M. Callari Galli L'antropologia e la ricerca di un soggetto. 1. La "scala evolutiva" della cultura umana La nascita dell'antropologia come disciplina autonoma, distinta dalla filosofia, dalla geografia da un lato e dai resoconti di viaggiatori ed esploratori dall'altro, si colloca a metà dello scorso secolo, in un clima intellettuale, molto attivo ed effervescente soprattutto nell'Europa settentrionale, pieno di fiducia nei progressi tecnologici affermatisi e diffusisi in questa area. Sin dai suoi esordi l'antropologia dichiarò la sua ambizione ad essere lo studio scientifico dell'evoluzione culturale dell'umanità modellando sul pensiero moderno con i suoi principi di unilinearità e di consequenzialità i suoi schemi interpretativi, uniformandosi alle sue categorie conoscitive e cercando di formulare leggi generali che presiedano all'evoluzione delle culture prima, all'organizzazione delle differenze, poi. L'antropologia, al pari delle altre scienze sociali che insieme a lei inziarono il loro percorso autonomo, rispecchiò profondamente il clima intellettuale della sua epoca, dominato dall'aspirazione ad assoggettare a leggi scientifiche ogni campo della conoscenza, tutto teso a dimostrare, nella fisicità e nella storia della nostra specie, la presenza costante di uno sviluppo evolutivo che inevitabilmente era destinato a produrre progresso. Così gli antropologi evoluzionisti tentando di rispondere alle domande poste dall'illuminismo francese e tedesco sull'origine e lo sviluppo di determinati tratti culturali furono tutti spinti a costruire in chiave evolutiva e "progressiva" una storia della cultura umana soggetta alle stesse leggi che nell'opinione degli scienziati dell'epoca dominavano la natura. E le singole culture, nelle loro molteplici variazioni articolate nello spazio e nel tempo, costituivano il materiale su cui costruire con il metodo comparativo i diversi stadi dello sviluppo progressivo della nostra specie. Convinzione diffusa - sia pure con alcune differenze non trascurabili passando da un autore all'altro, dallo studio di un aspetto della cultura all'altro - è che in tuffi i tratti culturali esaminati e nel loro stesso insieme sia possibile individuare una successione di stadi di sviluppo "tanto naturale quanto necessaria" che riunisce insieme l'intera umanità e che si organizza sul passaggio dalle forme più elementari a quelle più complesse. E la "scala" costruita con il materiale raccolto dalle fonti più disparate – dai resoconti di viaggio alle opere storiche, dalle osservazioni dirette ai "documenti" ufficiali - è semplice e apparentemente convincente, con le culture più lontane dai nostri confini a costituire i primi stadi e con le culture "storiche" delle grandi civiltà del passato ad occupare i gradi intermedi e con le nostre - nostre in quanto degli stati nazionali europei contemporanei- a rappresentare l'espressione culturale più progredita, il modello che attraverso il dominio politico ed economico si sarebbe diffuso in tutto il pianeta Charles Darwin negli stessi anni avrebbe dimostrato i meccanismi evolutivi che avevano "prodotto" la nostra specie; gli antropologi evoluzionisti prendevano l'uomo a quel punto della sua evoluzione biopsichica e di evoluzione in evoluzione lo portavano al colmo della sua umanità, rappresentata dall'uomo europeo dell'epoca Vittoriano. Ma se era relativamente facile e notevolmente produttivo da un punto di vista scientifico porre l'equus caballus su un gradino superiore a quello dell'hipparion, un'ascia tecnologicamente meno evoluta non è l'antenata di un'ascia più evoluta se non in senso metaforico ed approssimativo. Come dice Claude Lévi-Strauss "quel che vale per oggetti materiali la cui presenza fisica è attestata nel suolo per epoche determinabili, vale ancor più per le istituzioni, le credenze, i gusti, il cui passato è totalmente ignoto" (C. Lévi-Strauss, 1967, p. 108). Gli antropologi evoluzionisti a partire da Edward Barnett Tylor proposero di risolvere questa carenza di documentazione storica con una fictio metodologica i popoli la cui tecnologia era la più