1 - Editori Laterza

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CAMPANELLA
IL NOVELLINO
POLIZIANO
MACHIAVELLI
LORENZO DE’ MEDICI
RUZANTE
BRUNO
TASSO
CAMPANELLA
GALILEI
ARETINO
Editori Laterza
CELLINI
ARIOSTO
CELLINI
ARETINO
BRUNO
IL NOVELLINO
Origini_Seicento
LEONARDO DA VINCI
LORENZO DE’ MEDICI
ARIOSTO
MARCO SANTAGATA | LAURA CAROTTI | ALBERTO CASADEI | MIRKO TAVONI
MARINO
MACHIAVELLI
BOCCACCIO BOCCACCIO
CAVALCANTI
POLIZIANO
MARCO SANTAGATA | LAURA CAROTTI | ALBERTO CASADEI | MIRKO TAVONI
MARINO
RUZANTE
LEONARDO DA VINCI
GALILEI
Editori Laterza
I TRE LIBRI DI LETTERATURA
Origini_Seicento
CAVALCANTI
DANTE
i tre libri
letteratura
diDANTE
TASSO
PETRARCA PETRARCA
Tre volumi
non vendibili
separatamente
Progettazione e produzione
di testi scolastici secondo
il Sistema di gestione qualità
ISO 9001:2000
1
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11
Le coordinate
storiche e culturali
TENDENZA ALL’AGGREGAZIONE POLITICA E STATALE
Stati nazionali in Francia,
Spagna, Inghilterra
Stati regionali in Italia
Ducato di Milano
(prima Visconti, poi Sforza)
Repubblica di Venezia
(oligarchia mercantile)
Repubblica di Firenze
(oligarchia mercantile, poi
potere effettivo dei Medici)
in lotta per il predominio
sull’Italia centro-settentrionale
trattato di Lodi: inizia periodo
di equilibrio e pace (1454)
Este a Ferrara
Gonzaga a Mantova
Montefeltro a Urbino
discesa di Carlo VIII di Francia:
rottura dell’equilibrio (1494)
Patrimonio
di San Pietro
Regno di Napoli
(dagli Angioini agli Aragonesi)
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11. Le coordinate storiche e culturali
Le coordinate storiche
1 La situazione europea
Il tratto saliente della storia europea del XV secolo è la tendenza all’aggregazione politica
e statale. Tra la fine del Trecento e per tutto il Quattrocento i regimi monarchici formatisi
nei secoli precedenti in Francia, Inghilterra e Spagna si rafforzano e cominciano ad acquisire la fisionomia di Stati nazionali. Li caratterizzano un territorio definito e unitario, il
consolidamento del potere regio e la creazione di strutture centralizzate di governo, amministrazione e difesa. In Italia e in Germania, paesi formalmente sottoposti all’autorità imperiale, le spinte
Guida allo studio
unitarie non possono dare vita a Stati nazionali, ma
1. Qual è il tratto peculiare della storia europea del Quattrocento? 2. Quali paesi europei possono essere defini- si esplicano nella formazione di entità statali di ambiti Stati nazionali? 3. In che modo differiscono le sorti to regionale e perciò di dimensioni territoriali mediadell’Italia e della Germania dal resto dell’Europa?
mente superiori a quelle delle signorie trecentesche.
Paolo Uccello, La battaglia di San Romano, 1456 ca.
[Uffizi, Firenze]
Il dipinto di Paolo Uccello (1397-1475) fa
parte di un ciclo di tre tele dedicate alla
battaglia di San Romano, uno scontro
avvenuto il 1° giugno del 1432 tra fiorentini
e senesi, al termine del quale i primi posero
definitivamente sotto la propria influenza il
Castello di Montopoli (un piccolo borgo in
Val d’Arno, oggi in provincia di Pisa). Nella
tavola degli Uffizi sono fissati il momento
più intenso dello scontro e la sua
conclusione: sulla sinistra i fiorentini con
lance in resta atterrano i nemici; al centro
Niccolò da Tolentino (capitano dei
fiorentini) disarciona Bernardino della
Ciarda (capitano dei senesi); a destra i
senesi in fuga; in aperta campagna, in
secondo piano, una squadra di fanti esce
allo scoperto per inseguire i nemici che si
stanno ritirando.
La battaglia di San Romano, forse l’unico
episodio degno di nota in una guerra
altrimenti povera di successi per i
fiorentini, fu un soggetto commissionato
a Paolo Uccello da Cosimo il Vecchio,
che volle così celebrare il prestigio
politico acquisito con il finanziamento
dell’impresa.
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Quattrocento
2 La situazione italiana nella prima metà del secolo
Il panorama politico dell’Italia nella prima metà del Quattrocento non diverge sostanzialmente da quello della seconda metà del secolo precedente. Nella Valle Padana, in Romagna e nelle Marche è presente un sistema di principati e signorie. Per peso politico e dimensione territoriale spicca il Ducato di Milano dei Visconti, ma vanno ricordati anche il
Marchesato degli Este a Ferrara, la Contea dei Gonzaga a Mantova e le Signorie dei Malatesta a Rimini e dei Montefeltro a Urbino. Principati e signorie sono governati da famiglie che si tramandano il potere per via dinastica e che si appoggiano al “patriziato” locale, cioè al blocco sociale composto dalla parte più ricca della borghesia mercantile e da
una parte dell’antica nobiltà feudale. Nell’Italia settentrionale l’altro Stato eminente è
quello della Repubblica di Venezia, che ha esteso il suo dominio su gran parte del Veneto. Venezia non è retta da ordinamenti di tipo signorile, ma è anch’essa dominata da una
potente oligarchia economica. Analoga è la situazione di Firenze, a lungo in guerra con
il Ducato di Milano e con la Repubblica di Venezia per il predominio nell’Italia centro-settentrionale. Con Milano, Firenze e Venezia siamo già in presenza di Stati tendenzialmente regionali o addirittura sovraregionali. La spinta all’aggregazione fino alla metà del secolo non interessa ancora l’insieme di piccoli territori e di città-Stato, di fatto autonomi,
in cui è frammentato il cosiddetto Patrimonio di San Pietro, germe del futuro Stato del-
IL PUNTO SU...
L’architettura
Filippo Brunelleschi, Sagrestia Vecchia, interno
e particolare delle cupole, 1422-28 ca.
[Basilica di S. Lorenzo, Firenze]
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435
11. Le coordinate storiche e culturali
la Chiesa. L’Italia meridionale mantiene la sua natura di Regno, con Napoli come capitale, e una forte impronta feudale. Cambia, però, la dinastia al potere, perché, dopo un lungo periodo di crisi e di decadenza, nel 1442 agli Angioini subentrano gli Aragonesi. Sono gli Stati che abbiamo nominato a determinare in gran parte gli equilibri politici della
penisola nel Quattrocento, in modo particolare dopo che, verso la metà del secolo, alla
fine di un lungo periodo di guerre espansionistiche, hanno raggiunto un assetto equilibrato che ha consentito un lungo periodo di pace.
Guida allo studio
1. Su cosa fondano il proprio potere le famiglie che
governano principati e signorie? 2. Che tipo di governo
vige a Venezia? 3. Possiamo considerare Firenze una
signoria? 4. Quale situazione politica caratterizza nella
prima metà del Quattrocento l’Italia meridionale?
3 La seconda metà del secolo: la svolta del 1454
Il 9 aprile 1454, dopo oltre vent’anni di guerre, i maggiori Stati italiani firmarono il trattato di Lodi (passato alla storia come “pace di Lodi”): promotori dell’iniziativa furono Mila-
Già sul finire del Trecento si avvertono in Toscana i primi segni di un
rinnovamento stilistico che matura
appieno nei primi decenni del secolo successivo, in particolare a Firenze, dando avvio a quella straordinaria fioritura delle arti definita Rinascimento. Da Firenze, poi, le novità
del nuovo stile si diffondono progressivamente nelle altre città italiane, con esiti molto diversi, anche in
considerazione delle differenti situazioni politiche e culturali locali e
delle diverse tradizioni artistiche.
La coscienza di una “rinascita” investe sia gli studi filosofico-letterari, sia
le arti figurative e l’architettura. Proprio come i letterati e gli storici, anche gli architetti, i pittori e gli scultori
si dedicano allo studio delle opere e
dei monumenti antichi.
Al rinnovato interesse per il mondo
classico si accompagna un intenso
sviluppo dell’interesse scientifico.
L’approfondimento della teoria delle proporzioni (la ricerca di una cor-
rispondenza di misura fra due o più
parti in stretta relazione fra di loro) e
l’elaborazione del metodo della prospettiva [uil punto su, p. 449] sono le basi tecniche sulle quali poggia
la rivoluzione del linguaggio artistico, rivoluzione nella quale l’architettura svolge un ruolo di primaria importanza.
Gli architetti medievali costruivano
gli edifici basandosi sull’esperienza
tramandata dai maestri precedenti,
senza un fondamento teorico preciso. Nell’architettura del Rinascimento, invece, l’ideazione, il disegno del
progetto, la definizione della struttura dell’edificio costituiscono la fase
più importante della costruzione.
Artefice del rinnovamento in architettura, e non solo, è Filippo Brunelleschi (1377-1446), al quale si deve
la codifica di un linguaggio architettonico fondato sull’impiego di forme geometriche semplici, sullo studio delle proporzioni che devono
determinare i rapporti fra le parti,
sulla ripresa della sintassi classica
basata sull’ordine architettonico e
sull’arco a tutto sesto. Un linguaggio a cui faranno riferimento tutti i
successivi architetti rinascimentali.
Fra i numerosi edifici progettati dall’architetto fiorentino, la Sagrestia
Vecchia di San Lorenzo a Firenze
esemplifica bene il suo stile. Lo spazio interno è un ambiente pressoché
cubico, coperto con una cupola a
ombrello, da cui si accede a una piccola àbside, che riproduce in scala
minore le forme e le decorazioni del
vano più grande. Esso è strutturato
su un sistema metrico proporzionale
che ripete, ricorrendo a multipli di 2,
una misura base che determina tutto
lo sviluppo dell’edificio. Agli elementi
plastici delle pareti in pietra serena
(grigia) – paraste, trabeazioni e archi
a tutto sesto desunti dall’architettura
romana – è affidato il compito di evidenziare la semplicità e il rigore geometrico dello spazio dominato dalle
figure del quadrato e del cerchio.
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Quattrocento
La scultura
Donatello, San Giorgio e San Giorgio e il drago (rilievo del basamento), 1416-20
[Museo Nazionale del Bargello, Firenze]
IL PUNTO SU...
Nell’opera di rinnovamento avvenuta nell’arte nel corso del Quattrocento anche la scultura svolge una
parte di primo piano.
Proseguendo un processo intrapreso già nel Trecento, la scultura
riacquista un valore autonomo,
svincolato dalla funzione decorativa e simbolica dell’edificio. Lo studio dei monumenti antichi porta a
una migliore comprensione, e quin-
di a una migliore resa, della figura
umana, delle sue giuste proporzioni, della sua anatomia, della sua
posizione nello spazio. Ne risulta
un’arte maggiormente naturalistica, più simile al vero.
Il primo artista a superare le maniere del Gotico riallacciandosi alla
tradizione scultorea greco-romana
fu Donatello (1386-1466), che,
insieme a Brunelleschi e Masaccio,
può dirsi il fondatore dell’arte rinascimentale e che, fin dalle prime
opere, esprime tutte le novità del
nuovo linguaggio figurativo.
Il San Giorgio, realizzato nel 1416
da Donatello per una nicchia esterna della chiesa fiorentina di Orsanmichele, pur conservando un gusto ancora gotico nel sinuoso panneggio del mantello, mostra appieno la capacità dell’autore di infondere ai suoi personaggi un’umanità e una dignità tutta rinascimentale. Il santo esprime orgoglio e
fermezza: il volto è sereno e consapevole, lo sguardo fissa un punto lontano; il corpo, composto entro schemi geometrici ben definiti,
è un solido ben piantato grazie alle gambe leggermente divaricate
e allo scudo che serve da punto di
appoggio; i piedi, il destro di poco
arretrato rispetto al sinistro, e una
leggera torsione del busto suggeriscono il movimento appena compiuto per assumere la postura
nonché l’idea dello spazio circostante.
Nel basamento della statua Donatello raffigura San Giorgio e il drago mostrando di aver appreso appieno la tecnica brunelleschiana
della rappresentazione prospettica
[u11.9]. L’episodio, infatti, è inserito in un paesaggio costruito con
una prospettiva digradante verso il
fondo. Sulla destra, dietro la principessa, il portico classico-rinascimentale, da un lato, evidenzia le linee prospettiche che corrono verso il punto di fuga posto in alto al
centro della lastra, alle spalle del
santo guerriero, dall’altro, introduce il passaggio dai personaggi in
bassorilievo alle forme del paesaggio appena percepibile sullo sfondo. Colto questa volta in movimento, l’eroe è ancora ritratto naturalisticamente, nel pieno della lotta
contro il drago, con il mantello svolazzante e il piede sinistro che serra la pancia del cavallo per evitare
di essere disarcionato.
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437
11. Le coordinate storiche e culturali
Il quadro politico italiano intorno al 1454
CONFEDERAZIONE
SVIZZERA
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DUCATO
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(a Genova)
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Benevento
(Stato pont.)
Napoli
SARDEGNA
(alla Spagna)
MAR
TIRRENO
REGNO
DI
NAPOLI
MAR
IONIO
Palermo
REGNO
DI SICILIA
no e Venezia, ai quali si unirono poi il Papato, Firenze e Napoli. Nasceva così la “Lega italica”, un’alleanza che si impegnava a mantenere gli equilibri
politici esistenti e a impedire qualsiasi tentativo di
aggressione ai danni degli Stati membri della Lega.
Il trattato avrà per l’Italia un’importanza fondamentale perché garantirà per quarant’anni un equilibrio
delle forze, che, per quanto precario e costantemente insidiato, consentirà un significativo sviluppo politico e culturale del paese. Due soli eventi lo
misero seriamente a repentaglio: la guerra di Ferrara (1482-84), che vide Venezia minacciare pericolosamente la libertà del piccolo Ducato di Ferrara, e
la “congiura dei Baroni” (1484-86), ordita dai grandi feudatari del Sud ai danni della monarchia aragonese di Napoli.
Guida allo studio
1. Quali Stati hanno stipulato la pace di Lodi? 2. Quali
conseguenze ha avuto quell’accordo sulla situazione
della penisola italiana?
4 La discesa di Carlo VIII
A quarant’anni di distanza dalla pace di Lodi, l’Italia fu teatro di un evento che, di lì
a poco, avrebbe scardinato per sempre l’assetto politico sancito da quel trattato: la
discesa in armi del re di Francia Carlo VIII nell’estate del 1494. L’obiettivo di Carlo
VIII era conquistare il Regno di Napoli. I francesi, attraversata tutta l’Italia senza incontrare resistenza, raggiunsero Napoli e la occuparono nel febbraio del 1495. Ma fu
una conquista effimera: battuto a Fornovo sul Taro nel luglio dello stesso anno da una
lega antifrancese alla quale avevano aderito l’Impero e la Spagna, Carlo VIII dovette
rientrare in Francia. Benché di breve durata, l’intervento francese mise a nudo la fragilità di un’Italia politicamente divisa nei confronti delle monarchie nazionali. Sei
anni dopo la penisola diventerà il teatro delle guerre (le cosiddette “guerre d’Italia”)
tra spagnoli e francesi, guerre che termineranno con la conquista da parte delle potenze straniere di gran parte del territorio italiano.
Guida allo studio
1. In quale anno Carlo VIII invade l’Italia? 2. Qual era lo
scopo dell’invasione? 3. Come si conclude la discesa di
Carlo VIII in Italia?
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Quattrocento
5 Consolidamento degli Stati regionali
e cambiamento della classe politica
Il 1454, anno della pace di Lodi, è una data simbolica. Durante il lungo periodo di stabilità politica da essa inaugurato giunge a maturazione quel consolidamento degli Stati regionali cominciato negli anni Quaranta. Insomma, molte signorie si trasformano in veri e propri principati. Nel 1442, abbiamo detto, nuovi sovrani provenienti dall’Aragona si erano
installati nel Regno di Napoli [u11.2]; la pace di Lodi sancisce a Milano il passaggio dinastico dai Visconti agli Sforza; intorno alla metà del secolo perfino il Papato getta le basi
per trasformare il caotico dominio di San Pietro in quello che sarà lo Stato della Chiesa;
pressappoco negli stessi anni comincia il periodo di effettivo dominio dei Medici in Firenze. Altre date simboliche danno l’idea di quanto il processo di consolidamento sia esteso e
diffuso in tutta la penisola: gli Este riescono a trasformare il Marchesato di Ferrara in Ducato (1450, 1471); nel 1433 erano stati i Gonzaga di Mantova a diventare da conti marchesi; nel 1443 i Montefeltro di Urbino avevano ottenuto il loro primo effimero titolo ducale,
reso stabile nel ’74.
Gli Stati si consolidano ma in molti casi cambiano anche i massimi dirigenti. Il dato
interessante è che alcune delle nuove dinastie, anche delle più importanti, non hanno una
illustre nobiltà da esibire. È facile immaginare che cosa avrebbe potuto scrivere Dante Alighieri, così ostile all’emergente potere della
finanza, di un banchiere senza passato come
Lorenzo de’ Medici. Rispetto alla grande
nobiltà dei Visconti gli Sforza, capitani di
Pedro Berruguete, Ritratto di Federico
da Montefeltro e del figlio Guidobaldo,
1476-77 ca.
[Galleria Nazionale delle Marche, Urbino]
Succeduto al fratello
nella guida della
Signoria di Urbino,
Federico da
Montefeltro fu
nominato duca dal
papa Sisto IV nel 1474.
Abile politico e valido
condottiero, fu anche
appassionato studioso
delle lettere e grande
mecenate. Il ritratto
del principe illustra
con estrema chiarezza
il connubio tra il suo
ruolo di condottiero
e quello di intellettuale
e di patrono delle arti.
Federico da
Montefeltro, infatti,
da un lato indossa una
pesante armatura ed
esibisce ai suoi piedi
un elmo, simboli del
potere militare e
politico, dall’altro, è
raffigurato mentre
legge un libro, a
sottolineare anche
la sua figura di
umanista. Il ritratto
è ambientato nel
famoso Studiolo del
Palazzo Ducale, una
stanza dalle dimensioni
assai ridotte
commissionata dal
duca stesso e destinata
ai suoi studi, le cui
pareti sono riccamente
decorate da una serie
di ritratti di “Uomini
illustri” e da un
rivestimento a tarsie
lignee particolarmente
prezioso.
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11. Le coordinate storiche e culturali
ventura, sono poco più che dei parvenus. A Napoli il mutamento è ancora più traumatico:
agli Angiò, stranieri ma acclimatati nel Regno fin dalla seconda metà del Duecento, subentra una dinastia sicuramente illustre, ma estranea. Così estranea, che per decenni la lingua
della cancelleria e della corte è stata il catalano.
Guida allo studio
1. Quali famiglie si avvicendano al potere a Milano? 2.
Come cambia l’assetto politico all’interno degli altri pic-
coli Stati italiani? 3. E nell’Italia meridionale cosa avviene?
Le coordinate culturali
La situazione sociale, politica e culturale del Quattrocento è determinata in gran parte da
due grandi fenomeni, molto diversi tra loro ma capaci entrambi di trasformare profondamente il modo di vivere e di concepire la cultura: l’Umanesimo e la corte come istituzione politico-sociale.
6 L’Umanesimo
IL CULTO DELL’ANTICO Nel Quattrocento giunge al culmine quel movimento di ritorno
all’antico e di recupero del latino classico, iniziato da Petrarca [u9.3] e Boccaccio [u10.1]
e sviluppatosi negli ultimi decenni del Trecento, che va sotto il nome di Umanesimo. La
parola si è imposta in ambito storiografico soltanto nel Novecento: all’origine dei termini
“umanesimo” e “umanista” è l’espressione ciceroniana studia humanitatis, letteralmente:
‘studi relativi all’uomo’. Secondo gli umanisti, infatti, lo scopo della cultura è di formare
l’uomo nella sua interezza, sviluppandone armonicamente le facoltà morali e intellettuali.
Gli studia humanitatis, intesi come studio delle discipline letterarie e, in particolare, delle
letterature latina e greca, sono il cardine di questa educazione integrale. Gli autori antichi, infatti, oltre che di stile letterario sono anche modelli di virtù civili e morali: le loro
opere trasmettono un ideale di humanitas nel quale si fondono amore per la conoscenza,
senso del valore e della dignità dell’uomo, tensione alla gloria e alla realizzazione mondana, apprezzamento del bello, esercizio della vita attiva. Il culto dell’antico, dunque, è il
comune denominatore dell’Umanesimo, quale che sia la configurazione che esso assume.
La riscoperta della civiltà classica gradualmente matura una nuova consapevolezza della
distanza storica che separa gli uomini moderni da quelli vissuti nell’antichità, e ciò si allarga alla consapevolezza della specificità di ogni epoca. Nasce così una visione prospettica della storia, un embrione di storicismo del tutto assente dalla cultura medievale che,
al contrario, tendeva a collocare ogni manifestazione umana sullo stesso piano. È anche
grazie a questo nuovo modo di concepire la storia che il richiamo all’antichità si proietta
sul presente, che il dialogo con il passato può tradursi in un insegnamento per l’oggi.
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Quattrocento
ASPETTI CENTRALI DEL QUATTROCENTO
L’UMANESIMO
LA SOCIETÀ DI CORTE
idea centrale: dignità dell’uomo artefice del proprio
destino
novità rispetto alle corti feudali e trecentesche
educazione integrale dell’uomo incentrata sugli studia
humanitatis, con alla base le letterature classiche
grande egemonia culturale
autori antichi come modelli di lingua,
di stile, di valori
elaborazione di un nuovo codice comportamentale
di lunghissima durata
studio del latino, del greco, dell’ebraico
nuova figura sociale: il gentiluomo
scoperta di testi antichi
che si sposta da una corte all’altra
nascita della filologia
bisogno di coesione nel sistema delle varie corti
umanista: intellettuale impegnato con ruoli
importanti nell’educazione e in politica
Salutati
Bruni
Bracciolini
notevole sviluppo nella seconda metà del
Quattrocento della letteratura in volgare
condivisione di un vocabolario, di un
costume e di un sistema di valori
due innovazioni fondamentali
stampa a caratteri mobili
la prospettiva
velocizzazione del processo di produzione del libro
e abbattimento dei costi
ampliamento del pubblico dei lettori
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441
11. Le coordinate storiche e culturali
LO STUDIO DELLE LINGUE CLASSICHE Alla base del culto umanistico per l’antico c’è
l’esaltazione delle lingue della classicità: in un primo tempo, del latino, poi anche del greco. Per gli umanisti il latino non era una lingua come le altre, era la lingua della civiltà:
era attraverso il latino, infatti, che i Romani avevano diffuso la cultura, le arti e i valori
dell’uomo libero in tutto il mondo. Pertanto è una concezione ideologica a far sì che il
latino sia per gli umanisti una lingua di dignità molto superiore a quella del volgare; per
molti di loro, addirittura, l’unica lingua che possa essere usata nella scrittura. Gli umanisti cominciano anche a studiare il greco, ignoto a Dante e di cui Petrarca e Boccaccio
avevano conosciuto solo pochi rudimenti grammaticali. Nella seconda metà del Quattrocento emerge pure l’esigenza di comprendere più a fondo la Bibbia, e così nasce l’interesse per l’ebraico.
LA RISCOPERTA DELLE OPERE CLASSICHE Il movimento umanista era animato, dunque, dal bisogno di conoscere i testi degli antichi, ma questi, in larga parte, giacevano
chiusi e dimenticati nelle biblioteche dei conventi, delle cattedrali e delle grandi abbazie
europee. Il Medioevo aveva tramandato solo un piccolo numero di opere latine e greche:
molte erano conosciute attraverso compendi, riassunti o citazioni; di alcune si era addirittura persa memoria. I pionieri delle ricerche bibliografiche erano stati Petrarca e Boccaccio. Nel nuovo secolo il più attivo nel portare alla luce grandi testi della latinità è Poggio Bracciolini (1380-1459), che nel corso dei suoi frequenti viaggi nell’Europa settentrionale, tra il 1415 e il 1417, scopre opere di Cicerone, Quintiliano [uD10] e Lucrezio. Dopo
la caduta di Costantinopoli (1453) cominciano a circolare anche importanti opere greche;
sullo scorcio del Quattrocento riemerge la
Poetica di Aristotele, che sarà fondamentale
per gli ulteriori sviluppi della cultura europea.
Antonello da Messina, San Gerolamo nello studio,
1460-75
[National Gallery, Londra]
Formatosi sulla cultura
fiamminga importata a
Napoli da Renato d’Angiò
e da Alfonso d’Aragona,
Antonello da Messina
(1430 ca.-1479) può
definirsi uno dei più
grandi pittori del
Quattrocento. In questa
sua famosa opera si
avverte pienamente lo
spirito della cultura
umanistica. Antonello
rinnova l’iconografia di
san Gerolamo,
raffigurandolo non più
nelle vesti di eremita ma
in quelle di studioso,
posto al centro di uno
spazio profondo,
articolato e misurabile.
Anche il riferimento alla
leggenda del santo, che
cavò una spina dalla
zampa di un leone, passa
in secondo piano con la
figura del leone divenuta
poco più di un’ombra
scura (sotto gli archi, a
destra). L’artista
messinese non è
interessato al racconto:
ciò che gli preme è
sottolineare la dignità
intellettuale e morale del
personaggio, ponendolo
al centro di un fascio
luminoso che, entrando
dalle ampie aperture,
investe gli oggetti e le
figure.
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442
Quattrocento
D10
La “liberazione” dei classici
Poggio Bracciolini, Epistolario, I, 5; trad. di Eugenio Garin
Nel passo di una lettera indirizzata il 15 dicembre 1416 da Costanza (in Germania) a Guarino
Veronese, il più grande pedagogista dell’Umanesimo, Poggio Bracciolini racconta con grande
emozione il ritrovamento dei libri di Quintiliano.
Molti essendo stati gli autori latini, come sai,
egregi nell’arte di perfezionare e adornare il discorso, fra tutti illustre ed eccellente fu M. Fabio
Quintiliano1, il quale così chiaramente e compiutamente, con diligenza somma, espone le doti necessarie a formare un oratore perfetto, che non mi
sembra gli manchi cosa alcuna, a mio giudizio,
per raggiungere una somma dottrina o una singolare eloquenza. [...] Ma egli presso di noi italiani era così lacerato, così mutilato, per colpa, io
credo, dei tempi, che in lui non si riconosceva più
aspetto alcuno, abito2 alcuno d’uomo. Finora
avevamo dinanzi un uomo «con la bocca crudelmente dilacerata, il volto e le mani devastati, le
orecchie strappate, le nari sfregiate da orrende ferite3». Era penoso, e a mala pena sopportabile, che
noi avessimo, nella mutilazione di un uomo sì
1. M. Fabio Quintiliano: scrittore latino (35-95
d.C.), autore dell’Institutio oratoria (‘L’istituzione oratoria’), opera dedicata alla formazione
grande, tanta rovina dell’arte oratoria; ma quanto più grave era il dolore e la pena di saperlo mutilato, tanto più grande è ora la gioia, poiché la
nostra diligenza gli ha restituito l’antico abito e
l’antica dignità, l’antica bellezza e la perfetta salute. [...] E [...], per Ercole, se non gli avessi recato aiuto, era ormai necessariamente vicino al
giorno della morte. Poiché non c’è dubbio che
quell’uomo splendido, accurato, elegante, pieno
di qualità, pieno di arguzia, non avrebbe più potuto sopportare quel turpe carcere, lo squallore
del luogo, la crudeltà dei custodi. Era infatti triste e sordido come solevano essere i condannati
a morte, con la barba squallida4 e i capelli pieni
di polvere, sicché con l’aspetto medesimo e con
l’abito mostrava di essere destinato a un’ingiusta
condanna.
dell’oratore, dalla prima infanzia all’ingresso
nella vita politica come cittadino.
2. abito: ‘aspetto’.
3. con la bocca... ferite: citazione da Virgilio,
Eneide, VI, vv. 496-498.
4. squallida: ‘incolta’.
LA FILOLOGIA Il ritrovamento delle opere della classicità costituì solo il primo passo ver-
so il recupero della civiltà antica. A esso seguì, ancora sulla scia di quanto aveva fatto
Petrarca, il tentativo di ricostruire la loro veste originale. Gli umanisti, infatti, erano consapevoli che i testi usciti dall’oblio di secoli erano stati alterati da errori, aggiunte, modifiche, omissioni di cui si erano resi responsabili copisti e traduttori. La disciplina che essi
fondarono, la filologia, cercava per l’appunto di porre rimedio ai guasti della tradizione e
di avvicinarsi il più possibile alla lezione genuina di un testo.
LA FIGURA INTELLETTUALE DELL’UMANISTA L’umanista non è solo un ricercatore e uno
studioso, è una compiuta figura di intellettuale immerso nel dibattito culturale e politico
del suo tempo. Già a partire dalla fine del Trecento questo intellettuale di professione, anticipato da Petrarca e Boccaccio, entra stabilmente nel panorama della cultura italiana. Gli
umanisti occupano ruoli importanti nel sistema dell’insegnamento a tutti i livelli ed
esercitano funzioni anche di notevole importanza all’interno dei governi sia repubblicani, sia principeschi. Il potere, infatti, si accorge ben presto di quanto questi nuovi intellettuali possano essere determinanti per la sua politica culturale. Se con gli scritti essi sono
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11. Le coordinate storiche e culturali
in grado di elaborare mitologie a sostegno di specifiche scelte politiche o, più genericamente, di dinastie bisognose di consenso, grazie alle competenze retoriche e alla cultura
storica formate sugli studia humanitatis possono svolgere incarichi delicati di tipo amministrativo e diplomatico. Alcuni esempi: il cancelliere della Repubblica fiorentina Coluccio
Salutati (1331-1406) elabora il mito della ‘libertà fiorentina’ (florentina libertas) contro la
“tirannide” della nemica tradizionale, la Milano dei Visconti [uD11]. Più tardi Leonardo
Bruni (1370 ca.-1444), cancelliere come Salutati, nel momento in cui torna a farsi pressante la minaccia viscontea celebra la città di Firenze come novella Roma e novella Atene,
e ne scrive una storia (Historiae florentini populi, ‘Storie fiorentine’) che è un monumento
grandioso alla virtù repubblicana. Ancora: a Napoli Alfonso d’Aragona, durante la guerra
condotta per assicurarsi il trono di Napoli, fra i vari modi esperiti per conferire legittimazione al suo diritto contestato dal pontefice ricorre anche al contributo dei due più grandi umanisti del tempo: lo stesso Leonardo Bruni e Lorenzo Valla (1405-1457). Quest’ultimo, su commissione di Alfonso, scrive nel 1440 il trattato De falso credita et ementita Constantini donatione (‘La donazione di Costantino creduta e asserita con falsità’), nel quale
dimostra la falsità della donazione della parte occidentale dell’Impero romano, Roma inclusa, fatta da Costantino a papa Silvestro I, donazione sulla quale il Papato fondava la legittimazione del suo potere temporale [u12.4].
D11
Inno alla libertà fiorentina
Coluccio Salutati, Invettiva contro Antonio Loschi da Vicenza
Coluccio Salutati, cancelliere del Comune di Firenze dal 1375 al 1406, unì costantemente l’impegno politico all’amore per gli studi umanistici. Di lui riportiamo un’appassionata difesa della città
di Firenze, tratta dalla risposta (scritta in latino nel 1403) al cancelliere del Ducato di Milano,
Antonio Loschi, sostenitore della politica espansionistica dei Visconti. Salutati esalta le origini
romane della sua città, identificando la libertà repubblicana con l’autentica tradizione del popolo romano.
Che cosa significa infatti essere fiorentino, se non
essere per natura e per legge cittadino romano, e
per conseguenza libero e non schiavo? È infatti
proprio della nazione e del sangue romano quel
dono divino che si chiama libertà; ed è tanto sua
proprietà che chi smette di essere libero non può
più ragionevolmente essere chiamato cittadino romano e neppur fiorentino. Tal dono, tal nome glorioso, chi vorrà mai perdere, fatta eccezione per coloro cui non importa diventare da liberi schiavi?
Credimi: noi siamo molto più pronti ad affermare e a difendere la nostra libertà di quanto voi
1. ignavia e pusillanimità: ‘pigrizia morale e
viltà’. Qui Salutati si rivolge ai cittadini milanesi.
2. nascosto sentire: ‘sentimenti nascosti’.
3. precordi: ‘parti più profonde dell’animo
non siate abituati a sopportare una turpe servitù
con la vostra ignavia e pusillanimità1, di cui al
mondo non ve n’è maggiore. Ho detto abituati e
non disposti, per non sembrar giudice temerario,
quale tu sei, del nascosto sentire2 degli altri. Forse,
poiché talora ritorna nei precordi3 l’antico valore,
potrà un giorno tornare anche in voi lo spirito italico, se non siete davvero sangue e stirpe di Vinili,
ossia di Longobardi4; forse potrete ancora riscuotere in voi il vigore dell’animo, e chiamarvi giustamente liberi e cittadini romani; potrete, se Dio vuole, scuotere il turpe giogo e ricordare la Gallia Ci-
umano’.
4. se non siete... Longobardi: l’affermazione
è evidentemente provocatoria; Salutati insinua
il dubbio che gli abitanti di Milano discendano
non dall’antico popolo romano ma dai Longobardi (o Vinili, ossia ‘guerrieri’ nella lingua longobarda) che invasero l’Italia nel VI secolo d.C.
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Quattrocento
salpina5, e la gloriosissima stirpe gallica di cui è
proprio il godere di una libertà regia, e odiare i tiranni, e abbominare come qualcosa di orrendo anche il più lieve servaggio. Ma per tornare a noi, se
l’animo regge, se soccorran le forze, se ci assista il
valore, confidiamo senza esitazione di difendere la
nostra terra. Tu soggiungi di non vedere in noi forze bastevoli per opporci a quattro legioni di cavalieri che, come dici, vengono armate contro di noi;
ben le vediamo e le sentiamo noi, consapevoli che
in guerra il coraggio vale le mura; consapevoli che
la vittoria non è nella moltitudine dei soldati ma
nelle mani di Dio; consapevoli che per noi combatte la giustizia. Noi ricordiamo quel che tu neghi, di
essere di stirpe romana; noi leggiamo che i nostri
maggiori6 hanno spesso resistito contro forze soverchianti di nemici, e con piccole schiere non solo hanno difeso le cose loro, ma hanno anche ottenuto insperata vittoria. [...]
5. Gallia Cisalpina: con Gallia Cisalpina si
intendeva anticamente l’Italia del Nord, che i
Non posso credere che il mio Antonio Loschi,
che ha visto Firenze, o alcun altro, chiunque l’abbia vista, a meno che non sia del tutto folle, possa negare che essa sia davvero il fiore d’Italia e la
sua parte più bella. Qual città, non soltanto in Italia ma in tutto il mondo, è più salda nella cinta
delle sue mura, più superba di palazzi, più adorna di templi, più bella di edifizi, più splendida di
porticati, più ricca di piazze, più lieta di ampie
strade, più grande di popolo, più gloriosa di cittadini, più inesauribile di ricchezze, più feconda
nei campi? [...] Qual città, priva di porto, ha tanto traffico di merci? Dove maggiore il commercio, più ricco per varietà di scambi, più abile per
sottili accorgimenti? Dove uomini più illustri, e
per tacer degl’infiniti che sarebbe fastidioso ricordare, così insigni per imprese, valenti nelle armi, potenti per giusti domini, e famosi? dove
Dante, dove Petrarca, dove Boccaccio?
Celti occuparono verso il V secolo a.C. costituendo una minaccia per Roma fino alla fine del
III secolo a.C.
6. maggiori: ‘antenati’.
CENTRALITÀ DELL’UOMO Quello umanistico è stato un movimento “totale”. Nato dal
contatto con i testi dei classici, nel corso del tempo elabora una visione del lavoro intellettuale e, più in generale, del ruolo dell’uomo nella società e della sua collocazione nel
mondo che si riverbera su tutti i settori della vita, dalla politica alla storia, dalla morale
alla filosofia, alla pedagogia e, naturalmente, alla letteratura. Non esiste un sistema di valori nel quale tutti gli umanisti si possano riconoscere, perché il movimento è molto variegato al suo interno. Esistono però alcuni concetti basilari comuni a gran parte di loro: in
primo luogo, l’idea della dignità dell’uomo che, grazie al libero arbitrio e alle facoltà intellettuali di cui Dio lo ha dotato, può essere artefice del proprio destino e, pertanto, orientare la storia e trasformare il mondo intorno a lui. Da questa idea discendono alcune conseguenze anche di ordine pratico, quali l’impegno nella vita attiva e una nuova idea di
otium, cioè del tempo dedicato allo studio e alla riflessione. A differenza dell’ascetismo
monastico, l’otium umanistico si iscrive in un orizzonte mondano.
Guida allo studio
1. Quando si è imposto il termine “umanesimo”, e in quale
accezione? 2. Quali valori sono compresi nell’ideale di humanitas? 3. Per quali ragioni lo studio delle lingue classiche assume così grande importanza nella cultura umanistica? 4. In che modo la riscoperta autentica della civiltà
classica favorisce la nascita di un embrione di storicismo?
5. In quale modo viene incrementata la conoscenza dei te-
sti latini antichi? 6. Chi è Poggio Bracciolini? 7. Di cosa si
occupa la filologia? 8. Quali ruoli svolge l’intellettuale
umanista nel panorama culturale italiano del Quattrocento? 9. Quale contributo fornisce l’intellettuale umanista al
consolidamento dell’autorità politica dei principali Stati italiani nel Quattrocento?
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11. Le coordinate storiche e culturali
7 La corte
LA NUOVA CORTE QUATTROCENTESCA Nella seconda metà del Quattrocento il consoli-
darsi degli Stati regionali provoca profondi cambiamenti nella composizione e nel ruolo dell’antico istituto della corte. Intorno alla metà del secolo nasce quella civiltà delle corti che,
passando attraverso varie trasformazioni, eserciterà in tutta Europa un’influenza determinante sulla formazione dei ceti dirigenti e degli strati elevati della società. Un’influenza
che sarà decisiva in epoca rinascimentale, ma che resterà attiva ancora per molto tempo,
perfino dopo la Rivoluzione francese. Il codice delle buone maniere, cioè del modo di vivere in società, formatosi tra Quattro e Cinquecento si è mantenuto per secoli e su di esso si
è fondata in gran parte anche la buona educazione della classe borghese. La corte principesca del secondo Quattrocento è diversa non solo dalle corti feudali del Medioevo, ma
anche da quelle signorili che l’hanno immediatamente preceduta. Essa, infatti, è il luogo
centrale di governo dello Stato, cioè è il centro effettivo del potere, ma è anche, nello
Andrea Mantegna, La corte di Ludovico Gonzaga, 1467-74 ca.
[Camera degli Sposi, Palazzo Ducale, Mantova]
La corte, nella quale risiedono il
signore e i suoi familiari, insieme con
diverse centinaia di ufficiali, funzionari,
servitori, ha un carattere ibrido, fra il
pubblico e il privato: è una residenza
privata, ma anche il luogo in cui si
mette in scena il teatro del potere reale
e in cui si esercita la sovranità. Tanto lo
spazio fisico che la ospita quanto le
persone che la frequentano devono
testimoniare la natura eccezionale della
corte stessa; per questo motivo i
grandi signori del Rinascimento
chiamano, accolgono e stipendiano i
più grandi artisti perché costruiscano o
adornino gli edifici riservati all’esercizio
del potere. Andrea Mantegna (14311506), pittore di corte della famiglia
Gonzaga dal 1459, esegue e dirige i
lavori di decorazione di molte residenze
dei signori di Mantova. Fra i suoi lavori
il più noto è la decorazione della
Camera degli Sposi nel Palazzo Ducale
di Mantova, dominata dal grande
affresco che ritrae Ludovico III
Gonzaga e sua moglie Barbara di
Brandeburgo con la famiglia e la corte.
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Quattrocento
stesso tempo, il teatro della vita mondana e, quindi, il luogo dove si producono e si consumano gli eventi culturali.
LA SOCIETÀ DI CORTE La società di corte produce una cultura che rispecchia il suo modo
di vivere e che, insieme, esprime la consapevolezza che essa ha di sé e del suo ruolo. Siccome quanto è prodotto a corte nei campi della cultura, dell’arte e del comportamento
sociale si riverbera, grazie al prestigio di cui la corte gode, anche sugli strati sociali che
non gravitano direttamente intorno a essa, la corte principesca finisce per esercitare una
egemonia culturale che va molto al di là del ristretto mondo cortigiano [uD12]. La società
che si riunisce in una corte, comunque, è assai meno ristretta di quanto si possa pensare.
In essa si ritrovano il patriziato cittadino, l’antica nobiltà feudale, la nuova nobiltà delle
magistrature, i funzionari, i militari, gli amministratori, i giocolieri, i buffoni, senza dimenticare gli artisti, i letterati e gli uomini di cultura. Un insieme eterogeneo, dunque, che
però tende sempre più a uniformarsi in una nuova figura sociale, quella del “gentiluomo”, cioè del nobile o del nobilitato che dalla corte dipende economicamente e socialmente. Ma il gentiluomo non dipende tanto – ed è questa la novità – da una singola e determinata corte, quanto dal sistema delle corti. In effetti le varie corti italiane, per composizione sociale, struttura gerarchica, comportamenti culturali e gusti artistici, sono omogenee fra loro al di là delle differenze territoriali. I gentiluomi cortigiani, dunque, possono passare da una all’altra senza avvertire differenze sostanziali.
Un insieme tanto eterogeneo, ovviamente, aveva problemi di fusione: necessitava di
un costume e di un vocabolario comuni e, soprattutto, necessitava di un sistema di valori che
potesse essere condiviso da tutti. Si aggiunga che i signori e i sovrani, o perché stranieri o perché di dubbia nobiltà, dovevano legittimare il potere loro e quello dei ceti che con loro erano
cresciuti. A ciò provvide soprattutto la letteratura in
volgare. Ecco perché nella seconda metà del secolo alGuida allo studio
l’interno del mondo delle corti assistiamo a un impetuo1. Che cosa rappresenta la corte principesca nel secondo Quattrocento? 2. Da chi è composta la corte? 3. Chi so sviluppo di quella letteratura in volgare che, nella
è il gentiluomo? 4. Quale ruolo svolge la letteratura in prima metà del secolo, il movimento umanistico aveva
volgare nel quadro culturale della società di corte?
fatto così gravemente deperire.
D12
Un aneddoto di corte
Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri
Il libraio fiorentino Vespasiano da Bisticci è testimone di un curioso caso accaduto alla corte di Napoli e relativo al cambiamento della moda e del gusto presso la società nobiliare. Nella seconda metà
del Quattrocento si affermano gusti austeri e raffinati, per cui passano di moda le stoffe dorate e di
tinte vivaci in favore dei tessuti neri. Ma nella provinciale Siena non se ne erano ancora accorti. Il
povero ambasciatore senese è vittima di uno scherzo di gusto abbastanza dubbio.
Era a Napoli uno ambasciadore sanese, della
loro natura, molto borioso1. La Maestà del re il
più delle volte vestiva di nero, con qualche fer1. della loro... borioso: ‘molto vanitoso, come sono per indole i senesi’.
maglio nel cappello, o qualche catena d’oro al
collo: i broccati e vestiti di seta poco gli usava.
Questo ambasciadore vestiva di broccato d’oro
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11. Le coordinate storiche e culturali
molto ricco, e sempre quando veniva al re aveva questo broccato d’oro. Il re più volte con quegli sua domestici2 se ne rideva di questo vestire
di broccato. Un dì, ridendo disse a uno de’ sua;
per certo che io voglio che noi facciamo che
questo broccato muti colore; e per questo ordinò
una mattina di dare udienza in uno luogo molto misero3; e fece chiamare tutti gli ambasciadori, e ordinò con alcuno de’ sua4, che la mattina
in quella calca ognuno si stropicciasse addosso
allo ambasciadore sanese, e stropiciassino quello broccato. La mattina, non solo dagli amba2. quegli sua domestici: ‘gli amici più intimi’.
3. misero: ‘povero, squallido’.
4. con alcuno de’ sua: ‘per mezzo di qualcuno
dei suoi intimi’.
sciadori, ma dalla Maestà del re era pinto e stropicciato5 in modo quello broccato, che uscendo
da corte, non era uomo che potesse tenere le risa,
vedendo quello broccato, ch’era di chermisi6, col
pelo allucignolato7, e cascatone l’oro, e rimasta
la seta gialla, che pareva la cosa più brutta del
mondo. A vederlo la Maestà del re uscir dalla
sala, col broccato tutto avviluppato e guasto8,
non poteva tenere le risa; e stette parecchi dì,
che mai fece altro che ridere di questa novella di
questo ambasciadore sanese; e lui mai s’avvide
quello che gli era suto9 fatto.
5. pinto e stropicciato: ‘urtato e sgualcito’.
6. chermisi: ‘colore rosso vivo’.
7. allucignolato: ‘attorcigliato come stoppini
di candele’.
8. avviluppato e guasto: ‘aggrovigliato e sciupato’.
9. suto: ‘stato’.
8 L’invenzione della stampa
L’invenzione della stampa a caratteri mobili rappresenta nella storia della cultura una rivoluzione paragonabile soltanto a quella prodotta nel XX secolo dal computer e dalle nuove
tecnologie telematiche. Nel 1454, a Magonza, l’orefice tedesco Johann Gutenberg stampa con i caratteri mobili una Bibbia latina. È la prima volta che questa tecnologia viene
impiegata. Un carattere mobile è un supporto di metallo o di legno su cui è impressa una
lettera dell’alfabeto. Accostati fra di loro, i caratteri possono comporre qualunque parola e
qualunque pagina, ma, soprattutto, possono essere riutilizzati senza limiti. La pagina di
FOCUS
Le biblioteche umanistiche
Nel Quattrocento la biblioteca è
non solo il luogo dove si conservano i libri, ma è anche un luogo di
produzione e di scambio culturale. I dotti, infatti, in ossequio anche
a precise direttive dei signori, si
dedicano alla ricerca di nuovi libri e
alla loro copiatura (e ciò anche
dopo l’avvento della stampa). Inoltre è frequente l’interscambio sotto
forma di prestito di libri manoscritti
da un centro all’altro. Nel corso del
XV secolo per la prima volta la
biblioteca si dota di funzionari (dal
bibliotecario al contabile) e mantie-
ne un rapporto stabile con le botteghe dei copisti e, più tardi, con le
stamperie. Tra le biblioteche più
celebri del tempo va innanzitutto
ricordata quella fiorentina del convento di S. Marco voluta da Niccolò
Niccoli (1364-1437), instancabile
ricercatore e trascrittore di testi
greci e latini. Nel 1444, adempiendo alle sue volontà testamentarie,
Cosimo de’ Medici ne aveva trasferito la cospicua biblioteca privata in
S. Marco e l’aveva aperta a tutti i cittadini amanti degli studi anche
attraverso il prestito esterno. Come
ampliamento di questa, sempre a
Firenze, nasce la biblioteca Laurenziana, voluta da Lorenzo il Magnifico; in seguito fu collocata in un edificio progettato da Michelangelo
Buonarroti. La biblioteca Marciana
venne costituita a Venezia nel 1468
per iniziativa del cardinale e umanista greco Giovanni Bessarione
(1403-1472). Infine, la biblioteca
Vaticana fu istituita da papa Niccolò
V (1447-55) e aperta al pubblico da
papa Sisto IV (1471-84). Si tratta di
istituzioni prestigiose ancora oggi
operanti.
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Quattrocento
L’interno di una stamperia, XV sec.
Nell’immagine si riconoscono, da sinistra a destra, un tipografo
che prepara i tamponi con i quali inchiostrare la forma di
stampa, l’impressore, che aziona il torchio, l’addetto alla lettura
delle bozze, il compositore dietro alla cassetta dei caratteri, che
allinea le lettere nel compositoio (l’oggetto che regge nella
mano sinistra), e, in primo piano a destra, il proprietario della
bottega che verifica i fogli stampati.
caratteri così composta viene inchiostrata e poi, per
mezzo di un torchio, impressa sul foglio. Questo
sistema rende obsoleto il lento, faticoso e costosissimo lavoro di copiatura a mano in vigore fin dalle origini della scrittura. I vantaggi sono evidenti: in tempi rapidi è possibile stampare un numero elevatissimo di copie di uno stesso testo e, quel che più
conta, abbattendo i costi di produzione. La possibilità di acquistare a prezzi ragionevoli (rispetto a
quelli astronomici di un codice manoscritto) ogni
tipo di libro determina un cambiamento profondo nel
rapporto fra i lettori e i libri, tanto che, nell’arco di
circa un cinquantennio, si forma un pubblico di lettori molto diverso per ampiezza e per qualità sociale
e culturale da quello, ristretto ed elitario, che aveva
avuto accesso ai libri fino ad allora. L’invenzione di
Gutenberg dilaga rapidamente in tutta Europa. In Italia la prima officina tipografica è allestita a Subiaco
nel 1465. In un breve giro di anni nasce un numero elevatissimo di stamperie un po’ in
tutta la penisola. E parallelamente decadono le botteghe dei copisti (scriptoria), alcune
anche di grandi dimensioni, come quella organizzata a Firenze dal libraio e letterato Vespasiano da Bisticci (1421-1498).
L’editoria a stampa dispiegherà tutte le sue potenzialità a partire dai primi decenni del
Cinquecento. A cavallo fra i due secoli, a Venezia, opera l’umanista e tipografo Aldo Manuzio (1450-1515), che può essere considerato il primo editore nel senso moderno della
parola: a lui, fra l’altro, si deve l’invenzione del libro di piccolo formato e quella dei caratteri in corsivo. Ancora nella seconda metà del Quattrocento, però, l’industria tipografica si
rivolge soprattutto a un pubblico medio-basso, quando non addirittura “popolare”: per
questo pubblico di scarse pretese culturali stampa testi didattici, devozionali, manuali di
uso pratico e qualche opera di intrattenimento. Gli umanisti e i rappresentanti delle classi più elevate guardano con distacco il nuovo strumento di diffusione della cultura e seguitano ad affidare al manoscritto le opere colte o ritenute di livello superiore. È sintomatico
di tale atteggiamento che il signore di Urbino Federico da Montefeltro proibisca formalmente che nella sua nutritissima e selezionatissima biblioteca entrino testi a stampa.
Guida allo studio
1. Come funziona la stampa a caratteri mobili? 2. Qual è
il primo libro a essere stampato? E dove? 3. Quali conseguenze produce la diffusione del metodo della
stampa sul piano socio-culturale? 4. Chi è Aldo Manuzio? 5. Quale atteggiamento assumono gli umanisti
nei confronti della nuova invenzione?
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11. Le coordinate storiche e culturali
La pittura
Masaccio, La Trinità, schema prospettico
Masaccio, La Trinità, 1426-27 ca.
[S. Maria Novella, Firenze]
IL PUNTO SU...
Nel campo della pittura il passaggio dallo stile gotico a quello rinascimentale è leggermente più tardivo rispetto alle altre arti: nei primi
decenni del Quattrocento è il pittore fiorentino Masaccio che opera
un cambiamento cruciale dando
inizio alla “maniera moderna” della
pittura. L’affermazione del nuovo
linguaggio non è tuttavia così semplice e immediata; per lungo tempo
molti artisti del Quattrocento preferiscono adottare uno stile più
mediato, in cui elementi stilistici
nuovi si mescolano agli influssi della cultura tardogotica.
Sulla scia di una lenta rivoluzione avviata nel secolo precedente da Giotto, Masaccio (1401-1428) abbandona i contenuti astratti e simbolici
dell’arte gotica per fare della rap-
presentazione “verosimile” del
corpo umano e della natura un principio fondamentale a cui ispirarsi. La
figura umana, di cui studia a fondo
l’anatomia e le espressioni del volto,
acquista nelle sue opere una posizione predominante e la sua collocazione nello spazio è eseguita con
estrema coerenza. Fondamentale
risulta l’uso della prospettiva unicentrica [u11.9], grazie alla quale si
stabilisce un preciso rapporto tra i
soggetti e gli oggetti rappresentati
e lo spazio della narrazione: all’interno della scena, figure e cose, dotate
di una consistenza plastica concreta, vengono a occupare uno spazio
geometricamente definito e immediatamente comprensibile.
La Trinità, l’ultima opera realizzata
da Masaccio prima della prematura
scomparsa, riassume in sé tutti i caratteri innovativi dell’arte del maestro fiorentino, che qui opera una
sintesi perfetta fra il realismo scultoreo donatelliano e le regole prospettiche di Brunelleschi.
In una finta cappella Masaccio raffigura l’immagine della Trinità, con
il Cristo crocifisso sorretto dalla figura di Dio Padre e la colomba dello Spirito Santo colta nell’atto di
scendere verso terra. Maria e Giovanni sono disposti simmetricamente ai due lati della croce, men-
tre sui gradini della cappella sono
rappresentati gli anonimi committenti dell’opera. Nella parte più
bassa della composizione si trova
un sarcofago dipinto su cui giace
uno scheletro.
Un preciso sistema metrico regola il
rapporto proporzionale e le distanze tra le figure, sottolineandone l’impostazione piramidale che scala in
profondità secondo gli assi prospettici della composizione convergenti
sulla figura del Cristo, fulcro drammatico della scena.
Inserendo perfettamente le figure
in uno spazio costruito prospetticamente, profondo e misurabile, il
maestro raffigura la Trinità non
simbolicamente, come avrebbe fatto un pittore medievale, ma razionalmente, attraverso forme chiare
e concrete. La figura di Dio sorregge la croce poggiando i piedi su
una solida mensola di legno, occupando uno spazio reale e i due
committenti, ritratti con grande
precisione fisionomica, diversamente da quanto avveniva nel Medioevo, hanno la stessa dimensione delle figure sacre (a parte il
maestoso Dio Padre). Il dogma perde così il suo alone di mistero, per
divenire qualcosa che l’uomo con
la propria intelligenza può comprendere.
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Quattrocento
9 La prospettiva
Anche nel settore della raffigurazione pittorica si produce una innovazione destinata a cambiarne il corso, l’invenzione della prospettiva. La prospettiva è un complesso di regole e di
calcoli che consente di rappresentare oggetti a tre dimensioni su una superficie piana, cioè
bidimensionale, facendone scaturire un effetto di realtà. Essa si fonda sulle leggi elementari dell’ottica e, in particolare, sul fatto che gli oggetti distanti appaiono all’occhio più piccoli e meno definiti rispetto a quelli vicini. Le leggi geometriche della prospettiva sono messe
a punto tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento. È il grande architetto Filippo Brunelleschi (1377-1446), famoso per aver progettato la cupola del Duomo di Santa Maria del
Fiore a Firenze, che ne codifica le regole in alcune “tavolette prospettiche” andate perdute,
ma delle quali rimangono precise descrizioni. Nel 1435 l’umanista e architetto Leon Battista Alberti nel trattato latino De pictura [u12.6] riprende le acquisizioni di Brunelleschi e
fissa le regole fondamentali della rappresentazione prospettica, regole che saranno applicate dai grandi pittori del secolo, primi fra tutti Masaccio (1401-1428), Paolo Uccello (13971475), Piero della Francesca (1415/20-1492) e Andrea Mantegna (1431-1506). La prospettiva è un nuovo modo di interpretare la realtà fondato sui rapporti proporzionali e armonici
che la regolerebbero. È dunque una tecnica che vuole far apparire come naturale un punto di
vista parziale e costruito. Per impostare un’immagine in prospettiva, infatti, è necessario stabilire il punto di vista dal quale l’osservatore deve guardare il dipinto; l’immagine raffigurata è quella visibile solo da quel determinato punto e gli oggetti e le figure in essa contenuti
sono disegnati in proporzione alla minore o maggiore distanza da esso. Quanto non ricade
nello spazio così delimitato è escluso dalla rappresentazione. Grazie alla prospettiva l’uomo
è in grado di riprodurre un’immagine simile al vero ma ordinata secondo la ragione.
Guida allo studio
SINTESI
1. Che cosa è la prospettiva in ambito pittorico? 2. Quale
importante merito viene riconosciuto all’architetto Filippo
Brunelleschi? 3. In quale trattato vengono rigorosamen-
La situazione europea Nel XV secolo la tendenza all’aggregazione
politica e statale porta le monarchie formatesi nei secoli precedenti in Francia, Inghilterra e Spagna
ad acquisire la fisionomia di Stati
nazionali. In Italia e in Germania si
formano invece entità statali di ambito regionale.
La situazione italiana nella prima
metà del secolo Nell’Italia
centro-settentrionale spiccano il
Ducato di Milano, retto dai
Visconti, e le Repubbliche di
Venezia e di Firenze, governate da
potenti oligarchie. Questi Stati
regionali o sovraregionali sono a
lungo in guerra tra loro per il
te codificate le regole della prospettiva e per opera di chi?
4. In che senso la prospettiva può essere considerata un
nuovo modo di vedere e rappresentare la realtà?
predominio territoriale. Importanti
sono poi il Marchesato degli Este a
Ferrara, la Contea dei Gonzaga a
Mantova, le Signorie dei Malatesta
a Rimini e dei Montefeltro a
Urbino. Nel Centro Italia il
cosiddetto Patrimonio di San
Pietro, germe del futuro Stato della
Chiesa, è frammentato in piccoli
territori di fatto autonomi. Il Regno
di Napoli, che ha ancora una forte
impronta feudale, nel 1442 passa
dagli Angioini agli Aragonesi.
La seconda metà del secolo: la
svolta del 1454 Nel 1454, dopo
un lungo periodo di guerre
espansionistiche, i maggiori Stati
italiani firmano il trattato di Lodi,
dando così origine alla “Lega
italica”, alleanza di fondamentale
importanza perché garantirà per
quarant’anni un equilibrio delle
forze e consentirà un significativo
sviluppo politico e culturale del
paese.
La discesa di Carlo VIII Questo
equilibrato assetto politico è
scardinato per sempre nel 1494: il
re di Francia Carlo VIII scende in
Italia per conquistare il Regno di
Napoli, occupato nel 1495 senza
alcuna difficoltà e abbandonato
nello stesso anno. L’evento mostra la
fragilità dell’Italia che, politicamente
divisa, diventerà nei decenni
successivi teatro di uno scontro che
porterà alla conquista straniera di
gran parte del suo territorio.
