Il mito e l’epica Il mito greco Laura Orvieto l La nascita delle Muse* Roberto Piumini l Prometeo Vai 왘왘왘 Vai 왘왘왘 L’epica classica Iliade l Priamo e Achille Odissea l Le Sirene Eneide l Eurialo e Niso Vai 왘왘왘 Vai 왘왘왘 Vai 왘왘왘 * L’Editore non è riuscito a individuare gli aventi diritto, ed è disponibile alla corresponsione dell’equo compenso di norma. 2 Il mito e l’epica La nascita delle Muse O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 Mito greco raccontato dalla scrittrice Laura Orvieto Guida alla lettura Armonia era una dea, figlia di Ares e di Afrodite. I protagonisti dei miti greci sono divinità ed eroi. Gli antichi Greci adoravano molti dei. Essi venivano immaginati con sembianze umane perfette: nella maggior parte dei casi, erano bellissimi ed eternamente giovani; tutti avevano poteri straordinari e si nutrivano solo di nettare e ambrosia, alimenti divini proibiti ai mortali. Oltre all’aspetto, gli dei assomigliavano agli uomini anche per il carattere: potevano essere, infatti, saggi e generosi, ma anche litigiosi e vendicativi. Talvolta litigi e vendette si consumavano solo tra divinità, ma in altri casi coinvolgevano gli uomini, con tremende conseguenze per questi ultimi. Gli dei incarnavano elementi e forze della Natura, come il mare, il fulmine e il terremoto; sentimenti, come l’amore o la discordia; virtù, come l’intelligenza e l’astuzia; abilità, come la lavorazione dei metalli e la medicina. Le divinità più importanti erano dodici e risiedevano sull’Olimpo, un monte della Tessaglia dove, secondo il mito, si trovava la loro dimora. Tra questi dei maggiori vi erano Zeus, re dell’Olimpo, padrone del fulmine e supremo giudice; Era, sua sorella e moglie, protettrice dei matrimoni e della maternità; Apollo, dio del Sole, delle arti e della medicina; sua sorella Artemide, dea della Luna, della caccia e dei boschi; Ares, dio della guerra; Afrodite, dea della bellezza e della fertilità; Atena, dea dell’intelligenza, della strategia bellica e dei mestieri. Oltre agli dei dell’Olimpo, ve ne erano molti altri, come ad esempio Poseidone, fratello di Zeus, dio del mare e dei terremoti, e Ade, anch’egli fratello di Zeus, padrone dell’Oltretomba. Gli dei erano variamente imparentati tra loro; molti erano figli che Zeus aveva concepito con altre dee, suscitando la gelosia di Era. Ad esempio, Apollo e Artemide erano figli di Zeus e della dea Latona, che Era perseguitò durante la gravidanza e il parto. Quando invece Zeus si univa con donne mortali, nascevano eroi o donne dal destino grandioso e tragico, come ad esempio Eracle, Perseo e la bellissima Elena. Nonostante i loro grandi poteri, anche gli dei erano sottomessi a una forza superiore: il Fato, o destino, a cui nessuno, mortale o immortale, poteva sottrarsi. Nei miti più antichi, le Muse erano cantatrici divine che con le loro soavi melodie rallegravano gli dei dell’Olimpo, ma erano anche le dee del Pensiero in ogni sua forma: saggezza, storia, matematica, astronomia, eloquenza. Successivamente a ciascuna di esse venne attribuita un’arte specifica, ed è a quest’ultima tradizione che si è ispirata la scrittrice Laura Orvieto per la sua riscrittura del mito. Erano nove sorelle, figlie di Zeus. La loro madre si chiamava Armonia. Occhi celesti e bruni e neri; capelli biondissimi quasi d’argento, e d’oro vivo, e castani, e rosso cupo, e nero azzurro; persone snelle, agili, slan- Come la maggior parte delle divinità greche, le Muse erano bellissime e conservavano in eterno la loro giovinezza. Gli dei nascevano già adulti e dotati di poteri soprannaturali. Gli uomini che Callìope osserva sono