primordiale dovevano essersi fermati nell'evoluzione non solo tecnica ma anche culturale, per cui le loro istituzioni, le loro credenze, i loro usi e costumi dei quali parlavano le relazioni dei missionari, dei viaggiatori, le cronache storiche dovevano essere le stesse istituzioni, le stesse credenze e gli stessi gusti dell'alba dell'umanità, quando questa usava per cacciare, per guerreggiare e per produrre, strumenti simili a quelli usati dai "primitivi contemporanei". Stabilite le regole, diventava piuttosto facile situare i vari gruppi umani nei gradini differenziati dell'evoluzione storica della cultura ed affidare all'antropologia il compito di spiegare l'ascesa de claritate in claritatem dal mondo dei selvaggi al mondo dei civili. Questa concezione che oggi appare non solo grondante di ideologismi e di falsità ma anche estremamente riduttiva e semplicistica era in realtà condivisa dalla maggior parte del pensiero "scientifico" della fine dello scorso secolo: anzi dovrei dire che gli antropologi furono i primi tra gli studiosi dei meccanismi sociali e storici a denunciare la falsità teorica ed ideologica di ogni concezione che veda la saldatura tra evoluzione e progresso. Gli antropologi spinti dall'eterogeneità e dalla scarsa affidabilità di molte delle fonti inizialmente usate dovettero abbandonare la propria cultura ed immergersi per mesi, per anni nella vita delle culture "altre": furono così costretti dai dati che andavano raccogliendo, dalle difficoltà che incontravano nell'applicare ad essi categorie unilineari ed univoche ad abbandonare facili interpretazioni di accadimenti, di tradizioni, di narrazioni con un'unica chiave di lettura che li riferisca tutti e comunque ad un ordine gerarchico, dato, prestabilito ed immutabile. 2. Il soggetto svanisce nell'oggettività della ricerca empirica Se nell'antropologia evoluzionista è possibile cogliere lo sforzo di definire un soggetto che attraverso i millenni, attraverso infinite variazioni afferma la sua centralità rispetto alla storia e rispetto alla natura identificandosi totalmente con l'uomo europeo appartenente alla élite del suo paese, dal crollo dello schema evoluzionista il soggetto antropologico esce completamente mutato, si moltiplica in una miriade di sembianze ma al tempo stesso sembra perdersi dietro la ricerca della oggettività della ricerca. Certamente non è estraneo a questo sfiducia nella soggettività "forte" disegnata dall'evoluzionismo antropologico il nuovo clima intellettuale europeo che man mano che avanza il XX secolo sembra perdere la sua fiducia nella totalità. Come scrive Claudio Magris, "la totalità viene a mancare perché manca la connessione che dovrebbe pervadere tutte le sue parti e stringerle in un tutto; la connessione viene a mancare anche e soprattutto all'interno del soggetto, il quale dovrebbe ridurre il mondo ad unità ed invece viene a disgregarsi egli stesso nella sua unità, individuale"(C. Magris, 1984, p 7). La risposta a questa crisi, a questa incertezza che sembra segnare la storia del secolo XX tutta in bilico tra affermazioni di senso assoluto ( e di regimi che con il loro totalitarismo tentano di penetrare sin nei pensieri e nei desideri dei loro sudditi) e disgregazione di ogni senso nella rete dei rapporti sociali sempre più anonimi è data da gran parte dell'antropologia nei termini di una ricerca che nell'oggettività più assoluta cerca la sua validità e la sua scientificità. Un'ingenua fiducia nell'osservazione empirica trasformò per alcuni decenni la maggior parte degli antropologi in creature prive di volto, senza connotazioni di carattere sessuale, senza età, tutte tese nello sforzo di registrare, quanto più fedelmente e obiettivamente potessero la realtà culturale. Schiere di ricercatori soprattutto negli Stati Uniti, seguendo i dettami di Franz Boas, svilupparono un'immagine di se stessi e della disciplina che appare retrospettivamente quasi una rozza imitazione della cieca fiducia nell'oggettività dell'osservazione tipica delle scienze naturali dei secoli passati. John Watkins, riferendosi soprattutto alle scienze naturali, così