Guida al Parco di Villa Torelli Mylius

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200 ANNI
1816-2016
GUIDA AI PARCHI CITTADINI
06 PARCO DI VILLA
TORELLI MYLIUS
“Achille Cattaneo”
ASSESSORATO ALL’AMBIENTE E VERDE URBANO.
Area XI Attività Verde Pubblico
La presente collana è stata curata dai tecnici dell’Attività Verde Pubblico del Comune di Varese Dott.
For. Chiara Barolo, Arch. Lorenza Castelli, Dott. Agr. Ilaria Merico, Dott. For. Pietro Cardani.
Si ringrazia Silvia Motta per l’attività di ricerca bibliografica riguardante la mitologia degli alberi svolta
durante il periodo di servizio di leva civica regionale.
PRESENTAZIONE
Cari Varesini e cari turisti,
Un ringraziamento al Geom. Michele Giudici dell’Area IX - Ufficio Sistema Informativo Territoriale.
Riferimenti bibliografici
• Botanica Forestale – Volume Primo e secondo – Romano Gellini e Paolo Grassoni – Cedam Padova
1997;
• Cottini P. - “I Giardini della Città Giardino” – Edizione Lativa – dicembre 2004;
• Sulla Condizione dei Parchi Pubblici della Città di Varese – Tomo I-II-III-IV a cura del Prof. Salvatore
Furia – 1978- Atti in possesso del Comune di Varese - Attività Verde pubblico .
• Mitologia degli alberi – Dal giardino dell’Eden al legno della Croce, Jacques Brosse – BUR Rizzoli
Saggi, 1991 R.C.S. Libri & Grandi Opere S.p.A. Milano;
• La Natura ed i suoi simboli – Piante, fiori e animali – Lucia Impelluso - Dizionari dell’Arte Edizioni
Varese è la nostra città-giardino. E come poterla scoprire meglio se non con
queste guide e mappe, molto comode e pratiche?
I parchi sono un bene prezioso che negli ultimi anni abbiamo preservato e
cercato di migliorare, anche ampliandone gli spazi verdi.
Varesini e turisti hanno la possibilità di scoprirne la ricchezza, dal patrimonio
arboreo e botanico alle peculiarità architettoniche presenti nei giardini principali.
Non mancano le info turistiche per raggiungere i sei parchi cittadini.
Palazzo Estense e Villa Mirabello, Villa Toeplitz, Villa Augusta, Castello di Masnago,
Villa Baragiola e Villa Mylius: le guide passano dai cenni storico-artistici alla
descrizione e al posizionamento, con le mappe, degli alberi monumentali.
Grazie al lavoro attento dell’assessorato al Verde pubblico, le guide sono state
ampliate e ristampate.
Non mi resta che augurarVi un buon giro all’aria aperta accompagnato da
un’ottima lettura.
Il Sindaco di Varese
Attilio Fontana
Cari tutti,
Della stessa collana
Giardini Estensi e Parco di Villa Mirabello
Parco di Villa Augusta
Parco del Castello di Masnago (Mantegazza)
Parco di Villa Baragiola
Parco di Villa Toeplitz
Progetto grafico e impaginazione: Magoot Comunicazione Costruttiva - www.magoot.com
Stampa: Bosetti Group S.r.l. - Gorla Maggiore (VA) - Maggio 2016
In questo 2016, anno del Bicentenario dell’elevazione di Varese a Città, è un
piacere avere l’opportunità di presentare al pubblico i libretti della collana,
“Guide ai Parchi Cittadini” quale contributo per testimoniare la bellezza e la
ricchezza della Città Giardino.
Nelle guide si trovano aneddoti e cenni della storia delle famiglie che hanno
creato questi parchi meravigliosi, che li hanno vissuti e che ce li hanno tramandati.
Si trovano le descrizioni degli alberi autoctoni, di quelli esotici, dei più rari e più
preziosi, oltre ai bellissimi alberi monumentali, tanto amati dalla Città, e alcuni
vero e proprio simbolo Bosino.
I Giardini sono Storia e Cultura insieme; rappresentano l’essenza della capacità e sensibilità degli uomini di plasmare il territorio nel rispetto della Natura
dei luoghi, con l’obiettivo di poter godere appieno delle meraviglie che offre.
Sono parchi pubblici, sono di tutti: ad ognuno di noi, quindi, il diritto di goderne
appieno delle bellezze che offrono, ma anche il dovere di rispettarli e averne
cura, per il presente, per il futuro.
L’Assessore al Verde Pubblico e Tutela Ambientale
Riccardo Santinon
CENNI STORICI
L’origine del compendio Villa e Parco TorelliMylius, oggi dedicato ad “Achille Cattaneo”,
può agevolmente essere fatta risalire al XVIII
secolo attraverso l’esame dei documenti catastali. Intorno al 1720-30 il luogo risultava appartenere in massima parte all’istituzione religiosa dei Padri Gesuiti di Varese. Qui
campeggiavano due porzioni di edificio accostate (“sito di casa” e “casa da massaro con
orto”) collocate in corrispondenza del nucleo
originario della villa. La parte rimanente apparteneva alle Monache di S. Maria del Monte
con lotti suddivisi fra altre proprietà private.
L’area circostante, che attualmente ricade
all’interno dell’attuale perimetro del parco, era
destinata per lo più a prato con coltivazione di
vigneti e gelsi. Dopo il 1773 l’ordine religioso
fu espropriato della proprietà che passò così
alla famiglia Torelli. Nei primi anni del 1800 il
modesto edificio fu ampliato e destinato, al
piano terreno, a filanda. Nel 1861, sulle cartografie catastali, risultava infatti identificato in
parte come “casa colonica” e parte come
“casa di villeggiatura”. Nel 1905 la proprietà
dell’ing. Enea Torelli passò al cav. Carlo Giorgio Mylius, industriale della tessitura. Il nuovo
proprietario provvide ad un definitivo abbellimento della villa che figura nelle tavole catastali come “edificio urbano”, ma meglio descrivibile come “villa di Delizia”. Alla morte del cav.