gli eroi, che secondo la mitologia greca abitarono il mondo in epoche remote. Calliope è la musa della poesia epica, che celebra e rende eterne le imprese degli eroi. Anche Clio guarda il mondo in cui vivono i mortali, ma vede altre cose: le vicende dei popoli, le storie della gente comune. Clio è la musa della storia, che insegna agli uomini a ricordare i fatti del passato, a comprenderne le ragioni e a imparare da essi, per vivere sempre meglio. ciate, sottili. Nessuna somigliava all’altra, e tutte erano tanto belle che non si poteva dire quale lo fosse di più. La prima che nacque, il primo giorno, fu Callìope. E la seconda che nacque, il secondo giorno, fu Clio. Le chiamarono così, con nomi greci, perché le nove fanciulle erano tutte greche. Callìope, appena nata, si guardò intorno per vedere il mondo. Vide nel mondo la gran vita perenne; e uomini che pensavano, combattevano, inventavano cose nuove, soffrivano, morivano per dare a sé e agli altri più luce, più grandezza, più ricchezza, più spazio e più gioia. Combattevano per vincere i mostri dell’acqua, della terra e dell’aria, e il caos che continuamente minacciava di distruggerli. Questa lotta sarebbe durata all’infinito: Calliope lo vedeva e lo sapeva. Guardò e guardò, coi suoi grandi occhi azzurri. E poi disse: «Io canterò le storie degli eroi. Di quelli che affrontano i mostri dell’acqua, della terra e dell’aria, di quelli che combattono e vincono per una causa, di quelli che muoiono per dare al mondo più luce, più gioia, più altezza e più giustizia. In poesia le canterò, e insegnerò ai poeti a cantarle, perché non voglio che le grandi imprese degli eroi, e i loro nomi gloriosi, vadano perduti come il fumo nell’aria o la schiuma nell’acqua. Voglio che i nipoti possano ricordare gli avi quando da secoli saranno morti, e si esaltino nelle loro imprese, e i migliori e più forti siano incitati a mettersi in gara con loro, come se fossero vivi. Così essi saranno grandi luci, come fari che illuminano le vite e le vie degli uomini nuovi nei nuovi cammini. Canterò le grandi imprese, e insegnerò ai poeti a cantarle». Così disse Callìope. E all’orizzonte, laggiù, lontano, apparvero e passarono grandi ombre maestose, che irraggiavano bagliori luminosi, scintillii d’armi, fosforescenze di pensiero. Erano le ombre degli eroi, che Callìope vedeva: i passati, i presenti, i futuri: e tutti eran come se fossero sempre vivi nel tempo e nello spazio. E Clio, la seconda sorella, guardò intorno ella pure, coi suoi grandi occhi color pervinca. Guardò intorno a lungo, pensosa. E poi disse: «Ma quante cose, quante cose io vedo nel mondo, oltre alle imprese degli eroi! Vedo le madri che allevano con pena e con gioia i loro piccini, popoli interi che vivono una loro vita e ognuna è diversa dalle altre, fiumane di gente che lavora, combatte, obbedisce, soffre e muore, ognuna con le sue gioie e i suoi dolori, le sue grandezze e le sue miserie. Come una immensa foresta che è fatta di tanti alberi diversi, e ogni albero è importante per formare la grande foresta, come un prato verdissimo del quale non si vedono i confini, e che pure è fatto di innumerevoli fili d’erba, e ogni filo è uno, con la sua vita e la sua morte, così sono i popoli: noi vediamo il grande prato, e sappiamo che ognuna delle esistenze che lo compongono è un mondo con le sue grandezze e le sue miserie, le sue lotte, le sue sconfitte e le sue vittorie. «Sì, io canterò le storie dei popoli. Voglio raccontarle tutte, coi loro 3 O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 Il mito greco 4 Il mito e l’epica Tersìcore è la musa della danza, che