TEOLOGIA Gaudium et spes, 44; Dei Verbum, 24. Giovanni Paolo II: Discorso alla Pontificia Università Gregoriana, 15.12.1979, Insegnamenti II,2 (1979), pp. 1418-1429; Discorso ai teologi ad Altötting, 18.11.1980, Insegnamenti III,2 (1980), pp. 1332-1338; Discorso ai teologi di Salamanca, 1.11.1982, Insegnamenti V,3 (1982), pp. 1049-1055. Donum veritatis, 1-12; Fides et ratio, 64-98. I. Natura e oggetto della teologia - II. La teologia nell'orizzonte del rapporto fra fede e ragione - III. Lo statuto epistemologico della teologia: la teologia come scienza - IV. Filosofia e teologia - V. Il metodo della teologia. I. Natura e oggetto della teologia 1. Una definizione di teologia. La parola «teologia» trae origine dal greco, dove significa «discorso (lógos) su Dio (Theós)». Aristotele ed i Platonici per «teologia» intendono lo studio delle realtà immateriali, le sostanze separate, le Idee e Dio in modo particolare. Gli autori cristiani, già dal III secolo, si appropriano di questo termine e se ne servono per designare lo studio dei misteri della fede cristiana. Nel medioevo, però, il termine più usato per indicare la scienza della fede era sacra doctrina (cfr. Summa theologiae, I, q. 1). Essenzialmente la teologia è uno studio sistematico e critico della fede cristiana, attingendo a tutti i livelli del sapere umano, specialmente alla filosofia. In vario modo, è sempre questo che viene espresso dalle formule che sono state proposte per definire la teologia, a partire da quella famosa di s. Anselmo (1033-1109), fides quaerens intellectum. Per (➚) John H. Newman (1801-1890) la teologia «è semplicemente la scienza di Dio, oppure le verità che noi conosciamo su Dio, ordinate in sistema» (The Idea of University, New York 1959, p. 96). Secondo Yves Congar (1904-1994) «la teologia è lo sviluppo scientifico della fede», o anche lo sforzo «di costruire in forma di scienza il messaggio cristiano» (Théologie, in DTC, vol. XV, coll. 475 e 470). Pietro Parente dà la seguente definizione: «la teologia è la scienza che mediante il lume della ragione e della divina rivelazione tratta di Dio e delle creature in rapporto a Dio» (Dizionario di teologia dommatica, Roma 1957, p. 407). In questi ultimi anni qualche autore, vittima forse della secolarizzazione, ha creduto bene definire la teologia omettendo qualsiasi riferimento a Dio, alla sua Parola, alla sua rivelazione e alla fede, facendola consistere semplicemente nello studio del fenomeno cristiano (cfr. P. Touilleux, Introduction à la théologie critique, Paris 1967, p. 88). Questa decisione è decisamente troppo vaga. Tutt'al più può bastare come indicazione dell'oggetto materiale (vedi infra, n. 2); essa omette ciò che conta di più: la specificazione dell'oggetto formale, cioè il lume della (➚) fede, della Rivelazione, della Parola di Dio. Senza una chiara menzione di tale componente, che è quella principale, non si distingue sufficientemente la teologia soprannaturale da quella naturale, dalla storia delle religioni o dalla storia del cristianesimo. Spesso oggi si definisce la teologia come «studio della storia della salvezza alla luce della fede». Questa definizione è indubbiamente valida e, per molti versi migliore, più eloquente e più “concreta” di tante altre, perché la Rivelazione non è solo Parola ma anche e soprattutto evento; la stessa Parola (il Verbo di Dio) si fa evento, si fa storia, e fa dono della salvezza alla storia. Quella di cui si occupa la teologia è una storia della salvezza del tutto incomparabile con qualsiasi altra vicenda salvifica di cui si abbia memoria. Infatti, attore della salvezza non è un uomo o un popolo, ma Dio stesso; i salvati siamo noi, mentre il genere di salvezza di cui Dio ci fa dono è quello da lui prescelto. Ma precisamente, da che cosa e per che cosa Dio salva l'umanità? Su questo obiettivo c'è stata negli anni Ottanta del XX secolo una dura polemica con i “teologi della liberazione”, alcuni dei quali hanno ridotto la salvezza, la liberazione che Dio ha concepito e voluto per l'umanità a misure troppo anguste, troppo umane, temporali, terrene. Come già insegnava s. Paolo, la salvezza che Dio ha programmato per noi ha prospettive molto più alte e ambiziose di tutte le prospettive soteriologiche escogitate dai pensatori antichi e moderni con le loro ideologie e le loro utopie: il disegno di Dio ha di mira la liberazione dell'uomo dalla (➚) morte (sia fisica che spirituale) per la vita: «Dio dà vita ai morti e chiama all'esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4,17). Ma qualcuno si chiederà: esiste una “scienza” della fede? Non è forse la (➚) ragione soltanto passiva di fronte a Dio che le parla, e l'unica disposizione che le viene richiesta non è forse quella dell'umile accettazione del divino messaggio? Fides ex auditu dice s. Paolo. La fede ascolta, accetta e confessa. Ciò è vero, ma occorre un intellectus fidei. Ascolta infatti veramente soltanto chi comprende; il servo ascolta il padrone se capisce ciò che gli comanda di fare. Nella Rivelazione Dio non parla a se stesso, ma all'uomo, e Dio parla all'uomo proprio perché sa di poter essere capito, avendolo dotato di intelletto per fare di lui, secondo l'espressione di Karl Rahner, un «uditore della Parola». Ora Dio ha parlato, ed esiste un depositum fidei memorizzato dalla Scrittura e dalla Tradizione. Comprendere la Parola di Dio, approfondirne il significato, esporla ordinatamente così da afferrarne il significato globale: questo è il compito della teologia. 2. Oggetto materiale e formale della teologia. Ricordiamo anzitutto che l'“oggetto materiale” è ciò che è comune a varie scienze, mentre l'“oggetto formale” è quello proprio e specifico di una determinata scienza. Così, oggetto materiale dell'antropologia è l'uomo, che è oggetto di studio anche della medicina, della sociologia, della psicologia, della storia, ecc.; mentre oggetto formale dell'antropologia è l'uomo considerato nella sua natura, la sua origine, il suo valore, il suo destino ultimo. Ora, oggetto materiale della teologia è (➚) Dio, il quale è anche oggetto di studio della fenomenologia religiosa (➚ RELIGIONE), della storia delle religioni, della (➚) metafisica, cioè della teologia filosofica, oltre che della teologia dogmatica. Come osserva s. Tommaso, «nelle cose che confessiamo intorno a Dio, vi è un doppio ordine di verità. Ve ne sono alcune che superano ogni capacità della ragione umana, come la Trinità insieme all'Unità di Dio; altre poi possiamo afferrarle con la ragione naturale, come l'esistenza di Dio, la sua unità e simili verità che anche i Filosofi dimostrarono col solo lume della ragione naturale» (Contra Gentiles, I, c. 3). 