Leggi la pubblicazione - Censimento dei manoscritti medievali della

ARCHEOLOGIA DEL MERCATO DEL LIBRO
Il codice come oggetto prezioso fra antichità e medioevo
L‟inventario dei manoscritti dell‟abbazia di Saint-Riquier, nel nord-est della Francia, uno dei
primi documenti medievali del genere che abbia una certa estensione, fu fatto preparare intorno
all‟830 su ordine dell‟imperatore carolingio Ludovico il Pio. La ragione per la quale l‟imperatore si
interessava ai libri di un monastero – per altro molto legato alla corte – non era né per poter meglio
accedere a quei libri, né per poterli meglio conservare: egli voleva semplicemente conoscere un
patrimonio, e per far questo faceva redigere contemporaneamente un inventario degli altri beni
mobili e delle proprietà terriere dell‟abbazia. In un‟epoca ancora molto precoce, dunque, i libri
erano considerati dall‟autorità civile un bene prezioso, alla pari di arredi liturgici in vetro o in
metalli nobili.
Per l‟epoca di cui stiamo parlando non esisteva un mercato del libro, e parlare di „valore‟
appare dunque piuttosto astratto; ma che il libro sia oggetto prezioso è, per tutto il medioevo, fuori
discussione. Frequente è il caso di nobili e sovrani che regalano libri ai monasteri pro remedio
animae; è stata avanzata l‟ipotesi che molti dei libri „profani‟ – cioè di autori classici – che
troviamo più tardi nelle biblioteche religiose vi siano giunti per questa via, ma che appartenessero in
origine a biblioteche laiche. Frequenti sono i casi di furti di libri, che conosciamo – più che dai fatti
stessi – dagli anatemi che bibliotecari e copisti scrivono nei margini contro i malintenzionati: segno
che si trattava di eventi comuni.
Intorno al 715, Ceolfrith, abate di Wearmouth-Jarrow, nel nord dell‟Inghilterra, all‟estremo
confine del mondo latino, fa preparare una monumentale Bibbia miniata e parte dal suo monastero
per portarla in dono al papa, il che comportava un lungo e pericoloso viaggio. E‟ evidente che il
valore dell‟oggetto non era un valore d‟uso: il pontefice aveva certamente altre Bibbie, e ciò che
contava era il dono. Era un dono bellissimo: possiamo constatarlo ancora oggi grazie a una serie di
fortunate circostanze (l‟abate morì prima di arrivare a destinazione, e il dono probabilmente non
giunse mai a Roma; rimase per secoli all‟abbazia di San Salvatore al Monte Amiata, ed è oggi alla
Biblioteca Laurenziana di Firenze. Se fosse giunto a Roma, esso sarebbe quasi certamente andato
distrutto, come tutti i libri papali di quest‟epoca).
Il dono di un libro, soprattutto di un libro di lusso, era dunque un segno di alta onorificenza,
che dava lustro tanto a chi lo riceveva, quanto a chi lo dava. Si trattava di un dono di
rappresentanza, che diventava un sostituto della persona stessa che donava; per questo, nei codici
miniati di maggior pregio il donatore faceva rappresentare se stesso, analogamente a quanto
avveniva in raffigurazioni pittoriche nel caso di donazioni per la costruzione di edifici sacri. Del
resto, il libro – in quanto portatore di scrittura – era un oggetto che segnava l‟appartenenza alla
stretta cerchia degli alfabetizzati: chi possedeva libri, o chi poteva servirsene, partecipava a un
sapere iniziatico dal quale era esclusa la maggioranza della popolazione, compresi molti delle classi
sociali più alte. Dare un libro, oppure riceverlo, era un suggello di questa appartenenza.
Per la sua fruizione iniziatica, il libro aveva un carattere sacro, qualunque ne fosse il
contenuto. Per il cristianesimo, la rivelazione è affidata a un libro, anzi a dei libri, e secondo la
religione cristiana la scrittura è dunque lo strumento più alto di trasmissione della conoscenza. Un
indovinello carolingio chiede al lettore: «Qual è la strada nera che percorre una campagna bianca, e
seguendo la quale si giunge alle stelle?». La risposta, evidentemente, è la scrittura: è il libro che
permette di giungere ad astra, alle più alte vette della conoscenza. E ciò vale non solo per i testi
sacri, ma anche per quelli profani: al libro è affidata la sapienza – a qualunque libro, anche a quelli
che è opportuno non leggere.
