L`attività di ricerca è stata articolata in due

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO
FACOLTÀ DI AGRARIA
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE E TECNOLOGIE AGRARIE
DIPARTIMENTO DI AGRONOMIA AMBIENTALE E TERRITORIALE (DAAT)
Ottimizzazione dell’ agrotecnica della canapa
(Cannabis sativa L.) per applicazioni di tipo
farmaceutico.
Studente:
Salvatore Casano
Relatore:
Prof. Dario Giambalvo
Correlatori:
Dott. Giampaolo Grassi
Dott. Piero Trapani
ANNO ACCADEMICO 2004-2005
INDICE
Pag.
1. INTRODUZIONE
3
1.1. ORIGINI
6
1.2. BOTANICA
8
1.2.1. Classificazione tassonomica
1.2.2. - Classificazione dei fenotipi in base al contenuto in
cannabinoidi
8
11
1.2.3. - Ciclo vitale e caratteristiche morfo-fisiologiche
12
1.2.4. - Siti di biosintesi e di bioaccumulo dei cannabinoidi
20
1.3. I CANNABINOIDI
28
1.3.1. - Biosintesi
28
1.3.2. - I vari tipi di Cannabinoidi
31
1.3.2.1. - Cannabinoidi naturali
31
1.3.2.2. - Cannabinoidi sintetici
33
1.3.2.3. - Endocannabinoidi
33
1.4. ECOLOGIA CHIMICA DEI CANNABINOIDI E DEI
TERPENI
36
1.5. POSSIBILI UTILIZZAZIONI
43
1.6. APPLICAZIONI DI TIPO FARMACEUTICO
47
1.7. ASPETTI GENETICI E FISIOLOGIA DEL PROCESSO
RIPRODUTTIVO
1.8. OBIETTIVI DELLA RICERCA
55
61
2. MATERIALI E METODI
62
3. RISULTATI
71
4. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
77
BIBLIOGRAFIA
79
2
1. INTRODUZIONE
L’uomo ha sempre tentato di sfruttare le sue conoscenze e la sua esperienza per
ottenere dalla natura sostanze capaci di curare i malati e lenire le sofferenze.
Alcune delle sostanze che egli aveva imparato a ricavare dalle piante sono tuttora
alla base di farmaci che si utilizzano per combattere molte malattie; molte altre
sostanze sono state successivamente sintetizzate in laboratorio, ed attualmente
attraverso l’impiego di tecnologie avanzate la ricerca è sempre più impegnata
nella preparazione di nuovi farmaci. Non vi è dubbio che tra le tante terapie
alternative, la "fitoterapia" (cura delle malattie con le piante medicinali) ha
assunto un ruolo di primaria importanza quale terapia integrativa nonché, in
taluni casi, sostitutiva della terapia farmacologia classica. E’ a tutti noto che
l’azione medicamentosa di una pianta sia attribuibile alla presenza in essa di
sostanze chimiche, non sempre identificabili, dette "principi attivi", così
denominati per la loro capacità di influenzare, in modo più o meno incisivo, i
processi biochimici del nostro organismo e quindi il decorso di molte malattie;
l’insieme dei principi attivi presenti in una singola pianta costituisce il suo
“fitocomplesso”. Poichè le piante medicinali prive di dominante chimica sono
assai numerose, per esse, lo studio di un singolo principio attivo non può
condurre alla conoscenza delle proprietà della pianta, ma solo a quella del
principio attivo stesso; gli studi sulle potenzialità terapeutiche di una pianta
devono quindi puntare ad indagare sulla farmacodinamica del suo fitocomplesso,
così da dosare le percentuali dei principi attivi nella formulazione di un farmaco.
Prima che un farmaco sia disponibile, in farmacia o in ospedale, deve essere
sottoposto ad una serie di test per verificare l’efficacia della sua azione e la
sicurezza nell’uomo. Queste ricerche sono dette sperimentazioni cliniche; esse
analizzano le caratteristiche di ogni farmaco, l’utilità nella cura di una malattia,
gli effetti collaterali e ciò a cui bisogna fare attenzione quando si utilizza un
farmaco e le sue controindicazioni. Tali studi consentono inoltre di individuare il
modo più corretto per prendere quel farmaco, le dosi consigliate ed il momento
più adatto per l’assunzione. La sperimentazione dei farmaci è regolata da una
serie di norme e principi etici che mirano a salvaguardare e proteggere le persone
che li assumono; ciò significa che gli effetti collaterali non possono
assolutamente essere separati dal beneficio del farmaco.
Negli ultimi anni l'uso terapeutico dei derivati della canapa sta vivendo un
globale processo di rivalutazione. Numerosa è la bibliografia scientifica, storica o
recente, riportante gli effetti terapeutici in numerose patologie degli estratti
vegetali di canapa; i principi attivi, unicamente prodotti da tale specie, vengono
detti cannabinoidi, i quali sono una famiglia di sostanze chimiche a 21 atomi di
C.
3
Solo nell’ ultimo decennio, a partire dalla scoperta del sistema endocannabinoide
umano, si è assistito ad un rinnovato interesse per tale famiglia di sostanze; si è
iniziato a rivalutare la potenzialità farmaceutica del Δ9-THC, studiare le sue
interazioni con gli altri cannabinoidi e la singola attività terapeutica degli altri
cannabinoidi, ottenendo risultati molto importanti sia nello studio del
fitocomplesso, che nell’attività terapeutica dei cannabinoidi minori non dotati di
attività stupefacente, ma di “stupefacenti” campi di utilizzo. Numerose sono le
sperimentazioni cliniche effettuate negli anni passati con esiti positivi, altrettanto
numerose sono quelle attualmente in atto o che inizieranno nel prossimo futuro.
Lo sviluppo delle conoscenze sul sistema dei cannabinoidi endogeni progredisce
di pari passo all'individuazione di nuovi potenziali campi di utilizzo terapeutico.
La scienza farmaceutica ha da sempre focalizzato le sue attenzioni sul più
conosciuto dei cannabinoidi, il Δ9-THC, il quale è dotato di numerosi campi di
impiego terapeutico, ma che è dotato di attività psicotropa negli esseri umani
causandone evidenti effetti collaterali che vanno ad urtare con la terapeuticità di
tale principio attivo e le sue possibili applicazioni.
Il Sativex®, brevettato da GW Pharmaceuticals e che, grazie ad un accordo
commerciale, viene distribuito sul mercato dalla Bayer, è il primo farmaco
contenente cannabinoidi ottenuti da estratti vegetali ad essere accettato nella
farmacopea ufficiale di un paese occidentale nell’ era moderna; ciò è avvenuto
ufficialmente nell’aprile 2005 in Canada per il sollievo da dolore neuropatico
nella sclerosi multipla e presto si prevede la sua totale accettazione anche in Gran
Bretagna ed in altri paesi europei. Il Sativex® è uno spray sublinguale
caratterizzato da una percentuale standardizzata di Δ9-THC e CBD, ad ogni
spruzzo si assumono 2,7 mg di Δ9-THC e 2,5 mg di CBD (rapporto di quasi 1:1);
del CBD è stata scientificamente dimostrata l’ attività modulatoria sul Δ9-THC,
prolungandone l’effetto terapeutico ed attenuandone nettamente gli effetti
collaterali, tanto che dai trial clinici condotti con le più rigide modalità (ovvero
con randomizzazione, in doppio cieco, contro placebo e in più centri clinici) non
si sono verificati effetti collaterali. Numerosi sono i trial clinici al momento in
studio nei vari paesi per le numerose patologie curabili, ed anche in Italia è in
avvio il primo. Il Sativex® è ottenuto dopo estrazione chimica, purificazione e
titolazione da due varietà di Canapa: una ricca in Δ9-THC e una ricca in CBD; la
stessa azienda farmaceutica sta selezionando anche dei chemiotipi che
contengono in alte concentrazioni %, esclusivamente o prevalentemente, CBG,
CBC, THCV, CBDV, CBGV in vista di un loro possibile utilizzo farmaceutico o
come composti puri o come composti miscelati ai due cannabinoidi principali a
% standardizzata.
Nel nostro Paese la situazione riguardante l’impiego della canapa è controversa.
Questa pianta ed i suoi derivati sono compresi nella Farmacopea XII ed. tab. 2;
4
questo vorrebbe dire che ne è ammesso l’uso per i malati forniti di prescrizione
medica specialistica. I medici ritengono che essa sarebbe prescrivibile
utilizzando gli appositi moduli, ma i funzionari del Ministero della Salute non
sono dello stesso avviso e nel passato si sono verificati numerosi disguidi
burocratici che hanno causato inspiegati ritardi nell’importazione. Qualora il
medico specialista prescrivesse un farmaco a base di cannabinoidi sintetici o
estratti vegetali di canapa, solo il farmacista avrebbe modo di procurarli al
paziente, ma in Italia nessuno è autorizzato ad importarli o tanto meno a produrla
per scopi terapeutici. Il Ministero ritiene che la canapa potrebbe essere impiegata
in campo medico se questa avesse passato tutta la trafila di sperimentazioni che
qualunque farmaco deve subire; ciò significa elevati costi per effettuare i vari
stadi delle sperimentazioni e solo da alcuni anni l’ azienda farmaceutica predetta
sta iniziando ad investirvi milioni di Euro rivalutando la precedente conoscenza
ed esperienza millenaria sui prodotti della canapa, che ha anche visto una delle
più grosse aziende farmaceutiche italiane (Carlo Erba) distribuire in tutte le
farmacie questi prodotti fino alla fine degli anni ’30.
La ricerca dovrà puntare l’attenzione alla selezione di linee ricche
quantitativamente dei singoli cannabinoidi e con un elevato grado di purezza del
cannabinoide principale del chemiotipo ed al loro successivo miglioramento
genetico. Ottimizzare l’agrotecnica è un’altra prerogativa della ricerca, in tal
modo potranno essere massimizzate le produzioni di principio attivo per unità di
superficie, diminuendo al contempo i costi di produzione.
La conoscenza dell’evoluzione qualitativa e quantitativa del profilo in
cannabinoidi nei vari organi e nelle varie fasi del ciclo biologico della pianta, ed
in particolare durante la fase della fioritura, contribuirà a comprendere meglio
l’evolversi delle fasi di biosintesi e di bioaccumulo dei cannabinoidi e ad
ottimizzarne la produzione; quest’ultimo è un risultato ottenibile solo con una
migliore conoscenza del periodo ottimale di raccolta.
5
1.1. ORIGINI
L’habitat originario della canapa si ritiene si trovi nell’Asia Centrale, dove
tuttora cresce spontaneamente in Iran, Afghanistan, nella parte meridionale del
Kazakistan ed in alcune zone della Siberia meridionale. Da queste zone si è
diffusa nel corso dei secoli verso tutte le altre parti del mondo (Fig. 1.1).
Fig. 1.1: Dispersione primaria della Canapa
Alla dispersione primaria nell’Era Pre-Cristiana seguì una dispersione secondaria
durante tutto il Periodo Storico (fino al 1960), ed ai giorni nostri sta avvenendo
una dispersione terziaria della specie.
Numerosi reperti archeologici ritrovati non fanno altro che confermare come in
ogni epoca storica le diverse popolazioni del pianeta avessero imparato a
coltivare ed usare la canapa per molti scopi. Archeologi, antropologi, economisti
e storici concordano sul fatto che da molto prima del mille a.C. e fino alla fine
del XIX secolo la canapa fosse diffusamente coltivata, fornendo materia prima
per i più diversi usi: fibre, tessuti, olio per illuminazione, carta, medicina, cibo.
Pare che i primi usi come medicina e fibra risalgano addirittura al XXVII secolo
prima di Cristo; a quel tempo sembra venisse usata la canapa che cresceva
spontanea. Le sue proprietà terapeutiche e ludiche erano ben note agli antichi
abitanti di India, Cina, Medio Oriente e Asia Sud-Orientale, i quali la
selezionarono principalmente per il contenuto in resina. In Europa ed in Estremo
Oriente la canapa è stata coltiva in prevalenza per la produzione di fibra e di
semi.
Le proprietà terapeutiche e psicotrope della canapa sono legate alla produzione
dei cannabinoidi. Δ9-THC (Delta9-Tetraidrocannabinolo) e CBD (Cannabidiolo)
6
sono i due principali cannabinoidi prodotti; il Δ9-THC possiede attività
psicotropa, mentre il CBD no.
De Mejier (1999) ha descritto quattro gruppi genici della specie Cannabis sativa
L., a seguito della selezione naturale, artificiale e naturalizzazione, rapportandoli
al loro profilo chemiotipico; da tali gruppi genici hanno origine tutte le varietà
coltivate attualmente esistenti nel Mondo (Tab. 1.1).
Tab.1.1: Gruppi genici della Cannabis sativa L.
GRUPPI
GENICI
1
2
3
4
AREA D’ ORIGINE DESTINAZIONE
D’USO
Russia, Area
fibra e seme
Mediterranea ed
Estremo Oriente
Sud Asia, Sud-Est
Marihuana
Asia, Africa e Nuovo
Mondo
Nord India, Nepal,
Hashish
Medio Oriente
Afghanistan e
Hashish
Pakistan
PROFILO
CHEMIOTIPICO
bassa in Δ9-THC e da
media a alta in CBD
alta in Δ9-THC e bassa
in CBD
alta in Δ9-THC e da
bassa a media in CBD
alta in Δ9-THC e da
bassa ad alta in CBD
I quattro gruppi genici vengono raggruppati in due gruppi ad un livello di
valutazione superiore: Cannabis sativa (gruppi 1, 2, 3 – comunemente detti
“sativa”) e Cannabis afghanica (gruppo 4 – comunemente detto “indica”,
distinto dagli altri tre gruppi per l’elevato contenuto percentuale in CBD).
Tale suddivisione in gruppi genici delle piante addomesticate, dei loro
progenitori selvaggi e dei loro derivati naturalizzati assume un posto di rilevanza
in un sistema di valutazione integrato che utilizza criteri di distinzione naturali,
quali le differenze genetiche alla base dei differenti profili chemiotipici, e pratici,
quali le distinte destinazioni d’uso di tale specie nel corso dei secoli.
7
1.2. BOTANICA
1.2.1. - Classificazione tassonomica
Dal punto di vista prettamente scientifico, oggi la classificazione riconosciuta
dalla quasi totalità dei botanici è la seguente (Quimby, 1974):
Divisione - Tracheophyta
Sottodivisione - Pteropsida
Classe - Angiospermae
Sottoclasse - Dicotyledoneae
Ordine - Urticales
Famiglia - Cannabaceae
Genere - Cannabis
Specie - Cannabis sativa L.
Precedentemente Cannabis fu classificata come appartenente alla famiglia delle
Urticaceae (Schultes, 1970). Cannabis e Humulus sono i due soli generi che
fanno parte della famiglia delle Cannabaceae (Grudzinskaya, 1988). Crombie e
Crombie (1975) hanno sperimentato che l’innesto incrociato di Humulus in radici
di Cannabis e viceversa non cambiavano la chimica dell’innesto. Il successo
dell’esperimento di innesto tra Cannabis e due specie di Humulus (H. lupulus e
H. japonicus) costituisce una prova consistente per la attuale classificazione
botanica. I tentativi di ripetere l’esperimento tra Cannabis e Urtica dioica, hanno
invece riportato solamente dei fallimenti, rendendo inattuale la precedente
classificazione che inseriva Cannabis nelle Urticaceae.
La classificazione botanica della canapa ha vissuto diversi contrastanti periodi.
Oggi è generalmente accettato da buona parte dei botanici che il genere Cannabis
è un genere monotipico con la sola specie Cannabis sativa L., come ipotizzato
originalmente da Linneo nel 1753.
In accordo a tale classificazione, molte legislazioni occidentali indicano che i
prodotti illeciti (Marihuana e Hashish) sono riconducibili alla sola specie
Cannabis sativa L. .
In Italia, nel testo unico delle leggi sulla disciplina degli stupefacenti e delle
sostanze psicotrope emanato il 9 ottobre 1990 (art. 26 D.P.R. n. 309/90), si fa
riferimento alla Cannabis indica o canapa indiana, commettendo un errore
nell’indicare due specie distinte; le due specie infatti, Cannabis sativa L. e
Cannabis indica Lam. (sempre se si possano considerare due specie distinte)
risultano indistinguibili sulla base del loro aspetto fenotipico; ciò provoca
confusione alle Forze dell’Ordine nel momento in cui sono chiamate a
8
distinguere tra l’incauto produttore agricolo che coltiva canapa a scopo tessile o
sementiero e quello che coltiva canapa da droga per scopi illeciti.
Questo è tutt’oggi uno dei problemi principali riscontrati nei controlli effettuati
nelle coltivazioni di canapa in Italia, rendendo maggiormente difficile il
reinserimento di tale specie negli attuali ordinamenti colturali.
Nonostante il convincimento generale della natura monotipica della Cannabis,
per molti anni vi sono state anche delle opinioni contrarie, causate soprattutto
dalle difficoltà legali evidenziatesi in processi a persone accusate di crimini legati
alla droga; autorevoli botanici (Schultes et al., 1974; Emboden, 1974 e 1977)
dichiaravano la politipicità della specie indicando con Cannabis indica la specie
da droga, contrastando con le loro stesse precedenti pubblicazioni nelle quali
asserivano che Cannabis fosse un genere monotipico (Schultes, 1970; Emboden,
1972).
Il concetto politipico risale al 1785, quando Lamarck descrisse la specie
Cannabis indica (proveniente dall’ India) come distinta dalla specie Cannabis
sativa, indicando come la nuova specie differisse nello sviluppo e nei caratteri
morfologici, oltre a sottolinearne le maggiori proprietà narcotiche, supponendo
che potessero essere dovute a differenze chimiche. Successivamente numerosi
botanici (Vavilov e Buckinich, 1929; Schultes et al., 1974; Zhukovskii, 1950)
identificarono come Cannabis indica non solo popolazioni originarie dell’India,
ma anche popolazioni selvatiche del Pakistan e Afghanistan e numerosi ecotipi
coltivate in Iran, Turchia, Siria e Nord Africa.
Nel 1924 Janischewsky descrisse una terza specie - la Cannabis ruderalis - che
egli distingueva principalmente per i caratteri morfologici dell’achenio. Questa
specie si estendeva dal nord della Russia europea fino all’ovest della Siberia e
dell’Asia Centrale.
Tale ipotetica politipicità fu oggetto di discussione nei dibattiti forensi in ogni
parte del mondo.
I tassonomisti moderni hanno variamente caratterizzato il genere Cannabis.
I taxa che sono stati proposti in letteratura sono molto numerosi; tra questi
Schultes et al. (1974), trovandosi d’accordo con Janischewsky (1924),
identificano nel genere le specie C. sativa, C. indica e C. ruderalis, e individuano
in ogni specie numerose varietà; altri tassonomisti (Vavilov e Bukinich, 1929;
Serebriakova, 1940; Zhukovskii, 1950) non riconoscono la specie ruderalis ma
considerano solo le prime due; Quimby (1974) e Small et al. (1973; 1976)
preferiscono indicare il genere Cannabis con la sola specie Cannabis sativa L.
caratterizzata da una elevatissima variabilità, e subito dopo, lo stesso autore
Small, in compartecipazione con Cronquist (1976), riconosce in essa quattro
forme, dividendola in due sub-specie (sativa e indica, considerate rispettivamente
non psicotropa e psicotropa), ciascuna contenente due livelli sub-varietali.
9
In accordo con questi due ultimi autori, numerosi altri continuarono a usare il
termine indica per indicare razze psicotrope, relazionando tale caratteristica
anche al loro portamento tendenzialmente più basso e con una maggiore
attitudine alla ramificazione (Zohary e Hopf, 1994).
In un lavoro di De Meijer et al. (1992) si fa riferimento ad un’ampia collezione di
germoplasma (97 accessioni), suddivisa in tre gruppi definiti in base al contenuto
% dei due principali cannabinoidi, Δ9-THC e CBD (vedi Fig. 2). Un gruppo era
indicato “non psicotropo” (“non-intoxicant”), l’altro “intermedio” (“semiintoxicant”) e l’ultimo “da droga” (“intoxicant”). Un campione di 32 popolazioni
derivate da questa collezione è stato allevato nello stesso ambiente per due anni
consecutivi e su un campione di piante di ciascuna popolazione sono stati rilevati
23 diversi caratteri. Le variazioni dei caratteri morfologici e fenologici sono stati
confrontati tra loro, così come il contenuto in cannabinoidi. Le conclusioni sono
state che nessun carattere è distintivo e costantemente associabile ad una diversa
accessione o ipotetica specie, e solo la larghezza della lamina fogliare e la data
della fioritura hanno mostrato una certa correlazione con il contenuto del
cannabinoide psicotropo Δ9-THC, senza però rappresentare un elemento certo di
distinzione per l’identificazione della specie. In sintesi, il lavoro ha dimostrato
che l’ampia variabilità dei caratteri, nell’ambito della stessa popolazione o tra
diverse popolazioni, non permette di avanzare criteri certi di differenziazione di
distinte specie di canapa.
Tutte le popolazioni si fecondano tra di loro e finora, anche attraverso le moderne
tecniche basate sull’analisi del DNA, non è stato possibile classificare le diverse
popolazioni di Cannabis, ma solamente inquadrare le varie accessioni in gruppi,
accomunate dalle stesse aree di provenienza.
Secondo Wilmot-Dear (1999) il genere sembra essere meglio classificato come
comprendente una specie, le cui variazioni intrinseche, causate da selezione
artificiale per la produzione di fibra, olio o resina psicotropa, sono seguite da
naturalizzazione, cross-breeding e ricombinazione di caratteri, dando luogo ad un
reticolato modello di variazioni dove, specialmente nelle piante femminili e
meno nelle maschili, è possibile identificare morfologicamente e chimicamente
numerose forme estreme accompagnate da un numeroso e continuo range di
forme intermedie.
Tale autore effettua una distinzione della specie in tre gruppi varietali:
sativa, piante modificate con lo scopo di ottenere fibra e olio di semi; indica,
piante modificate con lo scopo di ottenere resina psicotropa; spontanea, piante
spontanee dell’Asia centrale e Sud Africa, piuttosto piccole e con corti internodi,
le cui attuali popolazioni hanno perso quasi del tutto le caratteristiche
morfologiche e chimiche del taxon spontanea a causa dei continui incroci con i
10
taxon sativa e indica, e risultano intermedie con esse, ma aventi come carattere
distintivo una maggiore persistenza del pericarpo del seme.