2 Poco più avanti, egli ribadisce lo stesso concetto: «L'intento del sapiente deve rivolgersi ad ambedue gli ordini di verità, naturali e soprannaturali, intorno a Dio, e a distruggere gli errori contrari. Al primo ordine basta l'indagine della ragione, mentre il secondo supera ogni industria della ragione medesima» (ibidem, c. 9). Sebbene la teologia studi tutte le verità rivelate da Dio, tra le quali figurano anche verità accessibili alla ragione (come ad es. l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima), tuttavia il suo oggetto proprio e specifico, il suo oggetto formale, sono le verità “soprannaturali”. Esse appartengono ai credibilia, verità che rimangono sempre incomprensibili ed inaccessibili alla ragione. Oggetto formale della teologia sono quindi i misteri in senso stretto (➚ MISTERO, II-III). Questi sono detti anche «articoli della fede», i quali corrispondono in definitiva agli articoli del Simbolo, che svolgono nella teologia il ruolo che hanno i princìpi primi nelle altre scienze: «Questa dottrina ha come princìpi primi gli articoli della fede, i quali sono per se noti mediante il lume della fede a colui che possiede la fede, così come sono a noi noti mediante il lume dell'intelletto i princìpi naturalmente insiti nella nostra mente» (In I Sent., Prol., q. 1, a. 3, sol. 2, ad aliud). Pertanto non qualsiasi oggetto creduto può essere accolto come articolo della fede, ma soltanto quelli che devono essere assunti come punti di partenza della fede e come cardini della teologia. Essi sono directe et per se oggetto della Rivelazione, mentre altri non lo sono se non in modo indiretto e per il tramite dei primi. «Le realtà che di per sé (per se) appartengono alla fede sono quelle della cui visione godremo nella vita eterna e per mezzo delle quali siamo guidati alla vita eterna. Due cose saranno allora offerte alla nostra contemplazione: il segreto della divinità, la cui visione ci renderà beati; e il mistero dell'umanità di Cristo, che ci consente l'accesso alla gloria dei figli di Dio (cfr. Rm 5,2). Ciò, d’altronde, è conforme alle parole di s. Giovanni: “Questa infatti è la vita eterna, che conoscano te, il solo vero Dio, e colui che tu hai inviato, Gesù Cristo” (Gv 17,3)» (Summa theologiae, II-II, q. 1, a. 8). In tal senso si è anche espressa l'enciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio (1998). Al n. 92 leggiamo: «La teologia deve puntare gli occhi sulla verità ultima che le viene consegnata con la Rivelazione, senza accontentarsi di fermarsi a stadi intermedi. […] oggetto proprio della sua ricerca è la Verità, il Dio vivo e il suo disegno di salvezza rivelato in Gesù Cristo». Mentre nel numero successivo si precisa: «Lo scopo fondamentale a cui mira la teologia consiste nel presentare l'intelligenza della Rivelazione ed il contenuto della fede. Il vero centro della sua riflessione sarà, pertanto, la contemplazione del mistero stesso del Dio Uno e Trino. A questi si accede riflettendo sul mistero dell'incarnazione del Figlio di Dio: sul suo farsi uomo e sul conseguente suo andare incontro alla passione e alla morte, mistero che sfocerà nella sua gloriosa risurrezione e ascensione alla destra del Padre, da dove invierà lo Spirito di verità a costituire e ad animare la sua Chiesa». Oggetto specifico della teologia è tutto questo mistero cristiano con tutte le sue implicazioni e conseguenze a tutti i livelli: ermeneutico, storico, ontologico, umano e cosmologico; ma anche etico, mistico, operativo, individuale e sociale, attuale ed escatologico (cfr. Vagaggini, 1982, p. 1612). 3 II. La teologia nell'orizzonte del rapporto fra fede e ragione 1. Priorità della fede e necessità della ragione in teologia. Già l'espressione «teologia» attesta la natura composita di questa disciplina: essa abbraccia due elementi, uno chiaramente umano (il lógos, discorso), l'altro trascendente, soprannaturale (il theós). La sua complessità è resa ancora più manifesta nella classica definizione fides quaerens intellectum. La teologia è la fede che cerca una più adeguata comprensione di se stessa. La teologia è intelligenza della fede, perciò non è semplice fede (Parola di Dio, Vangelo, Sacra Scrittura, Storia della salvezza, ecc.), né semplice ragione (che cerca, interroga, disquisisce, spiega, ecc.); ma è incontro, simbiosi, sintesi fra fede e ragione. È Dio che si dona e si incarna nel lógos umano (➚ GESÙ CRISTO: RIVELAZIONE E INCARNAZIONE DEL LOGOS). È attuazione dell'Incarnazione nel mondo del conoscere, del sapere, del linguaggio. Per stabilire questo incontro, questa incarnazione, questo sposalizio, la fede offre alla ragione un nuovo oggetto da meditare, approfondire, contemplare, comprendere; mentre da parte sua la ragione fornisce alla fede gli strumenti per interpretare, comprendere e comunicare gli articoli della fede. La (➚) fede di cui si parla nella definizione di teologia è ovviamente la fede soprannaturale, la fede teologale e non la fede naturale. Nell'uomo esiste già una fede naturale: è la disposizione a fidarsi di altre persone, del prossimo, accettando quanto il prossimo dice, insegna, riferisce. La fede teologale si innesta in quella naturale come un dono, il quale arricchisce il credente sia soggettivamente che oggettivamente: soggettivamente in quanto potenzia la disponibilità all'ascolto e all'accettazione della Parola di Dio; oggettivamente in quanto comunica alla nuova facoltà (habitus) un nuovo ed infinitamente più ricco orizzonte di verità. Di qui la distinzione fra fides qua, che è l'habitus del credere, e fides quae, che sono le verità rivelate accolte per fede. Per la teologia il connubio fra fede e ragione non è un fatto accidentale, occasionale, provvisorio, ma fa parte della sua stessa natura: è un vincolo indissolubile. Quando viene meno il connubio fra fede e ragione viene meno anche la teologia. Infatti, se si elimina la fede, si cade in un razionalismo più o meno presuntuoso; mentre se si elimina la ragione si cade in un cieco (➚) fideismo, in cui risuona soltanto la Parola di Dio, senza nessun orecchio che realmente l'ascolti e la comprenda. Il primo è l'errore di Georg W. Hegel (1770-1831), il secondo è l'errore di Karl Barth (1886-1968). Delle due componenti della teologia, la fede e la ragione, il theós e il lógos, la prima gode di una priorità assoluta (logica, ontologica, assiologica e teleologica) rispetto alla seconda. Questo è un punto importante che le teologie del XX secolo hanno disatteso spesso e volentieri. Parlando della sacra dottrina — ancorché essa si qualifichi mediante un riferimento alla ratio — non si insisterà mai abbastanza sulla priorità assoluta della fides. In teologia, il polo in cui si ricerca una intensificazione, un'espansione, un approfondimento, ricorrendo alla ratio, è proprio la fede, la Parola di Dio, la Rivelazione. Colui che gode priorità assoluta nella scienza teologica è Dio 4 che si dà e dandosi suscita nel credente quella disponibilità ad accoglierlo che si chiama