Il Manifesto del PS è filosofia?
A seguito della bella conferenza di Fabio Merlini, l’ ”efficienza insignificante”, molti di noi hanno
riconosciuto gli argomenti del Manifesto del PS che, come ha scritto Marco Mariotta, “è giusto”
rispetto al quadro filosofico presentato.
Su incoraggiamento di Eva, riprendo qui un paio di riflessioni che le avevo inviato riguardo alla
relazione tra la conferenza di Fabio e il nostro Manifesto.
La distinzione principale presentata da Fabio Merlini è quella della sfera della necessità - che
richiama sempre più oggi alla mobilitazione di una professionalità autoreferenziale, senza storia e
senza senso-, dalla sfera del possibile - che richiama un’intenzione orientata al futuro-.
Questa prospettiva evoca, da sola, i due più importanti filoni filosofici del Novecento: la
fenomenologia di Husserl e quella che fa seguito alla Scuola di Francoforte. Ambedue queste
tendenze filosofiche si oppongono al positivismo imperante, falsamente scientifico.
Per il primo filone, decisamente il più difficile da spiegare perché costituisce la forma più moderna
della filosofica classica, abbiamo la definizione della coscienza umana, che è sempre riferita
intenzionalmente agli oggetti che rappresenta, è sempre coscienza di "qualche cosa", è sempre un
tendere a qualcosa. La frase del programma che dice “inserire l’intenzione nelle faccende umane”
può essere letta come l’esortazione a recuperare il funzionamento della nostra coscienza, che
attribuisce senso attraverso un movimento verso (futuro, possibile). Da questo pensiero discende
l’opera di Heidegger, ma anche quella di Sartre che ha letto Husserl come prigioniero di guerra e
combinando la fenomenologia al marxismo ha ideato l’esistenzialismo, e di Norberto Bobbio, che
ha consacrato la sua tesi giovanile alla fenomenologia.
Per il secondo filone c’è la critica all’autoreferenzialità del presente, caratterizzato da meccanismi
necessari e disumanizzanti. Fabio ha insistito sulla necessità di uscire dalla visione meccanica,
autolegittimata socialmente, attraverso la critica, da fare attraverso toni forti ed esortativi. Questa è
la scuola di Francoforte, pensiero che è ahimé sempre ancora attuale. Qui pensiamo ad esempio alla
“libertà obbligatoria” di Gaber, titolo ricordatomi ieri da Francesca. Anche “polli di allevamento”,
sempre di Gaber, evoca la società di massa, con le sue derive totalitarie, criticate dalla Scuola. Una
evoluzione di questo pensiero è quella tendente a identificare nella seduzione il meccanismo del
consenso e della società poststorica (accenno alla seduzione dei cartelli pubblicitari).
Quest’ultimo filone è presente nel nostro Manifesto, seppure in modo indiretto, attraverso la critica
all’affarismo personale e all’arroganza, e attraverso la critica, che personalmente avrei preferito
meno ambigua, alla spettacolarizzazione fine a sé stessa della politica (e non già al marketing che di
per sé è un buon compromesso tra seduzione e informazione).
Si tratta di uno sfondo filosofico classico, forte e prepolitico, ossia che colpisce innanzitutto le
coscienze individuali. È interessante rilevare che il senso di immedesimazione al Manifesto sia stato
scaturito in modo più marcato dalla conferenza filosofica, anziché da quelle politiche. Benché
collegate, queste filosofie non sono politiche, nel senso che non si interrogano esplicitamente sulle
modalità e sulle forme dello stare assieme (lavori successivi di Bobbio, per esempio distinzione tra
destra e sinistra). Il quadro di riferimento è comunque molto pregnante e fa sì che il Manifesto, a
tutti coloro che interpretano la cultura come impegno e critica, a giusta ragione piace.
Ronnie, 18 aprile