Mylius la proprietà passò ad una cospicua
schiera di eredi che, nel 1946, la vendette
all’industriale Achille Cattaneo, il quale vi ap-
portò ulteriori trasformazioni. Risale infatti ai
primissimi anni della seconda metà del ‘900
la realizzazione, in aggiunta al corpo centrale,
dell’elegante porticato, sormontato da terrazzo con balaustra. Gli accurati disegni allegati
all’istanza vennero infatti inoltrati all’Amministrazione comunale da parte del cav. Achille
Cattaneo nel 1950. I parterres attualmente
presenti sulla terrazza e la relativa fontanella
centrale sono invece riconducibili ad un’epoca
compresa tra il 1907 ed il 1934, come documentato dalla cartografia aerofotogrammetrica e dalla documentazione fotografica anteriore a tale periodo. Queste mostrano un
terrazzamento sostanzialmente diverso dalla
situazione attuale, senza parterre e con balaustre classiche sormontate da statue. Non v’è
purtroppo più traccia degli “splendidi parterres graziosamente guarniti di superbe aiuole
fiorite, nelle quali sono ben armonizzati i colori” come composti dal capo giardiniere Alessandro Motta e segnalati dal Bollettino della
Società Orticola Varesina nel 1913. Il parco
posto alla base del colle dei Miogni Inferiori
“[…] non teme confronti sia per quanto attiene
la superficie sia per la sapiente distribuzione
delle aree ornamentali e delle imponenti alberature”( Cottini Paolo, “I Giardini della Città
Giardino”, Edizione Lativa, pag. 77): trattasi
infatti di 78.000 mq dei quali ben 64.750 di
superficie a verde. In particolare il giardino
paesaggistico-romantico che vediamo ora è
pressoché il risultato della ristrutturazione
commissionata nei primi anni del ‘900 dal
Mylius per modificare i preesistenti appezzamenti rurali a prati da foraggio, viti e gelsi per
l’allevamento dei bachi da seta della famiglia
Torelli. Tutt’oggi è ancora apprezzabile il disegno del paesaggista milanese marchese Achille Majnoni d’Intignano (1855-1933): rimangono le ampie distese prative esaltate da masse
arboree di conifere esotiche e latifoglie mediterranee od ornamentali. Sapientemente spaziati troviamo individui adulti di faggi, platani,
sughere e lecci del Mediterraneo, sophore
giapponesi, cedri dell’Himalaia, del Libano e
del Marocco, sequoie e tsughe americane, falsi cipressi, pecci del Caucaso e di montagna,
pini silvestri, il famoso Ginkgo biloba, ovvero
tutte quelle specie diffusamente presenti anche nei parchi pubblici varesini. Pregevolissimi
anche residuali esemplari di autoctoni castagni e secolari carpini bianchi nella zona a selva in fregio alla via Crotti, oltre a due esemplari di rovere preesistenti alla trasformazione
paesistica ornamentale di quello che fu un
grande appezzamento agricolo produttivo. Alla
base del pianoro che sorregge la Villa oltre un
centinaio di palme Liberty della Manciuria ci
ricordano la mitezza del clima insubrico. Sul
compendio è stato imposto con D.M. del 1°
giugno 1953 il vincolo di notevole interesse
pubblico per la protezione delle bellezze naturali, ai sensi della L. 1497 del 29.06.1939,
“perché la pregiata vegetazione arborea di
detto immobile dona alla località una nota paesaggistica di non comune bellezza”. Lungo
viale Aguggiari, e lungo la via Fiume, in seguito
a ricorso amministrativo sul provvedimento di
apposizione del vincolo statale, vi sono state
alcune lottizzazioni che hanno ridotto l’ampiezza originaria del parco Mylius a partire dagli anni ’70. La realizzazione, sulla sommità
del colle dei Miogni retrostante la villa, di una
piscina con sottostante locale tecnico e relativi servigi igienici e spogliatoi si presuppone
risalga a metà del ‘900 in sostituzione di una
rettangolare pre-esistente. Si legge, infatti,
sulla stampa dell’epoca che a partire dal ’52
si iniziò a costruire alle spalle della villa una
piscina a forma d’albero, benché nella cartografia del Nistri del ’53 ancora non figuri. La
documentazione conservata presso l’archivio
privato di Pietro Porcinai testimonia inequivocabilmente la paternità dell’intervento. Ciò è
documentato tanto dalla firma degli elaborati
grafici di progetto, quanto dalla corrispondenza intercorsa, tra il 1951 ed il 1955, tra il paesaggista ed il cav. Achille Cattaneo. Risale
infatti al 14 febbraio 1951 la lettera con cui
Pietro Porcinai scrive al Comm. Achille Cattaneo dichiarandosi “lietissimo” di “sistemare il
parco della Sua villa”, su suggerimento del
Cav. del Lavoro Silvio Mazzucchelli (proprietario di villa San Pedrino). Riporta la data del 7
aprile 1952 il disegno della piscina, che corrisponde quasi totalmente all’attuale stato di
fatto, dove sono espressamente indicate le
vasche circolari interne per l’allocazione delle
piante acquatiche. Un anno più tardi la piscina
doveva presumibilmente essere in fase di avvio, in quanto in una lettera del maggio ’53
vengono inviati al Comm. Cattaneo ulteriori
otto “disegni relativi alla zona piscina”; nel luglio dello stesso anno il collaboratore di Porci-
nai, l’arch. Enzo Vannucci, fa espresso riferimento ai lavori di costruzione dell’impianto di
depurazione. Il trampolino pare invece essere
un ‘pezzo unico’, appositamente disegnato dal
Porcinai per villa Mylius, visto che viene
espressamente indicato come “originalissimo” nella lettera del 1° luglio 1953 e poi realizzato su dettagliato disegno nel maggio
1954. Il progetto ideato dal Porcinai non era
tuttavia limitato all’ampliamento della piscina
nella conformazione odierna, ma ha riguardato tutta la sistemazione dell’area sulla collinetta: “livellamento generale”, realizzazione
dei lastricati in pietra e del piazzaletto (a pezzi
rettangolari, trapezoidali, e a dischi difformi
posti in alternanza), realizzazione del fabbricato ad uso spogliatoi con il pergolato in elementi prefabbricati, arredamento del bar, progettazione del locale depurazione e realizzazione
dei relativi impianti. Il 30 maggio del 1955
l’intero progetto risulterebbe ultimato, ad eccezione “del giardinaggio ancora incompleto” e
della doccia esterna. Ancora al giorno d’oggi
non risultano tracce dei previsti impianti di illuminazione della vasca e del giardino, di irrigazione a pioggia e del “toboga”, contemplati
invece nei vari documenti. Nella parte meridionale del parco, invece, ad un fabbricato accessorio documentato sin dal 1934 si sono aggiunti, intorno agli anni ’80, per quanto
desumibile dalla comparazione della documentazione cartografica disponibile, il campo
da tennis e gli attigui servizi igienici, nonché il
definitivo abbandono dell’accesso da via Botticelli, di recente riattivato dall’Amministrazione
comunale. Come in molti parchi urbani di Vare-
se è rilevata anche una preziosa componente
faunistica che ispira i criteri progettuali. Le
scelte prendono in considerazione anche la
presenza dei roditori scoiattolo (Sciurus vulgaris), ghiro (Glis glis), quercino (Eliomys quercinus), moscardino (Muscardinus avellanarius),
topo selvatico (Apodemus sylvaticus), oltre a
insettivori come il riccio (Erinaceus europaeus),
il toporagno comune (Sorex araneus), la talpa
(Talpa europea), la crocidura (Crocidura russula) e dei chirotteri quali il pipistrello serotino
(Eptesicus serotinus). Non si esclude la presenza della civetta (Athene noctua), del gufo
comune (Asio otus), dell’allocco (Strix aluco)
mentre certa è quella delle comuni cince (paridi), pettirosso (turdide), fringuello e verzellino
(fringillidi); ed ancora della ghiandaia, dell’upupa (upupide), del picchio muratore (sittide) e
del picchio verde e del torcicollo (picidi). Nel
dicembre 2007 l’intero complesso è stato donato al Comune di Varese da parte della Fondazione Cattaneo, con la precisa imposizione
di destinare gli immobili a sede “per la promozione e lo svolgimento di attività culturali, museali, congressuali, di formazione, di ricerca,
di studio”, ed il parco a “parco pubblico, con
l’obbligo di intitolarlo ad Achille Cattaneo”. Dal
2008 il Comune di Varese cura la manutenzione e sta predisponendo le attrezzature del
parco per soddisfare le esigenze dei sempre
più numerosi frequentatori.
DESCRIZIONE BOTANICA
1. ABETE ROSSO o PECCIO
*Fam. Pinaceae
Picea abies (L.) Karst. (= P. excelsa (Lam.)
Link)
Originario del Nord Europa vive normalmente
oltre i 1000 m. Il nome latino è dovuto alla
quantità di resina prodotta, infatti in passato
da essa si ricavava pece. Albero che in condizioni ottimali può superare i 50 m d’altezza, dalla corteccia brunastra, ha rami regolari
coperti da una chioma verde scura e a profilo
piramidale. Gli strobili (pigne) sono sempre rivolti verso il basso e, rilasciati i semi, cadono
al suolo ancora interi, gli aghi sono disposti
all’intorno dei rami; queste caratteristiche lo
distinguono dall’abete bianco, con aghi disposti a pettine e strobili rivolti verso l’alto che
si decompongono giunti a maturazione. L’apparato radicale si sviluppa orizzontalmente, è
quindi superficiale, e ciò spiega come la pianta
possa essere facilmente sradicata dai venti
forti. Questa specie ha un grosso impiego in
ambito forestale e tecnico, perché il suo legno
è di ottima qualità e tenero; se proveniente
da alberi vecchi di oltre 200 anni, grazie alle
sue eccezionali proprietà di risonanza, viene
utilizzato nella costruzione di casse armoniche
per gli strumenti musicali (i violini Stradivarius
sono costruiti in Abete rosso di Paneveggio).
Dello stesso genere ma con areale disgiunto è
l’ABETE ROSSO DEI BALCANI o DI SERBIA
*Fam. Pinaceae - Picea omorika (Pančić)
Purkině, originario di Serbia e Bosnia, dov’è
sopravvissuto all’Era Glaciale, può raggiungere
i 30-35 m di altezza ma ha crescita piuttosto
lenta, coltivato per lo più a scopo ornamentale:
ha chioma molto stretta e portamento slanciato; a differenza delle altre piante appartenenti
al genere Picea presenta aghi appiattiti; i coni,
lunghi 2,5-5 cm, penduli, hanno grandi squame arrotondate, dapprima di colore porporino,
infine marrone scuro a maturità. Rispetto agli
altri pecci tollera maggiormente l’inquinamento urbano. Confuso molto spesso con l’abete
bianco, il peccio parrebbe non avere una personalità mitica propria. Sembra che nella Grecia
classica fosse dedicato ad Artemide, la Signora dell’albero, dea della vita selvatica, divinità
venuta dal nord ove l’abete rosso era considerato albero della nascita, divenuto, poi, il nostro
albero di Natale.
