“TEORIA DELLA CRESCITA: una sintesi” CORSO DI ECONOMIA POLITICA (corso avanzato) CdL in Giurisprudenza A.A. 2010/2011 Docente: Marianna Succurro “Dietro al tema della crescita non si cela altro che un’annosa questione, che da sempre affascina e preoccupa chiunque si interessi all’economia: la relazione tra il presente e il futuro”. (James Tobin) Introduzione L’economia come scienza è nata come economia dello sviluppo, come ricerca delle cause che fanno crescere nel tempo la ricchezza delle nazioni. I primi economisti moderni, i cosiddetti “classici” (Adam Smith, David Ricardo, Karl Marx), furono notevolmente influenzati da quello straordinario sviluppo della ricchezza che si ebbe a seguito della rivoluzione industriale in Inghilterra, a partire dalla seconda metà del Settecento. I “classici” coniugarono l’analisi del cambiamento tecnologico con le motivazioni che spingono gli imprenditori a investire e dunque a produrre nuova e maggiore ricchezza. In particolare, analizzarono la trasformazione dei rapporti sociali, il ruolo delle classi nel processo di sviluppo, i rapporti internazionali tra Paesi produttori di manufatti e Paesi produttori di materie prime e di alimenti. Tennero nel dovuto conto le istituzioni pubbliche che possono promuovere o, al contrario, frenare lo sviluppo economico. L’approccio del “classici” intendeva indagare sulle “leggi di movimento” dei sistemi economici. Successivamente questo approccio fu messo da parte a causa del cambiamento nelle condizioni dell’epoca, col passaggio del capitalismo ottocentesco da una fase di rapida espansione a una fase di ristagno. L’attenzione degli economisti si concentrò sulle scelte che gli agenti economici (consumatori, imprenditori) compiono quando si tratta di impiegare una ricchezza data per perseguire scopi alternativi. I nuovi economisti, neoclassici o marginalisti, si sono concentrati sul comportamento economico razionale degli individui che ubbidirebbe a regole universali di ottimizzazione. Questa linea di pensiero è stata caratterizzata da una scissione tra scienza e realtà: più aumentava la sforzo intellettuale e più i risultati dell’analisi economica si mostravano incapaci di dire alcunché di rilevante nell’interpretazione dei fenomeni economici che intanto maggiormente angustiavano il genere umano (la depressione degli anni ’30 del secolo scorso, la miseria che affliggeva la maggior parte della popolazione mondiale, concentrata nei paesi poveri). La situazione cambiò a partire dagli anni ’40 del secolo scorso e ancor di più nella seconda metà del Novecento. Il cambiamento avvenne in due direzioni. Da un lato, con l’opera di Keynes il centro della riflessione degli economisti si spostò sull’instabilità dei sistemi di capitalismo avanzato, sulla disoccupazione di massa provocata dalla caduta della domanda. Dall’altro, i successi della pianificazione socialista nel trasformare la Russia da Paese agricolo e arretrato in un’economia che 1 appariva fortemente industrializzata e l’emergere sulla scena internazionale di Paesi sottosviluppati, diedero nuovo spazio alla riflessione sullo sviluppo economico. Negli ultimi decenni il panorama delle ricerche è mutato ancora passando dall’analisi dei fallimenti del mercato all’analisi dei fallimenti dello Stato, dell’intervento pubblico nell’economia sia nell’area dei Paesi sviluppati sia nella zona più ampia dei Paesi sottosviluppati. L’evoluzione delle teorie economiche indica che la scienza economica non è una scienza “pura”, astratta dalle situazioni contingenti in cui è elaborata e diffusa. Gli economisti sono sempre uomini del loro tempo e nelle loro teorie riflettono i problemi, gli interessi, le idee dominanti e le passioni che prevalgono nell’esperienza umana. Un dato di fatto è che, nel tempo, il tenore di vita della maggior parte delle famiglie, in quasi tutti i paesi del mondo, è migliorato considerevolmente e questo ha suscitato l’interesse di molti economisti. Questo progresso è frutto della crescita del reddito, che ha permesso agli individui di consumare una maggiore quantità di beni e servizi. Le teorie della crescita economica sono state sottoposte, specie negli anni più recenti, ad un’incessante revisione critica al termine della quale gli economisti hanno dimostrato che la velocità con cui cresce il PIL pro capite dipende anche da fattori qualitativi, soprattutto attinenti alla storia e alle istituzioni, che sono centrali nella teoria dello sviluppo economico. 