Un recente studio di Hillig e Mahlberg (2004), impostato sulle analisi chimiche,
genetiche e morfologiche di numerose accessioni, ha supportato nuovamente il
concetto dell’esistenza di due specie presenti nel genere Cannabis, indicandole
Cannabis sativa (2 biotipi) e Cannabis indica (4 biotipi).
1.2.2. - Classificazione dei fenotipi in base al contenuto in cannabinoidi
Recentemente per ovviare al problema della classificazione soprattutto tra canapa
a scopo tessile o sementiero e canapa da droga per scopi illegali si ricorre ad una
semplice classificazione basata sul contenuto qualitativo e quantitativo di
cannabinoidi della pianta distinguendo i vari tipi di canapa in tre fenotipi
principali. Fondamentalmente, in funzione del contenuto % dei due principali
cannabinoidi (Δ9-THC e CBD) una pianta può essere collocata all’interno di un
grafico che ne definisce il fenotipo d’appartenenza (Small e Beckstead, 1973; De
Meijer, 1992). In particolare, il grafico porta sull’asse delle ordinate la % di Δ9THC, mentre sull’ asse delle ascisse la % di CBD; inserendo i valori % di Δ9THC e CBD rilevati come coordinate nel grafico, si può individuare a quale
fenotipo appartiene la pianta da valutare (Fig. 1.2):
Fenotipo 1: Piante “da droga” (“intoxicant”); Fenotipo 2: Piante “intermedie”
(“semi-intoxicant”); Fenotipo 3: Piante “non psicotrope” (“non-intoxicant”).
Classificazione dei Fenotipi in base al contenuto in Cannabinoidi
2,0
1,8
FENOTIPO 1
1,6
% THC
1,4
1,2
FENOTIPO 2
1,0
0,8
0,6
0,4
0,2
FENOTIPO 3
0,0
0
0,5
1
1,5
2
2,5
3
3,5
% CBD
Fig. 1.2: Schema riportante le aree di classificazione in base al contenuto in
cannabinoidi
11
1.2.3. - Ciclo vitale e caratteristiche morfo-fisiologiche
Il ciclo vitale della canapa può essere diviso in sei diverse fasi fenologiche:
1: Germinazione: dura finché le prime due foglie vere comparse sul fusticino,
raggiungono la grandezza delle foglie cotiledonari e sono capaci di attività
fotosintetica.
2: Stadio di crescita lenta: dura di norma dalla comparsa del primo paio di foglie
fino allo sviluppo del quinto palco.
3: Stadio di crescita rapida: dura fino alla formazione degli abbozzi fiorali.
4: Stadio tra l’accrescimento degli abbozzi fiorali e l’apertura dei primi fiori,
dopodiché l’accrescimento gradualmente rallenta.
5: Fioritura: si estende tra l’apertura del primo fiore maschile, ed il conseguente
rilascio di polline dalle antere, fino a quando si arresta la fioritura femminile .
6: Crescita dell’achenio: dura dall’inizio dello sviluppo dell’embrione nel seme
fino alla maturazione del seme stesso.
La canapa può nascere e crescere con temperature fra i 12 e i 40-45°C, ma le
temperature ideali sono di: appena al di sopra dei 20°C per la prima fase di
crescita e per la successiva crescita vegetativa; appena al di sotto dei 25°C per la
fioritura, in questa fase è bene che la fase di buio sia più fredda, condizione che
sembra favorire un maggiore bioaccumulo dei cannabinoidi, dato che la
traslocazione dei carboidrati avviene più efficacemente a temperature moderate
piuttosto che a temperature elevate. Inoltre, temperature superiori ai 30-32°C
causano una traspirazione eccessiva nelle piante, le quali mostrerebbero più
facilmente fenomeni di stress idrico, se in condizioni irrigue non ottimali, con
conseguenti diminuizioni nelle rese. Al di sotto dei 20°C tutti i processi di
crescita rallentano progressivamente fino a fermarsi con temperature intorno ai
10°C; proprio per questo motivo la semina avviene in primavera quando la
temperatura del terreno supera tale soglia di diversi gradi centigradi .
La canapa è una specie annuale erbacea, con stelo rigido ed eretto, le cui
dimensioni in altezza variano da medie ad alte. Presenta una radice primaria ben
sviluppata e con numerose radici secondarie; chiaramente la morfologia
dell’apparato radicale è collegata con il suolo/substrato sul quale la pianta si
sviluppa, tendendo ad approfondirsi se particolarmente sciolto o rimanendo
superficiale se compatto.
La canapa varia notevolmente nelle sue caratteristiche morfologiche e chimiche
al variare delle condizioni pedo-climatiche.
Quando cresce in zone ben illuminate e su terreni ben drenati e con una buona
presenza di nutrienti ed acqua può raggiungere un’altezza di 5 metri in un
periodo di coltivazione compreso tra i 4 ed i 6 mesi. Quando invece cresce in
condizioni di elevata aridità e con scarsa presenza di nutrienti tende a ridurre il
12
numero di foglie ed arresta la crescita a poche decine di cm, anticipando la
fioritura.
Una fitta densità di semina (400-500 semi/m2, per ottenere circa 100 piante/m2 a
fine ciclo), come avviene nelle produzioni da fibra, induce alle piante una
crescita dello stelo in altezza con scarse ed esili ramificazioni; se invece viene
seminata rada (6-8 piante/m2), come avviene nelle produzioni da seme o da
droga, raggiunge una altezza inferiore ma ramifica vigorosamente e si verificano
fioriture più abbondanti, e, conseguentemente, maggiori produzioni di seme o di
droga.
La canapa è specie normalmente dioica sviluppando fiori maschili e femminili in
piante separate, sebbene esempi di fiori monoici (fiori di entrambi i sessi in una
stessa pianta) si riscontrano occasionalmente in individui geneticamente dioici.
Numerosi fattori contribuiscono alla determinazione sessuale di una pianta di
canapa.
In condizioni normali di sviluppo, le popolazioni dioiche sono costituite da un
egual numero di piante maschili e femminili, in quanto il sesso è determinato
dalle semplici leggi di eredità sessuale legate ai cromosomi X e Y. Sotto
condizioni modificative quali eccesso o difetto di nutrienti, mutilazione, freddo
estremo o cicli alterati di illuminazione, si può verificare in individui
geneticamente dioici l’insorgenza di fioriture intersessuali o addirittura il
completo stravolgimento del sesso.
Il carattere “monoicismo” è stato sottoposto nell’ultimo secolo a selezione per
ottenere la produzione di varietà geneticamente monoiche. All’interno di una
stessa popolazione monoica si possono evidenziare individui monoici con una
differente percentuale tra fiori maschili e femminili; tali forme vengono definite
“intersessuali”. Grishko et al. (1937) hanno individuato 12 possibili forme, di cui
6 su piante con portamento femminile e 6 su piante con portamento maschile.
Le varietà dioiche vengono coltivate tradizionalmente per fibra o per droga; le
varietà monoiche invece consentono di incrementare notevolmente le produzioni
di seme (Bòcsa, 1961; Virovets et al., 1976) rispetto alle varietà dioiche, e certe
specifiche varietà possono anche essere coltivate per la fibra senza grosse
diminuizioni nelle produzioni.
In Italia il rilancio della canapa da fibra, grazie al Consorzio Canapa Italia, è
stato incentrato sulla coltivazione di varietà monoiche, precoci, dotate di bassa e
media vigoria, con buone rese in fibra, resistenti all’allettamento e con un
contenuto in Δ9-THC inferiore allo 0,2 % di sostanza secca nel rispetto della
Normativa Europea di riferimento.
La canapa è una specie ad impollinazione anemofila. L’impollinazione può
avvenire tra piante site anche ad alcuni chilometri di distanza.
13
La semina avviene, nei paesi a clima temperato, nel periodo primaverile e
normalmente la germinazione avviene in un periodo compreso tra i tre ed i sette
giorni con l’ emergenza dell’ epicotile portante due cotiledoni di forma ovale,
carnosi e a lembo intero. La prima foglia vera si ha ad un’altezza di 8-10 cm dal
suolo ed è costituita da un paio di singole foglioline orientate in modo opposto e
con il lembo seghettato.
Le successive paia di foglie si innalzano a coppie opposte e sono differentemente
formate in numero di foglioline a seconda della sequenza di sviluppo; infatti la
seconda coppia ha tre foglioline, la terza ne ha cinque, e via via fino a
raggiungere anche undici-tredici foglioline per singola foglia.
14
L’altezza raggiunta dalla pianta e la lunghezza delle successive fasi fenologiche
dipendono dalla data di fioritura, determinata a sua volta dalla varietà e dal
fotoperiodo (Ranalli, 1998); essa infatti mostra una duplice risposta al
fotoperiodo. Nei primi due-tre mesi di crescita a fotoperiodo lungo (16-18 ore di
luce giornaliera) risponde ad un aumento del numero delle ore di luce giornaliere
con una crescita vegetativa sempre più vigorosa, riuscendo ad accrescersi in
altezza fino a 10 cm al giorno durante i giorni estivi a fotoperiodo lungo; dopo
richiede un numero di ore di luce giornaliere inferiore (fotoperiodo corto) per
fiorire e completare il suo ciclo vitale. Il numero di ore giornaliere critico per
indurre la fioritura è variabile dalle 12 alle 14 ore. Generalmente le varietà
monoiche sono più precoci delle dioiche; infatti le monoiche vengono indotte a
fiorire quando il numero di ore di luce giornaliera scende al di sotto delle 14 ore
di luce, mentre le dioiche vengono indotte a fiorire con 12-13 ore di luce
giornaliera.
Popolazioni selezionte in ambienti a latitudini elevate, se coltivate a latitudini più
basse manifestano una elevata precocità di fioritura; si verifica l’opposto per i
genotipi provenienti da latitudini più basse e coltivate in aree a maggiore
latitudine.
Molte razze richiedono un minimo numero di giorni a fotoperiodo corto per
produrre fiori fertili; un più basso numero di giorni a fotoperiodo corto porta alla
formazione di abbozzi fiorali non differenziati, la mancata induzione fiorale ed il
proseguire della fase vegetativa se viene ristabilita una condizione di fotoperiodo
lungo.
Il periodo di buio durante la fase di induzione fiorale non deve essere interrotto
nemmeno da brevi periodi di luce, se no viene inibita l’induzione fiorale ed
azzerato il precedente periodo di buio.
La conoscenza della risposta al fotoperiodo è di fondamentale importanza nelle
coltivazioni di canapa terapeutica in quanto queste ultime, non venendo effettuate
in pieno campo e quindi non seguendo il normale ciclo biologico della pianta,
dovranno essere condotte con criterio e non commettendo assolutamente errori
nell’illuminazione per non compromettere la produzione. La coltivazione della
canapa terapeutica viene effettuata in ambiente “indoor” (cioè in condizioni
ambientali completamente artificiali) o “semi-indoor” (cioè in serra con apposito
impianto di illuminazione e riscaldamento); con tali tecniche di coltivazione è
possibile attuare tecniche di forzatura o induzione alla fioritura con la semplice
regolazione del fotoperiodo ed ottenendo in tal modo più cicli annuali.
Tali coltivazioni vengono effettuate con materiale clonale ottenuto da piante
madri disposte in “stanze di vegetazione” (cioè con condizioni di fotoperiodo
lungo ed una ricca concimazione azotata); queste piante riescono a fornire
settimanalmente un gran numero di talee, e, alcune popolazioni specifiche, se
15
mantenute in condizioni artificiali di fotoperiodo lungo e senza grossi sbalzi
termici o stress idrici, possono vegetare anche per alcuni anni continuando a
produrre talee e non sviluppando abbozzi fiorali.
Il primo segno di fioritura è dato dallo svilupparsi di abbozzi fiorali nella gemma
apicale principale della pianta e successivamente nelle gemme ascellari che si
trovano a livello dei nodi nello stelo.
Se si verificano stress nella fase vegetativa, si può verificare il fenomeno della
“pre-fioritura” con la comparsa di piccoli abbozzi fiorali nelle gemme
immediatamente inferiori alla principale; la pre-fioritura può evolversi in
fioritura vera e propria con lo sviluppo delle strutture riproduttive su tutta la
pianta o può regredire, con il disseccamento degli abbozzi fiorali, se si
ristabiliscono le condizioni che avvantaggiano la fase vegetativa.
I fiori maschili sono organizzati in infiorescenze a pannocchia, composta da
numerosi racemi ascellari. Il singolo fiore comprende: un perigonio a 5 pezzi e 5
stami (pendenti a maturità ed inseriti sul fondo del perigonio) a filamento breve
con antere bi-loculari e deiscenti a secondo la lunghezza.
L’infiorescenza femminile si presenta come una falsa spiga, grossa, dritta e a
ciuffo; essa si mostra molto più compatta e fogliosa dell’infiorescenza maschile.
Il singolo fiore femminile è composto da: una stipola, una brattea perigonale e un
ovario uni-loculare sormontato da due stimmi filiformi sporgenti dalla brattea
perigonale ricopritrice.
La struttura del singolo fiore (maschile o femminile) nelle piante monoiche non è
differente rispetto a quella che si osserva nelle piante dioiche.
Generalmente si differenzia la disposizione delle infiorescenze sulla pianta;
infatti i fiori maschili sono situati in un verticillo sull’inserzione delle
ramificazioni primarie della pianta, mentre i fiori femminili si sviluppano di
solito agli apici delle ramificazioni primarie; seppur più raramente, si può
verificare anche la situazione opposta.
16
La canapa monoica con abito maschile possiede un numero di fiori maschili
nettamente inferiore rispetto alla pianta dioica maschile; lo stesso avviene per
una monoica con abito femminile rispetto ad una dioica femminile.
Prima della fioritura non è possibile distinguere il sesso della pianta, sebbene
normalmente le piante maschili tendono ad essere più alte (+ 10-15 %) (Bòcsa,
1998) e meno ramificate, e viceversa le femminili meno alte e più ramificate.
Solamente attraverso le moderne tecnologie genetiche applicate e l’utilizzo di
markers molecolari associati al sesso maschile, è possibile discriminare il sesso
di una pianta dioica prima della fioritura (Mandolino et al., 1999; Bòcsa et al.,
2002).
In entrambi i sessi appena inizia la fioritura cambia anche la fillotassi variando la
disposizione delle foglie da opposte ad alternate, per poi rimanere normalmente
alternate nei vari successivi stadi di formazione delle infiorescenze. Con
l’avanzare della fioritura il numero di foglioline per foglia diminuisce fino ad
avere una singola piccola fogliolina, che appare prima di ogni coppia di fiori
(Clarke, 1981).
La fioritura maschile e femminile differisce in diverse caratteristiche.
Le piante maschili di solito muoiono subito dopo aver rilasciato in natura il loro
polline, mentre le piante femminili possono proseguire lentamente in pieno
campo la fioritura per alcuni mesi, fino a quando il gelo non le uccide.
Paragonandole alle piante femminili, le piante maschili mostrano un più rapido
aumento in altezza ed un più rapido decremento della dimensione della foglia;
infatti le foglioline che accompagnano i fiori maschili risultano di dimensioni ben
più piccole rispetto alle foglioline che accompagnano i fiori femminili.
Avvenuta la fecondazione del fiore femminile è seguita da un graduale
rigonfiamento della brattea perigonale dove l’ovulo inizia ad ingrossarsi e a
costituire un embrione vitale.
Dopo approssimativamente 3-6 settimane il seme è maturo e pronto per la
raccolta o alla naturale dispersione. La germinabilità del seme passa da valori
prossimi al 100 % del primo anno a valori gradualmente decrescenti con il
tempo. Il frutto è una piccola noce anche se molti si riferiscono a questo frutto
come il “seme” di canapa.
La piccola noce è un achenio chiuso, circondato dal pericarpo che a sua volta è
contenuto (prima della deiscenza) da una fogliolina. Ogni achenio contiene un
solo seme. Le misure biometriche sono estremamente variabili (Fig. 1.3); il range
del peso di 1000 semi è variabile dai 3 g ai 60 g. All’interno del pericarpo
troviamo due cotiledoni ricchi di sostanze di riserva con una radichetta ed un
fusticino non sviluppati.
17
Fig. 1.3: Variabilità delle misure biometriche del seme
La dioica femminile (Fig. 1.4) è oggetto delle coltivazioni di canapa terapeutica
visto che la totale assenza di polline maschile non consente la produzione di
seme, che comporterebbe alla pianta un ulteriore dispendio energetico per il
progressivo accumulo di metaboliti in esso e, conseguentemente, consente una
maggiore produzione in cannabinoidi.
Fig. 1.4: Infiorescenza di una pianta dioica femminile
Il fiore femminile con la maturazione si ricoprirà progressivamente di tricomi
ghiandolari, i quali sono il sito di bioaccumulo dei principi attivi, cannabinoidi e
terpeni; la miscela di quest’ultimi conferisce ad ogni singola pianta un distinto
odore, mentre i cannabinoidi sono pressoché inodori.
18
Data la variabilità di bioaccumulo alle varie fasi della fioritura, per
standardizzare i risultati di due o più coltivazioni successive debbono essere
considerati lo stesso numero di giorni per ogni ciclo di coltivazione (più o meno
tre mesi) con una stessa varietà clonale e non variare i vari parametri ambientali
potenzialmente influenti sulle rese in cannabinoidi; ciò risulta facilitato dalla
tipologia di coltura completamente artificiale che viene condotta attualmente
nelle produzioni che sono “legalmente autorizzate” a produrre derivati vegetali
della canapa per scopi terapeutici (GW Pharmaceuticals e due Enti autorizzati dal
Ministro della Sanità Olandese). Le case farmaceutiche, lavorando con cloni ed
in condizioni ambientali standard ripetibili, riescono ad ottenere una elevata
omogeneità qualitativa e quantitativa per singola pianta e risultati molto
riproducibili da ciclo a ciclo, riuscendo oltretutto a sviluppare tecniche di
agricoltura biologica ed assicurando un prodotto farmaceutico standardizzato, nel
caso del Sativex® (prodotto dalla GW Pharmaceuticals) o infiorescenze
femminili con un costante contenuto % di principi attivi, o variabile entro un
range minimo, nel caso del Bedrocan® e del SIMM18® (prodotti da due Enti
autorizzati dal Ministro della Sanità Olandese).
La morfogenesi del fiore femminile è collegata, come vedremo, ad un differente
numero (variabile quantitativa) ed a un differente contenuto (variabile
qualitativa) dei tricomi ghiandolari presenti sulla brattea perigonale ed in
generale su tutti gli organi aerei, influendo quindi sulla produttività quantitativa e
qualitativa in cannabinoidi. Nella produzione di canapa da destinare all’industria
farmaceutica è molto importante che la raccolta venga effettuata nella fase di
massima resa in cannabinoidi.
19
Per tale tipologia di produzione assume rilevante importanza una conoscenza
morfologica e fisiologica dei siti in cui avviene la biosintesi ed il bioaccumulo di
dette sostanze.
1.2.4. - Siti di biosintesi e di bioaccumulo dei cannabinoidi
I cannabinoidi sono sostanze unicamente prodotte dal genere Cannabis.
La loro biosintesi e bioaccumulo è localizzata in ghiandole epidermiche
specializzate (Fig. 1.5) distribuite su tutta la superficie aerea della pianta
(Fairbairn, 1972; Hammond e Mahlberg, 1973; Lanyon et al., 1981).
Fig. 1.5: Ghiandole produttrici di resina sulla superficie fogliare
La produzione dei cannabinoidi, associata a quella dei terpeni, avviene in
maggior misura nelle fioriture femminili rispetto alle maschili.
Nella canapa sono evidenziabili due differenti strutture di tricomi ghiandolari: i
tricomi ghiandolari peduncolati ed i tricomi ghiandolari sessili.
La biosintesi e il bioaccumulo di dette sostanze avviene prevalentemente nei
tricomi ghiandolari peduncolati, i quali iniziano a generarsi in numero sempre
più abbondante sulle brattee del perigonio con l’inizio della fase della fioritura,
mentre i tricomi ghiandolari sessili li troviamo in tutte le parti aeree della pianta
sin dalle prime fasi di crescita (Lanyon et al., 1981).
Mahlberg e Kim (2003) esaminarono entrambi i tipi di ghiandole nella loro
composizione in cannabinoidi, prelevandole singolarmente, ed ottennero che i
tricomi peduncolati prelevati sulla venatura di una brattea hanno un contenuto
maggiore in Δ9-THC di circa 20 volte dei tricomi sessili prelevati sulla venatura
di una foglia; similarmente è stato riscontrato nei tricomi peduncolati prelevati
20
sulla superficie non-venata di una brattea rispetto ai tricomi sessili prelevati sulla
superficie non-venata di una foglia.
Un altro tipo di escrescenza epidermica è data dai peli sessili, i quali non hanno
funzione secretoria e sono silicizzati e rigidi (Dayanandan e Kaufman, 1976;
Hammond e Mahlberg, 1973); essi sono abbondanti sin dall’inizio della fase
vegetativa in tutta la parte aerea, soprattutto sulle foglie.
La loro abbondante presenza su tutta la parte aerea fa pensare ad una loro
evoluzione filogenetica legata ad un meccanismo di difesa dalla predazione e dal
disseccamento, mentre l’abbondanza dei tricomi ghiandolari maggiormente sulla
brattee del perigonio e sulle strutture riproduttive fa pensare che sia intimamente
legata alla riproduzione gamica ed alla sopravvivenza della pianta, possibilmente
ricavandone un vantaggio dato da un incremento nella produzione in semi ed in
una loro conseguente maggior dispersione nell’ambiente circostante.
La totale assenza di queste tre differenti strutture nelle radici (De Pasquale et al.,
1974) ci spiega la totale assenza dei cannabinoidi in tali organi.
I tricomi ghiandolari peduncolati sono presenti sia sulle piante staminate
(maschili) che sulle piante pistillate (femminilli); il fatto che le piante pistillate
sono più ricche in cannabinoidi delle staminate è legato al fatto che il numero dei
tricomi ghiandolari peduncolati e sessili è nettamente superiore nelle brattee e
nelle strutture riproduttive femminili piuttosto che nelle strutture riproduttive
maschili (Lanyon et al., 1981).