scrive: "Parafrasando Descartes, possiamo dire che un metodo consiste nel conquistare la fiducia del lettore, spiegandogli come siete giunti alla vostra scoperta; l'altro è costringerlo ad accettare una conclusione ostentando una serie di proposizioni che egli deve accettare e che lo inducono a farlo. Il primo metodo permette al lettore di ripercorrere l'iter dei vostri pensieri nel loro ordine naturale. E' uno stile autobiografico. Scrivendo in questo stile voi includete non quello che avete mangiato a colazione o il giorno della vostra scoperta ma ogni considerazione significante che vi ha aiutato a pervenire alla vostra scoperta. In particolare esponete quali erano i vostri scopi, quali problemi stavate tentando di risolvere e cosa speravate dalla loro soluzione. L'altro stile elimina tutto ciò. E' didattico e intimidatorio" (J.W.N. Watkins, 1963, pp. 667-68)". Le sue parole bene si adattano al campo della ricerca sociale, dove la partecipazione dell'osservatore scegli e filtra fra i settori del comportamento includendone inevitabilmente alcuni ed eliminandone altri. Eppure i percorsi individuali, i rapporti con la comunità, le reazioni degli "indigeni" e le proprie di fronte allo svolgimento della ricerca, nei primi anni del '9OO entrano faticosamente nella prospettiva ufficiale della più personale delle scienze sociali. Anche laddove è messa in discussione, per maggior sofisticazione intellettuale o per diversa eredità culturale, la cieca fiducia nell'ingenuo empirismo imperante in quegli anni nelle scienze sociali, il resoconto personale è escluso dalla produzione ufficiale, dal lavoro "scientifico": è confinato agli appunti che solo zelanti esegeti raccoglieranno e pubblicheranno postumi o è tradotto dall'antropologo stesso, in forma letteraria, quasi per divertimento o per dimostrare al grande pubblico la propria versatilità. Così il livello "personale" della ricerca, le reazioni ad usi e costumi diversi, lo choc davanti a pratiche sessuali inattese (siano esse il "dormir nudi" degli asiatici e degli indigeni americani, scelto da Lewis Henry morgan come un criterio per sostenere l'origine comune degli aborigeni dei due continenti, o sia l'insaziabile sete di orgasmi delle donne melanesiane che sorprende il professor Malinowski), le stanchezze della solitudine e dell'isolamento culturale, le difficoltà ad entrare in rapporto con alcuni individui della "propria tribù", la conflittualità a volte dirompente tra il proprio mondo di valori e quello che si sta osservando, sono tutti aspetti presenti negli IndianJournals, scritti durante i suoi viaggi fra gli indiani degli Stati Uniti d'America dal 1859 al 1862 da Lewis Morgan e pubblicati da Leslie A. White nel 1959 o nel diario di Bronislaw M~linowski che solo nel 1967 è dato alla lettura del grande pubblico dai spot eredi. E l'antropologo statunitense Laura Bohannan scrive il suo romanzo antropologico Return to Laughter sotto lo pseudonimo di Eleanor Smith Bowen, quasi a ribadire la sua scissione tra la sua attività scientifica e le sue reazioni personali su cui tale attività si fonda e di cui si nutre. E' un "romanzo" che inizia con una precisazione che è di rito in malti titoli di testa dei fé "ali the characters in tris book, exept myself, are fictitious in the fullest meaning of the word"; in esso Laura Bohannan ci racconta dall'interno, come ha scritto David Riesman nell'introduzione al libro, cosa significhi "essere un antropologo sul campo'', con le sue paure, le sue vigliaccherie di fronte ad un mondo di valori tanto diverso da mettere in crisi le sicurezze occidentali, la sua solitudine. Avendo tuttavia escluso dalla sua riflessione "scientifica" questo patrimonio personale anch'essa sembra affermare che tutto ciò non abbia interferito, determinato, influenzato anche la sua ricostruzione della strutture di parentela, la sua individuazione di modelli comportamentali e linguistici, l'intera raccolta dei suoi dati. (E. Bowen, 1954) E questa esemplificazione della scissione tra livello personale e livello scientifico, scelta come rifugio per reagire alle implicazioni