2. ACERO GIAPPONESE
*Fam. Aceraceae
Acer palmatum Thunb.
Acero originario del Giappone, molto diffuso
come pianta ornamentale, grazie soprattutto
alle foglie a 7 lobi molto incisi con margine
seghettato, che assumono, prima di cadere,
colorazione rosso intensa in autunno. Raggiunge i 4-5 m di altezza; ne esistono più di 300
cultivar: dagli esemplari nani adatti ai giardini
rocciosi agli alberi più o meno grandi con chioma allargata, con una grande varietà di forme
e colori per quanto riguarda le foglie.
3. ALLORO o LAURO
*Fam. Lauraceae
Laurus nobilis L.
Arbusto o alberello sempreverde, alto fino a 12
m, con foglie lanceolate od ovali, coriacee, di
colore verde scuro, lucide sulla pagina superiore, molto aromatiche; produce piccoli fiori
gialli a forma di stella all’ascella delle foglie,
seguiti da bacche ovali dapprima verdi e poi
nerastre. Diffuso intorno al Mediterraneo, fra
i boschi di leccio e di roverella. Nella Grecia
antica il lauro era considerato pianta sacra ad
Apollo, mentre i Romani lo adoperavano come
simbolo di successo. Si parla dell’alloro in un
racconto contenuto nelle Metamorfosi di Ovidio in cui è protagonista una ninfa, Dafne. Divinità minore che amava vivere libera e indipendente, percorrendo la solitudine delle foreste,
fu concupita da Apollo che, vantandosi di poter
sfuggire al potere di Eros, ne fu soggiogato e
si innamorò di Dafne. Insensibile verso l’amore del pretendente, la ninfa chiese al padre
Peneo di mutarla in un albero, l’alloro. Apollo,
non potendo averla in sposa, ne fece l’albero
a lui consacrato. Ritroviamo questo albero in
un avvenimento prodigioso riferito da Plinio.
La promessa sposa di Cesare Augusto, Livia
Drusilla, si vide cadere in grembo una gallina
di una sorprendente bianchezza, lasciata precipitare da un’aquila, senza che si ferisse. Nel
becco portava un ramoscello d’alloro carico di
bacche, evento prodigioso per cui gli aruspici
(sacerdoti dediti alla divinazione) ordinarono di
custodire l’animale e la sua prole, oltre che di
piantare il ramo e di vegliare su di esso. Fu
così che la casa di campagna dei Cesari prese il nome di Ad Gallinas (Alle Galline), luogo
in cui nacque un boschetto di allori. Da quel
momento l’alloro divenne la corona di Augusto
e così, dopo di lui, quella di tutti gli altri imperatori. Nel Medioevo l’alloro coronava i giovani
dottori che avevano discusso con buona riuscita la tesi: il termine “laurea” deriva proprio dal
nome della pianta, Laurus nobilis.
4. CARPINO BIANCO
*Fam. Betulaceae
Carpinus betulus L.
Albero alto 15-20 m, non particolarmente longevo in natura (150-200 anni). Ha fusto a se-
zione irregolare per la presenza di costolature
e corteccia grigia e liscia molto simile a quella
del faggio, foglie che in inverno rimangono a
lungo secche sulla pianta; sopporta bene le
potature e può essere sagomato a piramide, a
colonna, a pergolato come nei Giardini Estensi. Architetture vegetali tipicamente in carpino
erano i roccoli settecenteschi per l’uccellagione. È distribuito in tutta l’Europa centrale; in
Italia è presente su tutto l’arco alpino, in Liguria, Emilia e Toscana e meno frequentemente
nell’Appennino meridionale. Insieme alla farnia
(Quercus robur) costituiva la specie tipica del
bosco planiziale della pianura padana. Carpino
viene dal latino carpinus, derivato a sua volta
dal celtico car , legno, e pin o pen, testa, perché il carpino serviva un tempo a fare i gioghi
per animali da lavoro. Una delle poche leggende legate al carpino è la seguente: Astolfo,
re dei Longobardi, era solito andare a caccia
con il suo fedele falcone. Un giorno lo lanciò,
ma dopo poco l’animale scomparve in un fitto
bosco. Lo cercò in ogni luogo, ma senza successo. Decise, allora, di fare un voto: se lo
avesse ritrovato avrebbe fondato una città e
una chiesa dedicata alla Madonna. Dopo numerose ricerche lo vide appollaiato sul ramo di
un albero di carpino. In quel luogo fu fondata
la emiliana Carpi e fu eretta una chiesa alla
Madonna. Tipiche architetture vegetali composte di carpino sono i “berceaux” o “carpineti”
tipici dei giardini alla francese ove erano destinati a piacevoli passeggiate al riparo dal sole:
l’abbronzatura avrebbe, infatti, compromesso
il ricercato colorito madreperlaceo tipico della
nobiltà settecentesca. I camminamenti ombrosi che da Palazzo Estense salgono alla collina
modellata da 400 operai denominata “Castellazzo” o “Belvedere” furono disegnati dallo
stesso Duca Francesco III D’Este nel 1770 che
vi impiegò circa 4000 piantine di carpino bianco. Il mantenimento in sagoma del carpineto
richiede potatura annuale e sostituzioni periodiche degli alberi che via via muoiono, spossati
dalla mano dell’uomo. Altra celeberrima architettura vegetale composta dal carpino bianco
è il roccolo per l’uccellagione, architetture da
aucupio. L’origine dei roccoli pare sia da circoscrivere al territorio della Lombardia, durante
l’epidemia di peste diffusa nel corso del XVI
secolo per catturare con grandi reti stormi di
uccelli migratori, per lenire la carestia divampante. Il ‘roccolo’ avrebbe dunque avuto origine nel bergamasco (vedasi la tradizione culinaria popolare: polenta e osei), per poi diffondersi gradualmente, nei secoli successivi, in tutto
il nord Italia; furono gli uccellatori bresciani a
promuoverne la diffusione in Trentino e da lì,
fino all’area meridionale tedesca. Il ‘roccolo’ è
fondamentalmente composto da due elementi:
un’alberatura generalmente a forma circolare o
a ferro di cavallo (tondo), vario ed accogliente
per le diverse specie di volatili costituito generalmente da un doppio filare di carpino bianco
(altrove faggio, larice) resistente alle necessarie, numerose potature e con fogliame mantenuto anche in autunno/inverno; ed una costruzione a forma di torretta (casello) in posizione
preferibilmente elevata in funzione delle linee
di migrazione o delle aree di sosta dei volatili e
per individuare per tempo l’arrivo degli stormi.
5. CASTAGNO
*Fam. Fagaceae
Castanea sativa Mill.
Albero che assume portamento maestoso, con
chioma espansa e rotondeggiante quando ha
molto spazio libero intorno, alto mediamente 15-20 m, talora anche 30 m con 6-8 m di
diametro; è anche assai longevo potendo raggiungere e superare i 400-500 anni di età. Le
foglie, decidue, lunghe 12-20 cm, dai margini
dentati, sono ellittico-lanceolate con apice bre-
vemente acuminato, di consistenza coriacea e
di colore verde intenso; i fiori sono portati in
lunghi amenti, dal caratteristico e penetrante
odore emanato da quelli maschili. Il frutto è
racchiuso nel caratteristico riccio. L’areale originario è di difficile determinazione, in quanto il
castagno è stato coltivato fin dall’antichità, per
l’utilizzo del legno e del frutto: allo stato spontaneo lo si trova in un’ampia area gravitante
sul Mar Mediterraneo orientale, con limite settentrionale costituito dai Pirenei, dalle Alpi e
dal Caucaso. Se ne può ammirare uno monumentale sulle pendici dell’Etna, nel comune di
Sant’Alfio (Catania), a 700 m s.l.m. Nel tronco cavo di questo albero millenario era stata
ricavata una rientranza in cui, nel XVI secolo,
Giovanna d’Aragona, per sfuggire ad un temporale, si rifugiò sotto le sue immense fronde con
tutto il seguito e da allora prese il nome di “castagno dai cento cavalli”. Successivamente,
al suo interno, venne costruita una casettina
con un forno, alimentato coi pezzi della pianta stessa, per cuocerne i frutti; alla lunga un
simile trattamento lo danneggiò al punto che
l’enorme tronco si divise in tre.