Si può ritenere che, su prelievi effettuati sulla stessa pianta ed in organi diversi
(foglia o fiore), il differente quantitativo % in cannabinoidi rilevabile dalle
analisi gas-cromatografiche è associato ad un differente numero di tricomi
ghiandolari presenti nella parte vegetale prelevata, un differente rapporto tra
peduncolati e sessili ed un differente rapporto di biosintesi dei singoli
cannabinoidi tra organi diversi, fattore quest’ultimo probabilmente legato ai
differenti quantitativi e rapporti tra le sostanze ormonali presenti nei vari organi
vegetali alle varie fasi fenologiche e che potrebbero influenzare notevolmente il
processo di biosintesi e bioaccumulo di tali sostanze.
Turner et al. (1980) affermarono che specifici meccanismi di regolazione nella
morfogenesi sembrano esistere nel controllare lo sviluppo dei due differenti tipi
di tricomi in relazione all’organo nel quale si accrescono ed alla fase fenologica
di riferimento; infatti, mentre alcune popolazioni hanno un maggiore contenuto
% in cannabinoidi nelle bratte rispetto ad altre popolazioni, non è scontato che lo
stesso trend di dominanza sia uguale anche per i contenuti % nelle foglie e che il
rapporto tra i vari cannabinoidi si mantenga esattamente costante nei vari organi
di una stessa pianta; quindi, nelle numerose differenti popolazioni di canapa, il
differente bioaccumulo quantitativo, ed in parte anche qualitativo, tra gli organi
della stessa pianta potrebbe essere spiegato con un più complesso meccanismo di
21
biosintesi e bioaccumulo legato oltre che alle caratteristiche prettamente
genetiche anche alle diverse condizioni metaboliche-ormonali di ogni singolo
organo della pianta al susseguirsi delle varie fasi fenologiche dell’intero ciclo
biologico della pianta stessa.
Le brattee che circondano il pistillo mostrano il più elevato contenuto in
cannabinoidi (Honma et al., 1971-a e 1971-b), seguite dall’infiorescenza in se
stessa, cioè il pistillo (Fetterman et al., 1971), il quale non contiene tricomi
ghiandolari in superficie e la cui presenza in cannabinoidi potrebbe essere
associata a non conosciuti e possibili altri siti di biosintesi o alla semplice
aderenza alla resina della superfice interna della brattea che lo contiene, la quale
è intimamente associata ad esso; gli stessi autori, e tanti altri, associano tale
congettura al fatto che gli acheni non contengono rilevanti quantitativi in
cannabinoidi, visto che nell’olio di semi di canapa sono rilevabili soltanto
minime tracce di tali composti.
Anche le strutture riproduttive delle piante maschili contengono quantitativi in
cannabinoidi (Fetterman et al., 1971; Ohlsson et al., 1971), ma a differenza delle
piante femminili, avendo un ciclo molto più corto di quest’ultime dato che dopo
aver rilasciato il polline bloccano il metabolismo e si disseccano, non riescono a
bioaccumularne elevate concentrazioni nei tricomi ghiandolari, che oltretutto
sono in quantità numeriche ben inferiori rispetto ai soggetti femminili. I tricomi
ghiandolari peduncolati sono stati osservati sulla superficie dei tepali nei soggetti
maschili ed, in specifico, le maggiori quantità sono rilevabili sui filamenti degli
stami (Dayanandan e Kaufman, 1976), mentre file di tricomi ghiandolari sessili
molto lunghi sono stati trovati in solchi sulla stessa antera (Fairbairn, 1972); ciò
conferisce al polline un considerevole contenuto in cannabinoidi (Paris et al.,
1975).
Briosi e Tognini (1894) sono stati i primi autori a studiare i tricomi ghiandolari
nella loro composizione cellulare ed a caratterizzarli graficamente (Fig. 1.6).
I tricomi ghiandolari sessili sono abbondanti sullo stelo, foglie ed anche sulle
brattee; i tricomi ghiandolari peduncolati predominano sulla superficie delle
brattee del perigonio, ma sono anche rilevabili nelle altre parti dell’
infiorescenza.
La co-presenza nelle brattee dei due tricomi ghiandolari, ed il fatto che i tricomi
ghiandolari peduncolati variano anche le dimensioni della cavità secretoria al
variare delle caratteristiche che possono favorirne lo sviluppo, ha fatto pensare
(Ledbetter e Krikorian, 1975) ad una loro possibile evoluzione dai tricomi
ghiandolari sessili; infatti la differenza microscopica esistente tra i due tipi di
tricomi ghiandolari potrebbe essere legata semplicemente allo svilupparsi con
l’avanzare della maturazione di una netta zona di abscissione tra le cellule del
peduncolo collegate alla base della cellula del disco e le stesse cellule del disco;
22
ciò comporta una netta abscissione cellulare, con il raggiungere della maturità
riproduttiva, tra il peduncolo e le cellule del disco intimamente connesse con la
cavità secretoria. Osservazioni graduali effettuate su piante nelle varie fasi della
fioritura rivelano la contemporanea presenza di entrambe, e quindi, se tale ipotesi
evoluzionistica è attendibile, ciò sarebbe spiegabile da una eventuale incapacità
di una parte delle sessili ad evolversi in peduncolate.
Fig. 1.6: Tricoma ghiandolare (da Briosi e Tognini, 1894)
Il contenuto in cannabinoidi nelle piante varia al variare della posizione in cui
vengono effettuati i prelievi, decrescendo dalle foglie più giovani alle più
vecchie, (Bòcsa et al., 1997; Turner et al., 1980) ed al variare della stagione dello
sviluppo, come riportato da Turner et al. (1985); infatti essi, dopo aver allevato i
cloni di tre diverse popolazioni per due anni in un’unica comune condizione di
sviluppo, notarono delle fluttuazioni stagionali nella biosintesi e bioaccumulo dei
cannabinoidi, e che tali fluttuazioni tra le tre popolazioni sono casuali piuttosto
che cicliche, ed affermarono che tali variazioni sono probabilmente legate ai
differenti metabolismi di ogni distinta pianta in risposta alle condizioni di
sviluppo; quindi, probabilmente, uno stesso stimolo in certe popolazioni causa un
aumento della biosintesi e del bioaccumulo mentre in altre può causarne una
diminuizione.
23
Oltre alle variazioni tra i cloni delle tre distinte popolazioni, dovute
prevalentemente a fattori genetici, vennero anche notate variazioni tra i cloni
della stessa popolazione allevati in analoghe condizioni ambientali; venne notato
che, sebbene le concentrazioni % possono variare anche significativamente,
viene mantenuto sempre lo stesso profilo chemiotipico, cioè un rapporto costante
tra i cannabinoidi maggiori, e le stesse caratteristiche morfologiche distintive
della popolazione.
Come già detto, i contenuti in cannabinoidi variano anche man mano che procede
la fase fenologica della fioritura; pertanto risulta di fondamentale importanza
individuare la fase fenologica che consente di ottenere le maggiori produzioni.
Ciò è ottenibile solo grazie ad una accurata osservazione al microscopio dello
sviluppo raggiunto dalla maggior parte dei tricomi ghiandolari; essi, visti al
microscopio, possono essere classificati per il loro contenuto a seconda del
colore raggiunto: le ghiandole “mature” appaiono traslucide, mentre le ghiandole
“vecchie” appaiono gialle e le ghiandole “senescenti” marroni (Mahlberg e Kim,
2003).
Le ghiandole mature sono quelle che presentano il più alto livello in
cannabinoidi, mentre le ghiandole senescenti ne possiedono i livelli più bassi.
Il processo “di perdita” che avviene in tali ghiandole non è tuttora perfettamente
conosciuto, sebbene si presume che i cannabinoidi si volatilizzano insieme ai
terpeni (i quali si volatilizzano anche a temperatura ambiente, avendo
temperature di ebollizione molto più basse dei cannabinoidi) disperdendosi
nell’atmosfera o che subiscano specifici processi di degradazione; altri studi
occorrono per una maggiore conoscenza di tale processo ed, in generale, per una
migliore conoscenza dei processi di biosintesi e di bioaccumulo.
Mahlberg e Kim (2003) riuscirono con delle micropipette a prelevare il contenuto
di resina della cavità secretoria senza danneggiare le cellule del disco, le
successive analisi fornirono risultati molto variabili, in quanto in alcuni casi il
contenuto dei singoli tricomi prelevati da brattee più grandi era maggiore di
quello dei singoli tricomi prelevati da brattee più piccole, altre volte invece si
verificava esattamente l’opposto; essi arrivarono alla conclusione che le
componenti cellulari che sintetizzano i cannabinoidi non sintetizzano con un
rapporto costante durante l’ intero sviluppo dell’ organo, ipotizzando quindi che
l’attività biosintetica segue distinte fasi di attività.
Mahlberg, dopo circa un trentennio di studi e pubblicazioni sulla morfologia e
fisiologia dei peli sessili e dei tricomi ghiandolari in collaborazione con altri
fisiologi, riuscì a sbrogliare “buona parte” del bandolo della matassa riguardo
alla localizzazione cellulare nei tricomi ghiandolari dei siti di biosintesi e di
bioaccumulo dei cannabinoidi.
24
La ghiandola “propriamente detta”, dove avviene la biosintesi dei cannabinoidi,
consiste nelle cellule del disco ed in una porzione non cellulare della parete
interna della cavità secretoria.
I cannabinoidi si bioaccumulano nella cavità secretoria della ghiandola.
Mahlberg e Kim (2003) studiando le varie fasi della morfogenesi dei tricomi,
rilevarono la presenza di cannabinoidi nelle pareti, nella matrice fibrillare e nel
contenuto circostante le vescicole, ma non all’interno delle vescicole; sono stati
anche rilevati piccoli quantitativi nelle cellule del disco. Da tali studi è emerso
inoltre che nello strato delle cellule del disco vi è la presenza di una cellula
“tipica” contenente un grosso nucleo, plastidi, mitocondri, reticolo
endoplasmatico ed abbondanti ribosomi così come vacuoli; nelle altre cellule del
disco, di minori dimensioni, sono presenti unicamente plastidi, i quali, come poi
vedremo, sono stati individuati come la principale fonte di secrezione nella
cavità. Essi si dividono ripetutamente, diventando molto numerosi nelle cellule
più piccole dello strato delle cellule del disco e formano una inusuale
componente centrale, chiamata “corpo reticolato” e derivato dai tilacoidi; questo
corpo consiste in un numero di tilacoidi fusi con un ordinamento tubulare di aree
luminose e scure caratterizzate da una disposizione esagonale.
Al corpo reticolato è stata associata l’attività secretoria dato che grosse quantità
di secrezione sono state trovate sulla superficie dei plastidi con una evidente
continuità con le aree luminose del corpo reticolato; questa continuità fisica ha
fatto supporre l’ influenza di tale corpo sulla sintesi di tali secrezioni.
La secrezione è oleosa nella composizione e forma masse sferiche nel mezzo
acquoso del liquido cellulare; tali secrezioni sono interpretate come secrezioni
terpeniche, ed, oltretutto, anche nelle altre piante è riportato che i plastidi
producono terpeni.
L’associazione dei cannabinoidi a determinati siti suggerisce che essi devono
trovarsi proprio locati in tali siti piuttosto che liberi nella cavità secretoria.
I geni che regolano la produzione in cannabinoidi sono chiaramente presenti in
tutte le cellule della pianta, ma i tessuti producono rispetto alle ghiandole livelli
molto bassi di cannabinoidi.
Gli studi effettuati da Mahlberg hanno notevolmente contribuito a far luce sui siti
di biosintesi e di bioaccumulo in cannabinoidi, sebbene ancora non si hanno
notizie certe sul loro esatto sito di formazione.
Come poi vedremo nella loro biosintesi, i cannabinoidi risultano dei composti
dimerizzati, consistenti di una unità terpenica e di una unità fenolica.
L’abbondante attività di secrezione dei plastidi della cellula del disco e la
conoscenza che questi organelli anche in altre specie vegetali sintetizzano
terpeni, ci suggerisce che essi contribuiscono alla sintesi dell’unità terpenica.
25
Gli autori, in specifico, ipotizzano che i lipoplasti, che sono plastidi specializzati,
siano alla base della biosintesi dell’unità terpenica.
La rilevazione in precedenti studi di abbondanti quantità in fenoli nell’intera
ghiandola e la conoscenza che nelle altre specie vegetali i fenoli si accumulano
nei vacuoli, fa pensare ad un possibile loro accumulo proprio in tali organelli. I
fenoli sono trasportati nelle piante come glucosidi e, quando incominciano a
localizzarsi nel vacuolo della cellula, lì si accumulano dopo essersi dissociati
dalla parte glucosidica, la quale ritorna nel citoplasma cellulare.
Gli autori ipotizzarono dunque che i terpeni ed i fenoli, quando rilasciati dalle
loro rispettive fonti, si accumulano nella membrana plasmatica e nell’interfase
della parete cellulare, dove gli enzimi specifici dimerizzano questi composti in
specifici cannabinoidi (Fig. 1.7).
Fig. 1.7: Siti di biosintesi e bioaccumulo dei cannabinoidi (da Mahlberg e Kim,
2003)
La riduzione o l’eliminazione assoluta dei tricomi ghiandolari attraverso processi
di mutazione ridurrebbe notevolmente la quantità di cannabinoidi nelle piante,
così come una selezione mirata all’ abbassamento del contenuto in cannabinoidi
totali, selezionando le piante i cui geni recessivi siano associati ad una non
produzione, o ad una produzione molto scarsa (< 0,1 - 0,2 % del peso secco) di
tali sostanze; infatti il percorso di biosintesi dei cannabinoidi è controllato
geneticamente e le ghiandole, evolvendosi, si sono specializzate a produrre grossi
26
quantitativi in cannabinoidi, e, nonostante non si conosca ancora l’esatto ruolo
dei cannabinoidi nella canapa, si ritiene che, come avviene in buona parte delle
specie vegetali, esso dovrebbe essere legato alla protezione o ad un altro ruolo
funzionale da cui la pianta tragga un beneficio. La più o meno marcata assenza
può o non può alterare tale ruolo funzionale; infatti la presenza, a livelli molto
bassi, nei tessuti potrebbe già essere sufficiente per assolvere a tale ruolo
funzionale e consentire una coltivazione di pieno campo delle piante selezionate
senza particolari perdite quantitative di prodotto; la riduzione o eliminazione dei
tricomi ghiandolari, per mutazione o per selezione, potrebbe quindi essere molto
utile nel miglioramento genetico per costituire nuove varietà di canapa
industriale che non mostrino rilevanti quantità in cannabinoidi; in questo modo si
andrebbe incontro alla Normativa UE per la coltivazione della canapa, che tende
ad abbassare sempre più i livelli del contenuto % in Δ9-THC per far sì che una
varietà possa usufruire degli aiuti stanziati ad ettaro per tale coltura, e, così
facendo, verrebbe facilitata e rilanciata la coltivazione di questa pianta
prestigiosa e duttile, ed, oltretutto, intimamente legata alla storia agricola italiana
degli inizi ‘900.
27
1.3. I CANNABINOIDI
1.3.1. - Biosintesi
I cannabinoidi sono stati definiti da Mechoulam e Gaoni (1965) come un gruppo
di composti tipici a 21 atomi di C comprendenti anche i loro acidi carbossilici,
analoghi e prodotti di trasformazione.
Chimicamente i cannabinoidi sono terpenoidi, cioè molecole non polari.
Essi risultano scarsamente solubili in acqua mentre sono altamente solubili nei
grassi.
Nel materiale vegetale fresco i cannabinoidi sono presenti più abbondantemente
sotto forma del relativo acido carbossilico; l'essiccamento, l'invecchiamento e il
riscaldamento li convertono in forme neutre. Numerosi sono i cannabinoidi che si
possono formare come prodotti di trasformazione a partire dai cannabinoidi
principali.
Il massimo responsabile dell’attività psicotropa della canapa è il Δ9tetraidrocannabinolo (Δ9-THC) ed è da sempre stato il più studiato sotto i diversi
aspetti farmacologici e terapeutici. Esso venne identificato ed isolato nel 1964 da
Gaoni e Mechoulam all’università ebrea di Gerusalemme. Il Δ9tetraidrocannabinolo è conosciuto anche come Δ1-tetraidrocannabinolo a
seconda della nomenclatura. In particolare se viene considerato un monoterpene
arilsostituito la molecola prende il nome di Δ1-tetraidrocannabinolo, mentre se si
considera un dibenzopirano prende il nome di Δ9-tetraidrocannabinolo.
Comunemente viene chiamato Δ9-tetraidrocannabinolo. La nomenclatura IUPAC
lo
indica
come:
6a,7,8,10a-tetraidro-6,6,9-trimetil-3-pentenil-6(H)dibenzo[b,d]piran-1-olo.
Con lo sviluppo della tecnologia chimica applicata alla cromatografia, numerosi
nuovi cannabinoidi sono stati separati ed identificati. Prove sperimentali su
scimmie Rhesus compiute da Edery (1970) indicano che anche altri cannabinoidi
quali, Cannabinolo (CBN) e Δ8- tetraidrocannabinolo (Δ8-THC), hanno attività
psicotropa ma in misura nettamente minore rispetto al Δ9-THC; questi due
cannabinoidi si trovano in natura in bassissime quantità negli estratti vegetali ed
il più delle volte appaiono come prodotti di trasformazione del Δ9-THC; in
conclusione si può considerare che l’effetto psicotropo della canapa sia dovuto
esclusivamente al Δ9-THC.
Oggi il numero totale di cannabinoidi naturali conosciuti è di circa 70; molti di
loro sono variazioni strutturali dei cannabinoidi maggiori; è un errore dire che i
cannabinoidi sono sostanze psicotrope, perché, ad eccezione di quelli appena
citati, i rimanenti non mostrano alcuna attività psicotropa.
La figura 1.8 rappresenta uno schema della probabile biogenesi dei cannabinoidi
all’interno della pianta (Mechoulam e Ben-Shabat, 1999) ed i loro prodotti di
28
trasformazione in determinate condizioni. Nel 1998 è stato identificato l’enzima
che condensa il Geranil pirofosfato (GPP) con l’acido Olivetolico per dare il
Cannabigerolo (CBG), che è il precursore di tutti i cannabinoidi; detto enzima
venne denominato Geranilpirofosfatoolivetolatogeraniltransferasi (GOT)
(Fellermeier e Zenk, 1998); esso agisce in maniera meno specifica catalizzando
la reazione dell’Acido olivetolico con il nerilpirofosfato (NPP) come co-substrato
per dare l’Acido Cannabinerolico (Fig. 1.9).
Fig. 1.8: Biosintesi dei principali cannabinoidi naturali (da Mechoulam e BenShabat, 1999)
29
Fig. 1.9: Biosintesi del Δ9-THC (da Fellermeier e Zenk, 1998)
A questo punto è chiaro che i principali cannabinoidi naturali si formano in
funzione dell’enzima che agisce sul Cannabigerolo (CBG) una volta che sia
avvenuta la biosintesi di quest’ultimo. E’ stato purificato un enzima che
sovrintende alla ossidazione-ciclizzazione del CBG per dare il Δ9-THC (Taura et
al., 1995); si è visto che però questo enzima non porta ad una formazione
intermedia del CBD, vanificando l’ipotesi che hanno supportato, e che tuttora
supportano, numerosi autori: cioè che il Δ9-THC derivasse dal CBD.
Si desume che la produzione quantitativa in cannabinoidi totali sia direttamente
collegata al livello di attività enzimatica svolta dall’enzima GOT, la cui azione
porta alla produzione del CBG.
Il grado di attività dei singoli enzimi che agiscono sul CBG influenzerebbe anche
le produzioni quantitative dei singoli cannabinoidi.
L’esistenza di più di un enzima con azione sul CBG spiega l’esistenza delle varie
popolazioni di canapa, le quali, avendo un patrimonio genetico specifico, come
conseguenza codificano in maniera specifica ed in diversa misura gli enzimi
specifici per la conversione del CBG nei principali cannabinoidi.
Il meccanismo completo della biosintesi dei cannabinoidi rimane ancora da
chiarire e da perfezionare nei suoi diversi aspetti.
30
1.3.2. - I vari tipi di Cannabinoidi
I cannabinoidi vengono divisi in tre distinte forme in funzione della loro fonte di
produzione:
1- cannabinoidi naturali (prodotti dalla canapa),
2- cannabinoidi sintetici (prodotti dall’ ingegneria chimica),
3- endocannabinoidi (prodotti dall’ essere umano).
1.3.2.1. - Cannabinoidi naturali
Tipi di cannabinoidi
I numerosi tipi di cannabinoidi prodotti dalla canapa sono spesso derivati da un
numero più ristretto di cannabinoidi, ai quali si guarda come “tipo” principale di
cannabinoide. In un lavoro del 1980, Turner et al. divisero i cannabinoidi
conosciuti secondo lo schema seguente (Tab. 1.2):
Tab. 1.2: Cannabinoidi naturali
Tipo di cannabinoide
Cannabigerolo (CBG)
Cannabicromene (CBC)
Cannabidiolo (CBD)
Δ9-Tetraidrocannabinolo (Δ9-THC)
Δ8-Tetraidrocannabinolo (Δ8-THC)
Cannabiciclolo (CBL)
Cannabielsoino (CBE)
Cannabinolo (CBN)
Cannabinodiolo (CBND)
Cannabitriolo (CBT)
Tipi vari
Altri cannabinoidi
Conosciuti
6
4
7
9
2
3
3
6
2
6
9
4
I cannabinoidi che sono presenti in quantità % consistenti, ed in differenti
rapporti nei vari materiali vegetali a seconda delle popolazioni, sono: Δ9-THC,
CBD, CBG (ed i loro omologhi propilici Δ9-THCV, CBDV, CBGV) e CBC (Fig.
1.10); in alcune popolazioni è possibile rilevare discrete quantità di CBN e di
Δ8-THC; il CBN rappresenta il maggiore prodotto di trasformazione del Δ9-THC
e di esso ne vengono rilevate cospicue quantità nei prodotti illeciti derivati e
lavorati a caldo della canapa, cioè nell’hashish.
31
Fig. 1.10: Formule di struttura dei principali cannabinoidi
Determinazione del contenuto in cannabinoidi
Numerose sono le metodiche cromatografiche che nei diversi anni sono state
studiate, modificate ed applicate per evidenziare il contenuto dei cannabinoidi in
campioni di canapa (Grassi e Ranalli, 1999).
La separazione dei cannabinoidi naturali con la cromatografia su strato sottile
(TLC) è alquanto complessa a causa delle strette somiglianze strutturali fra i
diversi cannabinoidi. Solo con la TLC bidimensionale si sono raggiunti buoni
risultati.