che la crisi del soggetto con la sua frantumazione ampiamente denunciata dalla la produzione artistica del XX secolo, può qui terminare con un riferimento illustre e notissimo: Claude Lévi-Strauss, così teso a ricercare essenzialmente il carattere strutturale dei "fatti sociali" nelle sue opere, scientifiche, affida a Tristi Tropici, vero e porprio romanzo filosofico, il compito di raccogliere i motivi personali delle sue peregrinazioni antropologiche. Nella prima metà del secolo, dunque, pochi sono gli antropologi che pur considerando i loro lavori sul campo come un intreccio tra il culturale e il vissuto, tra la cultura e il proprio vissuto e la cultura e il vissuto proprio dei nativi, esprimono questo intreccio nelle loro opere "ufficiali".. Spicca fra essi per la dedizione dedicata a questo compito e per la straordinaria efficacia raggiunta, Michel Letris, con la sua coazione a dirsi, a mescolare dati etnografici e letture di poeti e romanzieri, sogni, reveries personali e descrizioni di oggetti raccolti per il Musée de l'Homme. Michel Leiris che sin dai lontani anni '30 così qualificava la sua produzione: "le due facce di una ricerca antropologica nel senso più completo del termine: accrescere la nostra conoscenza dell'uomo sia con i mezzi soggettivi dell'introspezione e dell'esperienza poetica, sia con i mezzi meno personali dell'etnologia" (M. Leiris, 1998, p.231 e sgg.). E' il coinvolgimento con i suoi "informatori" e le sue "informatrici" che gli domandano se in Francia esista l'amore e la canzone d'amore, che spinge Letris a mettere in discussione, quasi con ferocia, la separ~lone che sotto il velo del metodo scientifico si attuava tra elementi "oggetivi" ed elementi "soggettivi". E per Leiris le relazioni personali, i suoi timori, le sue emozioni, i suoi sogni, le sue delusioni, le sue stesse reazioni fisiche, divengono dati da analizzare e valutare con la stessa accuratezza dedicata ai dati provenienti dall'osservazione dei membri dem gruppo studiato. Meglio ancora, le une e gli altri, contribuiscono insieme ad allontanare il radicamento dell'antropologo dai propri modelli culturali, dalle proprie inveterate e profonde convinzioni e dovrebbero costituire un tessuto comune su cui elaborare gli strumenti della comprensione reciproca E in tutta la sua opera Michel leiris anticipa di molti anni quell"'inquietudine diffusa e tangibile che mette oggi in discussione, alla radice, la pretesa di spiegare gli altri e la loro enigmatica alterità sulla base del fatto che siamo stati a contatto con loro nel loro habitat originario o di aver passato al setaccio gli scritti di coloro che ci sono stati' (C. Geertz, 1990, p. 140). E Michel Leiris nella storia di Khadigia che conclude il secondo libro delle sue confessioni si allontana profondamente da ogni biograf~smo e da ogni esotismo riverberando la "complessità sulla coscienza del lettore che, impegnato nell'apprensione e nel controllo della "fusione" fra modalità spesso ritenute antagonistiche ma qui~sinergetiche, si apre a sua volta a una lettura della compresenza che attiva in lui le dimensioni considerate, distinte o opposte del pensiero analitico e distanziante e dell'identificazione emotiva" (I. Margoni, 1998, p. LXXVI) 3. I nuovi soggetti della ricerca antropologica E' negli anni cinquanta che appare con sempre maggior evidenza, direi quasi con prepotenza, il peso che le notizie sul ricercatore e sulle sue esperienze di campo devono assumere come elementi fondamentali della sua produzione scientifica.. In un suo intervento in Anthropology Today, Benjamin Paul parlando delle tecniche di intervista, sostiene che il ruolo sociale assunto da un antropologo durante la sua ricerca è un fattore determinante per porlo in contatto con una serie di informazioni e per impedirgli di raccoglierne altre. (B. Paul, 1953) Nel 1960, poi, Adams e Preiss raccolgono una serie di articoli apparsi a partire dal 1950 su Human organization in un'antologia, tutta centrata sulle relazioni interpersonali che caratterizzano il lavoro sul campo. E William F. Whyte, nel 1964, così scriveva: "esistono numerosi e utili studi sulle metodologie di ricerca ma, a parte poche eccezioni, essi pone ~o la discussione interamente su una base logico-intellettuale. Non hanno capito che il ricercatore, come il suo informatore, è un animale sociale: deve rivestire un ruolo, ha dei bisogni connessi con la struttura della sua personalità, che devono in qualche misura essere soddisfatti, se egli deve operare sul campo con successo" (W. F. Whyte, 1964, p. 3). Sempre più negli anni '60 e '70 l'osservazione partecipante viene posta come l'unica metodologia che può rispondere ai quesiti antropologici e se su un piano pratico la lunga permanenza fra le comunità studiate propria del "credo" malinowskiano sembra cedere il passo ad una raccolta che si estende nel numero dei soggetti e delle fonti consultate quasi a ribadire anche su questo piano la crisi di soggetti dominanti il campo dell'analisi, sul piano teorico si intensifica l'elaborazione del principio di identificazione prima con i soggetti della ricerca poi con gli stessi contesti che vengono da essa coinvolti. Il principio di identificazione del resto è sempre presente anche se con molte contraddizioni nei cento e più anni di storia della disciplina; può essere ben rappresentato da alcuni esempi illustri, quasi eponimi del trasporto che etnografi e antropologi, nella maggioranza dei casi, hanno in silenziovissuto per le "loro tribù", le "loro comunità". Mi riferisco a Curt Nimuendajù che prese il suo nome da un gruppo amazzonico fra il quale visse, per decenni, con il quale si identificò quasi totalmente (e il "quasi" è dovuto all'aneddotica raccolta su di lui che ci informa che egli continuò a radersi, secondo la moda europea, ogni giorno, nella selva). E a Frank Cushing che condivise a tal punto la visione del mondo e il modo di vivere degh indiani Zuni che rifiutò di continuare a pubblicare dati su di loro. Dalla metà del XX secolo si verificano una serie di cambiamenti rapidi e pervasivi che disintegrano la plausibilità di alcune categorie antropologiche. Esaminerò ora, a mò di esemplificazione, due fattori di questa disintegrazione: il fenomeno del neocolonialismo e la sparizione del "selvaggio". Se, come vuole Louis Althusser, "l'ideologia concerne il rapporto vissuto dagli uomini con loro mondo, ossia l'unità (surdeterminata) del loro rapporto reale e del loro rapporto immaginario con le loro reali condizioni di esistenza"(L. Althusser, 1967, p. 209), possiamo ipotizzare che gli agenti dell'espansione colonialista europea abbiano teso a sviluppare una concezione dei popoli colonizzati coerente alla "missione" che, a livello ideologico, erano convinti di svolgere nei lontani continenti extraeuropei. Non intendo sostenre che tutte le forma di colonialismo siano state analoghe nello svolgimento e negli e' ti, né~sollevare questa moltitudini di europei - soldati, ufficiali, amministratori, commercianti, missionari, esploratori, insegnanti, economisti, urbanisti, antropologi, sociologi - dalle responsabilità nel processo di sfruttamento economico, sociale e culturale cui i popoli colonizzati sono stati sottoposti. Quello che intendo dire è che il rapporto tra l'ideologia colonialista (the white man's burden) e i colonizzatori non è, per citare ancora Althusser, "un rapporto esteriore e lucido di pura utilità ed astuzia" (L. Althusser, 1967, p. 211) e che, qualunque fosse la visione dei colonizzati elaborata dai colonizzatori, essa fu, per lunghi decenni, accettata, subitsa, vissuta come reale dagli stessi colonizzati, fossero stati soggiogati con la persuasione o con la violenza. E così per anni la rappresentazione dei colonizzati (le vittime) elaborata dai colonizzatori (i vincitori), acquista e mantiene il carattere della realtà oggettiva. Dopo la secondsa guerramondiale, in tempi e con modalità diverse, i colonizzati - portatori, secondo la definizione di Jean-Paul Salme, dell"'indigenato", cioè "la nevrosi introdotta e mantenuta dal colono nei colonizzati con loro consenso" - esplodono e intraprendono le lotte per affermare il loro diritto all'indipendenza e all'autogoverno. E