6. CEDRO DELL’HIMALAYA
*Fam. Pinaceae
Cedrus deodara (Roxb.) G. Don
Cedro proveniente dall’Himalaya dove può raggiungere anche i 50 m di altezza; nel proprio
areale vive tra i 1000 e i 2800 metri di quota,
ma trova, all’interno dei parchi cittadini un ter-
prima della sepoltura del padre. Nel 1973 il
dendrologo inglese Hugh Johnson contò non
più di 400 esemplari nella foresta del Djebel in
Libano a 2000 metri di altitudine. I più grossi
esemplari presentavano una circonferenza di
15 metri raggiunti in 2500 anni. Il più grande
e monumentale esemplare varesino è radicato
al parco Mirabello. Impiantato nel 1859, all’età di 10 anni, pare in occasione della visita a
Varese del primo Re d’Italia Vittorio Emanuele
di Savoia, in “soli” 167 anni (1849-2016) ha
raggiunto una circonferenza di 10 m! Una curiosità: il catasto teresiano (1723-1756) indica
che prima del Cedro del Libano c’era un ronco
ad uso roccolo per l’uccellagione (si veda la
scheda relativa al carpino bianco).
reno fertile per il suo sviluppo. Questa pianta
ha, di solito, la punta piegata verso il basso,
e spesso anche le estremità dei rami sono
incurvate; si distingue dagli altri per gli aghi
lunghi 30-50 mm, piuttosto molli. Nell’idioma
locale è chiamato “deva-darà”, letteralmente
“l’albero degli dèi”, infatti è considerato sacro
nelle regioni di origine (Himalaya, Afghanistan
e Belucistan).
7. CEDRO DEL LIBANO
*Fam. Pinaceae
Cedrus libani A. Richard
Originario del Libano (dove ne sono rimasti pochissimi esemplari), della Cilicia e dei
Monti del Tauro (Turchia), questo cedro ha
fusto spesso policormico ed è di lento sviluppo, raggiunge notevoli dimensioni e aspetto
maestoso, con rami secondari a candelabro,
chioma verde cupo e cima spesso tabulare
negli esemplari adulti. I cedri universalmente
considerati più belli e spettacolari sono quelli
che si trovano in Libano, precisamente nella
Forest of the Cedars of God. Per la protezione
di questa pianta il governo libanese ha istituito tre aree protette: la riserva dei cedri dello
Shuf, la riserva di Horsh Eden e la riserva delle
foreste di Tannourine. Introdotto in Europa già
alla fine del XVII sec., in Italia i primi esemplari
furono piantati, nel 1787, nell’Orto Botanico
di Pisa. Nell’antico Egitto l’olio distillato dal
legno era utilizzato nell’imbalsamazione dei
defunti. Questo cedro è il simbolo dello Stato
Libanese ed è raffigurato al centro della bandiera nazionale. Lo straordinario prestigio del
cedro gli viene in gran parte dal fatto di essere spesso citato nella Bibbia; il suo legno
sarebbe servito nella costruzione del tempio
di Gerusalemme. Il versetto 1, 17 del Cantico dei cantici di cui sarebbe autore Salomone
così recita: “Gli assi della nostra casa sono
di cedro”, commentato dal filosofo Origene
d’Alessandria (II-III sec. d.C.) con le seguenti
parole: “Il cedro non marcisce; fare di cedro le
travi delle nostre dimore significa preservare
l’anima dalla corruzione”. Gli arabi hanno una
venerazione tradizionale per questi alberi: attribuiscono loro non soltanto la forza vegetativa
che li fa vivere eternamente, ma anche un’anima che consente loro di dar segni di saggezza,
di preveggenza, simili a quelli dell’istinto degli
animali e dell’intelligenza negli uomini. Di cedri
si parla in uno dei più antichi scritti conosciuti, l’Epopea di Gilgamesh, di origine sumerica;
l’eroe, in cerca dell’immortalità, un giorno deve
affrontare il mostro Khumbaba, a cui gli dèi
hanno affidato la custodia della foresta di cedri
che appartiene a loro; secondo gli orientalisti
questa doveva verosimilmente trovarsi sul M.
Amano tra la Siria e la Mesopotamia; questo
racconto attesta dunque che fin dalla più remota antichità i cedri furono votati agli dèi. Da
leggende medioevali pare che il ramo tenuto in
mano da Mosè per dividere le acque del mare
fosse del Cedro del Libano nato da un seme
posto nella bocca di Adamo da suo figlio Seth
8. CIPRESSO DI LAWSON o
DELLA CALIFORNIA
*Fam. Cupressaceae
Chamaecyparis lawsoniana (A. Murr.) Parl.
Albero originario della costa occidentale del
Nord America che può raggiungere notevoli
dimensioni nel suo areale naturale: 50 m di
altezza (in Europa 25 m) e 2 di diametro; è
anche assai longevo, potendo raggiungere età
di 500 anni. Dal portamento eretto piramidale
con cima arcuata e pendente, ha foglie squamiformi lunghe 1,5 mm, opposte e appressate
al ramo, strobili globosi di 8 mm di diametro
rosso-bruni a maturità, formati da 8-10 squame (che, una volta aperte, assomigliano a chiodi) ognuna contenente 2-4 semi alati. Adatto
a climi a elevata umidità atmosferica e piogge distribuite durante l’anno, con inverni miti,
molto resistente al vento. È detto anche “falso
cipresso” e ne esistono moltissime varietà ornamentali distinte per portamento (sono state
selezionate anche forme nane e prostrate), forma e colore della chioma.
9. CRIPTOMERIA o
CEDRO ROSSO DEL GIAPPONE
*Fam. Taxodiaceae
Cryptomeria japonica (L.f.) D. Don
Albero sempreverde alto fino a 40 m con chioma strettamente piramidale, di colore verde
lucente, piuttosto rada, con apice arrotondato; tronco colonnare, dritto con base allargata, nodoso, con corteccia rosso-bruna che si
squama in strisce longitudinali. Foglie aghiformi verdi, appiattite alla base, lunghe fino a
1,5 cm, appuntite ed incurvate verso l’esterno,
inserite a spirale tutt’intorno ai rametti, persistenti 4-5 anni. In inverno le foglie assumono
una colorazione scura per la formazione di pigmenti protettivi contro il freddo. Infiorescenze
maschili ovali di circa 3 mm, giallo-brunastre
all’ascella delle foglie, le femminili verdi all’apice dei rametti. Fiorisce in marzo. Coni rotondi
squamosi di circa 2 cm di diametro portati su
corti rametti rivolti verso l’alto, con 5-6 spine
per ogni squama.
10. FAGGIO
*Fam. Fagaceae
Fagus sylvatica L.
Albero che raggiunge i 30-35 m di altezza con
diametro anche superiore a 1,5 m; normalmente può vivere sino a 150 anni di età, ma in
circostanze particolarmente favorevoli può raggiungere anche 300 anni. La pianta si riconosce facilmente per la corteccia grigia e liscia,
le foglie ovali dal margine intero e leggermente ondulato di colore verde scuro a maturità e
rossastre in autunno; i frutti, detti faggiole, a
maturità si aprono in 4 valve liberando 2 semi.
Il faggio è una delle specie più importanti in
Italia sia per l’estensione dei suoi boschi sia
per l’uso del legno nell’industria del mobile,
nonché per la sua bellezza ornamentale; è
specie esclusiva dell’emisfero settentrionale
ed è presente in tutta Europa, dalla Spagna
all’Ucraina, fino alla Norvegia meridionale. Un
tempo si utilizzava la corteccia del faggio, febbrifuga e tonica, anche contro la dissenteria. Il
catrame del suo legno, distillato a secco, il creosoto, potente antisettico scoperto nel 1832
da Reichenbach, viene usato dall’industria
farmaceutica come disinfettante dei polmoni
nella composizione di molti sciroppi. La varietà
Asplenifolia, ornamentale, si caratterizza per le
foglie a margine molto inciso e lamina stretta;
il faggio pendulo, a differenza delle altre varietà, che si distinguono per il colore e la forma
delle foglie, si caratterizza per il portamento
del fusto e dei rami, eretto fino a una certa altezza e poi piangente; il faggio rosso ha foglie
di colore porpora al momento dell’emissione e
violetto scuro a maturità.