Uno dei metodi più utilizzati per uno studio sia qualitativo che quantitativo dei
cannabinoidi è la gas-cromatografia. Le migliori separazioni dei cannabinoidi
neutri sono state ottenute in seguito a derivatizzazioni dei cannabinoidi neutri con
formazione dei rispettivi trimetilsilil derivati (TMS); si ha un miglioramento
nella forma dei picchi e una riduzione della loro codatura con conseguente
aumento della loro sensibilità (Rustichelli et al., 1996).
L’accoppiamento on-line della gas-cromatografia (GC) alla spettrometria di
massa (MS) ha trovato una vasta applicazione nella identificazione dei
cannabinoidi naturali. Gli spettri di massa dei maggiori cannabinoidi, ed in
32
particolare quelli dei loro trimetilsilil derivati sono molto caratteristici e pertanto
la GC-MS è diventato un metodo selettivo e sensibile per la determinazione dei
cannabinoidi.
Lo sviluppo della cromatografia su colonna in campo analitico è stato reso
possibile dall’avvento della cromatografia liquida ad alta efficienza (HPLC).
L’HPLC è una tecnica adatta alla quantificazione dei cannabinoidi neutri poiché,
a differenza della GC, consente di separare separatamente i cannabinoidi acidi e
neutri. Con l’analisi GC, la somma dei cannabinoidi neutri e dei cannabinoidi
acidi, può essere ottenuta in seguito alla decarbossilazione termica dei
cannabinoidi acidi nei cannabinoidi neutri appropriati (Δ9-THC-COOH diventa
Δ9-THC, CBD-COOH diventa CBD, e via dicendo) a causa dell’elevata
temperatura dell’iniettore (Lercker et al., 1992).
Gli estratti ottenuti da materiali vegetali contengono numerosi componenti
matrice con differenti polarità oltre ai differenti componenti target dell’ analisi, il
che da una parte può ostacolare la separazione desiderata e dall’ altra alcuni
componenti possono legarsi irreversibilmente al supporto della colonna,
compromettendone la sua durata e modificando le sue performance durante il
percorso analitico.
L’n-esano è un solvente relativamente selettivo per l’estrazione di cannabinoidi
neutri da materiale vegetale poiché discioglie bene i principali cannabinoidi
neutri ma non discioglie i componenti matrice polari che possono fortemente
danneggiare le fasi stazionarie polari cromatografiche (Veress, 2004).
Tutte le operazioni effettuate durante la preparazione del campione all’analisi
cromatografica possono causare errori nei risultati quantitativi.
Un metodo immunologico-colorimetrico è stato proposto come metodo
alternativo alle classiche tecniche analitiche per verificare “qualitativamente”
(presenza o meno di Δ9-THC) un gran numero di campioni in un breve intervallo
di tempo (Grassi, 1999); tale metodo si rivela molto utile nella ricerca o
applicabile per i controlli da effettuare nei campi di canapa industriale, così da
poter analizzare un maggior numero di piante per campo e con un notevole
risparmio economico e di tempo rispetto ai metodi analitici tradizionali.
1.3.2.2. - Cannabinoidi sintetici
Vedi in “Produttrice di farmaci” Tabella 1.3.
1.3.2.3. - Endocannabinoidi
Gli studi sul possibile meccanismo d'azione dei derivati della canapa e, di
conseguenza, sulle potenziali applicazioni terapeutiche di questi ultimi, hanno
subito un'improvvisa accelerazione con la scoperta di specifici recettori per il Δ9THC nonchè di ligandi endogeni per tali proteine.
33
Sono stati caratterizzati finora due tipi di recettori per il Δ9-THC e i suoi derivati
sintetici: il recettore CB1, prevalentemente espresso nel sistema nervoso ed in
alcuni tessuti periferici, scoperto nel 1990 (Matsuda et al., 1990), e il recettore
CB2, identificato finora solo in cellule del sistema immunitario dei mammiferi,
individuato per la prima volta solo nel 1993 (Munro et al., 1993).
Alla scoperta del recettore CB1 ha fatto immediato seguito, nel 1992,
l'isolamento, dal cervello di maiale, del primo metabolita endogeno in grado di
legarsi selettivamente a tale proteina. Si trattava dell'amide tra l'acido
arachidonico e l'etanolammina, due componenti ubiquitari delle membrane
cellulari animali, che venne chiamata “anandamide” (Mechoulam et al., 1992).
Successivamente furono isolati, ancora dal cervello di maiale, altri due analoghi
strutturali dell'anandamide (Mechoulam et al., 1993), mentre un'altro tipo di
molecola, appartenente alla classe degli intermedi metabolici noti come
“monoacilgliceroli”, fu identificata in tessuti periferici e proposta come ligando
del recettore CB2: il 2-arachidonoilglicerolo (2-AG) (Fig. 1.11). In seguito venne
scoperto che, mentre l'anandamide e i suoi analoghi attivano preferenzialmente il
recettore CB1 (Mechoulam et al., 1995), il 2-AG, che è presente anche nel
cervello dei mammiferi (Sugiura et al., 1995), può attivare indifferentemente
entrambi i tipi di recettori per il Δ9-THC (Mechoulam et al., 1995).
Fig.1.11: Principali endocannabinoidi
L'anandamide (arachidonil-etanolamide) è una sostanza prodotta dalle nostre
cellule cerebrali che, per quanto chimicamente diversa dal Δ9-THC, interagisce,
nel nostro organismo, con gli stessi recettori di quest'ultimo. La sua scoperta,
avvenuta in epoca relativamente recente, ha aperto la strada alla comprensione
dei meccanismi fisiologici dei derivati della canapa nonchè dei loro potenziali
utilizzi terapeutici. L'anandamide, il cannabinoide fisiologico presente nel nostro
cervello, funziona come neurotrasmettitore. I neurotrasmettitori sono molecolemessaggero che trasportano i segnali fra i neuroni.
La scoperta di recettori per il Δ9-THC e di molecole endogene in grado di
attivare tali proteine, simulando così in gran parte i tipici effetti psicotropici (e
non) della canapa, dimostrava l'esistenza di un sistema cannabinoide endogeno il
cui ruolo fisiologico è ancora materia di dibattito.
34
Benchè l'attività farmacologica in vivo ed in vitro degli endocannabinoidi, ed in
particolare dell'anandamide, sia stata oggetto negli ultimi anni di numerosissimi
studi solo in pochi casi si è potuto mettere in relazione la sintesi di tali composti
nei tessuti con l'intervento di particolari situazioni fisiopatologiche.
Numerosa è la bibliografia già esistente e gli studi sono in piena evoluzione
grazie anche ad un attivissimo gruppo di ricerca italiano.
Indubbiamente, ancora numerosi sforzi saranno necessari per individuare il ruolo
fisiopatologico degli endocannabinoidi. Dal successo di tali sforzi dipenderà
anche il possibile sviluppo di nuovi farmaci utili nel trattamento di alcuni disturbi
del sistema nervoso, immunitario e cardiovascolare per i quali esistono ancora
rimedi poco efficaci.
35
1.4. ECOLOGIA CHIMICA DEI CANNABINOIDI E DEI TERPENI
Le piante producono una vasta e diversificata gamma di composti organici,
definiti prodotti secondari, che non sembrano avere una funzione diretta sulla
crescita e sullo sviluppo, ma che bensì hanno come funzione principale la difesa
della pianta da predatori e patogeni. (Taiz e Zeiger, 1991).
La canapa produce un gran numero di composti (quasi 500 attualmente
individuati), dei quali numerosi sono tipicamente produzioni del metabolismo
secondario; tra quelli che verranno trattati in specifico, più di 60 appartengono
alla famiglia dei cannabinoidi, unicamente prodotti dalla canapa, ed un centinaio
sono i terpeni che costituiscono nel loro insieme l’odore o olio essenziale di tale
pianta.
Oltre a questi due gruppi di composti sono stati individuati alcani, composti
azotati, flavonoidi, varie miscele di composti, amminoacidi e proteine, glicoproteine, enzimi, zuccheri e composti relativi, idrocarboni, alcoli, chetoni, acidi
semplici e acidi grassi, esteri e lattoni, steroidi, fenoli, vitamine e pigmenti
(Turner et al., 1980).
La produzione associata di cannabinoidi e terpeni nella canapa dipende sia dalle
caratteristiche genetiche che dalle influenze nello sviluppo (Pate, 1994).
La loro biosintesi, come già detto, avviene in ghiandole specializzate situate sulla
superficie di tutte le strutture aeree della pianta; tali ghiandole variano in forma,
densità numerica ed attività secretoria a seconda del sito di ubicazione e della
fase fenologica raggiunta.
Cannabinoidi e terpeni servono apparentemente come meccanismi di difesa
adoperati dalla pianta contro le varie avversità biotiche ed abiotiche, agendo con
ruolo antibiotico, attenuando il disseccamento e la predazione da parte di animali
erbivori ed insetti, e proteggendo la pianta dagli eccessi delle radiazioni UV-B, le
quali sono presenti, nello spettro luminoso della radiazione solare, in differenti
quantità percentuali a seconda dell’ areale in cui la specie viene coltivata e si è
evoluta; quest’ ultimo aspetto spiega come negli ambienti tropicali, caratterizzati
da una radiazione solare particolarmente ricca in UV-B, ed in combinazione al
fatto che il CBD è una molecola particolarmente instabile agli UV-B, può aver
influenzato l’evoluzione del genere Cannabis, che ha potuto percorrere una via
biogenetica alternativa, data dalla diretta trasformazione enzimatica del CBG in
Δ9-THC nelle popolazioni tipiche di queste zone, piuttosto che il maggiore
bioaccumulo in CBD che, distintamente, si verifica nelle popolazioni tipiche
degli ambienti temperati, caratterizzati dai più bassi livelli in UV-B. Come già
detto, a tale naturale evoluzione della specie, va aggiunta anche una nonindifferente azione esercitata dall’opera di selezione dell’uomo, che ha coltivato
tale pianta per differenti finalità.
36
Inizialmente si pensava che i cannabinoidi fossero presenti negli organi vegetali
come composti fenolici, ma alcune ricerche (Fetterman et al., 1971; Masoud e
Doorebons, 1973; Small e Beckstead, 1973; Turner et al., 1973) hanno indicato
la loro esistenza negli organi vegetali predominantemente sotto forma di acidi
carbossilici, i quali si decarbossilano prontamente con il tempo (Masoud e
Doorebons, 1973; Turner et al., 1973), con il riscaldamento (De Zeeuw et al.,
1972; Kimura e Okamoto, 1970) o in condizioni alcaline (Grlic e Andrec, 1961;
Masoud e Doorebons, 1973).
Sebbene la produzione sia quantitativa che qualitativa di cannabinoidi è legata a
fattori genetici, una importante influenza va attribuita ai fattori ecologici di
sviluppo (Bouquet, 1950; Fairbairn e Liebmann, 1974; Valle et al., 1978), e, in
particolare, si ritiene che le condizioni “di serra” sono da ritenere di grande
importanza nel potenziare la produzione per tale finalità.
Piante sotto stress incrementano i loro contenuti in cannabinoidi (Haney e
Kutscheid, 1973; Latta e Eaton, 1975), sebbene lo stress causi il più delle volte
una marcata caduta delle foglie più vecchie, che sono caratterizzate dai livelli più
bassi di cannabinoidi (Small et al., 1975) e fioriture meno abbondanti.
L’incremento risultante nella biosintesi, e nel successivo bioaccumulo, dei
cannabinoidi e dei terpeni contenuti nella resina, come conseguenza del
sussistere di alcuni stress, appare come un meccanismo di difesa in grado di
conferire benefici adattativi a fattori limitanti.
Numerosi sono i fattori che possono determinare “stress” nello sviluppo delle
specie vegetali; andiamo ad analizzare i maggiori tra questi, considerandoli
singolarmente:
Disponibilità idrica
Il Δ9-THC è un olio viscoso idrofobo, di bassa volatilità e che resiste alla
cristallizzazione (Mechoulam e Gaoni, 1971). La resina prodotta dalle piante di
canapa non è altro che un miscuglio dei vari cannabinoidi e terpeni; essa può
essere considerata di funzione analoga al rivestimento ceroso dei cactus e delle
altre piante succulente, fungendo da barriera protettiva alle perdite traspirative in
condizioni siccitose.
Bouquet (1950) ha riportato che l’ammontare di cannabinoidi nell’hashish
prodotto nelle montagne occidentali del Libano è molto meno abbondante che
quello prodotto nelle montagne orientali a causa dei venti umidi che investono
frequentemente le prime. Esperienze di tipo scientifico hanno rafforzato i più
datati riferimenti empirici a tal riguardo. Sharma (1975) ha riportato che la
densità di tricomi ghiandolari è maggiore sulle foglie di piante accresciutesi in
ambiente secco. Paris et al. (1975) hanno rilevato un marcato aumento del
contenuto in cannabinoidi nel polline di piante maschili con il diminuire
37
dell’umidità ambientale. Murari et al. (1983) coltivando diverse varietà da fibra
in tre differenti zone climatiche d’Italia, trovarono valori più alti in Δ9-THC
nelle piante allevate nelle zone più asciutte (“continentali”) rispetto a quelle
coltivate nelle zone più umide (“marittime”). Hakim et al. (1986) riscontrarono
che una varietà da fibra (ricca in CBD e quasi assente in Δ9-THC), coltivata in
Sudan, in condizioni molto più siccitose, può produrre quantità
significativamente maggiori in Δ9-THC e minori in CBD. Gli stessi autorei
rilevarono che questo trend chemiotipico vinene accentuato nella generazione
successiva di piante. Tali effetti non appaiano solamente imputabili solamente
alle differenti condizioni di umidità relativa, ma vanno anche collegati alla
differente latitudine di coltivazione, che, come precedentemente visto, può
alterare la biosintesi dei singoli cannabinoidi, al variare della quantità di UV-B
intercettata dalla pianta.
Haney e Kutscheid (1973) dimostrarono una significativa correlazione del
contenuto in cannabinoidi delle piante con i fattori influenzanti la disponibilità di
umidità nel suolo: contenuto in sabbia ed argilla, pendenza dell’appezzamento
coltivato e competizione con le piante circostanti; in quest’ultimo caso tale
fattore adduce alle piante una formazione ridotta dell’apparato radicale rispetto
alla parte aerea, e ciò potrebbe aumentare sia la frequenza che la intensità degli
stress idrici.
Temperatura
La temperatura gioca un ruolo molto influente nel bioaccumulo dei cannabinoidi,
ma tale fattore deve sempre essere considerato associato all’umidità disponibile
nel suolo. Boucher et al. (1974) hanno riportato un incremento nel bioaccumulo
passando dai 23 °C ai 32 °C, nonostante alcune variabili come l’aumento delle
perdite d’acqua a causa della evaporazione e della traspirazione non sono state
prese in considerazione. Viceversa Bazzaz et al. (1975), usando 4 ecotipi, di
origini sia tropicali (Δ9-THC) che temperate (CBD), riportarono una
diminuizione nel bioaccumulo con l’aumentare delle temperature dai 22°C ai
32°C.
Studi successivi effettuati da Braut-Boucher (1980) su cloni di due differenti
razze del Sud Africa rivelarono un ben più complesso modello di biosintesi e di
bioaccumulo associato ad ogni razza ed a ogni specifica pianta clonata, oltre che
a differenti composizioni degli omologhi chimici prodotti.
Anche la temperatura ed il tempo di essiccazione prima di effettuare lo
stoccaggio o l’estrazione e la successiva analisi dei cannabinoidi influenzano
nettamente il profilo chemiotipico a causa della degradazione-trasformazione dei
cannabinoidi maggiori in altri cannabinoidi minori (Coffman e Genter, 1974).
38
Predazione da parte di erbivori ed insetti
Il metodo di apportare ferite alle piante è stato impiegato sin dall’antichità per
incrementare la produzione in resina nelle specie vegetali (Emboden, 1972).
Questo incremento dovrebbe essere legato ad una risposta della pianta al
disseccamento che si verifica attorno al punto in cui avviene l’interruzione dei
vasi vascolari.
In normali condizioni colturali, le ferite sono generalmente causate dagli attacchi
degli insetti, più che dagli erbivori. La canapa subisce attacchi economicamente
dannosi solo da pochi predatori ed è stata utilizzata sotto forma di polvere o di
estratto come insetticida o repellente. Il suo apparente meccanismo difensivo
consiste nel generare una protezione con i numerosissimi tricomi non
ghiandolari, l’emissione di sostanze terpeniche volatili e l’essudazione dei
viscosi cannabinoidi.
La quantità di terpeni sembra essere associata alla densità dei tricomi ghiandolari
e quindi alla produzione di cannabinoidi; buona parte di essi sono prodotti
maggiormente nelle infiorescenze che nelle foglie, oltre ad essere più abbondanti
quantitativamente nelle piante femminili rispetto a quelle maschili (Martin et al.,
1961).
Al momento non esistono numerosi studi specifici che riportano la tossicità o
repellenza dei singoli cannabinoidi negli insetti, ma incoraggianti risultati sono
stati ottenuti da Rothshild et al. (1977, 1980) rilevando che il Δ9-THC provoca la
morte delle larve di Arctia caja e che l’irrorazione di foglie di cavolo con Δ9THC produce un’azione repellente contro le larve di Pieris brassicae.
Altri studi, condotti da Sharma et al. (2000) per valutare l’attività larvicida
dell’olio essenziale estratto da canapa su diverse specie di zanzara hanno
dimostrato come tale olio essenziale induce la mortalità del 100 % delle larve di
Culex tritaeniorhynchus, Anopheles stephensi, Aedes ageypti e Culex
quinquefasciatus, quando viene impiegato rispettivamente a concentrazioni del
0,06, 0,1, 0,12 e 0,2 ml per litro di acqua, e che l’estratto acquoso è più tossico
dell’estratto etanolico.
I cannabinoidi servono anche come difesa meccanica della pianta; infatti un
insetto, attraversando la superficie fogliare o le brattee fiorali, provoca la rottura
dei tricomi ghiandolari, facendone fuoriuscire la resina rimanendone impregnato;
la presenza della resina ostacola anche il movimento degli insetti sulla pianta.
L’utilità di queste caratteristiche epidermiche contro la predazione è anche
deducibile dalla loro predominante presenza nella superficie della pagina
inferiore della foglia, la quale generalmente è la parte di pianta preferita dagli
insetti per l’alimentazione e la deambulazione. Sebbene tale strategia biologica
della canapa sembrerebbe legata apparentemente ad un particolare e sofisticato
sistema di difesa unico di tale specie, molte altre piante (Levin, 1973) ed
39
artropodi (Eisner, 1970) utilizzano meccanismi di difesa similari, e, molto
spesso, ciò avviene utilizzando anche gli stessi identici terpeni e simili strutture
ghiandolari.
Batteri e funghi
I cannabinoidi servono anche come protezione della pianta dai microrganismi.
I preparati di canapa sono stati utilizzati a lungo come medicina in numerose
malattie infettive (Kabelic et al., 1960; Mikuriya, 1969).
Tali proprietà antibiotiche sono state dimostrate sia per gli estratti generici di
canapa (Kabelic et al., 1960) che per i diversi singoli cannabinoidi (El Sohly et
al., 1982; Farkas e Andrassy, 1976; Van Klingerem e Ten Ham, 1976).
Il CBG è stato comparato da Mechoulam e Gaoni (1965), sia per la struttura che
per le proprietà antibatteriche, alla grifolina, un antibiotico prodotto dal
basidiomicete Grifolia conflens.
Fournier et al. (1978) indagando sull’attività batteriostatica dell’olio essenziale di
tre differenti popolazioni di canapa su cinque popolazioni di batteri sviluppati in
culture liquide hanno riscontrato una consistente attività antibatterica in
particolare sui batteri Gram +.
Alcuni dei patogeni fungini che attaccano la canapa sono: Alternaria alterata,
Ascochyta prasadii, Botryosphaeria marconii, Cercospora cannabina e
Cercospora cannabis, Fusarium oxisporum, Phoma sp. e Phomopsis ganjae.
McPartland (1984) ha dimostrato l’ effetto inibitorio del Δ9-THC e del CBD su
Phomopsis ganjae; invece De Meijer et al. (1992), analizzando un gran numero
di genotipi, non ha trovato alcuna correlazione tra il contenuto in cannabinoidi e
l’entità dell’attacco di Botrytis.
Radiazioni ultraviolette
Un altro stress a cui le piante sono soggette è la loro esposizione giornaliera alle
radiazioni ultraviolette (comprese tra 280-315 nm), fattore questo che ha
influenzato l’evoluzione delle specie e le strategie di difesa.
Uno studio preliminare molto importante a tal riguardo, condotto da Pate (1983),
ha dimostrato che, in aree caratterizzate da un’elevata esposizione a tali
radiazioni, il Δ9-THC, a seguito della specifica attività di assorbimento,
determina un beneficio evolutivo. In tali condizioni ambientali, infatti, si sono
evoluti biotipi con maggior contenuto di Δ9-THC, partendo dal precursore
biogenetico CBD, come risposta allo stimolo evolutivo delle radiazioni UV-B.
Lydon et al. (1987) hanno dimostrato che canapa cresciuta sotto esposizione a
UV-B produce maggiori quantità di Δ9-THC. Lydon e Teramura (1987) hanno
evidenziato l’instabilità del CBD all’esposizione agli UV-B, differentemente
dalla stabilità mostrata dal Δ9-THC e dal CBC.
40
Breinnesen (1984) ha riscontrato proprietà d’assorbimento degli UV-B simile tra
Δ9-THC e CBD e significativamente maggiore CBC. La maggiore assorbenza di
quest’ultimo rispetto al Δ9-THC, e la sua relativa stabilità rispetto al CBD, fanno
sì che tale composto possa essere considerato come la sostanza protettiva della
pianta, mentre la presenza di grossi quantitativi di Δ9-THC verrebbe
semplicemente spiegata come un progressivo bioaccumulo di tale composto alla
fine della via enzimatica di biogenesi dei cannabinoidi. L’ipotesi di una azione
protettiva del CBC implicherebbe lo svilupparsi di una alternativa via
biosintetica che porta dal CBG al Δ9-THC attraverso il CBD.