fede. Il principio genetico, la fonte originaria, la sorgente della verità, l'habitus noetico e l'orizzonte semantico in teologia è quello tracciato da Dio. La priorità della fides sulla ratio viene implicitamente riconosciuta quando per qualificare il ruolo della fides si dice che essa procura l'oggetto, i contenuti, la sostanza, l'anima il senso della scienza teologica, mentre la ratio le fornisce la forma, il corpo, la struttura, l'espressione verbale, la veste culturale. Sulla priorità della fede si registra un consenso costante tra i teologi di ogni tempo, anche se non mancano autori cristiani, soprattutto nei primi secoli e poi nel protestantesimo (➚ LUTERO), che accentuano talmente il ruolo della fede da annullare praticamente quello della ragione. Clemente Alessandrino (150-215 ca.), primo grande teologo della cristianità, afferma che per la salvezza basta la fede, ma per l'elaborazione della “gnosi” (che è la scienza della fede), occorre la filosofia, ossia la ragione. Infatti, «la gnosi è una dimostrazione scientifica delle verità trasmesse dalla “vera filosofia” [la Sacra Scrittura]. Di essa possiamo dire che è un'ascesa della ragione verso l'assenso a verità di cui si è ancora incerti, partendo da quelle riconosciute» (Stromata, II, 11, 48). Sant’Agostino dichiara di «aver sempre desiderato di vedere con l'intelletto quanto credeva» (De Trinitate, XV, 28, 51); mentre altrove precisa che «dobbiamo all'autorità quanto crediamo, mentre dobbiamo alla ragione quanto comprendiamo» (De utilitate credendi, 11, 25). Chiarendo il servizio che la ratio rende alla fides, il dottore di Ippona afferma che la teologia «genera, nutre, difende e fortifica la fede supremamente salutare, che conduce l'uomo alla vera beatitudine; questa è scienza che non possiedono i fedeli, sebbene sia assai vigorosa la loro fede. Infatti altro è sapere quello che un uomo deve credere per conseguire la vita beata, la quale non può essere se non eterna, altro è saperlo in tal modo da metterlo a profitto dei buoni e da difenderlo contro i cattivi» (De Trinitate, XV, 1, 1). S. Tommaso d'Aquino, al quale l'enciclica Fides et ratio riconosce «il grande merito di porre in primo piano l'armonia che intercorre fra la ragione e la fede» (n. 43), è tuttavia molto esplicito circa il primato assoluto che spetta alla fede, alla Parola di Dio, alla Rivelazione, sia per quanto concerne la salvezza, in quanto solo la fede salva, sia per quanto concerne la sacra doctrina, di cui la ragione, più precisamente la filosofia, è una semplice ancella, anche se la più importante e la più servizievole. Ecco un testo esplicito a questo riguardo: «La scienza sacra può sì ricevere qualche cosa dalle discipline filosofiche, non già perché ne abbia necessità, ma per meglio chiarire i suoi insegnamenti. I suoi princìpi infatti non li prende da essa, ma immediatamente da Dio per rivelazione» (Summa theologiae, I, q. 1, a. 5, ad 2um). La priorità della fides sulla ratio è affermata in modo egregio da s. Bonaventura nel Breviloquium, là dove dice che la teologia si propone di «evidenziare che la verità della Sacra Scrittura è da Dio, di Dio, secondo Dio e per Dio: per questo motivo essa merita il nome di teologia» (Prologo, 6, 5). 2. Fecondazione reciproca fra fede e ragione in teologia. La definizione fides quaerens intellectum fissa già in modo chiaro ed inequivocabile la singolarità del sapere teologico, che è necessariamente di natura diversa rispetto ad ogni altro sapere, in quanto in esso si intrecciano e si uniscono intimamente, e reciprocamente si 5 fecondano, due distinte sorgenti di conoscenza, la sorgente soprannaturale della fede e la sorgente naturale della ragione, ciascuna con i propri oggetti (il lumen sacrae scripturae ed il lumen cognitionis philosophicae, come li chiama Bonaventura). Per intendere bene che cos'è e come opera il sapere teologico occorre tener presente la sua natura composita, cioè la duplicità delle sue fonti conoscitive e dei suoi princìpi, e allo stesso tempo, la priorità assoluta del principio soprannaturale rispetto a quello naturale e, conseguentemente, la costante ed essenziale subordinazione di quello naturale a quello soprannaturale; anche se questo non significa affatto che il ruolo della ragione sia accidentale o provvisorio: si tratta di un ruolo subalterno ma del tutto irrinunciabile per chi vuole realizzare il sapere teologico. La teologia è essenzialmente intensificazione di quell'incontro della Parola di Dio con la ragione umana, che è già in atto dal primo istante in cui Dio si rivolge all'uomo con la sua Parola. Questa non si agita nel vuoto — non è una voce che grida nel deserto come quella di Giovanni il Battista — ma agisce in profondità nella mente e nel cuore di coloro che l'ascoltano e la ricevono. Perciò sono già “teologi” Abramo, Mosè, Geremia, Isaia, Daniele, la Vergine Maria, gli Apostoli. Colui che riceve il dono della fede, da quel preciso momento si trova nella condizione di sviluppare una comprensione del tutto nuova, più ricca, più profonda della verità, dell'“intero della verità”. L'“intero” di colui che crede abbraccia non solamente ciò che egli può acquisire con il lavoro autonomo della ragione insieme a ciò che gli viene proposto dalla fede — come se si trattasse di due fonti noetiche distinte — ma anche ciò che egli riesce a sviluppare e a maturare attraverso la reciproca fecondazione delle due sorgenti. È a questo punto che entra in gioco la teologia. Il suo obiettivo è distinto sia da quello della fede come da quelli delle varie forme del semplice sapere umano: è un quid novum, analogo alla novità dell'Incarnazione, dopo che la persona divina del Verbo ha assunto la natura umana. Né la semplice fede, né la semplice ragione è teologia: quest'ultima è un sapere superiore generato dalla reciproca fecondazione della fede e della ragione. Cerchiamo ora di intendere meglio come abbia luogo questa reciproca fecondazione. La condizione iniziale — astrattamente parlando — è quella di una persona che possiede la fede, ma che ancora non quaerit (non cerca): pur possedendo allo stesso tempo un altro lumen, cioè un'altra fonte di conoscenza, la ragione, con tutto il suo bagaglio di cognizioni, non l'ha messo ancora in opera per procedere così ad una migliore comprensione della Parola di Dio. Con la fede il credente è già ripieno dl mistero di Dio e ad esso aderisce con gioia ed esultanza; su di esso fissa il suo sguardo estasiato ed in esso si immerge. Procedendo per questa via dell'intuizione e dell'amore, la fede realizza un'ermeneutica di tipo mistico, non speculativo, non concettuale; resta praticamente chiusa nel suo circolo. Non “cerca” i sussidi della ragione, né si propone finalità sistematiche e tanto meno critiche. Il lavoro del teologo ha inizio quando la fede esce dal proprio guscio