l'antropologo ha a che fare da un lato con amministratori e coloni europei sempre più incerti e spaventati, dall'altro con indigeni sempre più aggressivi, sempre più agguerriti politicamente, il cui comportamento è sempre più lontano da quello di individui da osservare con la tecnica delle scienze naturali.La ricerca sul campo non può più essere considerata dall'antropologo come un momento esterno alle sue scelte esistenziali e politiche; poter compiere una ricerca non dipende più dalla volontà dell'aruministrazione coloniale ma coinvolge nella decisione le persone stesse che saranno oggetto della ricerca e che con sempre maggior frequenza rifiutano di essere "oggettivizzate" a qualunque livello. E' forse marginale rispetto al mio discorso e ha solo un valore analogico, ma è interessante ricordare che urlo dei meriti che con maggior frequenza è attribuito a Franz Fanon - il più interessante dei teorici della rivoluzione dei popoli colonizzati, di quegli anni è proprio quello di aver sviluppato "la teoria marxista del soggetto rivoluzionario" (G. jerv-is, 1971, p. 7). Il processo di soggettivizzazione non poteva non travolgere il tradizionale modo di fare ricerca dell'antropologo, il cui compito diventa quello di farsi interprete delle diverse voci che durante la sua permanenza sul campo viene raccogliendo. E sono voci spesso discordò, di presa di coscienza dei soprusi sofferti, piene di odio e di rabbia: tanto drammatiche da rendere gli antropologi pienamente consapevoli c'elle "distonie insanabili esistenti tra la nostra disciplina e il regime coloniale` (J. Maquet, 1964, p. 51). Inoltre contemporaneamente scompare la "selva" e il "selvaggio" l'abbandona per accorrere nei centri urbani d'Africa e d'Asia e del Sudamerica, ma anche d'Europa e degli Stati IJniti; e il selvaggio è africano e asiatico ma è anche turco e croato. Nel giro di pochi anni, sotto il peso di queste immigrazioni "selvagge", cioè caotiche e casuali, le strutture della città, della "società civile" si stravolgono, perdono anche a livello di modello ideale la loro unità e la loro coerenza, e sempre più difficile appare tracciare linee di demarcazione e confini. Oltre a moltiplicare i suoi "soggetti", l'antropologia è costretta ad "occidentalizzarsi": anche se qualche antrpologo si affretta a studiare le poche popolazioni pre-letterate ancora presenti nel pianeta, dagli anni sessanta in poi, con sempre maggior frequenza gli antropologi rivolgono la loro attenzione allo studio dei modelli di comportamento presenti fra noi, nelle strade e nei quartieri delle nostre città, rivisitano metodologicamente i due poli della ricerca tradizionale, i dominati e i dominatori, riempiendoli di nuovi contenuti, di nuove aspirazioni; si prodigano a cercare le "diversità" tra noi, a documentare in Europa, negli Stati Uniyti, nelle città dell'Asia e, dell'Africa la contestazione dei giovani, la rivolta degli emarginati e dei disederati, a collegare le tecniche della ricerca sul campo all'uso e alla diffusione dei nuovi media. E forse in questo sforzo può intravedersi l'unica possibilità di adempiere al mandato di Sartre per il quale "l'antropologia meriteràil suo nome soltanto se sostituirà allo studio degli oggetti umani quello dei diversi processi del divenir-oggetto". 4. La scomparsa del soggetto nella contemporaneità Molti sono gli autori che in questi ultimi anni del secondo millennio, di fronte all'emergere e al dilagare della nuova cultura della comunicazione planetaria, hanno sottolineato con argomenti efficaci ed intelligenti la disintegrazione progressiva anche delle categorie analitiche che si sono affermate nel pensiero occidentale del XX secolo e che tentavano di descrivere e in un certo senso di ricomporre la crisi del soggetto moderno. Per questo filone di pensiero, il modello freudiano che oppone i significati latenti e i significati lanifesti, il modello esistenzialista che prefigura un'ansia costante tra autenticità e inautenticità, l'ermeneutica marxista con il modello bipolare che si articola tra essenza/apparenza, ideologia/verità, il modello semiotica che