero. L’elemento turco era considerevole e l’importanza strategica della capitale, Salonicco, ne fa il centro di grandi crocevia commerciali fra l’Occidente e il Levante. Fortemente inasprita dagli interventi europei in loco, l’etnia turca in Macedonia non era più, come una volta, costituita da solitari pascià in rotta col Sultano ma da una fiorente borghesia ottomana, ansiosa di modernizzazione del centro. Anche i jonturchi qua hanno nette differenze con i vertici all’estero. Ovviamente appartengono in maggioranza alla casta militare, ma non sono più studenti; bensì uomini d’azione. Fermamente patrioti prima di essere liberali, i capi militari turchi in Macedonia si trovavano in posizione ferocemente contraria alle interferenze europee negli affari dell’Impero. E se ciò finora era successo soprattutto in Macedonia – governata da una gendarmeria internazionale – la colpa veniva attribuita al debole e corrotto regime di ‘Abdül Hamid II. In origine tale gruppo aveva dieci membri nella sua composizione centrale. Fra questi, membri di spicco del futuro panorama politico turco, come Tal’aat, al tempo impiegato nella direzione delle poste a Salonicco, e un giovane Mustafa Kemal, capo del gruppo “Patria e Libertà” a Damasco. Nato a Salonicco, Kemal, era stato uno degli studenti eccellenti dell’Accademia Militare, organizzata dai tedeschi, dove aveva anche coltivato, a partire dal 1905, i primi legami con le organizzazioni clandestine dedite al risorgimento culturale turco. Sebbene i contatti più assidui fossero stati quelli con il comitato “Unione e Progresso” di Riza, anche Kemal, come i suoi colleghi ufficiali, pensava che l’eterogeneità estrema delle componenti di tale comitato nuoceva ai fini dell’azione. Inoltre maggiori contatti vennero presi con il movimento nazionalistico albanese, il capo del quale Ismail Qemal bey Vlora, dopo anni di ascesa politica nelle strutture del regime, da tempo aveva aderito alle richieste giovani-turche1. 1 Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw cit. pag. 265 131 In seguito, gli ufficiali fondarono un’altra organizzazione segreta, “La Società della Libertà”, sul modello delle associazioni clandestine macedoni, strutturate in piccole cellule, segrete e indipendenti una dall’altra1. Proprio qui spiccò un’altra personalità, determinante per l’avvenire politico della Turchia, Enver Pascià (18811922), addetto allo Stato Maggiore di Hilmi Pascià e sostenitore delle tesi “panturaniche”. Molti erano i legami con la massoneria, soprattutto con le logge d’obbedienza francese e italiana. Midhat Şükrü e lo stesso Tal’aat erano da tempo affiliati nei vari ordini, ma non si può dire che i Giovani Turchi usarono queste leve per penetrare nell’ambiente tessalonicese. Piuttosto per il fatto che le logge straniere, protette dalle Capitolazioni, offrivano maggior riparo e una rete di relazioni ai membri2. Attraverso queste gli ufficiali creavano contatti anche con la middle-class ebraica della città (che con il 40% della popolazione totale costituiva la maggioranza relativa) la quale era per il mantenimento di Salonicco entro le mura dell’Impero. Nel 1907 si crearono nuove premesse per l’unione dei vari componenti jonturchi e a settembre di quell’anno una fusione riunì in un’unica formazione politica il gruppo salonicchese con il Comitato “Unione e Progresso” di Ahmed Rıza. Il nuovo comitato ebbe il nome del secondo ma di fatto fu totalmente dominato dagli ufficiali macedoni. Sempre nel 1907, un secondo congresso a Parigi, aveva potuto riunire il gruppo di Rıza a quelli di Sabaheddin e ai militanti armeni del Daşnak (Federazione Rivoluzionaria Armena), quando oramai prendeva sempre più piede l’idea di un colpo di mano militare a Costantinopoli3. L’ideologia portante di questo nuovo congresso fu sicuramente più radicale di quella che caratterizzò il primo. Alla dichiarazione finale, la quale alla deposizione del Sultano premetteva l’instaurazione di un regime 1 Georges Castellan Histoire des Balcans, cit. pag. 385 Histoire de l’Empire Ottoman… cit. pag. 617 3 Ivi. pag. 619 2 132 rappresentativo, non era estranea l’influenza armena4. I rappresentanti di tale nazione ovviamente speravano di poter sfruttare i mezzi violenti dei militari macedoni al fine delle loro richieste politiche. Ovviamente ciò non passo inosservato agli occhi di Ahmed Rıza. Inizialmente, convinto della necessità di un atteggiamento unitario, egli tenne un atteggiamento non contrapposto ai vertici. Ma ben presto accusò il nuovo CUP di voler adottare gli stessi metodi terroristici che gli Armeni avevano usato precedentemente in Anatolia Orientale. Il suo scontro con Sabaheddin fu inevitabile e ciò permise a Rıza di tornare alle sue posizioni iniziali. La riconciliazione delle diverse cellule europee era stata totalmente un’illusione e l’allontanamento di uno dei suoi capi (appunto Rıza) cambiò molte cose. Alla fine il ruolo giocato dalla diaspora europea nella Rivoluzione Giovane Turca fu sostanzialmente marginale. 2. I Giovani Turchi in azione 2.1 La rivoluzione sbarca a Costantinopoli Nel giugno del 1908, lo zar Nicola II e Sua Maestà britannica Edoardo VII si incontrarono a Reval per discutere a proposito di varie questioni internazionali che riguardavano le sfere d’interesse dei due Paesi. L’avvicinamento fra i due ex-rivali nell’Asia Centrale causò sicuramente sorpresa nell’intero scenario politico mondiale. Da tempo l’Inghilterra s’era avvicinata all’asse Parigi-Pietroburgo e il fatto che adesso le questioni sollevate per decenni venivano cordialmente affrontate in un incontro fra sovrani illustri dava maggior addito alle polarizzazione continentali. Sebbene ufficialmente scopo cardine dell’incontro erano gli sviluppi in corso in Persia, Tibet e Afghanistan, le voci di perplessità e preoccupazione non mancarono nella stampa 4 Staford Shaw – Ezel Kural Shaw op.cit. pag. 265 133 ufficiale ottomana. Forse proprio alla vigilia di tale incontro le voci discordanti intorno alla politica estera scelta da Hamid aumentarono anche dentro le stesse mura del Palazzo. I dubbi sull’intelligenza di spingere verso il tavolo delle trattative il nemico e l’amico storico della Turchia stavano scaldando quelli che più che mai temevano per le sorti dell’integrità ottomana. I colloqui tra i due sovrani vennero tenuti segreti ma la propaganda tedesca, sostenuta da quella austriaca, fece circolare immediatamente la notizia di un possibile intento disgregativo ai danni di Costantinopoli. Preso da queste notizie e sempre più preoccupato dalla situazione in Macedonia, in luglio ‘Abdül Hamid decise di inviare 18.000 uomini tratti dalle divisioni anatoliche nella regione balcanica. I segni infatti sembravano premonitori di ulteriori instabilità. In quei mesi c’era stato un aumento sensibile degli assassinii di sicari e agenti dentro al Palazzo tanto da rendere notizia pubblica questa crisi in corso nella Corte. Contemporaneamente, l’avvicinamento anglorusso aveva messo con le spalle al muro anche la strategia temporeggiatrice dei Giovani Turchi nei confronti di Hamid. Costretti in questo modo a mantenere i loro piani d’azione, loro decisero di agire contro il mal governo della situazione imperiale da parte del Sultano. Il 3 luglio, uno dei loro capi, Niyazi Bey, si ritirò nelle montagne macedoni con i suoi partigiani dando il segnale per una ribellione aperta. L’esempio suo, che metteva in moto la rivoluzione, fu seguito da altri ufficiali della III Armata Macedone (come è il caso del maggiore Enver)1. L’arrivo dell’esercito anatolico non fece che aggravare la situazione per Hamid, dato che i soldati mandati dal suo governo per domare gli intenti rivoltosi, subito si unirono alle truppe macedoni. Tra il 20 e il 23 luglio delle insurrezioni guidate da ufficiali e civili del Comitato “Unione e Progresso” scoppiarono in ogni parte della 1 Histoire de l’Empire Ottoman cit. pag. 619 134 Macedonia (Monastir, Sevres, Skopje e Firzovik) con varie richieste indirizzate all’Yildiz Saraji a favore di un ripristino entro 24 ore della Costituzione del 1876; in caso contrario la III Armata Macedone avrebbe marciato sulla capitale ottomana. Prima che gli inviati raggiungessero il Sultano, il 23 luglio la stessa Costituzione originaria di Mithat Pascià veniva proclamata a Monastir1. Il cedimento immediato di Hamid non fece che sorprendere anche quelli che avrebbero dovuto beneficiare di questa resa incondizionata. Di fatto, quella che doveva essere l’azione decisiva, cioè il coup de main dei rivoltosi a Salonicco, non si fece, giacché il Padiscià, non disponendo più di mezzi e forze contro il Comitato, prese i suoi capi alla sprovvista facendo ampie aperture alle loro richieste. Già il 22 infatti Sa’id Pascià, figura decisamente liberale, veniva nominato Gran Visir contemporaneamente alla pubblicazione di un’irade imperiale che restaurava la sospesa e tanto richiesta Costituzione. Inoltre, all’annuncio di una imminente riconvocazione del Parlamento che venne il giorno dopo, l’entusiasmo della capitale invase tutti gli animi dell’Impero. Dichiarando che la sospensione che egli aveva fatto dei lavori parlamentari era dovuta all’impegno necessario per le modernizzazione del Paese, Hamid dichiarava che i tempi erano ora maturi, e i rischi esterni la favorivano, per la riapertura delle sessioni legislative2. Tutti presero tali affermazioni per quello che realmente erano: almeno momentaneamente il Sultano si arrendeva. Pareva proprio che l’azione fulminea in Macedonia, che secondo le parole dello stesso Enver “aveva reso possibile la guarigione del Malato”, fosse l’ultimo sospiro del trentennale regime di ‘Abdül Hamid II3. Nelle ambasciate, il fattore internazionale presente nella capitale turca rimase unanimemente sorpreso dalla rapidità degli eventi. Ma anche fuori l’eco di un così 1 Ivi. pag. 621 Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw History of Ottoman Empire… cit. pag. 267 3 Histoire de l’Empire Ottoman… cit. pag. 622 2 135 fulmineo regime’s change non passò certo inosservato. All’apatia che segui la posizione tedesca rispose l’entusiasmo diretto del Foreign Office. Il 25 di giugno, il suo vicesegretario permanente Hardinge, annunciava una nuova politica pro-ottomana per il dicastero degli Esteri, appoggiando in pieno gli sforzi di Sa’id e Kamil di riformare il proprio Paese. La nuova attitudine diplomatica verso Costantinopoli venne ufficializzata da un discorso simpatizzante, anche se cauto, di Grey il 27 luglio alla Camera dei Comuni: If Turkey is going to improve the whole government of the country and ensure that the Mahomedans and Christians shall benefit equally by the improvement, that it is better that the Macedonian question should be settled by the Turks taking in hand and doing what for years we have been urging them to do…of course we must await events; but at the present time I can only say this: Our own sympathy must be with those who are trying to introduce reforms1. Ma anche il monito era abbastanza chiaro. Non potendo e soprattutto non volendo ritornare alla vecchia politica di appoggio incondizionato Grey ben presto chiariva che la sua politica rimaneva attendista. Era realmente convinto, come ebbe a scrivere all’ambasciatore britannico a Costantinopoli, che “the effects upon the politics of Europe of a strong and reformed Turkey would be very great”2. Ma d’altronde il Segretario agli Esteri britannico non era affatto pronto a promettere granché al nuovo 1 Joseph Heller, British policy toward the Ottoman Empire, Frank Cass and Company Limited, London, 1983, pag 10 2 C.J. Lowe – M.L. Dockrill, The mirage of power. British foreign policy 1902-1914, cit. pag. 81 136 regime, anche perché, prescindendo dal discorso delle riforme, ciò che Londra s’aspettava dalla Rivoluzione era la marginalizzazione dell’influenza tedesca a Costantinopoli. Grey si mostrò attento a non creare nessuna illusione che la Gran Bretagna si sarebbe schierata in difesa del suo ex-alleato. Tutto quello che lui ebbe da offrire fu che “ our diplomatic attitude will be benevolent and our influence used to secure fair chance for them”. Il reale problema per Londra era un altro. In fondo i Giovani Turchi “are not likely to be in a hurry to put themselves in the hand of any foreign Power. There is a nationlist feeling in the new movement in Turkey which would resent this”. Ma la cosa più importante era che “…we cannot revert to the old policy of Lord Beaconsfield, we have now to be pro-Turkish without living rise to any suspicion that we are anti-Russian” 1 2.2 Analisi e conseguenze della vittoria unionista La vittoria ottenuta dai Giovani Turchi, senza dare battaglia, e il conseguente cedimento inaspettato da parte del Sultano, presero alla sprovvista molti, fuori e dentro il Paese. Guardando in retrospettiva, tuttavia, la rivoluzione si può collocare in quella serie di crisi interne che dal 1907 avevano invaso l’Impero per ragioni finanziarie più che ideologiche. Le raccolte del grano in Anatolia erano andate nel peggiore dei modi. Un’economia sostanzialmente agricola come quella ottomana non poteva di certo resistere all’impennata della pressione fiscale che segui. Questa situazione fece sì che molti soldati, ufficiali e semplici burocrati abbandonassero i posti di lavoro. Sicuramente la propaganda jonturca incise, ma se guardiamo nel concreto ciò che dette più forza all’azione dei militari macedoni non furono le loro richieste istituzionali ma 1 Ivi. cit. pag 11 137 piuttosto che l’aria amareggiante che si respirava nelle tasche dei sudditi ottomani 1. La parte più conservatrice dei Giovani Turchi, quella che più temeva azioni troppo arrischiate, vedendo soddisfatti la maggior parte dei punti programmatici, pensò che l’azione dimostrativa compiuta dovesse necessariamente venir seguita dall’autoscioglimento del Comitato. Ma la maggioranza dei suoi membri, e ancor più importante, i loro leader più influenti, optarono per la continuazione dell’attività politica