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451
11. Le coordinate storiche e culturali
L’Umanesimo Uno dei grandi
fenomeni che caratterizzano il
Quattrocento è la diffusione
dell’Umanesimo, movimento di
ritorno all’antico e di recupero del
latino classico, iniziato nel Trecento
con Petrarca e Boccaccio. Il
termine deriva dall’espressione
ciceroniana studia humanitatis
(‘studi relativi all’uomo’): scopo della
cultura diventa la formazione
integrale dell’uomo, di cui si
afferma la dignità in quanto artefice
del proprio destino. Cardine di
questa educazione sono le
letterature classiche: lo studio del
latino e del greco diventa centrale
e gli autori dell’antichità sono
assunti a modello non solo di stile
letterario, ma anche di virtù civili e
morali. Continua anche la
Poggio Bracciolini, Epistolario, in
Prosatori latini del Quattrocento, a cura
di Eugenio Garin, Ricciardi, MilanoNapoli 1952.
La corte La corte del secondo
Quattrocento è diversa dalle
precedenti: è il luogo centrale di
governo dello Stato, ma è anche il
luogo dove si producono e si
consumano gli eventi culturali.
Nasce in questo periodo quella
civiltà delle corti che eserciterà
per secoli un’influenza decisiva
sulla formazione degli strati alti
della società. La corte, per il suo
prestigio, esercita una notevole
egemonia culturale anche sugli
strati sociali a essa esterni. Al suo
interno emerge una nuova figura
sociale, quella del “gentiluomo”:
il nobile o nobilitato che dipende
dalla corte e che può passare da
una corte all’altra, data la
sostanziale omogeneità socioculturale del sistema. Un
importante strumento di coesione
è dato dalla letteratura in
volgare, che nella seconda metà
del secolo conosce un impetuoso
Coluccio Salutati, Inno alla libertà
fiorentina, in Prosatori latini del
Quattrocento, a cura di Eugenio Garin,
Ricciardi, Milano-Napoli 1952.
Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini
sviluppo dopo la crisi del periodo
umanistico e contribuisce così a
creare un costume e un
vocabolario comuni e, soprattutto,
un sistema di valori condiviso.
L’invenzione della stampa Nel
1454, a Magonza, stampando una
Bibbia latina, Gutenberg utilizza
per la prima volta i caratteri
mobili. Questa tecnologia
rappresenta nella storia della
cultura una rivoluzione che ha tra i
vantaggi più evidenti la velocità e
l’abbattimento dei costi di
produzione dei libri, ponendo le
basi per la formazione di un
pubblico molto più ampio.
L’invenzione si diffonde
rapidamente in Europa e in Italia,
dove la prima officina tipografica è
allestita a Subiaco nel 1465 e dove
riveste un ruolo decisivo, a cavallo
fra Quattro e Cinquecento,
l’officina veneziana di Aldo
Manuzio. L’industria tipografica
dispiegherà tutte le sue
potenzialità dai primi decenni del
Cinquecento.
La prospettiva Anche nel settore
della raffigurazione pittorica si
produce un’innovazione decisiva:
l’applicazione della prospettiva. La
prospettiva è un complesso di
regole e di calcoli che consente di
rappresentare oggetti a tre
dimensioni su una superficie piana,
cioè bidimensionale, facendone
scaturire un effetto di realtà. Le
leggi della prospettiva sono
codificate dall’architetto Filippo
Brunelleschi e riprese e
rielaborate nel De pictura
dall’umanista e architetto Leon
Battista Alberti. Le regole fissate
dall’Alberti saranno applicate dai
grandi pittori del secolo (Masaccio,
Paolo Uccello, Piero della
Francesca, Andrea Mantegna).
illustri, a cura di Paolo d’Ancona e
Erhard Aeschlimann, Hoepli, Milano
1951, citato in Michael Baxandall, Pittura
ed esperienze sociali nell’Italia del
Quattrocento, Einaudi, Torino 1978.
BIBLIOGRAFIA
Fonti
riscoperta di manoscritti antichi e
nasce una nuova disciplina: la
filologia, che mira a ricostruire la
lezione originale dei testi
eliminando le modifiche effettuate
dai copisti medievali.
L’umanista non è solo uno
studioso, è un intellettuale
immerso nel dibattito culturale e
politico del suo tempo che spesso
occupa ruoli importanti nel
sistema dell’insegnamento e nelle
pratiche di governo. Salutati e
Bruni ricoprono l’incarico di
cancelliere della Repubblica
fiorentina; Valla scrive il trattato De
falso credita et ementita
Constantini donatione (‘La
donazione di Costantino creduta e
asserita con falsità’) su
commissione di Alfonso d’Aragona,
per legittimare il diritto di questi
contro le pretese papali.
SINTESI
Consolidamento degli Stati
regionali e cambiamento della
classe politica Durante il periodo
di stabilità politica inaugurato dal
trattato di Lodi, il sistema degli
Stati regionali si consolida. Il
processo di consolidamento
interessa: il Ducato di Milano, che
passa dai Visconti agli Sforza, in
origine capitani di ventura; la
Repubblica di Firenze, in cui i
Medici, in origine banchieri,
cominciano a esercitare un
effettivo dominio; il Regno di
Napoli, dal 1442 governato dagli
Aragonesi. Si assiste dunque anche
al cambiamento della classe
politica, i cui rappresentanti sono
in alcuni casi esponenti di famiglie
di origine tutt’altro che illustre.
Con il conferimento di nuovi titoli
nobiliari, si rafforzano anche i
domìni degli Este a Ferrara, dei
Gonzaga a Mantova, dei Montefeltro
a Urbino. Anche il caotico dominio
di San Pietro si avvia a diventare il
futuro Stato della Chiesa.
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12
La letteratura della prima metà
del Quattrocento
LETTERATURA DELLA
PRIMA METÀ DEL QUATTROCENTO
predominio della
crisi della
LETTERATURA IN LATINO
LETTERATURA IN VOLGARE
Alberti
Firenze
Roma
autore in latino:
De pictura;
De re aedificatoria;
Intercoenales
Salutati, Bruni,
Bracciolini
Italia
settentrionale
Firenze
lirica in forme
analoghe a quelle
trecentesche
lirica con inserti
realistici e giochi
linguistici
Giusto de’ Conti
di Valmontone
(La bella mano)
Burchiello
(sonetti)
modello
petrarchesco
sperimentalismo
linguistico
promotore del volgare:
Certame coronario;
autore della prima
grammatica del volgare
Valla
autore in volgare:
Libri della famiglia
grande filologo
(De falso credita et
ementita Constantini
donatione; Annotazioni
al Nuovo Testamento)
grande conoscitore
del latino
(Elegantie latine
lingue)
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12. La letteratura della prima metà del Quattrocento
453
Caratteri fondamentali della letteratura
del Quattrocento
1 Il bilinguismo
Il bilinguismo latino-volgare è il fenomeno che più di ogni altro modella il panorama culturale e letterario del Quattrocento. Anche i due secoli precedenti erano stati bilingui: l’alta cultura considerava il latino la sua lingua naturale e nessuno ne contestava veramente
il primato. D’altra parte, gli esponenti della cultura più elevata non solo non polemizzavano contro l’impiego del volgare, ma, addirittura, potevano essi stessi ricorrere a questa lingua per le scritture di invenzione. Si pensi ai giuristi universitari del Duecento dediti alla
composizione di poesie amorose in volgare e, nel Trecento, ai casi clamorosi di Petrarca e
Boccaccio. Il fatto nuovo che peserà sullo sviluppo della letteratura in volgare per tutto il
Quattrocento è che, tranne pochissime eccezioni e già a partire dagli ultimi decenni del
Trecento, gli umanisti considerano il latino l’unica lingua praticabile e guardano alla letteratura in volgare con sufficienza, quando non con disprezzo. Colpita dall’ostracismo del
movimento umanistico, tutta la letteratura in volgare finisce per scivolare ai piani più
bassi del sistema culturale. Ben inteso, nella prima metà del Quattrocento la letteratura in volgare non scompare, ma è come relegata in un angolo, incapace di tenere testa
al grande prestigio del latino. Uno dei tratti più singolari della storia della nostra letteratura è che, dopo aver prodotto capolavori come la Commedia di Dante, il Canzoniere di
Petrarca, il Decameron di Boccaccio, dopo cioè essersi rafforzata ed espansa come nessun’altra letteratura in volgare in Europa, essa, in tempi rapidi, quasi si inabissa, incapace di produrre autori e opere di rilievo. Un bell’esempio di quanto l’ostilità degli umanisti abbia
pesato è fornito dalle vicende del cosiddetto “Certame coronario”. Nel 1441 Leon Battista Alberti, un umanista sensibile allo sviluppo del volgare, approfittando della presenza a
Firenze della Curia papale in occasione di un concilio, aveva promosso una gara (certame)
per rimatori in volgare, il cui premio sarebbe stato una simbolica corona di alloro in argento (coronario). La giuria era costituita dagli umanisti della Curia papale. Scopo dell’Alberti era di promuovere il volgare attraverso un’autorevole certificazione rilasciata da esponenti della cultura latina. Ebbene, i giudici non asseGuida allo studio
gnarono il premio e Alberti perse clamorosamente la
1. Quale atteggiamento assumono gli umanisti nei consua scommessa. Ancora nel 1441, dunque, i tempi
fronti della letteratura in volgare? 2. Con quale scopo
viene organizzato il “Certame coronario”, da chi, e con non erano maturi perché la cultura umanistica ricoquale esito?
noscesse la dignità di quella volgare.
2 La rinascita della letteratura in volgare
nella seconda metà del Quattrocento
Il latino seguiterà a essere egemone per tutto il secolo e oltre. Tuttavia nella seconda
metà del Quattrocento la letteratura in volgare rifiorisce con un vigore che i decenni pre-
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454
Quattrocento
cedenti non lasciavano sospettare. Per la letteratura italiana è quasi una seconda nascita. La culla è rappresentata dal sistema delle corti. Sono i nuovi gentiluomini che, come
autori o come lettori, fanno della letteratura in volgare il loro principale strumento culturale. Ciò accade soprattutto perché la letteratura volgare è in grado di fornire quel vocabolario comune e di insegnare quei codici di comportamento dei quali il variegato
mondo delle corti aveva bisogno. Non è un caso che il genere letterario più importante ritorni a essere quello lirico, cioè proprio quel genere che già dai primi decenni del
Trecento era scaduto ai livelli più bassi nella scala delle dignità letterarie (Petrarca è un
caso a sé). Ed è ancor meno casuale che la lirica rinasca come lirica d’amore. Come in
epoca medievale la lirica cortese aveva forgiato l’ideologia delle classi nobiliari, in questo periodo la
Guida allo studio
1. In quale ambiente rinasce la letteratura in volgare? 2. lirica delle corti, che possiamo chiamare “cortigiaQuali generi in volgare vengono praticati? 3. Quali valo- na”, modella i codici comportamentali della nuori trasmettono le opere in volgare?
va nobiltà.
3 Lo spirito classicista
della nuova letteratura volgare
La lirica d’amore del secondo Quattrocento si differenzia notevolmente da quella dominante nei centocinquant’anni precedenti perché alla varietà tematica e alla libertà formale ha
sostituito un punto di ispirazione quasi unico, Petrarca, tanto che, per la prima volta, possiamo parlare di petrarchismo [u9.3]. Anche gli altri generi letterari coevi tendono ad adeguarsi a dei modelli, classici o volgari. Ad adeguarsi, non a replicare in modo stretto: nel
Quattrocento non esiste ancora, infatti, un concetto chiaro di classicismo come imitazione e replica di modelli letterari del passato. Questa prassi sarà teorizzata solo nei primi
decenni del Cinquecento. Esiste tuttavia un movimento spontaneo, non guidato da regola alcuna, verso l’imitazione, col risultato di produrre testi letterari che tendono ad assomigliarsi tra loro e ad assomigliare, complessivamente, a qualche grande testo del passato
(il Canzoniere di Petrarca, il Decameron di Boccaccio, le Bucoliche di Virgilio). Ciò succede
perché la letteratura in volgare, sebbene si sforzi di svincolarsi dall’ipoteca del sovrastante Umanesimo, non può non risentire dell’impostazione classicista tipica della produzione
umanistica in latino. In questo secolo, dunque, non troviamo più i grandi monumenti realistici come la Commedia e il Decameron, e nemmeno il realismo psicologico del Canzoniere di Petrarca, ma una letteratura che progressivamente si slega dal rapporto con la vita
per privilegiare quello con altri testi letterari.
Guida allo studio
1. Quali tratti differenziano la produzione lirica in volgare del Quattrocento da quella precedente? 2. In che
modo lo spirito umanista condiziona la produzione in
volgare? 3. Quale spazio occupa la dimensione realistica nella produzione letteraria del Quattrocento?
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455
12. La letteratura della prima metà del Quattrocento
Caratteri della letteratura del Quattrocento
il BILINGUISMO
è il tratto dominante nel panorama culturale e letterario del Quattrocento
nella seconda metà
del Quattrocento
la letteratura volgare
rinasce
nella prima metà del
Quattrocento la letteratura
volgare è incapace di
fronteggiare il prestigio del latino
spirito classicista
della nuova letteratura
in volgare
si caratterizza per un
movimento spontaneo
verso l’imitazione
codifica linguaggio
e comportamenti
fa del volgare il
principale strumento di
comunicazione tra i
“gentiluomini”
lirica “cortigiana”
La letteratura della prima metà
del Quattrocento
4 La letteratura in latino
I CANCELLIERI FIORENTINI Nella prima metà del Quattrocento – ma il fenomeno era
cominciato già negli ultimi decenni del Trecento – prevale nettamente la produzione in latino. I centri più importanti della cultura umanistica sono Firenze, dove aveva operato
Giovanni Boccaccio, e Roma, sede della Curia papale. A Firenze vivono alcune delle personalità più eminenti del primo Umanesimo: Coluccio Salutati (1331-1406), Leonardo Bruni (1370 ca.-1444) e, dopo un lungo periodo romano, Poggio Bracciolini (1380-1459).
Tutti e tre ricoprono in successione la carica di cancelliere della Repubblica fiorentina, a
dimostrazione di quanto fossero rilevanti i ruoli pubblici che i nuovi intellettuali umanisti
potevano ricoprire. Il loro legame con la città è talmente stretto che sia Bruni, sia Bracciolini scrivono, oltre a numerose altre opere, una storia di Firenze.
LORENZO VALLA Una delle figure di maggiore spicco di tutto il movimento umanistico è
Lorenzo Valla (1405-1457), attivo soprattutto a Roma, ma anche nella Napoli di Alfonso
d’Aragona, detto il Magnanimo. Valla è, insieme a Poliziano, il più grande filologo dell’Umanesimo e, nello stesso tempo, uno dei maggiori conoscitori della lingua latina. Sua
caratteristica principale è quella di non concepire la filologia come una scienza fine a sé
stessa e chiusa dentro il recinto della letteratura, ma di metterla al servizio di obiettivi
politici o ideologici. Abbiamo già ricordato come, su richiesta del re di Napoli, egli abbia
provato la falsità della donazione di Costantino al papa [u11.6]. Il De falso credita et ementita Constantini donatione (‘La donazione di Costantino creduta e asserita con falsità’) costi-
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456
Quattrocento
La “donazione di Costantino”,
XIII sec.
[Chiesa dei Quattro Santi Coronati,
Roma]
Nella cosiddetta “donazione di
Costantino” l’imperatore romano
concedeva al papa: il primato sulle
Chiese d’Oriente; le chiese del
Laterano, di S. Pietro e S. Paolo Fuori
le Mura, oltre a beni in varie
province; le insegne imperiali; il
privilegio di promuovere i senatori al
clericato; ogni potere sul Laterano, la
Chiesa di Roma, l’Italia. Redatto negli
ambienti della Curia romana nell’VIII
secolo, questo documento costituì
dall’XI secolo in poi l’argomento
principale a sostegno della
supremazia del papa, fino alla
dimostrazione della sua falsità a
opera di Lorenzo Valla nel 1440 nel
suo De falso credita et ementita
Constantini donatione.
ANTOLOGIA
tuisce la prima grande applicazione della filologia ai documenti storici e pertanto può essere considerato il testo fondatore della diplomatica, cioè della scienza che studia i documenti storici tramandati in forma scritta. Non meno significativo della grande libertà mentale con la quale Valla si pone nei confronti della tradizione è il fatto che egli applichi gli
strumenti dell’analisi filologica alla stessa Sacra Scrittura. Nelle Annotazioni al Nuovo Testamento sottopone a verifica il testo latino corrente, la Vulgata, confrontandolo con l’antica
traduzione di san Gerolamo. Il suo capolavoro, comunque, sono i dodici libri delle Elegantie latine lingue (‘Le eleganze della lingua latina’, redazione definitiva del 1449), un testo
fondamentale sia per la definizione del classicismo
umanistico, sia per il ruolo avuto nel diffondere una
Guida allo studio
nuova sensibilità nei confronti della lingua latina
1. Quali sono i centri più attivi della cultura umanistica e
[uT74]. Il latino di Valla, infatti, si forma sul rapporperché? 2. In che modo la filologia diventa anche strumento per obiettivi politici o ideologici? 3. Che cosa è to diretto con i grandi scrittori della classicità e in
la diplomatica? 4. Quali ragioni rendono importante il polemica con quello, ancora medievaleggiante, dei
trattato Elegantie latine lingue di Lorenzo Valla?
primi umanisti, Petrarca compreso.
Lorenzo Valla
LA VITA Lorenzo Valla è il più eminente rappresentante della seconda generazione degli
umanisti italiani, quelli che portarono la cultura umanistica alla sua affermazione definitiva.
La vita e la carriera di Valla sono state quelle tipiche di un intellettuale umanista del Quattrocento: le caratterizzano sia gli spostamenti per tutta l’Italia presso diversi signori, sia la
varietà delle professioni svolte. Valla nasce nel 1405 a Roma da una ricca famiglia piacentina e lì compie i primi studi; nel 1419 si trasferisce a Firenze dove studia greco e latino sotto
la guida di Giovanni Aurispa (1376-1459). Dal 1431 al 1435 vive in vari luoghi dell’Italia centro-settentrionale (fra l’altro, ricopre la cattedra di Retorica allo Studio di Pavia); dal 1435 al
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12. La letteratura della prima metà del Quattrocento
457
LE ELEGANTIE Valla comincia a scrivere le Elegantie latine lingue (‘Le eleganze della lin-
gua latina’) nel 1433, poco dopo aver lasciato l’insegnamento a Pavia. Nel 1439 sono già
completi i primi sei libri, che costituiscono il nucleo fondamentale dell’opera. Nonostante
Valla non la consideri finita, essa comincia subito a circolare fra gli umanisti. Nei successivi dieci anni le Elegantie sono ampliate fino a raggiungere i dodici libri della redazione
definitiva del 1449. Il continuo accrescimento delle Elegantie era reso possibile dalla loro
struttura “modulare”, cioè dall’essere costruite come una serie di schede linguistiche raccolte in capitoli dedicati a questioni grammaticali, lessicali e sintattiche. Alle prefazioni ai
singoli libri è affidato il compito di esporre i princìpi generali ai quali l’opera si ispira, in
sintesi l’identificazione della lingua latina con la cultura della classicità. Le Elegantie
sono un grandioso trattato sul latino classico costruito su esempi di autori, di epoche diverse e attivi in generi letterari diversi, nessuno dei quali costituisce una auctoritas. Ciò distingue il classicismo di Valla da quello che si andrà affermando nei decenni successivi, basato in larga parte sul solo modello ciceroniano. Gli esempi illustrati e discussi hanno lo scopo di individuare i princìpi di “eleganza” del latino classico e mettere all’indice ciò che a
quei princìpi non è rispondente (in sostanza, il latino del Medioevo e quello dei primi umanisti). Per Valla l’“eleganza”, più che un significato estetico, ha un significato logicosemantico. L’eleganza di una lingua, infatti, risiede nella sua chiarezza, logicità, economia, in sintesi nella capacità di comunicare in modo univoco, razionale, sintetico. Qualità funzionali alla comunicazione retorico-scientifica più che a quella letteraria.
T74
La lingua latina fondamento della civiltà antica e dell’Europa
moderna
Elegantie, I, Proemio; trad. di Mariangela Regoliosi, con alcune modifiche
Nei paragrafi iniziali del proemio al primo libro delle Elegantie latine lingue Valla enuncia una
delle idee centrali dell’opera, e cioè che il grande merito dell’Impero romano è stato di aver fatto della lingua latina uno strumento di unificazione culturale e civile dei popoli. È su quella
eredità che l’Europa moderna può ancora costruire la sua identità culturale.
5
10
Quando, come mi avviene spesso, rifletto sulle imprese dei nostri padri e su quelle degli altri popoli e re, ritengo che i nostri padri sono stati superiori a tutti gli altri non
solo per l’estensione del dominio, ma anche per la diffusione della lingua. È noto infatti che i Persiani, i Medi, gli Assiri, i Greci1 e molti altri popoli hanno fatto conquiste in lungo e in largo, e che gli imperi di alcuni fra questi, anche se inferiori per estensione a quello romano, furono molto più duraturi. Ma nessuno di quei popoli diffuse la propria lingua come hanno fatto i Romani, che in poco tempo – per tacere delle coste dell’Italia chiamate Magna Grecia, della Sicilia che fu anch’essa greca, e di
tutta l’Italia – in quasi tutto l’Occidente, e in gran parte del settentrione e dell’Africa
resero la lingua di Roma famosa e quasi regina, quella lingua che si definisce latina
1. Persiani... Greci: popoli che dominarono anticamente l’area del Mediterraneo o del vicino Oriente.
ANTOLOGIA
1448 è al servizio del re di Napoli Alfonso d’Aragona (di cui è storiografo ufficiale) e, infine,
dal 1448 alla morte torna definitivamente a Roma, come impiegato presso la Curia papale e
poi nuovamente come insegnante di Retorica. Muore a Roma nel 1457.
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ANTOLOGIA
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dal Lazio, dove si trova Roma, e, per quanto riguarda le province, la offrirono agli uomini come un’ottima messe2 per farne una semina: un’opera di certo molto più illustre e molto più preziosa della propagazione dell’impero. Infatti gli uomini che estendono il loro impero sono di solito molto onorati e sono definiti imperatori; ma coloro che hanno fatto del bene all’umanità, essi sono celebrati con una lode degna non
degli uomini ma degli dèi, perché non hanno provveduto all’allargamento e alla gloria della loro città, ma anche al bene e alla salvezza dell’umanità intera. È per questo
che i nostri padri furono superiori agli altri popoli nei fatti di guerra e per molti altri
meriti; tuttavia, nella diffusione della loro lingua furono superiori a loro stessi, come se avessero abbandonato l’impero sulla terra, avessero ottenuto nei cieli la compagnia degli dèi. O diremo forse che, mentre Cerere per aver trovato il grano, Bacco
il vino, Minerva l’olio3, e molti altri sono stati collocati tra gli dèi per dei benefici del
genere, sarà considerato un merito minore avere distribuito ai popoli la lingua latina, una messe meravigliosa e anzi divina, un nutrimento non del corpo ma dell’anima? Fu infatti la lingua latina ad educare quelle genti e tutti i popoli in tutte le arti
liberali4; fu essa ad insegnare le leggi più giuste; fu essa ad aprire loro la strada ad
ogni sapienza; fu essa infine a far sì che quei popoli non fossero più dei barbari. Per
queste ragioni, quale giusto esaminatore non preferirà coloro che furono famosi per
il culto delle lettere a coloro che lo furono combattendo delle guerre spaventose? Questi5 si potrebbero definire uomini regali, ma si potrebbero definire, e con piena giustezza, divini coloro che non solo come uomini accrebbero lo Stato e la maestà del
popolo romano, ma provvidero anche, come dèi, alla salvezza del mondo. Tanto più
che i popoli sottomessi al nostro dominio pensavano, e forse non a torto, di perdere
il proprio, e, perdita ancora più dolorosa, di essere privati della libertà; invece capivano che la lingua latina non mortificava la loro, ma per così dire la insaporiva, così come il vino, introdotto successivamente, non eliminò l’uso dell’acqua, e la seta
non eliminò la lana e il lino, e l’oro non cacciò via gli altri metalli, ma aggiunse un
arricchimento agli altri beni. E come un gioiello incastonato su un anello d’oro non
lo imbruttisce ma lo adorna, così la nostra lingua, aggiungendosi alle lingue locali di
quei popoli, aggiunse splendore non lo tolse. [...] E questo basti a proposito del paragone tra la lingua latina e l’impero romano. Quell’impero, già da tempo genti e popoli lo scrollarono via da loro come un peso insostenibile; questa lingua, essi la considerarono più dolce di ogni nettare, più lucente di ogni tessuto di seta, più preziosa
di ogni oro o di ogni gemma, e la custodirono presso di sé come un dio disceso dal
cielo. Grande è dunque il mistero sacro della lingua latina, grande è di certo la sua
divina potenza. E questa lingua presso gli stranieri, presso i barbari stessi, presso i nemici viene custodita piamente e religiosamente da tanti secoli che noi Romani non
dobbiamo dolerci ma rallegrarci e gloriarci davanti al mondo intero che ci ascolta.
Romani, abbiamo perso, è vero, il regno e il potere, anche se non per colpa nostra ma
a causa dei tempi; eppure con questo più splendido dominio noi continuiamo a regnare in tanta parte del mondo. Nostra è l’Italia, nostra la Gallia, nostra la Spagna, la
Germania, la Pannonia, la Dalmazia, l’Illirico e molte altre nazioni, poiché l’impero
romano è ovunque regna la lingua di Roma.
2. messe: ‘raccolto’, ‘frutto’.
3. mentre Cerere... olio: alle tre divinità era
attribuita l’introduzione delle risorse fonda-
mentali dell’agricoltura mediterranea.
4. arti liberali: le discipline e le attività non
asservite a scopi pratici, quelle che richiedono
una libera applicazione intellettuale.
5. Questi: cioè quelli che combatterono le
guerre.
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459
12. La letteratura della prima metà del Quattrocento
IL MANIFESTO DELL’UMANESIMO EUROPEO I
proemi alle Elegantie hanno uno straordinario valore storico-culturale: essi, infatti, sono ritenuti concordemente dagli studiosi una sorta di dichiarazione dei princìpi dell’Umanesimo. Valla vi sostiene
che il latino ha svolto una missione civilizzatrice che
è passata in eredità dagli antichi Romani all’Europa
moderna.
IL LATINO COME FATTORE DI CIVILIZZAZIONE
DEL MONDO ANTICO Nel passo antologizzato del
primo proemio Valla afferma che l’espansione della
lingua latina in tutto il mondo conquistato dalle armi romane, cioè a dire la latinizzazione linguistica e
culturale di gran parte dell’Europa e del Mediterraneo
antichi, costituisce la differenza essenziale tra l’Impero romano e gli altri Imperi dell’antichità. Egli esalta, pertanto, la lingua latina come veicolo di civiltà
e come fattore primario di unificazione culturale
dell’Europa antica: è stato attraverso il latino, infatti, che essa ha potuto accedere al patrimonio culturale della civiltà greco-latina. Riproponendo motivi
tradizionali della cultura classica, come l’antitesi tra
il valore delle armi e il valore della parola, Valla afferma inoltre la superiorità dei valori civili e cultura-
li sulla politica di potenza e di conquista e conclude che la benemerenza eterna, “divina”, di Roma non
è stata la conquista di un Impero, ma la latinizzazione del mondo. Non a caso questa è sopravvissuta
alla fine del dominio politico-militare.
LA NASCITA DELLA VISIONE UMANISTICA DEL
MONDO ANTICO Nell’ultimo paragrafo Valla rove-
scia il lamento per la perduta grandezza passata nella celebrazione dell’attualità e della vitalità dell’eredità culturale latina. Il dominio romano sui popoli è finito, ma continua la missione civilizzatrice
della lingua latina, la lingua universale dell’Europa
moderna. In questa posizione di Valla, che ne fa uno
dei maestri dell’Umanesimo, si fondono una nuova
coscienza storica, quella della discontinuità, a livello geopolitico e istituzionale, dell’Europa moderna rispetto a quella antica e, nello stesso tempo, la
consapevolezza della continuità culturale assicurata dal latino. È questa nuova sensibilità che spinge
ad abbandonare le nostalgie tardomedievali per un
Impero politico come ideale continuatore di quello
romano e a operare affinché possa diffondersi una visione della cultura funzionale alla rinascita civile e
culturale dell’Europa. Si può dunque sostenere che
l’umanista Lorenzo Valla è uno dei padri dell’idea
moderna di Europa.
Esercizi
analisi
1. Il primo proemio alle Elegantie è costruito come un
elogio del protagonista dell’opera, il latino classico.
Cerca di ricostruire, eventualmente anche in forma
schematica (distinguendo, per esempio, con dei numeri le tesi fondamentali e con delle lettere le affermazioni e gli argomenti a loro sostegno) la struttura argomentativa del passo antologizzato, “traducendo” il linguaggio di Valla, ricco di immagini e di figure retoriche, in un
discorso semplice e neutro che metta in rilievo le idee
chiave e i nessi logici del ragionamento.
2. Le idee enunciate in questo passo sono espresse da
Valla in un linguaggio ricco di figure retoriche: ricostrui-
scine le caratteristiche distinguendo, con una schedatura il più possibile sistematica (per esempio attraverso una
tabella a due colonne), le figure retoriche e i campi lessicali e di immagini utilizzati e citando tra parentesi la parole o i passi relativi.
interpretazione e contestualizzazione
3. Per quali ragioni Lorenzo Valla può essere considerato uno dei padri fondatori dell’idea moderna di Europa? Trovi spunti di attualità nelle sue parole? Facendo
riferimento al testo che hai letto e al contesto socio-culturale in cui opera l’autore, esponi le tue considerazioni in un elaborato di circa 300 parole.
5 La letteratura in volgare
ITALIA SETTENTRIONALE: LA LIRICA Nei primi decenni del Quattrocento la letteratura in
volgare non si differenzia sostanzialmente da quella del secolo precedente. Nell’Italia setten-
ANTOLOGIA
Lettura guidata
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Quattrocento
trionale continua il predominio del genere lirico in forme analoghe a quelle trecentesche: varietà tematica, occasionalità, sperimentalismi metrici al limite del capriccio, dispersione dei
singoli testi. Petrarca non ha fatto scuola, con una sola ma rilevantissima eccezione, quella
del rimatore Giusto de’ Conti di Valmontone. Della sua biografia si sa molto poco: nacque
probabilmente a Roma intorno al 1390 e visse a lungo a Rimini, presso la corte di Pandolfo
Malatesta, dove morì nel 1449. Giusto è autore di un canzoniere lirico, intitolato La bella
mano, che narra la storia del suo amore per una certa Isabetta. Ultimato nel 1440 a Bologna,
vi fu stampato per la prima volta nel 1472. Giusto è rilevante perché è il primo fedele imitatore di Petrarca e perché, essendo il suo canzoniere uno dei libri più letti e diffusi di tutto il secolo, svolge un ruolo fondamentale affinché la lirica amorosa della seconda metà del
Quattrocento faccia suoi il vocabolario, i temi e le immagini di Petrarca [uT76].
LA TOSCANA La Toscana, e in modo particolare Firenze, sono i luoghi dove la letteratura in
volgare manifesta la maggiore vitalità. Qui è viva, perfino negli ambienti umanistici, la lezione di Dante, rilanciata nel secolo precedente da Boccaccio; una lezione che si innesta sulla tendenza tipica dei poeti fiorentini a introdurre nei loro componimenti inserti realistici e
tonalità popolareggianti e a compiacersi di giochi linguistici che sfruttano la particolare ricchezza lessicale ed espressiva del volgare di Firenze. Il caso più emblematico è rappresentato da Domenico di Giovanni detto il Burchiello (1404-1449), sotto il cui nome circolano
un numero molto elevato di sonetti, di cui solo in parte egli è stato autore, che si sono diffusi singolarmente in tutta Italia. Si tratta di poesie del tutto particolari nelle quali la sintassi è integralmente rispettata, ma i nessi logici tra le parole sono del tutto aboliti [uT75].
Guida allo studio
ANTOLOGIA
1. Chi è Giusto de’ Conti di Valmontone? 2. In quale
regione opera il Burchiello? 3. Cosa accade dal punto
di vista letterario nel Regno di Napoli?
IL REGNO DI NAPOLI Ben poco si potrebbe dire del
Regno di Napoli, perché fino all’avvento degli Aragonesi la letteratura in volgare è qui ridotta ai minimi
termini.
Burchiello (Domenico di Giovanni)
LA VITA Figlio di artigiani di media condizione economica, Domenico, nato a Firenze nel
1404, non compie studi regolari, ma è subito avviato al mestiere di barbiere (all’epoca i
barbieri svolgevano anche elementari funzioni mediche). Nel 1432 si iscrive all’Arte (cioè
all’associazione professionale) dei medici e degli speziali. Politicamente avverso ai Medici,
che stanno diventando la famiglia più eminente di Firenze, al momento del loro avvento al
potere è esiliato da Firenze (1434). Si rifugia a Siena e, poi, a Roma, dove vive in miseria
fino alla morte, avvenuta nel 1449.
I SONETTI A Burchiello sono stati attribuiti numerosi sonetti, molti dei quali, però, pro-
babilmente non sono suoi. I sonetti possono essere distinti in tre gruppi: quelli comicorealistici, aventi per oggetto le miserie della vita quotidiana e le persecuzioni politiche;
quelli di satira letteraria, contro i petrarchisti e la letteratura alta; e, infine, quelli “alla
burchia” (‘barca’), che affastellano parole alla rinfusa come merci in fondo a un battello
[uT75]. In questi sonetti, pur nell’organizzazione apparentemente casuale, sono presenti alcune costanti. Per esempio, l’enumerazione di oggetti, accostati senza una logica
evidente, ha l’effetto di creare una sorta di realtà “altra”, surreale, addirittura opposta a
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12. La letteratura della prima metà del Quattrocento
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T75
Nominativi fritti e mappamondi
Sonetti
Questo è forse il più noto dei sonetti di Burchiello, un esempio emblematico di pura arbitrarietà linguistica. Molti interpreti, tuttavia, nel corso dei secoli hanno cercato di interpretarlo
attribuendogli significati satirici di volta in volta differenti.
Metro: sonetto caudato (cioè chiuso da una “coda” costituita da un settenario e due endecasillabi) con schema ABBA, ABBA; CDC, DCD; dEE.
4
8
11
14
17
Nominativi fritti e mappamondi,
e l’arca di Noè fra duo colonne
cantavan tutti «Kyrieleisonne»,
per la ’nfluenza de’ taglier mal tondi.
La Luna mi dicea «Ché non rispondi?»
et io risposi «I’ temo di Giansonne,
però ch’i’ odo che ’l dïaquilonne
è buona cosa a fare i cape’ biondi».
Et però le testuggine e ’ tartufi
m’hanno posto l’assedio alle calcagne
dicendo «Noi vogliàn che tu ti stufi»,
e questo sanno tutte le castagne:
perché al dì d’oggi son sì grassi e gufi,
c’ognun non vuol mostrar le suo magagne.
E vidi le lasagne
andare a Prato a vedere il sudario,
e ciascuna portava lo ’nventario.
1. Nominativi fritti: ‘Invitati unti’, oppure,
secondo altri, ‘nomi citati e ricitati’, o, alla lettera, ‘nominativi’, il caso del soggetto nella lingua
latina. – mappamondi: letteralmente: ‘mappe
di navigazione’, ma forse, con un audace traslato, potrebbero significare ‘vecchioni’, dal naso
deformato e percorso da vene come quelle
disegnate sulle mappe.
3. Kyrieleisonne: deformazione del liturgico
kyrie eleison, che significa: ‘Signore, abbi pietà’.
4. per... tondi: ‘per la fame’, intendendo i
taglier mal tondi come ‘piatti poco pieni’. Altri,
invece, interpretano taglier mal tondi come
corpi celesti irregolari e quindi fonte di cattivi
influssi, opposti alla luna, che sarebbe, al contrario, perfettamente tonda. Sempre che Luna
sia il pianeta e non il nome di una donna.
5. Ché non rispondi?: ‘Perché non ti unisci alla
preghiera?’.
6. Giansonne: Giasone, eroe mitologico, capo
della spedizione degli Argonauti alla ricerca del
Vello d’oro (da cui i cape’ biondi).
7. dïaquilonne: deformazione di ‘diàchilo’,
impiastro farmaceutico.
8. è buona cosa: ‘è una cosa adatta’.
9-10. Et però... calcagne: ‘E per questa ragione calli e vesciche (testuggine e’ tartufi) mi hanno assalito i talloni (calcagne)’; ma testuggine
potrebbero essere anche le ‘macchine da
guerra’.
10. m’hanno... calcagne: ‘mi inseguono’, letteralmente: ‘mi stanno alle calcagna’.
11. vogliàn... stufi: ‘vogliamo che tu non ne
possa più’, ‘che tu prenda a noia tutte queste
cose’.
13. gufi: ‘babbei’, ma per altri interpreti sareb-
bero i ‘canonici’, cioè degli ecclesiastici.
14. c’ognun... magagne: ‘che nessuno vuol
mostrare i suoi difetti’.
16. sudario: letteralmente sarebbe una reliquia sacra, cioè il velo su cui è impresso il volto di Gesù sanguinante, che è, però, conservato a Roma. A Prato si conservava un’altra reliquia, il “Sacro Cingolo”, una cintura appartenuta alla Madonna. Ma su tutti prevale il gioco fra
le lasagne, e il loro sugo, e il sudore dei pellegrini.
17. ’nventario: ‘elenco’, forse delle magagne
del v. 14, oppure il registro delle entrate e delle uscite che però presupporrebbe un ‘vendere’ al posto di vedere (v. 16) e, di conseguenza,
una polemica contro la compravendita di
oggetti sacri.
ANTOLOGIA
quella vera. Il medesimo effetto straniante è prodotto dall’accostamento di riferimenti dotti, mitologici e biblici, a notazioni prese dalla vita quotidiana dei mercanti e degli artigiani di Firenze. Insomma Burchiello smonta la realtà nei suoi elementi costitutivi e la rimonta cambiando di posto ai tasselli in modo da costruirne una nuova, non dotata di senso in
sé stessa, ma illuminata dalla luce surreale che scaturisce dai traslati, dagli accostamenti
inusuali, dagli ossimori.
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ANTOLOGIA
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Quattrocento
Lettura guidata
NONSENSE E PLURILINGUISMO Del sonetto è
impossibile fare una parafrasi. In nota ci siamo limitati a riportare le spiegazioni più plausibili; adesso
cerchiamo di esaminarne il suo aspetto più evidente, cioè il disordinato affastellamento di parole. In
tanto apparente disordine è possibile individuare
alcuni criteri a cui il poeta si è ispirato nella scelta
e nella distribuzione delle parole. Innanzitutto ha
operato tramite accostamenti fonici (allitterazioni, omoteleuti) e richiami semantici di tipo analogico (è possibile individuare la filiera “gastronomica”: fritti, v. 1; taglier, v. 4; tartufi, v. 9; castagne,
v. 12; lasagne, v. 15); e poi per mezzo di slittamenti semantici, come quello, blasfemo, che possiamo
ipotizzare fra il “sugo” delle lasagne, o il “sudore”
dei pellegrini, e il sudario (v. 16) che è meta di pellegrinaggio in quel di Prato. Pur nell’ambiguità
complessiva, ne scaturisce un quadro di particolare
ricchezza semantica, al quale fa riscontro una gamma di registri stilistici altrettanto variegata: modi
di dire popolari («m’hanno posto l’assedio alle calcagne», v. 10) convivono con citazioni di nomi
biblici e mitologici (Noè, al v. 2, e Giansonne, al v.
6) e con sintagmi attestati nella lirica alta («cape’
biondi», v. 8).
IPOTESI INTERPRETATIVE I lettori, però, non si
sono accontentati del puro divertimento linguistico,
ma hanno cercato di individuare i significati che possono nascondersi sotto la veste giocosa. Si tratta, naturalmente, di significati che non esulano dall’ambi-
to scherzoso. C’è chi propone un’interpretazione basata sulla linea “culinario-gastronomica”, attribuendo, per esempio, il significato di invitati e ghiottoni
ai «Nominativi fritti» (v. 1) e quello di spiedo gigante all’«arca di Noè fra duo colonne» (v. 2): il sonetto,
allora, sarebbe la descrizione di un’“epica mangiata”.
Altri, invece, vi hanno scorto un intento satirico contro la cultura alta e il mondo ecclesiastico. Secondo
questa interpretazione la prima strofa conterrebbe un
elenco di oggetti “culturali” di tradizione umanistica
e cristiana degradati, per esempio, attraverso l’aggettivo fritti (v. 1), inteso nel senso di “triti e ritriti”;
la seconda conterrebbe, insieme al riferimento mitologico (Giansonne, v. 6), una satira dell’immagine dei
capelli biondi tipici delle donne cantate dalla lirica
amorosa (si pensi alla Laura petrarchesca). Nel deformato Kyrieleisonne (v. 3) e nei gufi (v. 13), forse identificabili con gli ecclesiastici, si nasconderebbero allusioni anticlericali, che proseguirebbero con la processione di lasagne in visita a una specie di “volto
santo” (sudario, v. 16) pratese. Non manca neppure
chi del sonetto ha dato un’interpretazione in chiave
oscena: i riferimenti alla sessualità si dipanerebbero
a partire dal significato di ‘posteriori’ popolarmente
attribuito ai mappamondi (v. 1) e si dispiegherebbero pienamente nella seconda quartina, dove i capelli
biondi starebbero a indicare la riduzione dell’uomo allo “stato di femmina” e alluderebbero, quindi, a un
rapporto omosessuale maschile. Su questa linea non
mancano altre interpretazioni basate, invece, su alcuni traslati che potrebbero essere riferiti agli organi sessuali femminili.
Esercizi
comprensione e analisi
1. Rifletti sul significato delle parole del sonetto, e
riporta sul tuo quaderno quelle che appartengono all’italiano contemporaneo in un’accezione diversa da
quella utilizzata dal poeta.
interpretazione
2. Quale lettura preferisci fra quelle proposte? Lascian-
do libera la tua fantasia riesci a costruire un’altra ipotesi interpretativa?
contestualizzazione
3. Sapresti fare altri esempi di nonsense e giochi di
parole, tratti dalla poesia contemporanea o da canzoni
che conosci? A quale scopo ti sembra che gli autori ne
facciano uso?
Giusto de’ Conti di Valmontone
LA VITA Delle vicende biografiche di Giusto de’ Conti si conosce poco: nasce probabilmen-
te a Roma alla fine del Trecento o nei primi anni del secolo successivo, compie studi di
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12. La letteratura della prima metà del Quattrocento
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LA BELLA MANO Giusto è autore di una raccolta poetica di imitazione petrarchesca, un
vero e proprio “canzoniere”, intitolata La bella mano [uT76]. Narra la storia del suo amore per la bolognese Isabetta, identificata con una certa Isabetta Bentivoglio, che andò sposa a Guido de’ Pepoli, dottore in Legge. Ultimato nel 1440, e subito diffuso manoscritto
con grande successo, il libro fu pubblicato a stampa, postumo, a Bologna nel 1472. È composto da 135 sonetti, 5 canzoni, 3 sestine, 3 ballate e 4 capitoli in terzine. Nel Quattrocento La bella mano conobbe una grandissima fortuna, documentata dall’elevato numero
di manoscritti che ce la tramandano e dall’influenza che essa esercitò su autori importanti quali Boiardo e Sannazaro. Gran parte della sua fortuna è dovuta al fatto che Giusto è
imitatore attento e fedele di Petrarca, sia nella scelta delle immagini che in quella dei motivi e delle situazioni. Anche il vocabolario e la metrica tendono ad avvicinarsi al modello.
Giusto è un petrarchista fuori stagione: ai suoi tempi, infatti, Petrarca non aveva ancora
fatto scuola. Se quest’ultimo, nella seconda metà del Quattrocento, si imporrà come punto di riferimento principale della lirica d’amore, lo si deve anche, se non soprattutto, alla
mediazione di Giusto.
T76
Rimena il villanel fiaccato et stanco
La bella mano, 120
Questo sonetto è intessuto di reminiscenze petrarchesche sia nelle immagini, sia nel lessico;
ed è, a sua volta, la probabile fonte di poeti più moderni, come Leopardi. Si osservi infatti che
le parole posa, squille, cale riecheggeranno spesso nei versi leopardiani.
Metro: sonetto con schema ABBA, ABBA; CDE, CDE.
Rimena il villanel fiaccato et stanco
le schiere sue, donde il mattin partille,
vedendo di lontan fumar le ville
4 e il giorno a poco a poco venir manco.
Et poi si posa. Et io pur non mi stanco
al tardo sospirar, come alle squille.
Io me ne ingegno che ognior più sfaville
8 il foco et l’esca nel mio acceso fianco;
e sogni tristi infin che l’alba nasce,
e il giorno disïar sempre il mio male,
11 col fiero rimembrar di mille offese.
1-4. Rimena... manco: ‘Il pastorello (villanel)
affaticato e stanco riconduce (Rimena) il suo
gregge (le schiere sue) là da dove l’aveva fatto
partire il mattino, quando vede di lontano
fumare i casolari (le ville) e il giorno venir meno
a poco a poco’.
5-6. Et poi... squille: ‘E poi trova riposo (posa).
Io invece (Et) non mi stanco mai (pur) di sospirare, a tarda ora (al tardo), cioè di notte, come
durante il giorno (come alle squille)’; cioè quando le campane segnano le ore.
7-11. Io... offese: ‘Io mi impegno in ogni modo
affinché il fuoco e il combustibile (esca) che
ardono nel mio petto avvampino (sfaville) sempre più; e (faccio) sogni tristi fino al sorgere dell’alba, e durante il giorno desidero continuamente la mia infelicità, mentre ricordo crudelmente le tante offese ricevute’.
ANTOLOGIA
giurisprudenza a Padova ed è impiegato come cameriere privato (cubiculario) presso il papa
Eugenio IV; compie soggiorni a Firenze, Ferrara e Bologna. Nel 1447 si trasferisce a Rimini presso la corte di Pandolfo Malatesta, al servizio del quale è apprezzato consigliere segreto e giudice. A Rimini muore nel 1449. Coltivò amicizie con molti rimatori, letterati e umanisti, in modo particolare con Leon Battista Alberti [u12.6].
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ANTOLOGIA
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Quattrocento
Così dì et notte piango, et così pasce
la fragil vita questa, a cui non cale
14 vedermi dentro al foco, ch’ella accese.
12-14. Così... accese: ‘Così piango giorno e
notte, e in questo modo nutre (pasce) la mia
fragile vita questa donna, alla quale non importa vedermi ardere dentro il fuoco (d’amore) che
Lettura guidata
UNA SIMILITUDINE LETTERARIA Il sonetto è
costruito su una similitudine. Il poeta si paragona
a un pastore che alla sera riporta dal pascolo il
gregge e trova riposo dalle fatiche quotidiane. Ma è
un paragone al contrario: lui, a differenza del
pastorello, non trova la pace serale, ma alimenta
continuamente il fuoco d’amore che lo brucia. Anzi,
fa di tutto per aumentare la propria pena, attizzando il suo desiderio frustrato con il ricordo delle
repulse dell’amata (le «mille offese», v. 11). La terzina finale riprende, con il verbo pasce (v. 12), l’immagine del pastore, capovolgendola con una
metafora ardita: è la donna, infatti, incurante delle pene che gli infligge, a essere padrona della vita
dell’innamorato, a guidarla al pascolo e a nutrirla.
IL TESSUTO FORMALE La poesia è completamen-
te intessuta di reminiscenze letterarie. L’immagine del villanello che torna dalla campagna mentre
scendono le prime ombre della sera fonde due luoghi petrarcheschi della canzone 50 del Canzoniere:
lei stessa ha acceso’.
il primo ha per protagonista lo «zappador» (v. 18)
che rincasa quando «discende / dagli altissimi monti maggior l’ombra» (vv. 16-17); il secondo ha per
protagonista il «pastor» (v. 29) che rientra anche
lui, al tramonto, nella sua casetta. Petrarca, a sua
volta, traduceva quasi alla lettera il v. 83 della prima Bucolica di Virgilio: «Maioresque cadunt de montibus umbrae» (‘E più grandi scendono dai monti le
ombre’). I sospiri, il pianto, le mille offese, la
metafora del fuoco amoroso provengono dalla tradizione della lirica d’amore e, più specificamente, di
quella petrarchesca. Petrarchesco è, naturalmente,
anche il lessico, del quale facciamo solo qualche
esempio: Rimena al v. 1, che ricorda: «Zephiro torna, e ’l bel tempo rimena» (Canzoniere, 310, v. 1);
le parole-rima stanco: fianco, che sono già in Canzoniere, 16, v. 1: «Movesi il vecchierel canuto et
biancho», sonetto che ha appunto per protagonista
un «vecchierel» foneticamente parente stretto del
villanel (v. 1) di Giusto; per non parlare, infine, della rima squille: sfaville, che rimanda a Canzoniere,
109, v. 1: «Lasso, quante fïate Amor m’assale»,
sonetto in cui si ritrovano le stesse parole in rima.
Esercizi
comprensione
1. Contrapponi in una tabella a due colonne gli aspetti
che caratterizzano la condizione del pastore e quella
del poeta.
interpretazione
2. Giusto parla in questo sonetto della sua pena d’amore. Come la connota? È una condizione passiva o attiva?
Esprimi la tua opinione sulla base dei rilievi fatti sul
testo.
contestualizzazione
3. Confronta il sonetto di Giusto con una lirica trecentesca scelta tra quelle che hai studiato sulla base di
un’analogia o di un contrasto nella condizione del poeta-amante, quindi argomenta in un testo di circa 300
parole le ragioni della tua scelta.
6 Leon Battista Alberti tra latino e volgare
LE VICENDE BIOGRAFICHE Nel panorama dell’Umanesimo della prima metà del Quattro-
cento Leon Battista Alberti occupa un posto particolare e di grande rilievo. Nato a Geno-
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12. La letteratura della prima metà del Quattrocento
Chiesa di S. Maria Novella, facciata e disegno con i tracciati proporzionali, Firenze
Attorno al 1458-60 Leon Battista
Alberti (1404-1472) progettò la
facciata di S. Maria Novella, su
commissione di Giovanni Rucellai,
per il quale lo stesso Alberti aveva
già progettato anche il Palazzo di
famiglia. Per organizzare la
decorazione della facciata e
inglobare anche i preesistenti
elementi trecenteschi presenti
nell’ordine inferiore che non
potevano essere rimossi, Alberti
seguì i suoi stessi dettami in
materia di proporzioni (di cui si
era ampiamente occupato nel
trattato De re aedificatoria) e fece
ricorso a un modulo
proporzionale quadrato che
regola tutta la facciata, in
un’armonica corrispondenza tra le
parti.
va nel 1404 da una famiglia di grandi banchieri esiliata da Firenze, compie studi umanistici e scientifici, soprattutto di matematica e di fisica, fra Padova e Bologna. Si lega alla
Curia papale e soggiorna in varie città italiane fino a quando, nel 1438, si trasferisce a
Firenze, dove la famiglia Alberti era potuta rientrare a seguito della revoca del bando. Anche
negli anni successivi, comunque, si allontana più volte da Firenze per soggiornare in molte città d’Italia, nelle quali progetta edifici privati e chiese di grande valore architettonico. Muore a Roma il 20 aprile 1472.
LA FIGURA ARTISTICA E INTELLETTUALE La particolarità della figura intellettuale di
Alberti consiste nel suo muoversi su più campi: è un umanista formato sugli studi classici, ma, nello stesso tempo, è anche un sostenitore della dignità del volgare; scrive testi
di carattere letterario, ma anche trattati di impostazione tecnica e scientifica; alla produzione letteraria in latino e volgare affianca una importante attività di architetto e di
ingegnere. Le sue realizzazioni architettoniche, quali il Tempio Malatestiano a Rimini, la
facciata di Santa Maria Novella e Palazzo Rucellai a Firenze, le chiese di Sant’Andrea e di
San Sebastiano a Mantova, sono improntate a quei princìpi di ordine e misura propri del
classicismo di ispirazione umanistica.
OPERE LATINE Nell’ampia produzione di Alberti, caratterizzata da un grande eclettismoe dal-
la ricerca di varietà, spicca un filone di carattere tecnico-scientifico incentrato sulla pittura e
l’architettura. Molto importante è il De pictura (‘La pittura’), scritto fra il ’34 e il ’35 e dedicato a
Filippo Brunelleschi, da considerarsi il primo trattato sulla pittura della nostra tradizione; importantissimo il De re aedificatoria (‘L’architettura’), scritto fra il ’43 e il ’52, un trattato in dieci
libri nel quale Alberti fornisce le coordinate tecnico-scientifiche per la costruzione di un edificio, dalla progettazione alla messa in opera delle fondamenta, alla sua decorazione finale, e do-
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Quattrocento
ve afferma la funzione sociale dell’architetto, capace di progettare razionalmente e di realizzare «opere che nel modo migliore si adattino ai più importanti bisogni dell’uomo». Vanno ricordati inoltre gli scritti di cartografia, di agrimensura e perfino di crittografia.
ALBERTI E IL VOLGARE La finalità pratica, quasi da manuale, di queste opere è eviden-
ziata dal fatto che lo stesso Alberti traduce in volgare il trattato sulla pittura. Ad Alberti, infatti, interessava che le regole della rappresentazione prospettica fissate nel suo libro potessero essere apprese dai pittori, i quali, nella loro maggioranza, non conoscevano il latino. Alberti, del resto, era molto sensibile alla diffusione della cultura e pertanto anche alla diffusione del volgare. Si deve a lui la composizione, fra il 1437 e il 1442, della prima grammatica del volgare, nella quale egli intende dimostrare che anche questa lingua, come il latino, possiede una sua struttura grammaticale e perciò non è regolata soltanto dall’uso, come ritenevano gli umanisti.
I LIBRI DELLA FAMIGLIA Rientra nella stessa linea di promozione del volgare quella gara
poetica di cui abbiamo già parlato, il “Certame coronario” del 1441 [u12.1]. Non è dunque casuale che l’opera più celebre di Alberti siano i Libri della famiglia, un dialogo in volgare, scritto probabilmente tra il 1433 e il 1443, che affronta il tema della gestione di una
famiglia dai punti di vista dell’economia, dei legami interni al gruppo familiare e dei rapporti con l’esterno. In quest’opera i temi più tipici della riflessione umanistica sulla storia
e la società, come quelli della virtù e della fortuna [uT77], si mescolano in maniera significativa con un’attenzione precisa alle questioni di ordine pratico, a dimostrazione che nella concezione albertiana gli studi umanistici non separano dalla vita, ma, al contrario,
sono un efficace strumento di interpretazione e di governo della realtà.
INTERCOENALES Un altro modo di collegarsi alla realtà sociale è quello della pittura
d’ambiente, condotta con levità e ironia, che Alberti compie in brevi prose latine (molte
in forma di dialogo) raccolte sotto il titolo di Intercoenales (‘Intercenali’), perché «da ascoltare o leggere seduti comodamente a cena». Quest’opera, portata a termine intorno al 1439,
viene considerata il capolavoro letterario dell’Alberti latino. Al 1450 circa risale una delle
sue opere più enigmatiche e irriverenti, il dialogo Momus, una satira sulle ingiustizie e sul
disordine che regnano nel mondo.
Guida allo studio
ANTOLOGIA
1. In quali ambiti spazia l’attività di Leon Battista Alberti? 2. Quali princìpi sottendono le sue realizzazioni
architettoniche? 3. Quale valore attribuisce Leon Battista Alberti alla figura dell’architetto? 4. Quale atteggia-
mento assume Leon Battista Alberti nei confronti del volgare e perché? 5. Qual è l’opera più celebre di Alberti?
6. Che cosa sono le Intercoenales?
Leon Battista Alberti
LA VITA Leon Battista Alberti nasce a Genova il 14 febbraio 1404, figlio naturale di Lorenzo, appartenente a una ricca e potente famiglia di mercanti fiorentini in esilio. Dopo aver
trascorso la fanciullezza a Venezia, a circa quattordici anni si trasferisce a Padova, dove
compie studi umanistici, imparando anche il greco. Intraprende poi studi universitari di
diritto a Bologna. Dopo la morte del padre, avvenuta nel 1421, entra in conflitto con la
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12. La letteratura della prima metà del Quattrocento
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ANTOLOGIA
famiglia per questioni di eredità. Superata una serie di difficoltà legate a ragioni di salute
ed economiche, nel 1428 si laurea in Diritto canonico, ma nel frattempo ha seguìto anche
studi scientifici (di matematica e di fisica) e ha coltivato interessi letterari, scrivendo sia
in latino, sia in volgare. Dal 1431 entra come abbreviatore apostolico (redattore delle lettere ufficiali) nella Curia pontificia, alla quale rimarrà legato per tutta la vita. Nel 1432
prende gli ordini ecclesiastici, ottenendo così i benefici di una piccola pieve nel contado
fiorentino. Dal 1431 al 1434 vive stabilmente a Roma, dove frequenta gli ambienti umanistici. Compie anche molti viaggi al seguito della Curia: a Bologna, a Ferrara, a Perugia, a
Venezia. Dal 1438 al 1441 vive stabilmente a Firenze e qui stringe amicizia con i più importanti artisti e letterati dell’epoca: Filippo Brunelleschi, Donatello, Leonardo Bruni, Cristoforo Landino. A Firenze organizza nel 1441 il Certame coronario, gara di poesia in volgare.
Nel 1443 fa ritorno a Roma, ma continua a viaggiare per l’Italia, spostandosi da Firenze a
Rimini e a Mantova. In queste città realizza le sue più importanti opere di architetto. Muore a Roma il 20 aprile 1472.
I LIBRI DELLA FAMIGLIA I Libri della famiglia sono un trattato in forma di dialogo com-
ANTOLOGIA
posto da quattro libri e scritto fra il 1433 e il 1440-43. Il dialogo, ambientato a Padova
nel 1421, si svolge tra i familiari che si raccolgono intorno al letto di morte di Lorenzo
Alberti, padre di Leon Battista. Fra questi spiccano le figure di Adovardo, il teorico che
fonda sui libri gran parte della sua esperienza, e Giannozzo, il pratico per eccellenza, che
meglio di ogni altro impersona la figura del tradizionale padre di famiglia. L’opera si apre
con un Prologo nel quale Alberti dedica il trattato ai giovani della sua famiglia e discute
sul ruolo giocato nella storia dalla virtù e dalla fortuna (cioè dal valore e dalla saggezza
degli individui e dal caso: uT77). Il primo libro tratta del rapporto tra padri e figli; il
secondo del matrimonio e dell’unità della famiglia. Il terzo è preceduto da un proemio e
porta la dedica a un altro esponente della famiglia Alberti, Francesco d’Altobianco: se l’intento dei primi due libri era di descrivere come rendere «la famiglia populosa [numerosa]
e avviata a diventar fortunata» (III, Proemio), questo terzo ha come argomento l’economia domestica in senso stretto, e perciò tratta della «masserizia», cioè dell’arte di amministrare oculatamente i beni al fine di garantire alla famiglia una vita serena. Il quarto
libro (il cui sottotitolo latino è De amicitia [‘L’amicizia’]) ha come argomento i rapporti
che la famiglia intrattiene con il mondo esterno: parla pertanto dell’amicizia in generale
e, in particolare, di come si possa guadagnare la benevolenza dei potenti.