ed intenzionalmente si rivolge alla ragione, al lumen naturale, per realizzare anzitutto una intensificazione della propria conoscenza di Dio e delle cose in quanto ordinate a Dio, 6 e successivamente una presentazione sistematica di tale conoscenza. A questo punto il teologo mette in moto due procedimenti ermeneutici, uno “ascendente” e l'altro “discendente”. In quello ascendente si avvale di tutte le risorse conoscitive della ragione per conseguire una migliore comprensione della fede ed inoltre fa ampio uso del sapere umano per dare espressione alla fede stessa. In quello discendente proietta su tutto l'orizzonte della cultura umana la luce attinta dalla fede, lo risana, lo purifica, lo potenzia, l'arricchisce, lo intensifica sotto il profilo della verità e del significato: «il libro della Scrittura è riparativo di tutto il mondo per far conoscere, lodare e amare Dio» (s. Bonaventura, In Hexaemeron, III, 12). È abbastanza ovvio che sia nel momento ascendente come in quello discendente, il lavoro del teologo suppone la massima intensificazione e sistematizzazione del sapere razionale in quanto tale. Infatti, quanto più solido ed esteso è l'orizzonte grammaticale e semantico del sapere umano, tanto più corretta, giusta ed adeguata sarà la forma, l'espressione che si consegnerà alla Parola di Dio e, allo stesso tempo, tanto più vasta e profonda la fecondazione dell'ordine naturale che riuscirà a trarre da quella stessa Parola. In conclusione, le due ermeneutiche della fede e della ragione, che possono essere promosse e coltivate anche separatamente, nella teologia si sposano per dar luogo ad un'(➚) ermeneutica superiore, che si avvale delle risorse di entrambe, dando la precedenza all'ermeneutica della fede nell'ordine semantico (della verità) e all'ermeneutica della ragione nell'ordine grammaticale (della espressione linguistica, cioè della forma). III. Lo statuto epistemologico della teologia: la teologia come scienza Gli scrittori cristiani hanno fatto teologia fin dall'epoca dei (➚) Padri della Chiesa, prima ad Alessandria, poi a Cartagine, quindi ad Antiochia, Gerusalemme, Roma, Costantinopoli, Milano. Essi sono riusciti a fare teologia in modo rigoroso, “scientifico” e talora anche in modo sistematico. Si pensi al De Principiis di Origene e al De Trinitate e al De civitate Dei di (➚) s. Agostino. Essi sapevano che la teologia era una scienza e si servivano della logica e della filosofia per dare una struttura scientifica alla loro spiegazione dei misteri cristiani; però nessuno di essi si era mai preoccupato di “dimostrare” che la teologia meritasse effettivamente il titolo di scienza. Il merito di avere elevato la teologia al grado di scienza, capace di trattare i misteri della fede in modo rigoroso e sistematico, spetta a (➚) s. Tommaso d'Aquino. Questi entra in scena nella seconda metà del XIII secolo, nell'epoca d'oro della Scolastica, quando la teologia medioevale aveva già compiuto passi da gigante con s. Anselmo di Aosta, s. Bernardo di Chiaravalle, Riccardo e Ugo di s. Vittore, Pietro Lombardo, Alano di Lilla, Alessandro di Hales e (➚) s. Alberto Magno. La questione della scientificità della teologia era già dibattuta sin dai tempi di Abelardo (1079-1142). Molte Summae iniziavano con la questione: Utrum theologia 7 sit scientia (se la teologia sia una scienza). La risposta più comune era che la teologia, più che una scienza, è un'arte, e come scienza poteva entrare nel genere delle scienze pratiche, come la morale e la politica. Ai tempi di Tommaso era ancora di moda un'epistemologia teologica che potremmo dire di stampo “monofisitico” (una sola natura), che non soltanto sottolineava l'alterità della teologia rispetto a qualsiasi altra scienza, ma riduceva la presenza della ragione nella riflessione ad un ruolo meramente passivo. L'unico lumen che doveva alimentare il lavoro del teologo doveva essere il lumen fidei, e l'attività del teologo essenzialmente contemplativa. Si ebbe così la fioritura della teologia “monastica”, che caratterizza il XII secolo e gli inizi del XIII. S. Tommaso ha una concezione antropologica e metafisica profondamente diversa da quelle degli altri magistri suoi contemporanei. Egli considera l’uomo nella ricchezza della sua struttura psicofisica, nella nobiltà della sua persona, nell’autonomia della sua attività (libertà) e interpreta i suoi rapporti con Dio e con la divina grazia alla luce del principio che egli non si stanca mai di ripetere: gratia non destruit sed perficit naturam (la grazia non distrugge, ma perfeziona la natura). In questa prospettiva, altamente umanistica, l’Angelico definisce lo statuto epistemologico della teologia, che diventa necessariamente un habitus acquisitus, poiché si tratta di sapientia umana, ancorché la più eccellente di tutte. Però si tratta di un habitus nuovo, non previsto dalla classificazione aristotelica degli habitus (virtù) dianoetici, che includeva soltanto la fisica, la matematica e la metafisica. S. Tommaso fa vedere che come habitus intellettuale la teologia ha elementi in comune sia con la scienza sia con la sapienza. Con la scienza in quanto è discorsiva (argumentativa); con la sapienza perché ha come oggetto la causa ultima, Dio. In quanto scienza discorsiva essa ha il carattere di “scienza subalterna” perché è da Dio, mediante la fede, che essa riceve i suoi princìpi primi, gli articoli della fede, i misteri. Gli storici hanno giustamente osservato che ciò su cui fa perno l’epistemologia teologica di s. Tommaso è il concetto di «subalternazione». La teoria che ci sono scienze subalternanti e subalterne risale ad Aristotele (Secondi Analitici, I, 2) ma s. Tommaso è il primo ad applicarla alla teologia. Con questa teoria che la teologia è scienza subalterna alla «scienza divina e dei beati» (Summa theologiae, I, q. 1, a. 2), l’Aquinate riesce a salvaguardare ad un tempo il primato assoluto e costante della fede e l’appartenenza effettiva, intrinseca, non accidentale, di tale scienza alla ragione. La ragione non è un semplice contenitore che riceve il vino della Parola di Dio, ma è un “alambicco” che lentamente riesce a trasformare il vino in un gustoso liquore. Secondo il Dottore Angelico, nel lavoro teologico non c’è nessuna strumentalizzazione della ragione da parte della fede bensì una partecipazione della ragione alla scienza divina con l’aiuto della fede. La fede viene data alla ragione perché questa possa conoscere ciò che altrimenti non potrebbe conoscere. Infatti il soggetto che pensa la verità rivelata è il soggetto umano il quale ha come propria capacità di pensare l’intelletto, il quale si chiama ratio, quando pensa discorrendo, argomentando, ragionando. Senonché l’intelligenza umana non possiede un potere adeguato per cogliere le verità soprannaturali. Con l’aiuto della fede, lungi dall’essere