jonturca. L’immediato, tuttavia, riservò non grandi vittorie per loro. Infatti, gli esponenti principali della rivoluzione di luglio, sebbene avessero vinto una storica battaglia politica, restarono, almeno momentaneamente, ai margini delle istituzioni ancora in mano all’entourage hamidiana. La ragione era tuttavia naturale: oltre al fatto di essere potenti in Macedonia ma sostanzialmente sconosciuti e ininfluenti a Costantinopoli, questi golpisti quasi intimiditi erano totalmente inesperti della politica pratica2. Il ricambio dei vertici del potere sicuramente iniziò già giorni dopo il ripristino della Costituzione, ma venne attuato molto progressivamente. Lì per lì, il ritorno della legalità costituzionale spinse il Sultano a fare un solenne giuramento di fedeltà alla Carta dei diritti. Questo tuttavia non impedì alle autorità influenti a Costantinopoli di lasciare il CUP all’ombra. Nei primi tempi, come d’altronde era immaginabile, le funzioni chiave dello Stato vennero affidate a persone appartenenti all’ancien regime. Personaggi di rilevante statura politica come Kamil Pascià, Hüseyin Hilmi, Ahmed Tevfik o lo stesso Gran Visir Sa’id Pascià, notoriamente vicini alle posizioni liberali e agli interessi inglesi, erano a questo punto nettamente a favore del cambiamento. Comunque non fu una grande sorpresa dato che loro sedevano già prima 1 2 Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw op. cit. pag. 266 Histoire de l’Empire Ottoman… cit. pag. 622 138 accanto al Sultano, sebbene ora i poteri di Hamid si erano notevolmente ridotti. E’ la ragione fondamentale per cui quella giovane turca non fu una rivoluzione a tutti gli effetti. Anzi, guardando a mezzi e metodi usati, il 24 luglio aprì le porte e un vero e proprio golpe riuscitissimo. Quello che seguì fu semplicemente una restaurazione di una carta costituente, vecchia di trent’anni, la quale non promosse alcun reale cambio di potere; per di più se questo evento, comunque di portata epocale, venne guidato da uomini privi di un programma in campo sociale. Ed era proprio la questione sociale che creava frizioni dentro lo stesso Comitato “Unione e Progresso” e che era la necessità primaria per il Paese. Insomma, tutto doveva ancora avvenire. Col senno di poi, la tanto celebrata Rivoluzione Giovane Turca, può essere guardata come un rinnovamento in prospettiva, diventando la pietra miliare dei successivi 10 anni di vita del potere ottomano. Era l’atmosfera, piuttosto, che era caratterizzata da incandescenza rivoluzionaria. I Giovani Turchi approfondirono, accelerarono e polarizzarono i maggiori punti di vista che avevano segnato la vita politica dell’Impero Ottomano verso la fine del diciannovesimo secolo. Ottomanismo e nazionalismo, liberalismo e conservatorismo, Islamismo e Turchismo, democrazia ed autocrazia, centralizzazione e decentramento – tutto ciò iniziò ad accompagnare la disputa sull’essenza dell’Impero e segnò la svolta che portò l’Impero alla prima guerra mondiale. Alcuni giorni dopo l’entrata dei vertici della III Armata Macedone nella capitale, il 27 luglio, venne proclamata dalle autorità centrali un’amnistia generale. Ovviamente le difficoltà furono innumerevoli per le autorità giudiziarie e quelle della polizia siccome insieme ai detenuti politici vennero liberati anche tanti prigionieri 139 comuni. Inoltre, la moltiplicazione dei giornali, fin’allora clandestini, venne seguita dal rientro di molti esuli, in primis Sabaheddin, accolti in modo festivo. Ma passato l’entusiasmo generale, passate anche le frasi di circostanza (Enver avrebbe presto proclamato: “Non ci sono più Bulgari, Greci, Valacchi, Ebrei o Mussulmani. Siamo tutti fratelli, orgogliosamente Ottomani!1), i problemi che questa ennesima Crisi d’Oriente sollevò furono tanti; innanzitutto vi era il quesito chiave: chi doveva governare? Il Parlamento subito apparì bloccato dalle richieste ostruzionistiche dei rappresentanti non-turchi. Soprattutto Greci e Armeni, siccome avevano dato un importante aiuto ai Giovani Turchi in esilio, ora chiedevano ricompense nel senso di un’allargata autonomia per le loro rispettive popolazioni2 ‘Abdül Hamid presto sparì dalla politica pubblica limitandosi ad osservare, dando così più spazio e respiro all’azione governativa della Sublime Porta. Quest’ultima, dal canto suo, intenta di riappropriarsi di un potere perduto da trent’anni, voleva giocare sulle spalle di un eventuale conflitto fra CUP e Sultano. Ma non fu affatto facile! I Giovani Turchi, visto l’indifferentismo generale rivolto a loro nella capitale, dopo luglio, iniziarono ad agire tramite il Comitato Centrale (Merkez-i Umumi) di “Unione e Progresso” rimasto a Salonicco e per di più in condizioni di clandestinità. Ogni tanto si riservavano il diritto di mandare piccole delegazioni alle quali normalmente partecipavano i soliti Tal’aat, Rahmi, Cavid, il dott. Nazim Bahaeddin, Şakir o Ahmed Riza. Lo scopo, e poteva essere solo quello, consisteva nel dare e imporre il proprio punto di vista al Gran Visir e al Sultano. Ovviamente tale modo di agire, uguale ad gruppo di pressione occulto, non tarderà a dare i primi screzi e fastidi. 1 2 Georges Castellan Histoire des Balcans cit. pag. 386 Staford Shaw – Ezel Kural Shaw op.cit. pag. 273 140 2.2 La posizione di Londra e le sue divisioni interne Dal carteggio diplomatico che abbiamo avuto a disposizione, sembra che la persona più entusiasta dei risultati che apportò la Rivoluzione di luglio sia stato il vicesegretario permanente del Foreign Office Hardinge. Il vice di Grey, ma anche lo stesso segretario agli Esteri, avrebbero in quella occasione dimostrato di essere abbastanza ottimisti su una migliore prospettiva per l’alleanza anglo-turca dopo l’emergere al potere dei Giovani Turchi. Ovviamente nella sua posizione politica Grey non si sbilanciò mai tenendo conto anche di una possibile reazione russa che rimaneva in ogni caso alquanto dubbiosa nei riguardi di qualsiasi spinta riformistica turca. Anzi, per molti storici, soprattutto non britannici, Grey, a differenza dei suoi due predecessori conservatori, Salisbury e Lansdowne, appare il personaggio chiave dello strappo netto che avverrà fra Londra e Costantinopoli da lì a qualche mese. Non così per gli storici inglesi, i quali anche basati su varie corrispondenze diplomatiche, affermano che, con tutte le riserve effettivamente dietro le scene internazionali, Grey soprattutto attraverso il suo vice Hardinge, si mise a disposizione dei nuovi governanti a Costantinopoli. Proprio per non dar alito alle molte perplessità che vi erano state in seno ai Giovani Turchi riguardo alle possibili future alleanze in politica estera, il Ministero degli Esteri londinese tenne una posizione abbastanza moderata. Non vi fu quindi da parte londinese una specifica richiesta di rottura ufficiale con le autorità di Berlino e proprio per il carattere nazionalistico del nuovo regime Grey bocciò l’idea di mandare nei Dardanelli una sezione della flotta reale1. Proprio in quei giorni venne inviato a Costantinopoli un nuovo rappresentante in qualità di ambasciatore. In questa occasione, Hardinge ebbe modo di dire: 1 Joseph Heller, British policy toward the Ottoman Empire, cit. pag. 12 141 We are quite convinced that a good administration in Turkey will be of the greatest advantage to British interests, although perhaps i twill not be to the advantage of other more interested Powers… It is a splendid opportunity for Gerard Lowther to arrive at Constantinople after such a crisis, and we cannot help thinking that it may be possible in the near future to entirely reverse our attitude and policy towards Turkey of the last few years.1 In un certo senso, gli Inglesi erano convinti che a priori il successo della rivoluzione era stato un colpo mortale per le ambizioni tedesche nell’Impero Ottomano, dato che il suo maggior architetto, il Sultano, era stato letteralmente messo fuori gioco. Quello che di conseguenza andava fatto era una paziente e progressiva ricucitura. A questo servirono i primi avvisi del nuovo ambasciatore Lowther il quale, appena approdato a Costantinopoli, consigliò un progetto di sostituzione dell’attaché tedesco vicino alla Sublime Porta, guidato dal generale Von der Glotz con un gruppo di consiglieri finanziari e navali inglesi che gli dovevano fare da contrappeso2. Accordati con Vienna e Pietroburgo, i quali ribadirono la loro volontà di non intervento negli affari turchi, la politica seguita da Grey sostanzialmente non era nuova. Essa di nuovo si concentrava sulle riforme interne, consigliando le autorità ottomane di non fare il passo più lungo della gamba. Questo, il segretario britannico agli Esteri, lo collegava soprattutto al rinnovamento dell’amministrazione interna, troppo corrotta ed 1 Hardinge to Barclay (Costantinople), 30 June 1908, F.O. 800/193 A in C.J. Lowe – M.L. Dockrill, British Foreign Policy: the documents 1902-1914, cit. pag. 464 2 Joseph Heller, op. cit. pag. 12 142 inefficace, e dal consolidamento finanziario. Ovviamente non era una filosofia altruistica. Con l’assicurazione del nuovo regime turco Grey auspicava anche una nuova apertura dei mercati ottomani ai capitali inglesi. Nello stesso tempo non tutto era così scontato per Londra. La reazione che ebbe Mallet, il capo della Eastern Department, alla nomina da parte di Costantinopoli di una consigliere finanziario francese per il risanamento, fu abbastanza violenta1. Ben presto infatti, nella scena interna turca, violenti scontri di potere scoppiarono fra il vecchio Sa’id Pascià e gli Unionisti. Il primo, anche per un già dimostrato orientamento filo britannico, era nettamente preferito da Londra per il disegno di una nuova politica estera. La questione non fu evidentemente una delle più formali. Di fatto la Costituzione riconosceva al Gran Visir il diritto di scegliere i membri del Gabinetto ma nel disperato tentativo di neutralizzare le insistenze del CUP, Sa’id dette al Sultano la prerogativa di nomina per due dicasteri, il Ministero della Marina e quello della Guerra, istituzioni chiave per poter chiamare all’ordine i Giovani Turchi. Il tentativo fra dibattiti e tensioni non tardò a fallire e Sa’id si vide costretto a rassegnare le dimissioni. Restii ad intervenire, gli Inglesi ovviamente non vedevano di buon occhio le difficoltà che il governo di Sa’id aveva incontrato da parte dei militari. Sebbene in senso formale la posizione di Sa’id e quella di Kamil erano più vicine al Sultano di quella dei Giovani Turchi, l’appoggio e la sostanziale speranza che Hardinge aveva messo nelle mani di questi due vecchi politici era enorme. In riferimento anche all’affaire della Baghdad Express, dove le due personalità succitate si erano da tempo spese a favore delle concessioni agli Inglesi, Londra non considerava intelligente affidarsi a dei 1 Ivi, pag. 13 143 militari che della politica internazionale erano sia ignari che inesperti. Come disse Hardinge: I can only hope that the Young Turk movement has a permanent basis, and that it may perhaps be a bulwark to the new Constitution. Unless this is so, I cannot help feeling that the Sultan will not accept the present situation, but will endeavour to upset it on the first possible occasion. In this course he would no doubt be encouraged by Germany, since that power cannot feel at all pleased at the blow her influence will receive in Constantinople.1 L’ambasciatore Lowther era ancora più critico verso i Giovani Turchi. Già un mese dopo la Rivoluzione, le sue riserve verso il nuovo regime erano evidenti. Nello stesso tempo, dentro il suo staff, gli faceva eco una persona molto influente a Costantinopoli, la vera eminenza grigia della presenza inglese in Turchia, il capo dragomanni Fitzmaurice. Dal lato suo, quest’ultimo, sebbene riconosceva ai vertici del CUP il fatto di essere “impersonal and have a great sense of responsibility” temeva molto “a desperate internal struggle accompanied by disorders”, le quali, nella sua analisi, potevano provocare l’intervento russo2. Sicuramente ciò che Grey e Hardinge continuavano a temere era Hamid ma forse, anche per l’incapacità analitica degli agenti britannici presenti a Costantinopoli, essi non avevano fatto bene i calcoli. Attraverso Fitzmaurice, il 2 settembre, Lowther 1 2 Hardinge to Barclay…in C.J. Lowe – M.L. Dockrill op. cit. pag. 464 Fitzmaurice to Tyrrell, 25.08.1908. Pte. BD. V. no. 209, in Joseph Heller, op. cit. pag. 13 144 incontrò Mehmed Tal’aat e il dr. Bahaeddin Shakir, segretari dell’interno ed esterno dipartimenti del CUP. Impressionato dalle loro idee moderate e dal loro orientamento pro-Londra, Lowther enfatizzò l’importanza di tenere il Sultano fuori dal reale circolo di potere. Ma fu oltremodo attento a non estendere più di tanto le sue istruzioni. Da più vicino infatti, per chi respirava l’aria politica a Costantinopoli, sembrava che il gioco di Sa’id veniva perfettamente retto dal Sultano in persona. Ma anche perché gli era abbastanza chiaro, come ricordava sempre a Grey, che il movimento costituzionalista era sempre di carattere tendenzialmente nazionalistico, con la conseguenza che ogni posizione straniera veniva vista con sospetto. Parallelamente al crescere dei dubbi unionisti su Hamid, si ebbero anche previsioni sempre più pessimistiche da parte di Lowther. Quello che la rappresentanza politica inglese a Costantinopoli temeva di più era una deriva dittatoriale da parte del CUP. Sebbene la visione di Hardinge continuava ad essere speranzosa (…we intend to persist and to do all we can to improve our finacial position in Turkey1), ciò che stroncò ogni tentativo di rilancio dell’alleanza anglo-turca fu la posizione tenuta dal fattore finanziario britannico. Rotschild e Baring rifiutarono di prendere parte al rinnovamento economico dell’Impero Ottomano offrendo come motivazione il fatto che le finanze turche per loro non offrivano abbastanza sicurezza. Soprattutto, ciò che ancora di più causò la persistenza dell’inimicizia fra Londra e Costantinopoli era il fatto che le condizioni del bilanciamento di forze in Europa erano irrimediabilmente cambiate. Il fattore più importante per la politica estera britannica era ora la Russia e la necessità di preservare l’amicizia anglo-russa – anche a spese ottomane – spiegava l’atteggiamento in ogni caso anti-turco di quei giorni. Un esempio chiaro ne fu proprio una disputa 1 Ivi. pag. 14 145 territoriale fra Impero Ottomano e Persia nella quale Londra ribadì la sua forte posizione in Mesopotamia tenendo le parti di Teheran. In ogni modo, la nuova nomina a Gran Visir per Kamil Pascià, un altro liberale precedentemente vicino al Sultano, non riuscì oltremodo a superare l’impasse istituzionale. Peggio, il nuovo programma di riforme centralizzatrici non fece che accrescere i timori sociali in un clima dove gli effetti stagnati della crisi sull’economia s’erano appena fatti sentire. Più precisamente, esso proponeva novità importanti anche in rapporto con le Potenze. I trattati si sarebbero ridiscussi e il regime delle Capitolazioni avrebbe subito delle modifiche dando luogo a convenzioni specifiche con le singole Potenze. A questo si aggiungevano nuove tasse sul lavoro e la proposta di abolire i privilegi derivanti dal sistema del Millet1 L’ondata di scioperi che seguì la nomina del nuovo premier (6 agosto) spinse il CUP a non affaccendarsi in affari di politica economica e di guardare soltanto alla vigilanza della Costituzione. Ma questo atteggiamento non sarebbe stato un antidoto valevole per spegnere i nuovi problemi. Infatti, il peggio doveva ancora arrivare per gli Unionisti e per la Turchia stessa. 