1. Le teorie tradizionali della crescita economica Per gli economisti classici, il motore della crescita e dello sviluppo era l’accumulazione di capitale fisico: i capitalisti-imprenditori, reinvestendo in macchine e forza lavoro i profitti guadagnati, permettevano l’aumento della produzione e dell’occupazione. I classici elaborarono una teoria della crescita economica che, tuttavia, conteneva anche elementi di critica se non di pessimismo per lo sviluppo del capitalismo. Ricardo pensava che l’espansione capitalistica avrebbe incontrato presto o tardi un limite nella scarsità delle terre fertili. Per Marx, invece, il limite allo sviluppo del capitalismo sarebbe venuto dalle contraddizioni interne al capitalismo stesso dovute al mancato coordinamento delle decisioni d’investimento. La scuola del pensiero neoclassico, che si affermò alla fine del secolo scorso, non diede grandi contributi alla teoria dello sviluppo economico dal momento che era basata su una concezione statica: l’impiego ottimale delle risorse scarse (esistenti) anziché la loro crescita nel tempo. La teoria della crescita economica riprese vigore dopo la fine della seconda guerra mondiale. Al suo interno è possibile individuare diversi filoni di ricerca, quali l’approccio keynesiano, le teorie postkeynesiane, i modelli neoclassici (di Solow-Swan-Ramsey). L’approccio keynesiano considera l’accumulazione di capitale fisico come fattore esclusivo del progresso economico, considerando alcune grandezze date (come il saggio di risparmio, l’efficienza degli investimenti) e tralasciando il ruolo di altre variabili. Il modello della crescita di Solow mostra come l’accumulazione di capitale (risparmio), la crescita della forza lavoro (crescita demografica) e il progresso tecnologico interagiscano nel sistema economico, influenzando la crescita della produzione aggregata di beni e servizi, quindi la crescita del tenore di vita di un paese. Nello specifico, quanto più elevato è il saggio di risparmio, tanto più elevati sono lo stock di capitale e il PIL; quanto più elevato è il tasso di crescita demografica, tanto più bassi sono il livello di capitale per occupato e il prodotto aggregato per occupato. Il modello di Solow fa dipendere l’accelerazione della crescita dall’innovazione tecnica. Il solo fattore che può spiegare una crescita persistente del tenore di vita è il progresso tecnologico, ovvero lo sviluppo di conoscenze che permettono di trovare modi più efficienti di produrre, di organizzare meglio l’utilizzo delle risorse disponibili, e anche di espandere il raggio d’azione dei mercati. Nel modello di Solow, tuttavia, non vengono spiegate le cause del progresso tecnologico, che resta sostanzialmente un fenomeno esogeno (dato e non spiegato), accessibile a tutti i Paesi. 2 Questi primi modelli, dunque, hanno lasciato aperti problemi interpretativi cruciali per la spiegazione della crescita economica. L’evoluzione teorica successiva ha cercato di superare questi limiti delle prime teorie della crescita offrendo una visione più articolata della dinamica economica. Le moderne teorie della crescita endogena, in particolare, cercano di spiegare il tasso di progresso tecnologico, le cui cause non furono analizzate nel modello di Solow. 