Gli studi di gas-cromatografia effettuati fino al 1973 (Turner e Hadley, 1973) non
consentivano una corretta separazione-distinzione tra CBD e CBC, poiché i due
composti hanno lo stesso tempo di detenzione e formano un unico picco quando
il ciclo di analisi non è sufficientemente lungo da consentire una adeguata
separazione; a ciò può essere ascritta la confusione tra i due cannabinoidi nella
letteratura precedente. I due autori riferiscono che in popolazioni allevate in
ambienti con clima tropicale difficilmente sono riscontrabili quantità
significative di CBD, mentre tali popolazioni abbondano di Δ9-THC; viceversa,
tale fenomeno non si verifica nelle popolazioni dei climi temperati; pertanto
ipotizzano una via biosintetica alternativa per tali sostanze, che non prevede il
passaggio da CBG a Δ9-THC attraverso il CBD. Yagen e Mechoulam (1969)
hanno sintetizzato il Δ9-THC direttamente dal CBC, utilizzando un metodo
similare a quello della ciclizzazione catalizzata da acidi già utilizzato nella sintesi
del Δ9-THC partendo dal CBD (Gaoni e Mechoulam, 1966).
In altri studi (Shoyama et al., 1975), effettuati utilizzando traccianti radioisotopi,
è stata riscontrata presenza di CBD e non di di CBG in varietà che producono
bassi livelli di Δ9-THC e di CBC in varietà che producono alti livelli di Δ9-THC.
Vogelman et al. (1988) hanno riportato che i valori dei cannabinoidi (CBC, CBG
e Δ9-THC) di differenti popolazioni messicane sono relazionabili al loro stadio
di sviluppo e all’esposizione solare; inoltre, nelle popolazioni utilizzate non è stat
riscontrata la presenza del CBD.
Nutrienti nel suolo
La disponibilità di nutrienti nel suolo influenza il bioaccumulo dei cannabinoidi.
Krejci (1970) ha riscontrato valori particolarmente elevati di Δ9-THC in
materiale vegetale prelevato da piante allevate in terreni molto poveri in
nutrienti.
Haney e Kutscheid (1973), in una ricerca finalizzata ad acquisire informazioni
sull’effetto di diffrenti disponibilità nel suolo di K, P, Ca e N, hanno evidenziato
una correlazione negativa tra disponibilità di K e contenuto in Δ9-THC, ed una
41
correlazione positiva tra disponibilità di N e Ca ed il contenuto in Δ9-THC.
Queste correlazioni sono rilevabili anche per i cannabinoidi minori.
Kaneshima et al. (1973) ha evidenziato il ruolo fondamentale svolto dal Fe nella
biosintesi del Δ9-THC.
Latta e Eaton (1975) hanno riscontrato a loro volta l’importanza del Mg e del Fe
nella produzione del Δ9-THC, suggerendo una loro possibile funzione come cofattori di enzimi coinvolti nella biosintesi dei cannabinoidi.
Risultati analoghi sono stati otteuti da Coffman e Genter (1975) i quali hanno
evidenziato una significativa correlazione negativa tra l’altezza delle piante a
maturazione ed il contenuti in Δ9-THC, suggerendo anche che gli stress abiotici
in genere, deprimendo l’accrescimento, influiscano indirettamente sul
bioaccumulo dei cannabinoidi. Dallo stesso studio; inoltre, è emerso che il Mg
estraibile dal suolo è negativamente correlato con le concentrazioni di N, Δ9THC e CBD nei tessuti fogliari ed anche che il P2O5 estraibile è negativamente
correlato con la concentrazione in CBD nei tessuti fogliari.
Tuttavia, gli stessi autori in un successivo lavoro (1977) hanno riportato, in
contraddizione con quanto precedentemente riportato, che la crescita delle piante,
la biomassa e la concentrazione di CBD e Δ9-THC sono positivamente correlati
con il P2O5 estraibile, e la concentrazione di quest’ultimo nei tessuti fogliari è
similarmente correlata con la quantità in sostanza secca e la concentrazione in
cannabinoidi; invece il K2O estraibile è negativamente correlato con la biomassa
e l’N estraibile è negativamente correlato con la crescita e la biomassa.
Il contenuto in cannabinoidi delle foglie diminuisce procedendo alle analisi di
campioni prelevati scalarmene dall’apice al colletto della pianta (Turner et al.,
1980).
Bòcsa et al. (1997), in una prova in pieno campo utilizzando varietà da fibra,
hanno evidenziato che all’aumentare delle somministrazioni in N (100, 450, 600
mg/kg di suolo), mantenendo costanti gli apporti in P e K, si ha un decremento
graduale del contenuto in Δ9-THC, e che le foglie più vecchie contengono un
minore quantitativo in cannabinoidi rispetto alle più giovani, non rilevando una
interazione significativa tra i due fattori; ciò ci suggerisce che un eccessiva
concimazione azotata può indurre una diminuizione della biosintesi dei
cannabinoidi totali.
Infine, Marshman et al. (1976) descrissero di aver ottenuto in Jamaica maggiori
concentrazioni percentuali di Δ9-THC in piante cresciute su suoli arrichiti
organicamente rispetto a piante cresciute in suoli fertilizzati artificialmente con
sostanze minerali.
42
1.5. POSSIBILI UTILIZZAZIONI
La canapa ha un campo vastissimo di possibili utilizzazioni (più di 50.000 usi) e
può essere considerata una risorsa naturale di grande versatilità (Ranalli e
Casarini, 1998).
Essa può essere usata per le seguenti finalità:
 Produttrice primaria di fibra naturale: la fibra era considerata nel passato la
migliore per ogni tipo di corda, dallo spago alle gomene per navi, e la più
usata per tessuti (erano di canapa le lenzuola, le tovaglie, le tende, i tappeti,
gran parte dei vestiti, le borse, i sacchi, i tubi flessibili, le tele per dipingere, i
teloni, le vele delle navi, ecc.). I tessuti hanno il vantaggio di una buona
proprietà assorbente dell’umidità, oltre a permettere una traspirazione
ottimale alla pelle e di creare meno frequenti fenomeni di allergia, paragonata
ad alcuni dei tessuti al momento in commercio. In Italia, che all’ inizio del
1900 era la seconda produttrice mondiale di canapa, la superficie investita a
canapa sta lentamente aumentando; infatti da qualche anno, e nell’annata
agraria in corso, la superficie destinata a tale coltura si è attestata intorno ai
1.000 ettari distribuiti tra le province di Ferrara (in maggioranza), Bologna e
Ravenna.
 Produttrice di solventi e olii combustibili: dall’estrazione dei semi si ottiene
l’olio; l’estrazione con la pressatura a freddo dà un olio particolarmente
adatto all’alimentazione, mentre un’estrazione con solventi e a caldo fornisce
un olio utilizzabile per diversi scopi nell’industria. Un tempo esso veniva
utilizzato per fare vernici, tinte, saponi, olio per cucinare, come lubrificante
per strumenti di precisione e per motori di aerei, per la combustione nei
motori a scoppio (la prima autovettura Ford che venne progettata aveva un
motore che doveva utilizzare per combustibile l’olio di canapa), per lacche,
smalti, vernici impermeabili, per l’illuminazione, ecc.
 Produttrice di cellulosa: la carta di canapa dura da 50 a 100 volte più a lungo
che la maggior parte delle preparazioni del papiro ed era molto più facile e
meno cara da realizzare. Essa venne utilizzata dall’antichità fino agli inizi del
‘900 per le carte delle navi, le mappe, la carta filigranata delle banconote, le
Bibbie ed in genere per l’archiviazione degli atti ufficiali. Questo tipo di carta
è ideale per conservare documenti, può durare per secoli ed anche millenni,
mentre la carta fatta con la polpa di legno ha una durata media di 25-80 anni;
oltretutto per l’ottenimento della polpa di canapa si possono usare ossigeno e
perossido di idrogeno, a differenza dei processi utilizzati per ottenere la polpa
di legno che richiedono, e producono, numerosi composti tossici. La canapa è
considerata un materiale pratico, economico, poco sensibile al fuoco, con
eccellenti qualità come isolante termico e acustico; può servire per costruire
43
pannelli idonei a sostituire muri a secco e compensato. E’ stata dimostrata la
superiore forza, flessibilità ed economia dei materiali da costruzione composti
di canapa, comparati a quelli di fibra di legno, anche nel caso di travi.
 Produttrice di energia: le coltivazioni di canapa producono notevoli quantità
di biomassa. Il termine biomassa indica ogni materiale prodotto
biologicamente. La biomassa può essere trasformata in metano, metanolo o
benzina con un costo notevolmente inferiore al petrolio, carbon fossile o
energia nucleare, soprattutto se alla voce costi di produzione vengono inclusi
i costi ambientali. La conversione da biomassa ad energia avviene attraverso
pirolisi (trasformazione in carbone in assenza di ossigeno) o attraverso
trasformazione biochimica in combustibili da effettuare in idonei bioreattori
per ottimizzare le condizioni di demolizione; in questo modo sarebbe
possibile produrre energia “pulita” e diminuire i consumi di combustibili
fossili.
 Miglioratrice della fertilità del terreno e della sostenibilità colturale: la canapa
è coltura nettamente miglioratrice e può essere seguita da una qualsiasi
coltura depauperante, soprattutto dal frumento. Le sue radici profonde
migliorano la struttura del terreno e portano verso gli orizzonti superficiali gli
elementi nutritivi, mentre la parte aerea, crescendo molto rapidamente in
altezza, soffoca le piante infestanti, ripulisce il terreno dalle malerbe e
impedisce l’ azione costipante della pioggia sul suolo (Fig. 1.12).
Fig. 1.12: Abilità competitiva della canapa nei confronti della flora infestante
44
Il reinserimento di tale coltura nel nostro territorio sarebbe di particolare
auspicio in un ottica di agricoltura sostenibile, dato lo scarso apporto nutritivo
di cui necessita (80-90 kg di N per ettaro) e la non esigenza o necessità di
effettuare trattamenti sia contro le malerbe che per il controllo di crittogame e
fitofagi, nonostante numerose sono le avversità segnalate da McPartland
(1996). Generalmente i fitofagi attaccano meno le piante di canapa da droga,
in quanto quest’ultime hanno, insieme a maggiori quantità in cannabinoidi,
anche maggiori quantità di sostanze fenoliche e terpeniche, con evidente
effetto repellente. Sarebbe opportuno approfondire le conoscenze a tale
riguardo, in modo da decifrare quali delle sostanze appartenenti agli oli
essenziali della pianta abbiano maggiore attività, in modo da considerare tale
carattere importante a fini di miglioramento genetico della varietà ed
aumentarne ulteriormente la resistenza a fattori biotici; oltretutto, come
testimoniano i numerosi studi, numerose di tali molecole sono caratterizzate
dall’avere attività terapeutica, e molto probabilmente interagiscono
nell’attività di metabolizzazione umana dei cannabinoidi, facendo anch’essi
parte del “fitocomplesso canapa”.
 Produttrice di cibo (per consumo umano ed animale): il seme può essere
utilizzato dall’uomo come nutrimento sia intero che decorticato oppure per
l’estrazione dell’olio. Le qualità nutritive sono sorprendenti; infatti esso è
secondo solo alla soia per contenuto in proteine ma, a differenza della soia, le
sue proteine contengono tutti i principali amminoacidi, presenti in quantità
corrispondenti alle esigenze di una dieta bilanciata. Il contenuto in olio varia
mediamente dal 30 al 35 %, e tale olio risulta il più insaturo di tutti gli olii
vegetali conosciuti, in quanto è costituito dall’80% circa di acidi grassi
polinsaturi (in particolare il 50-70% in acido linoleico (omega-6) ed il 1525% in acido linolenico (omega-3), mentre gli acidi grassi monosaturi e saturi
sono presenti in quantità variabili rispettivamente tra il 10-16% e 8-12%. La
presenza dell’alta % in acidi grassi polinsaturi è anche accompagnata da una
% in acido gamma-linolenico (GLA) variabile tra 1 e 6% (Erasmus, 1993),
che risulta essere seconda tra le specie vegetali solo a ribes, borragine ed
enotera (detta anche etenia), che sono poco appetibili e quindi non utilizzabili
come condimento, mentre l’olio di canapa ha un gusto molto gradevole. Il
migliore impiego è quello alimentare e curativo di carenze associate a
disfunzioni dell’assorbimento e metabolizzazione degli acidi grassi essenziali,
oltre alla prevenzione di numerose malattie a carico del sistema immunitario e
circolatorio (Jones, 1995). Cosa più frequente è l’impiego in prodotti
cosmetici, quali shampoo, creme e prodotti per la bellezza. L’azione antiinvecchiamento degli acidi grassi polinsaturi è cosa ben nota da tempo.
Recentemente in Finlandia è stata ottenuta una varietà dioica, la FIN-314, il
45
cui seme possiede il 37% in olio, 80% in acidi grassi polinsaturi, e,
soprattutto, quasi il 6% in acido gamma-linolenico (Callaway et al., 1996;
Callaway e Laakkonen, 1996). Al momento tale varietà è ampiamente
coltivata oltre che in Finlandia anche in Canada ed Inghilterra, ed il prezzo
dell’olio che se ne ottiene oscilla intorno ai 40-50 Euro al litro. Si auspica un
possibile inserimento di tale varietà in piani di miglioramento genetico per
migliorare la qualità del seme in varietà monoiche già ben acclimatate ai
nostri ambienti. L’importante presenza dell’acido gamma-linolenico nelle
nostre diete è associata al fatto che quest’ultimo risulta essere il primo
prodotto di trasformazione degli acidi grassi polinsaturi, e tale trasformazione
viene accelerata nel corpo umano tramite un enzima (Delta-6-Desaturase), la
cui assenza non consente la sintesi né dell’acido gamma-linolenico e
conseguentemente di numerosi prodotti di cui è precursore, come ad esempio
le prostglandine. Quantità in tracce di cannabinoidi sono state a volte trovate
nell’olio di semi, e ciò è sicuramente legato alla resina aderente al seme o a
residui di parti vegetali (Mathè e Bòcsa, 1995), sebbene in numerose altre
analisi non è stata riscontrata la loro presenza nemmeno in tracce. Il residuo
disoleato non è uno scarto a perdere ma è molto ricco di fibra e proteine ad
alto valore nutritivo, e perciò utilizzabile nella formulazione di mangimi per
l’alimentazione animale. I semi tal quali invece vengono anche utilizzati per
l’alimentazione dei volatili. Mediamente con la pressatura a freddo le % di
spremitura sono più basse (75%) rispetto a quelle a caldo e con l’ uso di
solventi (quasi 100 %), ma la la qualità dell’olio ottenuto è marcatamente
migliore; da un kg di seme si ottengono 250-350 grammi di salubre olio, da
considerare più un integratore alimentare che un olio di origine vegetale per
condimenti.
46
1.6. APPLICAZIONI DI TIPO FARMACEUTICO
La canapa, usata per millenni nella medicina orientale, conosce una discreta
diffusione anche in occidente (sebbene già conosciuta da secoli) per le proprietà
antiemetiche, analgesiche ed anticolvulsivanti a partire dalla metà dell’Ottocento
fino al 1937, anno in cui, con l’entrata in vigore negli Stati Uniti del Marihuana
Tax Act, scomparve dalla lista dei farmaci legalmente riconosciuti negli Stati
Uniti, ed in pochi anni, scomparve anche dall’intera farmacopea internazionale.
Dopo un lungo periodo di silenzio e di totale arresto delle sperimentazioni, agli
inizi degli anni ‘70 proprio negli Stati Uniti si è riavviato un processo di
rivalutazione medica degli estratti di tale pianta; gran parte di questo processo di
rivalutazione è dovuto a Lenster Grinspoon, professore di psichiatria
dell’Università di Harvard, con la pubblicazione di “Marihuana reconsidered”
(1971), e soprattutto un ventennio dopo con la scoperta di due recettori specifici
per il Δ9-THC e del sistema endocannabinoide. Tali recettori vennero denominati
CB1 e CB2, e rispettivamente furono trovati maggiormente presenti i CB1 in
alcune strutture celebrali (corpus striatum, globus pallidus, cervelletto, corteccia
celebrale, ippocampo ed ipotalamo) e i CB2 negli organi periferici.
Nei successivi decenni numerosi furono gli studi ed i contributi scientifici,
nonché la pubblicazione di diversi rapporti ufficiali, tutti a favore dell’uso
terapeutico della canapa e dei suoi derivati. Tuttavia, nonostante le risultanza
scientifiche acquisite su diverse patologie ed i potenziali campi di impiego
terapeutico, l’utilizzo della canapa a scopi terapeutici è stato da sempre
osteggiato dalle forze politiche nazionali occidentali. Negli ultimi anni il dibattito
politico ha portato alla costituzione di Organi disciplinari e di leggi relative alla
“canapa terapeutica” in nazioni come gli Stati Uniti, il Canada, l’Olanda e il
Regno Unito, e ancora numerose sono le nazioni occidentali che iniziano a
considerare fattibile tale tipo di percorso dando lentamente luogo ad un
movimento internazionale. Sorprendentemente il nostro Paese è stato sino a ora
tagliato fuori da questo generale processo di rivalutazione e regolamentazione
legislativa. Soprattutto a livello politico si nota una notevole distanza di pensiero
tra “proibizionisti” e “antiproibizionisti” su tale argomento, nonostante numerosi
delle fazioni che si oppongono all’uso terapeutico della canapa, alcuni anni fa
erano schierati a favore di chi rivendicava il diritto di ricorrere alla famigerata
“terapia Di Bella”; se in tale circostanza tale principio di libertà era ritenuto
valido, non si capisce perché adesso, in un Paese civile viene tassativamente
negato il diritto di ricorrere agli estratti vegetali di tale pianta a tutti quei pazienti
che sperano di trovare sollievo dagli effetti collaterali della chemioterapia o una
cura a varie patologie. In Italia, ancora peggio, vengono complicate le modalità
burocratiche per l’importazione anche dei farmaci a base di cannabinoidi sintetici
47
ad azione simile (Tab. 1.3) e che sono stati legalmente approvati in altre nazioni
occidentali.
Tab. 1.3: Cannabinoidi sintetici
CANNABINOIDI
SINTETICI
DRONABINOL
NABILONE
LEVONANTRADOLO
DEXANABINOL (HU211)
ACIDO AJULEMICO
(CT3)
HU-210
WIN 55212-2
SR 141716 A
PROPRIETA’ FARMACOLOGICHE
Δ9-THC sintetico. In commercio in Germania,
Olanda, Usa e Israele (Marinol®).
Proprietà farmacologiche simili al Δ9-THC. In
commercio in Gran Bretagna e Canada (Cesamet®).
Proprietà farmacologiche simili al Δ9-THC ma con
più effetti collaterali. Disponibile per usi
sperimentali, non in commercio.
Proprietà farmacologiche simili al CBD. Disponibile
per usi sperimentali, non in commercio.
Proprietà farmacologiche simili al CBD. Spiccata
attività analgesico - antiinfiammatoria. Disponibile
per usi sperimentali, non in commercio.
Proprietà farmacologiche simili al levonantradolo.
Disponibile per usi sperimentali, non in commercio.
Agonista dei recettori cannabinoidi. Disponibile per
usi sperimentali, non in commercio.
Antagonista dei recettori cannabinoidi. Disponibile
per usi sperimentali, non in commercio.
Nonostante dal punto di vista formale l'uso terapeutico dei derivati della canapa
sia autorizzato dal Testo Unico sulle sostanze stupefacenti (art. 26 D.P.R. n.
309/90), in Italia a tutt'oggi non esistono fonti legali di approvvigionamento di
tali sostanze. Esistono al momento sul mercato estero due cannabinoidi sintetici,
il Dronabinol (registrato come Marinol® in USA, ma prodotto anche in
Germania) e il Nabilone (Cesamet®), entrambi approvati per il trattamento della
nausea e del vomito nelle chemioterapie antitumorali e nell'anoressia in malati di
AIDS.
A questi si sono recentemente aggiunte due specialità medicinali a base di
infiorescenze di canapa, il Bedrocan® e il SIMM18®, disponibili dal 1 settembre
2003 nelle farmacie olandesi, ed il già citato Sativex®.
Per ordinare all'estero tali specialità medicinali, occorre seguire la procedura
richiesta dall'art. 2 del D.M. 11-2-1997 (Importazione di specialità medicinali
registrate all'estero).
Negli ultimi anni in Italia una forte presa di posizione a tal proposito è stata presa
da ACT (Associazione per la Cannabis Terapeutica) la quale nel 2000 descrisse
48
al ministro Veronesi con un documento chiamato “Libro Bianco degli usi
terapeutici della Cannabis” le potenzialità di tale pianta, schierandosi al fianco
dei numerosi pazienti che richiedono i preparati officinali e le specialità medinali
che sono al momento in commercio in altri paesi, vista la possibilità in Italia di
prescrizione medica, chiaramente attenendosi alle relative modalità da rispettare,
elencate nella Tabella II, a sua volta compresa all’interno della Tabella VII, della
X edizione della Farmacopea Ufficiale (decreto del Ministero della Sanità 9
Ottobre 1998, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 266 del 13/11/1998).
La stessa associazione anche ha elaborato ed inviato alla Camera dei Deputati
una proposta di legge suddivisa in 7 articoli.
Nella Tab. 1.4 (ACT, 2002) vengono riportati i potenziali campi di impiego
terapeutico dei derivati della canapa.
Tab. 1.4 - Potenziali campi di impiego terapeutico dei derivati della canapa
A: Patologie per le quali esistono evidenze incontrovertibili:
- Trattamento della nausea in chemioterapia
- Stimolazione dell’ appetito nei pazienti con sindrome da deperimento Aids –
correlata
B: Patologie per le quali esistono promettenti evidenze preliminari tali da
giustificare sperimentazioni cliniche controllate nell’ uomo:
- Sclerosi multipla
- Terapia del dolore
- Effetti neuroprotettivi e antiossidanti (ictus e traumi cranici)
- Sindrome di Gilles de la Tourette
- Glioblastomi
- Artrite reumatoide
- Glaucoma
- Epilessia
C: Patologie in cui esistono evidenze meritevoli di ulteriori approfondimenti:
- Terapia dei tumori
- Lesioni midollari (tetraplegia, paraplegia)
- Malattie neurodegenerative (distonie, Parkinson, Huntington, Alzheimer)
- Asma bronchiale
- Malattie autoimmuni e patologie infiammatorie croniche (lupus eritematoso,
morbo di Crohn, colite ulcerosa,…..)
- Sindromi ansioso – depressive e altre sindromi psichiatriche
- Patologie cardiovascolari
- Sindromi da astinenza nelle dipendenze da sostanze
- Prurito intrattabile
49
In Italia, ma soprattutto in altri nazioni, numerosi sono gli studi ed i risultati
positivi ottenuti in test clinici su animali; la veridicità di tali studi è tuttavia da
valutare in campo umano.