3. Le varie reazioni a catena: Bulgaria, Bosnia e Creta si staccano da Costantinopoli La nuova crisi d’Oriente trovò in questo modo il potere ottomano abbastanza indebolito. Era naturale che la prima reazione da parte degli altri Stati all’anarchia interna turca sarebbe stato il cercare di ricavarne qualcosa. I primi interessati furono gli 1 Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw op. cit. pag. 275 146 Austro-Ungheresi. Era infatti dal 1878 che i circoli dello Stato maggiore a Vienna sognavano la completa annessione della Bosnia-Erzegovina, rafforzando così nell’entroterra la loro presenza dominante sull’Adriatico. Sebbene de facto la regione già venisse amministrata dagli Austriaci (insieme al Sangiaccato di Novi Pazar), a livello giuridico essa ancora apparteneva al Sultano. Per le autorità asburgiche il problema non consisteva tanto nelle reazioni di Costantinopoli, quanto nelle preoccupanti grida nazionalistiche provenienti dalla Serbia, per la quale la Bosnia era una sorte di Alsazia – Lorena. Dal 1903, nella capitale serba molte cose erano cambiate. Il passaggio di potere dalla dinastia dei Obrenović a quella dei Karagiorgević ridimensionò anche i fondamentali orientamenti in politica estera da parte della Serbia. Mentre i sovrani della prima famiglia rimasero strettamente legati alle direttive del Balhauseplatz, l’esordio al trono da parte di Pietro I Karagiorgević (1903), diresse la diplomazia belgradese verso posizioni più vicine alla Russia, vecchia antagonista dell’Austria nei Balcani. L’annessione della Bosnia per gli Austriaci era in questo modo una doverosa compensazione per rimettere a posto un equilibrio pericoloso. Ma non tutto fu così chiaro sin dall’inizio. La Rivoluzione di luglio a Costantinopoli fece ritornare nelle sedi internazionali la questione delle riforme a favore delle popolazioni cristiane nei Balcani. Inizialmente il conte Aehrethal, ministro asburgico degli Esteri, era molto dubbioso sugli intenti da perseguire e consigliò Gran Bretagna e Russia di andare cauti con le proposte 1. Rimaneva infatti convinto dell’inutilità di schemi troppo drastici a favore dei Cristiani che avrebbero soltanto irrigidito le posizioni del Sultano. Il fatto che i disordini interni all’Impero fossero 1 F.R. Bridge, The Habsburg Monarchy and the Ottoman Empire 1900-1918 in The Great Powers and the Ottoman Empire (edited by Marian Kent) cit. pag. 31 147 partiti dalla Macedonia dimostrava, secondo il ministro degli Esteri austriaco, quanto erano fallimentari tali schemi (il riferimento ovviamente andava al Programma di Mürzsteg, firmato anche da Vienna). In aggiunta gli eventi dell’estate 1908 avevano rivelato quanto cinque anni di riforme non avessero stabilizzato la regione. Ma sicuramente non poco contribuirono le incomprensioni fra i Giovani Turchi e la situazione internazionale a far cambiare la iniziale cauta posizione asburgica. Non altrettanto poco influirono i vari punti programmatici dei nuovi governanti a Costantinopoli, secondo i quali, tutti i mussulmani balcanici, compresi i Bosniaci avrebbero mandato dei rappresentanti nel riaperto parlamento Ottomano. Agli occhi di Vienna ciò significava umiliare il prestigio internazionale di una Potenza da trent’anni amministratrice, avendo essa stessa difficoltà nello stabilire il regime giuridico della provincia bosniaca. La mossa conseguente, quella di annettere la provincia bosniaca, fu fatta per cancellare ogni ambiguità riguardo ai reali confini fra i due Imperi. In sé, era da tempo che il governo asburgico non si interessava più di tanto della questione turca1. Non ci sarebbe dunque motivo di dubitare della sincerità di Aehrenthal quando, scrivendo all’ambasciatore britannico, lo assicurava che “earnestly desire the success of the constitutional movement in Turkey, if only because AustriaHungary needed a strong government in Constantinople”2. Vienna comunque non poteva permettere un suo coinvolgimento nella crisi interna delle istituzioni turche e la 1 Al passaggio del secolo infatti si assiste ad un decrescente interessamento austriaco riguardo alle tematiche che più avevano preoccupato Vienna durante l’ultima decade dell’Ottocento: Creta, Albania e Stretti. Gli Austriaci erano stati ben contenti di lasciare Creta nelle mani della supervisione delle quattro Potenze (le quali regolarmente informavano Vienna riguardo a possibili cambiamenti nello status dell’isola). In Albania l’Impero Austro-Ungherese semplicemente rispettò gli accordi del 1897 e 1900 con Roma, per prevenire uno sbarco italiano sulle coste adriatiche. Poco poté fare del resto riguardo alla penetrazione scolastica che Roma, Parigi e Vaticano stavano facendo in Albania, sempre più vicina all’indipendenza. Infine, nella difesa degli Stretti dall’interferenza della Russia, gli Asburgici lasciarono l’Inghilterra da sola. Nel 1903, il ministro degli Esteri di Francesco Giuseppe, Goluchowski, rifiutò di unirsi alla protesta di Londra contro il passaggio di una nave russa disarmata attraverso i Dardanelli. Preferì piuttosto dedicarsi, in condominum con i Russi, alla questione macedone. 2 F.R. Bridge cit. pag. 38 148 mancanza di chiarezza riguardo alla sua posizione in Bosnia sicuramente apportava questo rischio, soprattutto dopo le sopracitate dichiarazioni jonturche. Aehrenthal era fermamente convinto di questo, e il suo omologo a Pietroburgo Isvolski aveva dei piani abbastanza affini, volendo inoltre ricompensare la Russia per l’umiliazione subita a Port Arthur ad opera dei Giapponesi. Nel luglio 1908, il capo della diplomazia russa propose alla controparte austriaca una serie di servigi corrisposti: la Russia avrebbe accettato l’annessione della Bosnia da parte dell’Impero Asburgico nello stesso tempo che la diplomazia viennese avrebbe facilitato l’apertura degli Stretti per le navi dello Zar – chiuse dal 1841 a tutte le navi da guerra non turche1. Lo scoppio della Rivoluzione a Costantinopoli qualche giorno dopo, dette ad Aehrenthal l’occasione che serviva. Dopo un incontro svolto nel castello di Buchlau, i due ministri trovarono in principio un accordo sulla reciproca compensazione da effettuare. Mancarono, tuttavia, sia i verbali ufficiali del loro accordo, sia una data prestabilita su quando comunemente agire. Pochi giorni dopo tocco al principe Ferdinando di Bulgaria fare un viaggio a Vienna durante il quale lui espresse la volontà del suo Paese di sciogliere ogni legame, anche formale, con il governo turco2. Giudicandola una alternativa valevole per aumentare l’influenza austriaca a Sofia, 1 Georges Castellan Histoire des Balcans cit. 386 Il Principato bulgaro, che includeva de facto la Rumelia orientale (dal 1885) non aveva avuto una vita facile fino in quel momento. Mentre il primo principe designato dall’Assemblea nazionale nel 1879, Alessandro di Battenberg, era stato costretto dai Russi ad abdicare (1886), neanche la Reggenza che lo seguì ebbe una lunga esistenza. Il suo capo, S. Stambolov, fermo oppositore dell’influenza russa nel Paese, dopo aver orientato la Bulgaria verso Germania ed Austro-Ungheria, istaurò una vera e propria dittatura. Il principe che egli stesso mise nel trono, Ferdinando di Sax-Coburgo, stanco della rivalità con la Russia, lo esautorò non molto dopo. Nel 1895 Stambolov morirà in seguito ad un complotto, organizzato, pare, dalla Corte. Come in Serbia e Grecia, la vita politica bulgara si caratterizzava per conflitti personali e clanici. Nella politica estera, usufruendo del diritto di rifiutare la presenza di truppe ottomane sul proprio suolo, e godendo dell’appoggio russo, Ferdinando orientò la Bulgaria verso l’attivismo in Tracia e soprattutto in Macedonia. Ovviamente la principale ambizione rimaneva la Bulgaria di Santo Stefano e si sperava di poter attuare lo stesso schema di annientamento usato in Rumelia anche alle altre limitrofi regioni d’etnia bulgara. 2 149 Aehrenthal lo spinse a prendere il titolo di zar, ripristinando cosi una medioevale tradizione bulgara. Alle opinioni seguirono i fatti. Il 5 ottobre 1908, Ferdinando dichiarò la Bulgaria indipendente, precedendo di un giorno la dichiarazione di Aehrenthal, il quale annunciava alle altre cancellerie europee l’annessione della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Impero Austro-Ungherese. A poche ore di distanza, anche l’Assemblea di Creta, volendo approfittare a sua volta della crisi, annunciava l’unione (enosis) dell’isola col regno della Grecia; un Comitato esecutivo, formato da cinque membri iniziò a governarla nel nome di re Giorgio I1. Erano sicuramente dei territori che solo a titolo formale costituivano territori ancora del Padiscià, ma le novità non mancarono di suscitare un polverone diplomatico così grande che seriamente la situazione pareva sull’orlo della guerra. I Turchi presero l’occupazione austriaca nell’unico modo in cui potevano realmente prenderla: una usurpazione di un loro territorio. Il nuovo regime a Costantinopoli in quel momento non poteva che girare gli occhi verso l’Inghilterra dove in particolare il ministro degli Esteri russo non godeva di grande simpatia. Rifiutando l’atto unilaterale austriaco, il governo Asquith minacciò di ricorrere al suo diritto derivativi dai trattati internazionali di Berlino (1878) e non riconoscere l’annessione se Vienna non si fosse concordata con i Turchi almeno su un equo indennizzo2. 1 Ad Atene i problemi presentavano un'altra tipologia. Davanti alle proteste di Costantinopoli e a quelle delle Potenze, le quali essendo garanti dello status cretese non erano state avvertite, il governo greco esitò e rimase nell’immobilismo più totale. Dopo vari cambi nella direzione dell’esecutivo, gli ufficiali crearono la “Lega Militare” con a capo il col. Zorbas, il quale diresse un pronunciamento militare affine ad un colpo di Stato (15 agosto 1909). Sebbene appoggiati dall’opinione pubblica, gli ufficiali non trovarono soluzioni alle problematiche politiche del momento. Ben presto chiesero l’appoggio del Primo Ministro cretese Elefteros Venizelos che nell’ottobre 1910 prese il potere ad Atene avviando una riforma dello Stato ellenico, ridimensionando il ruolo dei militari . L’annessione di Creta al regno della Grecia avrà un riconoscimento internazionale soltanto dopo le Guerre Balcaniche con il Trattato di Londra . 2 C.J. Lowe – M.L. Dockrill, The mirage of power, cit. pag. 82 150 Il tono altamente moralizzante e indignato usato da Grey creò grande irritazione nelle cancellerie diplomatiche viennesi tanto da far rimanere restie le autorità austriache verso un accordo postumo con i Turchi. Ma ben presto dovettero convincersi del contrario. Alle note ufficiali segui il boicottaggio delle merci austriache, grave affronto per Vienna, la quale aveva importanti interessi commerciali nei mercati ottomani. Dal canto suo, Belgrado reagì pesantemente inviando proteste agli amici russi e francesi. Pietroburgo si trovò davanti ad un opinione pubblica infervorata dalla propaganda panslavista. Il suo capo della diplomazia, Izvolski, non avendo fatto nessuna consultazione precedente con i suoi colleghi di governo, si trovò sul palco degli imputati. Cercò di accordarsi con Grey, il quale aveva annunciato un nuovo congresso fra le Potenze per discutere della questione bosniaca. Ma il ministro degli Esteri inglese ben presto ammonì il suo omologo russo che l’intenzione di tale conferenza sarebbe stata la compensazione alla Turchia e non il cambiamento del regime degli Stretti come Pietroburgo desiderava1. Trovandosi alle strette e volendo salvare la sua posizione Izvolskij agì tempestivamente in difesa delle pretese serbe. La mossa che fece, negando qualsiasi piano congiunto con gli Austriaci, non funzionò; il suo omologo asburgico lo accusò di menzogna e di approfittarsi del fatto che i verbali dell’incontro non erano stati compilati. La polemica che ne seguì, per mesi, suscitò enorme scalpore e attirò l’attenzione di tutte le diplomazie europee. Il 21 marzo del 1909, con una forma d’ultimatum diretto Guglielmo II prese le posizioni in difesa di Vienna: il ministro russo avrebbe dovuto accettare apertamente l’annessione della Bosnia, se al contrario non avrebbe voluto trovarsi davanti ad un azione comune austro-tedesca. Izvolskij, facendo un passo indietro, entrò subito in contatto con Belgrado per poter placare gli animi. 