Alberti sostiene che la prosperità di una famiglia può nascere solo dall’operosità intelligente e dalla sollecitudine del padre di famiglia, il massaio: tali virtù sono il contrario
dell’ozio e dello sperpero. Intorno a questi contenuti Alberti costruisce una «filosofia del
concreto ragionare» che dà ampio spazio al sapere acquisito con l’esperienza e all’autorità del pratico massaio. Nel leggere i Libri della famiglia occorre sempre tener presente che
Alberti non politicizza e non socializza la sua tesi. La famiglia è il cuore, la cellula della
civitas, cioè della società e della vita civile; ma della civitas Alberti non parla mai. Egli limita le sue considerazioni alle dinamiche interne alla famiglia, alla dimensione autarchica,
alle norme comportamentali e morali che valgono per la famiglia e per essa sola. Nelle sue
pagine non s’incontrano, pertanto, proposte che riguardino la società e gli Stati: e non è
casuale che il dialogo si chiuda con un libro dedicato all’amicizia, cioè a quella forma di
rapporto particolarissima, individualistica e tutt’altro che politica, che lega un essere umano a un altro essere umano.
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ANTOLOGIA
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Quattrocento
T77
Fortuna e virtù
Libri della famiglia, Prologo
Il passo che segue fa parte del Prologo. Alberti vi affronta il dilemma se la fortuna abbia tanto potere nella vita dell’uomo da mandare in rovina grandissime e potentissime famiglie. Nel
formulare la risposta estende la propria analisi alla storia in generale, definendo la sfera d’azione della virtù.
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Da molti veggo la fortuna più volte essere sanza vera cagione inculpata, e scorgo
molti per loro stultizia scorsi ne’ casi sinistri, biasimarsi della fortuna e dolersi d’essere agitati da quelle fluttuosissime sue unde, nelle quali stolti sé stessi precipitorono1. E così molti inetti de’ suoi errati dicono altrui forza furne cagione2.
Ma se alcuno con diligenza qui vorrà investigare qual cosa molto estolla e accresca le famiglie, qual anche le mantenga in sublime grado d’onore e di felicità, costui
apertamente vederà gli uomini le più volte aversi d’ogni suo bene cagione e d’ogni
suo male, né certo ad alcuna cosa tanto attribuirà imperio, che mai giudichi ad acquistare laude, amplitudine e fama non più valere la virtù che la fortuna3. Vero, e cerchisi le republice, ponghisi mente a tutti e’ passati principati: troverassi che ad acquistare e multiplicare, mantenere e conservare la maiestate e gloria già conseguita,
in alcuna mai più valse la fortuna che le buone e sante discipline del vivere4. E chi
dubita? Le giuste leggi, e’ virtuosi princìpi, e’ prudenti consigli, e’ forti e constanti
fatti, l’amore verso la patria, la fede, la diligenza, le gastigatissime e lodatissime osservanze de’ cittadini sempre poterono o senza fortuna guadagnare e apprendere fama, o colla fortuna molto estendersi e propagarsi a gloria, e sé stessi molto commendarsi alla posterità e alla immortalità5. Co’ Macedoni fu seconda la fortuna e prospera quanto tempo in loro stette l’uso dell’armi coniunto con amor di virtù e studio di
laude6. Vero, doppo la morte d’Allessandro Grande, subito ch’e’ prìncipi macedoni cominciarono ciascuno a procurare e’ suoi propri beni, e aversi solliciti non al publico
imperio, ma curiosi a’ privati regni, fra loro subito nacquero discordie, e fra essi cuocentissime fiamme d’odio s’incesoro, e arsero e’ loro animi di face di cupiditate e furore, ora d’ingiuriare, mo di vendicarsi7: e quelle medesime armi e mani trionfali, le
quali aveano occupato e suggette la libertà e forze d’innumerabili populi, le quali
aveano compreso tanto imperio, colle quali già era il nome e fama de’ Macedoni per
1. Da molti... precipitorono: ‘Noto che la fortuna è spesso accusata ingiustamente da molti uomini e vedo molti uomini, che sono incorsi
(scorsi) in disgrazie a causa della loro poca
intelligenza, lamentarsi della fortuna e dolersi
di essere sballottati dalle sue onde tempestose (fluttuosissime) nelle quali si sono stoltamente gettati (sé stessi precipitorono)’.
2. E così... cagione: ‘E così molti incapaci attribuiscono la causa dei loro errori (errati) a una
forza esterna’.
3. Ma se... fortuna: ‘Ma se qualcuno vorrà
indagare accuratamente che cosa innalzi molto e faccia prosperare (accresca) le famiglie,
che cosa le mantenga in un altissimo grado di
onore e di felicità, costui vedrà con chiarezza
che nella maggior parte dei casi gli uomini
sono la causa prima (aversi... cagione) di ogni
loro bene e di ogni loro male, e non riconoscerà mai ad alcuna cosa tanto potere da esse-
re indotto a ritenere che la virtù conti meno
della fortuna nell’acquistare lode, grandezza e
fama’.
4. Vero... vivere: ‘Così è, e si esaminino le
repubbliche, si considerino tutti i principati del
passato: si scoprirà che in nessuna repubblica
o principato la fortuna ha mai avuto più potere
delle regole di una retta e onesta convivenza
civile’.
5. E chi... immortalità: ‘E chi potrebbe dubitarne? Le leggi giuste, i buoni princìpi morali, le
decisioni prudenti, i comportamenti decisi e
costanti, l’amore verso la patria, la lealtà, la diligenza, lo strettissimo e lodevole rispetto delle
regole da parte dei cittadini hanno sempre fatto sì che le repubbliche o i principati guadagnassero e acquistassero fama, anche senza
l’aiuto della fortuna, oppure, con l’aiuto di quella, che si estendessero e incrementassero la
loro gloria e si consegnassero all’immortalità
presso i posteri’.
6. Co’ Macedoni... laude: ‘Con i Macedoni la
fortuna fu favorevole e propizia finché mantennero unito l’uso delle armi con l’amore per la
virtù e la ricerca dell’onore’.
7. Vero... vendicarsi: ‘Ma (Vero), dopo la morte
di Alessandro Magno, non appena ciascuno dei
principi macedoni iniziò a procacciarsi beni personali e, invece di preoccuparsi dell’Impero comune, a occuparsi dei regni personali, subito tra
loro nacquero discordie e divamparono ardenti
fiamme d’odio, e i loro animi si accesero (arsero...
di face) del desiderio di ricchezza e della smania
ora di offendere, ora di vendicarsi’. Alberti ripercorre qui in sintesi i fatti che seguirono la morte
di Alessandro Magno, re di Macedonia (356-323
a.C.). Con la sua scomparsa, il grande Impero che
egli aveva fondato si dissolse, frammentandosi
in tanti piccoli sottoregni, guidati da luogotenenti e successori (il cui nome era “Diadochi”) con-
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12. La letteratura della prima metà del Quattrocento
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50
tutto el mondo celebratissima, queste armi medesime invittissime, sottoposte a’ privati appetiti di pochi rimasi ereditarii tiranni, furono quelle le quali discissero e disperderono ogni loro legge, ogni loro equità e bontà, e persegorono ogni nervo delle sue prima temute forze8. Così adunque finirono non la fortuna, ma loro stultizia e’
Macedoni la conseguita sua felicità9, e trovoronsi in poco tempo senza imperio e senza gloria. Ebbe ancora seco la Grecia vittoria, gloria e imperio, mentre ch’ella fu affezionata e officiosa non meno a reggere, regolare e contenere gli animi de’ suoi cittadini, che in adornar sé con delizie e sopra dell’altre con pompa nobilitarsi10.
E della nostra Italia non è egli manifesto el simile?11 Mentre che da noi furono le
ottime e santissime nostre vetustissime discipline osservate, mentre che noi fummo
studiosi porgere noi simili a’ nostri maggiori e con virtù demmo opera di vincere le lode de’ passati, e mentre ch’e’ nostri essistimorono ogni loro opera, industria e arte, e
al tutto ogni sua cosa essere debita e obligata alla patria, al ben publico, allo emolumento e utilità di tutti e’ cittadini, mentre che si esponeva l’avere, il sangue, la vita,
per mantenere l’autorità, maiestate e gloria del nome latino, trovoss’egli alcun popolo, fu egli nazione alcuna barbara ferocissima, la quale non temesse e ubidisse nostri
editti e legge?12 Quello imperio maraviglioso sanza termini, quel dominio di tutte le
genti con nostre latine forze acquistato, con nostra industria ottenuto, con nostre armi latine amplificato, dirass’egli ci fusse largito dalla fortuna?13 Quel che a noi vendicò la nostra virtù, confesseremo noi esserne alla fortuna obligati?14 Statuiremo noi
in la temerità della fortuna l’imperio, quale e’ maggiori nostri più con virtù che con
ventura edificorono?15 Stimeremo noi suggetto alla volubilità e alla volontà della fortuna quel che gli uomini con maturissimo consiglio, con fortissime e strenuissime opere a sé prescrivono?16 E come diremo noi la fortuna con sue ambiguità e inconstanze
potere disperdere e dissipare quel che noi vorremo sia più sotto nostra cura e ragione
che sotto altrui temerità?17 Come confesseremo noi non essere più nostro che della fortuna quel che noi con sollicitudine e diligenza delibereremo mantenere e conservare?18 Non è potere della fortuna, non è, come alcuni sciocchi credono, così facile vincere chi non voglia essere vinto. Tiene gioco la fortuna solo a chi se gli sottomette19.
tinuamente in guerra tra loro.
8. e quelle... forze: ‘e quelle medesime mani
armate (armi e mani è un’endiadi) che avevano
trionfato, che avevano sopraffatto e sottomesso la libertà e le forze di numerosissimi popoli,
che avevano riunito un Impero tanto grande,
grazie alle quali la fama e la gloria dei Macedoni era già celebrata in tutto il mondo, questi
medesimi eserciti (armi) mai vinti prima (invittissime), obbedendo alle brame personali di
pochi che si erano fatti tiranni ereditari, furono
loro che fecero a brani e annullarono (discissero e disperderono) ogni legge, ogni senso di
giustizia e di clemenza, e recisero (persegorono) ogni nervo delle forze prima tanto temute’.
9. Così... felicità: ‘così, dunque, fu la stoltezza
e non la fortuna a far perdere ai Macedoni la
felicità che avevano conseguito’.
10. Ebbe... nobilitarsi: ‘La Grecia riuscì ancora
ad avere vittoria, gloria e potenza finché fu
intenta e dedita più a reggere e a moderare gli
animi dei suoi concittadini che ad abbellirsi e a
imporsi col fasto sulle altre popolazioni’.
11. non è... el simile?: ‘non è evidente che è
accaduta la stessa cosa?’.
12. Mentre... legge?: ‘Finché presso di noi sono state osservate le antichissime regole di
convivenza civile, finché abbiamo cercato di
mostrarci (porgere noi) simili ai nostri antenati e
abbiamo operato con la virtù per superare la fama dei nostri predecessori, e finché i nostri concittadini stimarono che ogni loro azione, attività
e abilità e ogni loro cosa dovesse essere interamente dedicata e dovuta (debita e obligata) al
bene pubblico, al vantaggio e all’utilità di tutti i
cittadini, finché si rischiavano gli averi, il sangue, la vita per mantenere l’autorità, la maestà
e la gloria del popolo romano, si trovò un popolo, vi fu una nazione barbara e ferocissima, che
non avesse timore e non obbedisse ai nostri decreti e alla nostra legge?’.
13. Quello... fortuna?: ‘Quello stupefacente
Impero senza confini, quel dominio di tutti i
popoli acquistato con il nostro coraggio romano (latine forze), mantenuto con la nostra intelligente operosità, ampliato con i nostri eserciti
romani, si potrà forse dire che ci è stato regalato dalla fortuna?’.
14. Quel che... obligati?: ‘Di ciò che a noi procurò la nostra virtù, affermeremo di essere
debitori alla fortuna?’.
15. Statuiremo... edificorono?: ‘Fonderemo
noi sulla casualità (temerità) della sorte quell’Impero che i nostri antenati edificarono più
con il valore che con la fortuna?’.
16. Stimeremo... prescrivono?: ‘Giudicheremo soggetto alla volubile volontà della fortuna
ciò che gli uomini stabiliscono per sé con ben
ponderata decisione e con azioni forti e valorose?’.
17. E come... temerità?: ‘E come potremo dire
che la fortuna, con i suoi alti e bassi e la sua
incostanza, può disperdere e dissipare quel
che vorremmo che fosse sotto il nostro controllo razionale piuttosto che soggetto all’irragionevole casualità (temerità) d’altri?’.
18. Come confesseremo... conservare?: ‘Come potremo ammettere che dipenda più dalla
fortuna che da noi ciò che decidiamo di mantenere e conservare con diligenza e premura?’.
19. Non... sottomette: ‘La fortuna non ha il
potere, come alcuni sciocchi credono, di vincere chi non voglia essere vinto, cosa che non è
così facile. La fortuna domina solo chi le si
assoggetta’.
ANTOLOGIA
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ANTOLOGIA
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Lettura guidata
VIRTÙ E FORTUNA SI EQUIVALGONO? La tesi
sostenuta da Alberti è che virtù e fortuna rappresentano i due motori della storia. Alberti sottolinea innanzitutto la stoltezza e l’inettitudine di quegli uomini che attribuiscono la responsabilità delle
proprie disgrazie alla fortuna, paragonata a un fiume in piena («fluttuosissime... unde», r. 3), con
un’immagine che sarà spesso ripresa nella letteratura quattro-cinquecentesca sull’argomento. A tali
uomini contrappone quelli che, animati da volontà
investigativa, concepiscono l’uomo come dotato di
virtù, cioè di capacità e valore individuale, che lo
rendono artefice della propria storia. L’equipollenza di virtù e fortuna è, dunque, progressivamente
attenuata nel corso dell’argomentazione: secondo
Alberti, infatti, la fortuna può, sì, ritardare e ostacolare con le sue «ambiguità e inconstanze» (r. 49)
le azioni guidate dalla virtù, ma non annullarle o
vanificarle, ed è dunque inevitabile («E chi dubita?», rr. 12-13) che sia destinata a perdere la sfida.
LA STORIA TESTIMONIA IL POTERE DELLA
VIRTÙ La tesi è argomentata con esempi tratti
Quattrocento
dalla storia antica: i Macedoni, dopo la morte di
Alessando Magno, furono vittime non dell’ostilità
della sorte, bensì della loro incapacità politica e
della loro avidità; allo stesso modo la Grecia conobbe l’umiliazione nel momento in cui abdicò alle tradizionali virtù civili (le «ottime e santissime nostre
vetustissime discipline osservate»). Anche l’Italia,
che Alberti sembra collocare in continuità con
quell’Impero romano che era nato dallo spirito di
iniziativa e dalla rettitudine morale, e non certo
«largito dalla fortuna» (r. 44), rimase indenne da
ogni sventura finché i suoi uomini furono: «studiosi... con virtù demmo opera di vincere le lode de’
passati» (rr. 36-37). Con la menzione dell’Italia inizia una serie di domande retoriche tese a ribadire
che alla violenza e alla volubilità della fortuna l’uomo può opporsi facendo ricorso alle virtù di giustizia, intelligenza, temperanza, ragione, prudenza.
Quelle domande sostengono e preparano i due
enunciati marcatamente sentenziosi che dei casi
della storia chiamati in causa sono postilla e commento: 1) «Solo è sanza virtù chi nolla vuole»; 2)
«Tiene gioco la fortuna solo a chi se gli sottomette» (r. 54).
Esercizi
comprensione e analisi
1. Il concetto di fortuna è uguale o diverso rispetto a
quello dell’italiano contemporaneo? Hai ritrovato in
qualche altro autore (tra quelli studiati finora) un uso
analogo?
2. Dividi in sequenze il testo, quindi riproduci in forma
di scaletta le argomentazioni e gli esempi addotti dall’autore, evidenziando l’idea centrale intorno alla quale
la trattazione verte.
3. Diviso in sequenze il testo, assegna a ciascuna un
titoletto, quindi utilizza questi ultimi per produrre un
riassunto nel minor numero di parole possibile.
Le avversità sono materia1 della virtù. E chi è colui el quale di
sua fermezza d’animo, di sua constanza di mente, di sua forza d’ingegno, di sua industria e arte vaglia di sé nelle seconde e quiete cose, nell’ozio e tranquillità della fortuna, tanto
meritare e acquistare laude e nome quanto nella avversa e difficile?2 Però3 vincete la fortuna colla pazienza, vincete la iniquità4 degli uomini collo studio5 delle virtù, adattatevi alle
necessitati e a’ tempi con ragione e prudenza, agiugnetevi all’uso e costume degli uomini6 con modestia, umanità e discrezione, e sopratutto con ogni vostro ingegno, arte, studio e
opera, cercate molto in prima essere, e apresso parere virtuosi7. Né a voi sia più caro, né prima desiderata alcuna cosa che
interpretazione
4. Nel passo del Prologo Alberti contrappone i termini
stultizia e prudenza. Che cosa significano per lui? E in
che senso possiamo intendere prudenza come sinonimo di virtù? Scrivi un breve saggio sull’argomento in un
massimo di 300 parole.
5. All’interno del passo che segue (tratto dal I libro) individua i termini che si riferiscono ai concetti di “virtù” e
di “fortuna” e spiega se e in che senso le considerazioni lì contenute rispecchiano il pensiero albertiano enunciato nel passo del Prologo:
1. materia: ‘campo di prova’.
2. E chi è... difficile?: ‘E chi è colui che con la sua determinazione, la
sua costanza, la sua intelligenza, la sua operosa attività sia capace di
acquistare merito, lode e fama tanto nelle circostanze tranquille e
favorevoli (seconde e quiete cose), cioè nell’ozio e nella benevolenza
della sorte, quanto in quelle sfortunate e difficili?’.
3. Però: ‘Perciò’.
4. iniquità: ‘malvagità’.
5. studio: ‘ricerca’.
6. agiugnetevi... uomini: ‘conformatevi alle abitudini di vita degli
uomini’.
7. cercate molto... virtuosi: ‘impegnatevi fortemente in primo luogo
(in prima) a essere virtuosi e, dopo (apresso), a sembrarlo’.
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12. La letteratura della prima metà del Quattrocento
8. e in voi... pregiato: ‘e se dentro di voi avrete deciso di posporre
sempre ogni altra cosa alla sapienza e alla saggezza giudicherete da
parte vostra (apresso di voi) di poco valore ogni vantaggio della fortuna’. – arete statuito: ‘avrete deciso’.
T78
contestualizzazione
6. Confronta il valore attribuito alla virtù e alla fortuna
da parte di Leon Battista Alberti con quanto dice Boccaccio a proposito della fortuna e dell’ingegno nelle
sue novelle. Infine scrivi un testo di circa 300 parole in
cui evidenzierai affinità e divergenze, motivate mediante riferimenti ai testi.
La masserizia
Libri della famiglia, III libro
Il vecchio Giannozzo, l’uomo “pratico” della famiglia Alberti, l’interprete più fedele dei tradizionali princìpi di saggia gestione familiare, interviene per la prima volta nel terzo libro; nel passo
che riportiamo parla della «masserizia», la virtù fondamentale del buon padre di famiglia.
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Giannozzo [...] Quanto la prodigalità è cosa mala, così è buona, utile e lodevole
la masserizia1. La masserizia nuoce a niuno, giova alla famiglia. E dicoti, conosco
la masserizia sola essere sofficiente a mantenerti che mai arai bisogno d’alcuno2.
Santa cosa la masserizia, e quante voglie lascive, e quanti disonesti appetiti ributta indrieto la masserizia!3 La gioventù prodiga e lasciva, Lionardo mio, non dubitare, sempre fu attissima a ruinare ogni famiglia4. I vecchi massari e modesti sono
la salute della famiglia5. E’ si vuole essere massaio, non fosse questo per altro se
none che a te stessi resta nell’animo una consolazione maravigliosa di viverti bellamente con quello che la fortuna a te concesse6. E chi vive contento di quello che
possiede, a mio parere non merita essere riputato avaro7. Questi spendenti veramente sono avari, i quali perché e’ non sanno saziarsi di spendere, così mai si sentono
pieni d’acquistare e da ogni parte predare questo e quello8. Non stimassi tu però
essermi grata alcuna superchia strettezza9. Ben confesso questo; a me pare da dislodare troppo uno padre di famiglia se non vive più tosto massaio che godereccio10.
Lionardo Se gli spenditori, Giannozzo, dispiaciono, chi non spenderà vi doverà
piacere. L’avarizia, bench’ella stia, come dicono questi savi, in troppo desiderare,
ella ancora sta in non spendere11.
Giannozzo Bene dici il vero.
Lionardo E l’avarizia dispiace?
1. Quanto... masserizia: ‘Quanto lo spendere
eccessivamente (prodigalità) è cosa riprovevole, così è cosa utile e fonte di lode la saggia e
moderata amministrazione dei beni’.
2. conosco... alcuno: ‘so che la masserizia
basta da sola a mantenerti in modo da non
dover ricorrere mai all’aiuto di alcuno’.
3. quante... masserizia!: ‘quanti desideri licenziosi e quante voglie immorali (disonesti appetiti) tiene a freno (ributta indrieto) la masserizia!’.
4. La gioventù... famiglia: ‘I giovani spendaccioni e dissoluti, non dubitare, Leonardo mio,
sono sempre stati adattissimi a mandare in
rovina ogni famiglia’.
5. I vecchi... famiglia: ‘ I vecchi economi (massari, aggettivo) e moderati (alieni dal lusso)
sono la salvezza (salute) della famiglia’.
6. E’ si... concesse: ‘Si deve essere massaio se
non altro perché (a esserlo) resta nell’animo la
meravigliosa consolazione di vivere comodamente (bellamente) con quello che la fortuna ti
ha concesso’. – none: ‘non’.
7. avaro: il termine è usato da Alberti nel doppio significato di ‘eccessivamente parco’ e di
‘avido’.
8. Questi... quello: ‘Sono veramente “avari”
questi spendaccioni, i quali, poiché non si
appagano (sanno saziarsi) mai di spendere, non
sono mai sazi (pieni) di acquistare e di depredare da ogni parte l’uno o l’altro’.
9. Non stimassi... strettezza: ‘Non devi pensare però che mi piaccia una eccessiva economia’.
10. a me... godereccio: ‘io ritengo che deve
essere molto biasimato (da dislodare) un padre
di famiglia se non vive preferibilmente da massaio che da spendaccione (gaudente)’.
11. L’avarizia... spendere: ‘L’“avarizia”, benché consista, come dicono questi saggi, nel
desiderare troppo, consiste anche nel non
spendere’.
ANTOLOGIA
la virtù, e in voi stessi arete statuito sempre alla scienza e sapienza posporre ogni altra cosa, e indi ogni utile della fortuna apresso di voi riputerete da non molto essere pregiato8.
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ANTOLOGIA
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Giannozzo Sì troppo12.
Lionardo Adunque questa vostra masserizia che cosa sarà?
Giannozzo Tu sai, Lionardo, che io non so lettere13. Io mi sono in vita ingegnato
conoscere le cose più colla pruova mia che col dire d’altrui, e quello che io intendo
più tosto lo compresi dalla verità che dall’argomentare d’altrui14. E perché uno di questi i quali leggono tutto il dì, a me dicesse «così sta», io non gli credo però se io già
non veggo aperta ragione, la quale più tosto mi dimonstri così essere, che convinca
a confessarlo15. E se uno altro non litterato mi adduce quella medesima ragione, così crederrò io a lui senza allegarvi autorità, come a chi mi dia testimonianza del libro,
ché stimo chi scrisse pur fu come io uomo16. Sì che forse io testé17 non saprò così a
te rispondere ordinato quanto faresti tu a me18, che tutto il dì stai col libro in mano.
Ma vedi tu, Lionardo, quelli spenditori, de’ quali io ti dissi testé, dispiaciono a me,
perché eglino spendono sanza ragione, e quelli avari ancora mi sono a noia, perché
essi non usano le cose quando bisogna, e anche perché quelli medesimi desiderano
troppo19. Sa’20 tu quali mi piaceranno? Quelli i quali a’ bisogni usano le cose quanto
basta e non più; l’avanzo serbano; e questi chiamo io massai21.
Lionardo Ben v’intendo, quelli che sanno tenere il mezzo tra il poco e il troppo22.
Giannozzo Sì, sì.
Lionardo Ma in che modo si conosce egli quale sia troppo, quale sia poco?
Giannozzo Leggermente, colla misura in mano23.
Lionardo Aspetto e desidero questa misura24.
Giannozzo Cosa brevissima25 e utilissima, Lionardo, questa. In ogni spese prevedere ch’ella non sia maggiore, non pesi più, non sia di più numero che dimandi la
necessità, né sia meno quanto richiede la onestà26.
12. troppo: ‘molto’.
13. io... lettere: ‘io non sono un uomo colto’.
14. Io... d’altrui: ‘Io durante la mia vita mi sono
adoperato (ingegnato) per conoscere le cose
più con la mia esperienza personale che con i
discorsi degli altri, e quello che capisco l’ho
compreso dalla verifica concreta più che dalle
dimostrazioni astratte degli altri’.
15. E perché... confessarlo: ‘E per il fatto che
uno di questi che stanno tutto il giorno a leggere i libri mi venisse a dire «la cosa sta così»,
non per questo (però) gli crederei, a meno che
io non scorgessi un ragionamento limpido, il
quale mi dimostri che così è, che mi convinca
ad ammetterlo’.
16. così... uomo: ‘così gli crederò, senza che
lui debba citare (senza allegarvi) alcuna autorità, come se mi portasse a testimonianza il
libro, perché ritengo che anche chi lo ha scritto era un uomo come me’.
17. testé: ‘ora’.
18. ordinato... me: ‘con un ragionamento ordinato quanto lo sarebbe il tuo’.
19. Ma... troppo: ‘Ma vedi, Leonardo, quegli
spendaccioni, dei quali ti dicevo poco fa (testé)
non mi piacciono perché spendono senza
ragione, e anche quegli “avari” mi danno fastidio, perché non usano le cose quando ce n’è
bisogno, e anche perché desiderano troppo’.
20. Sa’: ‘Sai’.
21. Quelli... massai: ‘Quelli che al momento del
bisogno usano le cose quanto basta e non di
Lettura guidata
TEORIA E PRATICA DELLA MASSERIZIA Alberti
elegge a padre di famiglia esemplare il vecchio Giannozzo, riconoscendo suprema autorevolezza alla sua
esperienza personale. A nessun altro che a Giannozzo, uomo di grandissima umanità e di costumi integerrimi, poteva essere affidato il compito di definire l’arte di rendere e mantenere felice la famiglia, l’arte del-
più; quello che è avanzato lo mettono da parte;
questi io li chiamo massai’.
22. Ben... troppo: ‘Vi capisco bene, quelli che
sanno mantenersi a metà strada tra il poco e il
troppo’.
23. Leggermente... mano: ‘Facilmente, con il
metro in mano’.
24. Aspetto... misura: ‘Desidero con ansia di
sapere che cos’è questo metro’.
25. brevissima: ‘che si può dire in poche parole’.
26. In ogni... onestà: ‘Per ogni spesa che si fa
provvedere che non sia più grande, più gravosa, e di maggior entità di quanto esige la necessità e non sia minore di quanto richiede il decoro’.
la masserizia. Di masserizia Alberti ha già fatto parlare nel secondo libro Adovardo (uomo di lettere): questi aveva enunciato la teoria, ma a declinarne la pratica è Giannozzo, che si proclama inesperto di lettere e
favorevole ad accettare l’autorità della concreta esperienza piuttosto che quella della parola scritta.
MASSERIZIA, GIUSTA MISURA Ma masserizia è
qualcosa di più che buona amministrazione: è
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473
anche saggezza del giusto mezzo. Poiché si pone
agli antipodi sia dell’avarizia, sia della prodigalità,
e ha nella giusta misura il proprio criterio di base
(«tenere il mezzo tra il poco e il troppo», r. 36),
Giannozzo può affermare, puntualizzando quanto
ha detto poco prima, che «tutta la masserizia sta
non tanto in serbare le cose quanto in usarle a’
bisogni». È dunque, a tutti gli effetti, una virtù
sociale e una regola di vita. Depositario di questa
virtù è il padre di famiglia, al quale spetta garantire prosperità, stabilità e decoro: non lesinare né
sprecare i beni a disposizione. La masserizia diventa così sicurezza e garanzia del futuro, in quanto
capitale di beni materiali e, nello stesso tempo, di
solidarietà di affetti e di legami di sangue. Il governo oculato dei beni di famiglia è “virtù” che si
oppone alla “fortuna” e, quindi, strada per il conseguimento della felicità. Il richiamo al giusto mezzo definisce un tipo di saggezza, legata alla buona
amministrazione di sé e dei propri beni, che deriva,
più che dall’autorità dei libri, dall’esempio degli
antenati e dall’esperienza di vita.
Esercizi
comprensione
zo a proposito dell’avarizia.
1. Elenca, riportando le citazioni dal testo, le qualità
della masserizia che vengono vantate da Giannozzo in
questo passo.
2. Qual è l’opposto della masserizia?
3. Riporta con parole tue le tesi sostenute da Giannoz-
D13
interpretazione
4. Illustra in un testo di circa 300 parole la compresenza di aspetti economici e aspetti morali nel concetto di
masserizia.
Evadere le tasse agli inizi del Quattrocento
Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, parte III
Il mercante fiorentino Giovanni Morelli scrive i suoi Ricordi tra la fine del Trecento e il primo
decennio del Quattrocento. Si tratta di una storia della famiglia Morelli che parte dalle origini
nel Mugello e si sviluppa, poi, fra cronaca privata e cronaca degli eventi pubblici della città di
Firenze. Nella terza parte Giovanni Morelli, traendo spunto dall’esperienza personale, si sofferma su una serie di consigli, sia nel campo della morale che in quello dell’economia, destinati
ai giovani rimasti precocemente orfani. Nel passo che riportiamo consiglia quali comportamenti tenere per non pagare le tasse imposte dal Comune di Firenze che potrebbero danneggiare il
patrimonio del mercante.
Ora, conchiudendo, queste sopra dette cose sono
utile a divenire isperto e ’ntendente al mondo1, a
farsi bene volere e essere onorato e riguardato2; e
ragionevolemente con queste cose vertudiose tu
ti debbi difendere e dalle gravezze e da ogni torto che ti fusse voluto fare3. E dove elle non valessono e trovassiti pure nelle gravezze grandi, le
1. queste... mondo: ‘le cose dette sopra sono
utili per farti diventare esperto e competente
delle cose del mondo’.
2. riguardato: ‘rispettato’.
3. ragionevolemente... fare: ‘in giusta misura
(ragionevolemente) grazie a queste tue virtuose qualità ti devi difendere dalle tasse (gravezze) e da ogni torto che ti si tenti di fare’.
quai fussono sofficienti a disfarti, non le pagare4.
Rubellati dal Comune, acconcia il tuo in forma
non ti possa essere tolto: fallo difendere o per dote o per obbrighi fatti in cui ti fidassi; e se non puoi
difendere, lascia istare: sì tosto non si vende5. Se
hai danari contanti, acconciali per modo non si
sappia sieno tuoi6: o tu ne gli porta, se se’ saputo
4. E dove... pagare: ‘E nel caso che le tue qualità non ti dessero autorità (valessono) e ti trovassi oberato da tasse molto gravose, che
sarebbero in grado di mandarti in rovina (a
disfarti), non le pagare’.
5. Rubellati... si vende: ‘Ribellati al comune,
sistema il tuo patrimonio (acconcia il tuo) in
modo che non ti possa essere confiscato:
difendilo mostrando che è impegnato in doti o
in prestiti già contratti con persone di cui ti fidi;
e se non puoi difenderlo, lascia stare: non riusciranno a vendere tanto in fretta un patrimonio confiscato’.
6. acconciali... tuoi: ‘sistemali in modo tale
che non si sappia che ti appartengono’.
ANTOLOGIA
12. La letteratura della prima metà del Quattrocento
Santagata_12:12 29/12/08 11:40 Pagina 474
SINTESI
ANTOLOGIA
474
Quattrocento
a guardarli e trafficarli, o tu ne fa una investita di
lana, dove istanno assai i danari, e di poi la vendi alla scritta in Vinegia o in Genova, o tu la fa
venire in nome altrui: e ’n ciò piglia consiglio7.
Ma non usare mai parole ingiuriose contra il Comune né contra persona8; ma, fatto la pace o fatto una ragunata di molte prestanze, fa d’avere un
bullettino: ricorri a’ Signori, metti una petizione
di pagare il terzo o due quinti a perdere, o che ’
Signori e ’ Collegi abbino a ricorreggere la tua
prestanza, con informarli tutti della tua impoten-
zia, e agli amici loro; e qui fa gran punga9. E se
non puoi al tempo d’un priorato, aspettane tanti
ti venga fatto, ché sono cose che chi dura di seguirle, vengono una volta fatte10; o, se non vengono fatte, dimostri a tutto il populo tu se’ gravato e non puoi pagare, e con questo ne se’ altra volta di più agevolato11. E sopra tutto, mai, e spezialmente per questa cagione, non torre danari a costo: innanzi vendi il meglio che tu hai, però che
togliendo a costo tu ti disfaresti: pagheresti gl’interessi e la fine ti converrebbe vendere12.
7. o tu... consiglio: ‘(puoi) o portarli con te, se
sei in grado di custodirli e di impegnarli negli
affari, o investirli (fa una investita) nell’acquisto
di lana, dove si impiegano molti capitali, e poi
venderla con una lettera commerciale a Venezia o a Genova, oppure farla arrivare sotto il
nome di un altro: e a questo proposito fatti consigliare (da persone di fiducia)’.
8. Ma... persona: ‘Ma non rivolgere mai attacchi offensivi al comune o a chicchessia’.
9. ma... punga: ‘ma, trovato un accordo o messe insieme diverse prestanze, cerca di avere
una ricevuta che certifichi l’esonero dal pagamento (bullettino): ricorri ai Signori, fai la richiesta di pagare un terzo o due quinti del dovuto
senza obbligo di restituzione (a perdere), oppure chiedi che i Signori e le Magistrature correggano al ribasso il tuo prestito, informandoli tutti della tua impossibilità di pagare, e chiedilo
anche ai loro amici; e a questo proposito fai forti pressioni’. – prestanze: una sorta di prestito
a interesse, che però difficilmente veniva rimborsato, imposto dal Comune di Firenze. Chi lo
esibisce dimostra di essere creditore del
comune.
10. E se... fatte: ‘E se non ti riesce mentre è in
carica un priorato, aspettane tanti altri (di priorati) finché non riesci a ottenerlo; perché si
tratta di cose che a chi è tenace nel perseguirle (chi dura di seguirle) alla fine riescono (ven-
gono... fatte)’.
11. o... agevolato: ‘o, se non riesci a ottenerle,
puoi dimostrare a tutta la cittadinanza che sei
eccessivamente tassato e non sei in grado di
pagare, e in questo modo potrai essere agevolato maggiormente in un’altra occasione’.
12. E sopra tutto... vendere: ‘E soprattutto non
prendere mai, specialmente per questo motivo,
denaro a prestito con interesse: piuttosto (innanzi) vendi i tuoi beni migliori, perché, prendendo i soldi in prestito, andresti in rovina; pagheresti gli interessi e alla fine saresti costretto
a vendere’.
Il bilinguismo Nel contesto del
bilinguismo latino-volgare, che
caratterizza il panorama del
Quattrocento, il latino è per gli
umanisti l’unica lingua degna di
essere usata in letteratura e, di
conseguenza, la letteratura in
volgare nella prima metà del
secolo scivola ai piani più bassi del
sistema culturale. Esempio
dell’ostilità degli umanisti è il
fallimento del “Certame
coronario” organizzato da Alberti
nel 1441.
comune e codici di
comportamento condivisi. Il
genere letterario più importante
torna a essere la lirica d’amore.
della cultura umanistica sono
Firenze e Roma.
A Firenze operano fra gli altri
Salutati, Bruni e Bracciolini; tutti
e tre ricoprono la carica di
cancelliere della Repubblica e sia
Bruni che Bracciolini compongono,
tra le numerose opere, anche una
storia di Firenze.
Soprattutto a Roma, ma anche a
Napoli, opera Lorenzo Valla, il più
grande filologo dell’Umanesimo,
insieme a Poliziano, e uno dei
maggiori conoscitori della lingua
latina. Le sue opere più importanti
sono: il De falso credita et ementita
Constantini donatione (‘La
donazione di Costantino creduta e
asserita con falsità’), in cui applica
per la prima volta la filologia ai
documenti storici mostrando la
La rinascita della letteratura in
volgare nella seconda metà del
Quattrocento Nella seconda
metà del Quattrocento la
letteratura in volgare rifiorisce
all’interno del sistema delle corti a
cui può fornire un vocabolario
Lo spirito classicista della nuova
letteratura volgare Petrarca
diviene fonte di ispirazione per i
lirici; pur non esistendo ancora un
concetto chiaro di classicismo, che
sarà teorizzato nei primi decenni
del Cinquecento, anche gli altri
generi letterari tendono a imitare
dei modelli. La letteratura si
allontana dal rapporto con la
realtà vissuta per privilegiare
quello con altri testi letterari.
La letteratura in latino Nella
prima metà del Quattrocento
prevale nettamente la produzione
in latino. I centri più importanti
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12. La letteratura della prima metà del Quattrocento
Leon Battista Alberti tra latino e
volgare Nel panorama
dell’Umanesimo della prima metà
del Quattrocento occupa un posto
di grande rilievo Leon Battista
Alberti: scrittore in latino e in
volgare, architetto e ingegnere, è
attivo a Firenze e in altre città
d’Italia, dove progetta edifici di
grande valore.
Scrive in latino fondamentali
Fonti
Torino 1997.
Lorenzo Valla, Elegantie latine lingue, in
Mariangela Regoliosi, Elaborazione e
montaggio delle «Elegantie», con in
appendice «Il primo proemio delle
Elegantie», traduzione di Mariangela
Regoliosi, Bulzoni, Roma 1993.
Leon Battista Alberti, I Libri della
famiglia, a cura di Ruggiero Romano e
Alberto Tenenti, nuova ed. a cura di
Francesco Furlan, Einaudi, Torino 1994.
Giovanni di Pagolo Morelli, Ricordi, in
Mercanti scrittori: ricordi nella Firenze
tra Medioevo e Rinascimento, a cura di
Vittore Branca, Rusconi, Milano 1986.
I sonetti del Burchiello, a cura di
Michelangelo Zaccarello, Einaudi, Torino
2004.
Studi
Giusto de’ Conti di Valmontone, in
Antologia della poesia italiana, diretta da
Cesare Segre e Carlo Ossola, Einaudi,
Emilio Pasquini, Le botteghe della
poesia. Studi sul Tre-Quattrocento
italiano, il Mulino, Bologna 1991.
trattati di impostazione tecnica e
scientifica: il De pictura (‘La
pittura’), primo trattato sulla
pittura della nostra tradizione, poi
tradotto da lui stesso in volgare, e
il De re aedificatoria
(‘L’architettura’). Il suo capolavoro
latino sono le Intercoenales
(‘Intercenali’), brevi prose latine
per lo più in forma di dialogo.
È anche un grande sostenitore
della dignità del volgare, per
promuovere il quale progetta nel
1441 un “Certame coronario”
(una gara di poesia volgare), e
compone la prima grammatica del
volgare, con cui intende
dimostrare che anche questa
lingua, come il latino, possiede una
struttura grammaticale e non è
dunque regolata soltanto dall’uso.
La sua opera più celebre sono i
Libri della famiglia, un dialogo in
volgare che affronta il tema della
buona gestione di una famiglia, dei
suoi beni e dei suoi componenti.
Italo Pantani, L’amoroso Messer Giusto
da Valmontone. Un protagonista della
lirica italiana del XV secolo, Salerno
Editrice, Roma 2006.
BIBLIOGRAFIA
La letteratura in volgare Nei
primi decenni del Quattrocento la
letteratura in volgare non si
differenzia sostanzialmente da
quella del secolo precedente.
Nell’Italia settentrionale continua il
predominio del genere lirico in
forme analoghe a quelle
trecentesche, con l’eccezione di
Giusto de’ Conti di Valmontone,
che, con il suo canzoniere La bella
mano, svolge un ruolo
fondamentale per la diffusione del
vocabolario, dei temi e delle
immagini di Petrarca nella lirica
amorosa della seconda metà del
Quattrocento.
In Toscana, e soprattutto a Firenze,
dove è molto viva la lezione di
Dante e la tendenza a inserire nei
testi letterari inserti realistici,
tonalità popolareggianti e giochi
linguistici, la letteratura in volgare
manifesta la maggiore vitalità. Qui
è attivo il Burchiello, sotto il cui
nome circola un numero molto
elevato di sonetti caratterizzati da
un forte sperimentalismo
linguistico.
SINTESI
falsità della donazione di
Costantino e fondando la
diplomatica; le Annotazioni al
Nuovo Testamento, in cui applica
l’analisi filologica alla Sacra
Scrittura; le Elegantie latine lingue
(‘Le eleganze della lingua latina’),
che hanno un ruolo chiave per
diffondere una nuova sensibilità
nei confronti della lingua latina.
475
Carlo Dionisotti, Discorso
sull’Umanesimo italiano, in Geografia e
storia della letteratura italiana, Einaudi,
Torino 1967.
Mirko Tavoni, Il Quattrocento, in Storia
della lingua italiana, a cura di Francesco
Bruni, il Mulino, Bologna 1992.
Francisco Rico, Il sogno dell’umanesimo,
Einaudi, Torino 1998.
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14
Niccolò Machiavelli
Vita e profilo intellettuale e letterario
1 Le radici della scrittura
La vita di Niccolò Machiavelli appare nettamente divisa in due fasi: da una parte quindici
anni di attività politica febbrile (1498-1512), che lo vedono protagonista di spicco sulla
scena politica della Repubblica fiorentina; dall’altra gli anni di confino e di emarginazione,
in seguito alla caduta della Repubblica e al ritorno al potere dei Medici, nel 1512. Questa
netta partizione è senz’altro valida dal punto di vista biografico, ma lo è meno dal punto di
vista della scrittura. Se infatti è vero che è negli anni di ozio forzato che Machiavelli compone i suoi capolavori, vero è anche che la sua attività letteraria si radica fortemente nel
quindicennio di attività politica e, quindi, tra la fine del Quattrocento e il primo decennio
del Cinquecento: in parte perché già in questi anni Machiavelli risulta essersi cimentato in
vari tipi di scrittura (dispacci politici, ma anche opere in versi e di finzione); in parte, soprattutto, perché la riflessione sulla politica da parte di Machiavelli non si spiega senza
la prassi coltivata in prima persona. Con Machiavelli nasce, infatti, un nuovo pensiero, che per la prima volta ambisce a rappresentare l’attività politica
sulla base di quella che lo scrittore definisce la «verità effettuale»: il volto duro dell’agire umano; un
volto terribile che può essere affrontato vittoriosamente solo da parte di chi sa prendere decisioni che
prescindano dalla legge morale, obbedendo soltanto alle leggi proprie della sfera politica. La concretezza spassionata di questo nuovo sguardo informa
anche le altre opere di Machiavelli, dai testi storiografici fino alle commedie di ispirazione classicista.
Machiavelli, in questa luce, in un lettore odierno attento e disincantato può ancora accendere entusiasmo e nel contempo incutere, forse, paura. Lo scrittore fiorentino, infatti, ambisce a definire le costanLo studio di Niccolò Machiavelli all’Albergaccio
di Sant’Andrea in Percussina
ti di ogni azione pubblica, insegnando a distingueDal 1512 Machiavelli, caduto in disgrazia al rientro dei Medici in
re fra l’uomo come dovrebbe essere e l’uomo come
Firenze, visse confinato nel suo podere di Sant’Andrea in
effettivamente è: un uomo sospeso fra l’energia bePercussina (San Casciano, Firenze), noto come l’Albergaccio.
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555
14. Niccolò Machiavelli
nefica e civilizzatrice di istituzioni politiche volte all’interesse comune e l’insopprimibile, ferina negatività che si cela dietro tali istituzioni.
Guida allo studio
1. Quale evento divide in due parti la biografia di Machiavelli? 2. La sua attività di scrittore e letterato
coincide del tutto con il periodo di ozio forzato a cui
lo costringe l’emarginazione politica, oppure no? 3.
Quale duplicità individua Machiavelli nell’uomo politico?
2 La vita
LA FORMAZIONE INTELLETTUALE E I PRIMI INCARICHI PUBBLICI Niccolò Machiavelli
nacque a Firenze il 6 maggio 1469 da una famiglia borghese abbastanza agiata. Ricevette una solida educazione letteraria, senza però avere l’opportunità di approfondire gli studi umanistici (apprese il latino, ma non il greco). Durante la sua giovinezza, di cui poco
sappiamo, assisté a episodi traumatici nella storia di Firenze e dell’Italia: la congiura antimedicea del 1478 nota come congiura dei Pazzi (si attentò alla vita di Lorenzo il Magnifico e fu ucciso il fratello di questi Giuliano); la discesa in Italia dell’esercito francese guidato dal re Carlo VIII (1494), l’episodio che diede inizio a una lunga contesa fra la Spagna
e la Francia per l’egemonia nella penisola [u11.4]; la conseguente caduta del governo dei
Medici a Firenze (il figlio di Lorenzo il Magnifico, Piero, fu costretto a fuggire); l’avvento
di una Repubblica spirituale ispirata dal frate domenicano Girolamo Savonarola (1494-98).
Al seguito di questi eventi, dopo la caduta di Savonarola (arso vivo in Piazza della Signo-
Francesco di Lorenzo Rosselli, Il supplizio
di Girolamo Savonarola
in Piazza della Signoria, 1498
[Museo di S. Marco, Firenze]
Fra i diversi episodi che
segnarono la giovinezza
di Machiavelli a Firenze,
la condanna di
Savonarola fu senz’altro
uno dei più memorabili.
Abile oratore e persona
colta, il domenicano
Girolamo Savonarola era
stato chiamato a Firenze
da Lorenzo il Magnifico
come lettore nel
convento di S. Marco.
Con le sue prediche
contro la corruzione dei
costumi era riuscito a
conquistare i fiorentini,
orientandoli verso un
modello di vita più
austero. Nel periodo della
Repubblica il
domenicano continuò a
predicare, scontrandosi
così con il papa
Alessandro VI. Nel 1495
gli fu proibito di
continuare nella sua
attività oratoria, ma
Savonarola osò
disubbidire all’ordine
papale andando incontro
alla scomunica. I suoi
nemici ne approfittarono
per seminare il
malcontento tra i
fiorentini. Catturato e
torturato, venne
sottoposto a ben tre
processi, al termine dei
quali fu condannato, per
eresia e impostura, a
essere impiccato a una
croce e bruciato. La
sentenza fu eseguita nel
maggio del 1498 in
Piazza della Signoria.
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556
I Grandi Autori
ria), la Repubblica fiorentina si riorganizzò attorno alla figura di Pier Soderini, il quale,
eletto gonfaloniere, volle accanto a sé il giovane e promettente Niccolò in qualità di segretario di cancelleria. Inizia così, nel 1498, la carriera politica di Machiavelli, che sarebbe
durata per 15 anni, fino al ritorno dei Medici in città.
LE MISSIONI DIPLOMATICHE In questi quindici anni vissuti intensamente («né dormiti,
né giocati», come scriverà all’amico Francesco Vettori), il segretario fiorentino riceverà incarichi di grande importanza e sarà spesso ambasciatore della Repubblica fiorentina. Da ricordare in particolare le missioni in Italia, presso la corte del papa a Roma e presso Cesare Borgia (1502), il quale, in quegli anni, attendeva a fondare uno Stato personale in Romagna ed
era celebre con il soprannome di duca Valentino (epiteto ricavato dal feudo francese di Valentinois). Sulla formazione politica di Machiavelli influirono inoltre le successive missioni
in Francia, presso il re Luigi XII e in Germania presso l’imperatore Massimiliano d’Asburgo.
L’ALLONTANAMENTO DALL’ATTIVITÀ POLITICA La carriera politica di Machiavelli si arre-
sta bruscamente quando, nel 1512, per un contraccolpo dovuto alla sconfitta a Ravenna dei
francesi (con i quali la Repubblica era alleata), cade il governo di Soderini e i Medici tornano al potere. Per sua ulteriore disgrazia Machiavelli restò poi coinvolto in una congiura anti-medicea, alla quale era estraneo. Fu così costretto al confino, che scontò poco lontano da
Firenze, nella tenuta di famiglia a San Casciano in Val di Pesa, nel podere noto come l’Albergaccio. Il seguito della vita di Machiavelli è povero di eventi, ma è in questi anni di inattività politica forzata, dal 1513 in poi, che egli produce le sue opere più importanti. Nel corso
del nuovo principato mediceo, l’esilio fu via via mitigato (a partire dal 1515); e Machiavelli
poté rientrare a Firenze, dove frequentò l’ambiente repubblicano degli Orti Oricellari, nel quale i giovani aristocratici della città si riunivano per discutere di letteratura e di politica.
GLI ULTIMI ANNI Nei suoi ultimi anni l’ex segretario riuscì finalmente a conquistare un
po’ di fiducia da parte dei Medici: nel 1520 ricevé il compito di redigere una storia di Firenze e dal 1525, quando fu revocata la sua interdizione dai pubblici uffici, ottenne qualche
piccolo incarico pratico. Ma la fortuna ormai gli aveva voltato le spalle. Nel 1527, dopo il
La vita di Niccolò Machiavelli
Con la caduta della Repubbica
fiorentina è privato di tutti gli
incarichi e incarcerato in
quanto ritenuto complice di
una congiura anti-medicea
1512
Nasce a
Firenze
1469
1498-1512
È segretario della
Repubblica fiorentina
1513
Ha inizio il suo ritiro
forzato all’Albergaccio
Può far ritorno a
Firenze, dove frequenta
gli Orti Oricellari
1516
1525
Viene riammesso dai
Medici a incarichi
politici minori
Con il ripristino della
Repubblica viene
nuovamente privato
degli incarichi politici
1527
1527
Muore a Firenze
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14. Niccolò Machiavelli
Sacco di Roma, il potere dei Medici fu di nuovo abbattuto. Venne così restaurata la Repubblica e Machiavelli, che anni prima era stato esiliato in quanto filo-repubblicano, passò a
quel punto per filo-mediceo. Morì poco dopo, del tutto emarginato, il 21 giugno 1527.
Guida allo studio
1. In quali circostanze e da parte di chi Machiavelli riceve il primo incarico politico? 2. Quali circostanze
costringono Machiavelli ad allontanarsi da Firenze? 3.
Quali circostanze gli consentono di rientrare a Firenze?
4. In che modo cambia il suo rapporto con la famiglia
Medici nel corso del tempo?
3 La figura intellettuale
«L’ARTE DELLO STATO» In qualità di segretario, Machiavelli fu anzitutto un funzionario
di spicco nella Repubblica fiorentina guidata da Pier Soderini: un funzionario di famiglia
agiata che aveva ricevuto una buona, anche se non sistematica, educazione umanistica e
che coltivava, quando gli impegni politici glielo consentivano, la scrittura in volgare come
forma di analisi e come strumento di conoscenza: si spiegano così alcuni opuscoli storiografici, dove il segretario analizza il corso di avvenimenti coevi come l’omicidio a tradimento dei propri nemici organizzato a Senigallia dal duca Valentino (si ricordi almeno la Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da
Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini). Fin dai suoi esordi Machiavelli mostra
uno sguardo affilato tutt’altro che circoscritto alla situazione locale di Firenze: al contrario, dal suo punto d’osservazione privilegiato e grazie anche ai suoi continui spostamenti
in Italia e oltre le Alpi, egli osserva con estrema attenzione la crisi del sistema delle signorie quattrocentesche e i nuovi assetti della penisola, attraversata da eserciti stranieri in
contesa fra loro. Non senza orgoglio, scrivendo all’amico Francesco Vettori dal confino di
San Casciano, Machiavelli definisce gli anni di segretariato come uno studio sul campo
dell’«arte dello Stato». Ora, l’esilio del 1512 venne a modificare in modo traumatico il profilo intellettuale di Machiavelli. L’«arte dello Stato», che non poté più essere esercitata in
prima persona, fu da Machiavelli elevata allo stato di vera e propria scienza autonoma,
dotata di leggi proprie e universali.
LA POLITICA COME SCIENZA AUTONOMA Gli scritti teorici di Machiavelli dopo il 1512 so-
no l’opera di un emarginato in cerca di riscatto; di un umanista che, anziché sentirsi massimamente libero nel suo studiolo (secondo il modello di Petrarca), si sente invece massimamente frustrato e cerca nel dialogo con i classici l’unico conforto degno all’inattività forzata. Sembra difficile, tuttavia, classificare le opere che uscirono da quello studiolo come pura
e semplice letteratura. In particolare, le due opere principali (Il Principe e i Discorsi sopra la
prima Deca di Tito Livio) sono trattati teorici che è impossibile non considerare letteratura
(con tutte le ambiguità che il termine comporta) per le loro straordinarie qualità retoriche e
stilistiche. Ma queste opere rientrano a tutti gli effetti non solo nella storia letteraria, ma anche nella storia del pensiero politico e, per certi aspetti (per la loro vocazione a definire le
costanti del comportamento umano), nell’ambito della filosofia morale. È con Machiavelli infatti che nasce in Europa, e non solo in Italia, la politica come sapere autonomo, come vera
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I Grandi Autori
e propria scienza. Detto altrimenti, è nel Principe e nei Discorsi che viene drasticamente introdotto un nuovo punto di vista sulla realtà: il punto di vista del politico, il quale giudica
i comportamenti non secondo la morale, bensì secondo l’utilità pubblica; valuta non secondo il dover essere, bensì secondo quella che Machiavelli chiama la «verità effettuale»: la capacità concreta di garantire il buon governo con il realismo politico. È vero sì che i due trattati, Il Principe e i Discorsi, si collocano su due piani tra loro ben differenti, dal momento che
il primo esamina il potere monarchico e il secondo esalta l’ordinamento repubblicano. Tuttavia, entrambe le opere promuovono, da due angolazioni diverse, un’identica concezione della politica come sapere a sé stante, in grado di guidare le azioni degli uomini indipendentemente dalla morale.
CLASSICISMO ED ESPERIENZA La riflessione teorica di Machiavelli si regge su una for-
ma di classicismo politico, in base al quale l’interpretazione della realtà coeva non può
prescindere dall’interpretazione (e dall’imitazione) delle realtà politiche vissute da ebrei,
Greci e Romani, considerati depositari e modelli – in particolare questi ultimi – di ogni perfetto agire politico. Uno dei presupposti di tale concezione è che la natura umana sia sempre uguale a sé stessa e che, di conseguenza, sia possibile individuare alcune grandi leggi e costanti nella storia universale che rendano possibile l’analisi e la soluzione di ogni
situazione politica. Nel contempo, le riflessioni di Machiavelli si nutrono di continuo della
sua esperienza diretta di uomo politico nell’Italia del primo Cinquecento, facendo riferimento a una situazione complessa e inedita che ha bisogno di essere affrontata con gli
strumenti dell’esperienza personale (basti pensare alla recente introduzione delle armi da
fuoco nei campi di battaglia). Significativamente un altro versante nel quale Machiavelli
impegna le sue energie intellettuali è l’arte militare. Oltre a vari passi del Principe, facciamo riferimento a un intero dialogo intitolato all’Arte della guerra, nel quale la tattica militare e la formazione degli eserciti – sulla base di milizie non mercenarie, ma di cittadini –
viene proposta come una parente strettissima dell’«arte dello stato».
MACHIAVELLI TRA FINZIONE E STORIA L’esperienza intellettuale di Machiavelli non si
limita però alla riflessione sulla politica e sulla natura dell’uomo. Gli anni d’emarginazione
politica permisero, infatti, all’ex segretario di coltivare anche quella letteratura di finzione che già l’aveva sedotto negli anni trascorsi al servizio della Repubblica. In particolare,
risulta fondamentale il ruolo di Machiavelli nella storia del teatro comico: come Ludovico
Ariosto alla corte estense di Ferrara, anche Machiavelli, nella speranza di acquistare favore presso i Medici, torna ai modelli del teatro comico greco e latino, proponendo una forma classicista di commedia in lingua volgare (Mandragola e Clizia). Il ritorno agli antichi
si traduce, però, in un’azione comica del tutto moderna e quanto mai vitale nella costruzione dell’intreccio. Si tratta di un teatro che concilia l’attenzione ai caratteri psicologici
propria dei drammaturghi greci (Menandro) e latini (Plauto e Terenzio), la spassionata
riflessione sulla natura umana implicita nei trattati politici e, infine, il gusto per la beffa e
per l’intrigo tipico di molte novelle del Decameron. Non a caso Machiavelli compone anche
una novella singola (sciolta da ogni cornice di tipo boccacciano): Belfagor arcidiavolo.
Parallelamente, un’altra forma di scrittura nella quale Machiavelli si cimenta con l’auspicio
di trovare il favore dei Medici è quella storiografica: una scrittura che per gli antichi, e ancora per gli uomini del Rinascimento, era intesa come opera altamente letteraria. Anche in
questo ambito Machiavelli porta la lucidità feroce del proprio sguardo, sovvertendo i model-
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14. Niccolò Machiavelli
li, in gran parte fastosi e celebrativi, della storiografia quattrocentesca e proponendo un
nuovo tipo di racconto storico, basato sull’analisi spregiudicata delle cause e dei moventi
posti alla radice dei fatti.
Guida allo studio
1. A quale intento sono ispirati gli opuscoli storiografici
che Machiavelli scrive nella prima fase della sua attività
politica e letteraria? 2. Che cosa intende Machiavelli
con l’espressione «arte dello Stato»? 3. A che titolo le
opere maggiori di Machiavelli si possono definire opere
letterarie? Quali altri ambiti del sapere coinvolgono? 4.
Quale idea ha Machiavelli della politica? 5. Perché si
può parlare di “classicismo politico” nella riflessione teorica di Machiavelli? 6. Quale importanza conferisce
Machiavelli all’arte militare e quale rapporto individua
tra questa e l’arte dello Stato? 7. Quali elementi caratterizzano il teatro di Machiavelli? 8. Quali innovazioni
introduce Machiavelli nel genere storiografico?