rende la vita più armoniosa e accompagna eventi lieti e tristi. Eutèrpe è la musa della musica. O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 Con la musica, Eutèrpe rallegra, emoziona e scuote gli animi dei mortali. usi e costumi, le rivoluzioni, le leggi, le conquiste. Tutte le storie della storia del mondo io voglio raccontare, perché le nuove genti le ascoltino e sappiano e si esaltino, e imparino. Imparino a vivere sempre meglio, ricordando i fatti degli antichi e i perché delle cose». Così disse Clio: all’orizzonte si videro innumerevoli ombre che passavano; non finivano mai. E Callìope e Clio, la prima e la seconda delle nove sorelle, si amarono, e cantarono molte volte insieme. Ecco, il terzo giorno nacque la terza sorella, e il quarto giorno la quarta. La terza sorella la chiamarono Tersìcore, e la quarta sorella la chiamarono Eutèrpe. Tersìcore vide quello che facevano le sue sorelle maggiori e ammirò la loro opera: poi guardò il lavoro degli uomini nel mondo. E disse: «Sì, mi piace quello che fanno le mie sorelle. Ma sono cose troppo difficili per me. Io voglio un’altra cosa. «Io voglio ballare. Inventerò tutti i balli, tanti, diversi e belli: alcuni li insegnerò ai contadini per le feste della mietitura, per quelle della vendemmia e per quelle della primavera, e altri li insegnerò ai re e alle regine e alle giovani principesse e ai principi per le cerimonie di corte. Inventerò danze solenni, per i cortei religiosi, altre vivaci, per le nozze e conviti; danze leggere per le riunioni dei giovani, e altre lente, dolenti, che accompagneranno gli eroi alla loro tomba. Tutta la vita degli uomini, dalla nascita alla morte, io l’accompagnerò con le mie danze, e sarà più armoniosa: insegnerò ai giovani a essere più belli, alle fanciulle a diventare più agili e graziose, e coi bambini farò il girotondo». Ecco parlò Eutèrpe, nata appena un giorno dopo di Tersícore. Eutèrpe disse: «Io ti amo, o Tersìcore, e mi piace stare con te. E perciò io ti accompagnerò con la musica. E con la musica dirò agli uomini quello che le parole non sanno esprimere: risveglierò i loro sentimenti più nascosti, li esalterò e li placherò, li farò fremere e piangere, darò incanti misteriosi e rapimenti ineffabili. Al suono della musica partiranno lieti per ardue imprese e gloriose; celebreranno i loro riti nuziali, che commoveranno le giovani spose fin nel profondo; e accompagneranno, lenti, i loro prodi alla tomba. «Le madri col canto culleranno i bimbi appena nati: e i bimbi sorrideranno alla vita sentendo il canto della mamma. I contadini e i re festeggeranno con la musica gli abbondanti raccolti e i lauti banchetti: con essa i soldati e le vergini accompagneranno le loro marce militari e i candidi cortei, e per essa tutto, nel mondo, diventerà più vivo, più armonioso, e misterioso e bello». Così disse e diede al mondo la musica. Mentre ella parlava, le piccole foglie della foresta e gli atomi dell’aria e le acque dei ruscelli e dei fiumi cominciarono a cantare. Fu prima un bisbiglio, poi un mormorio, poi una sinfonia piena e solenne e travolgente, che riempì la terra e il cielo, e penetrò in ogni fibra, come se una Melpòmene è la musa della tragedia, e con le sue parole definisce le caratteristiche principali di questo genere teatrale: farà piangere, ma solleciterà pensieri nuovi e profondi, emozioni intense e tumultuose. Talìa è la musa della commedia. Anche lei, come la sorella Melpòmene, indica le caratteristiche del genere: le commedie saranno allegre, faranno ridere gli spettatori e avranno un lieto fine. vita nuova si aggiungesse all’antica. Fu un