1 Ivi, pag. 83 151 Stavolta, il gioco negoziale funzionò: in una nota del 31 marzo inviata all’Austria e alle altre Potenze, la Serbia dichiarava che i suoi interessi non erano stati minacciati dal fait accomplit in Bosnia-Erzegovina. Ad aprile, un altro accordo, stavolta fra Vienna, Costantinopoli e Sofia, sancì il nuovo stato delle cose: il Sultano accettava la doppia disintegrazione del suo Impero (Bosnia e Bulgaria), ricevendo in controparte un indennizzo finanziario insieme alla consegna del Sangiaccato di Novi Pazar da parte della monarchia asburgica1. Inoltre, il governo di Vienna si impegnava pubblicamente ad aiutare la Porta nell’intento di abolire il regime delle Capitolazioni2. In tutti e due i casi, il sultano rimaneva l’unico leader spirituale della vita religiosa dei Mussulmani sia in Bulgaria che in Bosnia. Dal canto loro, i governi di questi Paesi assicuravano il Califfo che non solo la politica da perseguire nei confronti dei suoi sudditi sarebbe stata quella della tolleranza religiosa, ma anche che i rispettivi Stati avrebbero contribuito finanziariamente alla costruzione di scuole islamiche. Senza molto eco, ma determinante dietro le scene, era apparsa la posizione di Berlino durante la crisi. Come per chiunque altro, la rivoluzione giovane turca dell’estate 1908 e la conseguente resa di Hamid destò molta sorpresa anche nello staff di Guglielmo II. La precipitosa situazione confusa spinse molte personalità tedesche presenti a Costantinopoli, l’ambasciatore Marschall in primis, a lasciare il Paese3. Più che ad intimidazioni, questa “fuga” generale era dovuta alla non chiara posizione del CUP in politica estera. Sicuramente i vertici militari erano per la continuazione della stretta amicizia con Berlino, ma non si potesse star indifferenti di fronte a molti Giovani Turchi, che denunciando il supporto che i Tedeschi avevano dato al regime del Sultano, 1 Georges Castellan, Histoire des Balcans cit. 387 Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw, op. cit. pag. 277 3 Ulrich Trumpener, Germany and the end of the Ottoman Empire in The Great Powers and… cit. pag. 123 2 152 guardavano con simpatia all’Inghilterra. La decisione da parte dell’Austria-Ungheria di annettere la Bosnia-Erzegovina non fece che deteriorare ulteriormente la situazione. Era chiaro che i Turchi avrebbero addossato una parte della colpa al Kaiser essendo Vienna il suo maggiore alleato. Tuttavia, la diplomazia tedesca ebbe importanti possibilità, e le sfrutto pienamente, per ribaltare la sua posizione presso i Giovani Turchi. Tramite azioni diplomatiche molto astute, in particolare riguardo alla questione macedone e quella cretese, la Wilhemstrasse gradualmente restaurò il suo prestigio nella capitale ottomana. Il resto venne fatto dai grossolani errori dei diplomatici inglesi prima e durante gli eventi dell’aprile 1909. Già a novembre i Giovani Turchi avevano chiesto – dopo trent’anni che la diplomazia hamidiana si rifiutava – una rinnovata alleanza angloturca, ma non volendo incitarli verso posizioni sempre più intransigenti Grey rifiutò1. Pietroburgo era uscito nuovamente senza nulla in tasca dopo questa crisi e accordarsi con Costantinopoli voleva dire buttare al mare tutti gli apporti positivi che il ravvicinamento anglo-russo da alcuni anni donava. Ovviamente la Foreign Office non mancò di assicurare i Giovani Turchi che ogni altro tentativo anti-ottomano da parte di Vienna avrebbe apportato la flotta britannica a fianco di Costantinopoli. Ma dopo perdite così dannose come quelle di ottobre il CUP sicuramente non poteva accontentarsi di una semplice ipotesi. I veri perdenti dell’ennesima crisi orientale erano Serbia e Montenegro. Soprattutto la prima, la quale di nuovo veniva privata di uno sbocco nel Mediterraneo, avendo promesso di contenere le sue spinte irredentistiche verso la Bosnia, ormai austriaca. Ma neanche la Russia era molto contenta non avendo essa ricevuto una ricompensa soddisfacente delle sue ambizioni. Sebbene ci fu un accordo con la Porta – secondo esso, la Russia annullava il 40% dei pagamenti ottomani in quanto indennità di 1 C.J. Lowe – M.L. Dockrill The mirage of power, cit. pag.83 153 guerra avendo preso Sofia il posto di Costantinopoli nei confronti di Pietroburgo1 - lo zar Nicola II considerava un pericolo contro l’equilibrio del potere la spinta austriaca nei Balcani. Fu quello infatti il momento decisivo in cui la Russia fa la tanto attesa mossa di affiancarsi alla Triplice Intesa con Inghilterra e Francia abbandonando definitivamente ogni possibile ipotesi di ritorno nel seno della Lega degli Imperatori. L’accordo fra Vienna e Costantinopoli è abbastanza significativo in questo contesto. Il risultato fu che, insieme alla nuova amicizia e concordanza anglo-russa, il ravvicinamento, sotto spinta tedesca ovviamente, fra Impero Ottomano e Impero Asburgico darà il colpo di grazia alla ormai remota amicizia fra Londra e Costantinopoli. Varie ragioni, vari eventi e soprattutto tanti sbagli avevano spinto i due ex-alleati verso due coalizioni contrapposte. Sicuramente la posizione di Grey fu abbastanza accondiscendente verso le lamentele turche ma non così tanto da potersi permettere il rischio di irritare i Russi. L’umiliazione che Pietroburgo subì dopo l’ultimatum tedesco non lasciava spazio di manovra all’operato diplomatico dell’esponente liberale. Anzi dagli stessi membri del suo Gabinetto Grey venne indotto a non favoreggiare troppo i diritti ottomani di risarcimento economico. Churchill stesso ammetteva che la presa di posizione inglese contro l’Austria era iperreattiva dal momento che questa Potenza in fondo per trent’anni aveva amministrato la Bosnia. In una disputa fuori da una sua area di interesse, come Grey dovette ammettere più tardi, l’Inghilterra non offrire nulla “except advice, which is equivalent to suggesting a settlement at the expense of other people, who are not prepared to make sacrifices or dare not to face their own people if they do”2 Da qua alla inimicizia totale nella Grande Guerra il passo fu veramente breve. 1 2 Ulrich Trumpener op.cit. pag. 277 C.J. Lowe – M.L. Dockrill, op.cit. pag. 85 154 4.G li errori inglesi e la detronizzazione di ‘Abdül Hamid II Al ritrovato accordo esterno non seguì una pacificazione delle conflittualità interne. Dentro le mura delle capitale ottomana delusioni, rancori e inimicizie non davano certo l’aria di una quiete istituzionale. Gli avvenimenti di ottobre dettero un duro colpo al prestigio, già da prima dubbio, che i Giovani Turchi avevano a Costantinopoli. Il loro cavallo di battaglia, la difesa dell’integrità imperiale a prescindere dalle riforme da attuare, era stato il primo ad essere abbattuto a pochi mesi dal loro insediamento. Infatti, quello che il Sultano dalla mano forte era riuscito con tanti sacrifici a non perdere in trent’anni - l’ultima perdita era stato l’Egitto nel 1882 – il CUP l’aveva fatto in così poco tempo. Ovviamente alle pesanti critiche che venivano da ogni parte, soprattutto da Sabaheddin, ormai ala distaccata da mesi dal CUP, il Comitato rispondeva deviando le responsabilità sul mal governamento precedente. La stampa era infuocata e le tensioni politiche ben presto trovarono il loro luogo ideale per sfociare. Ma neanche al esterno la situazione pareva che migliorasse. Sebbene in pubblico continuassero a dichiararsi simpatizzanti del nuovo regime, Grey e il premier Asquith, progressivamente cambiarono le loro aspettative sui Giovani Turchi. Dopo la crisi d’ottobre la posizione inglese passò da generici dubbi, in un aperto criticismo verso Costantinopoli. In parte, tale atteggiamento veniva giustificato con una perdita d’influenza che Londra pareva subisse nei palazzi di potere ottomani. Sebbene Kamil rimanesse sostanzialmente filo-inglese, era ben chiaro che la sua personalità, davanti al 155 CUP fosse molto debole. Salivano le critiche della rappresentanza diplomatica inglese a Costantinopoli e nello stesso tempo crescevano gli adepti dentro il Foreign Office di una certa scuola gladstoniana riguardo ai rapporti anglo-ottomani. A subire l’influenza di quest’ultima fu anche il cauto Hardinge, il quale vedeva nella mancanza e l’euforia nazionalistica dei Giovani Turchi la causa della stagnazione dei loro rapporti con Londra. Sostenendo l’ambasciatore Lowther in rotta col Comitato, il vicesegretario permanente di Grey, da un atteggiamento ottimista arrivò a sostenere la necessità “that is deliverable that this Young Turk Committee should disappear in the near future, otherwise they will in course of time deteriorate”1. Nelle parole di Hardinge, quello che il governo inglese temeva era non più un ritorno di Hamid quanto il sospetto che gli orientamenti diplomatici del CUP sarebbero stati peggiori del precedente ostruzionismo del Sultano verso Londra. Nel novembre-dicembre dello stesso 1908 vennero organizzate le prime consultazioni elettorali per l’insediamento del Parlamento bicamerale da poco riaperto. L’atmosfera, già precedentemente non quiete, divenne ancor più litigiosa dall’antagonismo crescente fra CUP e il suo maggior oppositore, il Partito Liberale Ottomano (l’Osmanlı Ahrar Fırkası), capeggiato nientedimeno che dal principe Sabaheddin. Mettendo l’accento sull’uguaglianza e sulle pari opportunità fra mussulmani e non, sostenendo come programma il decentralismo amministrativo, il PLO riuscì, come era prevedibile, a raccogliere il consenso delle nazionalità non turche. Tuttavia questo non bastò! Le elezioni, svolte con il suffragio indiretto maschile, vennero vinte quasi dappertutto dal CUP. Oltre ad una macchina organizzativa efficientissima come l’esercito, gli unionisti avevano davanti un oppositore poco 1 Joseph Heller, British policy toward the Ottoman Empire 1908-1914, cit. pag. 24 156 coordinato da poter vincere. Lo stesso Gran Visir Kamil, candidato liberale nella capitale, perse di misura contro un avversario sconosciuto del CUP1. Il Parlamento venne aperto il 17 dicembre e Ahmed Rıza, ritornato nel seno del CUP dopo l’allontanamento di Sabaheddin, ne divenne presidente. Alle celebrazioni seguirono duri colpi d’attacco da parte dei rappresentanti dei popoli non turchi alla Camera. I popoli balcanici – greci, slavi macedoni e albanesi – avevano diverse concezioni riguardo al nuovo modo di organizzare i rapporti centro-periferia. Essi andavano dalla completa indipendenza alla moderata autonomia. Tali punti di vista, che in Macedonia si erano espressi tramite colpi d’arma, adesso potevano trovare luogo nella tribuna del Parlamento, dove sedevano 60 rappresentanti arabi, 27 albanesi, 26 greci, 14 armeni, 10 slavi e 4 ebrei2 (quasi tutti facenti parte del PLO). Debolissima all’interno, la posizione di Kamil venne a rafforzarsi all’esterno, dopo che il 13 gennaio del 1909, l’ancora in carica Gran Visir, guadagno un ulteriore favorevole voto di confidenza da parte delle cancellerie diplomatiche inglesi. Quello che era visto come il nemico più diretto del CUP, in pochi giorni divenne la persona più favorita da parte di Lowther, il quale, tramite questo appoggio, pubblicamente si espresse contro il Comitato. Dichiarando che i tentativi di Kamil a favore di un rapprochement con l’Austria dopo la crisi d’ottobre avrebbe inciso in una maggior stabilità nell’Impero, la pressione che Lowther fece il Foreign Office a favore del Gran Visir destò sospetto pure ad Hardinge. Sebbene quest’ultimo, in fondo sempre sostenitore di una posizione moderata verso Costantinopoli (“A friendly Turkey is much more convenient situation for us than an allied Turkey”), l’innumerevole dose di pessimistiche note che l’ambasciata inglese mandava nei riguardi dei Giovani Turchi – 1 2 Histoire de l’Empire Ottoman (sous la direction de Robert Mantran) cit. pag. 625 Georges Castellan Histoire des Balcans cit. pag 388 157 per Lowther lo stato di diritto, insieme ad un Parlamento fantoccio, non erano che deteriorati – fecero aumentare la crisi fra le due capitali1. Nella scena interna maggiori scintille produsse lo scontro fra Porta e Camera; anche stavolta la causa fu l’insistenza di Kamil di controllare direttamente la nomina dei due dicasteri chiave (Guerra e Marina). Dopo una netta sfiducia della Camera, il Gran Visir dette le dimissioni. Verrà sostituito nel febbraio 1909 da una persona molto più fidata dal Comitato, Hüseyin Hilmi Pascià, già ispettore generale della Rumelia prima della rivoluzione. Come è ben immaginabile fu Lowther il primo a dare l’allarme ai suoi superiori a Londra. Di conseguenza, né la destituzione di Kamil e né il nuovo premier vennero visti bene dai deputati liberali – una sessantina in tutto – i quali, incitati anche da agenti britannici, accusarono il CUP di dittatura, politicizzazione di un organo costituzionale quale l’esercito e favoreggiamento dell’etnia turca. L’unico fatto che fece ancora ben sperare a Londra era che il dicastero ottomano degli Esteri era stato dato a Rifaat, ex-ambasciatore a Londra ed ultimo pallido rappresentante della corrente anglofila alla Porta. Tuttavia, la situazione precipitò più velocemente di quanto il Foreign Office potesse sperare. Infatti ai molti motti di protesta s’aggiunse l’aggressività degli ulema (Şeykh ül-Islȃm) organizzatrici di tumulti popolari dove si chiedeva al Sultano il ristabilimento della şari’a e la denuncia dei Giovani Turchi come dissacratori ispirati alla Rivoluzione Francese e dalla Massoneria. Dietro gli attacchi delle autorità religiose c’era la figura del ex-jonturco Murad Bey, in piena collisione con i suoi vecchi colleghi. Inoltre, un ruolo non meno importante in questo risentimento generale verso il CUP venne giocato dall’ambasciata britannica . Il suo primo dragomanno, Gerald Fitzmaurice, guidava la 1 Joseph Heller, op. cit. pag. 25 158 propaganda anti-Comitato di Londra attraverso le pagine del “Levant Herald”, quotidiano inglese della capitale. Anche se non era pienamente tranquilla, fino al mese di aprile, la situazione pareva abbastanza controllabile, con il Sultano sempre restio ad esporsi ed il Comitato che