si focalizza sulla distinzione tra significato e significante, si dimostrano tutti egualmente inefficaci nel descrivere l'attuale società che sembra immergere il soggetto in un "busso di euforica intensità", costituito da frammenti e schegge: un soggetto che nella sua quotidianità é assai lontano dal raggiungere quella profondità di pensiero e quella coerenza di azione che costituivano il modello ideale dell'uomo moderno, apparso sulla scena della società occidentale sin dal Rinascimento e faticosamente ma arrogantemente affermatosi con la modernità. Non c'è traccia di questo modello nella celebrazione di Deleuze e Guattari (1977) delle dispersioni, nomadiche e "schizoidi", del desiderio e della soggettività; né nell'individuo rappresentato da Baudrillard ( 1996) come il "termine di un terminale", immerso com'è nella società dell'informazione e che per Kroker e Cook (1986) è un risultato cibernetica di "fantastici sistemi di controllo". I testi prodotti dalla post-modernità televisivi, filmici, elettronici, letterari che siano - tendono ad essere privi delle energie espressive proprie della modernità, perduti nell'intensità del frammento, nell'immediatezza temporale e spaziale, nell'opacità dei significati (Jameson F., 1983, 1984). Pur riconoscendo grande efficacia e produttività in queste intepretazioni, e non rinunciando completamente alla loro utilizzazione per avvicinarci alla nostra contemporaneità, forse è opportuno affiancare ad esse, proprio in nome della complessa articolazione della nostra società, qualche valutazione critica Se le proposizioni teoriche di questa corrente di pensiero, affermatasi nella seconda metà del nostro secolo, hanno il vantaggio di aver posto in discussione il modello della modernità e aver dimostrato, dopo le molte innovazioni e i molti cambiamenti che ha prodotto, i suoi limiti teorici e la sua inadeguatezza di mediazione politica in un mondo trasformato proprio dalla diffusione dei suoi principi di integrazione, di autodeterminazione dei diversi gruppi umani, di uguaglianza nei diritti, mi sembra che sia necessario continuare a cercare le modalità attraverso le quali ancora oggi si formano e si articolano i processi identitari dei diversi gruppi umani. Nonostante le molte e brillanti dimostrazioni che i teorici della postmodernità ci hanno offerto della scomparsa dell'identità, nonostante che dalle loro pagine essa appaia un mito, un'illusione, dobbiamo ricordare con Augé che la storia continua a giocarsi "negli strati più profondi di una sociologia in cui si accavallano elementi premoderni,modernie sovra-moderni" (Augé M., L995). La circolazione dei "flussi culturali globali" rappresenta una tendenza, un orientamento dominante ma il mondo contemporaneo presenta una coesistenza di tendenze e di orientamenti assai complessa, in cui coesistono più modelli, più codici, più linguaggi. Anche se è possibile ipotizzare che l'umanità si sia avviata da tempo ad "esteriorizzare" le sue capacità tecniche, mnemoniche e simboliche, attraverso l'utensile, la macchina, l'oralità, la scrittura " (Leroi-Gourhan N, 1977), è senza dubbio vero che nel mondo contemporaneo le nuove tecnologie comunicative hanno di molto potenziato questo processo di esteriorizzazione sino ad offrirci tali e tanti materiali sui quali costruire le nostre identità, da far temere la distruzione della stessa nozione di identità Ma questo processo non è certo univoco né unilineare, si articola con innumerevoli differenzazioni, in esso coesistono tensioni contraddittorie, le sue dinamiche sono instancabili e poco prevedibili. Applicare su questo panorama- ripeto, instabile e mobile - i principi di analisi elaborati dall'antropologia, mi sembra utile e forse necessario perché essi sembrano offrire la possibilità di introdurre un certo distacco e una certa ragionevolezza empirica, indispensabile se si vuole intervenire di fronte ad uno scenario catastrofico, quasi, apocalittico e tutto sommato, se assunto nei suoi aspetti estremi, non sempre fondato. Da un punto di vista teorico, poi, l'antropologia - e particolarmente quelle correnti che