Numerose sono le sperimentazioni cliniche già effettuate ed attualmente in corso.
Per alcune patologie tali sperimentazioni hanno raggiunto le ultime fasi con
ottimi risultati (e ciò fa presupporre un prossimo utilizzo dei cannabinoidi per la
loro cura) mentre per altre patologie le ricerche sono ancora nella fese iniziale ma
i primi risultati sono più che incoraggianti.
Anche in Italia, presso l’Università “La Sapienza” di Roma, è di prossimo avvio
una la ricerca per valutare un possibile impiego della canapa nella cura
dell’epilessia.
Le sperimentazioni cliniche effettuate ed in corso hanno focalizzato le loro
attenzioni sul Δ9-THC, che come già detto è psicotropo, e come conseguenza è
anche il più conosciuto dei cannabinoidi; a esso sono riferibili gli effetti sulle
patologie citate, mentre sono ancora scarse le conoscenze sui potenziali campi di
utilizzo degli altri cannabinoidi minori non psicotropi (CBD, CBG, CBC)
singolarmente considerati.
Infatti, nonostante il lavoro fin qui realizzato, restano numerosissimi gli sforzi da
fare per comprendere la complessità d’azione dei singoli cannabinoidi e del
“fitocomplesso” (tutti i principi attivi presenti in un estratto vegetale). È stato
evidenziato che l’impiego di farmaci a base di cannabinoidi sintetici induca una
maggiore incidenza degli effetti collaterali e per tale motivo, alcuni autori
manifestano la necessità di assumere tali principi attivi sotto forma di specialità
medicinali a base di infiorescenze o sotto forma di farmaci ottenuti da estratti
vegetali (Grinspoon, 1997; McPartland, 1999).
La più ovvia differenza tra la canapa naturale (con alti livelli in Δ9-THC) e il
dronabinol o il nabilone (Δ9-THC sintetico) è la “politerapeuticità”.
La canapa è una medicina vegetale e possiede centinaia di composti oltre al Δ9THC (Turner et al., 1980), alcuni dei quali possono influenzare la sua attività
farmacologica (Carlini et al., 1970).
Due sono i vantaggi di un utilizzo di un estratto vegetale rispetto al singolo
ingrediente sintetico:
 l’effetto terapeutico del principale principio attivo può essere sinergizzato
dagli altri composti presenti.
 gli effetti collaterali del principale principio attivo possono essere mitigati
dagli altri composti presenti.
Molti dei lavori scientifici riguardanti gli effetti della canapa non vengono
considerati attendibili perché non viene riportata la composizione completa, sia
quantitativa che qualitativa, dei vari principi attivi presenti nel materiale vegetale
impiegato nelle prove, vista l’elevata variabilità chemiotipica tra le diverse
50
popolazioni ed anche tra piante della stessa popolazione se sottoposte a diverse
condizioni ambientali.
Per avere risultati attendibili da una sperimentazione clinica occorre avere un
farmaco puro e con un titolo noto nella sua composizione.
In tale direzione si è mossa e si sta muovendo l’ azienda farmaceutica britannica
GW Pharmaceuticals, che produce il “Sativex”®, primo prodotto a base di
estratti naturali di canapa a contenuto standardizzato di Δ9-THC e CBD; detti
principi attivi vengono ottenuti da varietà “monochemiotipiche” che producono
singolarmente Δ9-THC e CBD in maniera molto costante in quanto vengono
prodotti da cloni ottenuti da due “piante madri” che chemiotipicamente
producono in purezza i due cannabinoidi.
La sua modalità di assunzione è spray sublinguale; tale modalità, come anche
quelle che utilizzano i vaporizzatori o gli aerosol, garantiscono la rapidità
dell’effetto terapeutico, al pari di quanto si ottiene con l’inalazione del fumo
(maggiore rapidità d’azione e biodisponibilità rispetto all’ingestione), ma senza
gli effetti dannosi di quest’ultimo; ad ogni spruzzo si assumono 2,7 mg di Δ9THC e 2,5 mg di CBD (rapporto di quasi 1:1).
Lo sviluppo di forme farmaceutiche per un uso locale mirato e per la regolazione
di un dosaggio individuale, potrà estenderne ulteriormente il campo d’impiego
terapeutico.
Preparazioni farmaceutiche pure e titolabili, come quelle utilizzate dalla GW
Pharmaceuticals, rappresentano una buona premessa per l’uso della pianta come
fonte naturale di principi attivi.
La migliore tollerabilità dei prodotti naturali sarebbe legata alla compresenza,
accanto al Δ9-THC, di un altro importante principio attivo: il CBD, che non è
presente nella formulazione dei farmaci sintetici che attualmente sono in
commercio.
Il CBD è in grado di modulare l’azione del Δ9-THC, attenuandone gli effetti
collaterali e prolungandone la durata d’azione, oltre ad avere anch’esso una
spiccata attività e applicabilità in numerose patologie (Shirakawa et al, 1975 e
1982; Bird, 1980; Hollister e Gillespie, 1975; Formukong et al., 1988; Petitet et
al., 1998; Speroni E. et al., 2003).
Il CBD è un potente inibitore del metabolismo epatico del principio attivo
(Bornheim et al., 1981) ed aumenta la concentrazione del Δ9-THC nella zona
celebrale (Jones e Pertwee, 1972).
Numerosi studi (Zuardi et al., 1981; 1982; 1983) hanno riportato antagonismo tra
Δ9-THC e CBD, e Mechoulam et al. (1995) hanno dimostrato l’attività antipsicotica del CBD nei confronti del Δ9-THC. In tali studi è stato verificato che il
CBD non influisce sui livelli di Δ9-THC nel sangue, spiegando quindi che il
51
CBD blocca gli effetti del Δ9-THC attraverso intrinseche proprietà
farmacologiche.
Il CBD conferisce analgesia (più potentemente che il Δ9-THC), inibisce gli
eritemi molto più che il Δ9-THC, blocca l’attività delle cicloossigenasi e delle
lipossigenasi con una inibizione massima più grande di quella del Δ9-THC
(Evans, 1991).
Il CBD serve anche come antiossidante neuroprotettivo, mostrando una azione
più potente dell’ascorbato e dell’alfa-tocoferolo (Hampson et al., 1998).
Sebbene il Δ9-THC abbia proprietà antinfiammatoria (Burstein et al., 1993),
CBD, CBN, CBG, CBC e Acido Cannabidiolico sono degli inbitori delle prostglandine più potenti del THC (Burstein et al., 1993; Evans, 1991); allo stesso
modo, eugenolo, carvacrolo e p-vinilfenolo sorpassano i cannabinoidi nella
inibizione delle prost-glandine (Burstein et al., 1995).
In test clinici il CBD ha mostrato effetto antinfiammatorio (Costa et al., 2004) ed
effetti antitumorali su linee cellulari di glioma umano, ed è stato dimostrato che
tale effetto antiproliferativo è correlato ad una marcata induzione all’apotossia
cellulare (Parolaro et al., 2003).
Esso ha anche mostrato in diversi altri test clinici proprietà sedative, ipnotiche,
anticonvulsive, neuroprotettive ed avere effetti sul metabolismo ormonale.
La ricerca scientifica ha mostrato nel passato scarso interesse per i cannabinoidi
minori, focalizzando le attenzioni e gli studi in particolare sull’attività del Δ9THC, e secondariamente sull’attività del CBD; ciò nonostante esiste bibliografia
illustrante le loro caratteristiche principali.
L’attività terapeutica del CBG non è stata ancora esaminata approfonditamente,
anche se diversi studi preliminari ne indicano un possibile uso come
antinfiammatorio (Formukong, 1988), come ipotensivo oculare e come
antimicrobico (E.L. Sohly et al., 1982; Van Klingeren e Ten Ham, 1976).
Altri cannabinoidi minori di cui si conoscono alcuni possibili utilizzi sono: il
CBC ed il CBN; il CBC sembra essere caratterizzato da proprietà antimicrobiche,
calmanti, analgesiche e stimolanti dell’effetto del Δ9-THC; il CBN, il quale è
dotato di attività psicotropa ed agisce con un’attività di circa 1/20 rispetto a
quella esercitata dal Δ9-THC, ha prospettive d’impiego nell’epilessia e nel
glaucoma oculare (E.L. Sohly et al., 1982; Van Klingerem e Ten Ham, 1976).
In test clinici il CBC somministrato a topi insieme al Δ9-THC fa cambiare,
rispetto ad una somministrazione di Δ9-THC puro, il battito cardiaco, ma non la
pressione sanguigna (O’Neil et al., 1979).
Anche gli altri cannabinoidi minori sembrano avere attività terapeutica quando
considerati singolarmente e puri, e sinergica dei due principali principi attivi
quando considerati come facenti parte del “fitocomplesso”.
52
L’attività del CBG e degli altri cannabinoidi minori potrà essere indagata in
maniera più esaustiva solo grazie all’utilizzo di estratti vegetali puri e a titolo
noto di tali principi attivi visto che attualmente non esistono analoghi sintetici;
l’ottenimento di linee che producono esclusivamente questi principi attivi renderà
più immediata e semplice la loro fase di estrazione e preparazione, e,
conseguentemente ne otterrà vantaggio il settore farmacologico che li potrà
testare singolarmente per i diversi potenziali campi di utilizzo.
Nuove conoscenze sui cannabinoidi minori potranno anche pervenire con il
progredire degli studi sul sistema cannabinoide endogeno e sulle risposte
dell’organismo ai cannabinoidi esogeni.
Come detto, bisogna considerare il “fitocomplesso canapa” più che l’attività dei
singoli principi attivi; detto “fitocomplesso” comprende oltre che i cannabinoidi
anche i terpeni e gli altri principi attivi prodotti dalla pianta.
L’aromaterapia è la scienza che si propone la cura di certi disturbi tramite
inalazione degli oli essenziali delle piante.
Numerosissima è la bibliografia riguardo alla singola attività di numerosi terpeni.
Le sostanze terpeniche, a loro volta, possono interagire con l’azione del Δ9-THC;
esse, essendo lipofile, permeano le membrane lipidiche e rendono più immediato
l’ingresso dei cannabinoidi nel flusso sanguigno (Meschler e Howlett, 1999).
Buchbauer et al. (1993) hanno saggiato le proprietà sedative di 40 di tali
sostanze, notando che tra le più sedative vi erano proprio alcuni terpeni della
canapa, quali linalolo, citronellolo e alfa-terpinolo.
Meschler e Howlett (1999) descrissero numerosi meccanismi attraverso i quali i
terpeni possono modulare l’attività del Δ9-THC e degli altri cannabinoidi, o
influendo sui loro recettori o “sequestrando” il Δ9-THC o modificando i lipidi
che circondano i recettori o ancora aumentando la fluidità delle membrane
neuronali.
Le varie popolazioni di canapa producono centinaia di terpeni (divisi in
monoterpeni e sesquiterpeni) ed i più abbondanti in concentrazioni % sono
(Mediavilla e Steinemann, 1997; Malingrè et al., 1975): alfa-pinene, beta-pinene,
beta-myrcene, limonene, beta-caryophyllene, linalolo, alfa-humulene, sabinene,
terpinolene, alfa-bergamotene, ecc..
Sebbene il meccanismo d’azione dei cannabinoidi e dei terpeni è ancora sotto
studio, l’effetto biologico è sicuramente esistente per alcuni di loro.
C’è ancora molta strada da percorrere per risolvere la controversia sugli usi
terapeutici dei derivati della canapa, anche se le premesse sperimentali appaiono
incoraggianti.
Non è dunque escluso che in futuro si possano sviluppare chemiotipi a prevalente
produzione di questi cannabinoidi, come di altri di cui venissero eventualmente
evidenziate delle proprietà benefiche, od ancora tendere ad ottenere linee con
53
chemiotipo misto e con valori % definiti dei vari cannabinoidi, una volta che
verrano stabiliti con successivi studi di carattere farmaceutico la posologia
ottimale di applicazione ed il corretto rapporto CBD/Δ9-THC per attenuare gli
effetti collaterali del Δ9-THC.
Allo stato attuale le ricerche scientifiche sugli effetti terapeutici della canapa
sono quindi tutt’altro che concluse ed i loro parziali risultati sono tutt’altro che
definitivi; è auspicabile pertanto che le ricerche continuino oltre che in campo
medico e farmacologico, anche nel settore agronomico, della genetica, fisiologia
e biochimica agraria, al fine di approfondire le conoscenze sugli effetti delle
variabili ambientali e colturali, nonché delle eventuali interazioni con il genotipo,
sulla produttività in cannabinoidi ed oli essenziali.
54
1.7. ASPETTI GENETICI E FISIOLOGIA DEL PROCESSO
RIPRODUTTIVO
Data la bibliografia sulle proprietà farmacologiche e sinergiche del CBD ed i
buoni presupposti di attività farmacologica anche per i cannabinoidi minori, si
auspica a tale scopo una loro produzione in vaste quantità e l’ottenimento di linee
pure che lo producono selettivamente ed in ampie quantità percentuali; si ritiene
possibile ottenere linee con chemiotipo Δ9-THC e CBD che producono anche il
25-30 % in cannabinoidi sulla sostanza secca e con un grado di purezza del 95 %
circa; lo stesso non si può dire con sicurezza per gli altri cannabinoidi minori, di
cui non si conosce ancora molto riguardo alla trasmissione genica del carattere
chemiotipico.
La genetica dell’eredità dei cannabinoidi è stata poco indagata nel passato, ma un
importante lavoro è stato svolto negli ultimi anni che ha chiarito le modalità di
trasmissione genica tra i due cannabinoidi principali, CBD e Δ9-THC; questi
sono in uno status di codominanza genetica (De Meijer et al., 2003; Sytnik e
Stelmah 1998).
De Meijer et al. (2003) effettuando diversi incroci tra piante dioiche,
chemiotipicamente pure in Δ9-THC con piante chemiotipicamente pure in CBD,
e poi analizzando un cospicuo numero di piante della progenie attraverso analisi
di Gas-Cromatografia, hanno sempre ottenuto nella F1 tutte piante aventi
chemiotipo intermedio CBD/Δ9-THC; da tali piante, attraverso
autofecondazione, sono state ottenute progenie F2 con un rapporto di
segregazione 1:2:1 (puro CBD, misto CBD/ Δ9-THC e puro Δ9-THC); ciò ha
dimostrato un rapporto CBD/Δ9-THC significativamente specifico e
trasmissibile in maniera costante dalla F1 alla F2 e proprio per questo motivo è
stato proposto un modello caratterizzato da un locus, B, con due alleli, Bd e Bt,
presenti in condizione codominante. Il chemiotipo misto è caratterizzato dall’
avere un genotipo Bd/Bt al locus B, mentre i due chemiotipi puri sono
caratterizzati dall’ omozigosi al locus B (rispettivamente Bd/Bd e Bt/Bt). Si
pensa che tale codominanza sia dovuta alla codifica dei due alleli (Bd e Bt) per
differenti isoforme della stessa sintasi, avente differente specificità per la
conversione del precursore comune CBG in CBD e Δ9-THC rispettivamente.
Studi genetici applicati ad un vasto numero di accessioni, effettuati da Hillig e
Mahlberg (2004), supportano il concetto di due specie in canapa: Cannabis
sativa e Cannabis indica, quest’ ultima caratterizzata da valori significativamente
più elevati di Δ9-THC e di frequenza dell’allele Bt, il quale codifica l’alloenzima
che consente la trasformazione del CBG in Δ9-THC.
55
La codominanza è stata ulteriormente dimostrata da tale gruppo di studio (De
Meijer et al., 2003) effettuando le analisi dei vari gruppi della F2 utilizzando dei
RAPD primers, ed in particolare sul chemiotipo misto, trasformando la sequenza
caratterizzata da una regione amplificata (SCAR) con markers associati, si è
dimostrata sperimentalmente la codominanza genetica. Lo stesso studio parla di
un possibile allele B0 legato all’impossibilità di produrre cannabinoidi (“0
cannabinoidi”) o di produrli in quantità molto limitate; la presenza di questo
allele potrebbe essere legata all’assenza dell’ enzima GOT che porta all’unione
dell’unità fenolica e terpenica da cui viene ottenuto il precursore di tutti i
cannabinoidi: il CBG. Il chemiotipo CBG potrebbe essere legato all’esistenza di
un carattere recessivo presente nel patrimonio genetico della pianta che non
consente di esprimere l’attività enzimatica del Δ9-THC sintasi sul CBG e che
porterà alla produzione del Δ9-THC; una pianta di questo chemiotipo produrrà
principalmente CBG, CBD in minore proporzione e Δ9-THC generalmente in
tracce o del tutto assente. Quindi, mentre è del tutto, o quasi, arrestata l’attività
enzimatica che porta alla produzione del Δ9-THC, non avviene la medesima cosa
per l’ enzima CBD sintasi, che agisce sul CBG e porta alla produzione di discrete
quantità di CBD.
Come già detto, l’azienda britannica GW Pharmaceuticals ottiene infiorescenze
dalla coltivazione di cloni ottenute da piante madri ed ha già prodotto numerose
linee genetiche stabili nel carattere qualitativo e quantitativo del chemiotipo,
inizialmente reperendo popolazioni provenienti da diverse parti del Mondo e
successivamente selezionando per il carattere di interesse e fissandolo attraverso
autofecondazione ripetuta; in questo modo sono state ottenute le linee
“monochemiotipiche”, cioè in grado di bioaccumulare un singolo cannabinoide
(Δ9-THC, CBD, CBG, CBC, Δ9-THCV, CBDV e CBGV) o addirittura di non
produrne nessuno in quantità rilevabili dalle analisi di gas–cromatografia (“0
cannabinoidi”); quest’ultima linea è interessante sia a scopi clinici, utilizzandola
come “placebo”, sia a scopi di genetica agraria, inserendo tale carattere in
popolazioni di canapa di tipo tradizionale ad elevata produttività agricola, mentre
le linee “monochemiotipiche” assumono notevole importanza negli studi clinici
in quanto, producendo isolatamente tali principi attivi, viene evitato il costoso
passaggio di purificazione molecolare per poter effettuare i diversi studi clinici
sull’ attività dei singoli cannabinoidi.
La costituzione di varietà “monochemiotipiche” o “0 cannabinoidi” assume
importanza anche nella sperimentazione agraria in quanto, incrociando le varie
linee, si potrebbe effettuare una valutazione a livello genetico dell’ eredità dei
caratteri chemiotipici alle varie generazioni, sebbene sono già state dimostrate le
leggi d’eredità dei geni associati alla produzione dei due principali cannabinoidi
(Δ9-THC e CBD) (De Meijer et al., 2003; Sytnik e Stelmah, 1998).
56
Gli studi di selezione chemiotipica procedono anche in Italia e vengono portati
avanti dal Dott. Grassi presso il C.R.A. sezione I.S.C.I. di Rovigo; sono state già
ottenute numerose linee contraddistinte da determinate caratteristiche
morfologiche e da un definito e costante patrimonio chemiotipico, reperendo
dapprima seme di varie popolazioni europee da fibra o da seme ed in seguito
valutandole e selezionando delle piante, da cui per autofecondazioni si ottengono
linee monozigoti per i geni di interesse; su alcune di queste linee sono stati
effettuati incroci “guidati” per poter valutare gli aspetti della trasmissione
genetica di alcuni caratteri.
Tale Istituto è membro partecipante, nella fase di produzione vegetale, in un
gruppo di ricerca europeo di spicco nel campo della canapa terapeutica.
Il lavoro di selezione genetica delle linee più produttive in CBD e CBG che
andremo ad effettuare non può omettere una buona conoscenza degli aspetti
genetici e fisiologici connessi alla manifestazione del sesso nella canapa monoica
e dioica; per questo motivo andiamo a riportare le conoscenze acquisite dai vari
studi effettuati.
McPhee (1925) ha indotto lo sviluppo di fiori maschili su individui femminili
variando il fotoperiodo. Quando questi fiori maschili impollinavano fiori
femminili della stessa pianta o di altre piante, la progenie comprendeva solo
piante femminili. Successivamente, Hirata (1928) ipotizzò che nella canapa
dioica l’ereditarietà del sesso si basa su un meccanismo XY, però questa tesi non
fu accreditata per numerose evidenze nelle piante monoiche che indicavano una
ben più complessa correlazione tra geni e sesso.
Sono stati effettuati numerosi studi sull’ereditarietà del sesso (Grishko et al.,
1937; Hoffmann, 1952; Kohler, 1961).
Grishko et al. (1937) hanno suggerito che il sesso può essere ereditato
indipendentemente dall’aspetto fenotipico (o habitus) della pianta; infatti essi
hanno attribuito maggiore importanza al portamento della pianta, considerando
tutte le piante con abito femminile come geneticamente femmine e tutte le piante
con abito maschile come geneticamente maschi, indipendentemente dal tipo di
fiori che questi portano. Hoffmann (1952) ha interpretato il fenomeno del
monoicismo assumendo un’azione di più geni ad effetto additivo sul sesso e
sull’abito di sviluppo della pianta (poligeni), che portano ad una serie di piante
più o meno mascolinizzate o femminilizzate.
Kohler (1961) dimostrò ancora una volta un’eredità poligenica del carattere
sessuale, che porta ad individui monoici con caratteristiche variabili verso l’una o
l’altra forma sessuale.
Alla luce di quest’ultima considerazione, e tenendo conto che il nostro interesse è
rivolto alla produzioni di fiori femminili, è importante selezionare al meglio tale
57
carattere in una popolazione monoica oppure lavorare su popolazioni dioiche
selezionando gli individui geneticamente femminili.
Rimane però di fatto utile lavorare sulla canapa monoica per la possibilità di
effettuare autofecondazioni sulla stessa pianta, quindi di ottenere (mediante
isolamento) un seme omozigote rispetto ai caratteri della madre.
I vantaggi presentati dalle piante monoiche rispetto alle dioiche si possono
riassumere nei seguenti punti:

una pianta monoica si presta molto bene ad essere utilizzata in tecniche di
autofecondazione attraverso le quali si giunge all’omozigosi, quindi alla
“fissazione” di geni utili.

nella canapa monoica è assicurata la sincronia nella maturazione dei fiori
maschili e femminili; questo permette di ottenere una maggiore omogeneità
della coltura e quindi una semplificazione del lavoro, limitando i problemi
di contaminazione da polline estraneo;

in una popolazione monoica, ogni pianta è portatrice di seme, quindi si ha
un incremento notevole nella produzione del seme rispetto ad una
popolazione dioica in cui le piante portatrici di seme sono circa il 50% del
totale (solo le piante femmine) e quindi si possono valutare, a parità di
spazio, un numero doppio di linee genetiche.