continuava a non muoversi da Salonicco. I fermenti erano seri ma reali impressioni che dietro una protesta quasi sempre verbale c’era l’organizzazione di una vera e propria reazione si videro solo il 7 di aprile. Quel giorno un giornalista notoriamente anti-unionista, Hasan Fehmi, venne ucciso e quasi subito il crimine s’imputò al Comitato1. La notte fra il 12 ed il 13 aprile, qualche giorno dopo la conclusione delle trattative con Sofia e Vienna, avvenne l’ammutinamento di alcuni soldati del I° Corpo d’Armata d’istanza a Costantinopoli. Quello che passò alla storia come “l’incidente del 31 marzo” (secondo il calendario islamico vigente) venne causato da adepti ossessionati della Società dell’Unione Islamica (Ittihad-ı Muhammedi Cmiiyeti), organizzazione che radunava gli ulema di secondo grado. L’indomani mattina, acclamati da una folla immensa davanti alla piazza Sultan Ahmed, gli insorti chiesero la testa di Rıza, del ministro della Guerra Ahmed Muhtar Pascià e l’immediato ripristino della stretta osservanza religiosa. I giornali unionisti come il “Tanin” e lo “Şura-yi ümmet” vennero saccheggiati e la violenza nelle strade non risparmiò nessuno: giovani ufficiali diplomati, movimentisti costituzionalisti e deputati trovarono la morte per le strade di Costantinopoli. Tutto questo, accompagnato da massacri spietati, nella capitale ma non soltanto, contro la popolazione armena mentre greci e albanesi passivi applaudivano. L’immobilismo totale delle forze dell’ordine insieme alla paralisi del dicastero militare portò all’aggravarsi della crisi politica. Con il Parlamento effettivamente bloccato – i deputati unionisti che si erano salvati restavano nascosti – il Sultano, uscì dal silenzio, e 1 Histoire de l’Empire Ottoman cit. pag. 626 159 come era immaginabile, aderì a quasi tutte le richieste dei ribelli. Ordinando alla Camera l’osservanza della şari’a, ‘Abdül Hamid stroncò tutte le procedure costituzionali nominando Gran Vizir l’anziano Ahmed Tevfik Pascià e a capo della Camera il deputato albanese Ismail Qemali, simpatizzante iniziale dei Giovani Turchi ma dopo loro fermo oppositore. In seguito, il vuoto istituzionale lasciato dagli unionisti venne subito colmato dai liberali1. Infatti la strutturazione del potere che avvenne dopo i fatti di aprile mostrò anche il problema politico di fondo che aveva prodotto la rivoluzione di un anno prima. L’Islam e in generale l’ispirazione religiosa-conservatrice veniva soltanto usata. Dietro gli ulema e il Partito Liberale c’erano non soltanto ex giovani turchi messi in disparte (come Sabaheddin) ma anche vecchi rappresentanti dell’elite politica allontanati dal potere (primo fra tutti Kamil Pascià). Inoltre le riforme introdotte tempestivamente i primi mesi dopo luglio avevano creato uno strato sociale molto diffidente verso i nuovi governanti come potevano essere i vecchi ufficiali licenziati, burocrati delusi dalla riorganizzazione amministrativa ma anche graduati venuti dalla gavetta che erano rimasti fedeli al Sultano. Dopo un iniziale appoggio, l’opposizione ai Giovani Turchi si era ingrossata nelle sue file anche dai rappresentanti delle minoranze cristiane, in rotta contro il CUP dopo le sue decisioni centralistiche. Vanno aggiunti anche gli Albanesi, sebbene i loro vertici a Costantinopoli, anche dopo il rifiuto che le autorità giovani turche avevano fatto alle loro richieste di scuole in lingua locale, ancora non avevano optato per la piena scelta indipendentistica. Tuttavia, a dare l’appoggio più determinante alla reazione di aprile furono le autorità diplomatiche inglesi presenti in diverse parti dell’Impero e ormai da tempo in urto con il CUP. Non c’è molta concordia fra gli storici sulla ragione della chiusura 1 Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw, op. cit. pag 281 160 totale che vi fu nelle relazioni fra Inghilterra e Giovani Turchi. Sembrerebbe che le contraddizioni partano dalle diverse posizioni che il Foreign Office e la presenza inglese a Costantinopoli avevano nei confronti dei militari. Se Grey era comunque convinto che la presenza giovane turca fosse positiva per i rapporti pacifici fra i due Paesi, l’ambasciatore Lowther guardò alla restaurazione che seguì i fatti d’aprile come l’istaurarsi di una dittatura militare filotedesca. Molti storici sostengono che la posizione ufficiale del Regno Unito finì per favoreggiare la reazione, essendo che i liberali di Sabaheddin erano nettamente più filo-inglesi del CUP. Questi, dopo aver rifiutato qualsiasi possibile compromesso con la Russia, anche per un’affinità programmatica nazionalistica, iniziò a guardare alla Triplice sempre più con interesse. Il risultato fu la reintroduzione dell’influenza tedesca nei circoli di potere a Costantinopoli. Tuttavia, più di ogni altra cosa, fu la questione della Baghdad Express che contribuì al netto deterioramento dei rapporti anglo-ottomani in quest’ultimo periodo del regno di ‘Abdül Hamid1. Ed è proprio qua che per altri storici, soprattutto quelli britannici, come Heller o Lowe, il governo inglese tentò in tutti i modi di trovare un accordo con Costantinopoli rifiutando l’idea di appoggiare, come molte lobbies consigliavano, la reazione hamidiana d’aprile. Appellandosi al buonsenso turco, il sottosegretario Hardinge, cercò dopo la Rivoluzione di far assicurare al suo Paese la concessione sulla costruzione della ferrovia nella regione mesopotamica. Anzi, proprio per la considerazione superiore che avevano gli Inglesi per questa tratta rispetto al resto, egli cercò di convincere lo Stato maggiore di Salonicco ad optare per un prolungamento della linea, esclusivamente inglese, oltre Baghdad. Lo schema che adotto per convincere i suoi superiori fu lo stesso che 1 C.J. Lowe – M.L. Dockrill The mirage of power. British Foreign Policy. 1902-1914, cit. pag. 88 161 Lansdowne aveva adottato nel 1903. Come qualche anno prima, anche nel 1909 una parte della diplomazia inglese propagandò l’idea che la partecipazione inglese alla ferrovia avrebbe dovuto apportare maggiori profitti commerciali, nascondendo con ciò la speranza di poter migliorare i rapporti con Berlino. Ma anche stavolta l’entusiasmo non giustificò i risultati e l’ottimismo di Hardinge ben presto subì una disfatta. Mentre a Costantinopoli il CUP eliminava ogni traccia di liberalismo filo-inglese, sempre più il Foreign Office diventava diffidente verso qualsiasi patto Londra-Berlino. “The F.O. is too anti-German just as not many years ago it was too anti-French” affermava uno stretto collaboratore di Grey1. Di conseguenza, dati i tempi, qualsiasi potenziale amico dei Tedeschi, Turchi soprattutto, facevano da pendant a questa politica. Sebbene lo stesso Segretario agli Esteri appoggiasse il piano di Hardinge, si trovo presto fra l’incudine e il martello. A Londra doveva apparire insolubilmente anti-Berlino mentre a Costantinopoli doveva tener conto di un influenza che la Germania non aveva mai effettivamente perso. Alla fine Grey scelse gli orientamenti del suo dicastero e insieme ad Hardinge iniziò a diventare sempre meno flessibile nelle richieste verso il CUP. Si può quindi dire che tutti e due sbagliarono nel non tentare una via meno anti-tedesca – che del resto pareva provocatoria – a Costantinopoli. Allo sbandamento dei diplomatici inglesi in Turchia, contribuì il legame indissolubile che Londra aveva creato con gli investitori nella capitale turca. Tutto questo, quando i veri guardiani del potere, i militari in Macedonia venivano contattati poco, anzi, dopo l’uscita di Sabaheddin, sistematicamente ignorati. Qualcuno che si accorgeva c’era e Hardinge in modo persistente continuò a cercare il compromesso con Costantinopoli fino al 1910 ma senza successo. Già dopo le dimissioni di Kamil, quando effettivamente ogni mente sensata avrebbe capito che la carota era meglio del bastone, Hardinge iniziò a consigliare a 1 C.J. Lowe – M.L. Dockrill op. cit. pag. 88 162 Lowther un atteggiamento più cauto e meno aggressivo verso il Comitato. L’appoggio che il governo inglese dette alla reazione di aprile, allontanando anche quelle piccole perplessità del CUP davanti all’alleanza con la Triplice, affossò da ambo le parti qualsiasi residua ipotesi di ritorno dell’alleanza anglo-ottomana. Hardinge a quanto pare era il primo a saperlo. La situazione riguardo alle azioni degli agenti inglesi nella capitale turca era sfuggita di mano. Cerco in tutti modi di abbassare l’influenza dell’elemento più anti-turco dentro il Foreign Office, Tilley, ma la successiva implicazione inglese dimostrò il suo fallimento1. Le sue parole, pessimistiche e in un certo senso profetiche, dimostrano l’enorme delusione di un uomo che nell’ultimo anno si era speso parecchio per cercare di riallacciare i rapporti fra Impero Britannico e quello Ottomano, anche se lui stesso aveva sbagliato ignorando o addirittura volendo distruggere il CUP: It is quite true that the Turks will probably turn to what they consider to be the strongest combination, which at the present moment is that of the Central Powers. Yet, if peace and quiet continue in the Balkans for the next two years and if in the meantime the Turks lean on Austria and Germany, they will, in my opinion, find that they have put their money on the wrong horse, and that it would have been much better for them to have made friends with the Bulgarians and to have leaned on the poker of the Triple Entente2. 1 Joseph Heller, British policy toward Ottoman Empire 1908-1914, cit. pag. 27 Hardinge to Lowther (Costantinople), 18 May 1909, F.O. 800/193A in C.J. Lowe – M.L. Dockrill, British Foreign Policy: the documents 1902-1914, cit. pag. 467 2 163 Con la stessa rapidità con la quale aveva attirato l’attenzione dell’opinione pubblica interna ed internazionale, la reazione conservatrice perse anche la sua energia impositiva. Davanti al rischio di destabilizzazione dell’ordine pubblico, l’Armata Macedone (chiamata anche Hareket Ordusu, “Armata d’azione”), sotto l’impulso di Mahmud Şevket Pascià, il 24 aprile marciò su Costantinopoli istaurando tribunali eccezionali per giudicare i ribelli e proclamando la legge marziale su tutto l’Impero. Fu quel evento che realmente mostro anche agli occhi della diplomazia britannica il reale e non indifferente potere dei Giovani Turchi. L’atto della loro restaurazione mostrò a Grey che gli stessi attori che sembravano totalmente spacciati dopo la reazione d’aprile costituivano effettivamente un elemento da prendere molto in considerazione. Infatti, questa presa di coscienza farà sì che Londra, dopo il 30 d’aprile prenderà molto sul serio i militari, e dialogherà con loro direttamente. Inizierà tuttavia anche a temerli. Invece di cautela ciò portò soltanto ulteriore diffidenza con l’unico risultato che simbolicamente la restaurazione giovane turca costituirà il vero punto di non ritorno verso le reciproche dichiarazioni di guerra del ’14 fra Londra e Costantinopoli. Costretti ad agire da soli, non spalleggiati da Londra durante l’ottobre ‘08 e più che mai risentiti verso l’appoggio che lo spionaggio inglese aveva dato ai Liberali, i vertici militari macedoni non avevano più dubbi sulle scelte diplomatiche da fare. Il loro modo dirompente di far capire che erano più vivi che mai fu un preoccupante segnale in tal senso. Nelle parole di Grey infatti: It is, I think, unfortunate that the Committee should have had this opportunity of showing how predominant is their 164 position. They badly wanted a knock, and I thought at one moment that they have got it1. Inizialmente, i vertici militari in Macedonia, non necessariamente membri del CUP, avevano optato per l’uso di mezzi politici nel tentativo di placcare l’anarchia della capitale. Il Comitato infatti aveva cercato di richiamare tutti i suoi collaboratori nell’Impero, incluse le minoranze cristiane, più danneggiate anziché favoreggiate dalla controrivoluzione. L’unica risposta fu un sollevamento armeno ad Adana il quale venne seguito da massacri e contro massacri con un complessivo numero di 20.000 vittime di tutte le religioni. Mahmud Şevket vide in ciò il fallimento della via politica scelta dal CUP e decise tramite il suo staff (dove c’erano figure di spicco della futura storia turca, come Mustafa Kemal, Enver Bey e Ismet Inӧnü) l’alternativa militare all’offensiva controrivoluzionaria2. Tre giorno dopo l’entrata nella capitale dell’armata macedone, la Camera e il Senato, riunite in una seduta comune, leggendo anche una fatwa dello Şeykh ül-Islȃm, mandavano ‘Abdül Hamid in esilio, dichiarandolo decaduto da ogni funzione di Sultano e Califfo3. Veniva rimpiazzato dal fratello, l’anziano Mehmed Reşad, con il nome di Maometto V (1909-1918) pallida somiglianza di un potere svanito e di un epoca che definitivamente voltava pagina. 1 Joseph Heller, op. cit. pag. 29 Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw, op. cit. pag. 281 3 Avendo ordinato la resa davanti all’entrata dell’esercito a Costantinopoli, Hamid accettò la sua deposizione senza obbiettarsi mai una volta presa la decisione. Insieme alla sua famiglia, venne mandato in esilio a Salonicco, dalla quale venne riportato a Costantinopoli nel 1912 dopo che la città egea venne assediata dagli eserciti balcanici. Morirà sei anni più tardi (10 febbraio 1918) nel suo palazzo di Beylerbeyi, nella riva anatolica di Costantinopoli. Era questa una fine in oscurità e disgrazia per uno dei più importanti sultani che la dinastia ottomana aveva mai avuto. 