incanto e un delirio, e gioia ineffabile. E Tersìcore aveva i capelli biondi con riflessi d’argento, ma Eutèrpe li aveva d’oro vivo, come se fossero fatti di raggi di sole. Il quinto giorno nacque la quinta sorella, e la chiamarono Melpòmene. Questa non somigliava per nulla alle altre, e faceva anzi contrasto con tutte. Era bruna e severa, aveva i capelli nero azzurro con riflessi rossi, di rame, e gli occhi neri e profondi: dava una impressione di tragica grandezza, e la sua vista turbava stranamente chi la vedeva. Melpòmene, appena venuta al mondo, si guardò intorno, e disse: «A me piacciono i racconti di cose terribili, quelli che fanno venire i brividi e non lasciano dormire. Mi piacerà far rappresentare queste vicende sulla scena, come se fossero vere, ma non saranno vere: e siccome saranno passate attraverso un’anima d’artista, che io avrò ispirato, così anche se faranno piangere non faranno soffrire, anzi daranno gioia: e nell’anima di chi ascolta spalancheranno profondità ignorate, pensieri nuovi, orizzonti non prima sognati. E tutti andranno nei miei teatri e ascolteranno gli attori recitare, tanto la scena sarà appassionante; e staranno lì intenti senza fiatare, tutti presi dall’azione che si svolge, finta ma vera, davanti a loro. Sul teatro gli eroi e le eroine vivranno le loro tragiche vicende e spasimeranno, diranno le loro angosce e riveleranno i sentimenti che provano, e poi moriranno: e gli spettatori fremeranno d’orrore e saranno sconvolti fin nel profondo: sconvolti eppure rapiti dalla grandezza dell’arte. Sì, questo mi piace. E vorrò intorno a me grandi poeti, attori incomparabili, che scriveranno cose profonde e belle, e più belle ancora sembreranno, quando saranno recitate sulla scena. Queste sono le cose che io farò». Così disse Melpòmene, che aveva gli occhi neri come carboni, e i capelli nero azzurro, con riflessi rossi, di sangue. E mentre Melpòmene parlava, ecco apparivano all’orizzonte bagliori sanguigni, si udivano sospiri e grida e cozzar di spade; ed ella guardava e ascoltava intenta, presa anche lei dalla sua finzione. Ma intanto era venuto il sesto giorno e la sesta sorella, ecco, era apparsa anche lei. E questa sesta sorella, che nacque il sesto giorno, non aveva affatto l’aspetto tragico, ma i suoi capelli erano castani con riflessi d’oro brunito, e i suoi occhi parevano pieni di pagliuzze d’oro. La bocca sorrideva e gli occhi ridevano. La chiamarono Talìa. E Talìa, sorridente e maliziosetta, disse: «A me le cose terribili non piacciono: oh non mi ci diverto per niente! Anche a me piacciono i fatti e le belle invenzioni rappresentate sulla scena, mi appassiona il teatro, e godrò di sentire recitare gli attori quando diranno cose finte che sembreranno vere, ma le cose tragiche io non le posso sopportare. Voglio commedie allegre, che ci sia qualche volta da piangere ma più spesso da ridere, e che tutto vada poi a finir bene. Così si resta contenti, si torna 5 O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 Il mito greco 6 Il mito e l’epica O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 Polìnnia è la musa della poesia lirica, quella che esprime sentimenti, pensieri ed emozioni dell’artista, che dà voce e forma al suo mondo interiore. Èrato è la musa della poesia d’amore, un sentimento meraviglioso come una rosa rossa, ma come la rosa ricco di spine, cioè di dolori. Le rose rosso fiamma, le spine, il bambino alato: sono tutti indizi che anticipano ciò che Èrato sta per dire. a casa tranquilli e di buon umore, si dorme bene e si vive meglio. Perciò gli artisti che io ispirerò scriveranno belle commedie