Nell’antica Roma l’esistenza di un quartiere
chiamato Fagutal, che ancora prima era stato un bosco sacro di faggi (secolo I a. C.), fa
pensare che in epoche remote il faggio fosse
oggetto di culto. Così, anche cento anni più tardi, all’epoca di Plinio, di fianco ad un faggio
sacro si trovava un tempio dedicato a Jupiter
Fagutalis (dal latino fagus). In Lorena e nelle
Ardenne lussemburghesi si credeva che non
ci fosse folgore che potesse colpire questo albero, cosa che lo metteva in contrapposizione
con la quercia e il frassino.
In un settore geograficamente limitato che
comprende la Francia orientale, la Svizzera e
la Baviera, la naturale apparizione di esemplari
dalle foglie porporine destava l’emozione popolare; si credeva fosse un segno di deplorazione divina per l’annuncio di feroci battaglie
o per il sangue versato di un delitto. Ancora
oggi, nella foresta di Verzy, in Francia, si possono ammirare dei vecchissimi esemplari di faggio i cui tronchi e i rami più bassi formano un
ammasso confuso di linee contorte e ritorte,
malformazioni dovute ad una presunta mutazione provocata dalla caduta di un meteorite
radioattivo, avvenuto moltissimo tempo fa. A
Terranova di Pollino, in Lucania, nel mese di
giugno si svolge la festa della Pita, rito arboreo
piuttosto antico celebrato in onore di Sant’Antonio da Padova. Nonostante Pita, nel dialetto
locale, designi il nome dell’abete, spesso è il
faggio a fare da protagonista. Si tratta della
rappresentazione rituale dell’unione tra due
piante, una di sesso maschile (solitamente un
abete o un faggio), l’altra di sesso femminile
(una “cima” generalmente sempreverde). Entrambe vengono tagliate e, mentre la “sposa”
viene doverosamente ornata con fiori e nastri,
il faggio “sposo”, viene pulito dai rami, dalla
corteccia e levigato. Il faggio e la cima vengono
poi innestati, a sigillare il loro “rudimentale”
matrimonio, simbolo arcaico di rigenerazione
della natura, auspicio di fertilità. In seguito
vengono innalzati e i più coraggiosi, a suon di
braccia, si dilettano nell’arduo tentativo di raggiungere la cima. I faggi che troviamo nei giardini ottocenteschi (“romantici”, “all’Inglese”)
sono spesso delle varianti della specie selvatica (morfotipi selezionati e riprodotti a scopo
ornamentale), ricercate dalle famiglie facol-
tose proprio per la loro diversità rispetto alla
forma rurale: così s’incontrano i faggi a foglia
di felce (F.s. “Asplenifolia”); a foglie profondamente e regolarmente dentate (F.s. “laciniata”
o “heterophylla”); a foglie rosse (F.s. “Purpurea”); tricolori (F.s.”Tricolor”); gialle dorate (F.s.
“Zlatia”); a ramificazione pendula-piangente
(F.s. “Pendula”) o addirittura colonnare (F.s.
“Dawyck”); nana e prostrata (F.s. “Cochleata”);
a corteccia rugosa (F.s. var. “Quercoides”).
Purtroppo, negli ultimi 15 anni, decine di faggi, amanti del clima oceanico, intristiscono
con vistose microfillie, colpiti spesso da cancri
(lesioni) alla fragile corteccia devitalizzata dal
sole cocente del 2003 e del 2005 che li ha
predisposti ad attacchi di parassiti secondari
altrimenti confinati (carie del legno, marciumi
radicali, cancri rameali etc.). “Le temperature
registrate in Giugno e in Agosto sono RECORD.
Anche Luglio è stato molto caldo, ma ci sono
stati anni con temperature più alte. Record anche i 35° di giugno e 36° di Agosto. Nel complesso l’Estate 2003 è stata la più calda dal
1965 grazie alle temperature dei mesi di Giugno e di Agosto – Le precipitazioni totali dell’Estate hanno raggiunto i 285.7 mm - contro una
media estiva in 37 anni di 415,2 lt/mq - tra le
più secche dal 1965” con un deficit di 129,5
lt/mq” come da dati in possesso del Centro
Geofisico Prealpino. La ancor peggiore siccità
del 2005 con maggio di oltre 2 gradi più caldo
della media e un deficit di acqua mensile di –
98,8 lt/mq quando la vegetazione era in pieno
sviluppo; tra giugno e agosto il deficit idrico,
rispetto ai dati registrati dal 1965, è di 171,7
lt/mq. Si ricorda che ad agosto 2005 vi fu l’abbassamento eccezionale del livello del lago di
Varese pari a – 1,5 m dallo zero idrometrico
che fece seccare molti secolari carpini bianchi
sull’Isolino Virginia. Le siccità estive 20032005, alle quali si aggiunge il calore estremo
di luglio 2015, sono state terribili anche per
l’anziano patrimonio botanico varesino: le conseguenze sono state immediate ma si notano
ancora a distanza di anni, come è normale avvenga con gli alberi: A subirne maggiormente
gli effetti i soggetti anziani, patriarchi, radicati
nei centri urbani, affetti da malattie croniche,
vulnerabili agli effetti delle alte temperature
e delle ondate di calore in funzione della «su-
scettibilità» individuale (stato di salute, caratteristiche ambientali), della capacità di adattamento e del livello di esposizione (intensità e
durata)”. Come per l’uomo. In tutta la città di
Varese, invero, è evidente che vi siano vistosi
e documentabili segni di deperimento a carico
di alcune specie che denotano un precoce invecchiamento multifattoriale non escluso il termine della loro vitalità e vigoria in un ambiente
estraneo da migliaia di anni se non da qualche
milione di anni alla zona d’origine.
11. FARNIA
*Fam. Fagaceae
Quercus robur L.
Albero che può raggiungere 30-35 m di altezza
e 2 m di diametro. È molto longevo: può vivere svariati secoli, addirittura 10, assumendo
forme maestose grazie alla imponenza delle
ramificazioni se lasciata crescere liberamente. Le foglie, lobate, sono strette alla base e
slargate nella parte superiore; i fiori maschili e femminili, come in tutte le querce, sono
portati dalla stessa pianta; le ghiande sono
attaccate a un lungo peduncolo (da cui l’al-
tro nome scientifico Quercus pedunculata,
per distinguerla dalla rovere Quercus petraea
o Q. sessilis). Ha un areale molto vasto, dalla
Scandinavia meridionale e dalla Russia al Mediterraneo, dall’Atlantico agli Urali e al Caucaso; in Italia manca solo in Sardegna. Insieme
al carpino bianco costituiva la flora tipica del
bosco di pianura, il querco-carpineto, che un
tempo ricopriva tutta la pianura padana e di cui
rimangono ormai solo pochi relitti, risparmiati
dall’agricoltura intensiva a mais, riso, foraggere e dall’urbanizzazione. Albero sacro sia per i
popoli del Nord Europa che del Mediterraneo:
tra i più noti si ricordano l’Irminsul, considerato
dai Sassoni il pilastro cosmico che reggeva la
volta celeste (l’ultimo fu abbattuto dal cattolico
Carlomagno nel 772), la quercia oracolare di
Zeus del santuario di Dodona in Epiro, di Giove Capitolino a Roma, di Perun presso i popoli
slavi, la quercia del dio del Tuono dei lituani e
lettoni. Il nome robur ricorda la forza morale e
fisica. La stessa clava di Ercole era di quercia.
Una delle più grosse querce viventi, la “Major
Oak”, sorge nella foresta di Sherwood, l’ultimo
e più grande querceto d’Inghilterra: ha una cir-
conferenza di quasi 20 m e può ospitare nella
cavità del suo tronco 34 bambini: “per trecento
anni è cresciuta, per trecento anni è rimasta
lì immobile, per trecento anni andrà incontro
a decadimento” John Dryden (1631-1700).