2 165 Epilogo storico Lo scioglimento dei dubbi: dall’inimicizia alla guerra (1909-1914) La deposizione di Hamid, oltre a simboleggiare un epilogo storicamente importante di una intera epoca dell’Impero Ottomano, segnò anche una via di non ritorno per le relazioni anglo-turche fino alle reciproche dichiarazioni di guerra del 1914. Infatti da quel momento niente sarebbe più cambiato. Tentativi di ripresa vi furono, e anche se il periodo 1909-1914 storicamente pone altre problematiche nei rapporti fra Londra e Costantinopoli, ma possiamo affermare che i policy makers da ambo le parti furono pienamente coscienti che le scelte fatte dopo la reazione di aprile avrebbero portato le loro rispettive diplomazie verso un inevitabile scontro. Nella capitale turca ben presto i nodi vennero al pettine. Bastarono solo pochi mesi agli unionisti – anche se il fondamentale ruolo ad aprile non fu svolto dal Comitato, bensì dai vecchi ufficiali dell’esercito in Macedonia – per tornare ad essere la forza dominante nel Paese. In effetti, il nuovo sultano in età avanzata, Maometto V, figlio di ‘Abdül Meçit, non rappresentava più una minaccia per il CUP. Se gli attriti di Londra negli ultimi mesi si erano rivolti verso l’operato autonomo del Comitato, un Sultano verso questo più docile, anche se i giudizi su Hamid erano rimasti invariati, sicuramente non giovava agli interessi britannici nell’area. Per non parlare poi dei Gran Visir che vennero nominati ovviamente col beneplacito del Comitato. Infatti, Hüseyin Hilmi e dopo di lui, l’ex-ambasciatore a Roma Ibrahim Hakkı, risultarono personalità di 166 bassa levatura, almeno rispetto a Sa’id e Kamil, e, cosa più importante, a differenza di questi ultimi, decisamente indifferenti alle direttive inglesi. L’uomo forte del momento era senz’altro il capo dell’Esercito d’Azione (Hareket Ordusu) che aveva domato l’insurrezione, Mahmud Şevket pascià. Sebbene non amasse l’attività politica, questo forte ed intransigente soldato entrò a far parte del governo Ibrahim come ministro della Guerra. Gli scontri non mancarono e a tratti la loro ampiezza fece temere per il fragile equilibrio che dopo la reazione liberale si era istaurata fra militari macedoni e intellettuali del CUP. Anche se gli unionisti si appoggiarono al Corpo Ufficiali – non da identificare con i militari macedoni anche se dopo aprile costituì una sorta di military connection fra essi e la classe politica nella capitale – i rapporti fra CUP e Mahmud Şevket perseguirono lo stesso obiettivo: mantenere l’integrità e l’unità dell’Impero1. Tuttavia, fu proprio all’ombra dell’esercito che il CUP, iniziò la sua riorganizzazione. Il suo Comitato Centrale (Merkez-i Umumi) ancora clandestino continuò a stare a Salonicco (fino all’estate 1912) orientando le linee politiche in congressi che si svolgevano almeno una volta all’anno. Le rivelazioni storiche più evidenti dimostrano delle caratteristiche abbastanza contraddittorie del Comitato. Ai tratti di una loggia massonica si mischiavano quelli di una organizzazione rivoluzionaria. Ma non solo! L’attività iniziale del CUP, pur assumendo le caratteristiche delle bande bulgare dei komitazi, assomigliava anche a quelle di un partito politico nel senso moderno del termine. Queste contraddizioni concettuali ci danno quindi l’idea chiara che sotto i termini “liberale” e “democratico” c’era ben altro: gusto del segreto e della clandestinità, sistema di reti parallele, manipolazione e 1 Alberto Roselli, Il tramonto della mezzaluna, Biblioteca universale Rizzoli, Milano, 2003, pag. 12 167 propaganda, e non di meno, pressioni ma anche mezzi esplicitamente violenti per preservare il potere1. In ogni caso, fra i suoi membri più attivi – Tal’aat, il dott. Nazim, Ömer Naci, Mithat Şükrü – ancora non emergeva un capo sopra tutti – almeno non prima del 1913. Infatti le grandi figure delle prime ore occupavano ormai posti onorifici (Ahmed Rıza) oppure erano già passati all’opposizione (Ibrahim Temo). Altri, come Nyiazi tornarono nelle caserme, oppure, come Enver, vennero inviati all’estero, nel suo caso quale addetto militare in Germania. Più che sulla divisione, il governo britannico cercò anche dopo il 1909 di puntare sulla mancanza di chiarezza fra i vari elementi che costituivano l’establishment ottomano. Sulla politica estera i punti importanti rimasero due: il non cedere davanti alla sempre più caotica situazione macedone e la soppressione delle Capitolazioni, senza rinunciare comunque ai capitali stranieri. Gli scopi erano gli stessi di ‘Abdül Hamid; erano i mezzi che in questo caso facevano la differenza. Tra gli stessi Giovani Turchi continuarono ad esserci delle conflittualità latenti. Se da una parte i civili premevano di più per il progresso economico del Paese, i militari avevano saldamente nel cuore la sua difesa. Un po’ per ragioni sentimentali (l’ispirazione della rivoluzione francese), un po’ per questioni ideologiche (il legame imprescindibile col liberalismo inglese), i civili, capeggiati da Cavid bey, ministro delle Finanze, continuarono a premere su un alleanza con le forze dell’Intesa. Non così, come è ben comprensibile, i vecchi militari, educati alla maniera prussiana, come Ahmed Muhtar pascià o Mahmud Şevket, i quali dettero la decisiva spinta all’allineamento finale della Turchia a fianco di Germania e Impero asburgico. Infatti nella bifocale opzione fra sviluppo e difesa le scelte andarono ben 1 A. Nuri Yourdusev, Ottoman diplomacy: conventional or unconventional, Houndmills Palgrave Macmillan, London, 2004, pag. 87 168 oltre le aspettative dei civili. Sia il Foreign Office, lungi dall’essere coerente con le direttive di Hardinge, sia l’ambasciata britannica a Costantinopoli, continuavano a nutrire dei forti sentimenti antiunionisti. Da qua alle direttive prettamente anti-turche la strada fu breve. La paura di un contagio costituzionale in India ed in Egitto e la destituzione dell’anglofilo Kamil, spinsero Londra a preferire i liberali agli unionisti, troppo giacobini per i gusti inglesi. La rappresentanza inglese a Costantinopoli, troppo indipendente da Londra nel giudizio di alcuni storici britannici, continuò ad appoggiare l’opposizione liberale anche nell’inverno 19091. Sebbene dopo l’aprile di quell’anno il Partito Liberale fosse praticamente scomparso, già a maggio, esso iniziò a riemergere sotto forma di piccoli gruppi più o meno organizzati. Inoltre, nell’epoca della contrapposizione fra le due Triplici, l’Inghilterra tenne maggior riguardo per i suoi più stretti alleati, come la Russia, decisiva in quel momento per la protezione del fianco Nord-Ovest dell’India. Tuttavia, alle spinte pacificatorie e più pragmatiche di Grey non fecero eco i continui scontri anglo-turco-tedeschi sulla ancora non completata ferrovia di Baghdad. Questo affare, oltre alle solite problematiche di concessione, continuava ad mettere in pericolo la posizione degli interessi britannici nell’area. Nel 1909, ponendo nuove condizioni al rinnovo del contratto della compagnia di navigazione Lynch sul Tigri e sull’Eufrate, Costantinopoli si scontrò anche con una violenta opposizione da parte dei notabili e dei deputati arabi2. Ovviamente, per quanto riguarda le responsabilità il Gran 1 Edward Mead Earle, Turkey, the Great Powers and the Baghdad railroad, Macmillian and Co, London, 1923, pag. 64 2 John B. Wolf, The diplomatic history of the Baghdad railroad, Octagon books, New York, 1973, pag. 121 169 Visir Hüseyin Hilmi fece presto ad attribuirle a Londra, sebbene, preso fra due fuochi, dovette dare le dimissioni. Non andarono meglio per gli esponenti dei Giovani Turchi i negoziati con la Francia. Anzi, con essa i rapporti diventarono ben più difficili, sebbene l’iniziale simpatia di Parigi per dei rivoluzionari che professavano il loro attaccamento ai principi del 1789 era stata grande. Ma Parigi era decisamente più preoccupata del Marocco. In questo caso lo scontro fra Francia e Germania sul Marocco (1911) sembra abbastanza premonitore1. Al dubbio dei rapporti con Berlino, alleato che i Turchi non volevano rinunciare, s’aggiunsero per Parigi le diffidenze riguardo al nazionalismo jonturco e al suo ambiguo atteggiamento verso il Debito Pubblico e il Monopolio dei Tabacchi (nei quali, ricordiamo, la supremazia del controllo francese era evidente). Nel 1910, di fronte alle accresciute spese militari, Cavid bey si era recato a Parigi per negoziare un nuovo prestito. Ritornò a mani vuote siccome le garanzie politiche e gestionali – in particolare legate agli acquisti di materiale militare – pretese dalla controparte francese, gli erano sembrate inaccettabili2. L’affaire Lynch e lo smacco del prestito francese rendevano chiara l’idea di uno Stato bisognoso d’aiuto militare ma più geloso che mai della sua indipendenza. ‘Abdül Hamid II aveva puntato tutto sulla Germania. Ancora fino al 1910, almeno una parte dei Giovani Turchi non si convinceva di questa scelta e teorizzava la politica 1 Una nuova crisi sul Marocco scoppiò nell'estate del 1911 tra Francesi e Tedeschi, che inviarono una nave da guerra nel porto di Agadir; sembrò allora che fosse il preludio di una nuova guerra tra Francia e Germania. La crisi fu invece risolta per via diplomatica, con il riconoscimento tedesco del protettorato francese sul Marocco e concessioni territoriali alla Germania in Congo. Nel corso del XIX secolo, divenuto il Marocco oggetto dell'interesse delle potenze coloniali, il sovrano alawita giunse ad accettare nel 1912 il protettorato francese. 2 Hamit Batu – Jean Louis Bacque Grammont, L’Empire Ottoman, la Republique de la Turquie et la France, Editions d'Amerique et d.Orient, Paris, 1986, pag. 286 170 dell’equilibrio fra le Potenze, volendo eliminare l’intatto monopolio tedesco. Tale volontà si vide anche nella scelta degli esperti europei. Se l’esercito continuò ad essere addestrato da ufficiali tedeschi – Van der Glotz riprese servizio nel dicembre 1910 – la Marina veniva affidata ad un inglese, l’ammiraglio Gamble, e la riorganizzazione della Gendarmeria venne affidata a degli esperti francesi. In ogni modo, il diniego di una scelta netta, sebbene l’affondamento dei Liberali faceva capire che essa comunque sarebbe stata non-inglese, fece trovare la Turchia più isolata che mai davanti all’attacco italiano alla Tripolitania. I Giovani Turchi erano consapevoli del pericolo che incombeva sulla loro ultima provincia africana e proprio per questo fatto avevano cercato di limitare la presenza italiana già da tempo istallata nella regione. Infatti, era da tanto che Roma aveva puntato gli occhi sulla fascia libica, soprattutto nel desiderio di trovare compensazioni alla presenza francese e inglese nel Nord Africa. A ciò contribuivano anche altri fattori, come la spinta austriaca nei Balcani - che già aveva impedito le mire italiane verso l’Albania – nonché una febbre nazionalista ed imperialista da decenni presente nella politica interna italiana. Ancora prima di aprire un ufficio consolare nella capitale ottomana, il Banco di Roma era penetrato in Tripolitania con ambiziosi progetti d’investimenti in ferrovie, navigazione ed agricoltura. A quello che di anno in anno diventava un sempre più ingombrante monopolio di capitali da parte di Roma, il governo di Costantinopoli cercò di rispondere con diversi escamotage che avrebbero dovuto fare pendant ad altri investimenti stranieri. Fu così che nel marzo 1910 il nuovo vali di Tripoli, Ibrahim pascià, invitò varie ditte americane a investire in capitali per lo sfruttamento dei fosfati libici, senza tuttavia curarsi del fatto che la difesa della 171 provincia era in condizioni precarie1. Era dai tempi di ‘Abdül Hamid che la milizia locale si era dispersa. La decisione di passare all’azione venne presa da Roma all’indomani degli accordi franco-tedeschi sul Marocco. Dopo aver sferrato l’attacco alle coste libiche (29 novembre 1911), bastarono poche settimane all’esercito e alla marina italiana per occupare tutta la fascia marittima senza incontrare nessuna seria resistenza. La proclamazione ufficiale dell’annessione di Tripoli e Bengasi venne agli inizi di novembre quando si stavano facendo sentire le prime reazioni da parte di Costantinopoli. Il problema infatti era gravissimo; se si rivelavano incapaci di difendere la Tripolitania, la reputazione che i Giovani Turchi s’erano addossati come antiimperialisti davanti agli Arabi si sarebbe dimostrata fasulla. Enver pascià venne inviato immediatamente al fronte riuscendo ad organizzare sacche di resistenza che per anni avrebbero impedito agli Italiani di penetrare nell’interno2. I mezzi ovviamente erano pochi; c’era chi arrivò ad incitare il jihad subendo le reazioni dei moderati per i quali tali modi avrebbero allontanato l’Inghilterra, l’unica, secondo loro, che poteva dare uno spiraglio di speranza a Costantinopoli. Davanti ad una resistenza strisciante ma di lunga prospettiva, Roma creò un diversivo, bombardando gli Stretti e impossessandosi delle isole del Dodecaneso (aprile 1912). Una soluzione stringente venne nell’ottobre successivo quando costrette dagli avvenimenti sempre più preoccupanti in Albania3 e da 1 Fabio Grassi, L’Italia e la questione turca, pag. 36 2 Ivi. pag. 40 3 Corteggiati dal Sultano Hamid II, ma dall’altra parte, partecipi al movimento jonturco (Ibrahim Temo) – altri addirittura artefici della Rivoluzione (Niyazi bey) – gli Albanesi da tempo destavano preoccupazioni nelle autorità centrali. Nel novembre 1908 i vertici delle tre confessioni presenti nel Paese – mussulmani, cattolici ed ortodossi - si erano riuniti a Monastir per riaffermare il loro sostegno al Comitato “Unione e Progresso”. Temendo una spartizione del territorio albanese da parte degli Stati balcanici, i leaders locali si accontentarono di richieste d’autonomia per poter usare le autorità ottomane come una garanzia d’integrità del Paese. Ma le tendenze centralizzatrici del CUP avevano ben presto 172 una seria crisi politica interna, le autorità del CUP accettarono di negoziare con Roma. Col Trattato di Ouchy (15 ottobre) veniva siglata la pace: definitivamente la Tripolitania diventava italiana, riservando il potere spirituale sugli indigeni mussulmani al Califfo Maometto V1. Il caos interno intanto montava. Dopo l’invasione della Tripolitania, alle inevitabili dimissioni del Gran Visir Ibrahim Hakkı subentrò un “fantasma”, Sa’id pascià. La stessa opposizione liberale, dopo un letargo di quasi quattro anni, iniziò a dare i primi segnali di risveglio. All’inizio del 1912, costituendo il Partito dell’Intesa Liberale (Hürriyet ve Itilaf Fırkası), il quale raggruppava tutti gli scontenti del regime, gli oppositori vinsero una tornata elettorale parziale svolta a Costantinopoli. L’immediata risposta del CUP fu pressoché inefficace. Sciogliendo le Camere, e vincendo in modo plebiscitario le elezioni anticipate – il CUP del resto era l’unico partito realmente organizzato, potendo servirsi di mezzi violenti – si pensò di far calmare presto le acque2. Ma le cose si erano complicate per gli unionisti e sebbene nel governo Sa’id bis furono gli unici ad occupare i posti chiave, la vittoria elettorale si dimostrò fin troppo fragile. Il colpo finale agli unionisti, proprio mentre sembrava che la loro ascesa politica avesse raggiunto l’apice, doveva venire nell’estate del 1912, proprio dalla innescato il fermento nelle montagne albanesi. Bastò questo, insieme all’azione politica di Ismail Qemali in Parlamento, perché la reazione si tramutasse in rivolta aperta nel Kosovo (1910). Già un anno dopo, il governo di Costantinopoli sembrava che cedesse davanti alle richieste del Comitato Nazionale Albanese di Valona, che pretendeva un Albania amministrativamente unita, dotata di un suo parlamento e di un esercito. Tuttavia accordi ufficiali non vi furono, col risultato che nella primavera del 1912 le terre shqiptare erano di nuovo in rivolta. Ciò portò alla dichiarazione unilaterale d’indipendenza da parte degli Albanesi (novembre 1912), anche a seguito dello scoppio della Prima Guerra Balcanica . Il riconoscimento internazionale venne alcuni mesi dopo (luglio 1913) con la costituzione di un principato fuori dai confini del quale rimaneva più della metà degli Albanesi etnici. 