Il libro era un dono che poteva, in qualche caso, avere un equivalente monetario. Nel 1199
un altro ecclesiastico britannico, Giraldo Cambrense, si reca dal papa; quando arriva, gli regala sei
libri scritti da lui, dicendo: praesentant tibi alii libras, sed nos libros (“gli altri ti portano le lire, io ti
porto i libri”). Il papa, Innocenzo III, fu contento, dice Giraldo, perché era un intellettuale (quia
copiose literatus erat et literaturam dilexit); il che presuppone che se intellettuale non fosse stato lo
avrebbe cacciato, e avrebbe chiesto invece il denaro che era consuetudine ricevere.
Se dunque nel medioevo alto e centrale non esistette alcuna forma di mercato del libro, non
per questo il libro non aveva un suo valore. Ben diversa era stata la situazione nell‟antichità. Nella
Roma classica un mercato del libro non solo esisteva, ma era molto sviluppato: gli intellettuali di
età imperiale ne parlano spesso, anche con gli ammiccamenti tipici di chi quel mercato ben conosce.
Più di tutti ne parla Marziale (II sec.); da quanto egli dice risulta chiaro che esisteva una rete di
librai, esistevano libri di maggior prezzo (i volumina, rotoli di papiro, destinati a testi letterari) e
altri più a buon mercato (i codices, fogli di papiro o pergamena legati su un lato, riservati a testi
correnti), esistevano biblioteche pubbliche e private. Il possesso di libri pregiati appare essere stata
nell‟antica Roma una sorta di status symbol, e questo faceva sì che il prezzo di certi volumi potesse
essere anche molto alto.
Ancora diversa è la situazione per il basso medioevo, quando un mercato librario torna a
costituirsi. In questo caso abbiamo la possibilità di accedere a una documentazione diretta, che si è
incominciato a studiare negli ultimi anni, fatta – oltre che di libri – di atti pubblici e privati:
donazioni, compravendite, testamenti, inventari, oltre che note apposte sui libri stessi. Il mercato del
libro del basso medioevo si sviluppa per vari fattori, fra loro spesso collegati, ma che hanno come
denominatore comune la rinascita della civiltà urbana. I nuovi ceti mercantili cittadini avevano un
livello di alfabetizzazione più alto che in precedenza; una base di istruzione permetteva di svolgere
meglio le professioni, e anche per il governo era necessario avere determinate conoscenze culturali,
per esempio di natura giuridica. Anche i laici, dunque, per la prima volta nel medioevo, erano
interessati alla cultura; e si svilupparono istituzioni scolastiche cittadine, che scalzarono il
monopolio ecclesiastico fino a quel momento vigente.
Una vera e propria svolta si verificò con la fondazione delle prime università, a partire dal
XII sec., ma poi molto più intensamente nel successivo. Il pubblico di professori e studenti aveva
bisogno di libri; per produrli si svilupparono le prime attività imprenditoriali. Anche se gli
universitari non erano ricchi, la figura dello studioso aumentò il suo prestigio sociale; possedere una
biblioteca, ma anche soltanto conoscere e aver letto molti libri, cominciò a essere considerato un
valore. Siamo ancora lontani dalla vera e propria venerazione dell‟intellettuale che fu tipica dell‟età
umanistica, ma essa si intravvede all‟orizzonte.
Le botteghe librarie del Due- e Trecento svilupparono proprie tecniche di produzione e
commercio. Nella preparazione del libro venne seguita una precisa divisione del lavoro, che
permetteva di ottimizzare i costi e la qualità; si differenziarono i prodotti a seconda del mercato cui
essi erano destinati; si cercò di comprendere le esigenze e le richieste del pubblico. Accanto ai libri
nuovi incominciarono a essere rivenduti anche i libri usati.