squalificata per quanto attiene il suo esercizio, la ragione viene messa in condizione di penetrare nel mondo dell’ineffabile delle verità divine; ma lo fa discurrendo non 8 intuendo, argomentando non contemplando. La contemplazione non appartiene a questa vita bensì alla vita eterna, quando faremo ritorno in patria. Il gradino più vicino alla contemplazione nella vita presente è la teologia speculativa. Come scienza subalterna che affonda le sue radici nella sapienza divina, la teologia opera sulle verità che le vengono proposte ed esposte dalla luce della fede, in modo da ricavarne tutta la pregnanza, tutta la ricchezza, tutta la bellezza. Per fare questo essa mette a buon frutto tutto l’argomento conoscitivo di cui dispone, utilizzando la tecnica dell’argomentazione. Questa, quando assume la forma sillogistica, è composta di due premesse e di una conclusione (➚ LOGICA, II.2). Nell’argomentazione teologica la premessa maggiore è un asserto di fede (un articolo di fede, una verità rivelata), la premessa minore una verità di ragione. La seconda premessa è quindi un momento in cui la ragione fa omaggio delle proprie conoscenze alla fede, per comprendere meglio la verità rivelata. Lo statuto epistemologico che s. Tommaso conferisce alla teologia non danneggia la fede né sminuisce il carattere sapienziale di questa singolarissima scienza, ma è il modo migliore di esplicitare la ricchezza teologica della fede e di avvicinarla alla sapienza. La teologia è essenzialmente scienza superiore, massima tra le scienze umane (maxime sapientia inter omnes sapientias humanas), ma lo diviene nella misura in cui essa fa meglio comprendere la fede, raggiungendo nuove conclusioni nell’ordine di quelle verità che in statu viae (nella vita presente) rimangono oscure e inesauribili. Lo schema tomistico della struttura della scienza teologica è il quadro proposto per analizzare lo sviluppo della fede in intellectus fidei: questo ampliamento speculativo, apparentemente divergente rispetto alla semplicità contemplativa del puro credente è, in realtà, se ben condotto, una rimonta della fede verso la scienza di Dio e la prima tappa sulla via della visione beatifica (cfr. Chenu, 1958, pp. 31-41). A noi moderni l’assegnazione del titolo di “scienza” ad una ricerca che si occupa dei misteri divini — ossia di ciò che supera infinitamente tutto ciò che l’intelligenza umana è in grado di pensare e capire — sembra un controsenso. Non è forse vero che i misteri di Dio sono ineffabili? La costruzione di una scienza dei divini misteri sembra che debba inevitabilmente cozzare contro uno dei due scogli, il razionalismo oppure il nominalismo. Il razionalismo stritola i misteri col torchio della ragione, «ultra modum suae capacitatis ad divinorum perscrutationem se ingerendo» (Commento di s. Tommaso al De Trinitate di Boezio, Proemium). Il nominalismo non scalfisce in alcun modo il mistero, ma si accontenta di segnalarlo con parole prive di senso. La scienza teologica costruita da s. Tommaso sfugge a tutti e due gli scogli: non è né razionalistica, né nominalistica. Egli evita l’arroganza che porta a scrutare i misteri come se fossero perfettamente conoscibili, ma allo stesso tempo è fiducioso di coglierne parzialmente il senso. Il (➚) mistero è l’oggetto di cui si occupa la teologia; il lógos umano è il suo strumento. Il mistero è il contenuto; la logica il recipiente. Ma mentre in tutte le altre forme di sapere è il recipiente stesso che provvede a procurarsi il contenuto, nella 9 teologia il contenuto viene introdotto dall’esterno: viene infatti donato dalla divina rivelazione. E c’è una grande sproporzione tra il contenuto (il mistero) e il recipiente (il lógos umano). È la stessa sproporzione che si incontra nell’Incarnazione tra la divinità del Cristo e l’umanità, per cui c’è un abbassamento (kénosis) della divinità (che rinuncia alla forma della sua natura divina, come dice s. Paolo, cfr. Fil 2,6-7) nel momento in cui viene ricevuta dalla natura umana. Ma allo stesso tempo, nell’Incarnazione, c’è anche uno straordinario arricchimento delle potenzialità della natura umana di Cristo. Altrettanto avviene nella teologia: la verità del mistero si spoglia del suo fulgore divino, mentre gli occhi dell’intelligenza illuminati dalla fede sono messi in condizione di intravedere i bagliori della verità dei misteri contemplati. Nella teologia, così come è concepita ed elaborata da Tommaso d'Aquino, non c’è né razionalismo né nominalismo, ma un modesto e tuttavia gustosissimo assaggio dell’infinita ricchezza dei divini misteri. Infatti, «anche la più imperfetta conoscenza delle cose più nobili conferisce una somma perfezione all'anima. E quindi, sebbene la ragione umana non possa pienamente comprendere le verità che sono sopra di lei, tuttavia acquista grande perfezione» (Contra Gentiles, I, c. 5). Il problema dello statuto epistemologico della teologia è tornato di attualità nel secolo XX ed è stato affrontato da molti autori, in particolare da M.D. Chenu, Y. Congar, E. Schillebeeckx, W. Pannenberg e (➚) Bernard Lonergan. Occorre tener presente che la geniale soluzione di s. Tommaso si basava sul concetto aristotelico di scienza. Ora, nell'epoca moderna, il concetto di scienza è notevolmente cambiato. A partire da Francesco Bacone (1561-1626), scientifico è ciò che è verificabile empiricamente, ciò che trova conferma negli esperimenti (➚ ESPERIENZA, IV). La scienza moderna non procede più deduttivamente, come insegnava Aristotele, ma induttivamente. Non parte da princìpi, ma piuttosto stabilisce dei princìpi. Ora è evidente che questo nuovo concetto di scienza non è applicabile alla teologia e così, in molti ambienti è stato contestato il carattere scientifico della teologia (➚ POSITIVISMO). Senonché, la recente “rivoluzione epistemologica” ha messo in discussione il concetto baconiano di scienza ed il valore del procedimento induttivo. Filosofi contemporanei come (➚) Popper, Kuhn o Lakatos, negano che le scoperte scientifiche siano il risultato di determinati procedimenti metodologici (➚ EPISTEMOLOGIA, II). Attualmente si ammette che il concetto di “scienza” sia un concetto analogico e non univoco, e che pertanto il modo di fare scienza non è lo stesso nella matematica, nella fisica, nell’astronomia, nella chimica, nella biologia, nella storia, nella sociologia. Gli elementi essenziali per avere scienza sono due, rigore ed obiettività: rigore dei procedimenti ed obiettività degli asserti. Ora, anche in teologia si trovano questi due elementi, e pertanto essa merita il titolo di scienza. La teologia procede rigorosamente nella raccolta dei suoi dati, nelle sue argomentazioni, nell'organizzazione delle verità rivelate. Quanto all'obiettività, la teologia ha il diritto di rivendicarla, ma non la può convalidare né mediante verifiche sperimentali, né