hanno sottolineato il peso che la dimensione culturale ha nella storia del gruppo e nell'esperienza quotidiana dei suoi membri - ha da molti anni individuato la necessità di abbandonare il sogno di costruire orientamenti assoluti e dominanti, cercando piuttosto di seguire il variegato articolarsi di stili di vita, di norme, di valori, di costumi e di abitudini che caratterizza la produzione culturale umana E questo orientamento, se sovente l'ha vista essere accusata di "leggerezza teorica", di scarsa affidabilità e coerenza, se ha prodotto più "traduzioni di testi culturali" che non sistematizzazioni generali, oggi sembra poter offrire tracce e percorsi per dar voce alle contraddizioni e alle antinomie che appaiono dominare la contemporaneità. Anche se è in aumento nel mondo il numero degli individui in grado di fruire delle nuove tecnologie comunicative, va ricordato che essi, al pari dell'intera umanità, continuano ad usare quotidianamente, in mezzo ad una grande varietà di codici e di linguaggi, soprattutto quello orale e quello scritto e che per tutti la dimensione locale dei rapporti interpersonali e comunitari continua a funzionare come produttrice di rappresentazioni e di immaginari. Così come vanno ricordati i vincoli che l'indistinta massa a cui sono diretti i messaggi delle nuove tecnologie, pone ai loro produttori; né va sottovalutato che questi sono legati fortemente, durante la loro educazione e la loro istruzione, al linguaggio alfabetico. Si abbandona, in questa prospettiva di complessità, l'ipotesi di un "grande fratello" che oscuramente ma in modo finalizzato e unilineare sovraintenda alla manipolazione delle informazioni e alla loro organizzazione per conquistare il dominio politico ed economico e si tenta invece di seguire i mille complessi rivoli- in cui si incanala oggi l'organizzazione del consenso. Applicare una lettura antropologica a questi aspetti della trasmissione culturale, significa recuperare strumenti elaborati in più di un secolo di riflessioni e di ricerche delle discipline antropologiche, per sottrarre all'indeterminatezza e alla confusione il carnpo dell'analisi culturale, individuando, nella contemporaneità, la coesistenza di più modelli, di molti codici, di molti orientamenti. Adottare questo orientamento significa proporsi di seguire dinamiche e flussi, riconoscere la policentricità dell'elaborazione culturale propria della contemporaneità, intravedere la possibilità di analizzare le identità molteplici che attraversano oggi la vita di un soggetto sottoposto ad una continua azione di decostruzione. Solo in base ad orientamenti metodologici generali e ad un tempo estremamente circostanziati, riferiti a conoscenze e competenze sulle dinamiche culturali in gioco, è possibile sperare di poter costruire categorie interpretative fondate, che ci permettano di descrivere e comprendere il farsi delle identità e delle culture all'incrocio tra locale e globale (Kilani M., 1994), di intervenire durante i processi inculturativi e di progettare percorsi educativi adatti alla società del presente. Soprattutto questa operazione mi sembra necessaria per sottrarre l'analisi culturale, e quiundi la gestione delle differenze, alle incursioni rapide, frettolose e spesso dannose - di discipline che hanno fondato i loro statuti epistemologici su principi teorici, analisi metodologiche e obiettivi scientifici che non ponevano attenzione alcuna al "farsi e disfarsi" della cultura, che per decenni hanno elaborato le loro proposte teoriche ignorando il mondo "altro da se", interpretandolo come pallide sopravvivenze o come aberranti deformazioni del se: nei casi migliori tentando di cancellare la sua "scandalosa" alterità riducendolo al sì. Bibliografia L. Althusser, Per Marx, Roma, Ed Riuniti, 1967 J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Milano, Cortina, 1996 * Z. Bauman,Dentro la globalizzazione, Roma-Bari, Latenza, 1999 U. Beck, Che cos'è la globalizzazione, Roma, Carocci, 1999 E.S. Bowen, Return to Laughter, New York, Harper & Brothers, 1954 M. 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