divertenti, qualche volta anche satiriche e qualche volta anche serie, ma non mai una tragedia: queste commedie io le farò recitare da bravi attori comici, e la gente desidererà sempre molto di sentirle. Rideranno, mi ringrazieranno e mi applaudiranno. Sì, la commedia mi piace assai: io proteggerò i poeti che comicizzano la vita, e farò recitare quello che scrivono». Così disse Talìa, che era una fanciulla lieta e ridente. Ecco, adesso erano nate sei sorelle, ed erano tutte belle. E la settima sorella, che nacque il settimo giorno, la chiamarono Polínnia. Aveva gli occhi color di viola, pieni di pagliuzze d’argento, e i capelli di un biondo pallido pallido. Ma quando si accendeva, i capelli di Polìnnia prendevano riflessi d’oro e di fiamma, e quando era malinconica gli occhi le diventavano color d’ombra, come il cielo azzurro quando sparisce il sole. E anche Polìnnia, come le sue sorelle, si guardò intorno, a lungo. Disse: «Io guardo il mondo, e vedo tante cose. Ma poi guardo la mia anima, e ne vedo di più. Perché la mia anima è come uno specchio che riflette le cose viventi: le riflette e le moltiplica; è come un raggio che rivela cose invisibili a occhi umani, e i pensieri più profondamente nascosti. È come una corda tesa, che vibra se il vento o anche solo un sospiro la tocchi. Quello che la mia anima vede io lo dirò: quello che la mia anima sente io lo canterò. I dolori che fanno piangere e quegli altri che fanno soffrire e non si può piangere, e le gioie che rendono leggera l’anima e luminosa, e i sentimenti che ci fanno fremere e ci portano lontano come se non si fosse più noi, e le infinite vibrazioni del pensiero e dell’essere, tutte queste cose io le esprimerò con parole che saranno singhiozzi, lucide frecce, spasimi acuti, melodie cullanti, brividi esaltanti. Le esprimerò, e le farò esprimere ai poeti, ai veri poeti. Poiché la loro anima ha mille corde, vibranti come mille mondi, essi ascolteranno la loro anima, e quello che essa suggerirà essi diranno. Canteranno quello che la loro anima canta dentro, e gli uomini ascolteranno intenti». Così disse Polìnnia dalle mille voci, che aveva un’anima tesa e melodiosa come un’arpa eolia. Poi venne l’ottavo giorno, e nacque l’ottava sorella. Questa la chiamarono Èrato. E appena Èrato nacque, le fiorirono intorno innumerevoli rose, tutte rosse di fiamma, fra innumerevoli spine acute e pungenti; e un piccolo adorabile bambino alato le volò accanto sorridendo maliziosamente. Èrato si guardò intorno, guardò il bambino, sorrise e pianse. Poi disse: «Io canterò l’amore. Senza amore il mondo è freddo e deserto e morto, e l’anima vuota e sconsolata e desolata. Io canterò l’amore, luce e fuoco del mondo e dell’anima». Così disse Èrato, che aveva gli occhi dolci e ardenti, e la sua bellezza era ardente e strana. Quando ella cantava l’amore il suo fascino era Il mito greco Le muse, cioè le arti, consolano i mortali e rendono la vita più dolce e lieta. irresistibile, l’aria intorno diventava dolce e tenera e ardente e tumultuosa, tutta luce e vibrazione appassionata: lei stessa era vita e luce e ardore, e incantava e rapiva ogni essere vivente. Adesso non mancava più che la nona sorella, che era l’ultima. E mentre le altre erano nate di mattina, come Tersìcore e Eutèrpe, o quando il sole era alto nel cielo, come Callíope e Clío, o quando stava per tramontare, rosso fra rosse nubi, come Melpòmene, questa nona sorella nacque nel mezzo della notte, quando già le stelle splendevano chiare nel cielo, come fari che accennassero e chiamassero verso di loro: splendevano lucenti ed eterne, come infinite parole