mediante dimostrazioni rigorose, ma soltanto appellandosi alla divina rivelazione. È quindi una scienza del tutto particolare: nasce dalla fede e si occupa della fede: è una 10 scienza della fede. Perciò è scienza in senso analogico, ed è questo precisamente quanto già insegnava s. Tommaso con la sua teoria della subalternazione. IV. Filosofia e teologia 1. La necessità di un logos su Dio. L'enciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio dedica un lungo capitolo alla questione dei rapporti fra filosofia e teologia (cfr. nn. 6479). Vi si dichiara che vi sono «alcuni compiti propri della teologia nei quali il ricorso al pensiero filosofico si impone in forza della natura stessa della teologia» (n. 64). Essa deve ricorrere alla filosofia sia nel momento dell'auditus fidei, sia in quello dell'intellectus fidei: «Con il primo, essa entra in possesso dei contenuti della Rivelazione così come sono stati esplicitati progressivamente nella Sacra Tradizione, nella Sacra Scrittura e nel Magistero vivo della Chiesa. Con il secondo, la teologia vuole rispondere alle esigenze proprie del pensiero mediante la riflessione speculativa» (n. 65). Nell'auditus fidei la teologia applica il suo procedimento ascendente (vedi supra, II.2), nell'intellectus fidei realizza il procedimento discendente. In entrambi il ricorso alla filosofia risulta indispensabile. Nel primo — l'auditus fidei — l'apporto della filosofia è importante soprattutto «per una più coerente comprensione della Tradizione ecclesiale, dei pronunciamenti del Magistero e delle sentenze dei grandi maestri della teologia» (ibidem). Nel secondo — l'intellectus fidei — il ricorso alla filosofia è necessario specialmente «nel far emergere il significato di salvezza che tali proposizioni contengono per il singolo e per l'umanità» (n. 66). Ma precisamente, di quale filosofia ha bisogno la teologia? Noi sappiamo non solo che esistono molte filosofie ma anche molti generi di logoi (discorsi possibili): oltre quello del linguaggio ordinario, vi sono i logoi specializzati delle varie scienze. Come già mostrava sant'Agostino nel De doctrina christiana, tutti questi logoi possono essere utilissimi al teologo. Tuttavia, tra i logoi umani esiste un logos privilegiato assolutamente indispensabile quando si fa teologia: è il logos della filosofia. Infatti solo la filosofia, occupandosi dell'Intero senza restrizioni, cosa che non fa mai la scienza (➚ UNIVERSO), è in grado di attingere quell'orizzonte concettuale che supera tutti i confini spazio-temporali e giungere fino all'Infinito; solo questo vastissimo orizzonte si attaglia alle esigenze dell'Intero originario che viene dischiuso dalla Parola di Dio. Certo il teologo deve vigilare che sia rispettata quella infinita differenza qualitativa che separa i due orizzonti e i due logoi, riconoscendo tuttavia che c’è tra di loro quel minimo di (➚) analogia che giustifica l’applicazione dell’intero della ragione all’Intero della fede. Questa tesi che è stata sostenuta ininterrottamente dai teologi cattolici di tutti i tempi, già a partire da Clemente Alessandrino e da Origene, trovò espressione nella celebre formula philosophia ancilla theologiae. La tesi è stata ribadita anche dal Magistero ecclesiastico: da Leone XIII (Aeterni Patris, 1879), da Pio XII (Humani generis, 1950) e da Giovanni Paolo II, in modo particolare. Quest’ultimo Pontefice, in occasione della sua visita alla Pontificia Università Gregoriana (15.12.1979), rivolgendosi ai professori e agli studenti disse tra l’altro: «La 11 teologia nella sua storia millenaria ha sempre cercato “alleati” che l’aiutassero a penetrare tutte le ricchezze del piano divino così come esso si disvela nella storia dell’uomo e si riflette nella magnificenza del cosmo. Questi alleati sono stati ravvisati via via nelle scienze e nelle discipline che andavano emergendo sotto la spinta del desiderio di una conoscenza più profonda del mistero dell’uomo, della sua storia, del suo ambiente di vita. Ma l’alleata principale, la scienza che presta maggior aiuto alla teologia resta sempre la filosofia. In effetti la conquista della verità naturale, che ha la suprema sorgente in Dio creatore, come la verità divina l’ha in Dio rivelatore, ha reso la filosofia sommamente idonea ad essere ancilla fidei senza svilire se stessa e senza restringere i suoi campi di indagine, ma al contrario, acquistando sviluppi impensabili della ragione umana». 2. Il ruolo insostituibile della metafisica. La filosofia tocca il culmine della sua esplorazione dell’Intero nella (➚) metafisica, la quale è per definizione studio dell’Intero e non di qualche settore particolare della realtà. Secondo la classica definizione di Aristotele, la metafisica è «studio dell’ente in quanto ente». Nella sua ascesa verso il Principio, sorgente di ogni realtà e di ogni ente, l’indagine metafisica mette sempre a punto una “grammatica del trascendente”, che è esattamente il lógos di cui ha bisogno la teologia. Questa si rivolge alla metafisica (come del resto anche alle scienze umane) non tanto per attingere dai suoi otri nuove verità su cui la Rivelazione non si sarebbe espressa — potrebbe anche farlo, ma si tratta di verità secondarie per quanto concerne la storia della salvezza — ma soltanto per impadronirsi di quegli otri e per usarli al fine di rendere maggiormente “commerciabile” la Parola di Dio. Sulla metafisica quale strumento insostituibile per fare della buona teologia insiste giustamente la Fides et ratio. Da una parte l’enciclica raccomanda ai filosofi di avere il coraggio di fare metafisica per uscire da quella crisi del senso e della verità in cui è piombata la post-modernità; dall’altra richiama il teologo all’uso della metafisica per scavare in profondità nei misteri della fede. «La fede, infatti, presuppone con chiarezza che il linguaggio umano sia capace di esprimere in modo universale — anche se in termini analogici, ma non per questo meno significativi — la realtà divina e trascendente. Se non fosse così, la parola di Dio che è sempre parola divina in linguaggio umano, non sarebbe capace di esprimere nulla su Dio» (n. 84). D’altronde, «la parola di Dio fa continui riferimenti a ciò che oltrepassa l’esperienza e persino il pensiero dell’uomo; ma questo “mistero” non potrebbe essere rivelato, né la teologia potrebbe renderlo in qualche maniera intellegibile, se la conoscenza umana fosse rigorosamente limitata al mondo dell’esperienza sensibile. La metafisica pertanto si pone come mediazione privilegiata nella ricerca teologica. Una teologia priva dell’orizzonte metafisico non riuscirebbe ad approdare oltre l’analisi dell’esperienza religiosa e non permetterebbe all’intellectus fidei di esprimere con coerenza il valore universale e trascendente della verità rivelata» (n. 83). Pertanto la teologia esige «una filosofia di portata autenticamente metafisica, capace cioè di trascendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante. È un’esigenza questa, implicita sia nella conoscenza a carattere sapienziale che in quella a carattere analitico; in particolare, è un’esigenza propria della conoscenza del bene morale, il cui fondamento ultimo è il Bene sommo, Dio stesso» (n. 83). 