2. Le teorie della crescita endogena Uno degli obiettivi delle teorie della crescita è offrire una spiegazione del progressivo e continuo miglioramento del tenore di vita che si osserva in molte parti del mondo. Perché i Paesi hanno diversi tassi di crescita economica? Il livello del PIL e la crescita economica di un paese sono strettamente correlati alla capacità produttiva del sistema economico del paese stesso. In altre parole, il tenore di vita di una economia dipende dalla sua capacità di produrre beni e servizi. Più i paesi sono produttivi, più sperimentano elevati tassi di sviluppo e ricchezza economica. Produttività e crescita sono quindi strettamente legate, dove per produttività si intende la quantità di beni e servizi che un lavoratore può produrre in un’unità di tempo. La produttività dipende dalle seguenti determinanti: capitale fisico: disponibilità di attrezzature e di strutture che vengono utilizzate per produrre beni e servizi; capitale umano: conoscenze e abilità che il lavoratore acquisisce attraverso l’istruzione, l’addestramento e l’esperienza professionale. Specificatamente, si designa col termine di ‘capitale umano' la popolazione in età lavorativa di un Paese e il complesso del "saper fare" (istruzione, abilità, formazione) incorporato nei lavoratori. Le moderne teorie dello sviluppo mettono ormai l'accento sul capitale umano come fattore essenziale dello sviluppo, man mano che il sistema economico si inoltra nell'"economia della conoscenza". Risorse naturali e trasformazione grezza sono molto meno importanti di prima (malgrado i vantaggi che oggi affluiscono ai Paesi produttori di petrolio e altre materie prime) e i vantaggi comparati oggi risiedono soprattutto nella qualità e nella quantità di human capital. Sistema educativo, formazione sul luogo di lavoro e riaddestramento di quanti sono costretti a passare da settori in declino a settori in espansione sono i principali strumenti per il miglioramento del capitale umano. risorse naturali: i fattori della produzione di beni e servizi che vengono forniti dalla natura, quali terra, fiumi, giacimenti minerari; conoscenze tecnologiche: l’insieme di conoscenze di cui la società dispone sulle modalità di produzione di beni e servizi. L’ultimo punto è particolarmente importante. Nello specifico … Che cosa determina il tasso di progresso tecnologico? Nelle economie moderne, la maggior parte del progresso tecnologico è il risultato dell’attività di ricerca e sviluppo (R&S) svolta dalle imprese. Le imprese investono in ricerca e sviluppo per aumentare i loro profitti attesi attraverso la scoperta di prodotti o processi nuovi. Il livello di spesa in R&S dipende non solo dalla fertilità del processo di ricerca, cioè da come la spesa in R&S si traduce in nuove idee e nuovi prodotti, ma anche dall’appropriabilità dei risultati della ricerca, cioè dalla misura in cui le imprese possono beneficiare dei risultati della loro R&S. In tale contesto, la protezione legale accordata ai nuovi prodotti è di fondamentale importanza. Per questo in tutti i paesi vi sono norme relative ai brevetti. I brevetti danno all’impresa che ha scoperto 3 un nuovo prodotto il diritto di escludere chiunque altro dalla produzione o dall’uso del nuovo prodotto per un certo periodo di tempo. I diritti di proprietà intellettuale, e le leggi sui brevetti in particolare, devono contemperare due obiettivi. Da un lato, la protezione è necessaria per fornire alle imprese gli incentivi ad investire in R&S (molta protezione). Dall’altro lato, una volta che le imprese hanno scoperto nuovi prodotti, sarebbe meglio per la società diffondere le conoscenze (poca protezione). I paesi tecnologicamente meno avanzati hanno di solito una legislazione insufficiente in materia di brevetti. In sintesi, i modelli di crescita endogena cercano di spiegare le decisioni che determinano la creazione di conoscenza attraverso attività di ricerca e sviluppo, quindi forniscono una rappresentazione più completa del processo di innovazione tecnologica. Quali politiche per la promozione della crescita? Molti interventi di politica economica sono finalizzati a stimolare