dell’infinito universo. E questa nona sorella, che nacque ultima, nel cuore della notte, la chiamarono Urània. Urània non guardò la terra, ma alzò gli occhi verso il cielo. E disse: «Io, Urània, non vedrò le grandezze e le miserie della terra, ma guarderò il cielo e studierò le stelle. Sì, le stelle saranno il mio regno, che è infinito e lucente e magnifico. Lontana dagli uomini, vedendo solo luci eterne, io studierò le vie degli astri e il corso delle stelle e le loro leggi, e saprò e dirò di loro cose non mai sapute, meravigliose, e della luna e del sole. Sì, io vivrò con le stelle, io, Urània». E Urània aveva i capelli color sole e luna, era più alta di tutte le sue sorelle, e i suoi occhi parevano un cielo notturno. Ed era bellissima: tutte le nove sorelle erano bellissime. E le nove sorelle, le Muse, si presero per mano, e cantarono e danzarono; e tutti accorsero a guardarle, perché l’armonia di tutte loro insieme dava beatitudine. Zeus loro padre si rallegrò per avere dato al mondo quelle belle e care figlie, perché dovunque esse apparissero la terra si allietava, ognuno dimenticava i suoi dolori e i pensieri tristi: anche le cose più tremende, quando c’erano loro, non facevano più male. Ascoltandole si scordava ogni pena, e l’anima era rapita lontana da se stessa, in un mondo ignoto e luminoso, in un’aria dolce e serena e piena di letizia. (L. Orvieto, Storie di bambini molto antichi, Milano, Mondadori, 1971) O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 Ed ecco, infine, l’ultima sorella: è Urània, musa dell’astronomia. 7 8 Il mito e l’epica Prometeo Mito greco raccontato dallo scrittore Roberto Piumini Guida alla lettura Il ruolo di benefattore di Prometeo emerge in molti antichi miti greci. O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 I miti che raccontano l’origine delle città, delle usanze e delle abitudini si chiamano “eziologici”: il mito di Prometeo appartiene a questa categoria in quanto racconta in forma simbolica la nascita della civiltà. Zeus teme che gli uomini possano progredire eccessivamente, e farsi venire la tentazione di sfidare gli dei. Il mito è una forma di narrazione anonima e popolare elaborata all’interno di società antichissime e tramandata oralmente per molti secoli. Con i racconti mitici gli uomini antichi cercarono di trovare una risposta fantastica e simbolica a quesiti grandi e complessi (ad esempio: come si è formato il mondo? chi fa sorgere il sole? quando è nato l’uomo?) per i quali non disponevano di conoscenze scientifiche e razionali. Ogni popolo, nella sua fase più antica, ha elaborato una propria mitologia, cioè un insieme di miti. Per la cultura occidentale la mitologia più familiare è quella del mondo greco. Il racconto che ti proponiamo è la rielaborazione in stile moderno dell’antico mito greco di Prometeo, benefattore dell’umanità. Fin da quando era piccolo, Prometeo aveva sentito dire da suo padre Giapeto, e dagli altri Titani1: «Non fidarti di Zeus2, Prometeo. Guarda sempre più in alto di lui, oppure più in basso». Prometeo aveva tenuto conto di quel consiglio, ma poiché a guardare più in alto di Zeus non riusciva, guardò più in basso, e vide l’uomo. Anche Prometeo era mortale, anche se di gran forza e sapienza, e gli spiaceva vedere gli uomini sbandare di qua e di là sulla terra, rudi e selvaggi, poco più che animali: era convinto che c’era del buono nell’umanità, e che bisognava aiutarla. Così cominciò ad aggirarsi per la terra, e ad insegnare agli uomini le arti della caccia e della pesca, della costruzione dei vasi e della tessitura; e insegnava loro anche le regole della vita