4 I tratti salienti della produzione letteraria
VARIETÀ E UNITÀ DEGLI SCRITTI DI MACHIAVELLI Nell’orizzonte classicista del Cinquecento il genere del trattato, del dialogo o del racconto storico rientrano nel campo della
letteratura, non meno della novella o della commedia o di altre opere di finzione. Dentro
questo orizzonte Machiavelli è scrittore quanto mai poliedrico e la sua opera sfugge a ogni
sistemazione di comodo. Il Principe e i Discorsi appartengono in modo diverso al genere del
trattato o – usando un termine più moderno – del saggio (letteralmente ‘tentativo’ di giungere a una verità condivisibile): mentre il primo, breve ed estremamente sintetico, si regge su una struttura argomentativa ferrea e perentoria, i secondi, concepiti in dialogo con
l’opera storiografica dello scrittore latino Livio, molto devono al genere umanistico del commentarium, sequenza asistematica di osservazioni generate dalla lettura del testo in esame. Per trattare la materia militare, nell’Arte della guerra, Machiavelli sceglie, invece, la forma del dialogo, sfruttando un altro genere classicista molto diffuso fra Cinque e Seicento
(si pensi alle coeve Prose della volgar lingua di Pietro Bembo [u16.3] e al Cortegiano di
Baldassarre Castiglione [u16.4], fino ai dialoghi di Tasso [u19.9] nel secondo Cinquecento e al Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo [u21.3] edito nel 1632).
Esiste una strategia letteraria comune a questi diversi tipi di trattato, nonché alle opere
storiografiche, fino ai testi teatrali? Probabilmente, se si vuole indicare una legge comune
nella straordinaria varietà degli scritti di Machiavelli, essa consiste nella spregiudicata
acutezza con la quale si indagano i rapporti reciproci (pubblici e privati) fra gli uomini. Da questo punto di vista la scrittura di Machiavelli assomiglia davvero a una sorta di
bisturi che incide con precisione ogni aspetto della realtà cui si accosti, forte di una retorica argomentativa quanto mai duttile, in grado di distinguere accanitamente i diversi volti di un unico aspetto con quella che è stata definita una scrittura di tipo dilemmatico
(«o... o...»), ma al tempo stesso di trasferire la complessità di un nucleo concettuale in un
grumo di metafore e similitudini di straordinaria evidenza. Per quanto riguarda, infine, la
lingua, Machiavelli rifiuta di tornare al fiorentino del Trecento, secondo la proposta coeva
di Bembo; ripudia ogni tipo di lingua cortigiana, ottenuta con gli apporti di varie regioni
di Italia; e adotta invece il fiorentino contemporaneo, considerato lo strumento più duttile ed efficace per rappresentare le realtà oggetto di analisi.
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I Grandi Autori
LA RICEZIONE POSTUMA Machiavelli, consapevole del proprio talento, ambì senz’altro
a essere riconosciuto come uno dei grandi scrittori del suo tempo. Intorno al 1516, quando lesse nel canto finale dell’Orlando furioso la galleria dei grandi contemporanei salutati da Ariosto alla fine del romanzo, l’ex segretario, in una lettera rivolta a un amico, lamentò con un’imprecazione oscena la propria assenza. Il fatto è che gli scritti di Machiavelli, a parte la Mandragola, non trovarono successo immediato. Machiavelli addirittura
vide ben pochi dei propri testi mandati a stampa (il Decennale primo nel 1506; l’Arte della guerra e la Vita di Castruccio Castracani nel 1521). La maggioranza di essi – Principe e
Discorsi compresi – ebbe dapprima una circolazione manoscritta, ma fu edita solo dopo la
morte del suo autore. La fama di Machiavelli, a quel punto, divenne immediata; ma al
tempo stesso si caricò di ombre sinistre. La dirompente novità del punto di vista politico introdotto nei suoi scritti teorici si impose, infatti, in tutta la sua evidenza, ma nel
contempo si fece presto sensibile il bisogno di censurare gli aspetti più inquietanti connessi alla netta distinzione fra legge morale e legge politica imposta da Machiavelli.
Non a caso nel 1559 gli scritti di Machiavelli furono in toto censurati e il nome del segretario fiorentino, anche fuori dall’Italia, divenne sinonimo di persona astuta, subdola,
immorale. Non era, questo, il segretario fiorentino, bensì la sua deformazione cinica e opportunistica; non era il Machiavelli, per così dire, bensì il machiavellismo. Machiavelli,
tuttavia, si poté leggere a lungo solo a queste condizioni e la sua ricezione – almeno fino alla riscoperta del suo pensiero fra Otto e Novecento – non poté scompagnarsi della
sua censura. Con perfida ironia, nei Promessi sposi, Manzoni alluderà a questa anomala ricezione di Machiavelli servendosi del personaggio di don Ferrante, l’erudito pedante, appassionato lettore del Principe e dei Discorsi «del celebre segretario fiorentino; mariolo sì,
diceva don Ferrante, ma profondo» (cap. XXVII).
Guida allo studio
1. A quale genere letterario appartengono Il Principe e i
Discorsi e come si differenziano fra loro? 2. Quale forma
testuale presenta l’Arte della guerra? 3. Quale strategia
letteraria accomuna gli scritti di Machiavelli? 4. Quale
lingua sceglie Machiavelli per le sue opere? 5. Quale fortuna incontrano le opere di Machiavelli tra i contemporanei dell’autore? 6. Quando sarà censurata la produzione
letteraria di Machiavelli e per quali ragioni?
Le opere di Niccolò Machiavelli
Scrive la
Descrizione
del modo
tenuto dal
duca
Valentino
nello
ammazzare
Vitellozzo
Vitelli
Compone varie
opere letterarie,
fra cui il
Decennale primo
e la traduzione
dell’Andria di
Terenzio
1498-1512
Anni dell’impegno
politico a Firenze
Compone
il Principe
1513
Scrive i
Discorsi
sopra la
prima
Deca di
Tito Livio
1513-19
Inizia il
Decennale
secondo
1514
Inizia
l’Asino
151617
Scrive la
Mandragola
e Belfagor
1518
Lavora
all’Arte
della
guerra
151920
Lavora
forse al
Lavora alle
Discorso
Istorie
Scrive la
o dialogo
fiorentine
Vita di
della
1520-25
Castruccio
nostra
Castracani
lingua
1520
1524
1513-25
Anni dell’esilio all’Albergaccio e dell’astensione forzata dalla politica
Scrive
la Clizia
1525
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14. Niccolò Machiavelli
561
Le opere
5 Dalla politica all’ozio forzato: l’Epistolario
Anche se la parte più importante degli scritti di Machiavelli risale al periodo successivo alla
destituzione, la vocazione letteraria del segretario fiorentino trova già modo di esprimersi
durante il frenetico quindicennio di incarichi politici (1498-1512). In questi anni Machiavelli redige una fitta corrispondenza diplomatica nella veste ufficiale di segretario (Legazioni, Commissarie, Scritti di governo). Analizza alcuni degli eventi contemporanei che più
colpiscono la sua attenzione, come la feroce gestione del potere del duca Valentino, che
Machiavelli considerò sempre esemplare (Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino
nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina
Orsini). Scrive a Perugia, nel 1506, alcune riflessioni sul rapporto conflittuale tra fortuna e
capacità politica individuale: i Ghiribizi indirizzati a Giovan Battista Soderini. È autore di
una cronaca in versi della storia fiorentina recente, il Decennale (letteralmente, cronaca di
dieci anni), oltre che di varie altre opere in versi (sonetti, ballate, canti carnascialeschi).
Si interessa di teatro cercando di tornare ai modelli del teatro classico: volgarizza l’Andria,
una commedia del poeta latino Terenzio. Inizia a comporre il poemetto in terzine L’Asino.
Tuttavia è solo con l’emarginazione dalla vita pubblica, dopo l’annus terribilis 1512, che
Machiavelli ha, suo malgrado, l’agio di dedicarsi alla
scrittura a tempo pieno. Ascoltiamo dalla voce dello
Guida allo studio
1. Quali argomenti tratta Machiavelli nella sua corrispon- stesso Machiavelli la genesi della sua vocazione di
denza diplomatica? 2. Fra quali generi spazia la produ- teorico, leggendo la lettera all’amico Francesco Vetzione letteraria di Machiavelli prima del 1512?
tori del 10 dicembre 1513 [uT93].
L’epistolario di Machiavelli comprende un’ottantina di lettere. Non si tratta di un insieme
organico, dal momento che l’autore non provvide mai, come aveva fatto Petrarca, a raccogliere i suoi testi per dare un’immagine ideale di sé. Le lettere del segretario fiorentino, al
contrario, costituiscono un efficacissimo esempio di scrittura privata. In questi testi emerge una straordinaria varietà di registri espressivi e di temi: accanto a meditazioni sul
potere della fortuna, si leggono rappresentazioni auto-ironiche e battute salaci; accanto a
penetranti osservazioni di carattere politico, compaiono deformazioni comiche della realtà
privata, nelle quali è facile riconoscere le affinità coi testi teatrali.
T93
Le giornate all’Albergaccio e la composizione del Principe
Epistolario, 216
Questa è la lettera forse più celebre della letteratura italiana. È l’epistola che Machiavelli scrisse il 10 dicembre 1513, per narrare all’amico Francesco Vettori il tenore della propria vita in
seguito alla caduta della Repubblica e alla restaurazione del potere dei Medici (1512). Estromesso da ogni incarico e falsamente accusato di aver preso parte a una congiura anti-medicea,
ANTOLOGIA
Epistolario
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ANTOLOGIA
I Grandi Autori
l’ex segretario vive ora confinato nel podere di famiglia noto come Albergaccio, nei pressi di
San Casciano in Val di Pesa. Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino a Roma, ha appena narrato all’amico esule le sue splendide giornate presso la corte del papa. Machiavelli gli risponde narrando, per contrasto, lo squallore delle proprie. Nella prima parte della lettera (dopo un
preambolo che si è scelto di non riportare) egli descrive con amarezza le proprie condizioni: di
giorno è costretto a trattare con persone triviali, per tutelare i propri interessi, e a “ingaglioffirsi” (‘involgarirsi’) per non annoiarsi. La sera, invece, può finalmente dedicarsi allo studio dei
classici latini e alla riflessione sulla storia e sul potere politico. Da questo studio – riferisce
l’autore – è nato il trattatello De principatibus, ovvero Il Principe.
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Io mi sto in villa, et poi che seguirno quelli miei ultimi casi, non sono stato, ad accozarli tutti, venti dì a Firenze1. Ho fino a qui uccellato a’ tordi di mia mano2. Levavomi innanzi dì, impaniavo, andavone oltre con un fascio di gabbie addosso, che parevo el Geta quando e’ tornava dal porto con e libri d’Amphitrione3; pigliavo el meno
dua, el più sei tordi4. Et così stetti tutto settembre; dipoi questo badalucco, ancora che
dispettoso et strano, è mancato con mio dispiacere5; et qual la vita mia vi dirò6. Io mi
lievo la mattina con el sole et vommene7 in un mio boscho che io fo tagliare, dove
sto dua hore a rivedere l’opere del giorno passato, et a passar tempo con quegli tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura alle mane8 o fra loro o co’ vicini. Et circa questo bosco io vi harei a dire mille belle cose che mi sono intervenute, et con Frosino da Panzano et con altri che voleano di queste legne9. Et Fruosino in spetie mandò
per certe cataste senza dirmi nulla, et al pagamento mi voleva rattenere 10 lire, che
dice haveva havere da me quattro anni sono, che mi vinse a cricca in casa Antonio
Guicciardini10. Io cominciai a fare el diavolo; volevo accusare el vetturale, che vi era
ito per esse, per ladro; tandem Giovanni Macchiavelli vi entrò di mezzo, et ci pose
d’accordo11. Batista Guicciardini, Filippo Ginori, Tommaso del Bene et certi altri cittadini, quando quella tramontana12 soffiava, ognuno me ne prese una catasta. Io promessi a tutti; et manda’ne una a Tommaso, la quale tornò in Firenze per metà, perché
a rizzarla vi era lui, la moglie, le fante, e figliuoli, che paréno el Gabburraquando el
giovedì con quelli suoi garzoni bastona un bue13. Di modo che, veduto in chi era gua-
1. Io mi sto... Firenze: ‘Io me ne sto in campagna (villa) e, dopo le mie ultime vicende, non
sono stato a Firenze, a contarli (accozarli) tutti,
nemmeno venti giorni’. – quelli miei ultimi
casi: si allude alla destituzione dalle cariche
pubbliche, nonché al carcere e alla tortura
dovuti all’accusa di aver preso parte a una congiura anti-medicea.
2. uccellato... mano: ‘sono andato a caccia di
tordi da solo (di mia mano)’.
3. Levavomi... Amphitrione: ‘Mi alzavo da letto prima dell’alba, preparavo le gabbie disponendovi sopra la pania, proseguivo con un
fascio di gabbie addosso, così che sembravo
Geta quando tornava dal porto con i libri di
Anfitrione’. – Levavomi... impaniavo, andavone: il verbo all’imperfetto serve per designare
un’azione abituale per un certo tempo, poi non
più praticata. – pania: materiale vischioso sul
quale gli uccelli restano invischiati; ‘impaniare’
è termine tecnico proprio della caccia). – Geta:
lo schiavo di Anfitrione nel racconto in ottave
(tecnicamente detto cantare) intitolato Geta e
Birria, ispirato alla celebre commedia del commediografo latino Plauto (259 ca.-184 ca. a.C.).
Machiavelli dipinge sé stesso in modo grottesco, alludendo al brano in cui Geta, carico di
libri, precede Anfitrione di ritorno da Atene
dove era andato per studiare.
4. pigliavo... tordi: ‘pigliavo due tordi quando
andava male (el meno), sei quando andava
bene (el più)’.
5. dipoi... dispiacere: ‘dopo, questo divertimento (badalucco), per quanto (ancora che)
fatto con rabbia e non usuale, non è stato più
possibile con mio dispiacere’.
6. qual... dirò: ‘vi dirò quale (sottinteso: sia) la
mia vita’ (dopo che non ho più potuto cacciare)’.
7. vommene: ‘me ne vado’.
8. sciagura alle mane: ‘lite in corso’.
9. Et circa... legne: ‘E a proposito di questo
bosco io vi avrei a dire mille belle cose che mi
sono capitate (intervenute), sia con Frosino da
Panzano, sia con altri che volevano un poco di
questo legname’. – Frosino da Panzano: possiamo immaginare che fosse un conoscente di
Machiavelli e di Vettori.
10. Et Fruosino... Guicciardini: ‘E Frosino in
particolare (in spetie) mandò a prendere
(mandò) alcune cataste senza dirmi nulla e, al
momento di pagarmi, voleva trattenere (rattenere) dieci lire che a suo dire doveva avere
(haveva havere) ormai da quattro anni, da
quando mi aveva battuto a cricca (un gioco di
carte) in casa di Antonio Guicciardini’. – Antonio Guicciardini: è un’altra figura di cui nulla
sappiamo, così come degli altri personaggi che
appaiono nel seguito del racconto.
11. Io cominciai... d’accordo: ‘Io cominciai a
fare una sfuriata (a fare el diavolo); volevo
accusare come ladro il carrettiere (vetturale)
che era venuto lì per prenderle (le cataste); poi
finalmente (tandem, avverbio latino) Giovanni
Macchiavelli fece da mediatore (vi entrò di mezzo) e ci mise d’accordo’.
12. quella tramontana: ‘quella famosa tramontana’. La tramontana è un vento gelido, il
cui soffiare fa sì che aumenti il consumo di
legna da ardere (che era ovviamente la prima
fonte di riscaldamento).
13. et manda’ne... un bue: ‘e a Tommaso ne
mandai una a Firenze: catasta che a Firenze
risultò la metà di quella che era davvero, perché a caricarla sul carro (rizzarla) ci s’erano
messi lui, la moglie, le serve (fante) e i figli, che
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14. Niccolò Machiavelli
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sembravano il macellaio Gaburra coi suoi aiutanti quando di giovedì bastona un bue’. Con
questa immagine grottesca Machiavelli allude
al fatto che Tommaso coi suoi aiutanti si era
dato da fare per far sembrare la legna presa a
San Casciano la metà di quello che era in effetti, percuotendo la catasta con una forza simile
a quella di un macellaio che bastona il bue coi
suoi garzoni. Gaburra era appunto un macellaio fiorentino celebre per la sua prestanza.
14. Di modo che... Prato: ‘In questo modo,
avendo visto a chi veniva tutto il guadagno, ho
detto agli altri che non avevo più legna; e tutti
gli altri se ne sono avuti a male (hanno fatto
capo grosso) e in particolare Battista, che
numera questa fra le altre sciagure di Prato’;
Prato fu saccheggiata dagli spagnoli nel 1512,
l’anno in cui Battista Guicciardini era podestà
della città. Machiavelli ironizza sulle reazioni
eccessive dei suoi altri acquirenti. Tommaso e
i suoi aiutanti avevano compattato la catasta
per farla sembrare meno di quella che era e
Machiavelli era stato truffato (la legna era venduta non a peso, ma a volume).
15. uccellare: ‘uccellatoio’ (un bosco dove
sono collocate le trappole).
16. Ho un libro... pensiero: ‘Ho un libro sotto
braccio (sotto), o di Dante o di Petrarca o di uno
di questi poeti minori come Tibullo, Ovidio e
altri simili: leggo quelle loro amorose passioni
e quei loro amori, mi ricordo dei miei (de’ mia),
godo a lungo di questi pensieri. – Tibullo, Ovvidio: Albio Tibullo (55-18 a.C.) e Publio Ovidio
Nasone (43 a.C.-18 d.C.) sono due poeti latini
qui ricordati per le loro poesie elegiache, che
hanno per tema l’amore. – poeti minori: probabilmente una definizione ironica, dovuta alla
leggerezza del tema.
17. dimando... huomini: ‘chiedo notizie (nuove) dei loro paesi, ascolto (intendo) varie cose
e noto la varietà dei gusti e dei caratteri degli
uomini’.
18. Vienne... comporta: ‘Nel frattempo (in
questo mentre) viene l’ora di pranzo, alla quale
(dove) con la gente di casa (brigata) mangio
quei cibi che consentono (comporta) questa
povera dimora di campagna (villa) e il misero
patrimonio’. – villa: il podere detto Albergaccio. – paululo: ‘piccolissimo’, latinismo.
19. quivi... fornaciai: ‘qui si trovano di solito
(per l’ordinario) l’oste, un macellaio (beccaio),
un mugnaio, due operai che lavorano in fornace (fornaciai)’.
20. Con questi... San Casciano: ‘Con questi
individui mi involgarisco (m’ingaglioffo) tutto il
giorno giocando a carte (criccha è un antico
gioco di carte), a dadi (triche-trac), da cui poi
(et poi dove) nascono mille litigi, infinite ripicche e offese ingiuriose, e il più delle volte si
gioca per pochi soldi (un quattrino) e tuttavia
(nondimanco) le nostre grida si sentono fino a
San Casciano’.
21. Così rinvolto... vergognassi: ‘Così, dedito
a queste misere occupazioni (pidocchi), evito
che il cervello mi si ammuffisca (traggo el cervello di muffa) e sfogo la malignità della mia sorte, consentendo (sendo contento) che essa (la
sorte) mi calpesti in questo modo (per questa
via), per vedere se arriverà a vergognarsene’.
22. Venuta... curiali: ‘Venuta la sera, torno a
casa ed entro nel mio studio (scrittoio) e sulla
soglia mi tolgo l’abito quotidiano, pieno di fango e mota, e indosso gli abiti reali e degni di
una corte (curia in latino significa corte)’.
23. et rivestito... actioni: ‘E dopo essermi
rivestito in modo decoroso (condecentemente), entro nelle antiche corti degli uomini antichi, dove, da loro ricevuto con amore, mi nutro
di quel cibo che è il solo che sento mio e per il
quale io sono nato; dove non mi vergogno a
parlare con loro (gli uomini antichi) e a interrogarli (domandarli) sulle ragioni delle loro azioni’. – solum: ‘soltanto’ (avverbio latino).
24. et quelli... in loro: ‘e quelli per la loro cortesia (humanità) mi rispondono, e io per quattro ore non provo alcun fastidio (noia), dimentico ogni affanno, non temo la povertà, la morte non mi incute timore (sbigottiscie): mi trasferisco completamente (tucto) fra di loro’.
25. non fa... inteso: «ché non fa scienza, / sanza lo ritenere, avere inteso», Paradiso, V, 41-42
(‘capire qualcosa, se poi non lo si ricorda, non
equivale a conoscere’).
ANTOLOGIA
25
dagno, ho detto agl’altri che io non ho più legne; e tutti ne hanno fatto capo grosso,
et in spetie Batista, che connumera questa tra l’altre sciagure di Prato14.
Partitomi del bosco, io me ne vo a una fonte, et di quivi in un mio uccellare15.
Ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o un di questi poeti minori, come Tibullo,
Ovvidio et simili: leggo quelle loro amorose passioni et quelli loro amori, ricordomi de’ mia, godomi un pezzo in questo pensiero16. Transferiscomi poi in su la strada nell’hosteria, parlo con quelli che passono, dimando delle nuove de’ paesi loro,
intendo varie cose, et noto varii gusti et diverse fantasie d’huomini17. Vienne in
questo mentre l’hora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio di quelli cibi
che questa povera villa et paululo patrimonio comporta18. Mangiato che ho, ritorno nell’hosteria: quivi è l’hoste, per l’ordinario, un beccaio, un mugniaio, dua fornaciai19. Con questi io m’ingaglioffo per tutto dì giuocando a criccha, a triche-tach,
et poi dove nascono mille contese et infiniti dispetti di parole iniuriose, et il più delle volte si combatte un quattrino et siamo sentiti nondimanco gridare da San
Casciano20. Così rinvolto entra questi pidocchi traggo el cervello di muffa, et sfogo
questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per
vedere se la se ne vergognassi21.
Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto, et mi metto panni reali et curiali22; et rivestito condecentemente entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io
nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni23; et quelli per loro humanità mi rispondono; et non sento per 4
hore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi
sbigottiscie la morte: tucto mi transferisco in loro24. E perché Dante dice che non fa
scienza sanza lo ritenere lo havere inteso25, io ho notato quello di che per la loro con-
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ANTOLOGIA
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I Grandi Autori
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versatione ho fatto capitale, et composto uno opusculo De principatibus, dove io mi
profondo quanto io posso nelle cogitationi di questo subbietto, disputando che cosa
è principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono26. Et se vi piacque mai alcuno mio ghiribizo27, questo non vi doverrebbe dispiacere; et a un principe, et maxime28 a un principe nuovo, doverrebbe essere accetto; però io lo indirizzo alla Magnificenza di Giuliano29. Filippo Casavecchia30 l’ha visto; vi potrà ragguagliare in parte et della cosa in sé, et de’ ragionamenti ho hauto seco, anchor che tuttavolta io l’ingrasso et ripulisco31.
Voi vorresti, magnifico ambasciadore, che io lasciassi questa vita et venissi a
godere con voi la vostra32. Io lo farò in ogni modo, ma quello che mi tenta hora è
certe mia faccende che fra 6 settimane l’harò fatte33. Quello che mi fa stare dubbio
è che sono costì quelli Soderini, e quali io sarei forzato, venendo costì, vicitarli et
parlar loro34. Dubiterei che alla tornata mia io non credessi scavalcare a casa, et
scavalcassi nel Bargiello, perché, ancora che questo stato habbi grandissimi fondamenti et gran sicurtà, tamen egli è nuovo, et per questo sospectoso, né ci manca de’
saccenti, che, per parere come Pagolo Bertini, metterebbono altri a scotto, et lascierebbono pensiero a me35. Pregovi mi solviate questa paura, et poi verrò infra el tempo detto a trovarvi a ogni modo36.
Io ho ragionato con Filippo di questo mio opusculo, se gli era ben darlo o non
lo dare; et, sendo ben darlo, se gli era bene che io lo portassi, o che io ve lo mandassi37. El non lo dare mi faceva dubitare che da Giuliano e’ non fussi, non ch’altro, letto, et che questo Ardinghelli si facessi honore di questa ultima mia faticha38.
El darlo mi faceva la necessità che mi caccia, perché io mi logoro et lungo tempo
non posso star così che non diventi per povertà contennendo39. Appresso al desiderio harei che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino
cominciare a farmi voltolare un sasso40; perché, se poi non me gli guadagnassi, io
26. io ho notato... perdono: ‘io ho annotato
ciò di cui (di che), conversando con loro, ho fatto tesoro (capitale), e ho composto un libricino
(opusculo) intitolato De principatibus, nel quale
approfondisco più che posso le riflessioni
(cogitationi) su questo tema (subbietto), discutendo (disputando) che cos’è il principato, di
quali specie essi siano (sottinteso i principati),
come si conquistano, come si conservano (si
mantengono), per quali ragioni si perdano’. –
De principatibus: titolo latino del Principe (letteralmente: ‘sulle monarchie’).
27. ghiribizo: ‘stravagante fantasia’, detto con
modestia.
28. maxime: ‘soprattutto’ (latino).
29. Giuliano: figlio di Lorenzo il Magnifico, Giuliano de’ Medici sarebbe morto però molto presto, nel 1516. Forse in seguito a questa morte o
forse in precedenza, Il Principe fu dedicato, invece, a Lorenzo de’ Medici, duca di Urbino e figlio
di Piero (primogenito di Lorenzo il Magnifico).
30. Filippo Casavecchia: l’amico comune
menzionato all’inizio della lettera.
31. vi potrà... ripulisco: ‘vi potrà in parte dare
informazioni (ragguagliare), sia (et) sul libro in
sé, sia (et) sui discorsi che ho avuto con lui, sebbene io accresca il trattato e lo corregga continuamente (tuttavolta)’. Con questa specificazione Machiavelli intende dire che al Casavecchia
sfuggono alcune delle idee che Machiavelli ha
aggiunto nel frattempo.
32. a godere... vostra: nella lettera del 23 no-
vembre Vettori aveva parlato all’amico della vita oziosa e piacevole che stava trascorrendo a
Roma.
33. ma quello... fatte: ‘ma ciò che ora mi trattiene (tenta) sono certi miei affari (faccende)
che avrò concluso fra sei settimane’.
34. Quello che... loro: ‘Quello che mi rende
incerto (mi fa stare dubbio) è che lì a Roma
(costì) si trovano i Soderini e, se io venissi lì,
sarei costretto (forzato) a visitarli e a frequentarli’. In quel momento risiedeva a Roma Pier
Soderini, col fratello cardinale. Prima del ritorno dei Medici, Pier Soderini era stato il gonfaloniere della Repubblica fiorentina. Machiavelli
era stato uno dei suoi collaboratori più stretti,
perciò teme che i Medici, dai quali vuole essere ora riabilitato, non vedano di buon occhio un
suo eventuale contatto con l’ex gonfaloniere.
35. Dubiterei... a me: ‘Temerei che al mio ritorno, credendo di smontare da cavallo (scavalcare) a casa mia, dovessi invece smontare al Bargello (il carcere) perché, sebbene il principato
mediceo di Firenze (questo stato) abbia fondamenta solidissime e grande sicurezza (sicurtà),
tuttavia (tamen) è di recente formazione (nuovo) e per questo sospettoso (i Medici erano tornati padroni di Firenze solo un anno prima), e
non mancano persone intriganti come Paolo
Bertini (personaggio a noi ignoto) che, per
mettersi in mostra (per parere), mi inviterebbero all’osteria (a scotto), e poi lascerebbero a me
la cura di pagare’; fuor di metafora il passo
significa: ‘mi manderebbero in prigione e lascerebbero a me la preoccupazione di togliermi
dai guai’. – altri: è impersonale, ma qui va riferito al me specificato subito dopo. – scotto: è
il prezzo che si paga all’osteria o alla locanda;
per metonimia indica il pasto o l’ospitalità.
36. Pregovi... a ogni modo: ‘Vi prego che mi
liberiate da questa paura, che poi verrò a trovarvi sicuramente entro (infra) il tempo detto’.
37. Io ho... mandassi: ‘io ho discusso con Filippo (Casavecchia) di questo mio libricino, se era
il caso di offrirlo (sottinteso: a Giuliano de’
Medici) oppure no; e, posto che fosse bene
offrirlo, se era il caso che io glielo portassi di
persona o glielo spedissi’.
38. El non... faticha: ‘Mi faceva credere che fosse meglio non offrirlo il dubbio che Giuliano non
l’avrebbe letto neppure (non ch’altro) e che l’Ardinghelli (il segretario del papa Leone X, fratello di Giuliano) si sarebbe preso il merito (si facessi honore) di questa mia ultima fatica’ (dicendo che l’opera fosse sua e non di Machiavelli).
39. El darlo... contennendo: ‘Mi spingeva a offrirlo la necessità (economica) che mi incalza
(caccia), perché io mi consumo e non posso stare a lungo in questa condizione senza diventare
un povero spregevole (per povertà contennendo: letteralmente: ‘spregevole a causa della povertà)’.
40. Appresso... sasso: ‘Oltre al desiderio che
avrei che questi signori Medici cominciassero
a servirsi di me (mi cominciassino adoperare),
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565
14. Niccolò Machiavelli
80
Die x Decembris 151345.
Niccolò Machiavelli in Firenze
anche se (se) dovessero cominciare col farmi
rotolare una pietra’, cioè ‘mi dessero un compito anche da poco, faticoso e inutile’.
41. perché... giuocati: ‘perché, se poi non li
rendessi ben disposti verso di me (non me gli
guadagnassi, i Medici), sarebbe solo colpa mia
(e non della fortuna avversa); e grazie a questo
(libricino, Il Principe), se venisse letto, si
vedrebbe che i quindici anni che mi sono applicato all’arte della politica (sono stato a studio
all’arte dello stato), non li ho trascorsi né dormendo, né giocando’.
42. et doverrebbe... experienzia: ‘e dovrebbero tutti apprezzare (haver caro) la possibilità
di servirsi di qualcuno che si è riempito di esperienza al servizio di altri’, cioè ‘sotto un altro
governo’.
43. Et della fede... povertà mia: ‘E della mia
fedeltà (fede, latinismo) non si dovrebbe dubitare, perché, avendo io sempre rispettato la
fedeltà, non imparerò certo ora a infrangerla; e
colui che è stato fedele e onesto per 43 anni,
che è la mia età, non potrà certo (non debbe
potere) cambiare la sua natura; e testimonian-
Lettura guidata
AUTORITRATTO DI GIORNO Nel narrare le proprie
giornate di esule all’Albergaccio, Machiavelli ribalta,
con amara autoironia, quanto aveva riferito di sé il
suo interlocutore Francesco Vettori. Mentre l’amico,
ambasciatore a Roma, gode di prestigiosi incontri
con le alte personalità della corte papale, Machiavelli è costretto invece a una vita avvilente. Dopo che
anche un piccolo divertimento come la caccia ai tordi è venuto a mancare, la giornata standard dell’esule in campagna ci viene narrata come una serie di vicende degradanti. Il primo tempo della giornata è
quello in cui Machiavelli si reca al bosco della propria tenuta, per difendere dai profittatori un bene
prezioso come la legna: l’autoritratto è quello di un
uomo pronto alla lite e alla zuffa (letteralmente a
«fare el diavolo», r. 14) pur di tutelare i propri interessi. Questo degrado sembra interrompersi nel tempo successivo, quando, prima di pranzo, presso una
fonte, l’autore ha l’agio di leggere un poco di poesia
(Dante, Petrarca, Tibullo e Ovidio). Ma il terzo tempo della giornata fa sprofondare di nuovo l’autore
za (stimonio) della mia fedeltà e della mia onestà è la mia povertà’.
44. Desidererei... felix: ‘Desidererei dunque
che anche (ancora) voi mi scriveste la vostra
opinione (quello che... vi paia) riguardo al dubbio se dedicare o no il Principe ai Medici (sopra
questa materia). Sii felice’. – Sis felix: formula
latina tipica dello stile epistolare.
45. Die x Decembris 1513: ‘il giorno 10 dicembre 1513’ (latino).
nell’abbrutimento. All’osteria Machiavelli si autorappresenta in tutto e per tutto simile agli altri avventori: un macellaio, un mugnaio e due operai. Assieme a questa umile compagnia, con la quale litiga
a squarciagola per pochi soldi, Machiavelli afferma
di “ingaglioffirsi” volentieri, pur di non fare ammuffire il cervello.
AUTORITRATTO DI SERA Questo autoritratto di
giorno, così sarcastico e impietoso nei propri confronti, è in antitesi violenta e ben studiata con l’autoritratto di sera, il momento in cui Machiavelli può
entrare nel proprio scrittoio e dedicarsi alla lettura
dei classici antichi. La metafora che qui impiega Machiavelli è quella del cambio di abito: depone la veste diurna, piena di fango (la degradazione morale di
cui si è detto); e indossa vesti pulite, pomposamente definite «panni reali et curiali» (rr. 39-40). Evidentemente, questo cambio d’abito è, sì, concreto,
ma soprattutto è simbolico: indossando nuove vesti
e ritraendosi nello studio, Machiavelli si astrae dalla
umile realtà in cui è confinato e può dialogare liberamente con gli autori antichi. Si noti, fra l’altro, che
ANTOLOGIA
75
mi dorrei di me; et per questa cosa, quando la fussi letta, si vedrebbe che quindici
anni che io sono stato a studio all’arte dello stato, non gl’ho né dormiti né giuocati41; et doverrebbe ciascheduno haver caro servirsi d’uno che alle spese d’altri fussi pieno di experienzia42. Et della fede mia non si doverrebbe dubitare, perché,
havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora a romperla; et chi
è stato fedele et buono 43 anni, che io ho, non debbe potere mutare natura; et della fede et della bontà mia ne è stimonio la povertà mia43.
Desidererei adunque che voi ancora mi scrivessi quello che sopra questa materia vi paia, et a voi mi raccomando. Sis felix44.
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ANTOLOGIA
566
tali autori vengono evocati come se fossero dei veri
e propri interlocutori in carne e ossa, che Machiavelli può interrogare e ai quali può domandare le ragioni del loro operato politico. Questo dialogo nello
scrittoio, che viene metaforicamente designato come un pasto spirituale («quel cibo, che solum è
mio», r. 41), è il perfetto opposto del dialogo volgare all’osteria. Si badi però che entrambi i momenti
della giornata costituiscono per Machiavelli occasione di conoscenza. Anche di giorno, sulla strada davanti all’osteria, egli aveva domandato ai passanti
«nuove de’ paesi loro» (r. 27) per conoscere «varii
gusti et diverse fantasie d’huomini» (r. 28). La vocazione di Machiavelli alla conoscenza dell’uomo e
alle costanti del suo agire è identica, anche se ovviamente è solo di sera che può essere degnamente soddisfatta.
DUE STILI DISTINTI Il contrasto fra i due autori-
tratti, quello diurno e quello serale, si regge su una
ben studiata differenza stilistica. Nel primo caso Machiavelli impiega un registro colloquiale, che non di
rado sfocia nel comico, come quando, per evocare la
truffa subìta da Tommaso del Bene, ricorre alla similitudine del macellaio Gaburra che il giovedì bastona il bue in piazza. Nella seconda metà della lettera,
invece, lo stile si fa più sostenuto, ricco di termini
latineggianti e di espressioni auliche: «panni reali et
curiali» (rr. 39-40), «entro nelle antique corti degli
I Grandi Autori
antiqui huomini» (r. 40), «mi pasco di quel cibo» (r.
41). Con la rappresentazione grottesca della prima
parte, Machiavelli si dipinge coscientemente come
colui che è prostrato dalla fortuna, ma non teme di
accettare le conseguenze della mala sorte («et sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se
ne vergognassi», rr. 35-37). Raffigurandosi invece
intento a nobili studi, Machiavelli esalta la propria
sete di conoscenza e la propria ricerca di una “virtù”
politica, vale a dire di una capacità di governare lo
Stato: «arte dello stato» (r. 74).
IL PRINCIPE A questa arte di governare lo Stato è
dedicato il frutto degli studi serali: il trattatello
teorico intitolato Il Principe (qui recante il titolo
latino De principatibus). Con questa opera, che qui
appare ancora destinata a Giuliano de’ Medici, ma
che in seguito sarebbe stata dedicata a Lorenzo di
Piero de’ Medici duca d’Urbino, Machiavelli intendeva mostrare ai nuovi padroni di Firenze tutta la sua
competenza politica, con l’orgoglio di chi sapeva
di aver messo a frutto come meglio non si poteva i
quindici anni di esperienza: «si vedrebbe che
quindici anni che io sono stato a studio all’arte dello stato, non gl’ho né dormiti né giocati» (rr. 7375). L’auspicio dunque è quello di ricevere nuovi
incarichi, quand’anche fossero state fatiche inutili
come «voltolare un sasso» (r. 72).
Esercizi
comprensione e analisi
1. Dividi la lettera in sequenze e isola i singoli momenti della giornata dell’autore.
2. Evidenzia i verbi che caratterizzano le azioni svolte
nei diversi momenti della giornata.
3. Sottolinea i paragoni e le similitudini presenti nel
testo.
4. Riassumi il testo nel minor numero di parole possibile, usando la terza persona.
5. Nel brano è utilizzata la parola scotto (r. 62). In quale accezione? Conosci qualche espressione dell’italiano
contemporaneo in cui si usa ancora questa parola?
interpretazione
6. Sottolinea tutti i riferimenti alla nuova opera che Machiavelli dichiara di aver composto presenti nella lettera.
7. Isola nel testo alcuni passi che rivelino le differenze
stilistiche fra l’autoritratto diurno e quello serale.
8. Il trapasso dalla prima alla seconda parte della lettera viene simboleggiato con un cambio d’abito. Che significato attribuisci a questo trapasso? Spiegalo usando
circa 100 parole.
interpretazione e contestualizzazione
9. Nella scena all’osteria è implicita una ben precisa
concezione antropologica. In quali altri passi hai visto
Machiavelli insistere sull’attaccamento degli uomini al
proprio interesse?
10. Dal testo affiora in modo chiaro la volontà da parte
di Machiavelli di tornare a dedicarsi alla vita politica.
Ripercorri, a partire dai riferimenti presenti nella lettera e sulla base delle tue conoscenze, le circostanze che
lo hanno visto protagonista della politica fiorentina, i
suoi incarichi, le vicende che lo hanno costretto ad
allontanarsi da Firenze; scrivi sull’argomento un testo di
circa 300 parole.
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14. Niccolò Machiavelli
567
6 Il Principe
COMPOSIZIONE DEL TRATTATO E SCELTA DELL’ARGOMENTO La genesi del Principe è
documentata dalla celebre lettera che Machiavelli scrisse all’amico Francesco Vettori il 10 dicembre 1513 dall’Albergaccio [uT93]. Qui l’autore lamenta l’esilio al quale è costretto dopo
la caduta della Repubblica fiorentina e la restaurazione del potere dei Medici. Trascorrendo
nell’ozio le proprie giornate, l’ex segretario della Repubblica si dedica alla lettura degli storici antichi e alla riflessione sul potere politico. Da questa riflessione – ci viene narrato – è
nato l’«opusculo» (libretto) intitolato De principatibus, titolo latino che significa letteralmente ‘i principati’ o ‘le monarchie’ (anche i singoli capitoli dell’opera recano tutti un’indicazione di argomento in latino). Il Principe è un breve trattato politico, di soli 26 capitoli, il
cui oggetto è la forma politica della monarchia o, come spiega l’autore all’amico, «che cosa
è principato, di quale spetie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’
si perdono». La scelta del tema, la monarchia e le sue forme, è funzionale al desiderio di Machiavelli di essere riammesso agli incarichi politici. L’opera infatti era stata pensata per essere dedicata a un esponente di spicco fra i Medici. Da una parte, l’ex segretario scrive Il Principe per mostrare ai nuovi padroni di Firenze tutta la competenza politica maturata nei suoi
quindici anni al servizio della Repubblica: non a caso il principato che viene più diffusamente analizzato è quello che viene definito «nuovo», vale a dire la monarchia di recente formazione, come era quella medicea a Firenze. D’altro canto, l’autore si rivolge ai signori di Firenze per spronarli a estendere la loro egemonia su tutta l’Italia, così da liberare la penisola dall’influenza delle potenze straniere, la Francia, la Spagna e l’Impero germanico. La forma politica del principato viene proposta in una luce eroica e ideale: essa risulta la risposta più
efficace alle drammatiche condizioni dell’Italia contemporanea, nella quale il sistema
delle signorie quattrocentesche era venuto meno con la morte di Lorenzo il Magnifico (1492)
e la calata in Italia dell’esercito francese di Carlo VIII, nel 1494.
Machiavelli scrisse Il Principe (o quantomeno il suo nucleo) in pochi mesi e con grande veemenza: per dedicarsi all’«opusculo», egli interruppe i più ampi Discorsi sopra la prima Deca di
Tito Livio. Non sappiamo tuttavia quanto del Principe fosse composto all’altezza della lettera
al Vettori. Alcuni pensano che nel dicembre 1513 l’intera opera fosse conclusa; altri pensano
invece che a quella data fossero pronti solo i primi undici capitoli e che il resto sia stato composto intorno al 1515, con eventuali, successive aggiunte. La dedica dell’opera non aiuta a
sciogliere l’incertezza. Nel 1513 Machiavelli aveva previsto di offrire a Giuliano de’ Medici il
trattato, che in seguito fu invece dedicato a Lorenzo di Piero de’ Medici, duca di Urbino. Ma
quando e perché l’autore modificò la dedica? Nel 1516, dopo la morte di Giuliano? Oppure fra
il 1515 e il 1516, mentre Giuliano era ancora vivo, ma Lorenzo, nel frattempo, veniva eletto
capitano generale dei fiorentini e nominato duca di Urbino? L’incertezza sussiste. Certo è solo che Lorenzo si rivelò una figura abbastanza scialba: la straordinaria novità del trattato passò inosservata e il testo fu stampato solo nel 1532, dopo che il suo autore era già scomparso.
STRUTTURA Alla lettera dedicatoria a Lorenzo de’ Medici seguono i 26 capitoli che com-
pongono la trattazione teorica: essi si possono raggruppare in quattro sezioni principali.
Nella prima sezione (capp. I-XI) Machiavelli distingue fra tre tipi di principato: l’ereditario, il misto e il nuovo. Il primo e il secondo vengono discussi nei capp. II-V: si tratta di
quelle monarchie, nelle quali il principe o ha ereditato il potere (principato ereditario), o
l’ha in parte ereditato, in parte conquistato di recente (principato misto). Il terzo tipo di
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I Grandi Autori
monarchia, il principato nuovo, è quello in cui il principe ha conquistato l’intero regno con
la sua capacità politica, sfruttando a proprio favore la sorte o fortuna. Questo tipo viene
trattato diffusamente (capp. VI-XI) ed è quello che più sta a cuore a Machiavelli, il quale
si rivolge ai Medici, principi nuovi di Firenze, e confida in loro, affinché siano risollevate
le sorti dell’Italia. Dopo avere additato alcuni modelli antichi [uT95], Machiavelli indugia
sull’operato di due principi nuovi vissuti di recente, il cui operato egli considera esemplare: Francesco Sforza, duca di Milano; e il duca Valentino, signore di Romagna [uT96].
Nella seconda sezione, assai breve (capp. XII-XIV), oggetto di analisi è la cruciale questione delle milizie: l’autore esalta le milizie proprie, fedeli al loro principe e motivate dalla difesa di interessi personali; al contrario, deplora le milizie mercenarie, allora impiegate da molti Stati, ma considerate da Machiavelli del tutto inaffidabili.
Nella terza sezione (capp. XV-XXIII), Machiavelli prende in esame i vizi e le virtù del principe. Le virtù che egli propone al principe non sono dettate dal criterio di dovere morale, bensì da quello di utilità politica. Secondo Machiavelli, infatti, è indispensabile separare il punto di vista morale dal punto di vista politico: se il primo considera gli uomini per quello che
dovrebbero essere, il secondo li fa conoscere per quello che effettivamente sono («verità effettuale»). I vizi e le virtù del principe, di conseguenza, non sono da misurare secondo il criterio morale, bensì secondo quello politico [uT97]. È in quest’ottica che Machiavelli si induce a consigliare al perfetto principe alcune virtù esclusivamente politiche: essere parsimonioso piuttosto che generoso, crudele piuttosto che pietoso, usare l’astuzia della volpe e la
violenza del leone, non sentirsi obbligato a rispettare la parola data [uT98]. Nella quarta e
ultima sezione (capp. XXIV-XXVI) Machiavelli conclude analizzando la drammatica situazione
politica dell’Italia contemporanea [uT99]. Insistendo sulla dialettica fra la capacità politica
del principe e la fortuna avversa, Machiavelli auspica l’avvento di un principe nuovo (il destinatario Lorenzo de’ Medici), che con risolutezza sappia liberare l’Italia dai barbari [uT100].
UNA NUOVA VISIONE DELLA POLITICA Per rendersi conto della straordinaria novità del
trattato di Machiavelli occorre tener conto che la precedente trattatistica sul potere regale
aveva sempre invitato il principe a conformarsi a un modello di virtù morale. Questa tradizione, che prende il nome di Speculum principis (‘specchio di virtù nel quale il principe è invitato a specchiarsi e a conformare le proprie azioni’), viene liquidata da Machiavelli e sostituita con una concezione del tutto nuova di virtù politica. La virtù del regnante, infatti, non
si misura sulla sua capacità di conformarsi a un modello etico, bensì sulla sua capacità di conservare il potere e di garantire la felicità pubblica, secondo un principio di vera e propria
emancipazione della politica dalla morale. Questa visione della politica, del tutto laica e
disincantata, poggia su una concezione dell’uomo pessimistica, una vera e propria antropologia negativa, secondo cui è impossibile, sia ai sudditi sia al principe, conformarsi alla morale; da tale concezione scaturisce di conseguenza che il principe debba guardare in faccia la
realtà concreta delle cose («verità effettuale»). Ma oltre alla verità effettuale, a guidare il
principe devono essere alcuni modelli antichi e recenti, che Machiavelli di continuo propone all’attenzione come paradigmi di comportamento: il più esplicito dei modelli da lui proposti è un principe nuovo appena uscito di scena, il cosiddetto duca Valentino, capace di una
gestione efficacissima in quanto risoluta e astuta. Ma altrettanto influenti sono i modelli antichi per lo più ricavati dalla lettura dei classici (nelle lettera al Vettori, del resto, il Principe
viene presentato come il frutto degli studi umanistici coltivati la sera).
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14. Niccolò Machiavelli
UN NUOVO ORIZZONTE IDEALE La nuova visione politica proposta nel Principe, come si
può immaginare, era destinata a risultare scandalosa: non a caso nel 1559, nel clima del
disciplinamento cattolico promosso dal Concilio di Trento, tutte le opere di Machiavelli
sarebbero state incluse nell’Indice dei libri proibiti; e “machiavellismo” sarebbe presto
diventato sinonimo di gestione scaltra e cinica del potere. Tuttavia il “machiavellismo” cinico è ben altra cosa rispetto al Machiavelli autentico. Nella fattispecie, la carica ideale che
pervade Il Principe è fortissima: non è una carica di natura morale e tanto meno religiosa,
bensì esclusivamente politica. L’esercizio del potere, infatti, viene immaginato da Machiavelli come una grande lotta contro la fortuna, capricciosa e maligna. Se il principe saprà
come dare solide basi al suo Stato, otterrà reputazione per sé e darà ai suoi sudditi il buon
governo, una volta liberata l’Italia dai barbari.
Guida allo studio
1. In quale testo Machiavelli annuncia la composizione
del Principe e il suo argomento? 2. In quale periodo della sua vita scrive il trattato? 3. A chi dedica Il Principe e
perché? 4. Come è organizzato il trattato e quali argomenti affronta? 5. Quali innovazioni introduce Il Principe
rispetto alla precedente trattatistica politica? 6. Quale
visione politica e quali modelli devono guidare il principe? 7. Quale significato assume nel corso del tempo il
termine “machiavellismo”? In che modo questa definizione si discosta dal pensiero di Machiavelli?
T94
Distinzioni preliminari
Il Principe, cap. I
La lunghezza dei capitoli del Principe è variabile. Il primo capitolo, brevissimo, ha la funzione
di preambolo. Qui Machiavelli distingue fra «repubbliche» e «principati», ma soprattutto fra tre
diversi tipi di principato: l’ereditario, il nuovo e il misto.
Quot sint genera principatuum et quibus modis acquirantur1
5
Tutti gli stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra gli uomini,
sono stati e sono o repubbliche o principati2. E’ principati sono o ereditari, de’ quali el sangue del loro signore ne sia suto lungo tempo principe3, o sono nuovi. E’
nuovi, o e’ sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza4, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che gli acquista, come è el regno di
Napoli al re di Spagna5. Sono questi dominii così acquistati o consueti a vivere sot-
1. Quot sint... acquirantur: ‘Di che genere siano i principati e in che modo si acquistino’. Tutte le indicazioni di argomento premesse ai
capitoli del trattato sono in latino. Si ricordi del
resto che lo stesso titolo originale è in latino
(De principatibus: ‘Sulle monarchie’).
2. Tutti... principati: ‘Tutti gli Stati, i potentati
(dominii) che hanno avuto e hanno potere sugli
uomini, sono stati e sono o Repubbliche o monarchie’. I principati si contrappongono alle repubbliche, ovvero agli Stati in cui il potere non è
nelle mani di uno solo (il termine ‘Repubblica’
viene dal latino res publica: ‘cosa pubblica’).
3. de’ quali... principe: ‘sui quali la dinastia (el
sangue) del loro signore sia stata (ne sia suto)
a lungo al potere’.
4. o e’ sono... Sforza: ‘o sono totalmente nuovi come fu Milano per Francesco Sforza’. Francesco Sforza (1401-1466) fece fortuna come
capitano di ventura e poté sposare Bianca
Maria, figlia del duca di Milano, Filippo Maria
Visconti. Dopo la morte di questi (1447), Milano si proclamò Repubblica e nominò lo Sforza
capitano nella guerra contro Venezia. Ma que-
sti prese accordi con l’esercito veneziano e
con la forza costrinse i repubblicani a cedergli
il potere. Iniziò così il “principato nuovo” degli
Sforza su Milano.
5. o sono... Spagna: ‘oppure sono come parti
(membri) aggiunte allo Stato ereditario del
principe che se ne impossessa come è il Regno
di Napoli per il re di Spagna’. Il re di Spagna è
Ferdinando il Cattolico, il quale sconfisse Federico di Aragona re di Napoli e gli sottrasse il
regno nel 1503. Più avanti Machiavelli chiamerà questi Stati principati mis.
ANTOLOGIA
Il Principe
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ANTOLOGIA
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I Grandi Autori
to uno principe o usi a essere liberi6; e acquistonsi o con l’arme d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù7.
6. Sono... liberi: ‘Gli Stati conquistati in questo
modo o sono abituati (consueti) a vivere sotto
un governo monarchico oppure sono liberi,
abituati alla Repubblica’.
7. acquistonsi... virtù: ‘si acquistano o con gli
eserciti (arme) propri o altrui, o grazie a un’oc-
Lettura guidata
casione favorevole o per la propria capacità
politica (virtù)’.
quando una parte dello Stato è ereditata e un’altra
parte acquisita di recente.
LO STILE DILEMMATICO Nelle prime righe del Prin-
cipe Machiavelli impiega subito uno stile che ricorre
in molti altri brani del trattato: uno stile che è stato
definito dilemmatico per il largo impiego dalla congiunzione disgiuntiva ‘o / oppure’. Il concetto esaminato, infatti, viene presentato da Machiavelli come un dilemma, come una scelta fra due o più elementi in conflitto tra loro, che vengono posti al lettore quali dati di fatto inconfutabili. Proviamo a
orientarci fra le molte possibilità condensate nelle
poche righe appena lette. A un primo livello, secondo Machiavelli, gli Stati o sono Repubbliche oppure
sono monarchie. Le Repubbliche non sono oggetto
di analisi del Principe, bensì dell’altra opera politica
di Machiavelli, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito
Livio. Non c’è quindi ragione di procedere a ulteriori
distinzioni in proposito. Da distinguere, invece, sono le monarchie: il potere di un principe può dunque
essere o completamente ereditato, o completamente acquisito, ma può essere, infine, anche misto,
ALTRE DISTINZIONI Di tutti i principati, come
vedremo nei capitoli successivi, quello che più interessa a Machiavelli è il principato nuovo e tale era
anche quello dei Medici, ai quali l’autore si sta rivolgendo. Ecco che allora sono necessarie ulteriori precisazioni circa i principati acquisiti. Quando uno
Stato viene conquistato, infatti, o la popolazione
amministrata passa da dominio monarchico a un
altro di identica natura, oppure passa dalla repubblica alla monarchia. Ci si soffermi infine su un’ultima distinzione: l’acquisto del regno da parte del
principe dipende o dalla sua virtù o dalla fortuna.
Entrano qui in gioco le due forze principali del mondo di Machiavelli, due forze che vedremo spesso
all’opera nei capitoli successivi: la sorte e la capacità politica del principe (si tenga conto fin da subito che il termine virtù nel Principe di norma significa sempre e solo ‘capacità politica’, senza assumere mai alcuna connotazione morale).
Esercizi
analisi
interpretazione
1. Visualizza la casistica prevista da Machiavelli con uno
schema ad albero.
2. Cosa distingue la monarchia dal principato?
3. Quali sono i tre tipi di principato per Machiavelli?
Come si distinguono tra loro?
T95
Il principe nuovo: la perfezione dei modelli antichi
Il Principe, cap. VI
Nei capitoli II-V, che non abbiamo riportato, sono analizzati i principati ereditari e quelli misti. Nel
VI capitolo si analizza il terzo tipo: il principato nuovo. Qui Machiavelli adotta un punto di vista molto peculiare: il principato recente viene discusso tramite alcuni esempi antichi che vengono additati come modelli perfetti, tratti dalla storia e dal mito (Mosè, Ciro, Romolo, Teseo, Gerone). È a questi esempi antichi che i moderni principi nuovi devono rifarsi, secondo un criterio di imitazione.
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14. Niccolò Machiavelli
5
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15
25
1. De principatibus... acquiruntur: ‘Sui principati nuovi che si conquistano con le armi proprie e con la virtù’.
2. Non si... esempli: ‘Non si meravigli nessuno
se, parlando dei principati del tutto nuovi, in cui
è nuova sia la dinastia (di principe), sia il governo monarchico (di stato), io porterò esempi
relativi a personaggi illustri’.
3. Perché... imitare: ‘Dal momento che gli
uomini seguono sempre le strade percorse
(battute) da altri e agiscono imitando i modelli
(con le imitazioni), e poiché non è possibile imitare in tutto e per tutto (al tutto) l’esempio
offerto da altri, né raggiungere la capacità
(virtù) di quelli che vengono imitati, un uomo
prudente deve imboccare sempre (entrare
sempre per) le vie percorse dagli uomini grandi e imitare quelli che sono stati i più grandi di
tutti (eccellentissimi)’.
4. acciò... odore: ‘in modo tale che se la sua
capacità politica non è all’altezza di quelli, ne
conservi almeno qualche profumo’, cioè manifesti a quale modello ci si è ispirati.
5. e fare... loro: ‘e (deve) comportarsi come gli
arcieri accorti, i quali, apparendo loro troppo
lontano il luogo del bersaglio che vogliono col-
pire e conoscendo la gittata (a quanto va la
virtù, letteralmente: ‘fin dove arriva la potenza’)
del loro arco, mirano molto più in alto del bersaglio prestabilito (luogo destinato), non per
colpire con la loro freccia un punto così alto,
ma per arrivare al loro bersaglio (al disegno
loro) con l’aiuto di una mira tanto alta’.
6. Dico... acquista: ‘Dico dunque che nei principati del tutto nuovi, dove salga al potere un
principe nuovo, si riscontra (si truova) una
maggiore o minore difficoltà a seconda che sia
più o meno capace (virtuoso) colui che li conquista’.
7. E perché... difficultà: ‘E poiché questo
evento, da privato cittadino diventare principe,
presuppone o fortuna o abilità individuale
(virtù), è evidente (pare) che l’una o l’altra di
queste due forze (virtù o fortuna) attenuano in
parte molte difficoltà’.
8. nondimanco... più: ‘nondimeno, colui che
ha fatto meno affidamento sulla fortuna ha
mantenuto il potere più a lungo’.
9. Genera... abitarvi: ‘Facilita inoltre la conservazione del potere il fatto che il principe sia
costretto ad abitarvi (nello Stato acquisito), per
il fatto che è privo di altri Stati’.
10. e’: ‘i’ (questo vale anche per i casi successivi).
11. Moisè... simili: gli esempi additati come i
modelli perfetti del principato nuovo sono tratti dall’antichità ebraica e da quella classica:
Mosè liberò gli ebrei dalla schiavitù d’Egitto e,
dopo averli ricondotti in Palestina, fu il loro legislatore; Ciro il Vecchio (VI sec. a.C.) diede origine al Regno persiano; Romolo è il mitico fondatore di Roma; altro eroe leggendario, infine, è
Teseo, il liberatore di Atene dal dominio di Creta.
12. E benché... con Dio: ‘E anche se di Mosè
non si deve parlare, essendo stato (sendo suto)
un semplice esecutore delle cose che gli erano ordinate da Dio, tuttavia (tamen, latino) deve
essere ammirato, solamente (solum, latino) per
quel privilegio (grazia) che lo rendeva degno di
parlare con Dio’.
13. e se si considerranno... precettore: ‘e se
si considereranno le azioni e i metodi (ordini)
propri di loro (particulari), risulteranno essere
non discordanti da quelli di Mosè che ebbe un
maestro di arte politica (precettore) tanto grande (Dio)’.
ANTOLOGIA
20
Non si maravigli alcuno se, nel parlare che io farò de’ principati al tutto nuovi e di
principe e di stato, io addurrò grandissimi esempli2. Perché, camminando gli uomini sempre per le vie battute da altri e procedendo nelle azioni loro con le imitazioni, né si potendo le vie d’altri al tutto tenere né alla virtù di quegli che tu imiti
aggiugnere, debbe uno uomo prudente entrare sempre per vie battute da uomini
grandi e quegli che sono stati eccellentissimi imitare3: acciò che, se la sua virtù non
vi arriva, almeno ne renda qualche odore4; e fare come gli arcieri prudenti, a’ quali parendo el luogo dove desegnano ferire troppo lontano, e conoscendo fino a
quanto va la virtù del loro arco, pongono la mira assai più alta che il luogo destinato, non per aggiugnere con la loro freccia a tanta altezza, ma per potere con lo
aiuto di sì alta mira pervenire al disegno loro5.
Dico adunque che ne’ principati tutti nuovi, dove sia uno nuovo principe, si truova a mantenergli più o meno difficultà secondo che più o meno è virtuoso colui che
gli acquista6. E perché questo evento, di diventare di privato principe, presuppone
o virtù o fortuna, pare che l’una o l’altra di queste dua cose mitighino in parte molte difficultà7; nondimanco, colui che è stato meno in su la fortuna si è mantenuto
più8. Genera ancora facilità essere el principe constretto, per non avere altri stati,
venire personalmente ad abitarvi9.