1 Il Trattato prevedeva anche l’evacuazione delle truppe italiane dal Dodecaneso, ma l’avvento della Grande Guerra permise al governo di Roma di farvi permanere l’esercito fino a tutta la Seconda Guerra Mondiale. 2 Stanford j. Shaw – Ezel Kural Shaw, History of Ottoman Empire and Modern Turkey, vol. II, cit. pag. 357 173 Macedonia, provincia, fino a quel momento, fedelissima alle loro direttive. Intransigenti nelle loro posizioni, anche dopo lo smacco delle elezioni d’inizio anno, vari gruppi antiCUP avevano creato, con sede a Salonicco, l’organizzazione degli Ufficiali Liberatori (Halaskar Zabıtan) col chiaro intento di eliminare qualsiasi intervento politico negli affari dell’Esercito. Ovviamente, il primo bersaglio che essi additarono fu il Comitato, accusato d’aver creato una dittatura anche alle spese delle Forze Armate. Varie voci di sommosse, minacce di pronunciamenti militari da tutte le parti dell’Impero, spinsero alla caduta il governo di Sa’id (17 luglio), al posto del quale Ğazı Muhtar pascià formò il cosiddetto “Gran Gabinetto”. Vennero esclusi tutti gli unionisti, i quali nelle elezioni anticipate del 5 agosto persero anche l’ultima posizione politica che avevano in Parlamento1. Il ritiro silenzioso del CUP sorprese tanti, ma del resto fu anche una chiara mossa politica per scrollarsi di dosso le responsabilità di una situazione internazionale che stava decisamente precipitando. L’attacco italiano in Tripolitania, la caotica situazione in Albania, le preoccupanti notizie che venivano dagli Stati confinanti balcanici2, rendevano illusoria la gioia di quelli che dopo anni erano finalmente riusciti a liberare il potere dalle grinfie del Comitato “Unione e Progresso”. Per quelli che erano cresciuti col mito della Rivoluzione, ma poi disillusi e scontenti dopo le varie battute 1 William Miller The Ottoman Empire and its successors 1801-1927, cit. pag. 305 2 Già nella primavera del 1911, il premier greco Venizelos, fortemente sostenuto dalla Russia aveva proposto al suo omologo bulgaro Gešov un’alleanza fra i due Paesi, quando i sostenitori di un’intesa serbo-bulgara avevano già ottenuto una dichiarazione favorevole da parte del Patriarca greco per la costituzione di un’unione doganale balcanica. Ma se già i tentativi di un accordo fra i suoi nemici non facevano sperare niente di buono a Costantinopoli, ancora più chiaramente pericolosa sarebbe diventata la situazione. Durante il marzo dell’anno dopo, nel bel mezzo della crisi italo-turca, Serbia e Bulgaria firmavano un trattato che prevedeva l’autonomia e – nel caso quest’ipotesi dovesse dimostrasi irrealizzabile – la spartizione della Macedonia. Due mesi dopo, subentrò un altro accordo, greco-bulgaro stavolta, che eludendo il problema macedone, assicurava reciproca assistenza in caso di attacco ottomano. Chiudono il cerchio delle alleanze – era chiara in prospettiva la serie delle Guerre Balcaniche – due convenzioni militari che il Montenegro firmò nell’autunno con Serbia e Bulgaria. 174 d’arresto che lo Stato turco, anche sotto la guida del CUP, aveva subito, fu sicuramente un chiaro segnale di cambiamento. Non fu certamente così per quelli che il giorno dopo la débacle degli unionisti presero le redini del potere. In una situazione che non prometteva miglioramenti, saggiamente gli unionisti decisero di farsi da parte preferendo “vivere oggi per combattere domani”. La strategia del ritiro serviva affinché qualcun altro prendesse su di sé le responsabilità dei fallimenti che inevitabilmente si sarebbero registrati. Le crisi di governo ripetitive e il fallimento del processo d’ammodernamento dell’esercito – nella struttura, negli armamenti e nella concezione strategica – non ancora terminato del resto, non potevano certo aiutare la Turchia. La pace sbrigativa con Roma e l’accomodamento alle richieste albanesi servirono poco dato che il 17 ottobre le armate balcaniche sferrarono con pieno successo i primi attacchi contro le ultime postazioni ottomane nella penisola balcanica. In meno di un mese, come da molti fu prevedibile, l’esercito ottomano venne messo in ginocchio davanti alle avanzate balcaniche. A novembre, mostrando la sua incapacità di governare in modo stabile, il Partito dell’Intesa Liberale esautorava il suo secondo premier dopo il colpo di mano dell’estate precedente, Ahmed Muhtar. Venne subito rimpiazzato da una vecchia volpe noto per la sua anglofilia, Kamil pascià. I contatti di quest’ultimo con i suoi amici a Downing Street tuttavia servirono a ben poco. Sebbene gli scopi fossero abbastanza arditi – far intervenire la Triplice Intesa a favore della Turchia – l’impegno che ottenne era poca cosa. A parte l’invio di qualche nave britannica sugli Stretti, tra l’altro a solo titolo neutrale, e la promessa di una mediazione londinese alle trattative di pace, null’altro ci si poté aspettare dal vecchio protettore1. I tempi erano decisamente cambiati, e come l’età di Kamil, i fili che legavano gli ultimi anglofili presenti a Costantinopoli con il governo di Londra si erano 1 Edward Mead Earle, op. cit. pag. 73 175 invecchiati. Nel governo inglese, e soprattutto nel Foreign Office, c’era nuova gente che delle politiche dei tempi di Palmerston o di Disraeli sapeva poco o nulla. Inoltre, il confronto europeo era nettamente cambiato. Una piccola incandescenza poteva far accendere la miccia di un conflitto che almeno per ora le due Triplici volevano evitare. Dunque, sia Londra, ancorché Berlino, preferirono attendere. Il 3 dicembre, a Çatalca, venne firmato l’armistizio fra gli Stati Maggiori bulgaro e turco e due settimane dopo i rappresentanti di Costantinopoli si riunirono con quelli degli altri Paesi balcanici in una conferenza a Londra. Alle ampie richieste balcaniche – Macedonia, Albania, tutte le isole dell’Egeo e la città di Adrianopoli – l’Impero Ottomano si dimostrò solo parzialmente disponibile. Le concessioni turche riguardarono la piena autonomia all’Albania, il riconoscimento di Creta alla Grecia e il definitivo abbandono di tutti i territori a est di Adrianopoli (senza le isole egee). L’impasse nella tavola delle trattative non tardò ad arrivare, facendo ulteriormente crescere l’inquietudine a Costantinopoli. Qui l’opposizione unionista, ferma nel mantenimento di Adrianopoli seconda capitale dell’Impero – peraltro ancora non conquistata - prese il sopravvento accusando Kamil di arrendevolezza e incapacità di difesa della Patria1. La situazione degenerò ulteriormente nei primi del 1913. Enver, figura imminente del CUP e abbastanza noto dopo l’organizzazione della resistenza libica, irruppe in una seduta straordinaria della Sublime Porta e, pistola in mano, costrinse Kamil a dimettersi. Portavoce di un disperato patriottismo reattivo e garante come sempre dell’integrità imperiale, il CUP entrò al governo riservandosi i tre ministeri chiave (Interni, Esteri e Finanze). Il dicastero della Guerra venne lasciato a quel primus inter pares che avrebbe dovuto svolgere anche la funzione di capo del Governo, 1 Histoire de l’Empire Ottoman, cit. pag. 654 176 Mahmud Şevket pascià. La convivenza governativa venne iniziata nel nome dell’unità nazionale e i membri principali dell’Intesa Liberale vennero lasciati liberi “purché abbandonassero ogni inopportuna idea d’opposizione”1. Tuttavia, il ritorno del CUP, il quale, usando la propaganda patriottica, doveva evitare ogni cedimento al tavolo delle trattative, non fece che peggiorare la situazione. Alla conferenza di Londra, dopo le notizie preoccupanti che venivano dalla capitale turca, s’era deciso di interrompere i lavori fino all’arrivo di nuove direttive. Esse vennero ma in un momento nel quale i rappresentanti bulgari avevano deciso di abbandonare le trattative. Malgrado le ultime concessioni ottomane lasciavano mano libera a Sofia anche su alcuni quartieri di Adrianopoli, il 3 febbraio truppe bulgare riprendevano i bombardamenti su Çatalca nell’intento di travolgere anche l’ultima linea di difesa ottomana. Nonostante lo sbandamento delle prime ore si fosse trasformato in disperato eroismo, per l’esercito ottomano la sorte era segnata. Non bastò né il guadagno di tempo durante i negoziati né tantomeno la fervente resistenza dei Giovani Turchi ritornati alla guida delle Forze Armate. La resa delle tre principali città balcaniche (Giannina, Adrianopoli e Scutari) in meno di un mese dimostrò ancora una volta la netta superiorità delle truppe avversarie. Davanti all’evidenza Mahmud Şevket dovette dimostrare che la baldanza nazionalista dei Giovani Turchi valeva poco o nulla nello scacchiere europeo. Arrendendosi il 30 di maggio, il premier turco accettò le direttive finali del Foreign Office. Davanti ad una fine annunciata e firmando un trattato che lasciava solo una zona cuscinetto intorno a Costantinopoli (a sud della cosiddetta linea Enos-Midia), l’Impero Ottomano definitivamente perdeva i suoi possedimenti europei2. 1 2 Ivi. pag. 654 Stanford Shaw – Ezel Kural Shaw, op. cit. pag. 374 177 Le ripercussioni non furono poche. Sebbene fossero riusciti ad evitare la spartizione delle provincie asiatiche, vero scopo degli appetiti delle Grandi Potenze, la situazione interna non era affatto tranquilla per l’establishment unionista. Desiderosi da tempo di una rivincita politica e rafforzati dagli ultimi avvenimenti, i membri dell’Intesa Liberale, sotto la guida di Kȃmil, stavano preparando un fulmineo colpo di mano ai danni del CUP. Dietro c’era, come era ovvio da tanti anni a quella parte, l’ambasciata inglese a Costantinopoli. Stavolta la ribellione riuscì soltanto in parte. L’11 giugno, proprio davanti all’entrata della Sublime Porta, Mahmud Şevket cadeva vittima di un attentato. Al nuovo tentativo liberale di bloccare le istituzioni, stavolta il CUP rispose in maniera efficace e rapida. Non lasciando che la situazione si paralizzasse, tramite proclamazione dello stato d’assedio, arresti e condanne per sedici personalità dell’opposizione, il Comitato non solo manteneva, ma accresceva il proprio potere. Ovviamente le premesse di lunga vita erano poche ma, insieme ad un vento a favore turco che pian piano veniva dai Balcani, gli unionisti riuscirono a ribaltare ben presto la situazione interna. Gli accordi prebellici, una volta che la disfatta turca era apparsa definitiva, crearono le premesse per degli attriti fra gli alleati balcanici. I Bulgari, che avevano dato il contributo principale alle più importanti operazioni in campo, pretesero tutta la zona in questione: cioè la parte centrale della Macedonia, dalla Stara Planina al lago di Ohrid. Dal canto suo, Belgrado, delusa nelle sue mire verso le terre albanesi dopo la conferma che le Grandi Potenze avevano dato alla creazione di un Principato indipendente dell’Albania, cercarono anch’essi compensazioni in Macedonia. La sola città di Salonicco era materia di conflitto fra i plenipotenziari di Atene e Sofia, mentre il governo di Bucarest, sfruttando la questione degli Aromeni in Macedonia, richiese dalla 178 Bulgaria la consegna della città di Silistria e di tutta la Dobrugia meridionale. Completava tale quadro il conflitto nascente tra le Grandi Potenze: l’Impero Russo, sentendo odore d’influenza, era per la conservazione della Lega Balcanica mentre l’Austria-Ungheria chiedeva il suo scioglimento. L’azione dello zar bulgaro Ferdinando I, cioè l’aver ordinato alle sue truppe di attaccare le postazioni serbe e greche (30 giugno 1913), è stato aspramente criticato anche da molti storici bulgari. Varie polemiche si sono fatte negli anni intorno a questo ingaggio improvviso dei mezzi bellici contro gli stessi alleati con cui la Bulgaria aveva vinto la guerra contro Costantinopoli. Era un reale attacco oppure una semplice manifestazione di forza in risposta a diversi accordi greco-serbi sulla Macedonia? In quella occasione, lo Zar consultò o meno il suo governo? Domande che rimangono aperte. Tuttavia, rimane un fatto: la Bulgaria, forse inaspettatamente, si trovò isolata davanti ai suoi ex-alleati. Sfruttando la situazione, dopo trattative fulminee, in guerra entrò pure il governo di Costantinopoli, ovviamente a fianco delle altre capitali balcaniche e contro Sofia. Il 22 luglio, segnando anche la sorte di questa Seconda Guerra Balcanica, le truppe turche al comando di Enver pascià ripresero la città di Adrianopoli. In tutti i fronti l’esercito bulgaro subbì pesanti sconfitte, costringendo Ferdinando a chiedere l’armistizio a un mese dall’inizio delle ostilità. Nella conferenza di pace, svoltasi a Bucarest (10 agosto) la Bulgaria otteneva solo una piccola porzione della Macedonia, perdendo anche la Dobrugia meridionale a favore dello Stato rumeno1. Fra Costantinopoli e Sofia venne sottoscritto un trattato a riguardo dei territori della Tracia: in base alle vittorie di Enver la Turchia riprendeva la zona intorno ad 1 La Grecia otteneva tutta la Macedonia egea, con le città di Salonicco e Kavala, mentre la Serbia si guadagnava la Macedonia centrale e settentrionale – cioè la valle di Vardar. 