il progresso tecnologico. I governi dei paesi, infatti, possono intervenire per aumentare la produttività del proprio sistema economico cercando di agire sulle determinanti della produttività. In particolare, attraverso: l’accumulazione del capitale: allocando una porzione più elevata del reddito al risparmio e all’investimento; l’accumulazione del capitale estero: stimolando gli investimenti esteri diretti e gli investimenti esteri di portafoglio; l’istruzione: provvedendo ad un buon sistema scolastico e incoraggiando la popolazione ad utilizzarlo proficuamente; i diritti di proprietà intellettuale; la stabilita politica; il libero scambio: favorendo la libera commercializzazione dei beni e dei servizi; la ricerca e lo sviluppo: promuovendo la ricerca tesa anche a favorire il progresso in campo tecnologico. In realtà, la maggior parte dei provvedimenti di politica economica incentiva il settore privato a destinare risorse all’innovazione. Per esempio, il sistema dei brevetti garantisce un monopolio temporaneo agli inventori di nuovi prodotti o processi; la normativa tributaria prevede sgravi e sussidi per le aziende che si dedicano alla ricerca e allo sviluppo; alcuni interventi di politica industriale sono orientati al sostegno dei settori industriali ritenuti di importanza cruciale per un rapido progresso tecnologico. I responsabili della politica economica possono promuovere la crescita creando le istituzioni più adatte ad assicurare che l’attività di ricerca abbia i giusti incentivi, al fine di favorire il progresso tecnologico. 2.1 Istituzioni e crescita Per spiegare le differenze nei livelli di produttività tra paesi, l’attenzione viene posta essenzialmente sull’accumulazione di capitale e sul progresso tecnologico. In realtà, l’accumulazione di capitale e il progresso tecnologico dipendono a loro volta dalla qualità delle istituzioni. La maggior parte degli economisti, infatti, crede che il problema principale dei paesi poveri sia l’insufficienza delle istituzioni. Un ruolo di primaria importanza è assunto dalla protezione dei diritti di proprietà. Pochi individui apriranno imprese, investiranno e introdurranno nuove tecnologie, se si aspettano che i profitti saranno espropriati dallo Stato o destinati a tangenti per funzionari corrotti o rubati da altri. I dati raccolti per diversi paesi e per diversi anni mostrano, infatti, una correlazione positiva tra PIL pro-capite e grado di protezione contro l’espropriazione. 4 Protezione dei diritti di proprietà significa un buon sistema politico, in cui le autorità non possono sottoporre a vincoli la proprietà dei cittadini. Significa un buon sistema giudiziario, in cui i procedimenti possano svolgersi in modo efficiente e rapido. Significa una buona legislazione antitrust, per evitare che i mercati concorrenziali diventino monopoli. Significa un sistema d’istruzione efficace in modo da rendere la forza lavoro più produttiva. La lista continua. Questo solleva un’ulteriore domanda: perché i paesi poveri non adottano queste istituzioni? Perché se è vero che una bassa protezione contro l’espropriazione porta a un basso PIL pro-capite, è anche vero il contrario, cioè che un basso PIL pro-capite porta a una scarsa protezione contro l’esproprio: i paesi poveri spesso non possono permettersi un buon sistema giudiziario e un’efficiente forza di polizia. Dunque, la causalità tra le variabili va in entrambi i sensi. Migliorare le istituzioni e iniziare un ciclo virtuoso di maggior PIL pro-capite (per migliorare a sua volta le istituzioni) è un obiettivo di politica economica non facile da perseguire. I Paesi asiatici di nuova industrializzazione ci sono riusciti. Gran parte dei Paesi africani invece no. BIBLIOGRAFIA Blanchard O., “Macroeconomia”, il Mulino, ultima edizione. D’Antonio M., Flora A., Scarlato M., “Economia dello sviluppo”, Zanichelli, ultima edizione. Mankiw N.G. Taylor M.P., “Macroeconomia”, Zanichelli, ultima edizione. 5