Ma per venire a quegli che per propria virtù e non per fortuna sono diventati principi, dico che e’10 più eccellenti sono Moisè, Ciro, Romulo, Teseo e simili11. E benché
di Moisè non si debba ragionare, sendo suto uno mero esecutore delle cose che gli
erano ordinate da Dio, tamen debbe essere ammirato, solum per quella grazia che lo
faceva degno di parlare con Dio12. Ma considerato Ciro e li altri che hanno acquistato o fondati regni, gli troverrete tutti mirabili; e se si considerranno le azioni e ordini loro particulari, parranno non discrepanti da quegli di Moisè, che ebbe sì grande
precettore13. Ed esaminando le azioni e vita loro non si vede che quelli avessino altro da la fortuna che la occasione, la quale dette loro materia a potere introdurvi den-
ANTOLOGIA
De principatibus novis qui armis propriis et virtute acquiruntur1
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ANTOLOGIA
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tro quella forma che parse loro14: e sanza quella occasione la virtù dello animo loro
si sarebbe spenta, e sanza quella virtù la occasione sarebbe venuta invano.
Era adunque necessario a Moisè trovare el populo d’Israel in Egitto stiavo e
oppresso da li egizi, acciò che quegli, per uscire di servitù, si disponessino a seguirlo15. Conveniva che Romulo non capessi in Alba, fussi stato esposto al nascere, a
volere che diventassi re di Roma e fondatore di quella patria16. Bisognava che Ciro
trovassi e’ persi malcontenti dello imperio de’ medi, ed e’ medi molli ed effeminati
per la lunga pace17. Non poteva Teseo dimostrare la sua virtù, se non trovava gli
ateniesi dispersi18. Queste occasioni per tanto feciono questi uomini felici e la eccellente virtù loro fe’ quella occasione essere conosciuta: donde la loro patria ne fu
nobilitata e diventò felicissima19.
Quelli e’ quali per vie virtuose20, simili a costoro, diventono principi, acquistano el principato con difficultà, ma con facilità lo tengono; e le difficultà che gli
hanno nello acquistare el principato nascono in parte da’ nuovi ordini e modi che
sono forzati introdurre per fondare lo stato loro e la loro sicurtà21. E debbesi considerare come e’ non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più
pericolosa a maneggiare, che farsi capo di introdurre nuovi ordini22. Perché lo introduttore ha per nimico tutti quegli che degli ordini vecchi fanno bene, e ha tiepidi
defensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbono bene23: la quale tepidezza
nasce parte per paura delli avversari, che hanno le leggi dal canto loro, parte da la
incredulità degli uomini, e’ quali non credono in verità le cose nuove, se non ne
veggono nata una ferma esperienza24. Donde nasce che, qualunque volta quelli che
sono nimici hanno occasione di assaltare, lo fanno partigianamente, e quelli altri
difendono tiepidamente: in modo che insieme con loro si periclita25.
È necessario pertanto, volendo discorrere bene questa parte, esaminare se questi
innovatori stanno per loro medesimi o se dependono da altri: cioè se per condurre
l’opera loro bisogna che preghino, o vero possono forzare26. Nel primo caso, sempre capitano male e non conducono cosa alcuna; ma quando dependono da loro
14. non si... loro: ‘si vede che la fortuna offrì
loro soltanto l’opportunità, la quale opportunità gli fornì la materia in cui poterono introdurre quella forma che essi vollero (parse loro)’.
Con l’antitesi forma / materia si allude qui alla
fisica di Aristotele, il quale aveva distinto fra la
materia da una parte, duttile e grezza, e la forma dall’altra, che dà ordine alla materia.
15. Era... seguirlo: ‘Era dunque necessario
che Mosè trovasse il popolo di Israele schiavo
e oppresso dagli Egiziani, affinché quelli, per
uscire dalla schiavitù, fossero disposti (si disponessino) a seguirlo’.
16. Conveniva... patria: ‘Era necessario che
Romolo non avesse spazio a sufficienza (capessi) ad Alba (Longa) e che, appena nato, fosse
stato abbandonato (esposto al nascere), perché egli avesse la volontà di diventare re di
Roma e fondatore di quello Stato’. Secondo il
racconto di Livio, Romolo e Remo, appena nati,
sarebbero stati esposti e allattati da una lupa.
17. Bisognava... pace: ‘Bisognava che Ciro trovasse i Persiani scontenti di essere comandati
(dello imperio) dai Medi e che i Medi fossero
rammolliti ed effeminati per la lunga pace’.
Medi e Persiani erano due popoli che abitavano nell’attuale Iran: Ciro il Grande unificò i due
Stati nel 550 a.C. sostituendo al potere dei
Medi quello dei Persiani.
18. Non poteva... dispersi: ‘Teseo non avrebbe potuto dimostrare la sua abilità politica se
non avesse trovato gli Ateniesi dispersi in tanti
villaggi’; secondo il mito Teseo avrebbe confederato gli sparsi villaggi dell’Attica in una sola
città: Atene.
19. Queste... felicissima: ‘Queste occasioni
pertanto resero fortunati (felici) questi uomini
e la loro eccezionale abilità politica face sì che
loro riconoscessero tale occasione (e quindi
sapessero come utilizzarla); per cui (donde) il
loro Stato acquistò prestigio e potere (ne fu
nobilitata)’.
20. per vie virtuose: ‘con la propria abilità
politica (virtuose, da virtù)’.
21. le difficultà... sicurtà: ‘le difficoltà che essi
(gli) hanno nel conquistare un principato
nascono in parte dagli ordinamenti (ordini) e
dalle forme di governo (modi) che sono
costretti (forzati) a introdurre per rendere stabili (fondare) il loro Stato e la loro sicurezza personale (sicurtà)’.
22. debbesi... ordini: ‘si deve tenere presente
(considerare) che non c’è cosa più difficile da intraprendere (trattare), né più incerta (dubbia)
da portare a compimento (a riuscire), né più pericolosa da attuare (maneggiare) che prendere
l’iniziativa di introdurre nuovi ordinamenti’.
23. Perché... bene: ‘Perché chi li introduce ha
come nemici tutti quelli che traggono beneficio dai vecchi ordinamenti, e ha come timidi
sostenitori quelli che potrebbero trarne vantaggi (farebbono bene)’; costoro esitano perché non sono sicuri di ricevere vantaggi dalla
nuova situazione politica.
24. non credono... esperienza: ‘non hanno in
verità fiducia nelle novità se non vedono nascere una sua prova certa (ferma esperienza)’.
25. Donde nasce... si periclita: ‘Perciò accade che ogni volta che i nemici (del principe)
abbiano occasione di attaccarlo lo fanno con
accanimento (partigianamente), e quegli altri (i
suoi fautori) lo difendono fiaccamente (tiepidamente), così che con il loro sostegno si corrono dei rischi (si periclita)’.
26. È necessario... forzare: ‘È perciò necessario, volendo discutere (discorrere) bene questo
aspetto, considerare attentamente se questi
innovatori sono autonomi (stanno... medesimi)
o se dipendono da altri: cioè se per portare a
termine la loro impresa devono chiedere l’aiuto ad altri (bisogna che preghino) o possono
usare la forza’.
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14. Niccolò Machiavelli
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27. Nel primo caso... periclitano: ‘Nel primo
caso falliscono sempre e non raggiungono
alcun risultato, ma quando dipendono solo da
sé stessi e possono usare la forza (i loro eserciti) allora è raro che corrano rischi (periclitano)’. – è: ‘accade’.
28. di qui... ruinorno: ‘da ciò è conseguito che
tutti i profeti armati vinsero (vinsono) e che tutti quelli disarmati andarono in rovina’. In verità
l’unico profeta fra i principi sopra ricordati è
Mosè, ma Machiavelli usa questa espressione
perché subito dopo parla con disprezzo di
Girolamo Savonarola.
29. la natura... persuasione: ‘l’indole dei
popoli è volubile (varia) ed è facile persuaderli
di qualcosa, ma è difficile far sì che mantengano quella convinzione’.
30. e però... forza: ‘e perciò (però) bisogna
essere organizzati (essere ordinato) in modo
che quando (i sudditi) non hanno più fiducia
(nel principe) si possa costringerli ad aver fiducia per forza’.
31. arebbono: ‘avrebbero’.
32. constituzioni: ‘leggi’.
33. intervenne... discredenti: ‘capitò a Girolamo Savonarola, il quale perse il potere (ruinò)
quando da poco aveva riformato lo Stato (ne’
sua ordini nuovi), non appena (come) il popolo
iniziò a non credere più in lui, né lui aveva modo
di far restare fedeli coloro che lo avevano
sostenuto, né di rendere fedeli coloro che non
lo erano stati prima (e’ discredenti)’. Un modello negativo per Machiavelli è Savonarola (14521498), il celebre frate domenicano, che, dopo
la cacciata dei Medici da Firenze (1494), provò
a trasformare la Repubblica fiorentina in una
democrazia religiosa. Fu avversato dal papa
Alessandro VI e dalle più potenti famiglie di
Firenze e, in quanto “profeta disarmato”, fallì: fu
abbandonato infatti dai suoi sostenitori, accusato di eresia e arso sul rogo in Piazza della
Signoria.
34. Però... superino: ‘Perciò questi principi
nuovi (questi tali) incontrano grande difficoltà
nel procedere (nella conquista del potere)
(condursi), e tutti i loro pericoli sono quelli che
si frappongono durante il cammino (per conquistare il potere) (fra via) e bisogna che li
superino grazie alla loro abilità politica (con la
virtù)’.
35. Ma superati... felici: ‘Ma una volta che li
(gli) hanno superati e quando (che, con valore
temporale) cominciano a essere onorati e
obbediti (in venerazione), dopo che hanno eliminato (avendo spenti) coloro che li invidiavano (gli avevano invidia) per la loro posizione (di
sua qualità), rimangono potenti, sicuri, onorati
e fortunati’.
36. ma bene... simili: ‘ma avrà pure (bene)
qualche rapporto di analogia (proporzione)
con quelli, e voglio che mi sia sufficiente per
tutti gli altri casi simili’.
37. Ierone siracusano: un altro esempio antico, tratto dalla storia greca; Gerone II fu il tiranno di Siracusa (269-215 a.C.).
38. di privato: ‘dalla condizione di privato’.
39. né ancora... occasione: ‘e anche lui non
dovette riconoscere (di aver avuto) alla fortuna null’altro che l’occasione favorevole’.
40. perché... principe: ‘perché, essendo i siracusani minacciati, lo scelsero (elessono) come
capitano del loro esercito; e da qui meritò di
essere fatto loro monarca’. Nel 282 a.C. Siracusa era stata occupata dai Mamertini, guerrieri
mercenari provenienti dalla Campania, in precedenza assoldati da Agatocle (tiranno di Siracusa prima di Gerone).
41. fu... regnum: ‘ebbe tanta abilità politica,
anche (etiam, latino) da cittadino privato, che lo
storico che scrive di lui (Giustino, II sec. d.C.)
afferma che non gli mancava nulla per essere
re tranne il regno’ (quod... regnum, latino).
42. spense... nuove: ‘eliminò il vecchio esercito (milizia), ne allestì uno nuovo; lasciò le vecchie alleanze, ne fece delle nuove’.
43. possé... mantenere: ‘poté su tali basi
(esercito e alleanze) realizzare ogni progetto
per il nuovo Stato (ogni edifizio), in modo che
fece molta fatica per acquistare (il potere) e
poca per mantenerlo’.
ANTOLOGIA
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propri e possono forzare, allora è che rare volte periclitano27: di qui nacque che tutti e’ profeti armati vinsono ed e’ disarmati ruinorno28. Perché, oltre alle cose dette,
la natura de’ populi è varia ed è facile a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermargli in quella persuasione29: e però conviene essere ordinato in modo che, quando non credono più, si possa fare loro credere per forza30. Moisè, Ciro, Teseo e
Romulo non arebbono31 potuto fare osservare loro lungamente le loro constituzioni32, se fussino stati disarmati; come ne’ nostri tempi intervenne a fra Ieronimo
Savonerola, il quale ruinò ne’ sua ordini nuovi, come la moltitudine cominciò a non
credergli, e lui non aveva modo a tenere fermi quelli che avevano creduto né a fare
credere e’ discredenti33. Però questi tali hanno nel condursi grande difficultà, e tutti e’ loro periculi sono fra via e conviene che con la virtù gli superino34. Ma superati che gli hanno, e che cominciano a essere in venerazione, avendo spenti quegli
che di sua qualità gli avevano invidia, rimangono potenti, sicuri, onorati e felici35.
A sì alti esempli io voglio aggiugnere uno esemplo minore; ma bene arà qualche proporzione con quegli, e voglio mi basti per tutti gli altri simili36: e questo è
Ierone siracusano37. Costui di privato38 diventò principe di Siracusa; né ancora lui
conobbe altro da la fortuna che la occasione39: perché, sendo e’ siracusani oppressi, lo elessono per loro capitano; donde meritò di essere fatto loro principe40. E fu
di tanta virtù, etiam in privata fortuna, che chi ne scrive dice quod nihil illi deerat
ad regnandum praeter regnum41.
Costui spense la milizia vecchia, ordinò della nuova; lasciò le amicizie antiche,
prese delle nuove42; e come ebbe amicizie e soldati che fussino sua, possé in su tale
fondamento edificare ogni edifizio, tanto che lui durò assai fatica in acquistare e
poca in mantenere43.
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ANTOLOGIA
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Lettura guidata
L’IMITAZIONE DEGLI ANTICHI Nel brano appena
letto Machiavelli sostiene la necessità di rifarsi ai
modelli antichi. La via da seguire per il principe nuovo (quale era Lorenzo de’ Medici dedicatario del trattato) consiste nell’imitazione dei principi nuovi
protagonisti della storia antica o della mitologia.
Questo ideale si potrebbe definire una forma di classicismo politico, ma è da tener conto che, nel proporre il criterio di imitazione, Machiavelli è molto
cauto. Ai suoi occhi infatti risulta impossibile ricalcare in tutto e per tutto il modello degli antichi, perché non è possibile eguagliarne le capacità politiche.
Il criterio di imitazione vale dunque come una linea
guida prudenziale. Non a caso Machiavelli usa l’immagine dell’arciere il quale, per colpire il bersaglio
più lontano, calcola la gittata della freccia mirando
un poco più in alto. Quel mirare un poco più in alto,
per chi sappia decifrare la similitudine, consiste nel
ricorso al modello degli antichi.
LE FORZE IN CAMPO: VIRTÙ E FORTUNA Venen-
do al corpo centrale del capitolo, la prima cosa da
notare è che nel mondo descritto da Machiavelli
agiscono due forze principali: la capacità politica
del principe (virtù) e la sorte (fortuna). Il principe
perfetto è colui che sa fondare il proprio potere
solo sulla propria virtù, senza fare alcun affidamento sulla fortuna. Alla fortuna può essere debitore solo delle circostanze favorevoli che gli hanno
permesso di attuare la propria virtù, e nulla più. A
queste circostanze Machiavelli attribuisce il nome
di occasione. Secondo questo ideale il principe nuovo deve tendere a una totale autonomia dal corso
degli eventi: per fare questo egli faticherà molto nel
I Grandi Autori
fondare le basi del potere, ma non avrà problemi nel
gestirlo in seguito, una volta fondato.
LE MILIZIE E IL POPOLO Strumento indispensabile
per il principe che voglia rendersi autonomo dalla fortuna sono le milizie. Quasi in forma di proverbio Machiavelli scrive: «tutti e’ profeti armati vinsono ed e’
disarmati ruinorno» (r. 58). Solo un esercito fedele al
principe infatti permette a quest’ultimo di garantirsi
la fedeltà dei propri fautori e di costringere gli avversari a giurargli fedeltà (non a caso alla necessità di
milizie fidate, non mercenarie, è dedicato un intero
capitolo del Principe, il XII). Il popolo al quale il principe deve imporre la propria autorità è volubile, infido e oltretutto incapace di leggere i vantaggi che gli
possono venire dal principato nuovo. Si noti poi come nel capitolo in esame si sente l’eco di quella antropologia negativa così tipica di Machiavelli, là dove si parla della «incredulità degli uomini, e’ quali non
credono in verità le cose nuove, se non ne veggono
nata una ferma esperienza» (rr. 49-50); oppure là dove si dice che «la natura de’ populi è varia ed è facile
a persuadere loro una cosa, ma è difficile fermargli in
quella persuasione» (rr. 59-60).
DIO Si presti attenzione, infine, alla anomala com-
parsa di Dio in questo capitolo. Colui che per un istante si affaccia nel mondo di Machiavelli non è il Dio
della Provvidenza che guida gli eventi al posto degli
uomini. Gli eventi, al contrario, sono, nel Principe, il
campo di prova dell’uomo e della fortuna, della virtù
e del caso (e sull’antagonismo fra virtù e fortuna si
veda il celeberrimo capitolo XXV: uT99). Sebbene sia
lontano, Dio non è, però, negato. È visto, piuttosto,
come il supremo conoscitore dell’arte dello Stato: come l’ispiratore del principato di Mosè.
Esercizi
comprensione e analisi
1. Individua i passaggi argomentativi usati da Machiavelli nel capitolo che hai letto, sottolineali, quindi riassumi il testo in circa 100 parole.
2. Sintetizza in una mappa concettuale il brano che hai
letto, utilizzando le parole dello stesso autore.
interpretazione
3. Secondo Machiavelli, che cosa hanno in comune Mosè, Ciro, Romolo, Teseo, Gerone? Qual è il rapporto fra
virtù e fortuna che caratterizza i loro regni? Spiegalo per
iscritto con circa 200 parole.
contestualizzazione
4. Il principio dell’imitazione è uno dei tratti più caratterizzanti dei secoli Quattrocento e Cinquecento. A partire dalle motivazioni che Machiavelli ne fornisce in questo brano, sintetizza le tue conoscenze in un testo di circa 300 parole, facendo riferimento agli autori e ai brani che hai letto.
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14. Niccolò Machiavelli
Il principe nuovo: un esemplare quasi perfetto
Il Principe, cap. VII
Al capo opposto dei principi che fondano il loro potere su virtù e armi proprie (trattati nel capitolo VI) stanno i principi che fondano il potere sulla fortuna e su armi non proprie. Se quelli
faticano molto nella conquista del potere, ma poi lo gestiscono senza traumi, questi invece
fondano lo Stato senza doversi impegnare in prima persona, ma poi è raro che lo conservino.
Machiavelli adduce in proposito due esempi moderni: il duca di Milano Francesco Sforza (14011466) come esempio di principe che deve il suo regno alla virtù; e Cesare Borgia (1475-1507),
creatore di un nuovo Stato in Romagna, come esempio di principe che deve il regno alla fortuna. Figlio del papa spagnolo Alessandro Borgia, Cesare aveva ricevuto dal re di Francia Luigi XII
il titolo di duca di Valentinois (feudo francese), da cui il soprannome di duca Valentino. In
seguito, con l’appoggio del potentissimo padre e ricorrendo a truppe mercenarie, era riuscito a
fondare, all’interno dello Stato della Chiesa, uno Stato personale comprendente le città della
Romagna e Urbino. Anche se il regno del Valentino ebbe inizio grazie alla fortuna e alle armi
altrui, Machiavelli dedica al figlio del papa un intero capitolo: una lunga digressione critica e
narrativa. Perché? Perché, subito dopo aver conquistato il potere, Cesare Borgia, conoscendo
la fragilità della propria posizione, inizia a consolidare il suo Stato con la virtù e con le armi
proprie, secondo una strategia politica che Machiavelli considera del tutto esemplare, non meno
dei modelli antichi di Mosè e Teseo. In più, si tratta di un modello di virtù recente, vicinissimo a quello dei suoi interlocutori e, per questo, tanto più coinvolgente e degno di essere imitato. Se il Valentino fallì, ciò avvenne solo per un’«estrema malignità di fortuna»; e poi perché
un errore, uno soltanto ma fatale, fu commesso da Cesare Borgia stesso.
De principatibus novis qui alienis armis et fortuna acquiruntur1
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Coloro e’ quali solamente per fortuna diventano di privati principi, con poca fatica diventono, ma con assai si mantengono; e non hanno alcuna difficultà fra via, perché
vi volano: ma tutte le difficultà nascono quando e’ sono posti2. E questi tali sono quando è concesso ad alcuno uno stato o per danari o per grazia di chi lo concede3: come
intervenne a molti in Grecia nelle città di Ionia e di Ellesponto, dove furno fatti principi da Dario, acciò le tenessino per sua sicurtà e gloria4; come erano fatti ancora quelli imperadori che di privati, per corruzione de’ soldati, pervenivano allo imperio5.
Questi stanno semplicemente in su la volontà e fortuna di chi lo ha concesso
loro, che sono dua cose volubilissime e instabili, e non sanno e non possono tenere quello grado6: non sanno, perché s’e’ non è uomo di grande ingegno e virtù,
non è ragionevole che, sendo vissuto sempre in privata fortuna, sappia comanda-
1. De principatibus... acquiruntur: ‘Sui principati nuovi che s’acquistano con l’esercito e la
fortuna di altri’.
2. Coloro... posti: ‘Quelli che da privati cittadini diventano principi solo grazie alla fortuna, lo
diventano con poca fatica; ma ne fanno molta
a mantenersi al potere; non incontrano alcuna
difficoltà durante l’impresa per la conquista
(fra via), perché volano al potere (vi volano); ma
tutte le difficoltà insorgono quando essi (e’)
vengono messi al potere’.
3. E questi... concede: ‘E questi (che diventano principi da privati cittadini) sono coloro ai
quali è stato concesso uno Stato o per denaro
o per dono di chi lo concede’.
4. come intervenne... gloria: ‘come successe
a molti (principi) nelle città greche dell’Asia
minore e dell’Ellesponto, dove Dario fece molti principi, affinché le amministrassero per rendere solido e prestigioso il suo regno’ (sua
sicurtà e gloria, sua di Dario)’. L’imperatore persiano Dario (521-485 a.C.) aveva diviso il suo
regno in regni affidati a principi a lui devoti
(satrapi). Tali regni, detti satrapie, comprendevano le città greche dell’Asia minore (Ionia) e lo
Stretto dei Dardanelli (Ellesponto).
5. come erano fatti... imperio: ‘come erano
nominati anche quegli imperatori che, da privati cittadini, salivano al potere corrompendo i soldati (per corruzione de’ soldati)’. Machiavelli si riferisce qui agli imperatori romani del III secolo
d.C., dalla fine della famiglia imperiale degli Antonini sino a Diocleziano (193-284 d.C.).
6. Questi... grado: ‘Questi si fondano semplicemente sulla volontà e sulla fortuna di chi ha
concesso loro il potere, due cose volubilissime
e instabili, e non sono capaci di mantenere e
non possono mantenere quella posizione di
potere’.
ANTOLOGIA
T96
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re7; non possono, perché non hanno forze che gli possino essere amiche e fedeli8.
Di poi gli stati che vengono subito, come tutte l’altre cose della natura che nascono e crescono presto, non possono avere le barbe e correspondenzie loro in modo
che il primo tempo avverso non le spenga, – se già quelli tali, come è detto, che
sì de repente sono diventati principi non sono di tanta virtù che quello che la fortuna ha messo loro in grembo e’ sappino subito prepararsi a conservarlo, e quelli
fondamenti, che gli altri hanno fatti avanti che diventino principi, gli faccino poi9.
Io voglio all’uno e l’altro di questi modi detti, circa il diventare principe per virtù
o per fortuna, addurre dua esempli stati ne’ dì della memoria nostra10: e questi sono
Francesco Sforza11 e Cesare Borgia12. Francesco, per li debiti mezzi13 e con una
grande sua virtù, di privato diventò duca di Milano; e quello che con mille affanni
aveva acquistato, con poca fatica mantenne. Da l’altra parte, Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo stato con la fortuna del padre e con
quella lo perdé14, non ostante che per lui si usassi ogni opera e facessinsi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare per mettere le barbe
sua in quelli stati che l’arme e fortuna di altri gli aveva concessi15. Perché, come di
sopra si disse, chi non fa e’ fondamenti prima, gli potrebbe con una grande virtù
farli poi, ancora che si faccino con disagio dello architettore e periculo dello edifizio16. Se adunque si considerrà tutti e’ progressi del duca, si vedrà lui aversi fatti
grandi fondamenti alla futura potenza; e’ quali non iudico superfluo discorrere perché io non saprei quali precetti mi dare migliori, a uno principe nuovo, che lo esemplo delle azioni sue: e se gli ordini sua non gli profittorno, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna17.
Aveva Alessandro VI18, nel volere fare grande il duca suo figliuolo, assai difficultà
7. non sanno... comandare: ‘non sono capaci,
perché a meno che il principe (e’, ‘egli’) non sia
uomo di grande ingegno e capacità, non è possibile che, essendo sempre vissuto da privato
cittadino, sappia comandare’. L’eccezione a
questa regola, nel seguito del capitolo, sarà
per l’appunto il caso del duca Valentino.
8. non possono... fedeli: ‘non possono, perché non hanno forze che possano essere per
loro alleati fedeli’.
9. Di poi... faccino poi: ‘Inoltre gli Stati che sorgono all’improvviso, come tutte le altre cose
presenti in natura che nascono e crescono
velocemente, non possono avere le radici (barbe) e le ramificazioni sotterranee (correspondenzie) tali da evitare la loro morte alla prima
tempesta (in modo che il primo tempo avverso
non le spenga); a meno che (se già), come già
si è detto, coloro i quali così all’improvviso
sono diventati principi non abbiano tanta capacità politica da sapersi subito predisporre (sappino subito prepararsi) a conservare ciò che la
sorte ha offerto a loro con facilità (ha messo
loro in grembo), e (a meno che) non gettino,
dopo la presa del potere (poi), quelle fondamenta che gli altri principi hanno costruito, prima di diventare tali’. – fondamenti: sono le basi
che rendono stabile un edificio: la metafora
implicita è quella dello Stato come palazzo da
costruire. Per la seconda volta in poche righe,
Machiavelli insiste accanitamente sull’eccezione alla regola: la possibilità di rifondare dall’interno con la virtù uno Stato nato fragile con la
fortuna (come cercò di fare il Valentino).
10. Io voglio... nostra: ‘Io voglio all’uno e all’altro di questi due modi appena visti – il principe
che diventa tale grazie alla sua virtù e quello che
diventa tale grazie alla fortuna – accludere (all’uno e l’altro... addurre) due esempi accaduti nei
nostri tempi’, ossia ‘vivi nella nostra memoria’.
11. Francesco Sforza: il fondatore della signoria degli Sforza a Milano, già ricordato nel capitolo I.
12. Cesare Borgia: come si è già detto, Cesare Borgia (1475-1507) era il figlio del papa spagnolo Alessandro VI (Rodrigo Borgia). Fu nominato arcivescovo di Valencia nel 1492 e poi, nel
1498, gonfaloniere della Chiesa (cioè comandante dell’esercito pontificio). In seguito ricevé
dal re di Francia il ducato di Valentinois, donde
il titolo di Valentino. Con l’appoggio del padre
creò uno Stato personale in Romagna e in Montefeltro (territorio di Urbino), terra da tempo
divisa fra varie signorie locali. Machiavelli ebbe
di questo Stato una conoscenza diretta, dal
momento che vi si recò due volte come osservatore della Repubblica fiorentina.
13. per li debiti mezzi: ‘con gli stumenti dovuti, necessari’.
14. acquistò... perdé: ‘conquistò lo Stato grazie alla fortuna di cui godeva il padre e lo perse quando tale fortuna (con quella) venne
meno’.
15. non ostante che... concessi: ‘nonostante
che da parte sua (per lui) sia stato usato (si usassi) ogni mezzo e si sia fatto (facessinsi) tutto ciò
che doveva esser fatto da un uomo previdente
e capace (prudente e virtuoso) per rendere so-
lidi (mettere le barbe... in) quegli Stati che gli
eserciti (l’arme) e la fortuna di altri gli avevano
concesso (di conquistare)’. – mettere le barbe:
letteralmente, ‘mettere radici’. Machiavelli riprende la metafora usata qualche riga sopra:
non possono avere le barbe e correspondenzie
loro.
16. ancora che... edifizio: ‘sebbene (queste
fondamenta) si facciano con difficoltà del principe (architettore) e rischi per lo Stato (edifizio)’.
Dopo la metafora vegetale delle barbe, Machiavelli riprende l’altra metafora usata in precedenza, tratta dall’architettura: lo Stato come edificio
che ha bisogno di solide fondamenta.
17. Se adunque... fortuna: ‘Se dunque si considereranno tutti i modi di procedere (progressi,
comportamenti politici) del duca (il Valentino),
ci si renderà conto che lui aveva costruito solide fondamenta per il suo potere futuro; le (e’)
quali io non ritengo inutile esaminare (discorrere) perché non saprei quali migliori istruzioni
(precetti) dare da parte mia (mi), a un nuovo
principe, che l’esempio delle sue azioni: e se i
suoi metodi non gli furono utili (profittorno), non
fu per colpa sua, dal momento che ciò (il fallimento) derivò da un’anomala ed estrema malvagità della sorte (papa Alessandro VI, padre
del Valentino, morì proprio mentre quest’ultimo
era malato). – mi dare: è fiorentinismo della lingua parlata.
18. Alessandro VI: Rodrigo Borja (italianizzato
Borgia), nato nel 1431 a Valencia in Spagna;
eletto papa nel 1492 con il nome di Alessandro
VI; morto nel 1503.
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14. Niccolò Machiavelli
Cesare Borgia non era soltanto un
avventuriero intelligente e senza
scrupoli, ma anche un diplomatico
accorto e un capace amministratore
delle terre di Romagna, da lui
conquistate ai danni di piccoli signori
locali. L’illusione che il suo Stato
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potesse essere il primo nucleo di una
più vasta entità politica indusse
Machiavelli, che l’aveva incontrato a
Imola e a Urbino nell’ottobre 1502, a
ispirarsi alle sue imprese per tracciare
un compiuto ritratto del principe
ideale.
presenti e future. Prima, e’ non vedeva via di poterlo fare signore di alcuno stato che non fussi stato di Chiesa19: e, volgendosi a tòrre quello della Chiesa, sapeva
40 che il duca di Milano e ’ viniziani non gliene consentirebbono20, perché Faenza e Rimino erano di già sotto la
protezione de’ viniziani. Vedeva oltre a questo l’arme di
Italia, e quelle in spezie di chi si fussi potuto servire, essere nelle mani di coloro che dovevano temere la gran45 dezza del papa, – e però non se ne poteva fidare, – sendo tutte nelli Orsini e Colonnesi e loro complici21. Era
adunque necessario si turbassino quelli ordini e disordinare gli stati di Italia, per potersi insignorire sicuramente di parte di quelli22. Il che gli fu facile, perché e’ trovò e’
viniziani che, mossi da altre cagioni, si erano volti a fare ripassare e’ franzesi in Italia: il che non solamente non contradisse, ma lo fe’ più facile con la resoluzione del
matrimonio antico del re Luigi23.
Passò adunque il re in Italia con lo aiuto de’ viniziani e consenso di Alessandro:
né prima fu in Milano che il papa ebbe da lui gente per la impresa di Romagna, la
quale gli fu acconsentita per la reputazione del re24. Acquistata adunque il duca la
Romagna e sbattuti e’ Colonnesi, volendo mantenere quella e procedere più avanti, lo impedivano dua cose25: l’una, le arme sua che non gli parevano fedeli; l’altra,
la volontà di Francia; cioè che l’arme Orsine, delle quali si era valuto, gli mancassino sotto, e non solamente gl’impedissino lo acquistare ma gli togliessino lo acqui-
19. non fussi... Chiesa: ‘non facesse parte dello Stato della Chiesa (che comprendeva Lazio,
Umbria, Bologna, Romagna e Marche)’.
20. volgendosi... consentirebbono: ‘se si fosse risolto a impadronirsi dei beni della Chiesa,
sapeva che il duca di Milano e i veneziani non
glielo avrebbero consentito’. Lo Stato della
Chiesa non era unitario: sussistevano al contrario forti autonomie locali, che impedivano al
papa di disporre a suo piacere all’interno dei
vari sotto-Stati (come le città della Romagna).
Forlì e Pesaro erano sotto la protezione del
duca di Milano Ludovico il Moro, figlio di Francesco Sforza. Faenza e Rimini, come si dice
subito dopo, erano invece sotto la protezione
della Repubblica di Venezia.
21. Vedeva... complici: ‘Oltre a questo vedeva
che le milizie mercenarie disponibili in Italia (l’arme di Italia), e quelle in particolare delle quali si
sarebbe potuto servire, erano nelle mani di coloro i quali dovevano temere la grandezza del
papa (cioè dei suoi avversari) – e perciò non se
ne poteva fidare – essendo tutte nelle mani de-
gli Orsini e dei Colonna e dei loro alleati (complici)’. Orsini e Colonna sono antiche e potenti famiglie romane nemiche dei Borgia.
22. Era adunque... di quelli: ‘Era dunque
necessario che fossero turbati gli equilibri e
che fossero trasformati gli Stati italiani, per
potersi impadronire senza rischi (insignorire
sicuramente) di una parte di quegli Stati’.
23. perché... re Luigi: ‘perché egli (e’, Alessandro) trovò i veneziani, che, spinti da altre motivazioni, con un cambio di politica si erano risolti a far tornare i francesi in Italia: cosa che (Alessandro) non contrastò, ma agevolò con lo scioglimento del precedente matrimonio di Luigi
(re di Francia)’. Interessati a occupare parte
della Lombardia (mossi da altre cagioni), i veneziani nel 1499 avevano preso accordi col re di
Francia, anch’egli interessato alla Lombardia
(Machiavelli dice fare ripassare i francesi, perché pochi anni prima, nel 1494, l’esercito francese di Carlo VIII aveva già attraversato la penisola per occupare il Regno di Napoli). Alessandrò VI facilitò l’alleanza fra Venezia e Luigi XII,
sciogliendo il matrimonio che legava quest’ultimo con Giovanna di Francia e consentendo il
nuovo matrimonio con la vedova di Carlo VIII,
Anna di Bretagna. Così facendo, Alessandro VI
si assicurò l’appoggio dei francesi.
24. né prima... del re: ‘e il re non era ancora
giunto (né prima fu) a Milano, che il papa aveva
(già) ricevuto da lui milizie (gente) per l’impresa in Romagna (cioè per la conquista della
Romagna); impresa che gli fu consentita (dai
veneziani) grazie al prestigio del re’. Luigi XII
scese in Italia nell’ottobre del 1499; già nel
novembre successivo il Valentino iniziò la conquista della Romagna con un esercito mercenario in buona parte fornito dal re francese.
25. Acquistata... cose: ‘Dopo che il duca ebbe
conquistato la Romagna e debellati (sbattuti) i
Colonna, se voleva conservare quella regione
e continuare (la conquista) (procedere più
avanti), glielo impedivano due cose’. Da qui in
poi il protagonista della vicenda narrata è il
figlio di Alessandro VI, il “principe nuovo” Cesare Borgia.
ANTOLOGIA
Ritratto di Cesare Borgia
[Museo di Palazzo Venezia, Roma]
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stato, e che il re ancora non li facessi il simile26. Delli Orsini ne ebbe uno riscontro
quando, dopo la espugnazione di Faenza, assaltò Bologna, che gli vidde andare
freddi in quello assalto; e circa il re conobbe lo animo suo quando, preso el ducato d’Urbino assaltò la Toscana: da la quale impresa il re lo fece desistere27.
Onde che28 il duca deliberò di non dependere più da le arme e fortuna d’altri; e,
la prima cosa, indebolì le parte Orsine e Colonnese in Roma29: perché tutti gli aderenti loro, che fussino gentili uomini, se gli guadagnò, faccendoli suoi gentili uomini e dando loro grandi provisioni, e onorògli, secondo le loro qualità, di condotte e
di governi: in modo che in pochi mesi negli animi loro l’affezione delle parti si spense e tutta si volse nel duca30. Dopo questo, aspettò la occasione di spegnere e’ capi
Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna: la quale gli venne bene, e lui la usò
meglio31. Perché, avvedutosi gli Orsini tardi che la grandezza del duca e della Chiesa era la loro ruina feciono una dieta alla Magione nel Perugino32; da quella nacque la ribellione di Urbino, e’ tumulti di Romagna e infiniti periculi del duca, e’ quali tutti superò con l’aiuto de’ franzesi33. E ritornatoli la reputazione, né si fidando
di Francia né di altre forze esterne, per non le avere a cimentare si volse alli inganni34; e seppe tanto dissimulare l’animo suo che li Orsini medesimi, mediante il
signore Paulo, si riconciliorno seco, – con il quale il duca non mancò d’ogni ragione di offizio per assicurarlo, dandoli danari veste e cavalli, – tanto che la simplicità
loro gli condusse a Sinigaglia nelle sua mani35.
Spenti adunque questi capi e ridotti e’ partigiani loro sua amici, aveva il duca gittati assai buoni fondamenti alla potenza sua, avendo tutta la Romagna col ducato di
Urbino, parendoli massime aversi acquistata amica la Romagna e guadagnatosi quelli populi per avere cominciato a gustare il bene essere loro36. E perché questa parte è
degna di notizia e da essere da altri imitata, non la voglio lasciare indreto37. Presa che
26. cioè che... simile: ‘(il duca temeva) cioè
che le milizie degli Orsini, di cui si era servito (si
era valuto), defezionassero (gli mancassino sotto), e non solo gli impedissero di conquistare
(nuovi domìni), ma lo privassero di quanto aveva già conquistato, e che anche (ancora) il re
(Luigi XII) non facesse lo stesso (non li facessi il
simile)’, cioè ‘venisse meno ai patti’.
27. Delli... desistere: ‘Degli Orsini ebbe una
prova (riscontro) quando, dopo la presa di
Faenza, attaccò Bologna (aprile 1500), poiché
li vide andare a quell’attacco privi di determinazione (freddi), e riguardo al re conobbe il suo
intendimento (animo) quando, dopo aver preso
il Ducato di Urbino, attaccò la Toscana; impresa dalla quale il re lo fece desistere’. Nel 1502
il Valentino, dopo la conquista di Urbino, provò
ad ampliare il suo regno muovendo contro la
Toscana, ma Luigi XII, che era alleato di Firenze, lo impedì.
28. Onde che: ‘Cosicché’.
29. la prima... Roma: ‘per prima cosa indebolì
le fazioni (parte) degli Orsini e dei Colonna a
Roma’.
30. perché tutti... nel duca: ‘perché (spiega in
che modo indebolì le fazioni) si guadagnò il favore di tutti i loro sostenitori, che fossero nobili
(gentili uomini), nominandoli nobili nel proprio
regno e dando loro ricchi stipendi (grandi provisioni), e li gratificò (onorògli), ognuno secondo
il proprio grado, con comandi di eserciti (condotte) e incarichi di governo (governi): così che
in pochi mesi nei loro animi il loro attacamento
(l’affezione) alle fazioni (dei Colonna e degli Orsini) si spense e fu tutto rivolto al duca’.
31. aspettò... meglio: ‘aspettò l’occasione di
eliminare fisicamente (spegnere) i capi degli Orsini, avendo già in precedenza disperso le forze
dei Colonna, occasione che gli giunse al momento giusto e che lui seppe usare al meglio’.
32. Perché... Perugino: ‘E questo perché, accortisi in ritardo gli Orsini che la grandezza del
duca e della Chiesa era la loro rovina (ruina), fecero una riunione alla Magione, villaggio nel territorio di Perugia (nel Perugino)’. – dieta: letteralmente un’adunanza che dura un giorno (dal latino dies, giorno); in realtà la riunione degli Orsini
durò dal 24 settembre all’8 ottobre del 1502.
33. da quella... franzesi: Machiavelli allude alle
rivolte avvenute alla fine del 1502 all’interno del
Regno di Romagna, fomentate dagli Orsini e piegate dal duca con l’aiuto dei francesi.
34. E ritornatoli... inganni: ‘E recuperata la
propria autorità, non fidandosi né della Francia
né di altre forze straniere, per non dover sperimentare la loro fedeltà (per non le avere a
cimentare), ricorse (si volse) all’inganno’.
35. seppe... mani: ‘(il duca) seppe tanto ben
dissimulare il proprio animo che gli stessi Orsini, tramite Paolo, della loro famiglia (il signore
Paulo), si riconciliarono con lui (seco) – e con
lui usò ogni genere (ragione) di cortesia (offizio) per rassicurarlo, facendogli dono di denari, vesti e cavalli, – tanto che la loro stupidità
(simplicità) li fece cadere nelle sue mani a Senigallia’. Il 25 ottobre 1502 Paolo Orsini andò a
Imola per trattare la pace col Valentino; il 31
dicembre 1502 il Valentino fece arrestare e
uccidere i condottieri ribelli a Senigallia, dove li
aveva invitati per ratificare la pace. Quest’episodio di ferocia politica, che non riceve alcuna
condanna morale e viene anzi additato a
modello, era già stato analizzato da Machiavelli in una sua relazione: Descrizione del modo
tenuto dal duca Valentino nello ammazzare
Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor
Pagolo e il duca di Gravina Orsini (1503).
36. Spenti... loro: ‘Uccisi dunque questi capifazione e resi a sé favorevoli (sua amici) i loro
sostenitori, il duca aveva gettato basi assai
buone per il suo Stato, poiché teneva tutta la
Romagna con il Ducato di Urbino, e soprattutto (massime) perché gli pareva di essersi conquistata l’amicizia della Romagna e di essersi
guadagnato il favore di quei popoli, per il fatto
che avevano cominciato a gustare il benessere’ (il benessere garantito dal buon governo
del Valentino). – per avere cominciato: infinito sostantivato con valore causale.
37. E perché... indreto: ‘E poiché questa parte
(della sua opera politica) è degna di essere conosciuta (degna di notizia) e di essere imitata da
altri, non la voglio tralasciare (lasciare indreto)’.
Prima di continuare a trattare i nemici esterni allo Stato del Valentino (la Francia), Machiavelli
apre una sotto-sezione di politica interna.
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ebbe il duca la Romagna e trovandola suta comandata da signori impotenti, – e’ quali più presto avevano spogliati e’ loro sudditi che corretti, e dato loro materia di disunione, non d’unione, – tanto che quella provincia era tutta piena di latrocini, di brighe e d’ogni altra ragione di insolenzia, iudicò fussi necessario, a volerla ridurre pacifica e ubbidiente al braccio regio, dargli buono governo: e però vi prepose messer
Rimirro de Orco, uomo crudele ed espedito, al quale dette plenissima potestà38. Costui in poco tempo la ridusse pacifica e unita, con grandissima reputazione39. Di poi
iudicò il duca non essere necessaria sì eccessiva autorità perché dubitava non divenissi odiosa, e preposevi uno iudizio civile nel mezzo della provincia, con uno presidente eccellentissimo, dove ogni città vi aveva lo avvocato suo40. E perché conosceva le rigorosità passate avergli generato qualche odio, per purgare li animi di quelli
populi e guadagnarseli in tutto, volse mostrare che, se crudeltà alcuna era seguita,
non era causata da lui ma da la acerba natura del ministro41. E presa sopra a questo
occasione, lo fece, a Cesena, una mattina mettere in dua pezzi in su la piazza, con uno
pezzo di legne e uno coltello sanguinoso accanto: la ferocità del quale spettaculo fece quegli popoli in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi42.
Ma torniamo donde noi partimmo43. Dico che, trovandosi il duca assai potente e
in parte assicurato de’ presenti periculi, per essersi armato a suo modo e avere in buona parte spente quelle arme che, vicine, lo potevano offendere, gli restava, volendo
procedere collo acquisto, el respetto del re di Francia44: perché conosceva come dal
re, il quale tardi s’era accorto dello errore suo, non gli sarebbe sopportato45. E cominciò per questo a cercare di amicizie nuove e vacillare con Francia, nella venuta che ’
franzesi feciono verso el regno di Napoli contro alli spagnuoli che assediavano Gaeta; e lo animo suo era assicurarsi di loro: il che gli sarebbe presto riuscito, se Alessandro viveva46. E questi furno e’ governi sua47, quanto alle cose presenti.
38. Presa... potestà: ‘Dopo la conquista della
Romagna, vedendo che era stata amministrata
(suta comandata) da signori incapaci – i quali
avevano derubato i loro sudditi piuttosto (più
presto) che governarli (corretti), e avevano
dato loro (ai sudditi) motivo (materia) di disunione anziché di unione –, di modo che quella
regione (provincia, latinisimo) era ovunque piena di furti, di scontri violenti (brighe) e di ogni
altro genere di abuso (insolenzia), ritenne
necessario, per renderla pacifica e sottomessa
all’autorità del principe (al braccio regio), darle
un buon governo: e perciò vi mise a capo il
signor Rimirro de Orco, uomo crudele e risoluto (espedito), al quale diede potere assoulto
(plenissima potestà)’. – Rimirro de Orco: Ramiro de Lorqua, spagnolo come il Valentino, fu
fatto governatore della Romagna nel 1501; nelle assenze del duca disponeva di poteri larghissimi.
39. Costui... reputazione: ‘Questi in poco tempo la pacificò e la fece diventare unita, con
grandissima autorità (reputazione)’.
40. iudicò... avvocato suo: ‘il duca ritenne che
non era necessario un potere a tal punto illimitato (sì eccessiva autorità), perché temeva che
diventasse odioso, e allora istituì un tribunale
nel bel mezzo della regione (a Cesena), con un
presidente meritevolissimo, nel quale (tribunale) ogni città aveva un suo rappresentante
(avvocato)’. Si allude al Tribunale della Rota,
una magistratura civile centralizzata avente
sede a Cesena, nel cuore della Romagna: fu
fondata nell’ottobre del 1502 e presieduta da
Antonio dal Monte.
41. E perché... ministro: ‘E poiché sapeva che
i precedenti eccessi di rigore (dovuti a Rimirro
de Orco) avevano suscitato qualche odio nei
suoi confronti (suoi del duca), per liberare (dall’odio) gli animi di quei popoli e guadagnarsi
completamente il loro favore, volle dimostrare
che, se c’era stata qualche crudeltà, questa
non era stata causata da lui, ma dall’indole efferata (acerba natura) del governatore (del ministro)’, cioè di Rimirro de Orco. – era seguita:
letteralmente: ‘si era verificata’.
42. E presa... stupidi: ‘E cogliendo l’occasione
da questo (questo è il malcontento della popolazione appena descritto), una mattina, sulla piazza a Cesena, lo fece esporre decapitato, con accanto un ceppo e una mannaia insanguinata, e la
ferocia (ferocità) di questo spettacolo lasciò
quelle popolazioni soddisfatte e sbigottite (satisfatti e stupidi) nello stesso tempo (in uno tempo)’. La caduta di Rimirro de Orco fu repentina.
La sua decapitazione ebbe luogo il 26 dicembre
del 1502. Anche di questi fatti Machiavelli fu testimone diretto e ne redasse una relazione.
43. Ma... partimmo: ‘Ma torniamo al punto di
partenza’. Si chiude l’excursus sul buon governo del duca e sugli affari interni. L’attenzione
torna ora agli affari esteri: al secondo ostacolo
del Valentino, la Francia (il primo, già debellato, erano gli Orsini e i Colonna).
44. Dico che... Francia: ‘Dico che il duca, trovandosi assai potente e in parte riparato dai
pericoli immediati, dal momento che si era
dotato di un esercito tale quale lo voleva (a suo
modo, ossia un esercito fedele) e aveva in buona parte debellato quegli eserciti che lo avrebbero potuto colpire, se fossero rimasti vicini
(vicine, predicativo dell’oggetto), gli restava,
volendo procedere nella conquista, il timore
verso il re di Francia’, ossia: ‘che Luigi XII si
opponesse’.
45. perché... sopportato: ‘perché capiva che
il re, il quale tardi si era accorto del suo errore
(aver aiutato il Valentino a fondare il suo Stato
personale), non avrebbe tollerato (sottinteso
‘ulteriori conquiste’)’.
46. cominciò... viveva: ‘cominciò per questo
motivo a cercare nuove alleanze (amicizie) e a
tentennare (cioè a sottrarsi all’alleanza) con la
Francia in occasione della spedizione (venuta)
dei francesi nel Regno di Napoli contro gli spagnoli che assediavano Gaeta; e la sua intenzione (animo suo) era di tutelarsi nei loro confronti (rendersi inattaccabile dai francesi), il che gli
sarebbe in breve riuscito, se Alessandro non
fosse morto (proprio allora)’. Francia e Spagna
si stavano contendendo il Regno di Napoli e l’Italia era teatro dei loro scontri. Alessandro VI e
il Valentino presero accordi segreti con la Spagna, tradendo la Francia con la quale erano
stati alleati fino a quel momento. Proprio nel
corso delle trattative, Alessandro VI morì contro ogni aspettativa (18 agosto 1503). Questa
morte segnò il declino del potere del figlio, proprio nel momento in cui aveva quasi terminato
la rifondazione del suo regno.
47. e’ governi sua: ‘la sua condotta’.
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Ma quanto alle future, lui aveva a dubitare in prima che uno nuovo successore alla Chiesa non gli fussi amico e cercassi torgli quello che Alessandro li aveva dato48.
Di che pensò assicurarsi in quattro modi: prima, di spegnere tutti e’ sangui di quelli
signori che lui aveva spogliati, per tòrre al papa quella occasione; secondo, di guadagnarsi tutti e’ gentili uomini di Roma, come è detto, per potere con quelli tenere il
papa in freno; terzo, ridurre il Collegio più suo che poteva; quarto, acquistare tanto
imperio, avanti che il papa morissi, che potessi per sé medesimo resistere a uno primo impeto49. Di queste quattro cose, alla morte di Alessandro ne aveva condotte tre,
la quarta aveva quasi per condotta50: perché de’ signori spogliati ne ammazzò quanti ne possé aggiugnere e pochissimi si salvorno, e’ gentili uomini romani si aveva guadagnati, e nel Collegio aveva grandissima parte; e quanto al nuovo acquisto, aveva
disegnato diventare signore di Toscana e possedeva di già Perugia e Piombino, e di
Pisa aveva presa la protezione51. E come e’ non avessi avuto ad avere rispetto a Francia, – che non gliene aveva ad avere più, per essere di già e’ franzesi spogliati del Regno da li spagnuoli: di qualità che ciascuno di loro era necessitato comperare l’amicizia sua, – e’ saltava in Pisa52. Dopo questo, Lucca e Siena cedeva subito, parte per
invidia de’ fiorentini, parte per paura; e’ fiorentini non avevano rimedio53. Il che se
gli fussi riuscito, – che gli riusciva l’anno medesimo che Alessandro morì, – si acquistava tante forze e tanta reputazione che per sé stesso si sarebbe retto e non sarebbe
più dependuto da la fortuna e forze di altri, ma da la potenza e virtù sua54.
Ma Alessandro morì dopo cinque anni che egli aveva cominciato a trarre fuora
la spada55: lasciollo con lo stato di Romagna solamente assolidato, con tutti li altri
in aria, in fra dua potentissimi eserciti inimici e malato a morte56. Ed era nel duca
tanta ferocità e tanta virtù, e sì bene conosceva come li uomini si hanno a guadagnare o perdere, e tanto erano validi e’ fondamenti che in sì poco tempo si aveva
fatti, che s’e’ non avessi avuto quelli eserciti addosso, o lui fussi stato sano, arebbe
retto a ogni difficultà57.
E che e’ fondamenti sua fussino buoni, si vidde58: che la Romagna lo aspettò più
48. lui aveva... dato: ‘egli doveva temere anzitutto (in prima) che un nuovo pontefice, successore di Alessandro, non gli fosse amico e
cercasse di sottrargli quello (Stato) che Alessandro gli aveva concesso’. Si ricordi che lo
Stato del Valentino è uno Stato nuovo interno
allo Stato della Chiesa.
49. Di che... impeto: ‘E da questo (Di che) pensò a tutelarsi in quattro modi: per prima cosa
eliminare tutti i consanguinei di quei nobili che
aveva privato (dei loro possedimenti), per
togliere (per tòrre) al nuovo papa quella opportunità (di restituire loro i territori legittimi);
come seconda cosa guadagnarsi il favore di
tutti i nobili (e’ gentili uomini) di Roma, come si
è gia detto, per controllare il (nuovo) papa (tramite l’influenza delle famiglie nobili); come terza cosa rendere a sé favorevole (ridurre... suo)
quanto più possibile il Collegio dei cardinali;
come quarta cosa acquistare tanto potere, prima che il papa (Alessandro) morisse, da poter
resistere a un primo assalto (impeto) con le sue
sole forze’, ossia ‘ampliare a tal punto il suo territorio così da rendersi inattaccabile’.
50. Di queste... condotta: ‘Di queste quattro
cose alla morte di Alessandro ne aveva attuate
(condotte) tre e la quarta riteneva di averla
quasi attuata’.
51. perché... protezione: ‘perché dei signori
che aveva privato dei loro beni (spogliati) ne ammazzò quanti poté catturare (aggiugnere, letteralmente: ‘raggiungere, acciuffare’) e pochissimi
se ne salvarono, i nobili romani li aveva attirati a
sé (si aveva guadagnati), e nel Collegio dei cardinali moltissimi erano dalla sua parte; e quanto all’acquisizione di nuovi territori (nuovo acquisto)
aveva progettato (disegnato) di diventare signore della Toscana e possedeva già Perugia e
Piombino, e Pisa era sotto la sua protezione’.
52. E come... Pisa: ‘E non appena fosse stato nella condizione di non avere alcun timore della Francia (avere rispetto a Francia) – timore che non doveva avere più, visto che i francesi erano già stati
privati del Regno (di Napoli) dagli spagnoli: di modo che (di qualità che) l’uno e l’altro di loro (francesi e spagnoli) era costretto a comprare la sua alleanza –, avrebbe assaltato (saltava in) Pisa’.
53. Lucca... rimedio: ‘Lucca e Siena avrebbero
ceduto subito, in parte per odio verso i fiorentini e in parte per paura (verso il duca), e i fiorentini non avrebbero avuto scampo (rimedio)’.
Machiavelli continua a dedurre gli eventi a partire da alcune premesse, immaginando una
storia che non si è potuta dare a causa del
potere della fortuna.
54. si acquistava... virtù sua: ‘avrebbe acqui-
stato tanta forza e autorità, che si sarebbe difeso con le sue sole forze, e non sarebbe più dipeso (dependuto) dalla fortuna e dalle forze di altri,
ma dalla sua forza e dalla sua capacità politica’.
55. dopo... spada: ‘dopo cinque anni che egli
(il duca) aveva sguainato la spada’, ossia (fuor
di metafora): ‘aveva cominciato a combattere
per uno Stato’. Machiavelli calcola i cinque anni
a partire dall’agosto 1498, anno in cui il Valentino era stato nominato gonfaloniere della
Chiesa. Esattamente cinque anni dopo, nell’agosto 1503, morì Alessandro.
56. lasciollo... morte: ‘(Alessandro) lasciò il
figlio (lo) con il solo Stato di Romagna consolidato (assolidato), con tutti gli altri ancora poco
consistenti (in aria), fra due potentissimi eserciti nemici (Francia e Spagna) e malato a
rischio di morte’.
57. Ed era... difficultà: ‘Eppure c’era nel duca
tanta fierezza e capacità politica, e lui sapeva
così bene che ci si deve rendere amici (guadagnare) gli uomini oppure annientarli (perdere),
ed erano tanto solide le basi che in così poco
tempo si era costruito, che se non avesse avuto
quegli eserciti addosso, o non si fosse ammalato, avrebbe saputo far fronte a ogni difficoltà’.
58. si vidde: ‘si vide bene’, ossia: ‘fu chiaro a
tutti’.
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59. la Romagna... mese: le città della Romagna rifiutavano di tornare sotto il controllo
diretto del papa; cedettero solo quando il
Valentino fu fatto prigioniero (dicembre 1503).
60. in Roma... contro di lui: ‘a Roma, sebbene
fosse gravemente malato (mezzo vivo), non
corse pericoli e, sebbene i Baglioni, i Vitelli e gli
Orsini (le famiglie che aveva combattuto) fossero venuti a Roma, non trovarono alleati
(séguito) contro di lui’.
61. possé... non voleva: ‘poté, se non far eleggere papa chi egli voleva, almeno evitare
(fare... ch’e’ non fussi) chi non voleva’. Si allude
a Pio III, non ostile al Valentino, ma per sua
«malignità di fortuna» morto solo un mese
dopo essere stato creato. Subito dopo infatti fu
creato papa Giuliano della Rovere, che si
sarebbe rivelato nemico del Valentino.
62. Ma se... facile: ‘Ma, se al momento della
morte di Alessandro, egli (il Valentino) fosse
stato sano, ogni cosa gli sarebbe stata facile’.
63. e lui... morire: ‘e lui mi disse, nei giorni che fu
eletto papa Giulio II, che aveva pensato a ciò che
sarebbe potuto accadere se il padre fosse morto, e a tutto aveva trovato rimedio, tranne che
non pensò mai che sarebbe stato anche lui sul
punto di morire al momento della morte del padre’. Dopo il brevissimo pontificato di Pio III, nel
novembre del 1503 fu eletto papa Giuliano della
Rovere (1443-1513) con il nome di Giulio II. Per
diventare papa aveva fatto fronte all’astuzia del
Valentino con le armi dell’astuzia: si era garantito i voti dei cardinali spagnoli, promettendo al du-
ca la restituzione del suo grado (gonfaloniere
della Chiesa) e dei suoi possedimenti in Romagna; dopo l’elezione a pontefice non mantenne
la parola e procurò la rovina del Borgia. Machiavelli fa riferimento a una testimonianza diretta,
ossia ai colloqui privati tenuti col Valentino (probabilmente a Roma, quando vi fu inviato per seguire il conclave, nell’autunno-inverno del 1503).
64. Raccolte... imperio: ‘Raccontate dunque
le gesta del duca, non saprei come biasimarlo,
anzi, ritengo opportuno, come ho fatto, proporlo come un esempio da imitare per tutti coloro
che sono saliti al potere con la fortuna e con gli
eserciti altrui’.
65. perché... altrimenti: ‘perché, avendo l’animo ardente (grande) e progetti ambiziosi (la
sua intenzione alta), non si poteva comportare
altrimenti (governare altrimenti)’.
66. Chi adunque... di costui: ‘Chi dunque ritiene necessario nel suo principato di nuova acquisizione tutelarsi dai (assicurarsi delli) nemici,
guadagnarsi degli alleati; vincere o con la forza
o con l’inganno (fraude); farsi amare e temere
dalle popolazioni, farsi obbedire e rispettare dai
soldati; uccidere quelli che ti possono o ti devono danneggiare; rinnovare gli ordinamenti antichi creando nuove istituzioni; essere severo e insieme gradito, magnanimo e generoso (liberale); disfarsi della milizia infedele e crearne della
nuova; conservare le alleanze di re e principi in
modo che essi ti favoriscano cortesemente (con
gratia) o esitino nel danneggiarti (offendere con
respetto, letteralmente: ‘attaccare con esitazio-
ne’); non può trovare esempi più recenti (freschi)
delle azioni di questi (cioè del Valentino)’.
67. Solamente... elezione: ‘L’unico errore che
gli si può imputare è l’elezione di Giulio a pontefice, nella quale egli (il duca) fece una cattiva
scelta’.