Qualora si abbia una scarsa o assente % di fiori maschili su una pianta monoica
che si vuole autofecondare, esiste una procedura in grado di far sviluppare fiori
maschili su piante con abito femminile permettendo anche in questo caso
l’autofecondazione. Questo è il processo di “Reversione” del sesso e si attua
utilizzando una soluzione acquosa di nitrato d’argento.
Esistono dati evidenti indicanti che specifici ormoni endogeni giocano un ruolo
importante nell’espressione genetica del sesso (Heslop-Harrison, 1964).
Generalmente in varie categorie di piante monoiche e dioiche le gibberelline
favoriscono l’espressione sessuale maschile, mentre le auxine, l’etilene e le
citochinine promuovono l’espressione sessuale femminile (Mohan Ram, 1980).
Appare molto interessante mostrare le conoscenze acquisite sui livelli ormonali
nelle piante di canapa, visto che il metabolismo ormonale sembra avere un posto
rilevante nella biosintesi e nel bioaccumulo dei cannabinoidi e può essere spunto
per successivi studi di carattere fisiologico, ad esempio considerando in parallelo
su popolazioni di cloni, accresciuti in differenti condizioni di sviluppo, i
differenti livelli ormonali presenti nelle piante con i livelli di cannabinoidi
rilevabili in esse.
I livelli ormonali delle piante di canapa furono indagati nei loro diversi aspetti da
Galoch (1978, 1980).
L’ influenza dei regolatori di crescita della pianta nell’espressione del sesso in
piante maschili e femminili fu studiata applicando i singoli regolatori, ed in
58
combinazione, sulle sommità differenziate sessualmente: l’acido giberellico
induce mascolinizzazione, mentre l’acido indolacetico, l’etilene e le citochinine
hanno effetto femminizzante; l’acido abscissico non esercita effetto diretto, ma
agisce da antagonista in relazione all’effetto esercitato dall’acido giberellico e
dall’acido indolacetico. I risultati di applicazioni combinate di acido indolacetico
ed Ethrel con gli altri regolatori di crescita suggerisce che il meccanismo di
azione delle auxine e dell’etilene nel controllo dell’espressione del sesso è
differente; infatti le auxine, in tale processo, non possono essere considerate solo
come agente causale dell’ incremento nella produzione in etilene.
Un altro studio ha riguardato tale influenza sulla differenziazione di organi
riproduttivi su cloni di 3 mm ottenuti da piante che si trovavano allo stadio del
primo paio di foglie; tali cloni sono stati sviluppati in condizioni sterili e in
condizioni di “fotoperiodo corto”. Tra le sostanze provate solo l’acido abscissico
ha indotto formazione di organi riproduttivi, ed in particolare, se somministrato
da solo, ha portato a sole fioriture maschili, mentre, se vengono incluse nel
mezzo le auxine e le citochinine, ha effetto femminizzante. L’acido giberellico
riduce il numero di fiori indotti dal trattamento con l’acido abscissico senza
modificare il loro sesso. La produzione degli organi riproduttivi è correlata con il
numero ridotto di foglie dei cloni all’espianto.
Un altro studio invece ha saggiato la variabilità del livello dei fitormoni in piante
maschili e femminili ai differenti stadi di sviluppo, ed esattamente poco prima
dell’inizio della fioritura, durante lo sviluppo dei primi abbozzi fiorali e durante
la piena fioritura. Sia negli individui maschili che femminili, la transizione alla
fase riproduttiva è associata a livelli ormonali crescenti di acido abscissico come
inibitore. Le piante femminili mostrano livelli di tale sostanza ormonale ben più
alti delle piante maschili e, generalmente, nelle piante femminili sono stati trovati
livelli più alti in auxine, mentre nelle piante maschili sono stati trovati livelli più
alti in giberelline.
Durante la differenziazione degli organi riproduttivi maschili, il livello di
giberelline si riduce, mentre durante la differenziazione degli organi riproduttivi
femminili è il livello delle auxine che si abbassa.
Viene dunque suggerito che la formazione degli organi riproduttivi maschili è
correlata con una domanda crescente da parte degli abbozzi fiorali per le
giberelline, mentre la formazione degli organi riproduttori femminili per le
auxine.
La canapa ha già in natura, in condizioni particolari, la capacità di revertire il
proprio sesso o di trasformarsi in ermafrodita. E’ stato ipotizzato che
l’espressione sessuale dei fiori di canapa sia controllato da un equilibrio tra i
livelli endogeni di etilene e gibberelline (Mohan Ram, 1980). Ci sono evidenze
che lo ione argento sia un potente inibitore dell’azione dell’etilene e che lo ione
59
cobalto blocchi la sintesi dell’etilene (Beyer, 1976). Il nitrato d’argento ed il
cloruro di cobalto hanno mostrato di indurre fiori maschili su piante femminili
(Mohan Ram e Sett, 1982); anche l’acido giberellico promuove lo sviluppo di
fioriture maschili (Mohan Ram, 1980). L’Ethephon, un composto che rilascia
etilene, oltre ad aumentare il numero dei fiori femminili nelle cucurbitacee,
induce la formazione di fiori femminili su piante maschili di canapa (Mohan
Ram, 1980). L’aminoetossivinilglicina (AVG), un analogo strutturale della
rizobitossina, induce la formazione di fiori maschili fertili su piante femminili
(Mohan Ram e Sett, 1982) e può inoltre revertire l’effetto dell’Ethephon su
piante maschili.
I processi di “Reversione” del sesso ed autofecondazione prevedono una serie di
accorgimenti durante l’intera fase colturale: dopo 4-5 settimane di fase vegetativa
vengono cimate le piante così da fare sviluppare due rami principali; dopo altre
2-3 settimane di fase vegetativa vengono indotte a fiorire variando il fotoperiodo
da 18 a 12 ore di luce giornaliera; a questo punto vengono identificate le piante
prevalentemente maschili da quelle prevalentemente femminili (operazione
possibile solo alla fioritura). Dopo aver eliminato le piante maschili, su quelle
prevalentemente femminili si attua la “Reversione” del sesso distribuendo sulle
foglioline di uno dei due rami principali 100 microlitri della soluzione acquosa
allo 0,1 % di nitrato d’argento. Dopo alcune ore le piante vengono insacchettate
al fine di consentire la traspirazione ma non l’ ingresso di polline estraneo. Dopo
circa 2 settimane dall’applicazione le piante avranno già iniziato a produrre fiori
maschili e dopo circa 6 settimane è possibile raccogliere il seme, congiuntamente
a parte dell’infiorescenza apicale di ogni singola pianta, per le successive analisi
di laboratorio sul contenuto in cannabinoidi. Vengono così individuate le piante
più produttive, vigorose, con particolari caratteristiche morfologiche e con
chemiotipo più interessante le cui progenie verranno allevate nel successivo
ciclo.
L’autofecondazione ripetuta consente di raggiungere un elevato grado di
omozigosi, permettendo la fissazione nel genotipo di determinati caratteri e di
ottenere linee stabili per i caratteri selezionati. Uno svantaggio
dell’autofecondazione ripetuta è la “depressione da inbreeding”, i cui effetti
negativi sobno solo parzialmente attenutati dalla selezione delle piante più
vigorose.
Ai fini selettivi per scopi terapeutici, le popolazioni di canapa più interessanti
appaiono quulle coltivate per fini “illeciti”; infatti, essendo caratterizzate da
elevati contenuti % in cannabinoidi totali e, pertanto, da una spiccata attività
dell’enzima GOT, potrebbero essere sfruttate a fini di selezione isolando le
piante contenenti i geni segreganti che portano alla produzione dei singoli
cannabinoidi di interesse (Δ9-THC, CBD, CBG, CBC) in elevati contenuti %; da
60
queste popolazioni sarebbe possibile riuscire ad isolare delle linee che producono
in abbondanza gli omologhi propilici dei cannabinoidi maggiori, visto che esse
tendono a produrre un più ampio range di cannabinoidi rispetto alle popolazioni
lecite, le quali sono state selezionate nel corso dei secoli per i bassi contenuti %
di cannabinoidi totali.
Lavorando con popolazioni lecite (da fibra o da seme), caratterizzate da più bassi
contenuti % in cannabinoidi totali e quindi generalmente caratterizzate da una più
blanda attività dell’ enzima GOT, è logico iniziare la selezione isolando le piante
che contengono i geni segreganti che portano a maggiori produzioni in contenuto
% di determinati cannabinoidi (CBD, CBG, CBC), i quali vengono generalmente
prodotti da dette popolazioni in concentrazioni medio – basse; in questo caso la
selezione di piante è associata alla selezione di geni segreganti che conferiscono
sia una spiccata attività all’ enzima GOT che agli enzimi specifici che agiscono
sul CBG, convertendolo negli altri cannabinoidi.
1.8. OBIETTIVI DELLA RICERCA
La sperimentazione ha avuto lo scopo di acquisire informazioni sulle principali
caratteristiche di 20 linee “monochemiotipiche” (in grado di produrre
esclusivamente Cannabidiolo - CBD o Cannabigerolo – CBG) di canapa e di
due progenie clonali e di valutarne il comportamento, in termini di parametri
biometrici e, sopratutto, di concentrazioni percentuale in cannabinoidi, al variare
di alcuni aspetti dell’agrotecnica (substrato e concimazione) nonché di ampliare
le conoscenze sulle variazioni del contenuto in cannabinoidi nelle foglie durante
il ciclo biologico su progenie clonali derivate da due piante madri selezionate per
l’elevato contenuto in CBD e Δ9-THC esenti.
61
2. MATERIALI E METODI
L’attività di ricerca è stata articolata in due distinte prove (Prova 1 e Prova 2).
In ambedue le sperimentazioni sono stati valutati i seguenti trattamenti:
T1. substrato: mix di vari tipi torba (f.c. - Floradur); concimazione: minerale
(in prevalenza azotata in fase vegetativa e fosfo-potassica in fase di
fioritura)
T2. substrato: fibra di cocco (f.c. - Coco); concimazione: formulati specifici
Coco A e Coco B ) forniti dalla ditta produttrice del substrato
T3. substrato: torba bianca e compost di cortecce (f.c. - Terra Professional +);
concimazione: formulati specifici (Terra Vega - fase vegetativa e Terra
Flores - fase fioritura) forniti dalla ditta produttrice del substrato
T4. substrato: torba bianca e compost di cortecce (f.c. - Terra Professional +);
concimazione: formulati specifici ammessi in agricoltura biologica (Bio
Vega - fase vegetativa e Bio Flores - fase fioritura) forniti dalla ditta
produttrice del substrato
Fig. 2.1: Substrati e fertilizzanti utilizzati nelle sperimentazioni
Il substrato Floradur (tesi T1) è una miscela di torba nera (in % più abbondante),
torba bionda, torba bruna e sabbia quarzosa provenienti dalla Germania
settentrionale; è un substrato concimato con tutti i principali elementi nutritivi ed
oligoelementi.
62
Il substrato Coco (tesi T2) è costituito al 100 % da fibra di cocco, ottenuta dalla
lavorazione del cocco in India, ed il cui processo di produzione viene effettuato
sotto lo stretto controllo della ditta produttrice. Si tratta di un prodotto organico,
omogeneo nella struttura, senza aggiunte di concimi, composto per il 45 % da
cellulosa, e per questo motivo le sue caratteristiche fisiche si conservano a lungo
nel tempo e può essere utilizzato per diversi cicli colturali.
Il substrato Terra Professional + (tesi T3 e T4) è composto da elementi organici
al 100 %, ed in particolare da torba bianca di elevata qualità a cui vengono
aggiunte cortecce d’albero appositamente compostate, e concimato con tutti i
principali elementi nutritivi ed oligoelementi.
Fig. 2.2: Substrati utilizzati
La concimazione è stata differenziata nelle diverse fasi del ciclo biologico della
coltura:
- fase vegetativa: apporti consistenti in N e moderati in P e K;
- fase inizio fioritura: apporti elevati in P e K e moderati in N;
- fase fine fioritura: apporti in P e K.
Oltre ai rispettivi concimi, tutte le tesi sono state coadiuvate durante il ciclo
colturale con i seguenti prodotti:
- durante i primi giorni: “Rhizotonic” (4 ml/l): stimolatore dell’apparato
radicale (con azione di regolazione della crescita, incremento della
resistenza a muffe e a batteri dannosi);
63
-
-
durante tutto il ciclo colturale con cadenza settimanale: “Cannazym” (2,5
ml/l): preparato enzimatico (circa 15 enzimi diversi, vitamine specifiche ed
estratti di piante desertiche) che migliora l’assimilazione delle sostanze
nutritive aumentando la resistenza delle piante agli agenti patogeni;
coadiuvanti: in due somministrazioni (uno alla fine della fase vegetativa ed
uno durante la fase della fioritura): “Mg” (solfato di Mg liquido, con 7 % in
MgO e 14 % SO3), “Ca” (sostanza fertilizzante liquida al Ca, con 15 % in
Ca) e “Tracce Mix” (miscela liquida di oligoelementi, con: 0,06 % Fe
(DTPA e EDDHA), 0,07 % Mo, 0,06 % Cu, 0,6 % Mn, 0,3 % B e 0,3 %
Zn), per sopperire ad eventuali carenze in meso e microelementi.
“Prova 1”
La Prova 1 è stata effettuata presso una serra dell’ Istituto Tecnico Agrario
“Kennedy” (Monselice - PD).
Sono state valutate 20 linee inbreed di canapa monoica selezionate da varietà da
fibra e da seme per determinate caratteriche morfologiche e sopratutto
chemiotipiche (basso contenuto % in Δ9-THC e da basso ad alto in CBD e
CBG), ed i cui caratteri peculiari sono stati fissati attraverso autofecondazione
ripetuta (“inbreeding”), ottenuta mediante “reversione del sesso” di piante con
abito prevalentemente femminile.
Scopo del lavoro effettuato in tale prova è stato quello di identificare linee
“monochemiotipiche” in grado di produrre esclusivamente Cannabidiolo (CBD)
o Cannabigerolo (CBG), nonché di valutarne la risposta al variare delle
condizioni colturali (substrati e concimazioni).
La semina è stata effettuata il 2/8/2004 in cubetti di torba pressata, e dopo una
settimana circa le plantule sono state trapiantate in vasi da 5 litri,
precedentemente invasati con i rispettivi substrati.
I vari concimi corrispondenti al loro “pacchetto di coltivazione” sono stati
distribuiti con gli interventi irrigui, in coincidenza delle le principali fasi
fenologiche (fase vegetativa, fase inizio fioritura e fase fine fioritura), seguendo
le indicazioni fornite dalle ditte produttrici. I quantitativi di elementi nutritivi
complessivamente distribuiti per vaso, distintamente per ciascun trattamento,
sono riportati nella tabella 2.1 .
Le 4 tesi sono state disposte in 4 file binate distanziate di circa 1 metro, con le
piante omogeneamente disposte sulla fila ad una distanza di circa 40 cm (25 bine
per singola fila). Data la breve durata del giorno (13-12 ore di luce giornaliere)
già agli inizi della fase colturale di tale prova, è stato adottato un sistema
64
d’illuminazione automatizzato con 20 lampade da 60 watt, equamente distanziate
lungo la fila e tra le fila e tutte ad una altezza di circa 2,5 metri dal suolo, in
grado di aumentare la durata della fase luminosa, ed evitare una precoce
induzione fiorale.
Tab. 2.1: Elementi nutritivi complessivi distribuiti (g per vaso), distintamente per
trattamento applicato.
Trattamento N
P2O5 K2O CaO MgO
T1
0,054 0,029 0,031 0,028 0,024
T2
0,176 0,173 0,140 0,269 0,105
T3
0,169 0,126 0,290 0,023 0,078
T4
0,130 0,098 0,267 0,068 0,025
Il periodo di “fotoperiodo lungo” (18 ore complessive di luce, di cui 13-12 ore di
luce naturale e 5-6 ore di luce artificiale) è stato mantenuto dalla semina fino al
14/9 (data in cui buona parte delle piante aveva raggiunto un adeguato sviluppo),
a cui ha fatto seguito una fase a “fotoperiodo corto” (complessivamente 12-11
ore di luce naturale) fino alla raccolta.
Durante la fase vegetativa le piante sono state sostenute con sottili canne di
bambù a cui le piante venivano gradualmente legate per mezzo di una legatrice.
I substrati di tutte le tesi sono stati mantenuti costantemente in condizioni
d’umidità prossima alla capacità di campo attraverso un impianto di d’irrigazione
automatico.
Fig.2.3: Panoramiche del dispositivo sperimentale “Prova 1”
La prova è stata interrotta ad uno stadio anticipato rispetto al presunto ottimale
(circa 15-20 giorni di anticipo) in quanto si è verificata una continua ed
65
esasperata presenza di giornalisti e media televisivi, regionali e nazionali, attirati
e stimolati dal parere “etico” di alcuni politici regionali poco conoscenti in
materia agricola ma molto conoscenti dell’ arte di far cronaca; l’ argomento dell’
attività di ricerca e la sede di coltivazione scelta per la prova (una scuola
superiore) hanno suscitato un’ acceso dibattito politico e mediatico sulla
sperimentazione agricola e medica della canapa, facendo anche intervenire nel
luogo della coltivazione il Presidente della Regione Veneto alla notizia
dell’anticipata estirpazione delle piante annunciata e voluta dal sottoscritto e dal
Dott. Grassi, benché tale prova era stata previamente e regolarmente autorizzata
dal Ministero ai sensi dell’ art. 26 D.P.R. n. 309/90 (Coltivazione di canapa a
scopi sperimentali).
La raccolta delle piante è stata effettuata il 18/10/2004. Le piante raccolte sono
state essiccate in una stanza oscura con valori di temperatura ed umidità
controllati e costanti. Dopo 10 giorni, allorquando le biomassa presentavano una
umidità residua pari a circa il 20 %, è stato effettuato il campionamento del
materiale vegetale ed eseguite le varie rilevazioni biometriche (altezza, diametro
e biomassa complessiva ripartita nelle singole componenti: fusti, foglie + fiori,
distintamente per singola pianta).
Il campionamento del materiale vegetale per effettuare la gas-cromatografia è
stato effettuato adottando il seguente protocollo:
- prelievo di circa 0,5 g dall’apice fiorale principale di ogni pianta;
- macinazione e omogeneizzazione dei campioni fino ad ottenere un materiale
vegetale in polvere così da aumentare la superficie di contatto con il
solvente di estrazione e la sua conseguente efficienza estrattiva;
- pesatura di 80 milligrammi di materiale vegetale e stoccaggio in Vial da 4
mm.
Determinazione del contenuto in cannabinoidi
L’estrazione dei cannabinoidi dagli 80 mg è stata effettuata utilizzando come
solvente n-esano e come standard interno lo squalene; il solvente di estrazione è
stato preparato per tempo e conservato in frigorifero; ad ogni litro di n-esano è
stata aggiunta una quantità di 0,1 grammi di squalene in modo da avere una
concentrazione di quest’ultimo pari al 0,01 %.
Ad ogni campione sono stati aggiunti 4 mm di solvente d’estrazione, e i Vial
sono stati richiusi immediatamente onde evitare l’evaporazione o la possibile
contaminazione.
L’estrazione è stata effettuata con la disposizione dei campioni in bagno ad
ultrasuoni per 15 minuti ed a una temperatura di 60 °C. Successivamente i
campioni sono stati lasciati a temperatura ambiente per un tempo sufficiente a
riportare la temperatura ai valori ambientali.
66
1 ml dell’estratto vegetale è stato posto in provette da 1,5 ml e sottoposto a
centrifugazione per 10 minuti alla velocità di 4.000 giri per minuto, in modo da
separare la frazione liquida da quella solida.
Le fasi di estrazione e di analisi di gas-cromatografia sono state eseguite
seguendo i metodi ufficiali UE (Reg. 796/2004).
L’apparato di gas-cromatografia utilizzato è un Chrompack CP 9001, abbinato ad
un integratore-rilevatore Shimadzu CR6A.
È stato utilizzato il rapporto di splittaggio 1:30 ed il programma 4 con le seguenti
impostazioni:
- T. forno= da 240 °C a 300 °C con il seguente profilo: 240 °C stabile (2
minuti); fase di separazione da 240 °C a 270 °C (3 minuti, incremento 10
°C/minuto); 270 °C stabile (2 minuti); fase di separazione da 270 °C a 300
°C (3 minuti, incremento 10 °C/minuto); 300 °C stabile (5 minuti); fase di
raffreddamento da 300 °C a 240 °C (tempo più veloce di raffreddamento);
240 °C stabile (1 minuto);
- T. iniezione=320 °C;
- T. rilevazione=320 °C;
- Gas elio: 2,8 bar;
- Gas idrogeno: 1,8 bar;
- Aria: 1,5 bar.
Con tale programma di gas-cromatografia i picchi principali sono già ben
identificabili e ciò consente di effettuare un buon numero di analisi giornaliere.
Nello specifico delle nostre analisi i tempi di uscita in minuti dei cannabinoidi
sono stati: CBD=5,01; Δ9-THC=5,74; CBG=6,13.
I dati delle gas-cromatografie vengono letti direttamente da un rilevatore
collegato all’ apparato di gas-cromatografia, il quale stampa in cartaceo il
cromatogramma ed i valori caratteristici di ogni singolo campione.
67
“Prova 2”
Le piante utilizzate sono dei cloni derivati da due piante madri (E1 ed E7)
selezionate per l’elevato contenuto in CBD. La sperimentazione è stata effettuata
presso l’Istituto Sperimentale Colture Industriali Sezione Operativa Periferica
Rovigo, in una piccola serra su di un bancale di metri 4 x 1,60 (6, 40 m2). I
substrati ed i concimi utilizzati per tale prova sono gli stessi utilizzati per la
“Prova 1”, così come i prodotti coadiuvanti. In data 4/10/2004 le progenie clonali
E1 ed E7 (24 e 44 piante rispettivante) sono state travasate in vasi da 2 litri
(dimensioni 12 x 12 x 20 cm).