179 Adrianopoli (Tracia Orientale) mentre la Bulgaria teneva il resto occidentale della regione, assicurandosi così uno sbocco sul mar Egeo1. Dopo anni di continue perdite le autorità di Costantinopoli finalmente potevano vantare una piccola vittoria, e sebbene questa fosse di Pirro, poneva comunque delle nuove basi per la ricostruzione dell’Impero. Un lustro dopo la sua ouverture, la Rivoluzione jonturca poteva finalmente spiccare il volo e il nazionalismo, come sua base originale di partenza, avrebbe dovuto guidare ad nuova meta il formarsi di una nuova Turchia. Dopo le Guerre balcaniche infatti, l’Impero Ottomano diventava sempre più omogeneo, almeno nella sua struttura religiosa. Sebbene in molti punti territoriali – Smirne, litorale pontico, Anatolia Orientale, Libano – la presenza di minoranze giudaico-cristiane fosse cospicua, la perdita di quasi tutti i territori europei poneva nuovi quesiti sul ideologia portante dello Stato. Progressivamente l’Ottomanismo iniziò a declinare a favore di un esplicito Panturchismo e insieme all’emergere di nuovi leaders – Enver era uno dei più promettenti – passi nazionalistici vennero fatti anche negli orientamenti economici della vita imperiale. Tramite l’uso del capitale inattivo indigeno, l’accrescere di valore dei beni fondiari e in generale attraverso leggi sull’incentivazione dell’industria, si cercò di stimolare la produzione interna. Il problema ovviamente era sempre costituito dalla dipendenza dagli investimenti europei e le Capitolazioni. Le vie d’uscita non riguardavano degli sbocchi concreti ma per molti intellettuali – Zıya Gӧkulp, Yusuf Akçura o Tekin Alp – la soluzione consisteva nell’appropriazione delle basi del capitalismo. Insomma, solo la formazione di una classe borghese nazionale poteva offrire un’alternativa all’invasione economica straniera. “Si può considerare che il risveglio nazionale turco coincida con l’emergere della borghesia turca nello Stato 1 Georges Castellan, Histoire des Balcans, cit. pag. 393 180 ottomano; se questa non incontra gravi impedimenti nella sua naturale crescita, sarà garantito un forte sviluppo dello stato ottomano” scriveva nel aprile del 1914 Akçura1. Ovviamente, tra di dire e il fare ci passava di mezzo un mare e la “nazionalizzazione” del capitalismo in Turchia non poteva venir fatto dall’oggi al domani. In ogni caso, nella pratica anche i nuovi unionisti post-1913 continuarono ad usufruire di prestiti esteri e dell’apertura che venne dagli investitori stranieri. Infatti, nei due anni che precedettero la Grande Guerra Costantinopoli concluse molti prestiti finanziari fra i quali una che raggiungeva l’importo delle 22 milioni di lire turche – il più grande dalla bancarotta del 18752. Molti dei problemi che avevano angosciato gli affari economici della Turchia hamidiana si pensò di risolverli tramite una serie di accordi bilaterali con le Potenze più influenti nell’Impero. Senza fare grandi riflessioni politiche, in quella occasione, il governo unionista svendette le ferrovie e dette altre concessioni – porti, lavori pubblici, servizi municipali ecc. – in cambio di lievi rintocchi al regime delle Capitolazioni3. Un esempio era l’accordo franco-ottomano del 9 aprile 1914. Tramite esso le parti ricevevano: Francia otteneva: 1. Otteneva il diritto di costruire numerose diramazioni ferroviarie, soprattutto in Siria. 1 2 Histoire de l’Empire Ottoman, cit. pag. 658 Servet Pamuk Ottoman Empire and European Capitalism 1801-1927 3 Questo soprattutto in ambito fiscale: rialzo del 4% dei diritti doganali, applicazione integrale per residenti e merci straniere della tassa di dazio ecc. 181 2. Prendeva in concessione molti porti nel Mar Nero e nella costa siriana (Giaffa, Tripoli, Eraclea, Haifa). 3. La Sublime Porta le garantiva la preferenza in settori ad essa particolarmente interessata. Impero Ottomano otteneva: 1. Poteva aumentare i diritti doganali e far pagare tasse e imposte ai mercanti francesi. 2. Otteneva una promessa ufficiale circa la revisione del suo regime delle Capitolazioni. 3. Riceveva diversi prestiti fra i quali anche il citato da 22 milioni di lire turche con la mediazione della Banca Ottomana1. Si capisce col senno di poi, ma si intuiva anche all’epoca, l’impotenza turca davanti alla penetrazione imperialistica europea. A Parigi mentre molti celebravano la nuova amicizia franco-ottomana, altri come il giornale ”Humanité”, scrivevano: “I capitalisti d’Europa negoziano la suddivisione della Turchia asiatica”2. Ovviamente questo era un quotidiano socialista e le sue citazioni vanno prese con i guanti, tuttavia al di là delle vedute la situazione in Turchia scivolava a sfavore delle Potenze liberali. A iniziare dal regime interno, il quale attraverso una facciata democratica estendeva il controllo su tutte le forme di vita politica nel Paese. Con un’opposizione inesistente, un governo monocolore e un’opinione pubblica imbavagliata, la Turchia viveva in piena dittatura. Dopo aver cercato tanto a lungo il consenso, da un punto ideologico all’altro, nel 1914 il Comitato “Unione e Progresso” aveva effettivamente raggiunto l’obbiettivo. Si trattava di un consenso anch’esso monocolore, cioè par 1 Hamit Batu – Jean Louis Bacque Grammont, L’Empire Ottoman, la Republique de la Turquie et la France, cit. pag. 285 2 Histoire de l’Empire Ottoman, cit. 659 182 excellence turco, sebbene Arabi ed Armeni in molti casi flirtavano col regime. In più avesse una caratteristica di spiccata originalità: sebbene il regime aveva in molti tratti delle somiglianze con gli Imperi Centrali – qui tuttavia non c’erano delle dittature - la Turchia era una dittatura senza dittatore. Dopo l’inizio della Prima Guerra Mondiale sempre più si parlò di un triumvirato regnante formato da Tal’aat (ministro degli Interni e futuro Gran Visir), Enver (ministro della Guerra) e Qemal pascià (ministro della Marina). Ma ciò era più il prodotto dell’immaginario giornalistico europeo che un fatto reale; anche il principale artefice della politica unionista, Tal’aat, era costretto a spartire il potere con altri uomini forti del regime, e non ci riferiamo soltanto ai due sucitati. Si trattava di una dittatura di Partito che, nel suo seno, aveva differenti personalità influenti con altrettante differenti visioni politiche. Fatto sta che nel luglio del 1914 l’attentato di Sarajevo trovava un Impero Ottomano sicuramente molto indebolito ma che poteva ancora contare qualcosa nel barcollante equilibrio delle forze europee. Per i vasti territori che dominava – senza contare l’autorità religiosa del Califfo anche nei territori colonizzati – il governo ottomano iniziò a ricevere vari corteggiamenti politici da ambo le Alleanze. A Costantinopoli, anche dopo i chiari orientamenti degli ultimi anni, buona parte dell’opinione pubblica e dei membri del CUP erano a favore della riconciliazione con l’Intesa. Sembrava una strada più facile da percorrere anche perché Londra e Parigi dichiararono che si sarebbero accontentate della semplice neutralità, e fecero di tutto per ottenerla. Addirittura, una delle teste d’uovo del regime, Qemal, arrivò perfino a proporre ai Francesi un’alleanza bellica in debita forma. Invece, mentre gli eserciti dei due schieramenti avevano iniziato a trincerarsi e nel momento che altri Paesi stavano sciogliendo i dubbi, il 2 di agosto, una notizia ad 183 effetto piombò nelle cancellerie europee: in gran segreto, dopo diverse settimane di trattative, l’Impero Ottomano aveva appena firmato un’alleanza con Berlino. Non si capì mai se la notizia, che non ebbe fonti ufficiali, fosse del tutto vera. Chiaro fu che una mossa del genere, nell’ipotesi che fosse vera, sarebbe stata a solo scopo difensivo verso la Russia. In ogni caso, almeno nella capitale turca, pochissimi si sorpresero. Convinti delle decisioni turche, e preventivamente per assicurarsi l’appoggio degli Arabi, le Potenze dell’Intesa iniziarono a propagare l’idea che la scelta di campo del CUP fosse un incidente storico, commesso da persone imbevute di militarismo prussiano. Ma al di là dell’eco suscitato da tale notizia, le motivazioni non furono proprio così semplici. Da una quarantina di anni, l’Impero aveva accumulato disfatte, perdite territoriali e lacerazioni. L’orgoglio turco, oppure ottomano qual dir si voglia, aveva le sue ferite, le sue Alsazia-Lorena. Sicuramente le passioni nazionalistiche, il fatto di essersi formati nelle file dell’amicizia turco-tedesca avevano inciso nella scelta di campo che venne fatta da Tal’aat ed Enver, ma era anche scontato che dopo tante battute d’arresto tentare di recuperare almeno una parte delle umilianti perdite fosse d’obbligo nella mente degli autocrati turchi. In più, la partecipazione alle ostilità era anche una via d’uscita, forse troppo facile, per scrollarsi di dosso il giogo politico e finanziario delle Potenze occidentali. Questo, almeno in linea di principio, doveva aver spinto questo ristretto numero di persone a prendere tale decisione quanto mai logica. I negoziati, condotti dall’ambasciatore tedesco a Costantinopoli von Wangenheim, e ai quali parteciparono il Gran Visir Sa’id Halim, Tal’aat ed Enver, ebbero in più il pieno avallo del Sultano Maometto V1. 1 Histoire de l’Empire Ottoman, cit. pag. 662 184 Tuttavia, se la Sublime Porta optò per la guerra, ciò non tolse che durante le prime settimane del conflitto restò sulle sue, lasciando ancora sperare all’Intesa una possibile neutralità. Costantinopoli aveva bisogno di tempo per poter portare a termine i suoi preparativi militari. Ma le poche iniziative che si azzardò a prendere in questo periodo la dicono già lunga sulle sue intenzioni. Infatti, nella prima metà di agosto vi fu l’incidente del Goeben e del Breslau. Questi due incrociatori tedeschi, subito dopo aver bombardato le basi francesi in Nord Africa, si erano rifugiate nelle acque ottomane ed avendo la flotta britannica intimato alla Sublime Porta di rinviare le navi in alto mare o di arenarle – conformemente al diritto di guerra – quest’ultima non esitò a dimostrare che le aveva appena acquisite per farne, sotto i loro nuovi nomi Yavuz Sultan Selim e Midilli, i gioielli della Marina ottomana. Intanto, il comandante dei due incrociatori, l’ammiraglio Souchon, era stato messo alla testa della flotta imperiale del Mar Nero1. Sarà solo l’inizio di diverse prese di posizione che ben presto chiariranno le intenzioni dei governanti turchi. L’8 settembre il Gran Visir annunciava l’abolizione delle Capitolazioni, dando così soddisfazione ad una delle principali rivendicazioni dei nazionalisti ottomani. Per il momento ebbe solo un efficacia simbolica ma quando il 27 dello stesso mese la Porta usciva dall’ambiguità iniziale chiudendo gli Stretti anche alle navi commerciali, la volontà di colpire le Potenze dell’Intesa nei loro interessi in zone venne resa esplicitamente chiara. Qualche giorno più tardi, come conseguenza diretta della soppressione del regime capitolare, i diritti doganali ottomani vennero alzati 1 Edward Cook, Britain and Turkey: the causes of the rapture, Macmillan, London, 1914, pag. 48 185 unilateralmente del 4%, facendo pendant alla chiusura degli uffici postali stranieri e alla messa in bando di tutte le giurisdizioni non ottomane. Nonostante questo, poiché la speranza è l’ultima a morire, neanche l’irreparabile si era ancora consumato. La Porta ad ogni richiesta di chiarificazione ufficiale tardava ad impegnarsi definitivamente, giacché gli Imperi Centrali avevano appena subito pesanti smacchi sulla Marna ed in Galizia. Ma se da parte turca c’era, ed era naturale, un ultimo dubbio sull’obiettività di una scelta pro-Berlino, da parte tedesca le sconfitte sul fronte orientale erano una ragione in più per accelerare le pressioni su Costantinopoli. Se l’Impero Ottomano apriva il fuoco, la diversificazione dei fronti avrebbe dato respiro alle armate austro-tedesche. Infatti, la conseguenza del definitivo schieramento ottomano sarebbe stata che i Russi si sarebbero visti costretti a portare le truppe nel Caucaso e l’Inghilterra, volendo proteggere il Canale e l’Egitto, avrebbe ridotto la pressione sul fronte occidentale. Sapendo tuttavia l’urgente necessità turca di armi, ufficiali esperti e soprattutto denaro, alla fine il governo del Kaiser decise di giocare la sua carta migliore: il 21 ottobre le prime casse d’oro arrivavano a Costantinopoli. La carrellata degli eventi seguenti era ben prevedibile: il giorno dopo Enver ordinava alla flotta del Mar Nero di attaccare immediatamente i porti russi mentre alcuni giorni dopo, alla dichiarazione di guerra da parte della Russia – la quale si avvaleva dei suoi “obblighi storici” – si aggiungevano le dichiarazioni di guerra da parte di Londra e Parigi1. Insieme all’appello alla Guerra Santa, bandita dal Sultano in persona, definitivamente in modo deciso l’Impero Ottomano compieva una scelta storica ed epocale: poneva le ultime basi della sua fine. Esitazioni certamente vi furono. Qualche disquisizione o addirittura dimissioni all’interno del CUP era prevedibile che ci 1 Histoire de l’Empire Ottoman, cit. pag. 663 186 sarebbero state. Ma non era sicuramente più il momento dei dubbi. Chi avrebbe voluto l’ingresso in guerra ne avrebbe dovuto sopportare le conseguenze. 187 Bibliografia: 1. 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