68. Perché... papa: ‘Perché, come si è detto,
non potendo fare eleggere papa chi lui volesse (a suo modo), poteva impedire l’elezione a
papa di qualcuno (qualcun altro a sé ostile)’.
69. e non doveva... per odio: ‘e non avrebbe
mai dovuto permettere che divenisse papa qualcuno di quei cardinali (di quelli cardinali, partitivo) che aveva offeso o che, divenuto papa, avesse ad aver paura di lui: perché gli uomini colpiscono o per paura o per odio’. Si noti il chiasmo:
per paura corrisponde a avessino ad aver paura;
per odio corrisponde a che lui avessi offesi.
70. San Piero... Ascanio: Giuliano della Rovere, che prima di essere eletto papa era cardinale della chiesa di San Pietro in Vincoli; Giovanni Colonna; Raffaello Riaro, cardinale della
chiesa di San Giorgio; Ascanio Sforza. San Piero e San Giorgio sono metonimie che designano i rispettivi cardinali.
71. eccetto... spagnuoli: ‘eccettuati Georges
d’Amboise, cardinale di Rouen (Roano), e i cardinali spagnoli’. Machiavelli ha appena fatto il
calcolo che avrebbe dovuto fare il Valentino per
salvarsi: sapendo che gli uomini sono nemici o
per paura o per odio, bisognava sottrare al novero dei cardinali papabili sia coloro che odiavano Cesare Borgia, sia coloro che lo temevano.
ANTOLOGIA
140
d’uno mese59; in Roma, ancora che mezzo vivo, stette sicuro, e, benché Baglioni
Vitelli e Orsini venissino in Roma, non ebbono séguito contro di lui60; possé fare,
se non chi e’ volle, papa, almeno ch’e’ non fussi chi e’ non voleva61. Ma se nella
morte di Alessandro fussi stato sano, ogni cosa gli era facile62: e lui mi disse, ne’ dì
che fu creato Iulio II, che aveva pensato a ciò che potessi nascere morendo el padre,
e a tutto aveva trovato remedio, eccetto ch’e’ non pensò mai, in su la sua morte, di
stare ancora lui per morire63.
Raccolte io adunque tutte le azioni del duca, non saprei riprenderlo: anzi mi pare, come io ho fatto, di preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con le arme di altri
sono ascesi allo imperio64; perché lui, avendo l’animo grande e la sua intenzione alta,
non si poteva governare altrimenti65, e solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita di Alessandro e la sua malattia. Chi adunque iudica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi delli inimici, guadagnarsi delli amici; vincere o per forza o per fraude; farsi amare e temere da’ populi, seguire e reverire da’ soldati; spegnere quelli che ti possono o debbono offendere; innovare con nuovi modi gli ordini antiqui; essere severo e
grato, magnanimo e liberale; spegnere la milizia infedele, creare della nuova; mantenere l’amicizie de’ re e de’ principi in modo ch’e’ ti abbino a benificare con grazia o offendere con respetto; non può trovare e’ più freschi esempli che le azioni di costui66.
Solamente si può accusarlo nella creazione di Iulio pontefice, nella quale il duca
ebbe mala elezione67. Perché, come è detto, non potendo fare uno papa a suo modo,
poteva tenere che uno non fussi papa68; e non doveva mai consentire al papato di
quelli cardinali che lui avessi offesi o che, divenuti papa, avessino ad aver paura di
lui: perché gli uomini offendono o per paura o per odio69. Quelli che lui aveva offeso erano, in fra li altri, San Piero ad vincula, Colonna, San Giorgio, Ascanio70; tutti
li altri avevano, divenuti papi, a temerlo, eccetto Roano e gli spagnuoli71: questi per
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ANTOLOGIA
582
I Grandi Autori
165
coniunzione e obligo, quello per potenza, avendo coniunto seco el regno di Francia72.
Pertanto el duca innanzi a ogni cosa doveva creare papa uno spagnuolo: e, non potendo, doveva consentire a Roano, non a San Piero ad vincula73. E chi crede che ne’
personaggi grandi e’ benifizi nuovi faccino sdimenticare le iniurie vecchie, s’inganna74. Errò adunque el duca in questa elezione, e fu cagione dell’ultima ruina sua75.
72. questi... Francia: ‘questi (gli spagnoli), in
quanto connazionali e obbligati nei suoi confronti, quello (il cardinale di Rouen) in quanto
molto potente (per potenza), dal momento che
rappresentava il Regno di Francia’.
73. doveva... vincula: ‘doveva consentire l’ele-
zione del cardinale di Rouen, non di quello di
San Pietro in Vincoli (il della Rovere)’.
74. E chi crede... s’inganna: ‘E chi crede che
nei potenti (personaggi grandi) i nuovi benefici
facciano dimenticare le offese vecchie, si
inganna’. Questa massima allude al fatto che il
Lettura guidata
UNA PARABOLA SUL POTERE Con il racconto
della breve vicenda politica di Cesare Borgia, durata appena cinque anni, Machiavelli propone una
grande parabola della virtù (intesa sempre come
capacità di governare) richiesta al principe nuovo.
Il Valentino non è il principe nuovo che fonda in
prima persona lo Stato, come Francesco Sforza e gli
altri eroici fondatori di Stati passati in rassegna nel
capitolo precedente (Mosè, Teseo, Romolo e gli
altri). Al contrario, la virtù del Valentino viene alla
luce, dopo che il regno gli viene messo in mano dalla sorte (fortuna), grazie al potere del padre, il
potentissimo papa Alessadro VI, il quale gli consente di fondare un dominio personale all’interno dello Stato della Chiesa. Ben sapendo che la fortuna
rende instabile qualsiasi dominio, il Valentino
ingaggia una lotta feroce contro i propri nemici per
dare al suo regno quelle fondamenta e quelle radici – come dice Machiavelli ricorrendo a metafore
architettoniche e vegetali – senza le quali esso
sarebbe svanito con la morte del padre.
E così fu in effetti. La virtù del Valentino fu
sconfitta dalla fortuna (anzi «da una estraordinaria
ed estrema malignità di fortuna», r. 35) e il suo Stato crollò alla morte di Alessandro VI. Ciononostante, i suoi provvedimenti vengono minutamente narrati in quanto esempio (quasi) perfetto. Machiavelli li analizza con tanta abbondanza di dettagli, perché gli eventi si riferiscono a un contesto ancora
attualissimo per sé e i suoi lettori. Si ricordi del
resto che in molti casi l’autore fa qui riferimento a
recente favore che il Valentino faceva al della
Rovere, contribuendo alla sua elezione, non
poteva fargli dimenticare le precedenti offese’.
75. Errò... ruina sua: ‘Il duca dunque sbagliò
in questa scelta (elezione), e (tale errore) fu
causa della sua definitiva caduta’.
fatti che ha visto da vicino e dei quali ha già scritto, in veste di osservatore della Repubblica fiorentina. Alla fine del capitolo, non a caso, egli ricorda
esplicitamente i dialoghi avuti col Valentino.
LA VIRTÙ DEI BORGIA Proviamo a ripercorrere le
mosse che Machiavelli attribuisce ad Alessandro VI
e a suo figlio. Le prime azioni sono del papa, che usa
il proprio potere spirituale a fini apertamente temporali: sciogliendo Luigi XII dal suo primo matrimonio, Alessandro si allea con la Francia, e con l’aiuto
delle truppe mercenarie francesi consente al figlio,
senza che Venezia possa intromettersi, di fondare un
nuovo Stato in Romagna. Senza soluzione di continuità, il testimone passa dal padre al figlio, il quale
per prima cosa elimina i Colonna presenti nel proprio
Stato e inizia a confrontarsi con due necessità: 1)
dotarsi di un esercito fidato (non mercenario); 2) debellare i sostenitori di una seconda fazione avversaria (dopo quella dei Colonna), quella degli Orsini. Il
Valentino si arma quindi di milizie proprie e neutralizza il potere degli Orsini, facendo ricorso all’eliminazione fisica dei propri avversari con un’astuzia feroce: fingendo di essersi riconciliato con loro, il Borgia fa cadere in una trappola i capi Orsini, li cattura
e li uccide.
Il primo grande nemico esterno del Valentino è
dunque neutralizzato: i Colonna e gli Orsini sono stati debellati. Resta l’altro grande ostacolo, la Francia,
la quale, dopo aver aiutato il Valentino nella fondazione del suo Stato, ora ne teme l’eccessiva potenza. Prima di toccare quest’altro versante, tuttavia,
Machiavelli apre una breve parentesi relativa alla po-
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14. Niccolò Machiavelli
LA MALIGNITÀ DI FORTUNA E L’ERRORE DEL
DUCA Del tutto inaspettatamente, nell’agosto del
1503, muore Alessandro VI e in quello stesso
momento anche il Valentino giace malato in pericolo di vita. Come rivela Machiavelli con una drammatica testimonianza diretta, il Valentino aveva
pensato a tutto tranne che a una simile coincidenza. Lo Stato del Borgia tuttavia non barcolla, né
cede subito, a riprova del fatto che i fondamenti
creati in soli cinque anni erano ottimi. Cede però
quando (per ulteriore sfortuna) muore anche il successore di Alessandro VI, Pio III (pontefice non
ostile al duca), e viene creato papa Giulio II della
Rovere. In questa elezione Machiavelli addita l’unico vero errore del duca: non aver impedito l’elezione di colui che sapeva essergli nemico, illudendosi
di poterselo fare alleato semplicemente favorendo
la sua elezione, come se i favori recenti potessero
cancellare le offese antiche.
UN MODELLO DA IMITARE Nonostante questo
unico errore, il Valentino viene presentato da Machiavelli come un modello da imitare in tutto e per
tutto. Come si vede qui (e ancor più nei capitoli XV:
uT97 e XVIII: uT98), il buon governo che ha in
mente Machiavelli richiede al principe una gestione
feroce, astuta e crudele del potere. I fatti narrati in
questo capitolo parlano chiaro: il papa non viene
giudicato come pastore di anime, ma come abile statista; suo figlio, che uccide a tradimento gli Orsini e
fa decapitare in piazza il suo braccio destro Rimirro
de Orco, non riceve la benché minima condanna morale. Evidentemente, secondo Machiavelli, chi voglia
tenere in pugno lo Stato e garantire il buon governo, non può comportarsi altrimenti.
Esercizi
comprensione
1. Elenca i personaggi che Machiavelli cita nel brano,
associando a ciascuno le informazioni su di loro che fornisce, arricchendole eventualmente con una tua ricerca personale.
zione al problema dei principati nati non dalla virtù individuale, bensì grazie alla fortuna (usa 300 parole circa).
3. Quali sono le azioni del Valentino che Machiavelli
considera esemplari? Quali sono i colpi della sfortuna
che egli subisce? Qual è l’errore che egli commette?
analisi e interpretazione
contestualizzazione
2. Quali sono le metafore che Machiavelli impiega per
descrivere la rifondazione dello Stato da parte del
Valentino? Raccoglile e spiega il loro significato in rela-
4. In cosa consiste la “virtù” del Valentino? Spiega l’uso
del termine “virtù” in Machiavelli servendoti degli altri
brani del Principe che hai letto.
ANTOLOGIA
litica interna del Valentino. La Romagna, terra tradizionalmente lacerata e divisa da odi di parte (si ricordi il canto XXVII dell’Inferno), era un regno non
facile da governare. Anche per instaurare il buon governo, il Valentino ricorre all’astuzia. Prima, egli affida la gestione degli affari interni al severo e ferocissimo Rimirro de Orco, che diventa in breve il suo
rappresentante più potente. In un secondo tempo,
dopo che i provvedimenti impopolari di Rimirro hanno messo ordine nello Stato, il duca fa uccidere il suo
braccio destro, placando la sete di vendetta dei suoi
sudditi e saldando il consenso intorno alla propria
persona. Trattata la politica interna, Machiavelli torna a esaminare la politica estera. Per difendersi dalla minaccia francese, il Valentino deve fare in modo
che il proprio Stato sia così solido che alla morte del
padre un nuovo pontefice non possa opporsi al suo
dominio. Per ottenere questo risultato, il Valentino
attua un piano in quattro punti: 1) elimina fisicamente gli eredi dei signorotti spodestati in Romagna, in modo che diventi impossibile per chiunque
restaurare i poteri preesistenti; 2) si fa alleate le famiglie nobili a Roma, così da arginare il potere degli
Orsini e dei Colonna; 3) si fa alleato il collegio dei
cardinali destinati ad eleggere il nuovo papa, in modo da impedire l’elezione di un nuovo papa a sé ostile; 4) comincia ad ampliare i propri territori assaltando le città toscane. Secondo Machiavelli, si tratta di una strategia perfetta, grazie alla quale, se fosse stato possibile applicarla fino in fondo, lo Stato
del Valentino, nato dalla fortuna, sarebbe stato solido e duraturo tanto quanto uno Stato nato con la
virtù. A questo punto però interviene l’imprevisto: la
fortuna, finora propizia al Valentino, in un istante gli
volta le spalle.
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ANTOLOGIA
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I Grandi Autori
T97
La «verità effettuale»
Il Principe, cap. XV
Nella prima sezione del Principe vengono presi in esame i diversi tipi di principato (capp. I-XI).
Nella sezione successiva (capp. XII-XIV), riservata alle milizie del principe, Machiavelli si esprime energicamente a favore degli eserciti personali e contro le milizie mercenarie. Nella terza
sezione (capp. XV-XXIII), inaugurata dal presente capitolo, viene proposta una definizione teorica dei comportamenti del principe. All’inizio di questa sezione, che è sempre apparsa la più
scandalosa e dirompente rispetto a tutta la riflessione politica anteriore, Machiavelli rende
ragione del suo punto di vista: la virtù morale non si può accordare con la virtù intesa come
sinonimo di capacità politica. Ogni idealizzazione del potere monarchico dipinge uomini che
in realtà non esistono. Al contrario, è necessario guardare in faccia la «verità effettuale» (effettiva), nella quale bene morale e potere politico sono due sistemi di valori da tenere rigorosamente distinti.
De his rebus quibus homines et praesertim principes laudantur aut vituperantur1
5
10
15
Resta ora a vedere quali debbino essere e’ modi e governi di uno principe o co’ sudditi o con li amici2. E perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone ancora io, non essere tenuto prosuntuoso, partendomi massime, nel disputare questa materia, da li ordini delli altri3. Ma sendo l’intenzione mia stata scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare dreto alla
verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa4. E molti si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere5. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che
colui che lascia quello che si fa, per quello che si doverrebbe fare, impara più presto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le
parte professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non sono buoni6.
Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a potere essere non
buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità7.
Lasciando adunque addreto le cose circa uno principe immaginate, e discorrendo
quelle che sono vere, dico che tutti li uomini, quando se ne parla, e massime e’ principi, per essere posti più alti, sono notati di alcune di queste qualità che arrecano loro o biasimo o laude8. E questo è che alcuno è tenuto liberale, alcuno misero, – usan-
1. De his rebus... vituperantur: ‘Di quelle cose
di cui gli uomini, e specialmente i principi, sono
lodati o biasimati’.
2. Resta... amici: ‘Resta ora da considerare
quali debbano essere i comportamenti e i modi
di governo di un principe nei confronti dei sudditi e degli alleati (amici). – e’ modi e governi:
è un’endiadi e va sciolta come ‘modi di comportarsi e di governare’.
3. E perché... altri: ‘E poiché io so che molti hanno scritto su questo (argomento), temo, se ne
scrivo anche (ancora) io, di essere ritenuto presuntuoso, soprattutto (massime) perché nel
trattare questa materia mi allontano (partendomi) dall’impostazione (ordini) degli altri’. Machiavelli allude in modo indeterminato a tutti coloro
che lo hanno preceduto nel trattare la morale
del principe.
4. Ma sendo... di essa: ‘Ma poiché mi sono pro-
posto di scrivere qualche cosa di utile per coloro che sono in grado di intenderla, mi è parso
più opportuno seguire la realtà dei fatti (verità
effettuale della cosa) piuttosto che la loro
immagine ideale’.
5. in vero essere: ‘esistere, essere nella
realtà’.
6. Perché... buoni: ‘Infatti (Perché), c’è tanta
distanza (discosto) tra come si vive e come si
dovrebbe vivere, che colui che abbandona il
criterio di ciò che si fa (lascia quello che si fa)
in nome di quello che si dovrebbe fare (ovvero:
‘colui che si attiene alle prescrizioni morali’)
conosce la propria rovina, piuttosto (più presto) che la propria salvezza (perservazione, letteralmente: ‘conservazione’): perché colui che
in tutte le situazioni (in tutte le parte) voglia
comportarsi da uomo buono è inevitabile (conviene) che vada incontro alla propria rovina, dal
momento che si trova a operare fra tanti che
buoni non sono’.
7. Onde... necessità: ‘Perciò è necessario che
un principe, se vuole conservare il proprio
potere (volendosi... mantenere), impari a sapersi comportare da malvagio e a usare o non usare tale potere a seconda delle necessità’. –
potere essere non buono: è infinito sostantivato, complemento oggetto del nesso usarlo e
non usarlo: ‘usare o non usare’, all’occorrenza,
la capacità di essere malvagio.
8. Lasciando... laude: ‘Tralasciando dunque le
cose immaginate a proposito di un principe e
trattando quelle che sono vere, dico che tutti gli
uomini, quando la gente parla di loro (quando se
ne parla), e soprattutto i principi, per il fatto che
sono posti in posizione più elevata, vengono
giudicati secondo alcune di queste qualità che
procurano loro o riprovazione o lode’.
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14. Niccolò Machiavelli
25
30
do uno termine toscano, perché avaro in nostra lingua è ancora colui che per rapina
desidera di avere: misero chiamiamo noi quello che si astiene troppo di usare il suo9;
– alcuno è tenuto donatore10, alcuno rapace11; alcuno crudele, alcuno piatoso12; l’uno fedifrago, l’altro fedele13; l’uno effeminato e pusillanime, l’altro feroce e animoso14; l’uno umano15, l’altro superbo; l’uno lascivo, l’altro casto; l’uno intero, l’altro
astuto16; l’uno duro, l’altro facile17; l’uno grave, l’altro leggieri18; l’uno religioso, l’altro incredulo19, e simili. E io so che ciascuno confesserà che sarebbe laudabilissima
cosa uno principe trovarsi, di tutte le soprascritte qualità, quelle che sono tenute buone20. Ma perché le non si possono avere tutte né interamente osservare21, per le condizioni umane che non lo consentono, è necessario essere tanto prudente ch’e’ sappi
fuggire la infamia di quegli vizi che gli torrebbono lo stato; e da quegli che non gliene tolgono guardarsi, s’e’ gli è possibile: ma non possendo, vi si può con meno respetto lasciare andare22. Ed etiam non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizi,
sanza e’ quali possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si considera bene tutto,
si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sarebbe la ruina sua: e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne nasce la sicurtà e il bene essere suo23.
9. E questo... il suo: ‘E questo significa che
qualcuno (alcuno) è ritenuto generoso (liberale), qualcuno misero (nel senso toscano di
‘gretto’, come si spiega subito dopo) – per usare una parola toscana, visto che avaro in lingua
italiana (in nostra lingua) è anche colui che è
avido (letteralmente: ‘colui che desidera
impossessarsi con la violenza dei beni altrui’),
noi (toscani) invece chiamiamo misero chi tende a non spendere i beni propri’.
10. donatore: ‘prodigo’.
11. rapace: ‘accaparratore’.
12. piatoso: ‘pietoso, compassionevole’.
13. l’uno fedifrago... fedele: ‘l’uno traditore,
l’altro leale’.
14. l’uno... animoso: ‘l’uno fiacco e vigliacco,
l’altro fiero e coraggioso’.
15. umano: ‘cordiale’.
16. l’uno... astuto: ‘l’uno integro e l’altro infido’.
17. l’uno... facile: ‘l’uno intransigente, l’altro
compiacente’.
18. l’uno... leggieri: ‘l’uno serio, l’altro frivolo’.
19. l’uno... incredulo: ‘l’uno credente, l’altro
non credente’.
20. io so... buone: ‘io so che ciascuno ammetterà (confesserà) che sarebbe una cosa molto
apprezzabile che un principe avesse (uno principe trovarsi), di tutte le qualità dette sopra,
quelle che sono ritenute (tenute) buone’.
21. osservare: ‘praticare’.
22. è necessario... andare: ‘è necessario che
(il principe) sia tanto accorto (prudente) da
saper fuggire la pubblica condanna (infamia) di
quei vizi che gli toglierebbero lo Stato (cioè ‘gli
Lettura guidata
L’AUTONOMIA DELLA POLITICA Dal capitolo ap-
pena letto emerge con chiarezza la dirompente novità del pensiero politico di Machiavelli. Prima del
Principe nessuno aveva mai messo in discussione la
necessità di adattare la politica alle prescrizioni della morale, anzi nei principi si erano spesso additati
modelli di virtù (si pensi solo al grande filosofo greco Platone che aveva addirittura auspicato un’oligarchia retta dai filosofi). A questa tradizione ideale,
perpetuata dall’Umanesimo, Machiavelli contrappone quella che egli ritiene la realtà concreta dei fatti
(la «verità effettuale», r. 7). Il presupposto di una simile distinzione fra ideale ed effettuale consiste in
un’antropologia pessimistica, secondo la quale il
farebbero perdere il potere’); e (retto sempre
da tanto prudente) da tenersi lontano (guardarsi), se gli è possibile, da quelli (vizi) che non glielo fanno perdere: ma non potendo (guardarsi
da questi vizi meno gravi), a questi si può
lasciare andare con meno scrupoli (respetto)’.
23. Ed etiam... suo: ‘E anche (etiam, latino) (il
principe) non si preoccupi di incorrere nel pubblico biasimo (infamia) di quei vizi senza i quali
difficilmente potrebbe conservare lo Stato,
perché, a ben considerare ogni cosa, si potrebbe trovare qualche comportamento che sembrerà virtuoso, seguendo il quale sarebbe la
sua rovina: e (viceversa) qualche altro comportamento che sembrerà vizioso, seguendo il
quale, però, si genera la sicurezza e il benessere del principe (suo).
divario fra come ci si dovrebbe comportare e come si
comporta davvero è per natura incolmabile. Se il primo ambito (il dovere morale) spetta alla morale, il
secondo (la realtà effettiva) compete alla politica,
la quale risponde a leggi sue proprie, irriducibili alle
prime. Si parla quindi in questo senso di una autonomia del giudizio politico, il cui punto di vista deve essere tenuto ben distinto, secondo Machiavelli,
dal giudizio morale.
VIZI E VIRTÙ Anche se la morale dipinge un uomo
che nella realtà dei fatti non esiste, i comportamenti morali hanno però una ricaduta politica, ed è a
questa ricaduta che il principe deve fare attenzione.
La lode o il biasimo in materia morale, infatti, possono rispettivamente rafforzare o indebolire il potere del principe. Machiavelli allega in proposito dodi-
ANTOLOGIA
20
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ANTOLOGIA
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I Grandi Autori
ci coppie di vizi e di virtù (liberale / misero; donatore / rapace; crudele / piatoso; fedifrago / fedele; effeminato / pusillanime; feroce / animoso; umano /
superbo; lascivo / casto; intero / astuto; duro / facile; grave / leggiero; religioso / incredulo). È chiaro che
il massimo consenso verrebbe al principe in tutto e
per tutto virtuoso. Ma poiché viene ritenuta impossibile la compresenza di tutte le virtù in una sola persona, Machiavelli raccomanda al principe di guardarsi almeno dai vizi che gli toglierebbero autorità, e,
di conseguenza, potere. Per quanto concerne invece
i vizi che non mettono a repentaglio lo Stato, abbandonarvisi o meno è a discrezione del principe. Viceversa, nel caso in cui un vizio si renda indispensabile per la conservazione del potere, il principe è tenuto a non rispettare la morale e a correre il rischio di
un pubblico biasimo (come viene spiegato nel capitolo XVIII: uT98, due vizi indispensabili alla gestione del potere sono, all’occorrenza, l’astuzia e la violenza).
Esercizi
comprensione
1. Dividi il capitolo in sequenze (premessa, corpo centrale, esemplificazioni, conclusioni), sintetizzando ciascuna sequenza con parole tue.
analisi e interpretazione
2. Spiega cosa intenda Machiavelli per «verità effettuale», usando circa 200 parole.
T98
3. Riporta in una tabella le dodici coppie di vizi e di virtù
elencati nel capitolo, mettendo accanto il significato di
ciascuno dei termini usati da Machiavelli.
4. Alla base del pensiero politico di Machiavelli c’è una
visione pessimistica della natura e del comportamento
umani: sottolinea nel testo le espressioni che, a tuo giudizio, lasciano trasparire in modo più evidente questo
punto di vista.
«Usare la bestia»: la volpe e il leone
Il Principe, cap. XVIII
Il capitolo XVIII è forse il più famoso e il più controverso del Principe. Continuando a esplorare quella «verità effettuale», alla quale si è proclamato fedele (nel capitolo XV: uT97), Machiavelli sostiene qui la necessità da parte del principe di essere, all’occorrenza, immorale. Letteralmente, se gli eventi lo richiedono, egli deve saper «entrare nel male», al fine di conservare
l’integrità dello Stato: anche la parola data, di conseguenza, dovrà essere disattesa, se l’opportunità politica lo impone.
Quomodo fides a principibus sit servanda1
5
Quanto sia laudabile in uno principe il mantenere la fede e vivere con integrità e
non con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco si vede per esperienza ne’ nostri
tempi quelli principi avere fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini: e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in su la lealtà2.
Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni di combattere3: l’uno, con
le leggi; l’altro, con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle
bestie. Ma perché el primo molte volte non basta, conviene4 ricorrere al secondo:
1. Quomodo... servanda: ‘In che modo i principi debbano tener fede alla parola data’.
2. Quanto... lealtà: ‘Quanto sia lodevole che
un principe mantenga la parola data (fede) e
viva con lealtà e non con astuzia ogni uomo lo
capisce; nondimeno (nondimanco) si vede per
esperienza che ai nostri tempi hanno fatto
grandi cose quei principi che hanno tenuto
poco conto della parola data e hanno saputo
raggirare le menti degli uomini con astuzia: e
alla fine hanno avuto la meglio su (hanno superato) quelli che hanno confidato nella lealtà’.
3. come... combattere: ‘che esistono due
generi di combattimento’.
4. conviene: ‘è necessario’.
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pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo5. Questa
parte è suta insegnata alli principi copertamente da li antichi scrittori, e’ quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furno dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi6. Il che non vuole dire altro,
avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno
principe sapere usare l’una e l’altra natura: e l’una sanza l’altra non è durabile7.
Sendo dunque necessitato uno principe sapere bene usare la bestia, debbe di
quelle pigliare la golpe e il lione8: perché el lione non si difende da’ lacci, la golpe
non si difende da’ lupi; bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione
a sbigottire e’ lupi: coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendono9. Non può pertanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede quando tale osservanzia gli torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere10. E se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono: ma
perché e’ sono tristi e non la osserverebbono a te, tu etiam non l’hai a osservare a
loro; né mai a uno principe mancorno cagioni legittime di colorire la inosservanzia11. Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni e mostrare quante pace,
quante promisse sono state fatte irrite e vane12 per la infidelità de’ principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato13. Ma è necessario questa
natura saperla bene colorire ed essere gran simulatore e dissimulatore14: e sono tanto semplici gli uomini, e tanto ubbidiscono alle necessità presenti, che colui che
inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare15.
Io non voglio delli esempli freschi tacerne uno16. Alessandro sesto17 non fece mai
altro, non pensò mai ad altro che a ingannare uomini, e sempre trovò subietto18 da poterlo fare: e non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare, e con maggiori iuramenti affermassi una cosa, che la osservassi meno19; nondimeno sempre gli
succederno gl’inganni ad votum, perché conosceva bene questa parte del mondo20.
A uno principe adunque non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle21; anzi ardirò di dire questo: che, avendole e osservandole sempre, sono dannose, e, parendo di averle, sono utili; come
5. usare... uomo: ‘ricorrere sia alla forza (propria della bestia) sia alla legge (propria dell’uomo)’.
6. Questa... custodissi: ‘Questa parte (dell’arte di governare) è stata (suta) insegnata ai principi allegoricamente (copertamente) dagli
scrittori antichi, i quali scrivono come Achille e
molti altri principi antichi fossero stati affidati
alle cure del centauro Chirone, affinché li educasse secondo i suoi precetti (disciplina)’. Nella mitologia antica Chirone era il più saggio dei
centauri: uomini bestia, per metà cavalli e per
metà uomini. Achille, il più valoroso dei Greci
nella guerra contro Troia, era stato educato
nella sua giovinezza da Chirone.
7. non è durabile: ‘non è durevole’ (e quindi
non permette al principe di conservare il potere).
8. Sendo... lione: ‘Essendo dunque obbligato a
sapersi comportare a tempo debito (bene)
come una bestia, il principe, fra le bestie, deve
prendere a modello la volpe e il leone’.
9. perché... intendono: ‘perché il leone non sa
difendersi dalle trappole (lacci), mentre la volpe non sa difendersi dai lupi (cioè dalle bestie
feroci); bisogna dunque essere astuti come la
volpe per riconoscere le trappole e forti come
il leone per spaventare i lupi; quelli che usano
soltanto la forza (stanno... lione) non se ne
intendono (di politica)’.
10. Non può... promettere: ‘Un principe
accorto (prudente) pertanto non può né deve
tener fede alla parola data, quando tale fedeltà
vada contro il suo interesse e quando (che)
sono venute meno le ragioni che lo avevano
indotto a promettere’.
11. ma perché... inosservanzia: ‘ma poiché
essi (gli uomini) sono malvagi (tristi) e non manterrebbero la parola che ti hanno dato, neanche (etiam) tu devi mantenere la parola che hai
dato loro; né mai a un principe mancarono giustificazioni per dare una parvenza legittima alla
trasgressione della parola data’ – colorire:
‘mascherare’.
12. sono... vane: ‘sono state rese inefficaci
(irrite) e inutili’.
13. e quello... capitato: ‘e quello che ha saputo meglio usare l’astuzia della volpe ha ottenuto risultati migliori’.
14. Ma è necessario... dissimulatore: ‘Ma è
necessario saper mascherare questa indole
astuta (natura) ed essere bravi a simulare (il
vero) e dissimulare (il falso)’.
15. e sono... ingannare: ‘ma gli uomini sono
tanto sciocchi (semplici) e sono tanto condizionati dalle (ubbidiscono alle) necessità contingenti (presenti) che chi inganna troverà sempre
chi si lascerà ingannare’.
16. non voglio... uno: ‘non voglio tacere nessuno degli esempi recenti (freschi)’.
17. Alessandro sesto: Rodrigo Borja (italianizzato Borgia), nato nel 1431 a Valencia in Spagna; eletto papa nel 1492 con il nome di Alessandro VI; morto nel 1503: è il padre del duca
Valentino.
18. subietto: ‘materia’.
19. non fu mai... meno: ‘e non ci fu mai uomo
che avesse maggiore energia nel proclamare
(qualcosa), e che facesse tanti giuramenti nell’affermare un cosa (un’intenzione), e che poi
meno rispettasse la parola data’.
20. nondimeno... mondo: ‘ciononostante i
suoi inganni sempre si conclusero secondo il
suo auspicio (ad votum, latino), perché conosceva bene questo aspetto dell’esistenza (parte del mondo)’.
21. A uno principe... averle: ‘A un principe,
dunque, non è necessario avere effettivamente (in fatto) tutte le qualità sopra elencate (in
questo e nel cap. XV: uT97), ma è davvero
necessario sembrare di averle’.
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parere piatoso, fedele, umano, intero, religioso, ed essere: ma stare in modo edificato con lo animo che, bisognando non essere, tu possa e sappia diventare il contrario22. E hassi a intendere questo, che uno principe e massime uno principe nuovo non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono chiamati buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione23. E però bisogna che egli
abbia uno animo disposto a volgersi secondo che e’ venti della fortuna e la variazione delle cose gli comandano; e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato24.
Debbe adunque uno principe avere gran cura che non gli esca mai di bocca cosa
che non sia piena delle soprascritte cinque qualità; e paia, a udirlo e vederlo, tutto
pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione: e non è cosa più
necessaria a parere di avere, che questa ultima qualità25. E li uomini in universali
iudicano più alli occhi che alle mani26; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a
pochi: ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi
non ardiscono opporsi alla opinione di molti che abbino la maestà dello stato che
gli difenda; e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine27.
Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre fieno iudicati onorevoli e da ciascuno saranno laudati28; perché el vulgo ne va preso
con quello che pare e con lo evento della cosa29: e nel mondo non è se non vulgo,
e’ pochi non ci hanno luogo quando gli assai hanno dove appoggiarsi30. Alcuno
principe de’ presenti tempi, il quale non è bene nominare31, non predica mai altro
che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo: e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, gli arebbe più volte tolto e la riputazione e lo stato32.
22. anzi... il contrario: ‘anzi oserò dire questo:
che, avendole e seguendole sempre, sono dannose, ma, facendo mostra di averle, sono utili;
come (è utile) apparire pietoso, leale, cordiale,
onesto, religioso, ed essere davvero così; ma
disporsi con l’animo in modo che (stare in
modo edificato con lo animo che), quando serva non essere più così, tu possa e sappia diventare l’opposto (spietato, superbo, sleale, disonesto, empio)’.
23. hassi... religione: ‘si deve capire (hassi a
intendere) questo, che un principe e soprattutto (massime) un principe nuovo non può seguire (osservare) tutti quei comportamenti per i
quali gli uomini sono giudicati (chiamati) buoni,
essendo spesso costretto, per conservare lo
Stato, ad agire contro la parola data, contro la
carità, contro l’umanità, contro la religione’.
24. E però... necessitato: ‘E perciò (però)
bisogna che egli abbia un animo disposto a
mutare, a seconda di quanto gli impongono i
venti della sorte e la variazione dello stato di
cose; e, come ho detto sopra, (bisogna) che
egli non si allontani dal bene, se può, ma che
sappia scegliere il male, se costretto’.
25. e non è... qualità: ‘e non c’è cosa più
necessaria che sembrare di avere quest’ultima
qualità (la religione)’.
26. li uomini... mani: ‘gli uomini in generale (in
universali) giudicano più secondo l’apparenza
che la realtà’; letteralmente: ‘giudicano senza
toccare con mano, limitandosi a guardare’.
27. perché tocca... al fine: ‘perché a tutti è
dato vedere, solo a pochi percepire da vicino
(sentire): ognuno vede come appari, pochi toccano con mano (sentono) come tu sei davvero;
e quei pochi non osano opporsi all’opinione dei
molti che abbiano dalla loro (che gli difenda)
l’autorevolezza dello Stato; e nelle azioni di tutti gli uomini, e soprattutto dei principi, contro i
quali non c’è un tribunale contro cui reclamare, si bada al risultato (si guarda al fine)’.
Lettura guidata
L’ALLEGORIA DEL CENTAURO In questo capitolo
trova spazio uno dei concetti centrali del Principe: l’emancipazione della politica dalla sfera morale, che
già era stata proclamata nel capitolo XV [uT97]. Il
28. Facci... laudati: ‘Il principe dunque faccia
in modo di prevalere e conservare lo Stato: i
mezzi sempre saranno giudicati encomiabili e
da ciascuno saranno lodati’.
29. perché... cosa: ‘perché il popolo sciocco
(vulgo) viene attirato (ne va preso) con le apparenze (quello che pare) e con il risultato effettivo (lo evento della cosa)’.
30. e nel mondo... appoggiarsi: ‘e al mondo
non c’è che popolo sciocco (vulgo), i pochi
(sottinteso: che capiscono qualcosa) non hanno spazio quando la maggioranza ha una solida base (l’autorità del principe)’.
31. il quale... nominare: ‘che non è il caso di
nominare. Probabilmente si allude al re di Spagna Ferdinando il Cattolico (1452-1516).
32. e l’una... stato: ‘e l’una e l’altra (pace e
parola data), se egli le avesse messe in pratica,
lo avrebbero privato del suo prestigio e del suo
Stato’.
nuovo punto di vista proposto da Machiavelli va ad abbattere una lunga tradizione di riflessione sul potere
che aveva idealizzato il principe, facendone un modello di virtù. Machiavelli contrappone a questa tradizione quella che si potrebbe chiamare la pedagogia del
centauro, la mitica creatura dalla natura umana e in-
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14. Niccolò Machiavelli
VOLPE E LEONE L’allegoria del potere politico
proposta da Machiavelli non si esaurisce con l’immagine del centauro. Se l’uomo deve essere anche
bestia, occorre poi specificare quali siano le bestie
che il principe dovrà prendere a modello. E queste
bestie sono la volpe e il leone, che, sotto forma di
metonimia, stanno per l’astuzia e la forza. Machiavelli insiste sul fatto che il principe deve possedere simultaneamente queste due doti, perché ciascuna delle due, di per sé, non basta a garantire la conservazione del potere. Con la forza, infatti, e non
con l’astuzia, si abbattono i nemici violenti (i lupi);
con l’astuzia, viceversa, e non con la forza, si aggirano le trappole (i lacci). Come l’astuzia da sola non
è sufficiente, così non lo è neppure la forza.
IL PROBLEMA DELLA PAROLA DATA Il problema
a partire dal quale Machiavelli svolge queste riflessioni è l’opportunità che il principe tenga o non
tenga fede alla parola data. Come si vede, Machiavelli indica qui la necessità di usare l’astuzia (la volpe): se le circostanze consentono di mantenere le
promesse, nulla osta alla fede del principe; ma se,
mantenendo la parola data, il principe corre il
rischio di perdere il potere, ecco che allora diventa
necessario violare la fede. La fede però va violata
con astuzia, adducendo ragioni plausibili, con le
quali la trasgressione dovrà apparire meno grave o
addirittura legittima (Machiavelli usa in proposito
l’efficace immagine «colorire la inosservanzia», rr.
24-25, cioè coprire la trasgressione con una mano
di colore, ossia con una parvenza legittima).
ALESSANDRO VI Una perfetta applicazione del modello proposto viene indicata in papa Alessandro VI,
quel Rodrigo Borgia che già era stato lodato nel capitolo VII [uT96]. L’autonomia dalla morale, propria
del progetto politico, non può prescindere, infatti,
dalla morale e dal senso comune dei sudditi. Nel momento in cui si viene meno alle proprie promesse, è
nel contempo necessario dare l’impressione di essere
sempre nel giusto. Capiamo quindi per quale ragione,
in quello stesso capitolo VII, Machiavelli lodi tanto
anche il figlio di Alessandro VI, il duca Valentino, per
la sua capacità di trasgredire la parola data al momento opportuno: per rafforzare il suo regno, il figlio del
papa, non a caso, aveva tradito il proprio braccio destro Rimirro de Orco; e aveva finto di riconciliarsi coi
suoi nemici Orsini, per poi trucidarli. Per il Valentino,
secondo Machiavelli, non ci poteva essere altra strada in vista della conservazione del suo Stato. L’«entrare nel male» del principe è condizione necessaria
per il bene dello Stato e per la pubblica utilità.
UNA CONCEZIONE TRAGICA DELLA NATURA
UMANA “Il fine giustifica i mezzi”: è questa la for-
mula cinica, nata in ambito gesuitico, con la quale il
pensiero di Machiavelli è stato banalizzato dai suoi
detrattori o, viceversa, fatto proprio dai suoi segreti ammiratori. A questa formulazione, tanto famigerata quanto impropria, sfugge però la concezione
tragica dell’uomo sopra la quale poggia la teoria politica di Machiavelli, secondo il quale fare il bene è
impossibile in un mondo dove tutti gli uomini sono
tristi (malvagi) e dove conservare la parola data è
controproducente, perché nessuno è in grado di tener fede alle proprie promesse. Machiavelli non ha
mai detto che il fine giustifichi alcunché: semmai, ai
suoi occhi, la condizione umana impone determinati mezzi che, se non hanno giustificazione morale,
quanto meno ne hanno una politica. Si aggiunga poi
la forte carica ideale che Machiavelli attribuisce all’agire politico e alla figura del principe, proteso a
soddisfare i suoi sudditi non solo con le apparenze
(«quello che pare», r. 59), ma anche e soprattutto
con il buon governo effettivo («lo evento della cosa», r. 59). Carichi di questo slancio ideale sono in
modo particolare gli ultimi capitoli del trattato, e in
ispecie il XXVI [uT100].
ANTOLOGIA
sieme animale: per metà uomo e per metà cavallo (dalla cintola in giù). Con un’ardita interpretazione allegorica del mito classico, l’autore sostiene infatti che
gli antichi avessero attribuito ad Achille il centauro
Chirone come maestro per un motivo ben preciso: perché il principe perfetto è quello che sa usare insieme
la natura umana, morale, e la natura ferina, immorale.
Il principe perfetto è colui che sa «bene usare la bestia e lo uomo» (r. 10). Il presupposto di questa teoria, naturalmente, è quell’antropologia negativa che
ricorre di continuo nel Principe: il male infatti, secondo Machiavelli, è connaturato alla natura umana; se il
principe non lo sa usare a proprio vantaggio, il suo regno e tutti i sudditi con lui sono destinati alla rovina.
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I Grandi Autori
Esercizi
comprensione
il modo e i contesti in cui debbano essere impiegate.
1. Riscrivi in italiano contemporaneo i capoversi 5, 6 e
7 del brano che hai letto.
contestualizzazione
interpretazione
2. Indica con parole tue le qualità che secondo il giudizio di Machiavelli devono essere proprie del principe, e
T99
3. Leggi (o rileggi) il cap. VII [uT96] e spiega in che
modo i princìpi dell’agire politico enunciati nel capitolo XVIII trovano una loro manifestazione esemplare nell’operato politico del duca Valentino.
Virtù contro fortuna
Il Principe, cap. XXV
Negli ultimi tre capitoli del trattato (XXIV-XXVI) Machiavelli deplora lo stato della penisola italiana, in balìa delle potenze straniere e resa instabile dai continui rovesci di fortuna. Nel cap.
XXV leggiamo in particolare una grande riflessione sul potere della fortuna. Al potere della sorte, per quanto esteso esso sia, Machiavelli sostiene che non è impossibile resistere. Anche se
spesso la virtù è destinata a soccombere (esemplare, in proposito, la vicenda del Valentino),
esistono tuttavia alcune strategie che permettono al principe di giocare d’anticipo contro il
potere distruttivo della sorte.
Quantum fortuna in rebus humanis possit, et quomodo illi sit occurrendum1
5
10
E’ non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate, da la fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenza loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte2. Questa opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi per le variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni umana coniettura3. A
che pensando io qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro4. Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne
lasci governare l’altra metà, o presso, a noi5. E assimiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi che, quando si adirano, allagano e’ piani, rovinano li arbori e li edifizi,
1. Quantum... occurrendum: ‘Quanto grande
sia il potere della fortuna nelle vicende umane
e in che modo le si possa resistere’.
2. E’ non mi è... sorte: ‘Non mi è ignoto (incognito) che molti hanno ritenuto e tuttora ritengono che le cose del mondo siano disposte
dalla fortuna e da Dio in modo tale (in modo
governate), che gli uomini non possono modificarle (correggerle) con la loro accortezza (prudenza), anzi non dispongano di alcun rimedio:
e per questo potrebbero credere (potrebbono
iudicare) che non sia il caso di affannarsi molto
nell’azione (insudare molto nelle cose), ma (che
sia meglio) lasciarsi guidare dalla (governare
alla) sorte’.
3. Questa... coniettura: ‘Questa opinione è
stata quella più ascoltata (più creduta) nei
nostri tempi a causa dei grandi mutamenti politici (le variazione grande delle cose) che si sono
visti e continuano a vedersi ogni giorno, al di là
di ogni previsione umana’. Machiavelli allude
all’instabilissima situazione politica dei diversi
Stati presenti nell’Italia del Cinquecento, di
continuo contesi dalla Francia e dalla Spagna a
seguito della discesa del re di Francia Carlo VIII
(1494).
4. A che pensando... loro: ‘E io, riflettendo su
questo, talora mi sono in qualche modo accostato all’opinione di costoro’ (la posizione dei
fatalisti). Si ricordi del resto che fu proprio un
improvviso rovescio di fortuna a far cadere la
Repubblica a Firenze e a ridare il potere ai
Medici, privando Machiavelli del proprio ruolo
accanto a Pier Soderini (1512).
5. Nondimanco... a noi: ‘Tuttavia, affinché non
sia dichiarata nulla (non sia spento) la nostra
libertà d’azione, credo che possa essere vero
che la fortuna stabilisca il corso di metà delle
nostre azioni, ma che lei pure (etiam, congiunzione latina) lasci governare a noi (uomini) l’altra metà, o quasi’. Si noti come Dio, che poco
sopra era stato evocato accanto alla fortuna,
sia ora sparito: l’unica forza è la fortuna. Si noti
inoltre che viene usata un’espressione di origine cristiana come libero arbitrio non nel significato di libertà di scelta fra bene e male, ma
come sinonimo di possibilità d’intervento sulla
realtà politica.
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6. E assimiglio quella... altra: ‘E paragono
quella (la fortuna) a uno di questi fiumi impetuosi (rovinosi) che, quando sono rabbiosi
(metafora per indicare la piena), allagano le
pianure (e’ piani), abbattono (rovinano) gli alberi e le case, asportano il terreno da una parte,
lo ammucchiano in un’altra’.
7. ostare: ‘opporre resistenza’.
8. E, benché... sì licenzioso: ‘E, benché siano
fatti così (i fiumi), nulla vieta però che (non resta
però che) gli uomini, col bel tempo (tempi queti), non possano adottare provvedimenti con
barriere e con argini: in modo che, quando poi
ingrossano, o confluiscano in un canale oppure
il loro impeto non sia tanto dannoso e sfrenato’.
9. Similmente interviene... tenerla: ‘Ugualmente accade con la fortuna, la quale dà prova del proprio potere dove non c’è capacità
pronta a resisterle: e indirizza (volta) i suoi
assalti (impeti) là dove sa che non sono stati
fatti gli argini e i ripari per frenarla (tenerla)’.
10. E se voi... venuta: ‘E se voi considererete
(considerrete) l’Italia, la quale è sede di questi
cambiamenti, nonché la loro causa scatenante
(quella che ha dato loro il moto), vedrete che essa è una campagna senza alcun argine o riparo;
perché, se essa fosse stata riparata da una capa-
cità adeguata (conveniente), com’è il caso della
Germania (Magna è abbreviazione di Alemagna),
della Spagna e della Francia, o questa piena non
avrebbe causato i grandi mutamenti che ha causato, oppure non sarebbe nemmeno venuta’. L’Italia (come abbiamo già ricordato) era contesa
dalla Spagna e dalla Francia, due Stati dove, come nota Machiavelli, il potere centralizzato si era
affermato prima che nella nostra penisola, divisa invece fra molteplici Stati e Staterelli.
11. questo... in universali: ‘mi pare sufficiente
aver detto queste cose in generale (in universali) per quanto riguarda l’opporsi alla fortuna’.
12. Ma... discorse: ‘Ma per entrare più nel dettaglio (a’ particulari) dico che (come) si vede uno
stesso principe (questo principe) oggi prosperare (felicitare) e domani cadere in rovina, senza
avergli visto cambiare natura o qualità alcuna, e
ciò credo che abbia origine, in primo luogo (prima) dalle cause che si sono in precedenza discusse’ (si allude ai capitoli VI: uT95 e VII: uT96).
13. quel principe... varia: ‘quel principe che fa
completo affidamento sulla fortuna cade in
rovina non appena quella (la fortuna) muta’.
14. Credo... tempi: ‘Credo anche (ancora) che
sia prospero quel principe che fa corrispondere (riscontra) il suo modo di agire alla natura dei
tempi (con la qualità de’ tempi): e allo stesso modo (credo) che fallisca (sia infelice) quello al cui
modo di agire non si accordano i tempi’.
15. Perché... pervenire: ‘Perché si vede che gli
uomini si comportano in diversi modi (variamente) secondo le diverse operazioni necessarie a
raggiungere il fine che ciascuno si è prefissato
(quale ciascuno ha innanzi): l’uno con prudenza
(rispetto), l’altro con veemenza; l’uno per mezzo
di violenza, l’altro per mezzo di astuzia; l’uno con
pazienza, l’altro con impazienza; e ciascuno vi
può arrivare con questi diversi comportamenti’.
16. E vedesi... loro: ‘E si vede anche che di due
uomini prudenti (respettivi) uno realizza il suo
progetto, l’altro no; e, allo stesso modo, che
due uomini hanno uguale successo (equalmente felicitare) con metodi (studi) diversi, essendo
l’uno prudente (rispettivo) e l’altro impulsivo
(impetuoso): e ciò non deriva da altro se non
dalla natura dei tempi, i quali sono più o meno
conformi al loro modo di agire’.
17. Di qui... l’altro no: ‘Da ciò consegue quello che ho detto, cioè che due individui, agendo
in modo diverso, ottengono (sortiscono) lo
stesso effetto: e di due, che agiscono allo stesso modo (equalmente), uno raggiunge il suo
obiettivo (si conduce al suo fine) e l’altro no’.
ANTOLOGIA
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lievano da questa parte terreno, pongono da quella altra6: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all’impeto loro sanza potervi in alcuna parte ostare7. E, benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi queti, non vi potessino fare provedimento e con ripari e con argini: in modo che, crescendo poi, o eglino andrebbono per uno canale o l’impeto loro non sarebbe né sì dannoso né sì licenzioso8. Similmente interviene della fortuna, la quale dimostra la sua potenza dove
non è ordinata virtù a resisterle: e quivi volta e’ sua impeti, dove la sa che non sono
fatti gli argini né e’ ripari a tenerla9. E se voi considerrete la Italia, che è la sedia di
queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo: che, s’ella fussi riparata da conveniente virtù, come
è la Magna, la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatto le variazioni grande che la ha, o la non ci sarebbe venuta10. E questo voglio basti aver detto, quanto allo opporsi alla fortuna, in universali11.
Ma ristringendomi più a’ particulari, dico come si vede oggi questo principe felicitare e domani ruinare, sanza avergli veduto mutare natura o qualità alcuna; il che
credo che nasca, prima, da le cagioni che si sono lungamente per lo addreto discorse12: cioè che quel principe, che si appoggia tutto in su la fortuna, rovina come quella varia13. Credo ancora che sia felice quello che riscontra il modo del procedere suo
con la qualità de’ tempi: e similmente sia infelice quello che con il procedere suo si
discordano e’ tempi14. Perché si vede gli uomini, nelle cose che gli conducono al
fine quale ciascuno ha innanzi, cioè gloria e ricchezze, procedervi variamente: l’uno con rispetto, l’altro con impeto; l’uno per violenzia, l’altro con arte; l’uno con
pazienza, l’altro col suo contrario; e ciascuno con questi diversi modi vi può pervenire15. E vedesi ancora dua respettivi, l’uno pervenire al suo disegno, l’altro no;
e similmente dua equalmente felicitare con diversi studi, sendo l’uno rispettivo e
l’altro impetuoso: il che non nasce da altro, se non da la qualità de’ tempi che si
conformano, o no, col procedere loro16. Di qui nasce quello ho detto, che dua, diversamente operando, sortiscono el medesimo effetto: e dua equalmente operando, l’uno si conduce al suo fine e l’altro no17. Da questo ancora depende la variazione del
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bene18; perché se uno, che si governa con rispetti e pazienza, e’ tempi e le cose girano in modo che il governo suo sia buono, e’ viene felicitando: ma se e’ tempi e le cose
si mutano, rovina, perché e’ non muta modo di procedere19. Né si truova uomo sì prudente che si sappia accommodare a questo20: sì perché non si può deviare da quello a
che la natura lo inclina, sì etiam perché, avendo sempre uno prosperato camminando
per una via, non si può persuadere che sia bene partirsi da quella21. E però l’uomo
respettivo, quando e’ gli è tempo di venire allo impeto, non lo sa fare: donde e’ rovina; che se si mutassi natura con e’ tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna22.
Papa Iulio II23 procedé in ogni sua azione impetuosamente, e trovò tanto e’ tempi e le cose conforme a quello suo modo di procedere che sempre sortì felice fine24.
Considerate la prima impresa ch’e’ fe’ di Bologna, vivendo ancora messer Giovanni Bentivogli25. Viniziani non se ne contentavano; el re di Spagna, quel medesimo;
con Francia aveva ragionamenti di tale impresa26. E lui nondimanco con la sua ferocità e impeto si mosse personalmente a quella espedizione27. La qual mossa fece stare sospesi e fermi Spagna e viniziani, quegli per paura e quell’altro per il desiderio
aveva di recuperare tutto el regno di Napoli28; e da l’altro canto si tirò dietro il re
di Francia perché, vedutolo quel re mosso e desiderando farselo amico per abbassare e’ viniziani, iudicò non poterli negare gli eserciti sua sanza iniuriarlo manifestamente29. Condusse adunque Iulio con la sua mossa impetuosa quello che mai
altro pontefice, con tutta la umana prudenza, arebbe condotto30. Perché, se egli
aspettava di partirsi da Roma con le conclusioni ferme e tutte le cose ordinate, come
qualunque altro pontefice arebbe fatto, mai gli riusciva: perché il re di Francia aebbe avuto mille scuse e li altri li arebbono messo mille paure31. Io voglio lasciare stare le altre sua azioni, che tutte sono state simili e tutte gli sono successe32 bene: e
la brevità della vita non li ha lasciato sentire il contrario33; perché, se fussino
sopravvenuti tempi che fussi bisognato procedere con respetti, ne seguiva la sua
rovina: né mai arebbe deviato da quegli modi alli quali la natura lo inclinava34.
18. Da questo... bene: ‘Da questo dipende
anche (ancora) il tramutarsi del bene (in male)’.
Ma si può intendere anche ‘la relatività del
comportamento giusto’, ovvero il fatto che non
esiste un comportamento valido per tutte le
situazioni.
19. perché... procedere: ‘perché uno che si
comporta con cautela e pazienza, se i tempi e
le circostanze si volgono in modo che il suo
comportamento sia valido, continua a prosperare: ma se i tempi e le circostanze cambiano,
egli cade in rovina, perché non cambia il suo
comportamento (modo di procedere)’.
20. si sappia accommodare a questo: ‘sappia adattarsi a questo cambiamento’.
21. sì perché... da quella: ‘sia perché non può
deviare dalle inclinazioni che gli sono naturali,
sia anche (etiam, congiunzione latina) perché,
dopo che uno ha sempre avuto successo comportandosi in un certo modo (camminando per
una via) non può convincersi che sia giusto
comportarsi altrimenti (partirsi da quella,
‘allontanarsi da quella via’)’.
22. E però... fortuna: ‘E perciò (però) l’uomo
cauto (respettivo), quando è il momento di
essere risoluti (venire allo impeto) non lo sa
fare, per cui perde il potere (rovina); ma se
cambiasse natura col mutare dei tempi e degli
eventi, la sua sorte non cambierebbe’.
23. Papa Iulio II: Giuliano della Rovere (1443-
1513), papa dal 1503 al 1513 con il nome di Giulio II.
24. e trovò... fine: ‘e trovò i tempi e le situazioni adatte a quel suo modo di procedere tanto
che ottenne sempre un esito favorevole’.
25. Considerate... Bentivogli: ‘Prendete in
considerazione la prima impresa che fece a
Bologna, quando viveva ancora Giovanni Bentivoglio’. Nel 1506 il papa mosse guerra contro
Bologna, signoria dei Bentivoglio.
26. Viniziani... impresa: ‘I veneziani non ne
erano contenti; e il re di Spagna lo stesso (quel
medesimo, cioè non era soddisfatto); con la
Francia (il papa) stava trattando (aveva ragionamenti) in merito a tale impresa’.
27. E lui... espedizione: ‘Ma lui, nondimeno
(nondimanco) con la sua fierezza (ferocità) e la
sua impulsività (impeto) guidò personalmente
quella spedizione’.
28. La qual mossa... Napoli: ‘E questa risoluzione rese incerti e bloccò gli spagnoli e i veneziani: i veneziani per il timore, il re di Spagna (Ferdinando il Cattolico) per il desiderio di recuperare tutto il Regno di Napoli’. Il timore dei veneziani era quello di perdere i porti conquistati in Puglia nel 1494, porti che invece il re di Spagna voleva inglobare nel Regno di Napoli.
29. e da l’altro canto... manifestamente: ‘e (il
papa) d’altronde trascinò con sé il re di Francia
(nell’impresa di Bologna), perché, quel re,
avendo visto che il papa aveva già cominciato
l’impresa (vedutolo quel re mosso), e desiderando averlo come alleato per diminuire la
potenza (per abbassare) dei veneziani, ritenne
di non potergli negare i suoi eserciti senza
offenderlo chiaramente (sanza iniuriarlo manifestamente)’.
30. Condusse... condotto: ‘Dunque Giulio con
la sua mossa impulsiva portò a termine (Condusse) quello che nessun altro pontefice, con
tutta la prudenza umana, avrebbe mai portato
a termine (arebbe condotto)’.
31. Perché... paure: ‘Perché, se egli avesse
aspettato di muovere (con l’esercito) da Roma
con le trattative (conclusioni) terminate e tutti i
piani fissati, come avrebbe fatto qualunque
altro pontefice, non gli sarebbe mai riuscita (la
conquista di Bologna): perché il re di Francia
avrebbe addotto mille scuse e gli altri (Venezia
e Spagna) gli avrebbero avanzato mille minaccie (paure)’.
32. gli sono successe: ‘gli sono andate’.
33. sentire il contrario: ‘fare la prova di un esito contrario (negativo)’.
34. perché... lo inclinava: ‘perché, se fossero
sopraggiunti tempi in cui ci fosse stato bisogno
di agire con prudenza, ne sarebbe seguita la
sua rovina, perché mai egli avrebbe deviato da
quei comportamenti ai quali la sua natura lo
induceva (inclinava)’.
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14. Niccolò Machiavelli
75
Concludo adunque che, variando la fortuna e’ tempi e stando li uomini ne’ loro
modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme e, come e’ discordano, infelici35. Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo: perché
la fortuna è donna ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla36. E si
vede che la si lascia più vincere da questi, che da quegli che freddamente procedono37: e però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano38.
35. Concludo... infelici: ‘Poiché la fortuna
muta i tempi e gli uomini restano ostinati nei
loro comportamenti, concludo dunque che (gli
uomini) hanno successo (sono felici) fin tanto
che (mentre) si adeguano ai tempi, ma falliscono (sono... infelici) appena sono in contrasto
(coi tempi)’.
36. Io iudico... urtarla: ‘Nonostante tutto penso che sia sicuramente meglio essere impetuoso che prudente, perché la fortuna è donna ed
è quindi necessario, per sottometterla, picchiarla e farle violenza’.