La disposizione dei cloni sul bancale è avvenuta con la composizione di 12 file,
di cui 4 file E1 (ogni fila una tesi con 6 cloni) e 8 file E7 (una fila con 6 ed una
fila con 5 cloni per tesi). I cloni sono stati mantenuti ad una distanza di circa 20
cm sulla fila e 20 cm tra le fila, ed opportunamente movimentati durante l’intera
fase colturale lungo le fila della tesi di appartenenza.
Data la breve durata del giorno (11-12 ore di luce giornaliera) nella fase di avvio
della prova, il bancale è stato dotato di 6 lampade equamente distanziate (ad una
altezza di circa 1,50 metri dalla superfice del bancale) in grado di aumentare la
durata della fase luminosa, ed evitare una precoce induzione fiorale. Il periodo di
“fotoperiodo lungo” (18 ore complessive di luce, di cui circa 12-11 ore di luce
naturale e 6-7 ore di luce artificiale) è stato mantenuto dal travaso fino al
2/11/2004 (data in cui i cloni avevano raggiunto dimensioni tali da consentire
una buona fioritura), per poi essere seguito da una fase a fotoperiodo corto (circa
11-10 ore di luce naturale) fino alla raccolta.
Dall’inattivazione dell’illuminazione artificiale alla comparsa dei primi abbozzi
fiorali sono passati circa 7 giorni; in data 12/11/2004 tutti i cloni hanno iniziato a
differenziare abbozzi fiorali. I cloni E1 hanno mostrato una maggiore precocità
di induzione rispetto ai cloni E7 (un giorno circa).
Durante la fase vegetativa le piante sono state sostenute con sottili canne di
bambù a cui le piante venivano gradualmente legate per mezzo di una legatrice.
I quantitativi di elementi nutritivi complessivamente distribuiti per vaso,
distintamente per ciascun trattamento, sono riportati nella seguente tabella:
Tab. 2.2: Elementi nutritivi complessivi distribuiti (g per vaso), distintamente per
trattamento applicato.
Trattamento N totale P2O5 K2O CaO MgO
T1
0,162
0,039 0,042 0,045 0,053
T2
0,322
0,460 0,410 0,480 0,186
T3
0,333
0,386 0,718 0,030 0,147
T4
0,267
0,346 0,721 0,123 0,042
68
In analogia a quanto riporto per la prova 1, i substrati di tutte le tesi sono stati
mantenuti costantemente in condizioni d’umidità prossima alla capacità di campo
attraverso un impianto di d’irrigazione automatico.
A partire dalla quinta settimana è stato acceso il riscaldamento della serra così da
mantenere la temperatura minima al di sopra di 17 °C e consentire il
completamento del ciclo biologico.
La raccolta delle piante è stata effettuata il 14/1/2005, alla fase fenologica di
piena maturazione delle infiorescenze, e con una discreta produzione in acheni
vitali.
I dati rilevati e le relative metodologie adottate sono analoghe a quelle adottate
nella prova precedente, fatta eccezione per il rilievo sulle componenti della
biomassa delle singole piante, che in questo caso è stato eseguito ripartendo la
porzione epigeica in fusti, foglie e fiori.
Inoltre, al fine di acquisire informazioni sulle variazioni del contenuto in
cannabinoidi nelle foglie durante il ciclo biologico, è stata prelevata, in
coincidenza dell’inizio della fioritura e con cadenza di 15 giorni, da ciascuna
pianta, partendo dall’apice, la prima foglia completamente espansa, sulla quale è
stato determinato, adottando la metodica precedentemente descritta, il contenuto
di cannabinoidi.
I risultati ottenuti in ambedue le prove sono stati sottoposti all’analisi della
varianza secondo il modello sperimentale adottato; quando il test F è risultato
significativo (P≤0,05) è stato utilizzato il Fischer protected LSD per evidenziare
le differenze tra le medie.
69
Fig.2.4: Panoramiche del dispositivo sperimentale “Prova 2”
70
3. RISULTATI
Prova 1
Altezza - Nella fig. 3.1 sono riportati i valori medi dell’altezza delle piante di
canapa per effetto dei differenti “pacchetti di coltivazione” adottati. I valori più
elevati sono stati rilevati con l’utilizzo del substrato 3, sia con l’impiego di
concimi minerali che biologici (rispettivamente tesi T3 e T4); la tesi T2 ha
indotto una significativa riduzione della taglia delle piante mentre nel controllo
(T1) sono state rilevate altezze intermedie. I risultati negativi della tesi T2 vanno
presumibilmente collegati a carenze nutrizionali (prevalentemente azotate)
evidenziatesi nelle prime fasi del ciclo biologico (internodi raccorciati e foglie
clorotiche) e alla elevata concentrazione salina del substrato (la Ditta consiglia
infatti un abbondante drenaggio iniziale prima del suo utilizzo, azione da noi
omessa). Inoltre va evidenziato che carenze azotate sono state rilevate anche nel
controllo (T1) a partire dalla fase di fioritura concretizzatasi in una fillotassi
accentuata ed in estesi ingiallimenti fogliari.
Le linee inbred in prova hanno mostrato un’ampia variabilità per il carattere in
esame (differenze significative per P< 0,0001); infatti la taglia (fig. 3.2), in media
pari a 118 cm, è risultata compresa tra valori di poco superiori a 50 cm (linee 634
e 635) e di oltre 170 cm (linea 778).
Le linee in prova hanno mostrato stabilità di comportamento al variare del
pacchetto di coltivazione adottato (interazione non significativa).
Diametro del fusto - Risultati analoghi, per effetto dei trattamenti applicati, sono
stati rilevati a carico del diametro medio del fusto delle piante (fig. 3,3). Infatti, i
valori più elevati sono stati registrati nella tesi T3 (ø medio 0,56 cm) quelli più
bassi nella tesi T2 (ø medio 0,36 cm). È inoltre interessante rilevare come
l’analisi dei dati abbia evidenziato una correlazione positiva e significativa tra
taglia delle piante e diametro del fusto (r=0,60; P≤0,05).
Differenze significative sono state rilevate tra le linee in prova per il carattere in
esame (fig. 3,4); le linee 453 e 635 si sono caratterizzate per un diametro medio
inferiore a 0,3 cm, mentre 7 linee hanno fatto registrare un diametro superiore a
0,5 cm; il valore più elevato è stato ottenuto dalla linea 666 (ø medio 0,62 cm).
Anche in questo caso l’interazione linea x trattamento non ha raggiunto la
significatività statistica.
71
Biomassa - La produzione di biomassa epigeica complessiva è risultata pari ad
oltre 30 g per pianta nella tesi T3 (fig. 3.5); valori significativamente inferiori
sono stati rilevati nelle tesi T1 e T4 (26 e 28 g per pianta circa rispettivamente)
mentre, in analogia a quanto riportato per i parametri morfologici, il peso medio
per pianta più basso è stato riscontrato nella tesi T2. Tale parametro è, infatti
risultato correlato positivamente e significativamente con l’altezza (r=0,81;
P≤0,01) e con il diametro medio del fusto (r=0,78; P≤0,01). Analizzando le
singole componenti della produzione (fig. 3.7 e 3.9) è possibile evidenziare come
l’incidenza del fusto sulla biomassa complessiva sia risultata pari al 37% circa in
tutti i trattamenti applicati ad eccezione della tesi T2 dove sono stati riscontrati
valori pari al 28% circa. D’altra parte, nella tesi T2 carenze nutrizionali hanno
determinato, come detto, effetti depressivi nello sviluppo delle piante (internodi
raccorciati e foglie clorotiche).
Le linee inbred in prova hanno mostrato un’ampia diversificazione per
produttività sia complessiva che disaggregata nelle singole componenti (fig. 3.6,
3.8 e 3.10). La biomassa epigeica complessiva è risultata compresa tra valori
superiori a 37 g per pianta (linea 1098) ed inferiori a 10 g per pianta (linea 453).
L’incidenza del fusto è risultata di poco superiore al 20% nelle linee meno
produttive (linee 453 e 635, caratterizzate peraltro da un limitato sviluppo
diametrico del fusto) mentre valori superiori al 40% sono stati rilevate nelle linee
1098, 778 e 666, caratterizzate tutte da una produzione epigeica complessiva
prossima o superiore a 30 g per pianta.
Analogamente a quanto riscontrato per i caratteri biometrici, l’interazione
l’interazione linea x trattamento non ha mai raggiunto la significatività statistica.
Contenuto in cannabinoidi - I diversi “pacchetti di coltivazione” adottati hanno
determinato variazioni contenute, pur se significative all’analisi statistica, sul
contenuto in Cannabidiolo (CBD) nelle infiorescenze (fig. 3.11). I valori più
elevati, pari ad circa 2,17% sulla sostanza secca, sono stati registrati con
l’utilizzo del substrato 3 e con l’impiego di concimi biologici (tesi T4). Il
contenuto in CBD, negli altri trattamenti è risultato compreso tra 1,66% e 1,87%
(rispettivamente nelle tesi T1 e T3). Complessivamente i valori ottenuti sono
risultati inferiori a quelli attesi e ciò, come detto, va presumibilmente imputato
all’anticipo dell’epoca di raccolta (circa 15-20 giorni) rispetto al presunto
ottimale.
Al contrario è stata riscontrata una ampia e significativa variabilità nella
biosintesi e nel bioaccumulo del cannabidiolo tra le linee in valutazione (fig.
3.12), lasciando ipotizzare ampi margini di miglioramento, per il carattere in
questione, mediante appositi programmi di breeding; i valori rilevati sono infatti
72
risultati compresi tra 0,4% (linea 634) e 3,3% (linea 778). Nessuna relazione
significativa è emersa tra contenuto in CBD e parametri produttivi e morfologici.
Il contenuto in Δ9-THC, unico cannabinoide dei 60 prodotti dalla Cannabis
sativa, che induce effetti psicotropi, è risultato sempre estremamente basso (fig.
3.13); il valore più elevato è stato osservato, anche in questo caso con l’utilizzo
del substrato 3 e con l’impiego di concimi biologici (tesi T4; 0,075% s.s.). è
inoltre interessante rilevare come sullo stesso substrato l’impiego di fertilizzanti
minerali (T3) abbia condotto a valori significativamente inferiori (0,045% s.s.).
Nelle altre tesi sono stati riscontrati valori intermedi (0,051 e 0,058%,
rispettivamente nelle tesi T1 e T2).
Tra le linee in prova nessuna ha oltrepassato il limite di 0,2% s.s. di Δ9-THC
(fig. 3.14), soglia questa che discrimina una varietà da canapa da fibra da una per
droga ai fini della concessione del contributo. È inoltre interessante da rilevare
come in molte linee il contenuto in Δ9-THC sia risultato inferiore allo 0,1% s.s. e
come le linee 634, 635 e 666 siano risultate Δ9-THC esenti.
Inoltre, in accordo con quanto rilevato da Small e Beckstead (1973) è stata
riscontrata una stretta relazione tra CBD e Δ9-THC.
I diversi pacchetti di coltivazione non hanno influito in modo statisticamente
apprezzabile sul contenuto in Cannabigerolo (CBG), risultato compreso tra
0,26% e 0,36%, rispettivamente nelle tesi T1 e T3 (fig. 3.15). Le linee in prova
hanno presentato valori di CBG sempre inferiori a 0,2% (fig. 3.16), ad eccezione
delle linee 633, 634, 635 e 666; linee queste caratterizzate peraltro da bassi valori
in CBD ed esenti in Δ9-THC (ad eccezione della linea 633 che ne ha presentato
tracce).
Ciò può essere imputato alla totale assenza o inattività dell’ enzima specifico che
converte il CBG in Δ9-THC, ed una parziale presenza o attività di detto enzima
nelle linee a maggiore contenuto in CBD.
73
Prova 2
Come già illustrato la prova è stata finalizzata a valutare la risposta di due
progenie clonali al variare di alcuni aspetti dell’agrotecnica (substrato di
coltivazione e concimazione).
Caratteri morfologici – I risultati relativi agli effetti delle variabili agronomiche
adottate sull’altezza delle piante e sul diametro medio del fusto sono riportati
nelle fig. 3.17 e 3.18. Le migliori performance sono state ottenute con l’utilizzo
del substrato 3 con l’impiego di concimi minerali (tesi T3) e con il substrato
costituito da fibra di cocco associato a formulati nutritivi specifici forniti dalla
ditta produttrice (tesi T2). In quest’ ultimo caso i risultati appaiono in netto
contrasto con quanto ottenuto nella prova 1, e vanno presumibilmente collegati
alle maggiori dosi di concime azotato somministrato durante la fase iniziale del
ciclo biologico e al corretto trattamento del substrato prima del trapianto
(lavaggio dilavante, omesso nella prova 1). Valori significativamente inferiori
sono stati ottenuti nelle tesi T1 (torba + concimi minerali) e T4 (substrato 3 +
concimi specifici biologici), trattamenti questi caratterizzati dai minori apporti
azotati complessivi. I vantaggi offerti dall’incremento delle disponibilità azotate
(naturali o da concime) sulle rese e sui parametri biometrici delle piante, in
prevalenza da fibra, erano già stati evidenziati in precedenti ricerche (Amaducci
et al., 2002; Di Candilo et al., 1996).
Relativamente ai genotipi in prova, la progenie clonale E7 ha fatto registrare una
maggiore taglia ed un maggiore sviluppo diametrico del fusto rispetto alla
progenie clonale E1, con differenze sempre significative all’analisi statistica.
Biomassa epigeica e sue componenti – I trattamenti applicati hanno determinato
sulla produzione di biomassa epigeica complessiva per pianta (fig. 3.19) effetti
analoghi a quelli descritti per i caratteri morfo-strutturali; ad eccezione della tesi
T4 che ha fornito rese superiori a quelle della tesi T1 (andamento opposto era
stato rilevato per l’altezza ed il diametro del fusto). Appare inoltre interessante
evidenziare come le produzioni medie per pianta siano risultate sensibilmente
inferiori a quelle registrate nella Prova 1 (11,5 vs 25,7) nonostante le piante di
canapa abbiano presentato nelle due prove analoga taglia e sviluppo diametrico
del fusto. Le differenze osservate vanno certamente collegate alla diversa entità
delle ramificazioni riscontrata nelle due prove (piante abbondantemente
ramificate nella Prova 1 e monostelo nella Prova 2) determinata dalla differente
distanza tra i vasi (maggiore nella Prova 1).
I trattamenti applicati, tuttavia, hanno determinato variazione consistenti sulle
componenti della produzione (fig. 3.20, 3.21 e 3.22); infatti, mentre l’incidenza
74
percentuale dei fiori sulla biomassa complessiva non è variata in maniera
apprezzabile tra i diversi trattamenti (range compreso tra 24 e 27% circa), nella
tesi T1 l’incidenza percentuale del fusto è risultata marcatamente più elevata
rispetto a quanto osservato negli altri trattamenti (37% vs. 28% in media altre
tesi). Ovviamente a ciò hanno corrisposto analoghe differenze nell’incidenza
percentuale delle foglie. Tale risultato va attribuito agli effetti depressivi indotti
da carenze azotate determinatesi nella tesi T1, che si sono concretizzate in un
limitato sviluppo dell’apparato fotosintetizzante.
Nessuna differenza apprezzabile statisticamente è emersa tra le due progenie in
prova in termini di biomassa epigeica sia complessiva che ripartita nelle singole
componenti.
Contenuto in cannabinoidi – Come già detto, il protocollo di questa prova ha
previsto l’uso di cloni monochemiotipici con elevato contenuto in CBD e bassa
presenza di Δ9-THC e CBG.
Il contenuto in CBD nei fiori è variato significativamente in rapporto ai
trattamenti applicati (fig. 3.23). Sono stati osservati valori compresi tra 3,6% e
4,8% (rispettivamente nelle tesi T2 e T1). Il contenuto % in CBD si è ridotto
progressivamente all’aumento della produzione di fiori per pianta; è stata infatti
rilevata una relazione altamente significativa tra i due parametri (fig. 3.24). Tale
risultato è in accordo con quanto riportato da Krejci (1970), Coffman e Genter
(1975) e Bòcsa et al. (1997) i quali hanno riscontrato come il contenuto in
cannabinoidi sia negativamente correlato con la disponibilità di nutrienti nel
suolo; gli stessi autori hanno anche evidenziato che gli stress abiotici in genere,
deprimendo l’accrescimento, influiscono indirettamente e positivamente
sull’accumulo dei cannabinoidi; nella nostra sperimentazione i valori percentuali
in CBD più elevati sono stati riscontrati, come detto, nella tesi T1, trattamento
questo caratterizzato dai più bassi quantitativi di elementi fertilizzanti
somministrati.
Tuttavia l’incremento percentuale in CBD osservato nella tesi T1 non ha
compensato la minor produzione di fiori per pianta; infatti dall’analisi della fig.
3.24 si evidenzia come il quantitativo complessivo di cannabidiolo prodotto per
pianta sia risultato in questa tesi (0,09 g/pianta) marcatamente inferiore rispetto a
quello osservato negli altri trattamenti, che peraltro hanno mostrato variazioni nel
complesso contenute (range 0,12-0,13 g/pianta).
Relativamente ai genotipi in prova, la progenie clonale E7 ha presentato un
contenuto medio di cannabidiolo statisticamente superiore (4,5%) rispetto a
quello rilevato nella progenie clonale E1 (3,5%).
I contenuti in CBG e Δ9-THC (fig. 3.25 e 3.26) sono risultati, come atteso,
sempre estremamente modesti (in entrambi i casi prossimi a 0,1%) pur se sono
75
emerse differenze significativamente apprezzabili per effetto delle variabili
agronomiche adottate.
Nelle fig. 3.27 e 3.28 sono riportate le variazioni del contenuto % in CBD e Δ9THC nelle foglie durante il ciclo biologico; per entrambi i cannabinoidi, dopo un
iniziale incremento dei valori percentuali, sono state osservate progressive
riduzioni con andamenti analoghi per effetto delle variabili agronomiche
adottate. Ciò è presumibilmente collegato ai processi di senescenza delle foglie
in accordo con quanto rilevato da Turner et al., (1980 e 1985) e Bòcsa et al.
(1997). Un’altra spiegazione potrebbe risiedere nell’esistenza di possibili
processi di traslocazione di tali composti dalle foglie ai fiori; tali ipotesi tuttavia
dovrebbero trovare conferma attraverso l’avvio di apposite ricerche.
76
4. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
L’attività di ricerca condotta (Prova 1) ha consentito di acquisire informazioni
sulle principali caratteristiche di 20 linee inbred di canapa e di valutarne il
comportamento in termini di parametri biometrici e, sopratutto, di concentrazioni
% in cannabinoidi, al variare di alcuni aspetti dell’agrotecnica.
È stata riscontrata un’ampia variabilità tra le linee in esame, che peraltro hanno
mostrato una notevole stabilità di risposta al variare dei trattamenti applicati
(interazione non significativa). È stato così possibile selezionare 4 linee (778,
1098, 1100 e 1101) più stabili nel profilo chemiotipico e più interessanti per la
produttività in CBD; inoltre è stato possibile individuare 2 linee (634 e 635)
caratterizzate da elevato contenuto percentuale di Cannabigerolo (CBG).
Da notare che mentre le linee ad alto o medio contenuto in CBD hanno fatto
rilevare una certa presenza (seppur contenuta) in Δ9-THC, le linee CBG sono
risultate Δ9-THC esenti. Ciò può essere imputato alla totale assenza o inattività
dell’enzima specifico che converte il CBG in Δ9-THC, ed una parziale presenza
o attività di detto enzima nelle linee a maggiore contenuto in CBD.
Relativamente alla prova 2, nella quale è stata valutato il comportamento di due
progenie clonali selezionate da piante madri monochemiotipiche a profilo CBD,
è emersa la maggiore produttività del clone E7 che si è caratterizzato per un
contenuto medio di cannabidiolo (4,5%) statisticamente superiore rispetto a
quello rilevato nella progenie clonale E1 (3,5%). I contenuti in CBG e Δ9-THC
sono risultati, come atteso, sempre estremamente modesti (in entrambi i casi
prossimi a 0,1%) pur se sono emerse differenze significativamente apprezzabili
per effetto delle variabili agronomiche adottate.
Le linee selezionate in entrambe le prove saranno utilizzate in successive fasi di
selezione e di miglioramento genetico. Infatti, l’individuazione di linee
monochemiotipiche con contenuto in Δ9-THC ridotto o nullo, rappresenta
certamente il presupposto essenziale affinché sia concessa l’autorizzazione a
produrre estratti naturali di cannabinoidi non psicotropi ad azienda farmaceutiche
italiane e far sì che possa avviarsi anche nel nostro Paese la sperimentazione
clinica sull’uso dei cannabinoidi, psicotropi e non, al fine di consentire il sollievo
sintomatico ed il miglioramento della qualità della vita dei pazienti che non
traggono uguali benefici dalle terapie attualmente riconosciute.
Il lavoro svolto nelle due prove ha messo in evidenza una significativa variabilità
nella biosintesi e nel bioaccumulo dei cannabinoidi, ed anche dei vari parametri
biometrici, al variare del “pacchetto di coltivazione” (substrato + concimazione).
I più alti livelli di concentrazione % in cannabinoidi si sono ottenuti con i
“trattamenti” caratterizzati da un limitato apporto di elementi fertilizzanti,
evidenziando, a conferma da quanto ottenuto in precedenti sperimentazioni, che
77
gli stress abiotici in genere, deprimendo l’accrescimento, influiscono
indirettamente e positivamente sull’accumulo dei cannabinoidi. Infatti, i risultati
indicano con chiarezza che il contenuto percentuale in CBD si riduce
progressivamente all’aumento della produzione di fiori per pianta.
Infine, dal confronto tra le tesi T3 e T4, caratterizzate da uguale substrato ma da
differenti tipologie di concime utilizzato, rispettivamente minerale ed organico,
emerge come l’impiego di fertilizzanti organici determini incrementi nella
concentrazione % in cannabinoidi e riduzioni significative di resa; tuttavia, la
produzione in CBD per pianta, calcolata sulla base dei due parametri citati, non è
variata in modo significativo tra i due trattamenti. Tale risultato rappresenta un
buon presupposto per l’adozione di modelli di coltivazione biologica della
canapa per usi terapeutici.
La ricerca ha inoltre messo in evidenza un graduale decremento delle
concentrazioni percentuali in cannabinoidi nelle foglie con il progredire della
fase riproduttiva; ciò è presumibilmente collegato ai processi di senescenza delle
foglie ma potrebbe anche essere legato a processi di traslocazione dei metaboliti
verso le infiorescenze. Tale aspetto meriterebbe ulteriori approfondimenti
sperimentali.
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