12 3. La filosofia di cui ha bisogno la teologia. Pertanto la teologia ha anzitutto bisogno di una filosofia che sia aperta e non chiusa alla Trascendenza. Se una filosofia è chiusa alla Trascendenza, non dispone, né può disporre di una grammatica concettuale atta ad esprimere i grandi misteri del cristianesimo (Trinità di Dio, Incarnazione, Risurrezione, Chiesa, Sacramenti, ecc.) che sono tutti misteri che si riferiscono al mondo della Trascendenza, alla sfera del meta-fisico, del sovra-sensibile, del sopra-naturale. Sono filosofie chiuse alla Trascendenza il nichilismo, il nominalismo, l’(➚) agnosticismo, il (➚) materialismo, il (➚) positivismo, lo storicismo, il marxismo, il (➚) pragmatismo, il “pensiero debole”. Si tratta precisamente delle “false filosofie” denunciate dalla Fides et ratio come incompatibili con la teologia (cfr. nn. 86-90). Sono invece aperte alla Trascendenza non solo il platonismo e l'aristotelismo — sia nelle versioni originarie, sia nelle versioni derivate di Agostino, Tommaso, Duns Scoto, (➚) Cusano, (➚) Descartes, Malebranche, Vico, (➚) Leibniz, (➚) Rosmini, ecc. — ma anche alcune filosofie contemporanee come l'esistenzialismo di Jaspers e Marcel, il personalismo di Mounier, Lavelle, Buber, Levinas, e anche a nostro avviso la filosofia della speranza di Bloch. Queste filosofie — in linea di principio aperte alla Trascendenza, anche se di fatto non sempre la teorizzano — sono in grado di dialogare con la teologia. La filosofia di cui la teologia ha bisogno — è questo il secondo requisito — non deve soltanto contenere un'apertura verso la Trascendenza, ma deve anche sviluppare una riflessione positiva sulla Trascendenza, deve cioè contenere una “metafisica”, come ribadisce con insistenza la Fides et ratio. Abbiamo già osservato che i misteri di cui si occupa la teologia sono misteri “soprannaturali”, appartengono cioè alla sfera della Trascendenza. È quindi il linguaggio della trascendenza quello di cui necessita la teologia. Ma questo è precisamente il linguaggio che mette a punto la metafisica e soltanto la metafisica; ed è anche ciò che la metafisica ha sempre fatto da quando Platone ha compiuto la sua “seconda navigazione”, e da quando Aristotele con la sua prote philosophia ha scoperto e organizzato questa importantissima disciplina teoretica. Infatti, solo le categorie della metafisica sono categorie aperte, sono concetti veramente universali, in grado di esprimere con sufficiente chiarezza e precisione (senza mai cadere né nell’equivocità, né nell’apofatismo) le grandi verità della Rivelazione. Le due massime metafisiche che la mente umana abbia mai saputo costruire rimangono ancor oggi e resteranno per sempre le metafisiche di Platone e di Aristotele. A ragion veduta il cristianesimo si è sempre rivolto alla loro metafisica per dare veste scientifica alla Parola di Dio, pur apportando le necessarie correzioni ed integrazioni (con Agostino, rispetto a Platone, con Tommaso, rispetto ad Aristotele). In terzo luogo la filosofia di cui ha bisogno la teologia non è una metafisica che pone a fondamento della realtà un principio impersonale (l’Uno, la Sostanza, l’Essere, il Bene, ecc.), ma un principio personale. Infatti le realtà di cui si occupa la teologia sono anzitutto e soprattutto realtà personali: tali sono sia gli “abitanti del cielo” (la SS.ma Trinità, la Vergine Maria, gli Angeli, i Santi), sia gli abitanti di questa terra pellegrini verso la patria beata. 13 Nel secolo XX sono state elaborate anche varie filosofie di stampo personalistico, ma quasi tutte dettate dal pregiudizio di un insanabile conflitto tra metafisica e personalismo. Si tratta però di un nefasto pregiudizio che rende precario il personalismo e impoverisce assai la metafisica. Purtroppo hanno un’impostazione impersonalistica, le grandissime metafisiche di Platone (che è una metafisica dell’Uno e del Bene) e di Aristotele (che è una metafisica della Sostanza Prima e del Motore immobile). Perciò questi due prototipi di tutte le metafisiche hanno bisogno di una profonda revisione in senso personalistico. Non si tratta di un’operazione impossibile. È il punto di partenza di queste metafisiche che va modificato. La “seconda navigazione” non deve prendere il via dal mondo impersonale delle cose materiali e del divenire cosmico, bensì dal mondo delle persone umane, per traghettarlo verso il mondo delle Persone divine. La filosofia di cui necessita la teologia deve possedere ancora un’altra nota importantissima, la nota “agapica”, cioè la nota dell'amore, e questo perché l'amore è il principio universale, il vero principio primo, da cui procede ogni cosa. Ovviamente, nel cristianesimo, l'amore è una proprietà personale, una proprietà delle persone. Ma in Dio l'amore è molto di più che una proprietà; in Lui l'amore è il suo stesso essere. Più che sostanza, più che pensiero, più che persona, Dio è amore: Deus caritas est (1Gv 4,8.16), ed è un amore così intensamente personale che si ipostatizza in tre Persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: i tre infiniti, eterni e felicissimi Amanti. Tutta la teologia va ricostruita in chiave agapica, ma altrettanto si deve fare anche per la metafisica, perché soltanto una filosofia agapica è degna ancella di una teologia agapica. V. Il metodo della teologia Essendo una scienza, e perciò uno studio rigoroso, approfondito, critico e sistematico, anche la teologia ha bisogno, come ogni scienza, di un proprio metodo. Storicamente, il primo metodo scientifico fu elaborato da Aristotele nella sua logica (gli scritti dell'Organon). Si tratta essenzialmente di un metodo deduttivo: esso procede da verità universali e arriva a conclusioni (verità) particolari. Agli inizi dell'epoca moderna, Francesco Bacone nel suo Novum organon escogitò un nuovo metodo, quello induttivo, che da fenomeni particolari risale alla legge universale. I teologi hanno generalmente praticato, fino all'epoca del Concilio Vaticano II (1962-1965), il metodo deduttivo, che per la loro disciplina sembra non soltanto perfettamente legittimo, ma anche l'unico praticabile; infatti la teologia non stabilisce i propri princìpi (gli articoli della fede, i misteri), ma li riceve direttamente dalla Parola di Dio, ed il suo compito, come sappiamo, è semplicemente di approfondirne il significato e respingere le difficoltà e le obiezioni che si possono sollevare contro di essi. Alcuni teologi recenti hanno messo in discussione