All’interno delle querce sacre della Grecia classica vivevano le Ninfe Driadi (drys, quercia sacra) e le Amadriadi, quest’ultime intimamente
(ama- “insieme”) legate al destino dell’albero:
i Greci attribuivano alle Amadriadi la possibilità di vivere nella quercia che le ospitava ben
932.120 anni, morendo con essa! L’esemplare dei Giardini Estensi è l’ultimo rappresentate di un boschetto di farnie e di olmi piantato
fin dal 1766 dal Duca Francesco III D’Este. Si
scorgono in essa i segni della folgore e del
tempo, così come i segni del frequente picchio
verde. Una curiosità: il nome del genere del
picchio nero, Dryocopus, significa “che picchia
a colpi ripetuti sulle querce”. Esemplari notevoli sono presenti nel bosco di rovere, farnia e
carpino originario, radicato nel versante Nord
del Parco Baragiola, così come nelle selve inserite nel Parco Toeplitz. Splendido esemplare
residuale è presente in cima al colle del Belvedere del Parco Mylius, sotto la cui ombra il
paesaggista Pietro Porcinai fece costruire una
piscina. Simile, ma con altra ecologia, è la ROVERE - Quercus petraea (Matt.) Lieb. Albero caducifoglio alto sino a 30-35 m il cui tronco può
raggiungere diametri di 1-2 m; in condizioni ottimali può raggiungere i 250 anni di età. Come
la farnia anche la rovere ha corteccia inizialmente liscia, che successivamente si fessura
in costolature dal profilo rettangolare; le foglie,
a 5-8 lobi, in genere sono prive di orecchiette
alla base e, a differenza della farnia, sono portate da un peduncolo; al contrario, le ghiande
sono direttamente attaccate al rametto, da cui
il sinonimo di Quercus sessilis. L’areale della
rovere comprende gran parte dell’Europa occidentale e centrale fino alle foci del Danubio.
12. LAGERSTREMIA o ALBERO DI S.
BARTOLOMEO
*Fam. Lythraceae
Lagerstroemia indica L.
Arbusto o alberetto originario dell’Asia orientale (zona temperata della Cina), non supera gli
8 metri d’altezza. Presenta chioma arrotondata
e leggera, tronco più largo alla base, rivestito di
una scorza sottile bianco-giallognola. Le foglie,
lunghe fino a 7 cm, sono decidue, opposte, la
pagina superiore è lucida, verde scuro, mentre
quella inferiore è più chiara e opaca. Fiorisce in
estate: il colore dei fiori varia dal rosso porpora
al bianco.
Il grande naturalista Linneo chiamò questa
pianta Lagerstroemia indica in onore del suo
amico Hans Magnus Lagerstroem, morto nel
1759, che era il direttore della Compagnia
Svedese delle Indie Orientali. L’esemplare dei
Giardini Estensi ha una dimensione ragguardevole tanto da far supporre un’età prossima al
secolo di vita.
13. LECCIO o ELCE
*Fam. Fagaceae
Quercus ilex L.
Albero sempreverde che può raggiungere i 25
m di altezza e 1 m di diametro, ma più spesso
lo si trova come piccolo albero; è però assai
longevo, potendo vivere oltre i 500 anni. Le foglie sono spesse e coriacee, di colore verde
lucente sulla pagina superiore, bianco tomentose su quella inferiore; sulle piante giovani
le foglie sono spesso dentate al margine, su
quelle adulte sono a contorno per lo più intero.
Il suo areale gravita intorno al bacino del Mediterraneo, in cui è la specie principale e più
rappresentativa della macchia mediterranea,
ma piccoli nuclei spontanei isolati si possono
trovare in Val Padana, fra cui le coste dei laghi insubrici. In Arcadia, regione storica della
Grecia meridionale, la quercia leccio era dedicata a Pan; divinità della natura selvaggia, il
cui nome significa “tutto”, era ritenuto figlio di
Driope, nome che viene da drus, la quercia, la
quale probabilmente era una ninfa del leccio.
In tempi remoti si credeva che fosse oracolare, così nell’Aventino si estendeva un bosco di
lecci, presunta dimora di una ninfa, Egeria, la
soprannaturale consigliera in scienze sacre del
re Numa. Un leccio molto antico, antecedente
alla fondazione della città di Roma, si innalzava
sul monte Vaticano, detto anche la collina degli
indovini; portava un’iscrizione etrusca in bronzo secondo la quale la pianta era stata oggetto
di un culto religioso da parte dei predecessori dei Romani. Tre querce ancora più antiche
erano venerate a Tivoli, presso le quali venne
consacrato re l’eroe Tiburnus, fondatore della
città. Albero oggetto di venerazione, assunse
nel tempo un carattere funesto. In Acarnania,
regione storica della Grecia occidentale, e nelle isole Ionie si narrava che, quando a Gerusalemme fu deciso di crocifiggere Cristo, tutti
gli alberi rifiutarono di donare il loro legno per
lo strumento del sacrilego supplizio, ma tra
questi vi era un Giuda. Quando fu il momento
di tagliare la croce, tutti i tronchi andarono in
mille pezzi tranne la quercia leccio, che rimase
in piedi lasciando che il suo tronco diventasse
lo strumento della Passione.
14. MAGNOLIA SEMPREVERDE
*Fam. Magnoliaceae
Magnolia grandiflora L.
Magnolia sempreverde proveniente dal sud
degli USA, caratterizzata da grandi foglie ovali,
coriaceee, verdi scure superiormente e di color
ruggine o verde chiaro inferiormente a seconda della varietà, con grandi fiori bianco crema
che sbocciano durante l’estate; ha un portamento piramidale e, nei climi abbastanza caldi,
può raggiungere i 20 m di altezza. Le magnolie
sono piante antichissime e vengono considerate come le prime Angiosperme comparse sulla
Terra.
15. MIRABOLANO PORPORINO
*Fam. Rosaceae
Prunus cerasifera Ehr. “Atropurpurea”
Questo piccolo albero caducifoglio a portamento espanso assomiglia al prugnolo, ma ha fogliame meno fitto; la varietà “Atropurpurea” o
“Pissardii” differisce dal tipo per il colore delle
foglie, purpuree invece che verdi, e dei fiori,
rosa pallido anziché bianchi. “Pissardii” deriva dal nome del giardiniere francese Pissard,
il quale coltivò questa varietà nei giardini dello
scià di Persia, alla fine del sec. XIX, e ne inviò
alcuni esemplari in Francia; venne introdotto in
Italia nel 1880.
I PINI
*Fam. Pinaceae
Gen. Pinus L.
Alberi indizio di morte, perché una volta tagliati non ributtano mai più, ma anche promessa
di immortalità grazie all’estrema resistenza
che permette loro di prosperare negli ambien-
ti meno favorevoli, rappresentano il vigore e
la permanenza della vita vegetativa. Oltre alla
pianta stessa, nell’antichità anche la pigna assumeva più significati: chiusa rappresentava
l’emblema della castità, mentre aperta indicava
l’esaltazione della potenza vitale e la glorificazione dell’invincibile fecondità. Per gli antichi il
pino era un albero divino, se non addirittura un
dio. Attis, il pino sacro (in specifico il pino da
pinoli o parasole), moriva e resuscitava sacrificando sé stesso. Se la pigna evocava di per sé
il fallo in erezione, quella del pino da pinoli, che
era di gran lunga la più suggestiva per via del caratteristico colore rossastro e lucido, raffigurava l’organo che il dio si recideva da sé. Questo
sacrificio corrispondeva soprattutto al salasso
dell’albero, ovvero alla raccolta della resina
definita resinatura a morte, operazione che veniva praticata nel periodo in cui si celebravano
le feste di Attis. Durante queste celebrazioni il
sommo sacerdote si incideva il braccio e presentava il suo sangue come offerta, mentre gli
altri sacerdoti si scatenavano in danze sfrenate, flagellandosi fino a sanguinare, lacerandosi
con coltelli. Alcuni neofiti, al colmo dell’eccitazione, si amputavano l’organo virile e lo lanciavano come oblazione alla statua di Cibele, dea
asiatica e madre degli déi in Frigia che i Romani
assimilarono a Rea. Quei ricettacoli di fecondità venivano in seguito rispettosamente avvolti e
sotterrati o posti in camere sotterranee dedicate alla dea. Il rito rianimava il dio morto e con lui
tutta la natura che germogliava nel sole prima-
verile. Nell’antica Grecia era l’albero favorito di
Rea, la Terra Divinizzata, ma in seguito, in quanto emblema sessuale, fu messo in rapporto con
Pan, il dio della sessualità selvaggia. È proprio
per sfuggire alla lubricità di Pan che la ninfa Piti
si mutò in pino nero, anche se un’altra leggenda vuole che la ninfa preferisse Pan a Borea, il
vento del nord che, indispettito, si vendicò col
suo soffio violento e la fece precipitare giù da
una scarpata. Fu Pan a scoprirla e a tramutarla
immediatamente in un pino (o in un abete). Si
dice che, quando in autunno soffia la Borea, la
ninfa pianga: lo testimoniano le gocce di resina
che lacrimano dalle pigne.