37. E si vede... procedono: ‘E si può vedere
che si lascia sottomettere più da questi (gli
Lettura guidata
METÀ ALL’UOMO E METÀ ALLA FORTUNA Nelle
prime righe del capitolo Machiavelli prende in considerazione l’ipotesi di coloro che ritengono la fortuna padrona assoluta delle vicende umane, negando che l’uomo abbia la benché minima facoltà d’intervento. L’autore stesso ammette di essersi talora
accostato a questa posizione (a un terribile rovescio di fortuna, del resto, egli doveva la fine della
sua carriera politica). Subito dopo, però, questa prima ipotesi viene negata e sostituita con un’altra:
una metà degli eventi è in mano alla fortuna, ma
un’altra metà, o pressappoco, viene messa in mano
alla virtù dell’uomo. Per spiegare in che modo questo sia possibile, Machiavelli ricorre all’immagine
del fiume: quando il fiume è in piena, è vero che la
sua forza devastatrice non si può arginare; vero è
anche però che prima della piena l’uomo può
costruire argini e predisporre altri ripari in modo da
neutralizzare la violenza dell’acqua. Allo stesso
modo anche la virtù dell’uomo, secondo Machiavelli, può arginare il potere devastante della fortuna
prima che si manifesti: prevedendo i rischi e calcolando in anticipo i rimedi possibili.
FORTUNA E CARATTERE: IL «RISCONTRO» Dopo
questa enunciazione generale, Machiavelli entra nello specifico distinguendo fra i vari tipi di carattere
che gli uomini presentano di fronte agli eventi, insistendo soprattutto su due diverse indoli: quella calda, impetuosa e risoluta da una parte; e quella fred-
impetuosi) che non da quelli che agiscono con
freddezza (con prudenza)’.
38. e però... comandano: ‘E perciò, in quanto
donna, (la fortuna) è sempre amica dei giovani,
perché sono meno prudenti, più aggressivi
(feroci), e con più audacia le impongono ordini’.
da, prudente e respettiva (cauta) dall’altra. Secondo
Machiavelli la possibilità di successo di un principato dipende da una ben precisa corrispondenza, o
«riscontro», fra l’indole del principe e la natura
delle circostanze in cui il principe si trova ad agire.
Se gli eventi si adattano a una gestione del potere
cauta e guardinga, allora avrà successo un principe
respettivo. Ma se gli eventi chiedono una gestione risoluta, sarà invece il principe impetuoso a prevalere. La tragica conseguenza di questa teoria del riscontro è che, se un principe si trova ad affrontare
una situazione che gli impone di comportarsi diversamente da come ha fatto fino a quel punto, difficilmente farà violenza a sé stesso, comportandosi da
impetuoso anziché da respettivo o viceversa. A questa contraddizione Machiavelli non trova rimedio.
Semplicemente, si limita a constatare la felice corrispondenza fra il carattere di Giulio II e le circostanze tra le quali egli si trovò a esercitare il proprio potere: una coincidenza che permise al papa di averla
sempre vinta sui propri avversari, messi in scacco
dall’imprevedibilità delle sue manovre. Sennonché,
si chiede Machiavelli, cosa sarebbe successo se Giulio II avesse dovuto fronteggiare una situazione che
avesse richiesto una gestione cauta, fredda e respettiva?
INVITO ALL’AUDACIA A questa domanda non sem-
bra esserci risposta. E tuttavia alla fine del capitolo
Machiavelli vira bruscamente verso una soluzione
possibile. Pur sapendo che un comportamento sempre valido non esiste, l’autore privilegia una gestio-
ANTOLOGIA
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I Grandi Autori
ne audace e veemente del potere, facendo leva sulla motivazione che «la fortuna è donna» e che, di
conseguenza, essa vada trattata come una donna volubile e capricciosa: vale a dire con la violenza fisica
e con l’impeto brutale che è proprio dei giovani, dai
quali ogni donna, secondo Machiavelli, preferisce
essere comandata piuttosto che dai vecchi. Allo
stesso modo, in linea di massima, anche un principe
impetuoso si conquisterà i favori della fortuna più facilmente che un principe respettivo.
Esercizi
comprensione
1. Rappresenta in forma di schema il procedere argomentativo dello scrittore: dalla premessa alla conclusione. Ricorda di evidenziare gli esempi, le obiezioni, tutte
le strategie che l’autore mette in opera per sostenere
la propria tesi.
2. Riassumi il capitolo a diversi livelli di sintesi: prima in
100 parole circa e poi in 50 circa.
analisi e interpretazione
3. Due similitudini principali sorreggono il presente
LC6
capitolo: individuale e spiega il loro significato usando
circa 200 parole.
contestualizzazione
4. Confronta questo capitolo con quelli che hai letto
precedentemente e prova a individuare il lessico ricorrente nel Principe: verifica poi se le espressioni che
avrai individuato sono ancora presenti nell’italiano contemporaneo oppure no, e qualora lo siano, se l’accezione in cui sono usate si è conservata nell’italiano contemporaneo oppure no.
Giorgio Inglese: virtù e fortuna nel Principe
Giorgio Inglese, Introduzione a Niccolò Machiavelli, Il Principe
Giorgio Inglese (nato nel 1956) è autore dell’ultima edizione critica del Principe, quella che abbiamo usato in questa antologia. In un saggio complessivo sul capolavoro di Machiavelli, pubblicato ora anche come introduzione a un’edizione tascabile del trattato, Inglese riflette su un
tema cruciale: il rapporto fra virtù e fortuna e la legge del riscontro (o corrispondenza) fra l’indole del principe e la natura dei tempi. Ne riportiamo qui di seguito un breve passo.
Pur nel caldo tono esortativo – che spiegabilmente accentua i segni del favore divino
per i Medici – Machiavelli non manca di sottolineare che la redenzione sarà opera di
virtù e sarà opera umana. «Dio non vuole fare ogni cosa»: ha dato il segno, ma «el rimanente dovete fare voi». La redenzione «non fia molto difficile, se vi recherete innanzi le azioni e vita de’ sopra nominati». Non vi potrà essere grande difficoltà, «pure che
quella [Casa] pigli delli ordini di coloro che io ho preposti per mira»1. Come nel VI, così nel XXVI, il motivo della «occasione» si colora di provvidenzialismo, perché tende
a trascorrere in una idea della storia per cui il negativo, la rovina, la distruzione – in
quanto premessa necessaria del positivo, dello stato, della potenza – vengano alla fine compresi e razionalmente dominati. Simbolo di questa esigenza concettuale è Dio.
Ma «Dio non vuole fare ogni cosa»: tra la rovina e la redenzione, sta l’ardua prova della virtù, che può riuscire o fallire («se vi recherete innanzi [...] pure che quella pigli»);
e allora tra rovina e redenzione, tra negativo e positivo, ogni necessità si scioglie, e ci
ritroviamo in una storia di conflitto assoluto, dall’esito non predeterminabile.
Se si volesse ricondurre tutto il pensiero machiavelliano a un motivo generatore
e onnipresente, bisognerebbe meditare proprio su questo confronto con il momento
oscuro e negativo della storia. Quel che resiste alla interpretazione razionale degli ac1. Dio non vuole... preposti per mira: citazioni tratte dal cap. XXVI [uT100].
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14. Niccolò Machiavelli
2. questi nostri principi... possono mutarsi:
queste citazioni sono tratte dal cap. XXIV, il primo dei tre capitoli conclusivi, non riportato nella nostra antologia.
3. la sussistenza... pericolo: ‘la permanenza
ineliminabile del quale (rischio) deve essere
concepita (dal principe) come un calcolo del
massimo pericolo’.
4. Scipione/Fabio: allude a due eroi della storia romana, campioni, rispettivamente, di risolutezza e di cautela nell’azione: Publio Cornelio
Scipione Africano (235-183 a.C.), vincitore di
Annibale a Zama (202) e Quinto Fabio Massimo
(275-203 a. C.), il quale si era opposto ad Annibale eludendo il confronto diretto; per questo
fu soprannominato il Temporeggiatore.
T100 Esortazione a liberare l’Italia
Il Principe, cap. XXVI
Dopo che nei precedenti 25 capitoli ha analizzato in una luce razionale e obiettiva la forma di
governo monarchica, nell’ultimo capitolo Machiavelli adotta uno stile appassionato e profetico. Esortandolo a mettere in pratica i consigli dispensati nel trattato, Machiavelli si rivolge ora
al suo destinatario Lorenzo de’ Medici (nipote di Lorenzo il Magnifico) affinché si metta a capo
degli Stati italiani e ponga fine alla dominazione straniera sull’Italia cominciata vent’anni prima, con la discesa di Carlo VIII (1494).
ANTOLOGIA
cadimenti, e perciò resiste allo sforzo di previsione, è «fortuna». Il lavoro dell’interpretazione è tutto rivolto a superare questa resistenza, a cancellare il margine irrazionale-imprevedibile della «fortuna» (la malattia del Valentino, per esempio). Nell’interpretazione della rovina d’Italia, Machiavelli ha toccato la soglia della integrale razionalizzazione («questi nostri principi [...] non accusino la fortuna»), ma subito
ha dovuto restituire al quadro un fattore di rischio, che la previsione deve considerare ma non può dissolvere: «perché, non avendo mai ne’ tempi quieti pensato ch’e’
possono mutarsi»2. L’interpretazione-previsione non può eliminare il rischio: la sussistenza irriducibile del quale deve essere ragionata come “calcolo” del massimo pericolo3 (e, quindi, della migliore attrezzatura: «fare provedimento e con ripari e con
argini»). Questa ineliminabile insicurezza fa, dell’agire, un agire politico in senso proprio; da essa – come si è visto – e non da altro, nasce la necessità della forza e della
frode («perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non sono buoni», XV, 5).
Nel capitolo XXV, l’esame dei limiti imposti all’agire conosce il massimo del rigore: «In universali», esso è consegnato all’attesa di un «fiume rovinoso» la cui potenza
sfugge a ogni misura: quanto al «particulare», gli individui che agiscono politicamente sono vincolati a caratteristiche di comportamento (in ultima analisi: scatto e prudenza, «impeto» e «respetto») il cui riscontro positivo con la necessità del momento –
la «qualità dei tempi», che richiede l’impiego dell’uno o dell’altro «modo» – è affatto
casuale. È come se, di là dai suoi già riconosciuti lineamenti costituzionali [...], l’agire politico rispondesse a una doppia velocità, a un duplice principio operativo (azione risolutiva/azione logoratrice: Scipione/Fabio4); e in questa determinazione estrema riflettesse tuttavia la «naturale» predisposizione alla cautela o all’audacia dell’individuo che di caso in caso è investito di comando, non già il risultato di una scelta
razionale conseguente all’esame della realtà. Si intende che per Machiavelli la crisi
italiana esige impeto, non respetto; ma sarebbe vano consigliare «impeto» a un «respettivo» e viceversa. «Infine, non consiglar persona né piglar consiglo da persona,
excepto un consiglo generale: che ognun facci quello che li detta l’animo et con audacia», aveva scritto nel 1506, in margine ai Ghiribizi al Soderino.
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I Grandi Autori
Exhortatio ad capessendam italiam in libertatemque a barbaris vindicandam1
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Considerato adunque tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesimo se
al presente in Italia correvano tempi da onorare uno nuovo principe, e se ci era materia che dessi occasione a uno prudente e virtuoso d’introdurvi forma che facessi
onore a lui e bene alla università delli uomini di quella, mi pare concorrino tante cose in benefizio di uno principe nuovo, che io non so qual mai tempo fussi più atto a
questo2. E se, come io dissi, era necessario, volendo vedere la virtù di Moisè, che il
populo d’Isdrael fussi stiavo in Egitto; e a conoscere la grandezza dello animo di Ciro, che e’ persi fussino oppressati da’ medi; e la eccellenza di Teseo, che li ateniesi fussino dispersi; così al presente, volendo conoscere la virtù di uno spirito italiano, era
necessario che la Italia si riducessi ne’ termini presenti, e che la fussi più stiava che li
ebrei, più serva che ’ persi, più dispersa che gli ateniesi: sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa, e avessi sopportato d’ogni sorte ruina3.
E benché insino a qui si sia mostro qualche spiraculo in qualcuno, da potere iudicare ch’e’ fussi ordinato da Dio per sua redenzione, tamen si è visto come di poi,
nel più alto corso delle azioni sua, è stato da la fortuna reprobato4. In modo che,
rimasa come sanza vita, aspetta quale possa essere quello che sani le sua ferite e
ponga fine a’ sacchi di Lombardia, alle taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca
da quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite5. Vedesi come la priega Iddio
che li mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà ed insolenze barbare6. Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la
pigli. Né ci si vede al presente in quale lei possa più sperare che nella illustre Casa
vostra, la quale con la sua fortuna e virtù, favorita da Dio e da la Chiesa, della quale è ora principe, possa farsi capo di questa redenzione7. Il che non fia molto difficile, se vi recherete innanzi le azioni e vita de’ sopra nominati8; e benché quelli
uomini sieno rari e meravigliosi, nondimeno furno uomini, ed ebbe ciascuno di
loro minore occasione che la presente9: perché la impresa loro non fu più iusta di
questa, né più facile, né fu Dio più amico loro che a voi. Qui è iustizia grande:
1. Exhortatio... vindicandam: ‘Esortazione a
difendere l’Italia e liberarla dai barbari’. I barbari sono ovviamente le potenze straniere: Spagna e Francia.
2. Considerato... a questo: ‘Considerati dunque tutti gli argomenti appena trattati (di sopra
discorse), e chiedendomi (pensando meco medesimo) se al presente in Italia non ci siano le
condizioni (correvano tempi) che permettano a
un principe nuovo di guadagnarsi l’onore (da
onorare uno nuovo principe), e (chiedendomi) se
non ci siano le premesse tali da dare (se ci era
materia che dessi) a un principe accorto e capace l’occasione di introdurre in Italia una nuova
forma politica, che a lui procuri onore e (faccia il)
bene di tutti gli italiani (università delli uomini di
quella), mi sembra che concorrano a favore (in
benefizio) di un principe nuovo tante circostanze, che io non so quale mai altro momento storico sia stato più propizio (atto) a questo (scopo)’.
3. E se... ruina: ‘E se, come io dissi (nel cap. VI:
uT95), affinché si manifestasse la capacità politica (volendo vedere la virtù) di Mosè, era
necessario che il popolo di Israele fosse schiavo in Egitto; e per conoscere la magnanimità di
Ciro, (era necessario) che i Persiani fossero
oppressi dai Medi; e (per conoscere) l’eccellen-
za di Teseo, (era necessario) che gli Ateniesi
fossero politicamente divisi; così nel momento
presente, affinché si riconosca la capacità politica di un spirito italiano, era necessario che l’Italia si riducesse nelle (misere) condizioni
attuali, e che essa fosse più schiava degli ebrei,
più serva dei Persiani e più divisa degli Ateniesi; senza un capo, senza un ordinamento, percossa (battuta), saccheggiata, lacerata, attraversata da eserciti stranieri (corsa, letteralmente: ‘percorsa’), e avesse sopportato ogni
sorta di sciagura (d’ogni sorte ruina)’.
4. E benché... reprobato: ‘E sebbene sino a
questo punto si sia mostrato (mostro) in qualcuno un qualche barlume (spiraculo, spiraglio
dal quale filtra il barlume) tale da indurre a credere che egli fosse stato destinato (ordinato)
da Dio per la salvezza (redenzione) dell’Italia
(sua), tuttavia (tamen, congiunzione latina) si è
visto come in seguito, all’apice delle sue imprese, sia stata respinto (reprobato, latinismo) dalla fortuna’. Quest’uomo della Provvidenza è il
duca Valentino (cfr. cap. VII: uT96).
5. In modo... infistolite: ‘Cosicché (l’Italia),
rimasta (rimasa) quasi senza vita, aspetta chi
possa essere l’uomo che curi (sani) le sue ferite e ponga fine ai saccheggi in Lombardia, alle
tasse (taglie, per il loro peso elevato) imposte
al regno di Napoli (il “Reame” per antonomasia)
e alla Toscana, e la guarisca da quelle piaghe
già da lungo tempo incancrenite (infistolite)’.
6. Vedesi... barbare: ‘Si vede bene che essa
prega Dio (la priega Iddio) che le mandi qualcuno che la salvi da queste crudeltà e da queste
offese dovute a stranieri’.
7. Né ci si vede... redenzione: ‘E al presente
non si vede qui (ci, in Italia) in quale famiglia
essa (lei, l’Italia) possa sperare più che nella
vostra illustre famiglia (la casata dei Medici), la
quale con la sua fortuna e la sua capacità, favorita da Dio e dalla Chiesa, della quale ora è a
capo (nel momento in cui Machiavelli scrisse Il
Principe, nel 1513, era appena stato eletto pontefice Giovanni de’ Medici, papa Leone X), possa capeggiare questa riscossa (redenzione)’.
8. Il che... nominati: ‘E questo non sarà (fia)
molto difficile, se terrete a mente le azioni e la
vita di coloro che ho appena nominati (Mosè,
Ciro, Teseo)’.
9. e benché... presente: ‘e benché quegli
uomini siano rari e tali da destare meraviglia,
nondimeno furono uomini anche loro, e ciascuno di loro ebbe un’occasione meno favorevole
(minore) della presente’.
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14. Niccolò Machiavelli
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iustum enim est bellum quibus necessarium et pia arma ubi nulla nisi in armis spes
est10. Qui è disposizione grandissima: né può essere, dove è grande disposizione,
grande difficultà, pure che quella pigli delli ordini di coloro che io ho preposti per
mira11. Oltre a di questo, qui si veggono estraordinari sanza esemplo, condotti da
Dio: el mare si è aperto; una nube vi ha scorto il cammino; la pietra ha versato
acque; qui è piovuto la manna12. Ogni cosa è concorsa nella vostra grandezza13. El
rimanente dovete fare voi: Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci tòrre el libero
arbitrio14 e parte di quella gloria che tocca a noi.
E non è maraviglia se alcuno de’ prenominati italiani non ha possuto fare quello che si può sperare facci la illustre Casa vostra, e se, in tante revoluzioni di Italia
e in tanti maneggi di guerra, e’ pare sempre che in Italia la virtù militare sia spenta; perché questo nasce che gli ordini antichi di quella non erono buoni, e non ci è
suto alcuno che abbia saputo trovare de’ nuovi15. E veruna cosa fa tanto onore a
uno uomo che di nuovo surga, quanto fa le nuove legge ed e’ nuovi ordini trovati
da lui: queste cose, quando sono bene fondate e abbino in loro grandezza, lo fanno reverendo e mirabile16. E in Italia non manca materia da introdurvi ogni forma:
qui è virtù grande nelle membra, quando la non mancassi ne’ capi17. Specchiatevi
ne’ duelli e ne’ congressi de’ pochi, quanto gli italiani sieno superiori con le forze,
con la destrezza, con lo ingegno; ma come e’ si viene alli eserciti, non compariscono18. E tutto procede da la debolezza de’ capi: perché quegli che sanno non sono
ubbiditi e a ciascuno pare sapere, non ci essendo insino a qui suto alcuno che si sia
rilevato tanto, e per virtù e per fortuna, che li altri cedino19.
Di qui nasce che in tanto tempo, in tante guerre fatte ne’ passati venti anni,
quando gli è stato uno esercito tutto italiano, sempre ha fatto mala pruova20: di
10. Qui... spes est: ‘Questa impresa è giusta
più di ogni altra: la guerra infatti è giusta per
coloro ai quali è necessaria e sono pietose le
armi quando non c’è speranza se non nelle
armi’. Citazione da Livio, lo storico latino che
Machiavelli prenderà come punto di riferimento nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio:
il passo viene dall’opera Ab Urbe condita, IX, 1.
11. Qui è disposizione... per mira: ‘Ora l’occasione è favorevolissima e non può esserci grande difficoltà, se l’occasione è favorevole, a patto che quella (la famiglia dei Medici) tragga
spunto dagli ordinamenti di coloro che io ho
additato a modello. – pigli delli ordini: letteralmente ‘prenda (alcuni) degli ordinamenti’.
12. Oltre a di questo... manna: ‘Oltre a questo,
oggi si vedono prodigi (estraordinari) senza
precedenti compiuti (condotti) da Dio: il mare si
è aperto; una nube ha mostrato la strada attraverso di quello (vi ha scorto il cammino); la roccia ha sprigionato acqua, il cibo (manna) è piovuto dal cielo’. Machiavelli sta riferendo ai
Medici alcuni dei più celebri prodigi narrati nella Bibbia, a proposito dell’esodo dall’Egitto
degli ebrei sotto la guida di Mosè: il Mar Rosso
che si apre per far loro strada; la colonna di
fuoco e di nubi che segna il cammino; l’acqua
miracolosamente sgorgata dalla roccia nel
deserto del Sinai; la caduta della manna. Ricordando questi eventi narrati nel libro dell’Esodo,
Machiavelli allude in forma allegorica all’elezione di Giovanni de’ Medici al soglio pontificio.
13. Ogni cosa... grandezza: ‘Tutto ha contribuito alla vostra grandezza’. Più esplicitamen-
te, ci viene detto che i prodigi dell’Antico Testamento si compiono nell’attuale grandezza dei
Medici.
14. per non... arbitrio: ‘per non toglierci (a noi
uomini) la libertà di scelta’; sulla particolare
accezione di “libero arbitrio” proposta da
Machiavelli cfr. cap. XXV [uT99].
15. E non è... nuovi: ‘E non c’è da meravigliarsi se nessuno dei principi italiani nominati prima (Francesco Sforza e il Valentino di cui parla
il cap. VII: uT96) non hanno potuto fare quello
che si può sperare che faccia l’illustre vostra
famiglia, e se, fra tanti sconvolgimenti (revoluzioni) dell’Italia e tante azioni belliche (maneggi
di guerra), il valore militare in Italia appare
estinto; il motivo è che gli ordinamenti antichi
dell’Italia (di quella) non erano buoni, e non c’è
stato (suto) nessuno che abbia saputo trovarne
di nuovi’. Come si capirà dal seguito del brano,
gli ordinamenti antichi, bisognosi di riforma,
sono in primo luogo le istituzioni militari.
Secondo Machiavelli infatti è indispensabile
che l’Italia passi da un sistema di milizie mercenarie, infedeli, a un sistema di milizie proprie,
fedeli.
16. E veruna cosa... mirabile: ‘E nessuna cosa
fa tanto onore a un principe nuovo emergente
(a uno uomo che di nuovo surga) quanto fanno
(fa) le nuove leggi e i nuovi ordinamenti da lui
ideati: queste cose, quando sono ben fondate
(sono bene fondate) e quando si prefiggono
grandi obiettivi (letteralmente: ‘abbiano in sé
grandezza’), lo rendono oggetto di reverenza e
di ammirazione’.
17. E in Italia... ne’ capi: ‘E in Italia non manca
la materia (umana) in grado di ricevere ogni
ordinamento possibile (da introdurvi ogni forma): qui c’è grande valore nelle membra, se
non mancasse nei capi’. Fuor di metafora, le
membra sono le popolazioni italiane soggette;
i capi i principi italiani, incapaci di guidarle. –
materia... forma: sono due termini aristotelici:
indicano rispettivamente la materia grezza e il
disegno o progetto in base al quale la materia
può essere lavorata.
18. Specchiatevi... compariscono: ‘Guardate
bene come nei duelli e negli scontri fra pochi
gli italiani siano superiori per forza, agilità,
intelligenza; ma non appena si arriva a uno
scontro fra eserciti, essi non fanno una buona
figura’.
19. E tutto procede... cedino: ‘E tutto deriva
(procede) dalla debolezza dei capi, perché
quelli che sanno (cosa fare) non sono ubbiditi
e a tutti pare di sapere (quello che si deve fare),
visto che nessuno, fino a questo momento, si è
tanto elevato sopra gli altri, per capacità e per
fortuna, al punto da indurre tutti gli altri a
cedergli il comando (che li altri cedino)’.
20. Di qui... pruova: ‘È per questo (Di qui
nasce) che in tanto tempo, in tante guerre fatte negli ultimi venti anni, quando c’è stato un
esercito tutto italiano ha sempre dato cattiva
prova di sé’. Machiavelli calcola il ventennio dal
1494 al 1513 (l’anno del Principe). Si ricordi che
nel 1494, con la discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII, erano cominciate le guerre per il
predominio in Italia di Francia e Spagna.
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che è testimone prima el Taro, di poi Alessandria, Capua, Genova, Vailà, Bologna,
Mestri21.
Volendo adunque la illustre Casa vostra seguitare quelli eccellenti uomini che redimerno le provincie loro, è necessario innanzi a tutte le altre cose, come vero fondamento d’ogni impresa, provedersi d’arme proprie22, perché non si può avere né più
fidi, né più veri, né migliori soldati: e benché ciascuno di essi sia buono, tutti insieme diventeranno migliori quando si vedranno comandare dal loro principe, e da quello onorare e intrattenere23. È necessario pertanto prepararsi a queste arme, per potersi con la virtù italica defendersi da li esterni24. E benché la fanteria svizzera e spagnola sia esistimata terribile, nondimanco in ambedue è difetto per il quale uno ordine terzo potrebbe non solamente opporsi loro, ma confidare di superargli25. Perché
gli Spagnoli non possono sostenere e’ cavagli, e’ svizzeri hanno ad avere paura de’
fanti quando gli riscontrino nel combattere ostinati come loro26: donde si è veduto e
vedrassi, per esperienza, li Spagnoli non potere sostenere una cavalleria francese, e
li svizzeri essere rovinati da una fanteria spagnola27. E benché di questo ultimo non
se ne sia visto intera esperienza, tamen se ne è veduto uno saggio nella giornata di
Ravenna, quando le fanterie spagnole si affrontorno con le battaglie tedesche, le quali servano el medesimo ordine che le svizzere28: dove li Spagnoli, con la agilità del
corpo e aiuto de’ loro brocchieri, erano entrati, tra le picche loro, sotto e stavano sicuri a offendergli sanza che e’ tedeschi vi avessino rimedio; e se non fussi la cavalleria, che gli urtò, gli arebbono consumati tutti29. Puossi adunque, conosciuto il difetto dell’una e dell’altra di queste fanterie, ordinarne una di nuovo, la quale resista a’
cavalli e non abbia paura de’ fanti: il che lo farà la generazione delle arme e la variazione delli ordini30; e queste sono di quelle cose che, di nuovo ordinate, danno reputazione e grandezza a uno principe nuovo31.
Non si debba adunque lasciare passare questa occasione, acciò che la Italia vegga dopo tanto tempo apparire uno suo redentore32. Né posso esprimere con quale
21. di che... Mestri: ‘e di questo sono testimonianza prima la sconfitta al Taro, e poi quelle di
Alessandria, Capua, Genova, Vailate, Bologna,
Mestre’. Si allude a varie sconfitte degli eserciti
italiani da parte di Francia o Spagna. Celebri in
particolare la battaglia di Fornovo sul Taro, nel
1495, quando Carlo VIII debellò lo sbarramento
degli eserciti italiani; e la battaglia di Agnadello
(vicino a Vailate) che vide soccombere le forze
veneziane sotto quelle francesi (1509).
22. Volendo adunque... arme proprie: ‘Se
dunque la vostra nobile casata vorrà imitare
(seguitare, letteralmente: ‘seguire’) quegli
uomini eccellenti (Mosè, Ciro, Teseo) che liberarono (redimerno) i loro paesi, è necessario
prima di tutto provvedersi di un esercito proprio (cioè, non mercenario), il che è il vero fondamento di ogni impresa.
23. perché... intrattenere: ‘perché non si possono avere soldati più fedeli, né più sinceri
(veri), né più validi (migliori): e benché ciascuno di essi sia valoroso, tutti insieme diventeranno migliori quando si vedranno comandati dal
loro principe, e da quello essere onorati e trattati con rispetto (intrattenere)’.
24. È necessario... esterni: ‘È necessario pertanto dotarsi di questi eserciti, per potersi difendere dagli stranieri (esterni) con il valore italico’.
25. E benché... superargli: ‘E sebbene la fanteria svizzera e quella spagnola siano reputate
(sia esistimata) terribili, tuttavia in entrambe si
trova un difetto, a causa del quale una fanteria
diversamente ordinata (uno ordine terzo)
sarebbe in grado non solo di opporsi a loro, ma
potrebbe sperare di vincerle’.
26. Perché... loro: ‘Perché gli spagnoli non
sono in grado di resistere alla cavalleria, mentre gli svizzeri hanno ragione di temere della
fanteria quando la trovino tenace al par di loro
nel combattere’.
27. donde... spagnola: ‘per cui si è visto e si
vedrà, per esperienza, che gli spagnoli non
possono resistere a una cavalleria francese e
che gli svizzeri sono sgominati (rovinati) da una
fanteria spagnola’.
28. E benché... le svizzere: ‘E benché di questo ultimo (caso) non se ne si sia avuta esperienza diretta, tuttavia (tamen, congiunzione
latina) se n’è avuto un segno (saggio) nella battaglia (giornata) di Ravenna, quando le fanterie
spagnole affrontarono i battaglioni (le battaglie) tedeschi, che impiegano (servano) l’identico schieramento dei battaglioni svizzeri’.
Machiavelli allude alla battaglia di Ravenna (11
aprile 1512), dove una coalizione di eserciti
veneziani e spagnoli, uniti insieme da Giulio II
nella Lega Santa, affrontò l’esercito dei francesi (coi loro alleati) ed ebbe la peggio.
29. dove li Spagnoli... tutti: ‘nella quale battaglia
(dove) gli spagnoli, con l’agilità del corpo e con
l’aiuto dei loro brocchieri (piccoli scudi rotondi
muniti di una punta al centro) si erano incuneati
fra le loro picche (aste lunghe) e potevano colpirli senza correre rischi (stavano sicuri a offendergli), senza che i soldati tedeschi (alleati dei francesi) potessero impedirlo (vi avessino rimedio): e se
non fosse stato per la cavalleria, che caricò contro di loro (gli urtò), (gli spagnoli) li avrebbero sterminati (consumati) tutti (i tedeschi)’. Con questa
evocazione della battaglia di Ravenna, Machiavelli prova che la debolezza degli svizzeri e dei tedeschi è messa in crisi da una fanteria tenace come
quella spagnola; ma che gli spagnoli, a loro volta,
non possono difendersi dalla cavalleria.
30. Puossi adunque... ordini: ‘È dunque possibile, una volta riconosciuto il punto debole dell’una e dell’altra fanteria, organizzare una (fanteria) di nuova concezione (di nuovo), la quale resista alla cavalleria e non si lasci intimorire dai
fanti (tenaci, come quelli spagnoli); e questa
sarà resa possibile dal tipo di armamento (generazione delle arme) e dalla riforma del modo di
schierarsi (la variazione delli ordini)’.
31. e queste... nuovo: ‘e questo è il genere di
cose che, inventate come nuove, attribuiscono
a un principe nuovo prestigio e grandezza’.
32. Non si... redentore: ‘Non si deve (debba,
congiuntivo esortativo) dunque lasciar passare
questa occasione, affinché l’Italia veda apparire, dopo tanto tempo, un suo redentore’.
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amore e’ fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni esterne, con che sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con
che lacrime33. Quali porte se li serrerebbono?34 Quali populi gli negherebbono la
obbedienza? Quale invidia se li35 opporrebbe? Quale italiano gli negherebbe lo ossequio?36 A ognuno puzza questo barbaro dominio37. Pigli adunque la illustre Casa
vostra questo assunto, con quello animo e con quella speranza che si pigliono le
imprese iuste, acciò che, sotto la sua insegna, e questa patria ne sia nobilitata e, sotto e’ sua auspici, si verifichi quel detto del Petrarca38, – quando disse:
Virtù contro a furore
prenderà l’armi, e fia el combatter corto,
che l’antico valore
nelli italici cor non è ancor morto39.
33. Né posso... lacrime: ‘Né posso esprimere
con quale amore (questo nuovo principe)
sarebbe accolto (ricevuto) in tutte le regioni
(provincie) che hanno sofferto di queste inondazioni venute dall’esterno (metafora per le
invasioni straniere); con quale sete di vendetta, con quale radicata fedeltà (ostinata fede);
con che devozione (pietà, latinismo), con quali
lacrime (di commozione)’.
34. Quali... serrerebbono?: ‘Quali porte resterebbero chiuse a lui (li, cioè al principe nuovo)?’.
35. se li: ‘gli si’.
36. ossequio: ‘obbedienza, reverenza’.
37. A ognuno... dominio: ‘Fa puzza a tutti il
dominio degli stranieri (sull’Italia)’. – puzza:
corposa metafora per ‘ripugna’.
38. Pigli adunque... Petrarca: ‘Il vostro illustre
casato assuma dunque su di sé questo compito (assunto) con quella risolutezza e con quella fiducia, con le quali (che) si intraprendono le
azioni giuste, affinché (acciò che) sotto il suo
vessillo (insegna) questa patria (Firenze) sia
Lettura guidata
UN’ESORTAZIONE DALLE FONDAMENTA SOLIDE
Raccogliendo le fila di tutto il trattato, nell’ultimo
capitolo del Principe Machiavelli si rivolge direttamente alla casata dei Medici e in particolare a Lorenzo duca di Urbino, che ne è il dedicatario [u14.6].
Si tratta di un’esortazione a liberare l’Italia dai barbari, vale a dire dal dominio di Francia e Spagna. Mettendo a frutto quanto ha detto nei capitoli dedicati
al principato nuovo (specie nei capp. VI: uT95 e VII:
uT96), Machiavelli insiste sul fatto che la sua esortazione è tutt’altro che infondata e che, al contrario,
poggia su ragioni teoriche solidissime: sulle analisi
presentate nei capitoli precedenti. Secondo Machiavelli, infatti, nell’Italia del 1513 (l’anno in cui fu
scritto il trattato) ci sarebbero le stesse condizioni
favorevoli che permisero ai grandi principi nuovi
del passato (Mosè, Ciro, Teseo, Romolo, ecc.) di assumere il potere e di liberare i loro popoli da una
condizione sfavorevole. Per questo è impossibile che
gli Stati italiani, tempestati dalla sfortuna, non si
sottomettano all’autorità di un principe nuovo, a
nobilitata e, sotto la sua protezione (e’ sua
auspici), si realizzi (si verifichi) quel che disse il
Petrarca’.
39. Virtù... morto: ‘La virtù (italiana) si armerà
contro il furore (straniero) e il combattimento
sarà breve; perché il valore antico (ereditato
dai Romani) non è ancora morto nei cuori italiani’. Machiavelli conclude il trattato usando
come epigrafe i vv. 93-96 della canzone politica di Petrarca Italia mia, benché ’l parlar sia
indarno (Canzoniere, 128).
patto che sia dotato di sufficiente “virtù” (capacità
politica), ovvero: a patto che il principe nuovo metta in pratica i modelli e i comportamenti additati nel
Principe.
LA VOCE DI UN PROFETA Oltre a insistere su soli-
de ragioni politiche, l’esortazione a liberare l’Italia
si impone soprattutto come una grande invocazione profetica. Dopo che nei precedenti capitoli, Dio
è sempre stato tenuto ai margini (se non proprio al
di fuori) delle vicende terrene, ecco che nell’ultimo
capitolo, sorprendentemente, la liberazione dell’Italia dai barbari viene presentata dall’autore in una
luce biblica e veterotestamentaria. Proprio come
Mosè fu ispirato da Dio quando liberò gli ebrei dalla schiavitù d’Egitto, così anche Lorenzo de’ Medici
viene spronato da Machiavelli ad assumere il
comando e a liberare l’Italia. Addirittura, in forma
allegorica, il segretario fiorentino può riferire ai
Medici i prodigi dell’Antico Testamento (lo spalancarsi del mare, il miracoloso sgorgare delle acque
dalla roccia, la discesa della manna). E non a caso
può invitare il suo destinatario a cogliere l’occasione di farsi redentore dell’Italia («Non si debba adun-
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I Grandi Autori
que lasciare passare questa occasione, acciò che la
Italia vegga dopo tanto tempo apparire uno suo
redentore», rr. 78-79). Profetico, inoltre, è lo stile
di tutto il capitolo: uno stile patetico, fatto di frasi spezzate e ricco di interrogative retoriche. Né
mancano metafore corpose, di gusto dantesco,
come quella celeberrima che conclude il trattato:
«A ognuno puzza questo barbaro dominio» (r. 84).
UN SEGRETO MILITARE È da notare tuttavia come
l’autore non si allontani mai da un orizzonte concretamente politico. Non a caso, poco prima della conclusione, vediamo tornare alla ribalta il Machiavelli
teorico, esperto di tattica militare. L’ultima prova
che egli fornisce ai Medici delle proprie capacità politiche – tenuta volontariamente alla fine, in posizione di rilievo – concerne la necessità di riformare le
milizie. Per contrastare la temutissima fanteria della Spagna e quella dei mercenari svizzeri, Machiavelli prima illumina i rispettivi punti deboli: gli spagnoli non reggono l’urto della cavalleria; gli svizzeri (come i tedeschi) non sanno far fronte a una fanteria agguerrita. L’ultimo consiglio dispensato da Machiavelli è dunque quello di istruire un nuovo metodo di
combattimento, in grado di resistere, al tempo stesso, alla cavalleria e alla fanteria.
PER NON EQUIVOCARE Come si può facilmente
intuire, questo brano del Principe ebbe straordinaria
fortuna nell’Ottocento, quando il problema dell’unità d’Italia fu particolarmente urgente e gli storici
italiani rilessero in chiave risorgimentale la storia
della nostra letteratura. E tuttavia è indispensabile
non equivocare le reali intenzioni di Machiavelli. Come Petrarca, di cui sono citati in epigrafe i versi di
una celebre canzone politica, anche Machiavelli non
ha in mente l’unità d’Italia in chiave nazionale, ciò
che potrà attuarsi solo nel 1861. L’Italia ai suoi occhi è un’entità geografica e culturale, è la culla dell’Impero romano, depositaria di quell’«antico valore» di cui parlano anche i versi petrarcheschi. Di conseguenza, ciò che propone il segretario fiorentino
non è un’unità politica forte, bensì la semplice egemonia di uno Stato (fiorentino) sopra gli altri: una
condizione analoga, insomma, a ciò che aveva iniziato a fare il Valentino a partire dal suo Stato personale in Romagna, prima che la fortuna si abbattesse su di lui.
Esercizi
comprensione
1. Sottolinea nel testo le informazioni principali, poi sulla base di queste scrivi un riassunto della lunghezza di
circa 80 parole.
2. Nel capitolo che hai letto sono numerosi i riferimenti a personaggi o eventi della cultura classica e biblica.
Riportali sul tuo quaderno e, se li hai già incontrati in
qualche altro passo letto, indica in quale capitolo e a
che proposito.
analisi e interpretazione
3. Fai un’analisi retorica e stilistica del capitolo indivi-
LC7
duando i tratti essenziali dello stile profetico adottato
da Machiavelli.
4. All’interno di un brano così ricco di pàthos come
quello appena letto trova spazio una questione teorica
fondamentale: quella delle milizie proprie. Spiega la
posizione di Machiavelli, usando circa 200 parole.
contestualizzazione
5. Sulla base delle argomentazioni presenti nel brano e
delle tue conoscenze, spiega le ragioni della scelta di Lorenzo de’ Medici come destinatario dell’opera e della presenza dell’esortazione in questa sua parte conclusiva.
Federico Chabod: il primato dell’immaginazione
Federico Chabod, Metodo e stile di Machiavelli
Federico Chabod (1901-1960) è stato uno dei massimi storici italiani: i suoi studi su Machiavelli, coltivati fin dalla tesi di laurea e mai interrotti, sono ben poco datati e ancora oggi essenziali. Proponiamo qui un brano dal saggio Metodo e stile di Machiavelli (1955) dove lo storico
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14. Niccolò Machiavelli
Il vero è che il Machiavelli lascia, ben fermo, l’ideale morale: e lo lascia fermo perché non se n’ha da occupare. Tutto e soltanto preso com’è dal suo «demone» interiore, dal suo furor1 politico, dal suo non saper parlare che di cose di Stato – o, altrimenti, tacere: tutto contenuto in quel principio e termine del suo vivere interiore,
ch’è l’affisarsi2 nell’agire politico, il resto rimane al di fuori del suo sguardo. «Immaginazione» la sua, anzitutto: e, cioè, intuizione simile a quella del grande poeta e
del grande artista, a cui il mondo si presenta sotto quella forma, ed egli quella soltanto può vedere: altri vede solo forme o colori, e taluno dirà che tutto quel che
sente deve esprimerlo, non può che esprimerlo in note musicali; ed egli – lo dice
apertamente – quel che pensa e sente, una volta spogliati gli abiti di fango e di loto3,
lo vede e lo pensa sotto la forma sola dell’agire politico.
Non quindi un loico4 anzitutto, che muova da principî e per virtù progressiva di
ragionamento ne deduca, con rigore e consequenziarietà, tutto un sistema; ma, anzitutto, un immaginativo, che afferra di colpo, con illuminazione folgorante, la sua
verità, e solo successivamente si affida al ragionamento, per commentare quella
verità. La sua «verità» è la politica, scoperta nella sua ferina nudità: come coordinare questa verità con le altre già prima riconosciute – e anzitutto con il vero morale
– questo il Machiavelli lo lascierà ai posteri, rimanendo perciò per quattro secoli di
pensiero europeo nel centro del continuo, aspro, angoscioso travaglio fra kratos ed
ethos5.
Massimo fra i pensatori politici di ogni tempo, il Machiavelli ha in comune con
i grandissimi fra gli uomini politici – così simili, anch’essi, all’artista, per il primeggiare assoluto del momento intuitivo su quello della logica e della dottrina –
ha in comune con essi, precisamente, l’iniziale «illuminazione» interiore, il veder,
per intuizione, d’un colpo gli eventi e il loro significato – soltanto poi trascorrendo alla, diremo, applicazione per ragionamento. E, certo, nella prosa del Machiavelli si ripete con frequenza «è ragionevole», oppure «non è ragionevole che sia»:
ma il ragionevole o no è l’applicazione, potrebbesi dire tattica, il commento particolare che segue il grande momento intuitivo e creativo, ed è, rispetto a quello,
di secondo piano.
[...] Del prevaler del momento immaginativo su quello puramente logico è, infine, espressione compiuta la prosa del Machiavelli. In luogo del giudizio preciso e
soppesato, proprio là dove men facile è concludere, l’immagine plastica che risolve, per via immaginativa e non logica, il dubbio: come nel capitolo XXV del Principe sulla fortuna, questa necessaria premessa alla esortazione finale, per aprir la
via al Principe redentore d’Italia: «io iudico bene questo: che sia meglio essere impetuoso che respettivo; perché la fortuna è donna, ed è necessario, volendola tenere
sotto, batterla e urtarla... e però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché
sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia la comandano».
1. furor: ‘furore’ (latino).
2. affisarsi: ‘concentrarsi, guardare fissamente’.
3. spogliati... loto: Chabod allude al simbolico
cambio d’abito che Machiavelli descrive nella
lettera al Vettori del 10 dicembre 1513: «et in
su l’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango et di loto (‘mota’), et mi metto pan-
ni reali et curiali» [uT93].
4. loico: ‘logico’.
5. kratos ed ethos: ‘potere politico e costume
morale’ (sostantivi greci).
ANTOLOGIA
sconfina nel campo della critica letteraria, mettendo in luce il “metodo” teorico tipico del Principe: un metodo fatto di continue intuizioni, che si sorreggono su uno “stile” immaginoso,
basato su similitudini folgoranti.
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I Grandi Autori
Plastica immagine della donna battuta e tenuta sotto; potente finale che fuga il
dubbio: ma, appunto, con la forza di un’immagine, non di un giudizio logico. Il procedimento dilemmatico, raziocinante, polemico, cede, anche stilisticamente, nei
momenti supremi ad un’onda impetuosa che sostituisce al giudizio logico l’immagine. E avete l’improvviso alzarsi al tono biblico della esortazione finale del Principe, l’evocare i miracoli voluti da Dio «el mare si è aperto; una nube vi ha scorto
el cammino; la pietra ha versato acqua; qui è piovuto la manna».
7 Altre opere teoriche
DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO: GENESI E COMPOSIZIONE Non conosciamo con esattezza i tempi e le fasi di stesura dei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio,
ma senza dubbio l’opera ebbe una gestazione alquanto diversa rispetto al Principe. Secondo le ipotesi più accreditate, i Discorsi sarebbero stati avviati nel 1513, nell’immediato della destituzione, interrotti in quello stesso anno per fare spazio a una rapida composizione
del Principe e, in seguito, ripresi, completati e rilavorati fino al 1519. Ma il secondo trattato non differisce dal primo solo per i tempi di stesura: a mutare sono soprattutto l’oggetto e l’impostazione argomentativa. Se Il Principe affronta in una sintesi concitata e
drammatica il regime monarchico, i Discorsi analizzano invece lo Stato repubblicano in forma asistematica, più quieta e divagante. Le proposte politiche, in questo caso, nascono dal
confronto con la pagina dello storico latino Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.), della cui opera –
Ab Urbe condita libri, narrazione della storia di Roma a partire dalla sua fondazione –
Machiavelli commenta i primi dieci libri («prima deca»), dove si narra la mitica fondazione di Roma da parte di Enea, l’iniziale assetto monarchico, la costituzione e il rafforzamento territoriale della Repubblica. I Discorsi di Machiavelli rientrano, così, nel genere umanistico del commentarium, inteso come libera divagazione in margine, non come commento
serrato al testo in esame. Nel corso della composizione dei Discorsi, Machiavelli fu particolarmente stimolato dalla frequentazione di quei gruppi aristocratici di orientamento repubblicano che si riunivano negli Orti Oricellari (giardino di Palazzo Rucellai) per discutere di
politica e letteratura. Non a caso l’opera fu dedicata a due giovani membri di questo gruppo repubblicano: Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai.
DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO: STRUTTURA E MOTIVAZIONI I Discorsi si dividono in tre libri. Nel primo Machiavelli si interroga sulla fondazione dello Stato romano, occupandosi del grado di coesione politica garantito dalle sue istituzioni: in particolare, Machiavelli addita nella religione pagana dei Romani un fattore di coesione sociale, mentre vede nella Chiesa romana un’istituzione destabilizzante, perennemente in conflitto con
gli Stati moderni. Nel secondo libro vengono esaminate le condizioni che resero possibile l’espansione dello Stato romano e i nessi fra virtù e fortuna. Nel terzo libro, di vario argomento, tornano alla ribalta alcuni temi già affrontati nei primi due libri, con un indugio particolare sul contributo dei grandi protagonisti nella storia della Repubblica di Roma. A lungo si
è voluta vedere una contraddizione fra l’impostazione monarchica del Principe e la vocazione repubblicana dei Discorsi. In realtà occorre tenere conto che si tratta di opere che rispon-
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14. Niccolò Machiavelli
Scuola del Bronzino, Ritratto di Giovanni dalle Bande Nere, XVI sec.
[Uffizi, Firenze]
Nel dialogo Dell’arte della guerra
Machiavelli analizza gli svantaggi di
un sistema militare fondato
sull’utilizzo di eserciti mercenari,
che, per loro natura, non assicurano
la dovuta stabilità e fedeltà allo
Stato. Questo dipinto ritrae uno dei
capitani di ventura più celebri del
Cinquecento, Giovanni de’ Medici,
detto “dalle Bande Nere”. Dopo aver
militato al servizio del papa Leone X,
alleato con l’imperatore Carlo V
contro Francesco I, passò poi dalla
parte dei francesi (su richiesta del
successivo papa). Morì ferito a una
gamba da un “falconetto”, un
piccolo cannone d’avanguardia per
l’epoca.
dono a fini ben diversi l’una dall’altra. Mentre Il Principe, concepito in dialogo col principato nuovo dei Medici, va in cerca di una
risposta immediata alla «ruina di Italia» e addita nella monarchia l’unica istituzione in grado di sollevare in tempi rapidi le sorti tragiche degli Stati italiani, i Discorsi indugiano, invece, sugli
assetti di uno Stato già consolidato, riflettendo sui metodi che
rendano possibile la sua sopravvivenza. D’altro canto le due opere condividono il metodo speculativo, basato sulla “verità effettuale” e sul classicismo politico, inteso come introiezione e imitazione dei modelli antichi; nonché la concezione dello Stato come una sorta di organismo
biologico che necessita di leggi ben precise per fortificarsi e mantenersi in vita.
DELL’ARTE DELLA GUERRA Il dialogo intitolato Dell’arte della guerra fu composto da Machiavelli fra il 1519 e il 1520 e fu edito a Firenze da Giunti nel 1521. Composto di seguito al
Principe e ai Discorsi, il testo affronta un tema già affrontato con grande premura nei trattati
politici: la gestione degli eserciti. I sette libri che compongono il dialogo passano in rassegna le tecniche di arruolamento, di addestramento, la tattica militare nelle diverse situazioni
(battaglia campale, marcia in terra straniera, assedio, fortificazione). Il dialogo si immagina
svolto nel 1516 nell’ambiente degli Orti Oricellari, dove primeggiano Zanobi Buondelmonti e
Cosimo Rucellai (i due dedicatari dei Discorsi) intenti a interrogare il grande condottiero Fabrizio Colonna ormai vecchio e prossimo alla morte. Anche in questa opera l’esperienza diretta del protagonista fittizio (che è anzitutto l’esperienza diretta dell’autore) si fonde con un
ideale classicista, che induce Machiavelli a evocare fonti classiche come i resoconti militari di
Giulio Cesare, le storie di Livio e di Polibio. Particolarmente urgente, all’interno del dialogo, è
il problema delle truppe mercenarie, che Machiavelli, come già aveva fatto nel Principe, condanna senza riserve, proponendo invece una gestione della cosa militare strettamente integrata con quella della cosa pubblica. Ai suoi occhi, infatti, l’unico modello positivo di esercito è quello composto da cittadini che difendano al tempo stesso i propri interessi e quelli della collettività: condizioni che le truppe mercenarie, per quanto fossero molto impiegate nell’Italia e nell’Europa della prima età moderna, non potevano evidentemente soddisfare.
Guida allo studio
1. Quali caratteristiche testuali differenziano i Discorsi
dal Principe? 2. Qual è l’argomento dei Discorsi? 3. A
chi è dedicata l’opera? 4. Qual è la struttura dei Discorsi? 5. Per quali ragioni si potrebbe essere indotti a scorgere una contraddizione tra Il Principe e i Discorsi? 6.
Quali sono i fondamenti metodologici che accomunano
le riflessioni politiche dei due trattati? 7. L’argomento
dell’Arte della guerra costituisce una novità nella riflessione e nella produzione letteraria di Machiavelli, oppure no? 8. Quali personaggi intervengono nei dialoghi
che compongono l’opera Dell’arte della guerra? 9. Erano comparsi già in altre opere? 10. Chi è Fabrizio Colonna? 11. Perché Machiavelli considera pericolose le
truppe mercenarie?
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I Grandi Autori
8 Le opere storiche
LA VITA DI CASTRUCCIO CASTRACANI Intorno al 1520 l’unica mansione che i Medici sembrano disposti ad affidare a Machiavelli è quella di redigere una storia ufficiale della città di
Firenze. Nell’estate di quell’anno, per dare un saggio del proprio stile storiografico, Machiavelli compone una breve biografia di un condottiero ghibellino del Trecento, il lucchese Castruccio Castracani. Si tratta di un’opera che rientra nel genere umanistico della biografia esemplare, secondo i modelli classici di Cornelio Nepote e Plutarco. Non a caso il breve testo si conclude con una serie di massime morali attribuite al condottiero ghibellino, seguendo un gusto tipico della biografia morale prima antica e poi umanistica. Per quanto il Castracani fosse
stato nemico della Firenze guelfa trecentesca, Machiavelli lo sceglie come condottiero esemplare, indicando in lui un modello di “virtù” in grado di resistere all’opposizione della “fortuna”. L’opera viene pubblicata già nel 1521 in appendice all’Arte della guerra.
LE ISTORIE FIORENTINE Nel novembre del 1520, Machiavelli riceve finalmente l’incarico di
redigere la storia di Firenze, un compito che svolge nell’arco di circa cinque anni. Nel maggio
del 1525 il novello storico di Firenze – si ricordi che a questo compito già si erano dedicati, nel
Quattrocento, umanisti illustri come Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini [u11.6] – si reca a
Roma per consegnare il manoscritto dell’opera al suo dedicatario, Giulio de’ Medici, recentemente eletto papa col nome di Clemente VII. L’opera – che sarebbe stata pubblicata postuma
nel 1532 – si compone di otto libri: vi si narra la storia d’Italia dal crollo dell’Impero romano fino al 1434, anno in cui i Medici conquistano il potere in Firenze (libro I); si viene, di seguito,
alla storia di Firenze dall’origine fino allo stesso 1434 (libri II-IV); si conclude, infine, trattando la storia della Firenze medicea, terminando il racconto con la morte di Lorenzo il Magnifico
(1492), giustamente indicata come il momento in cui crollano gli equilibri politici delle signorie quattrocentesche (libri V-VIII). Quella di Machiavelli è una scrittura storiografica che, nonostante la committenza medicea, rifugge da ogni logica encomiastica. Al contrario, da profondo conoscitore di “arte dello Stato” e “arte della guerra”, Machiavelli evita di indugiare nell’analisi di documenti o in resoconti minuti; concentra invece la sua attenzione sui moventi profondi delle azioni umane, facendo procedere di pari passo il racconto dei fatti e la loro interpretazione.
Guida allo studio
1. A quale genere letterario appartiene la Vita di
Castruccio Castracani? 2. Per quali ragioni Machiavelli
la compone? 3. A chi sono dedicate le Istorie fiorentine? 4. In quali anni vengono composte? 5. Nelle Isto-
rie, dati i delicati rapporti con i suoi committenti, i Medici, Machiavelli assume un atteggiamento encomiastico
oppure no? 6. Quando vengono pubblicate le Istorie?
9 Il teatro e gli scritti letterari
PRIMA DEL 1512: IL DECENNALE PRIMO E I CAPITOLI MORALI Fin dalla giovinezza
Machiavelli aveva coltivato la scrittura in versi come una forma di interpretazione della
realtà socio-politica di Firenze. Seguendo in parte il modello dantesco della Commedia, già
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nell’autunno del 1504 Machiavelli aveva composto una cronaca in terzine dei dieci anni di
storia di Firenze e di Italia compresi fra il 1494 e il 1504, edita nel 1506 col titolo di Decennale. Sempre nel metro della terzina, molto usato nel Cinquecento per componimenti di
natura discorsiva di carattere morale (detti ‘capitoli in terza rima’), fra il 1506 e il 1512
Machiavelli aveva inoltre composto quattro capitoli morali dedicati a temi tipici della sua
riflessione sulla condizione umana: la fortuna, l’ingratitudine, l’ambizione e l’occasione.
DUE OPERE INCOMPIUTE: IL DECENNALE SECONDO E L’ASINO Negli anni di estromis-
sione dalla politica, dopo il 1514, Machiavelli avvia la composizione di un altro decennale, detto Decennale secondo, che si arresta però alla cronaca del 1509, per rimanere incompiuto. Ma soprattutto l’ex segretario fra il 1516 e il 1517 avvia la composizione di un più
ambizioso poema comico in terzine intitolato Asino. Il poema consiste nella narrazione di
una metamorfosi da uomo in asino che la maga Circe avrebbe inflitto al protagonista, narratore in prima persona. Purtroppo il frammento del poema non giunge a riferire la metamorfosi asinina, ma ci manifesta comunque quelle che erano le intenzioni di Machiavelli:
costruire un mondo alla rovescia nel quale la condizione animale è resa specchio comico
della condizione umana, in una sorta di rito di iniziazione grottesco. Il modello di questa
vicenda sono le Metamorfosi di Apuleio (dove si narra una metamorfosi analoga), nutrite
però con la retorica profetica della Commedia dantesca.
BELFAGOR E LE COMMEDIE Più ancora che nella scrittura in versi, la vena comica di
Machiavelli si traduce in opere in prosa. Già in molte delle lettere è evidente una vena comica (quanto mai sensibile nella lettera al Vettori: uT93). Si tratta di un comico amaro e,
alle volte, sarcastico, che riflette una condizione umana lacerata al proprio interno e fortemente negativa. Questa vocazione comica si realizza compiutamente in una breve novella intitolata Belfagor arcidiavolo e in due commedie (esse pure in prosa) intitolate Mandragola e Clizia. La novella Belfagor, che si suppone composta intorno al 1518, è una novella
di beffa, secondo il modello del Decameron (si pensi soprattutto alle giornate VII e VIII).
La comicità del racconto si basa sulla rappresentazione misogina della realtà e sulla deformazione grottesca del mondo diabolico. Il diavolo protagonista del racconto, infatti, per
sperimentare quanto affermano i dannati (ossia che le mogli sono molto peggio dell’Inferno), si risolve a prendere moglie. Questa scelta si rivelerà funesta e porterà il povero arcidiavolo a essere beffato da un villano che, con l’ingegno, saprà sfruttare a proprio vantaggio l’orrore del demonio per le donne. Per quanto concerne il teatro non si dimentichi che
già negli anni di segretariato Machiavelli aveva volgarizzato l’Andria di Terenzio. Con spirito diverso, negli anni di estromissione politica, Machiavelli compone invece due commedie nuove, non tanto “traducendo”, quanto “imitando” – il che comporta, secondo un’estetica di tipo classicista uno spirito di emulazione e una ricerca di novità – i commediografi latini Terenzio e Plauto. Nascono così le due commedie nuove Mandragola (1518) e Clizia (1525), dove Machiavelli allestisce intrighi borghesi a sfondo amoroso (secondo il
modello della commedia latina), arricchendoli però di un gusto moderno e boccacciano per
la beffa e proiettandovi una psicologia moderna e quanto mai vivida [uT101 e T102].
Paradossalmente furono proprio queste opere a dare a Machiavelli maggiore successo negli
ultimi anni della sua vita, ben più che Il Principe o i Discorsi. Ancora oggi la Mandragola
viene rappresentata con una certa frequenza ed è universalmente riconosciuta come il testo
teatrale più bello e più efficace del Cinquecento in Italia.
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I Grandi Autori
DISCORSO O DIALOGO DELLA NOSTRA LINGUA Degno di nota è infine il breve opusco-
lo intitolato Discorso o dialogo della nostra lingua (databile al 1524 e non da tutti attribuito all’ex segretario). Qui Machiavelli entra nel vivo della questione di quale lingua gli scrittori moderni debbano usare per comunicare tra loro, un problema assai dibattuto in seguito all’invenzione della stampa. La tesi di fondo consiste in una difesa del fiorentino parlato: un fiorentino ben diverso da quello proposto da Pietro Bembo, arcaico e formalizzato nei testi di Petrarca e Boccaccio. Ma la polemica di Machiavelli va a colpire soprattutto
l’ipotesi di una lingua curiale, nella quale si assommino le diverse parlate d’Italia, filtrate
e nobilitate. Si trattava di un’idea che proprio in quegli anni, in seguito alla riscoperta del
De vulgari eloquentia, il letterato vicentino Giovan Giorgio Trissino aveva attribuito a Dante. Il breve opuscolo di Machiavelli nella sua parte centrale diventa così un dialogo paradossale fra Niccolò e l’ombra di Dante, dove il primo, con comica superiorità, mostra al
secondo che la lingua usata nella Commedia è il fiorentino e che tale fiorentino nulla avrebbe a che spartire con la lingua curiale teorizzata nel De vulgari eloquentia.