Cosa concorreva a formare il prezzo di un libro? Per il libro nuovo, che veniva preparato su
commissione oppure su aspettative di vendita, la voce che incideva di più sul prezzo era
naturalmente quella che riguardava il costo di produzione: spese per i materiali (carta o pergamena,
inchiostro, colori, materiale per la copertura ecc.), compensi da corrispondere agli artigiani che
effettuavano il lavoro (copisti, miniatori, rilegatori, legatori ecc.). Ma incideva anche la qualità:
quando ad esempio si richiedeva una particolare impostazione di pagina (con spazi per note o
glosse, oppure con schemi e disegni) il costo era destinato ad aumentare.
Uno dei primi casi nei quali si può conoscere il costo effettivo di un libro nuovo è quello
della Bibbia del monastero di Calci, preparata nel 1168. Il libro venne finanziato grazie a una
sottoscrizione dei fedeli, che venne poi integrata dai monaci per quanto mancava. Una lunga nota
che si legge all‟interno del volume riporta un elenco di entrate (le cifre sottoscritte, con i nomi dei
donatori) e di uscite; fra queste ultime i costi maggiori vanno al pagamento della pergamena (18
lire), della legatura e della copertura (5 lire e 15 soldi), dei compensi del copista (4 lire), del
rubricatore (11 soldi), del miniatore (oltre 15 lire), del fascicolatore (2 lire e 2 soldi).
A determinare il prezzo di un libro usato concorrevano anche altri fattori. In uno dei casi
meglio conosciuti e studiati (il mercato del libro a Siena nel XIII sec.) si è osservato che i codici
usati di lusso erano deprezzati rispetto a quelli di impiego comune, evidentemente perché il mercato
era più ristretto. In un altro caso (quello di Bologna nel XIII-XIV sec.) si è osservato che i libri usati
venduti a un prezzo più alto erano quelli che consentivano di produrre reddito: ad esempio quelli di
diritto, che venivano usati da notai e avvocati, o quelli di medicina. Sul prezzo del libro usato tardomedievale non sembrano invece avere incidenza fattori che sono rilevanti nel mercato attuale, come
ad esempio l‟antichità dell‟oggetto (manca ancora una mentalità “antiquaria” o “archeologica”), o la
sua autorialità (un autografo non presenta un particolare valore aggiunto; manca ancora una
mentalità “filologica”, o forse una tendenza al collezionismo).
Concluderemo con due considerazioni di carattere generale.
1) Nel medioevo, il costo della cultura era sempre e comunque elevato; ed elevato era
perciò, sempre e comunque, anche il costo del libro. E‟ stato calcolato che un libro d‟uso come il
De medicina di Avicenna costava a Bologna all‟inizio del Trecento l‟equivalente della paga annua
di un operaio edile; una Bibbia miniata costava anche dieci volte tanto; un codice del Digesto
poteva costare metà di una casa. Il libro era dunque un oggetto costoso; il fatto che fosse
considerato un bene mobile, tanto da essere oggetto di donazioni, inventariazioni e lasciti, implica
che fosse considerato un oggetto durevole, non soggetto a deprezzarsi nel tempo.
2) Al di là degli aspetti materiali, per tutto il medioevo esiste un valore contenutistico che
rende il libro un oggetto prezioso. Il libro nasce come sinolo di materia e forma (il testo non può
esistere senza libro, il libro non si produce se non per portare il testo). Ciò che è prezioso è anzitutto
il testo, di cui il libro è veicolo; ciò che è prezioso è il contenuto, la stabilità del sapere. L‟élite che
detiene il sapere detiene anche i libri; l‟appartenenza all‟élite, associato al valore del contenuto,
determina la preziosità del libro.
Per approfondimenti si consiglia la lettura dei vari saggi che compongono il volume Liber/libra : il mercato del libro
manoscritto nel Medioevo italiano, a cura di Caterina Tristano e Francesca Cenni, Roma, Jouvence, 2005, da cui sono
tratte alcune delle notizie presentate in queste pagine.