16. PINO DOMESTICO o PINO DA PINOLI
*Fam. Pinaceae
Pinus pinea L.
Albero dall’aspetto inconfondibile da adulto per
la chioma espansa a ombrello con grossi rami
laterali che si sviluppano orizzontalmente lasciando libero il tronco per 2/3; raggiunge i 30
m di altezza e i 2 m di diametro, e può vivere fino
a 200-250 anni. Gli aghi sono riuniti in fascetti
di 2, talvolta 3, e sono lunghi 8-20 cm, di colore
verde chiaro; i coni, lunghi 8-16 e larghi 7-10 cm
(dimensioni che raggiungono a maturità, cioè
dopo 3 anni), sono costituiti da grosse squame
ognuna recante 2 semi legnosi contenenti i pinoli. Il suo areale comprende le coste settentrionali del Mediterraneo, spingendosi anche
nell’interno fino a circa 500 m nel Nord Italia e
1000 m nel Sud e nelle isole (anche se non è
certo che sia spontaneo in Italia). È una specie termofila, che ha bisogno di essere in pieno
sole, vegeta bene anche su terreni abbastanza
secchi mentre non sopporta i suoli acquitrinosi.
17. PINO SILVESTRE
*Fam. Pinaceae
Pinus sylvestris L.
Si riconosce facilmente per la corteccia arancione o bruno rossastra, la chioma rada verde
grigia, che nelle piante adulte tende a limitarsi
alla parte superiore del fusto per potatura naturale. Può raggiungere 35-40 m di altezza, e
diametri max di 1 m, in montagna può vivere
fino a 200 anni; gli aghi, a 2 a 2, sono corti (5-7
cm), ritorti, a sezione semicircolare, rigidi e
brevemente appuntiti, di colore verde glauco;
i fiori maschili, riuniti all’ascella delle foglie in
gruppi compatti, sono di colore giallo, mentre
quelli femminili sono rossi e in posizione terminale; i coni raggiungono in 2 anni i 3-5 cm
di lunghezza e i 2-3 di larghezza, contengono
piccoli semi alati. Ha un areale molto vasto, in
cui si distingue in varie razze dal portamento
molto variabile, dall’Europa centrale e nordoccidentale all’Asia nordoccidentale, con nuclei
disgiunti in Scozia, Germania occid., Spagna
settentr.; in Italia si trova solo su Alpi e Prealpi, oltre ad alcune stazioni dell’Appennino
ligure-emiliano. Sopporta bene il freddo e le
forti escursioni termiche, ma anche l’aridità e
le estati calde e lunghe.
18. PINO STROBO
*Fam. Pinaceae
Pinus strobus L.
Albero proveniente dall’America nordorientale, che può raggiungere i 25-30 m di altezza e
60-100 cm di diametro. Ha chioma largamente conica, con rami sottili, di colore verdastro
da giovani; gli aghi sono riuniti in fascetti di 5,
lunghi fino a 14 cm, flessibili e di colore verdebluastro; i coni, lunghi fino a 20 cm e larghi
3-4 cm, diritti o incurvati, si aprono liberando i
semi alati in autunno, per poi cadere in inverno
o alla primavera successiva. Sopporta maggiormente degli altri pini l’ombreggiamento.
È di rapido accrescimento ed è stato piantato
per la produzione di legno per cellulosa e carta; si trova comunque spesso nei parchi come
specie ornamentale. È soggetto alla ruggine
vescicolosa del pino (Cronartium ribicola), una
malattia fungina che dall’Europa arrivò in America nel 1892, provocando gravissimi danni ai
popolamenti di strobi americani, laddove era
presente anche il ribes, pianta su cui il fungo
compie parte del ciclo vitale.
19. PIOPPO CIPRESSINO
*Fam. Salicaceae
Populus nigra L. “Italica”
Viene così chiamato per il portamento fastigiato e affusolato, dato dai rami appressati
al fusto; la pianta può raggiungere i 30 m di
altezza; le foglie sono come quelle del pioppo
nero, romboidali o triangolari verdi lucenti, i fio-
ri sono riuniti in amenti, quelli maschili sono
rossastri (tutte le piante appartenenti alla famiglia delle Salicacee sono dioiche, cioè i fiori
femminili e quelli maschili sono portati su individui separati); sembra si sia originato spontaneamente per mutazione del pioppo nero nell’Italia settentrionale e che sia stato propagato
successivamente per talea, quindi solo per via
vegetativa, in quanto si tratta esclusivamente
di esemplari maschili. È noto come Lombardy
poplar nel mondo anglosassone.
20. PIOPPO IBRIDO o EUROAMERICANO
*Fam. Salicaceae
Populus x canadensis Moench
Ibrido fra il P. nigra (pioppo nero) e il P. deltoides, di origine americana, presenta caratteri
intermedi fra le due specie genitrici; raggiunge
i 20 m di altezza ed è di crescita assai rapida,
ma non è molto longevo; le foglie, caduche, di
forma triangolare, sono glabre su entrambe le
pagine e il lembo è a base diritta; coltivato nelle pianure per la produzione di legno, utilizzato
soprattuto per la fabbricazione della carta e
per piccola falegnameria. Deriva dal PIOPPO
NERO *Fam. Salicaceae - Populus nigra L.
Albero slanciato alto fino a 30 m con chioma
ovoidale, corteccia grigio-brunastra. Presenta
foglie decidue, alterne e ovoidali e fiori unisessuali; ecologicamente assomiglia al pioppo bianco, ma preferisce un clima estivo non
troppo secco. Si tratta di una pianta simbolo
delle nostre pianure alluvionali ed è tradizionalmente l’albero da viale che introduce alle ville
signorili e alle proprietà rurali. I Greci distinguevano accuratamente le due varietà alle quali
attribuivano significati differenti; il pioppo bianco (Populus alba L.), col suo fogliame cupo da
un lato e chiarissimo dall’altro, rappresentava
la vita nella morte, la rivelazione della sopravvivenza una volta passata la frontiera fatale. Era
chiamato leukè, in riferimento alla ninfa Leuke
che, per tentare di sfuggire alle brame divine
di Ade, si trasformò in albero. Leuke è anche il
nome di una delle isole dei Beati, luogo in cui
gli eroi si riposano dopo la morte, motivo per
cui il pioppo bianco è l’albero della morte luminosa, contrapposto al pioppo nero, di carattere
funesto. In opposizione al pioppo bianco, quello nero annunciava ai trapassati che dovevano
lasciare ogni speranza. Un folto di pioppi neri
segnalava l’ingresso agli Inferi e soltanto una
volta penetrati all’interno si poteva scorgere
il pioppo bianco e comprenderne il significato. Nato anch’esso da una metamorfosi, ha
come protagonista il temerario Fetonte che,
precipitando dal carro del Sole, di cui era figlio,
gettò nella disperazione le sue tre sorelle, le
Eliadi, le quali, fissatesi al suolo, si trasformarono in pioppi. Le loro lacrime diventarono le
gocce d’ambra che stillano dai rami. Da quel
momento l’albero fu consacrato all’implacabile
dea della Morte, al contrario del pioppo bianco,
consacrato a Persefone, sposa di Ade, ma divinità della rigenerazione dopo la morte.
21. PLATANO IBRIDO
*Fam. Platanaceae
Platanus x acerifolia (Ait.) Willd, sinonimo
Platanus × hispanica Mill. ex Münchh.