il metodo della teologia: criticato e respinto il metodo dall'alto (quello deduttivo), hanno adottato quello dal basso (induttivo), non accorgendosi che in questo modo correvano il rischio di cui 14 erano rimaste vittima anche la maggior parte dei filosofi moderni, quello di credere nel valore assoluto del metodo induttivo e nel concetto univoco di scienza. Epistemologi contemporanei come Popper, Gadamer, Bachelard, Agazzi e altri, hanno contestato ambedue le pretese; hanno dimostrato che il metodo induttivo non ha affatto un valore assoluto e tutto sommato non funziona neppure per le scienze sperimentali, che non hanno alla loro base la constatazione di fatti, di fenomeni, e come procedimento l'induzione, ma muovono da problemi e procedono con ipotesi che sono sempre accolte provvisoriamente, con la clausola della falsificabilità. Quanto poi al concetto di scienza, esso non ha un carattere univoco, bensì analogo: perché si realizzi basta un certo grado di rigore ed oggettività, ma il rigore e l'oggettività possono variare enormemente da scienza a scienza. Quanto alla teologia, essendo un'ermeneutica razionale della Parola di Dio, essa esige un metodo molto complesso, che non può esaurirsi semplicemente né nell'induzione, né nella deduzione. Nel suo monumentale studio sul metodo teologico, Bernard Lonergan (Method in Theology, London 1972) distingue otto momenti o specializzazioni funzionali (➚ LONERGAN, IV): la “ricerca”, che è la raccolta dei dati ritenuti pertinenti alla storia della salvezza; l'“interpretazione”, che ne precisa il significato; la “storia”, che reperisce i significati incarnati in azioni e movimenti; la “dialettica”, che indaga le conclusioni conflittuali degli storici e degli interpreti; la “fondazione”, che dà valore oggettivo all'orizzonte raggiunto mediante la conversione; la “dottrina”, che si serve della fondazione come guida per scegliere tra le alternative presentate dalla dialettica; la “sistematica”, che cerca un chiarimento definitivo del significato delle dottrine; la “comunicazione”, che cura la trasmissione intelligibile degli asserti teologici. A nostro avviso, il metodo della teologia è alquanto più semplice di quello elaborato da Lonergan, e consta sostanzialmente di quattro fasi: a) fenomenologica, che è un'analisi accurata dell'uomo come essere singolo ed essere socievole in tutte le sue attività principali (conoscenza, volontà, libertà, linguaggio, cultura, lavoro) e nelle istanze che più contano; b) metafisica, che è uno studio approfondito della natura umana, della persona, della dimensione spirituale dell'uomo, della sua apertura verso l'infinito e verso il trascendente, della sua esigenza di perennità; c) ermeneutica, che è comprensione e proposta della Parola di Dio come parola di salvezza per l'umanità, in tutti i suoi bisogni fondamentali, sia del corpo che dello spirito, sia per le persone singole che per i gruppi sociali; d) dialogica, che cerca di raccordare la Parola di salvezza con le istanze storiche, concrete, particolari dell'epoca storica in cui il teologo svolge il proprio lavoro. Quest'ultima è la fase in cui può trovare una buona applicazione il metodo “correlativo” di Paul Tillich (1886-1965), il metodo cioè della domanda della ragione e della risposta della fede, oppure il metodo della “relazione polare” tra fede e ragione di Romano Guardini (1885-1968). L'importanza del momento dialogico nel metodo teologico è stata ribadita più volte da Giovanni Paolo II. La si trova già espressa nell'enciclica Redemptor hominis (1979), ma è stata poi riaffermata in varie circostanze, in particolare nel discorso ai 15 teologi di Salamanca (1.11.1982), in cui si dice tra l'altro che la teologia va elaborata «come risposta di pienezza gratuita alle questioni fondamentali della vita umana». Nelle nostre quattro fasi del metodo teologico traspare chiaramente la saldatura che unisce la riflessione teologica a quella filosofica. Il discorso teologico non si esaurisce in una semplice trasposizione delle categorie e del linguaggio filosofico al messaggio cristiano; l'operazione del teologo è molto più vasta e complessa e, nella sua parte iniziale (quella fenomenologica e trascendentale o metafisica), esige un grosso impegno filosofico: esso consiste nel sollevare le questioni fondamentali e nel prospettare delle risposte valide, che però si enunciano come risposte opinabili e non assolutamente sicure, e se pretendono possedere un carattere di assoluta certezza ed esaustività, la ragione si rende colpevole di superbia (hybris). Nelle fasi ermeneutica e dialogica, il teologo presenta la risposta che Dio offre alla ragione per le questioni fondamentali della vita umana, una risposta gratuita che per un verso smaschera le sue inattuabili pretese e, dall'altro, colma le sue più elevate aspirazioni. Come abbiamo visto in precedenza (vedi supra, IV.1), e come insegna anche la Fides et ratio (cfr. nn. 64-65), nella fase ermeneutica si distinguono due momenti: quello dell'auditus fidei e quello dell'intellectus fidei. Il primo si occupa dell'ermeneutica delle fonti: la (➚) Sacra Scrittura, la Tradizione, le definizioni conciliari. Il secondo si occupa dell'ermeneutica delle istanze dell'umanità; è l'ermeneutica dei “segni dei tempi”, su cui il teologo cerca di irradiare la luce della Parola di Dio, della Rivelazione. Ovviamente, ciascuna delle quattro tappe fondamentali del metodo teologico richiede molto tempo e grande impegno e, probabilmente, nessun teologo è in grado di percorrerle interamente da solo. Per questo si dice che il tempo delle Summae è ormai superato. Al loro posto oggi si compilano dizionari ed enciclopedie, generalmente con la collaborazione di molti autori. Ciò significa che anche la teologia è diventata oggi un lavoro svolto in équipe. Battista Mondin Vedi: EPISTEMOLOGIA; FEDE; METAFISICA; RAGIONE; SCIENZE NATURALI, UTILIZZO IN TEOLOGIA; VERITÀ; TOMMASO D’AQUINO. Bibliografia: Storia della teologia: E. VILANOVA, Storia della teologia cristiana, 3 voll., Borla, Roma 1991-1995; E. DAL COVOLO, G. OCCHIPINTI, R. FISICHELLA (a cura di), Storia della teologia, 3 voll., EDB, Bologna 1995-196; A. DI BERARDINO, B. STUDER, G. D'ONOFRIO, Storia della teologia, 3 voll., Piemme, Casale Monferrato 1993-1995; G. D'ONOFRIO (a cura di), Storia della teologia nel Medioevo, 3 voll., 16 Piemme, Casale Monferrato 1996; B. MONDIN, Storia della teologia, 4 voll., EDB, Bologna 1996-1997. Metodo e statuto epistemologico della teologia: Y. CONGAR, Théologie, in DTC, vol. XV, coll. 341-447; M.D. CHENU, La teologia è una scienza?, Paoline, Catania 1958; W. KASPER, Per un rinnovamento del metodo teologico, Queriniana, Brescia 1969; R. MARLÉ, Il problema teologico dell'ermeneutica, Queriniana, Brescia 1969; Z. ALSZEGHY, M. 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