Guida allo studio
ANTOLOGIA
1. A quale periodo risale il Decennale primo? 2. In quali anni viene composto il Decennale secondo? 3. A quale genere letterario appartengono i Decennali? 4. A
quale genere letterario appartiene l’Asino? 5. Che cosa
racconta la novella Belfagor? 6. Quali opere compone
Machiavelli per il teatro e in quali anni? 7. Quale fortu-
na riscuotono le commedie di Machiavelli presso i suoi
contemporanei? 8. In quale opera Machiavelli espone
la sua opinione sulla cosiddetta “questione della lingua”? In quali anni? 9. Quale scelta linguistica sostiene
e per quali ragioni?
Mandragola
LA TRAMA La Mandragola è una commedia in cinque atti in prosa, ambientata a Firenze
nel 1504. Il giovane Callimaco Guadagni, dopo aver a lungo vissuto a Parigi, è tornato nella città natale, Firenze, appositamente per sedurre Lucrezia, gentildonna sposata con l’anziano notaio Nicia Calfucci. Callimaco si è innamorato di Lucrezia per sentito dire: a Parigi gliene hanno parlato come della donna più bella e più virtuosa mai esistita. Ora egli
intende farne la sua amante, raggirando il marito, famoso anche lui, ma per la sua stupidaggine. Il nucleo della trama è la beffa che Callimaco intende giocare ai danni di Nicia
per soddisfare la propria concupiscenza carnale e diventare l’amante di Lucrezia. Callimaco, tuttavia, da solo non è capace di architettare nulla di buono e deve affidarsi alla scaltra inventiva del suo servo Ligurio. È costui il geniale architetto della beffa: sfruttando il
desiderio di paternità di Nicia, il quale, dopo sei anni di matrimonio, ancora non ha potuto avere figli con Lucrezia, Ligurio induce Callimaco a travestirsi da medico. Su suggerimento di Ligurio, Callimaco fa credere a Nicia che nulla renda fertile una donna come una pozione di mandragola, un’erba miracolosa. L’unica controindicazione è che il primo uomo che
abbia un rapporto sessuale con la donna, dopo che questa abbia assunto la pozione, è destinato a morte certa. Spaventato, Nicia si tira indietro, ma Ligurio e Callimaco lo persuadono a servirsi di un ragazzo di strada (un «garzonaccio») per fecondare la moglie, sacrificando senza scrupoli la vita di quel giovane. Questo giovane, però, non sarà scelto a caso:
al contrario, sarà Callimaco travestito, il quale in questo modo potrà giacere indisturbato
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UNA COMMEDIA MODERNA Le circostanze in cui la commedia fu composta sono ignote,
ma è probabile che sia stata scritta da Machiavelli all’Albergaccio fra il gennaio e il febbraio
del 1518, forse in occasione del matrimonio fra Lorenzo de’ Medici e Maddalena de la Tour
d’Auvergne. Come le commedie di Ariosto, anche la Mandragola è una commedia cosiddetta regolare, ossia basata sui modelli del teatro comico latino (quelli di Terenzio e di Plauto): un intreccio di ambientazione urbana e borghese; un complicato intrigo basato su una
passione amorosa ostacolata; personaggi diversi l’uno dall’altro, dalla psicologia ben caratterizzata. Nel rapportarsi ai modelli antichi, tuttavia, Machiavelli agisce con grande libertà
e sa creare un intreccio e una psicologia del tutto moderni, in grado di rinnovare le situazioni drammatiche dei commediografi latini. L’intreccio basato sulla beffa ai danni di un
marito stupido, in particolare, deve molto al modello novellistico moderno del Decameron di Boccaccio: la comicità del dramma nasce infatti dal contrasto fra il disegno razionale di Ligurio (e Callimaco) e la stupidità di Nicia, che si lascia irretire in una trappola congegnata alla perfezione. La psicologia dei personaggi, d’altronde, è efficacemente caratterizzata: Nicia è lo stupido disposto ad agire con malvagità, pur di raggiungere il suo scopo; Callimaco l’innamorato audace, ma non del tutto capace di agire con lucidità; lucidissimo invece è Ligurio, regista della beffa e attentissimo a sfruttare a proprio vantaggio
la stupidaggine e la bassezza morale altrui: quella di Nicia, di Timoteo e Sostrata. L’unico personaggio moralmente virtuoso è Lucrezia (anche il suo nome, del resto, richiama l’antica eroina della storia romana): ma lei pure, alla fine, si induce ad accettare i compromessi del vivere sociale e prende Callimaco come amante.
T101
Le fantomatiche virtù della mandragola
Mandragola, Atto II, scena 6
In questa scena cruciale, Ligurio e Callimaco mettono in atto, ai danni di Nicia, l’inganno che
permetterà a Callimaco di appartarsi con Lucrezia e farne la sua amante. Callimaco si è travestito da medico e, su suggerimento di Ligurio, fa credere allo stupido Nicia che il toccasana,
per rendere gravida una donna, sia una pozione di mandragola. Con un effetto collaterale, tuttavia: il primo uomo che giacerà con la donna dopo l’assunzione della mandragola è destinato
a morire di lì a poco. Sfruttando la malvagità di Nicia e il suo ostinato desiderio di paternità,
Ligurio e Callimaco lo inducono a servirsi di un ragazzaccio preso dalla strada per fecondare la
moglie. Ovviamente, quel ragazzaccio sacrificato alla causa di Nicia altri non sarà se non Callimaco travestito.
ANTOLOGIA
con Lucrezia, ovviamente senza correre alcun rischio di morte. Proprio Lucrezia, tuttavia,
costituisce l’ultimo ostacolo da aggirare. Se Nicia non ha scrupoli, Lucrezia al contrario è
donna pia e timorata di Dio; e si rifiuta di causare la morte di qualcuno. Per convincerla a
obbedire al marito, Ligurio si serve del frate confessore e della madre della donna, Timoteo e Sostrata, i quali la inducono ad accettare, ciascuno dei due sollecitato dal proprio
tornaconto. La fecondazione tramite mandragola può dunque avere luogo. In camera da
letto, Callimaco depone il suo travestimento da «garzonaccio» e rivela a Lucrezia l’inganno: dopo un’iniziale resistenza, la donna si induce a mettere da parte i suoi scrupoli e a
prendere come amante colui che ha raggirato sia lei, sia suo marito. Alla fine risultano tutti più o meno soddisfatti, compreso Nicia, del tutto ignaro di essere stato beffato.
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Ligurio (piano, a Callimaco). El dottore fia facile a persuadere: la difficultà fia la
donna, ed a questo non ci mancherà modi1.
Callimaco (a messer Nicia). Avete voi el segno?2
Nicia E’ l’ha Siro, sotto3.
Callimaco (a Siro). Dàllo qua. (Dopo aver osservato il segno). Oh! questo segno
mostra debilità4 di rene.
Nicia E’ mi par torbidiccio5; eppur l’ha fatto ora ora.
Callimaco Non ve ne maravigliate. Nam mulieris urine sunt semper maioris grossitiei et albedinis, et minoris pulchritudinis quam virorum. Huius autem, inter cetera, causa est amplitudo canalium, mixtio eorum que ex matrice exeunt cum urinis6.
Nicia (a parte). Oh! uh! potta di san Puccio!7 Costui mi raffinisce in tralle mani8;
guarda come ragiona bene di queste cose!
Callimaco Io ho paura che costei non sia la notte mal coperta, e per questo fa l’orina cruda9.
Nicia Ella tien pure adosso un buon coltrone; ma la sta quattro ore ginocchioni ad infilzar paternostri, innanzi che la se ne venghi al letto, ed è una bestia a patir freddo10.
Callimaco Infine, dottore, o voi avete fede in me, o no; o io vi ho ad insegnare un
rimedio certo, o no. Io, per me, el rimedio vi darò. Se voi arete fede in me voi lo
piglierete; e se, oggi ad uno anno11 la vostra donna non ha un suo figliuolo in braccio, io voglio avervi a donare12 dumilia ducati.
Nicia Dite pure, ché io son per farvi onore di tutto, e per credervi più che al mio
confessoro13.
Callimaco Voi avete ad intender questo, che non è cosa più certa ad ingravidare
una donna14 che dargli bere una pozione fatta di mandragola. Questa è una cosa
esperimentata da me dua paia di volte15, e trovata sempre vera; e, se non era questo16, la reina di Francia sarebbe sterile, ed infinite altre principesse di quello stato.
Nicia È egli possibile?
Callimaco Egli è come io vi dico. E la Fortuna vi ha in tanto voluto bene che io ho
condutto qui meco tutte quelle cose17 che in quella pozione si mettono, e potete
averla a vostra posta18.
Nicia Quando l’arebbe ella a pigliare?
Callimaco Questa sera dopo cena, perché la luna è ben disposta, ed el tempo non
può essere più appropriato.
1. El dottore... modi: ‘Sarà facile persuadere il
dottore (Nicia): le difficoltà piuttosto si avranno
con la donna (Lucrezia, moglie di Nicia), ma per
questo non ci mancherà il sistema’.
2. segno: il campione di urina di Lucrezia.
3. sotto: sotto il mantello.
4. debilità: ‘debolezza’.
5. torbidiccio: ‘piuttosto torbido’.
6. Nam mulieris... urinis: ‘L’urina della donna
infatti è sempre di maggiore consistenza e
biancore e di minore bellezza di quella degli
uomini. Causa di ciò, tra l’altro, è l’ampiezza dei
canali (urinari) e la mescolanza di ciò che esce
dalla matrice con l’urina’.
7. potta di san Puccio: esclamazione oscena.
– potta: ‘vulva’, qui comicamente attribuita a
un santo (maschio) immaginario, come se si
trattasse di una reliquia da venerare.
8. Costui... mani: ‘Questi (Callimaco) mi appare sempre più fine quanto più lo frequento (letteralmente: ‘lo tengo fra le mani’)’.
9. Io ho... cruda: ‘Io temo che costei di notte
sia coperta male e che per questo fa l’orina
densa’. – mal coperta: è un doppio senso
osceno: significa infatti ‘mal riparata contro il
freddo’ (come intende Nicia); ma anche ‘coperta malamente’ dal marito nei rapporti sessuali.
10. Ella tien... freddo: ‘Lei si tiene sempre
(pure) addosso una grossa coperta; ma sta per
quattro ore inginocchiata a sciorinare preghiere prima di venire a letto, ed è una sciocca a
patire tanto freddo’.
11. oggi ad un anno: ‘di qui a un anno’.
12. io voglio avervi a donare: ‘intendo esservi debitore di’.
13. ché io son... confessoro: ‘perché io sono
disposto a rendervi ogni onore e a prestarvi
fiducia più che al mio confessore’.
14. cosa... donna: ‘metodo più sicuro per rendere gravida una donna’.
15. dua paia di volte: significa genericamente
‘molte volte’.
16. se non era questo: ‘se non ci fosse stata
la pozione di mandragola’.
17. cose: ‘ingredienti’.
18. a vostra posta: ‘a vostra disposizione’.
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Nicia Cotesto non fia molto gran cosa19. Ordinatela in ogni modo20: io gliene farò
pigliare.
Callimaco E’ bisogna ora pensare a questo: che quello uomo che ha prima a fare
seco, presa che l’ha, cotesta pozione, muore infra otto giorni, e non lo camperebbe
el mondo21.
Nicia Cacasangue!22 Io non voglio cotesta suzzacchera! A me non l’apiccherai tu!
Voi mi avete concio bene!23
Callimaco State saldo24, e’ ci è rimedio.
Nicia Quale?
Callimaco Fare dormire subito con lei un altro che tiri, standosi seco una notte, a
sé tutta quella infezione della mandragola: dipoi vi iacerete voi sanza periculo25.
Nicia Io non vo’ fare cotesto.
Callimaco Perché?
Nicia Perché io non vo’ fare la mia donna femmina e me becco26.
Callimaco Che dite voi, dottore? Oh! io non vi ho per savio come io credetti27. Sì che
voi dubitate di fare28 quello che ha fatto el re di Francia e tanti signori quanti sono là?
Nicia Chi volete voi che io truovi che facci cotesta pazzia? Se io gliene dico, e’ non
vorrà; se io non gliene dico, io lo tradisco, ed è caso da Otto: io non ci vo’ capitare sotto male29.
Callimaco Se non vi dà briga altro che cotesto, lasciatene la cura a me30.
Nicia Come si farà?
Callimaco Dirovelo: io vi darò la pozione questa sera dopo cena; voi gliene darete bere e, subito, la metterete nel letto, che fieno circa a quattro ore di notte31.
Dipoi ci travestiremo, voi, Ligurio, Siro ed io, e andrencene cercando32 in Mercato Nuovo, in Mercato Vecchio, per questi canti33; ed el primo garzonaccio che noi
troverremo scioperato34, lo imbavagliereno, ed a suon di mazzate lo condurreno
in casa ed in camera vostra al buio. Quivi lo mettereno nel letto, direngli quel che
gli abbia a fare, non ci fia difficultà veruna35. Dipoi, la mattina, ne manderete
colui innanzi dì36, farete lavare la vostra donna, starete37 con lei a vostro piacere e sanza periculo.
Nicia Io sono contento, poiché tu di’ che e re e principi e signori hanno tenuto questo modo38. Ma, sopratutto, che non si sappia, per amore degli Otto!39
Callimaco Chi volete voi che lo dica?
19. Cotesto... cosa: ‘Questo (che dite) non
sarà molto difficile’.
20. Ordinatela... modo: ‘Preparatela con ogni
cura’.
21. E’ bisogna... el mondo: ‘È necessario pensare ora a questo: colui che per primo si accoppia con lei, dopo che ha preso questa pozione,
muore di lì a otto giorni, e nulla al mondo
potrebbe salvarlo’.
22. Cacasangue: altra esclamazione volgare:
letteralmente significa ‘dissenteria’.
23. Io non voglio... concio bene: ‘Io non
voglio questa schifezza (la suzzacchera è un
miscuglio di zucchero e di aceto). A me tu non
me la appioppi! Voi mi vorreste (letteralmente:
‘volete’) sistemare bene’.
24. saldo: ‘calmo’.
25. Fare dormire... sanza periculo: ‘Subito
(dopo che la donna ha bevuto la pozione) fare
dormire con lei qualcun altro che assorba (tiri...
a sé) tutte le proprietà infettive della mandragola. Dopo voi potrete giacere con lei senza
correre pericoli’.
26. Perché... becco: ‘Perché non voglio fare di
mia moglie una sgualdrina (femmina) e di me
un cornuto’.
27. io non vi ho... credetti: ‘io non vi trovo giudizioso (savio) come avevo pensato’.
28. dubitate di fare: ‘esitate a fare’.
29. se io... male: ‘ma se io non lo metto al corrente, sono un traditore, ed è un caso da tribunale criminale. Non ci voglio rimettere’. – caso da
Otto: allude alla corte penale detta “degli Otto”.
30. Se non... a me: ‘se non vi infastidisce altro
che questo (cioè: se avete deposto lo scrupolo
di rendere sgualdrina vostra moglie e voi stesso cornuto), lasciate sia io a preoccuparmene’.
31. Dirovelo... notte: ‘Ve lo dirò: io vi darò la
pozione stasera dopo cena; voi gliene farete
bere (a Lucrezia) e la farete coricare non appe-
na saranno trascorse circa quattro ore dal tramonto’. – che fieno... quattro ore di notte: letteralmente: ‘non appena saranno circa le quattro di notte’.
32. andrencene cercando: ‘ce ne andremo a
cercare’.
33. canti: ‘quartieri’.
34. el primo... scioperato: ‘il primo giovinastro (garzonaccio) che troveremo con le mani
in mano (scioperato)’.
35. direngli... veruna: ‘gli diremo quel che dovrà fare, non ci sarà alcuna (veruna) difficoltà’.
36. ne manderete... dì: ‘lo manderete via prima che spunti il sole’.
37. starete: ‘giacerete’.
38. poiché... modo: ‘perché tu dici che re, principi e signori si sono comportati in questo modo’.
39. per amore degli Otto: comica esclamazione ricalcata sull’espressione ‘per amor di Dio!’.
Nicia non teme la giustizia di Dio, bensì quella
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Nicia Una fatica ci resta, e d’importanza.
Callimaco Quale?
Nicia Farne contenta mogliama, a che io non credo ch’ella si disponga mai40.
Callimaco Voi dite el vero. Ma io non vorrei innanzi essere marito, se io non la
disponessi a fare a mio modo41.
Ligurio Io ho pensato el rimedio.
Nicia Come?
Ligurio Per via del confessoro.
Callimaco Chi disporrà42 el confessoro, tu?
Ligurio Io, e danari, la cattività nostra, loro43.
Nicia Io dubito, non che altro, che per mio detto la non voglia ire a parlare al confessoro44.
Ligurio Ed anche a cotesto è rimedio.
Callimaco Dimmi.
Ligurio Farvela condurre alla madre45.
Nicia La le presta fede46.
Ligurio Ed io so che la madre è della opinione nostra. Orsù! avanziam tempo47, che
si fa sera. (a parte, a Callimaco). Vatti, Callimaco, a spasso, e fa’ che alle ventitré
ore noi ti ritroviamo in casa con la pozione ad ordine48. Noi n’andreno a casa la
madre49, el dottore ed io, a disporla, perché è mia nota50. Poi ne andreno al frate, e
vi raguagliereno di quello che noi areno fatto51.
Callimaco (c.s. a Ligurio). Deh! non mi lasciar solo.
Ligurio (c.s. a Callimaco) Tu mi par’ cotto52.
Callimaco (c.s.) Dove vuoi tu ch’io vadia ora?
Ligurio (c.s.) Di là, di qua, per questa via, per quell’altra: egli è sì grande Firenze!
Callimaco (c.s.) Io son morto53.
terrena degli Otto.
40. Farne... mai: ‘Rendere consenziente (contenta) mia moglie in merito a questo (progetto);
del quale non credo che lei si convincerà mai’.
– mogliama: secondo l’uso del toscano antico,
l’aggettivo possessivo enclitico è accorpato
con il sostantivo.
41. Ma io... a mio modo: ‘Ma io vorrei piuttosto (innanzi) non essere marito, se non fossi in
grado di convincerla a fare a modo mio’.
42. disporrà: ‘persuaderà’.
43. Io... loro: ‘(Lo convinceremo) io e i denari,
la nostra malizia e la loro (dei frati)’.
44. Io dubito... confessoro: ‘Io temo, fra l’altro,
che, se sono solo io a dirglielo (di andare dal frate), lei non voglia andare a parlare al confessore’.
45. Farvela... madre: ‘Farcela portare dalla
madre’.
46. La le... fede: ‘Si fida di lei’.
47. avanziam tempo: ‘affrettiamoci’.
48. Vatti... ordine: ‘Callimaco va’ via di qua (letteralmente: ‘vattene a spasso’) e fatti trovare a
Lettura guidata
LIGURIO, ARCHITETTO DELLA BEFFA L’inganno
della mandragola, che qui viene messo in moto, è il
frutto dell’intelligenza e della malizia di Ligurio, il
servo che organizza la beffa per conto di Callimaco.
Si noti come Ligurio non si sia limitato a pensare come raggirare Nicia, bersaglio facile in quanto stupido e ottuso. Attribuendo alla mandragola virtù
straordinarie – la pozione renderebbe sì gravida la
casa (di Nicia) ventitré ore dopo il tramonto
(cioè nell’ultima ora di luce, poco prima che inizi la notte) con la pozione preparata (ad ordine)’.
49. casa la madre: ‘casa della madre’.
50. a disporla... nota: ‘a convincerla, perché la
conosco bene’.
51. vi raguagliereno... fatto: ‘vi informeremo
di quel che avremo fatto’.
52. cotto: ‘innamorato cotto’.
53. Io son morto: ‘Mi sembra di morire per
l’ansia’.
donna, ma uccidendo l’uomo che l’ha posseduta per
primo dopo la cura – egli ha escogitato uno stratagemma perfetto, in grado di aggirare anche le resistenze di Lucrezia. La moglie di Nicia, infatti, è una
donna devota, che, come abbiamo sentito, indugia
in preghiere prima di coricarsi: virtuosa com’è, mai
acconsentirebbe all’adulterio. Ligurio però, sfruttando l’ostinato desiderio di paternità di Nicia, fa in
modo che sia proprio il marito a costringere la moglie all’adulterio. A fare ulteriori pressioni su Lucre-
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611
14. Niccolò Machiavelli
CALLIMACO E NICIA Callimaco e Nicia a ben vedere sono due burattini nelle mani di Ligurio. Il primo,
accecato dalla passione, esegue alla lettera le indicazioni del suo servitore. Qui si traveste da medico e
in seguito si travestirà da garzonaccio. Tuttavia l’innamorato è incapace di iniziativa personale: si veda
come alla fine della scena si sente perduto nel momento in cui si separa da Ligurio e non a caso viene
preso in giro («Di là, di qua, per questa via, per quell’altra: egli è sì grande Firenze!», r. 92). Il secondo,
Nicia, è invece il personaggio che più rende comica
la scena con le sue esclamazioni volgari e la sua ri-
dicola stupidità. Nicia però è anche personaggio mediocre e malvagio. Purché Lucrezia abbia un figlio,
non disdegna di ricorrere all’omicidio di un garzonaccio. La sua unica preoccupazione è di non incappare
nella giustizia penale degli Otto: altri scrupoli non
ne ha. Sembra giusto, insomma, concludere riportando le situazioni psicologiche tipiche della Mandragola a quella antropologia negativa che tante
volte emerge nel Principe. Gli uomini, secondo Machiavelli, sono per lo più «tristi» (malvagi), o stupidi come Nicia, oppure astuti e mossi da interessi personali come Ligurio e Callimaco. Tuttavia, se nel Principe questa concezione produce situazioni altamente drammatiche, nella commedia è al servizio di un
intreccio faceto e leggero.
Esercizi
comprensione
interpretazione
1. Elenca i personaggi che compaiono nel brano che
hai letto, distinguendo quelli che intervengono nel
discorso da quelli che sono solo citati.
2. Callimaco e Ligurio per beffare Nicia devono vincere alcune resistenze. Individua nel brano appena letto
tali resistenze, unitamente agli argomenti che i due beffatori adducono per aggirarle.
4. Ricostruisci il carattere dei personaggi desumibile
dalle parole del testo, riportandole sul tuo quaderno
accanto a ciascun nome.
analisi
3. La comicità della scena si basa sulla stupidità di Nicia:
isola le espressioni e le situazioni deputate a suscitare
il riso dello spettatore.
contestualizzazione
5. I protagonisti della commedia sono esempi, come
spiega anche la lettura guidata, di quella antropologia
negativa che è già nel Principe. Rileggi il capitolo XVIII
del trattato [uT98] e, confrontandolo con questo brano
della commedia, scrivi sull’argomento un testo di circa
300 parole.
Guida a leggere e a capire
T102 La saggezza di Lucrezia
Mandragola, Atto V, scena 4
Callimaco, Ligurio
5
Callimaco Come io t’ho detto, Ligurio mio, io stetti di mala voglia insino alle nove
ore1; e, benché io avessi gran piacere, e’ non mi parve buono2. Ma poi che io me le
fu’ dato a conoscere3, e che io l’ebbi dato ad intendere4 lo amore che io le portavo,
e quanto facilmente, per la semplicità5 del marito, noi potavàno viver felici sanza
1. stetti... ore: ‘fui di malumore fino a notte
inoltrata’.
2. e’... buono: ‘non mi sembrò soddisfacente’.
3. me... conoscere: ‘mi feci riconoscere’.
4. dato ad intendere: ‘rivelato’.
5. semplicità: ‘stupidità, dabbenaggine’.
ANTOLOGIA
zia saranno due figure che la donna considera autorevoli, ma che in realtà sono corrotte e meschine: il
suo confessore (Timoteo) e la madre (Sostrata).
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ANTOLOGIA
612
I Grandi Autori
10
15
20
infamia alcuna6, promettendole che, qualunque volta Dio facessi altro di lui7, di
prenderla per donna8; ed avendo ella, oltre alle vere ragioni, gustato che differenzia è dalla giacitura mia a quella di Nicia9, e da e’ baci d’uno amante giovane a
quelli d’uno marito vecchio, doppo qualche sospiro, disse: «Poi che l’astuzia tua, la
sciocchezza del mio marito, la semplicità di mia madre e la tristizia10 del mio confessoro mi hanno condotta11 a fare quello che mai per me medesima arei12 fatto, io
voglio iudicare che e’ venga da una celeste disposizione che abbi voluto così13, e
non sono sufficiente a recusare14 quello che ’l cielo vuole che io accetti. Però15 io
ti prendo per signore, patrone, guida: tu mio padre, tu mio defensore, e tu voglio
che sia ogni mio bene; e, quello che ’l mio marito ha voluto per una sera, voglio
ch’egli abbia sempre. Fara’ti adunque suo compare16, e verrai questa mattina alla
chiesa, e di quivi ne verrai a desinare con esso noi17; e l’andare e lo stare starà a
te18, e potreno ad ogni ora e senza sospetto convenire insieme19». Io fui, udendo
queste parole, per morirmi per la dolcezza20. Non potetti rispondere alla minima
parte di quello che io arei desiderato. Tanto che io mi truovo el più felice e contento uomo che fussi mai nel mondo; e se questa felicità non mi mancassi o per morte o per tempo21, io sarei più beato ch’e beati, più santo che e’ santi.
6. potavàno... alcuna: ‘potevamo vivere felici
senza alcuna vergogna’.
7. qualunque... lui: ‘nel caso Dio decidesse di
farlo morire’.
8. donna: ‘moglie’.
9. che... Nicia: ‘che differenza c’è tra il fare l’amore con me e farlo con Nicia’.
10. tristizia: ‘malvagia scaltrezza’.
11. condotta: ‘spinta’.
1
●
2
●
12. arei: ‘avrei’.
13. voglio... così: ‘voglio credere che tutto ciò
sia avvenuto per volontà divina’.
14. non... recusare: ‘non penso che sia in mio
potere rifiutare’.
15. Però: ‘Perciò’.
16. compare: ‘stretto conoscente’.
17. con esso noi: ‘insieme a noi, a casa nostra’.
18. l’andare... starà a te: ‘potrai scegliere tu
quando andartene e quando rimanere’.
19. convenire insieme: ‘incontrarci’.
20. per... dolcezza: ‘sul punto di morire per il
piacere’.
21. non mi... tempo: ‘non dovesse venirmi a
mancare a causa della morte o per il passare
del tempo’.
UN PRIMO SGUARDO SUL TESTO
La commedia di Machiavelli è giunta quasi alla sua conclusione. Callimaco, innamorato di
Lucrezia, ha raggiunto lo scopo di possederla, dopo aver ingannato il marito di lei, Nicia.
Callimaco racconta al servo-consigliere Ligurio come si sono messe le cose fra lui e Lucrezia
dopo la prima notte d’amore. Per cominciare a capire la vicenda vai a rivedere il riassunto
della commedia [u14.9] e il ruolo che vi svolgono i diversi personaggi nominati in questo breve passo e gli altri che non sono presenti qui. Prima di tutto spiega (in non più di
100 parole) in che cosa consiste l’inganno ordito ai danni di Nicia e quale sarebbe la virtù
miracolosa dell’erba mandragola.
COMPRENSIONE DI PRIMO LIVELLO
a. La parte di dialogo riportata appartiene a Callimaco, ma essa riporta al suo interno anche
un discorso di Lucrezia. Questo passo può essere, dunque, segmentato in tre parti:
• Callimaco descrive le azioni compiute per convincere Lucrezia;
• Callimaco racconta come Lucrezia abbia accettato di buon grado il suo amore;
• Callimaco manifesta all’amico la sua gioia.
Espandi i brevi titoli delle sequenze riassumendone sinteticamente il contenuto.
Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 613
14. Niccolò Machiavelli
613
3
●
ANALISI E INTERPRETAZIONE
Approfondiamo le dinamiche fra i personaggi e analizziamo la lingua di Machiavelli.
a. Quali sono gli argomenti usati da Callimaco per convincere Lucrezia? Sono sostanzialmente tre:
• la stupidità di Nicia garantisce loro libertà di amarsi di nascosto senza incorrere nella riprovazione di alcuno (quale frase lo esprime?);
• lei, dopo aver verificato la differenza che corre tra lui e il vecchio Nicia, non può esitare
a scegliere lui;
• lui promette di sposarla nel caso che Nicia muoia.
b. Quali le giustificazioni addotte da Lucrezia per motivare la sua resa? Non dimentichiamoci, infatti, che la donna, onesta e timorata di Dio, si è a lungo rifiutata di sottoporsi alla prova della mandragola e ha ceduto solo grazie agli inganni della madre Sostrata e
del confessore, fra’ Timoteo. Ora però Lucrezia sostiene che:
• sebbene sia stata obbligata a fare l’amore con Callimaco;
• ora è convinta che farlo fosse volontà del cielo, alla quale non ritiene di potersi opporre
(con quali parole lo dice?);
• perciò accetta di diventare l’amante di Callimaco;
• e gli consiglia i comportamenti da tenere per continuare a ingannare Nicia.
c. Dunque Lucrezia accetta di diventare l’amante di Callimaco senza dichiarare apertamente
di aver provato piacere con lui e continuando a sostenere di essere stata manipolata dagli
inganni degli uni (trova tu i nomi) e condizionata dalla sciocchezza degli altri (chi sono
questi sciocchi?). Tu pensi che Lucrezia abbia capito appieno la situazione in cui si è trovata o che si inganni ancora sul comportamento di qualcuno? Insomma – sembra concludere – «quel che è fatto è fatto; vuol dire che non poteva non essere diversamente. Ma ora
deve essere fatto per bene». Ciò significa che nelle parole di Lucrezia Callimaco diventa come
un secondo marito (o marito effettivo), compare del primo. Dice infatti: «io ti prendo per
signore, patrone, guida: tu mio padre, tu mio defensore, e tu voglio che sia ogni mio bene»
(rr. 13-15). La familiarità tra i due uomini servirà di copertura alla loro relazione. C’è una
singolare coincidenza fra le parole usate dai due amanti su questo argomento (metti a confronto le due frasi): la felicità sarà raggiunta a condizione di non apparire, cioè tenendo
nascosta la relazione, cosa di non difficile attuazione, stante la stupidità di Nicia.
d. Tra le parole di Lucrezia dobbiamo notare quel «senza sospetto» che rimanda al v. 129
(«soli eravamo e sanza alcun sospetto») del canto V dell’Inferno, il canto di Paolo e Francesca, che avevano avuto agio di incontrarsi da soli e senza suscitare il sospetto degli altri in
quanto cognati, cioè appartenenti alla medesima famiglia. I lettori sanno che quella familiarità li aveva portati, inconsapevolmente, verso l’attrazione reciproca e la colpa. La situazione di Callimaco e Lucrezia è simile, per quanto collocata a un grado più basso e, perciò,
ANTOLOGIA
b. I personaggi coinvolti nella scena sono solo due: Callimaco e Lucrezia. Per verificare come
essi si presentino al lettore con quello che dicono e le azioni che compiono compila una
tabella a due colonne su cui registrerai i loro predicati e le loro qualificazioni, riportando,
quando è possibile, le parole di Machiavelli, oppure sintetizzandole con parole tue.
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614
ANTOLOGIA
I Grandi Autori
comica: la parentela acquisita scade, infatti, al livello di “comparatico”, cioè di amicizia fra
“compari”, quali dovrebbero diventare, maliziosamente, Callimaco e Nicia. Ma c’è una differenza sostanziale: la familiarità per Paolo e Francesca è causa dell’adulterio; per Callimaco e
Lucrezia, invece, dovrà servire da copertura dell’adulterio già avvenuto. Da Dante a Machiavelli siamo scesi dal tragico al comico e si è dissolto il significato morale di “colpa”,
“peccato”. Sei d’accordo con questa affermazione? La puoi sostenere con altre prove
desunte dall’insieme della commedia?
e. Lasciamo per ultime le osservazioni linguistiche. Le note ti hanno segnalato alcune forme “strane”: potavàno per ‘potevamo’, arei per ‘avrei’. Puoi notare anche il nome confessoro
per ‘confessore’, il futuro potreno per ‘potremo’, l’articolo el (al posto del trecentesco il, passato nell’italiano moderno). È presente infine il pronome soggetto e’ («e’ non mi parve buono», r. 2, per esempio), quasi obbligatorio nel fiorentino antico, ma nel Cinquecento già
inteso come una forma parlata e popolareggiante (e in questo senso ancora in uso a Firenze). Tutte queste particolarità configurano la lingua di Machiavelli come “lingua scritta-parlata”, cioè come una lingua che imita l’oralità. La lingua di Machiavelli si ispira, infatti, al
fiorentino parlato al suo tempo, e, nella Mandragola, al registro popolare. Ciò conferisce
alla commedia realismo e vivacità espressiva. Machiavelli, nel Discorso o dialogo della nostra
lingua, scritto dopo la Mandragola, afferma che una commedia, per funzionare, ha bisogno
di «sali», cioè espressioni scherzose attinte dalla lingua parlata, meglio ancora se si tratta
della lingua parlata dall’autore. Anzi si dice convinto che in Italia manchi un teatro vivace
e solido proprio perché gli autori non scrivono nella loro lingua materna (essendo il fiorentino lingua parlata da pochi di loro).
4
●
CONTESTUALIZZAZIONE
È arrivato il momento di fare una sintesi e di allargare lo sguardo oltre il passo analizzato.
a. La vera protagonista del passo è Lucrezia. Subìto l’inganno, è lei che prende in mano la
situazione, quasi per normalizzarla e controllarla. Si tratta di una rivelazione, di un deciso
cambiamento psicologico oppure il personaggio di Lucrezia fin dall’inizio nascondeva questi tratti di “decisione”? Nella prima scena dell’atto primo Lucrezia è presentata da Callimaco con queste parole: «E nominò madonna Lucrezia, moglie di messer Nicia Calfucci, alla
quale e’ dette tante laude e di bellezze e di costumi, che fece restare stupidi [stupiti] qualunche di noi [tutti]», «ho trovato la fama di madonna Lucrezia essere minore assai che la
verità, il che occorre [capita] rarissime volte», «onestissima e del tutto aliena dalle [estranea alle] cose d’amore». Nel Prologo, peraltro, l’autore la introduceva come una «giovane
accorta». Tenendo conto di questi fatti, sviluppa le tue considerazioni intorno alla “determinazione” di Lucrezia, sia nel rifiutare l’esperimento (come hai desunto dal riassunto),
sia nel gestirne le conseguenze (come hai letto nel passo analizzato). Per dire le cose essenziali ti basteranno circa 300 parole.
b. Puoi, infine, provare a mettere in relazione il comportamento di Lucrezia con le teorie politiche esposte da Machiavelli a proposito dell’adattabilità, della capacità dell’individuo “virtuoso” di cambiare la propria indole per conformarla alle condizioni in cui si trova. È possibile dimostrare che Lucrezia è un esempio di “virtù”, nel senso che Machiavelli dà
a questo termine? Per farlo è necessario anche sostenere l’indipendenza di Lucrezia da valutazioni di ordine morale. Rifletti anche sulle parole: «quello che ’l mio marito ha voluto per
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14. Niccolò Machiavelli
615
PRINCIPIO DI IMITAZIONE
T93 Le giornate all’Albergaccio
e la composizione del Principe
VIRTÙ E FORTUNA
La capacità politica individuale (virtù) si manifesta nel confronto
con la sorte (fortuna). La fortuna è instabile e capricciosa, per cui
essa può sia favorire l’azione politica del principe, sia farla rovinare.
Il principe accorto è colui che sa fondare il proprio regno sulla virtù,
traendo vantaggio dalle circostanze favorevoli offerte dalla fortuna
(occasione). Viceversa se il regno non nasce dalla virtù e
dall’occasione propizia, bensì da un semplice caso fortuito, è
indispensabile rafforzare quel regno con la virtù, pena un rapido
tracollo. La dialettica virtù/fortuna si coglie anche nei rapporti
umani quotidiani messi in scena nella Mandragola, dove Callimaco e
Ligurio sanno sfruttare l’occasione favorevole (il desiderio di
paternità di Nicia) per sedurre Lucrezia. Tale dialettica si coglie
anche nella lettera al Vettori: il Principe infatti è scritto dopo un
tracollo di fortuna e viene offerto ai Medici come il frutto di una
virtù politica in cerca di riscatto.
T95 Il principe nuovo: la
perfezione dei modelli antichi
T95 Il principe nuovo: la
perfezione dei modelli antichi
T96 Il principe nuovo: un
esemplare quasi perfetto
T100 Esortazione a liberare
l’Italia
T96 Il principe nuovo: un
esemplare quasi perfetto
T99 Virtù contro fortuna
T100 Esortazione a liberare
l’Italia
T101 Le fantomatiche virtù della
mandragola
TEMI E FORME
Secondo Machiavelli, per realizzare un progetto politico è
indispensabile unire all’esperienza una solida conoscenza dei
modelli del passato (prossimo e remoto). Tali modelli devono
essere per quanto possibile imitati (principio di imitazione), in modo
che il politico moderno possa colmare le proprie insufficienze
facendo tesoro dell’esperienza maturata da alcuni politici esemplari
vissuti prima di lui. Come si desume dalla lettera di Machiavelli al
Vettori, il Principe nasce da questa fiducia nel principio di imitazione,
rivolta ai modelli di massima capacità politica: quelli del mondo
romano. Sia il trattato sulla monarchia sia quello sulla repubblica
(Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio) furono scritti meditando
sui modelli della storia antica. A sua volta Machiavelli, nel momento
in cui raccoglie e analizza i modelli politici del passato, li propone ai
suoi lettori come punti di riferimento per il futuro. Il Principe, in
particolare, è indirizzato ai Medici, in modo che essi sappiano imitare
i modelli ivi additati.
ANTOLOGIA
una sera, voglio ch’egli abbia sempre», che sembrano essere non solo decise (voglio) ma
anche vendicative. Se è vera l’ipotesi di una Lucrezia esempio della teoria del “riscontro”
(nel senso di ‘adeguamento alla situazione’), quale giudizio si deve trarre sull’ambiente in
cui agiscono i personaggi? Machiavelli lo raffigura con uno sguardo ironico e divertito, ma
lo sottopone anche a un giudizio morale? Per discutere di questi problemi devi rileggere la
presentazione della commedia e l’altro passo antologizzato [uT101]. Esponi ordinatamente le tue considerazioni in un saggio di circa 600 parole, nel quale dovranno trovare spazio anche alcune considerazioni di base sul Principe.
Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 616
IL «RISCONTRO»
La virtù non potrà mai neutralizzare del tutto il potere della fortuna,
che costituisce un fondo oscuro, irriducibile e irrazionale. Secondo
Machiavelli, infatti, alla base del successo politico sta una
corrispondenza («riscontro») fra il carattere del politico e la
natura dei tempi. Se i tempi favoriscono un carattere impetuoso
allora il principe impetuoso avrà un regno stabile; se invece i tempi
ne favoriscono uno «respettivo» (cauto) il principe impetuoso fallirà
e avrà successo il «respettivo». Quest’ultimo a sua volta fallirà nel
primo caso, visto che, secondo Machiavelli, è quasi impossibile che
un politico si comporti diversamente da come gli suggerisce il
proprio carattere.
T99 Virtù contro fortuna
LA «VERITÀ EFFETTUALE»:
LA POLITICA COME SCIENZA AUTONOMA
I Grandi Autori
Virtù, per Machiavelli, significa sempre virtù politica e non è mai
sinonimo di virtù morale. La virtù morale infatti viene tenuta
nettamente distinta dalla capacità politica, perché la prima descrive
il dover essere degli uomini e li dipinge quali essi non sono; la
seconda invece sa guardare alla realtà concreta degli uomini
(«verità effettuale»). È in base a questa «verità effettuale», e non alla
legge morale, che il principe deve regolare le proprie azioni. Ne
consegue che anche il tradimento può essere legittimo, dal punto di
vista politico, nel caso in cui la parola data possa portare al tracollo
dello Stato. Il buon principe, infatti, deve guardarsi dall’offendere
apertamente la morale: tuttavia non si può esimere, in molti casi,
dall’usare virtù immorali come l’astuzia (della volpe) e la violenza
(del leone). Nel momento in cui distingue fra bene morale e bene
politico (basato sulla «verità effettuale»), Machiavelli fonda la politica
come scienza autonoma, in grado di garantire il benessere materiale
dei sudditi e la solidità dello Stato. Spostandoci dai rapporti politici
ai rapporti familiari, una forma di saggezza, intesa come adesione
alla «verità effettuale», si può infine riconoscere a Lucrezia, quando
alla fine della Mandragola si rende conto che il dover essere morale
(la fedeltà al marito Nicia) non è più praticabile e si risolve ad
accettare Callimaco come amante.
T96 Il principe nuovo: un
esemplare quasi perfetto
IL PRINCIPE NUOVO REDENTORE DELL’ITALIA
TEMI E FORME
616
I principati sono di tre tipi: del tutto ereditari, del tutto nuovi (o
recenti), misti (in parte ereditari e in parte acquisiti). Il principe che
Machiavelli privilegia nel suo trattato è il principe nuovo: il principe
che deve cogliere l’occasione fornita della fortuna per gettare le
fondamenta di uno Stato del tutto nuovo. Il principe nuovo è quello
che agisce nei momenti storici più travagliati, come un tempo
avevano agito i grandi fondatori degli Stati antichi (Teseo, Mosè,
Romolo). Nell’Italia coeva del 1513 Machiavelli vede le stesse
condizioni propizie per formare un principato nuovo che ebbero i
grandi principi dell’antichità. L’Italia di allora, infatti, composta da
molti Stati e staterelli, era invasa da potenze straniere che si
contendono l’egemonia. Machiavelli auspica l’avvento di un principe
«redentore» che sappia imporre una nuova egemonia, cacciando i
«barbari» invasori. In questo progetto aveva fallito, di poco, il
Valentino, dopo aver formato un principato nuovo in Romagna.
Rivolgendosi ai Medici, e in particolare a Lorenzo, Machiavelli
auspica l’avvento di un principato nuovo a partire dallo Stato
toscano.
T93 Le giornate all’Albergaccio
e la composizione del Principe
T97 La «verità effettuale»
T98 «Usare la bestia»: la volpe e
il leone
T102 La saggezza di Lucrezia
T94 Distinzioni preliminari
T95 Il principe nuovo: la
perfezione dei modelli antichi
T96 Il principe nuovo: un
esemplare quasi perfetto
T100 Esortazione a liberare
l’Italia
Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 617
617
LO STILE
Strumento indispensabile del principe sono le milizie, senza le quali
il suo potere è nullo. Mentre però le milizie mercenarie (usatissime
nel Cinquecento) non risultano affidabili, le milizie proprie,
composte da uomini fedeli al principe, sono l’unico esercito che
Machiavelli considera affidabile.
T100 Esortazione a liberare
l’Italia
Nello stile del Principe convivono uno stile raziocinante, che tende
a scomporre la realtà politica nelle sue varie possibilità (uno stile
che è stato definito dilemmatico); e uno stile metaforico e
immaginoso, che condensa una complessità concettuale in alcune
similitudini folgoranti: la volpe e il leone, la fortuna come un fiume in
piena, la donna fortuna, il principe nuovo come redentore, ecc.
T94 Distinzioni preliminari
TEMI E FORME
LE MILIZIE
PROPRIE
14. Niccolò Machiavelli
T98 «Usare la bestia»: la volpe e
il leone
T99 Virtù contro fortuna
T100 Esortazione a liberare
l’Italia
Einaudi, Torino 1964.
Torino 1980.
Niccolò Machiavelli, Epistolario, in Tutte
le opere, a cura di Mario Martelli,
Sansoni, Firenze 1971.
Niccolò Machiavelli, Mandragola, a cura
di Gennaro Sasso e Giorgio Inglese,
Rizzoli, Milano 1980.
Gennaro Sasso, Niccolò Machiavelli, 2
voll., il Mulino, Bologna 1993.
Niccolò Machiavelli, Il Principe, a cura di
Giorgio Inglese, Einaudi, Torino 1995.
Studi
Giorgio Inglese, Introduzione a Niccolò
Machiavelli, Il Principe, Einaudi, Torino
1995.
Federico Chabod, Metodo e stile di
Machiavelli, in Scritti su Machiavelli,
Felix Gilbert, Machiavelli e il suo tempo, il
Mulino, Bologna 1964.
Ezio Raimondi, Politica e commedia, il
Mulino, Bologna 1972.
Carlo Dionisotti, Machiavellerie, Einaudi,
Quentin Skinner, Machiavelli, il Mulino,
Bologna 1999.
Giulio Ferroni, Machiavelli o
dell’incertezza. La politica come arte del
rimedio, Donzelli, Roma 2003.
Francesco Bausi, Machiavelli, Salerno
Editrice, Roma 2005.
BIBLIOGRAFIA
Fonti
Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 618
VERIFICA FINALE
618
I Grandi Autori
Verifica delle conoscenze
1 Assegna una data (o un intervallo temporale) agli eventi e alle circostanze riportate qui di seguito.
●
a. Nascita di Niccolò Machiavelli:
________________________________________________
b. Periodo del segretariato fiorentino:
________________________________________________
c. Esilio all’Albergaccio:
________________________________________________
d. Composizione del Principe:
________________________________________________
e. Composizione della Mandragola:
________________________________________________
f. Composizione dell’Arte della guerra:
________________________________________________
g. Ritorno a Firenze:
________________________________________________
h. Composizione delle Istorie fiorentine:
________________________________________________
i. Nuovi incarichi pratici ottenuti dai Medici:
________________________________________________
l. Restaurazione della Repubblica
fiorentina e conseguente nuovo
allontanamento dalla vita politica:
________________________________________________
2 Indica se le seguenti affermazioni sono vere o false.
●
a. Il periodo di attività politica più intensa è vissuto da
Machiavelli quando è al servizio dei Medici, ormai signori di
Firenze.
V F
f. Con Machiavelli nasce un’idea di politica intesa come
vera e propria scienza, come sapere a sé stante e autonomo.
V F
b. Niccolò Machiavelli nasce a Firenze da una famiglia aristocratica che gli garantisce un’istruzione classica molto
robusta e sistematica.
V F
g. Uno dei presupposti della riflessione politica di Machiavelli è che gli uomini del suo tempo, a differenza dei loro
predecessori, si sono dimostrati deboli e corrotti. V F
c. Niccolò Machiavelli riceve l’incarico di segretario della
Repubblica fiorentina da Pier Soderini, eletto a sua volta
gonfaloniere.
V F
h. Nella sua attività teatrale Machiavelli recupera i modelli del teatro comico latino e greco, ammodernandoli tuttavia con un’analisi lucida e sarcastica della natura umana.
V F
d. Machiavelli scrive le opere maggiori nel corso del periodo di “ozio” forzato a cui è costretto dopo essere stato
allontanato da Firenze.
V F
e. L’Arte della guerra è un trattato che richiama la forma del
commentarium, in quanto Machiavelli dialoga idealmente
con gli storici antichi, commentandone le opere. V F
i. La dirompente novità introdotta da Machiavelli nell’analisi politica ha esposto la sua opera a censure e fraintendimenti fino a qualche secolo addietro.
V F
l. La Mandragola è considerata il testo teatrale più brillante
del Cinquecento italiano.
V F
3 Per ciascuno dei testi che seguono indica se si tratti di un’opera compiuta oppure incompiuta e il genere di appar●
tenenza.
TITOLO
COMPIUTA/INCOMPIUTA
GENERE
Il Principe
______________________________________________________
Mandragola
______________________________________________________
Belfagor arcidiavolo
______________________________________________________
Santagata_14:14 29/12/08 11:43 Pagina 619
619
Niccolò Machiavelli
COMPIUTA/INCOMPIUTA
GENERE
Dell’arte della guerra
______________________________________________________
Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio
______________________________________________________
Asino
______________________________________________________
Discorso o dialogo della nostra lingua
______________________________________________________
Clizia
______________________________________________________
4 Sintetizza la posizione sostenuta da Machiavelli sulla “questione della lingua” secondo quanto affermato dall’auto●
re nel Discorso o dialogo della nostra lingua.
________________________________________________________________________________________
________________________________________________________________________________________
________________________________________________________________________________________
________________________________________________________________________________________
________________________________________________________________________________________
5 Completa il testo che segue inserendo le parole date.
●
argomentative • breve • censura
chiavellismo • poliedrico • rigore
• cinica • condottiero •
• trattato • uomini
Dell’arte della guerra
•
dialogo
•
dialogo
•
ma-
Machiavelli è scrittore ...................................... e la sua opera sfugge a ogni classificazione. Il Principe, i Discorsi, ......................................
appartengono al genere del ......................................, tuttavia si realizzano in forme e con strategie ...................................... assai diverse tra loro. Il primo è uno scritto piuttosto ......................................, caratterizzato da una prosa efficace; il secondo si presenta
come un ...................................... ideale con le pagine dello storico romano Tito Livio; il terzo, infine, richiama il modello cinqueseicentesco del ...................................... tra due amici di Machiavelli e il ...................................... Fabrizio Colonna.
È possibile comunque individuare una legge comune nella straordinaria varietà degli scritti di Machiavelli, consistente nella spregiudicata acutezza con la quale si indagano i rapporti reciproci (pubblici e privati) fra gli ....................................... Un così
straordinario ...................................... nell’analisi politica non riscuote successo presso i suoi contemporanei, anzi viene ben presto sottoposto al limite della ...................................... e assai facilmente frainteso con una sua deformazione ...................................... e
opportunistica: quella che è più corretto definire .......................................
Fare ordine tra le idee
6 In più testi Machiavelli indugia sulla necessità di organizzare in modo rigoroso la componente militare di uno Sta●
to, fornendo indicazioni precise al riguardo. Sulla base dei testi che hai letto, prepara un intervento orale sull’argomento della durata di 8 minuti.
7 “Virtù” e “fortuna”, “uomo” e “bestia”, “golpe” e “lione” sono forse tra i binomi più celebri del Principe. Hanno tutti
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un ruolo centrale nella particolare visione politica di Machiavelli, basata sulla considerazione della «verità effettuale» e su una concezione pessimistica dell’uomo. Facendo riferimento ai testi che hai letto, organizza su questo argomento un’esposizione orale di circa 8 minuti.
Confrontare, approfondire, scrivere
8 Sottolinea le informazioni principali e secondarie contenute nel saggio critico di Giorgio Inglese [uLC6], quindi rias●
sumilo nel minor numero di parole possibile.
9 Lo stile di Machiavelli è assai vario, quanto è varia la sua produzione letteraria: ripercorri le opere che hai letto e
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argomenta la precedente affermazione in un saggio di circa 300 parole, facendo riferimento ai testi.
VERIFICA FINALE
TITOLO
Santagata_14:14 19/12/08 16:57 Pagina 620
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I Grandi Autori
Verso l’esame
10 Leggi la pagina del Principe (cap. XVII) che ti presentiamo e analizzala secondo le indicazioni che seguono.
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Dico che ciascuno principe debbe desiderare di essere tenuto piatoso e non crudele:
nondimanco debbe avvertire di non usare male questa pietà1. Era tenuto Cesare Borgia crudele: nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola,
ridottola in pace e in fede2. Il che se si considera bene, si vedrà quello essere stato molto più piatoso che il populo fiorentino, il quale, per fuggire il nome di crudele, lasciò
distruggere Pistoia3. Debbe pertanto uno principe non si curare della infamia del crudele per tenere e’ sudditi sua uniti e in fede: perché con pochissimi esempli sarà più
pietoso che quelli e’ quali per troppa pietà lasciono seguire e’ disordini, di che ne nasca
uccisioni o rapine; perché queste sogliono offendere una universalità intera, e quelle
esecuzioni che vengono dal principe offendono uno particulare4. E in fra tutti e’ principi al principe nuovo è impossibile fuggire il nome di crudele, per essere gli stati nuovi pieni di pericoli5. [...] Nondimanco debbe essere grave al credere e al muoversi, né
si fare paura da sé stesso: e procedere in modo, temperato con prudenza e umanità,
che la troppa confidenzia non lo facci incauto e la troppa diffidenzia non lo renda
intollerabile6.
Nasce da questo una disputa, s’e’ gli è meglio essere amato che temuto o e converso. Rispondesi che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché e’ gli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbi a mancare
dell’uno de’ dua7. Perché degli uomini si può dire questo, generalmente, che sieno
ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi del guadagno;
e mentre fai loro bene e’ sono tutti tua, offeronti el sangue, la roba, la vita, e’ figliuoli, come di sopra dissi, quando el bisogno è discosto: ma quando ti si appressa, si rivoltono, e quello principe che si è tutto fondato in su le parole loro, trovandosi nudo di
altre preparazioni, ruina8. Perché le amicizie che si acquistono col prezzo, e non con
grandezza e nobilità di animo, si meritano, ma elle non si hanno, e alli tempi non si
possono spendere; e li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere: perché lo amore è tenuto da uno vinculo di obligo, il
1. Dico... pietà: ‘Io affermo che ogni principe
deve desiderare di essere considerato compassionevole (tenuto piatoso) e non crudele:
ciò nonostante deve badare a (avvertire di) non
usare male questa compassione’.
2. Era... fede: ‘Cesare Borgia era considerato
crudele: ciononostante quella sua crudeltà
aveva riordinato e riunificato la Romagna, l’aveva resa pacifica e fedele’.
3. Il che... Pistoia: ‘E se si osservano bene questi fatti, si potrà notare che (Cesare Borgia) è
stato molto più compassionevole del popolo
fiorentino; il quale, per non essere considerato
crudele, lasciò che Pistoia fosse distrutta’. Nel
marzo del 1502 il governo fiorentino non ricorse a un’azione risoluta che ponesse fine al conflitto fra due famiglie rivali di Pistoia, contribuendo così alla rovina della città.
4. Debbe... particulare: ‘Pertanto un principe
non si deve preoccupare che gli venga attribuita la cattiva fama di crudele se vuol mantenere
i suoi sudditi uniti e fedeli a lui (e in fede); perché dando solo pochissimi esempi (di crudeltà)
sarà più compassionevole di quanti, per troppa
pietà, lasciano accadere disordini, dai quali
possono scaturire (di che ne nasca) stragi e
ruberie: queste, infatti, colpiscono (sogliono
offendere) tutti i cittadini (una universalità intera), mentre le esecuzioni ordinate dal principe
colpiscono un solo individuo (uno particulare)’.
5. E in fra... pericoli: ‘E fra tutti i principi quello nuovo non può evitare la fama di crudele, dal
momento che gli Stati nuovi (di nuova acquisizione) sono pieni di rischi’.
6. Nondimanco... intollerabile: ‘Ciononostante egli deve essere cauto nel (grave al) prestare fiducia (credere) e nell’agire (muoversi), e
non spaventarsi da solo (cioè per pericoli
immaginari): e deve procedere con un misto di
prudenza e di umanità in modo che la troppa
fiducia non lo renda (non lo facci) imprudente
e l’eccessiva diffidenza non lo renda intollerabile’ ai sudditi.
7. Nasce... dua: ‘A questo proposito nasce una
discussione, se sia meglio essere amato che temuto o il contrario (e converso, latinismo). Si
può rispondere che bisognerebbe essere l’uno
e l’altro (cioè amato e temuto); ma poiché è difficile conciliare questi due aspetti (accozzarli insieme), rende più sicuri essere temuti piuttosto
che amati, quando non sono possibili contemporaneamente le due cose (letteralmente: ‘nel
caso venga a mancare uno dei due aspetti’)’.
8. Perché... ruina: ‘Degli uomini, infatti, si può
dire questo, in generale: che sono ingrati, volubili, che fingono il falso e nascondono il vero
(simulatori e dissimulatori), che sono vigliacchi
(fuggitori de’ pericoli), avidi (cupidi del guadagno); e mentre fai loro del bene sono tutti con
te, ti offrono (offeronti) il loro sangue, i loro
beni, la vita, i figli, come ho detto prima (nel
cap. IX), quando il momento del bisogno è lontano (discosto): ma quando questo ti si fa più
vicino (ti si appressa), (gli uomini) girano le
spalle, e allora il principe che si è basato esclusivamente (si è tutto fondato in) sulle loro promesse (parole), ritrovandosi privo (nudo) di
altre difese (di altre preparazioni), perde il potere’.
Santagata_14:14 29/12/08 11:43 Pagina 621
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Niccolò Machiavelli
9. Perché... abbandona mai: ‘Infatti (Perché) le
alleanze che si acquistano con il denaro (col
prezzo), e non con la grandezza e la nobiltà d’animo, le si pagano (si meritano), ma non le si possiedono davvero (non si hanno), e al momento
del bisogno (alli tempi, letteralmente: ‘alla scadenza’) non si può ricorrere a esse (spendere);
e gli uomini hanno meno timore (rispetto) a colpire uno che si faccia amare, rispetto a uno che
si faccia temere; e questo perché l’amore è con-
servato da un legame di riconoscenza il quale,
essendo gli uomini malvagi (tristi), è infranto da
ogni occasione di tornaconto personale, mentre il timore è conservato da una paura del castigo (pena) che non ti lascia mai’.
Comprensione
a. Dividi il passo in sequenze e individua i legami argomentativi che le tengono insieme, evidenziandoli con la costruzione
di una mappa concettuale (puoi esplicitare la natura dei nessi scrivendoli sopra le frecce che collegano le sequenze individuate, che possono essere di diversa ampiezza).
Analisi
b. Definisci i concetti di crudeltà, pietà e “verità effettuale” che ricorrono in questo passo.
c. Riassumi brevemente i due esempi di pietà e di crudeltà che sono qui citati, mettendone in evidenza gli aspetti contraddittori (puoi disporli in una tabella che giustapponga effetti negativi e positivi dei due comportamenti).
d. Segnala gli avverbi “nondimeno” presenti in questo passo e spiega per ogni occorrenza il legame fra quanto Machiavelli ha detto prima e quanto si accinge a dire. Valuta l’importanza di questo tipo di argomentazione nella prosa e nel pensiero di Machiavelli.
e. Quale giudizio sulla natura umana esprime in questo passo Machiavelli? Dopo averlo spiegato vai alla ricerca di eventuali conferme in altri passi di questo autore.
Interpretazione e approfondimento
f. Esponi le conclusioni alle quali arriva Machiavelli intorno al dilemma se il principe debba essere amato o temuto.
g. Collega questo argomento al tema del “principe nuovo” che Machiavelli tratta, per esempio, nel cap. VII [uT96] del Principe ed esponi le sue teorie in un saggio di circa 600 parole.
VERIFICA FINALE
quale, per essere gl’uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai9.
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