Il P. x acerifolia è un ibrido tra il P. occidentalis
(di origine americana) e il P. orientalis (di origine balcanica che, in Italia, si trova allo stato
spontaneo solo in Sicilia), originatosi nel 1663
nell’orto botanico di Oxford dove le due specie si incrociarono spontaneamente, da cui il
nome di London plane. Grande albero di 30-40
m, che può vivere sino a 300-500 anni, il pla-
tano ibrido è il più utilizzato nei parchi e nelle
alberate cittadine, in quanto, rispetto alle specie parentali, è meno esigente in umidità, più
rustico, capace di fotosintetizzare da tronco e
rami nei quali si scorge il verde della clorofilla.
Ha maggiore capacità di tollerare le potature e
resiste bene all’inquinamento delle città, grazie anche al desquamarsi della corteccia che,
rinnovandosi frequentemente, offre lo spettacolo di un incomparabile ed elegante mosaico
di lamine rosso-brune o verdastre su un fondo
liscio e chiarissimo. R. Graves, poeta inglese
(1895-1985), osserva che il platano, come il
serpente, cambia pelle ogni anno: sono quindi entrambi simboli di rigenerazione. Platano
deriva dal greco platanos, derivato da platus,
largo e piatto, che evoca la parte piatta della
mano, il palmo: le sue foglie a 5 lobi molto
appuntiti ricordano infatti la mano aperta. Fra
gli esemplari storici provinciali si ricordano i filari di platani che nel 1800 furono piantati ai
lati della napoleonica strada del Sempione che
univa Milano al valico omonimo e di cui rimangono pochissimi superstiti (Somma Lombardo,
Gallarate). Negli interventi urbanistici della seconda metà del 1800, per la costruzione dei
utilizzavano le infiorescenze sferiche nell’antidoto contro il veleno di serpenti e scorpioni.
Nel Sud-Est dell’Europa e in Asia occidentale
esistono ancor oggi esemplari millenari, dei
quali il più celebre è quello della città greca
di Cos, nell’isola omonima, i cui rami enormi,
puntellati da colonne antiche, coprono tutta la
piazza e il cui tronco è largo 14 m: una leggenda racconta che, sotto la sua ombra, il fondatore della Medicina, Ippocrate, ricevesse i suoi
pazienti 2500 anni fa. Gli esemplari più maestosi del Parco Mirabello, tutti ibridi, sono stati
impiantati dopo la costruzione delle scuderie
(ex Liceo Musicale, oggi sede di Varese Corsi)
ovvero dopo il 1839, più verosimilmente fra il
1865 e il 1875 ad opera di Gaetano Taccioli.
22. SUGHERA
viali (Boulevards), furono impiantati soprattutto
in Francia platani ibridi sotto il regno di Napoleone III e sotto la regia del prefetto Haussman:
molte città europee ne seguirono l’esempio (si
ricorda il Paseo del Prado a Madrid, la Rambla di Barcellona, viale Certosa e Parco Sempione a Milano, Prato della Valle a Padova, il
Passeggio Dandolo e quel che rimane dell’ottocentesco boulevard di Viale Aguggiari a Varese
etc.). La diffusione del platano fu iniziata ben
prima dallo stesso Napoleone Bonaparte nelle città via via conquistate. Fin dall’antichità il
Platanus orientalis è l’albero delle passeggiate pubbliche, che protegge dal sole e adorna
le piazze e i viali, coltivato estesamente nella
torrida Grecia classica. Originario delle regioni
balcaniche, in Italia si trova allo stato spontaneo solo in Sicilia. Viene piantato più frequentemente nelle zone meridionali del Mediterraneo come albero da ombra. I Romani lo introdussero in Italia nel 390 a.C.; solo nel 1561
raggiunse le Isole Britanniche, dove a partire
dal 1636 subì la concorrenza del platano occidentale americano (Platanus occidentalis L.).
L’ibrido fra le due specie soppiantò entrambi
unendo in esso le migliori doti dei due. Il platano orientale fu un tempo albero sacro della
Lidia (provincia dell’Asia minore), ai tempi del
re Creso, leggendario per la sua ricchezza; il nipote Pizio offrì a Dario, re di Persia, un platano
d’oro. Nell’isola di Creta il platano era venerato come appartenente alla Grande Dea (Madre
Terra) rappresentata in numerose statuette col
gesto benedicente della mano aperta, evocata
dalla forma delle foglie della pianta stessa. Nel
Peloponneso vi erano boschi di platani sacri,
dedicati a Elena, moglie di Menelao, il quale
ne avrebbe piantato un esemplare prima di
partire per la guerra di Troia. Nell’antica Atene
scrittori, filosofi e artisti conversavano sotto i
platani orientali della passeggiata dell’Accademia e Socrate giurava “sul platano”. Anche i
Romani li consideravano benefici perché tenevano lontani i pipistrelli di cattivo augurio; ne
*Fam. Fagaceae
Quercus suber L.
Albero sempreverde che raggiunge i 20 m di altezza con chioma molto espansa in larghezza.
Il tronco costituisce uno dei più facili caratteri
di riconoscimento, poiché presenta una scorza grigiastra, spessa parecchi centimetri che
tende a staccarsi in blocchi pesanti e compatti
(sughero). Come tutte le querce presenta una
ghianda ovoidale che raggiunge i 3 cm di lunghezza. La scorza della sughera è l’unica fonte
commerciale di sughero, nota già ai Greci e ai
Romani per le proprietà galleggianti e isolanti;
le più belle sughere si trovano in Sicilia, nel
Lazio, nella costa meridionale della Toscana,
ma soprattutto in Sardegna. Monumentale l’esemplare presente al Parco di Villa Augusta; di
recente introduzione al Parco Mantegazza e al
Parco Torelli-Mylius.
23. TASSO
*Fam. Taxaceae
Taxus baccata L.
Arbusto o albero alto fino a 12-15 m, con diametri considerevoli negli esemplari molto vecchi; è specie a lenta crescita e molto longeva
(può raggiungere anche 2000 anni); in Europa
esistono individui di 1500 anni. Il tronco può
essere indiviso o ramificato sin dalla base, la
corteccia si desquama in piccole placche; le
foglie sono lineari, flessibili, acute ma non pungenti. Le foglie e i semi del tasso sono alta-
mente tossici, mentre la parte rossa del seme
(arillo) dolce e gradevole è uno dei cibi preferiti
dai piccoli passeriformi. Ha legno molto forte
ed elastico che, anticamente, veniva utilizzato
per la fabbricazione di archi. Sopporta bene le
potature, per cui può essere foggiato in varie
sagome. Il suo areale comprende Europa, Caucaso e Himalaya; proprio della fascia montana
temperata, si mescola al faggio, all’agrifoglio
e agli aceri. In natura è una specie protetta,
anche se diviene più frequente sulla Majella,
sul Gran Sasso, sul Gargano. Insieme all’agrifoglio, è una specie relitta del periodo terziario.
Protettore dei defunti, veniva chiamato albero
della morte, in quanto velenoso e si credeva
che chi si fosse addormentato sotto i suoi rami
sarebbe morto. Distrutto quasi dovunque non
solo per utilizzarne il legno per la costruzione
di armi, ma anche per la tossicità delle sue
foglie, è sopravvissuto fino ai tempi moderni
grazie alla protezione dei morti: è proprio il
suo utilizzo nei cimiteri ad avergli permesso di
attraversare i secoli. Dotato di una vita prodigiosa costituiva all’opposto una promessa di
immortalità. Data la longevità di alcuni esemplari rinvenuti in Francia è molto probabile che
il tasso sia stato anticamente oggetto di culti
pagani, inoltre, essendo un albero sacro del
druidismo, molti oggetti cultuali, compreso il
bastone druidico, erano fatti di legno di tasso.
Shakespeare lo cita sia nell’Amleto, in quanto
pianta velenosa utilizzata per avvelenare il re,
sia nel Macbeth, in cui le streghe inglesi utilizzavano le talee nel “calderone di Ecate”. È
proprio alla dea degli Inferi che i Romani sacrificavano dei tori neri decorati con ghirlande di
tasso per placare gli spiriti infernali.
Il Parco di Villa Mylius (Via Fiume 38, Varese) è
facilmente raggiungibile dal centro cittadino, in
direzione Sacro Monte (Traversa di viale Aguggiari).
INFORMAZIONI TURISTICHE
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Linee urbane
Orari di apertura al pubblico
A-B-C-Z
primavera/estate
8.00 - 20.00
autunno/inverno
8.00 - 18.00
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