in comune, quelle almeno che bastavano per impedire agli uomini di scannarsi a vicenda. E un po’ perché Prometeo era buon maestro, un po’ perché gli uomini sapevano imparare, ci fu tra la gente più ordine e pace, si videro cose decenti e si ascoltarono parole ben dette: insomma si cominciò a vedere e gustare la civiltà. A quel punto Zeus si infastidì. «Prometeo!» diceva apparendogli in sonno, qualche volta anche nelle veglie. «Prometeo, se gli uomini sono uomini e gli Dei sono Dei, bisognerà che ci sia qualche differenza fra loro! Non esagerare dunque con la sapienza, Prometeo...» Prometeo, senza esagerare, continuava l’opera sua: gli piaceva troppo 1. Giapeto... Titani: i Titani erano divinità antichissime. Figli di Urano e di Gea, erano stati scacciati dal loro padre, ma dopo che il più piccolo tra loro, Crono, riuscì a detronizzare Urano, presero il potere. Furono a loro volta sconfitti da Zeus, figlio di Crono, quando questi cacciò il padre. Giapeto e Crono erano fratelli, quindi Prometeo e Zeus erano cugini. 2. Zeus: nella mitologia greca era il re di tutti gli dei. Superbo, potente e permaloso, era capace di gesti di grande generosità, ma anche di estrema ferocia nei confronti di chi gli disobbediva. Il mito del diluvio, scatenato dagli dei per punire gli uomini, compare in molti racconti antichi: ad esempio, lo si trova anche nella Bibbia, e prima ancora nella mitologia sumera. Molti antichi popoli associavano alla Terra l’idea della fertilità, della maternità, della forza rigeneratrice. La scoperta del fuoco, che ha rappresentato una tappa fondamentale nella storia del progresso umano, è trattata in molti miti. Per gli antichi Greci, il fuoco era stato donato agli uomini da Prometeo contro il volere di Zeus. vedere lo sguardo degli uomini illuminarsi di nuove idee, e sentire la loro voce tentare nuove parole. Così andò per anni e anni, finché, a causa del miglioramento degli uomini, l’ira di Zeus colpì il mondo: un diluvio si scatenò, così lungo e terribile, che quasi ogni uomo morì. Non tutti, però: Deucalione, figlio di Prometeo, e Pirra, sua sposa, riuscirono a salvarsi e a continuare la specie. Il fatto è che Deucalione, buon allievo del padre, era stato il primo a saper costruire una barca robusta, e l’aveva appena finita quando il diluvio mandato da Zeus colpi il mondo: così vi montò, e con Pirra vagò per nova giorni sulla turbolenza del nuovo oceano, finche l’acqua calò e la barca approdò sul monte Parnaso3. Tutto intorno era da rifare da capo. Per fortuna, non soltanto Prometeo era dalla loro parte: anche altri Dei, affezionati agli uomini, aiutarono i due naufraghi, ed Ermes4 più di tutti. Il Dio volò sul Parnaso e disse ai due sposi: «Volete gente? Ne volete tanta? Non dovete fare altro che gettare dietro le spalle le ossa di vostra madre». «Nostra madre? Come possiamo?» chiese Pirra stupefatta, e disperata, perché quello che il Dio chiedeva non era possibile. Ma Deucalione, dopo aver meditato, disse: «Ecco cosa intendeva Ermes: la terra è nostra madre. E le ossa di lei che dobbiamo gettare, sono le pietre!» Così andarono su un’altura e gettarono dietro le spalle moltissime pietre: e dalle pietre gettate da Deucalione nascevano uomini; da quelle gettate da Pirra nascevano donne. E donne e uomini si accoppiarono, e nacquero molti bambini, così l’umanità tornava ad esistere, salvata dalla distruzione di Zeus. Quando Prometeo lo seppe ne gioì. “Però, dovremo essere più prudenti”, disse fra sé. “Non converrà rivelare agli uomini le arti e le scienze tutte in una volta: questo provocherebbe di nuovo l’ira di Zeus. Gliene darò una alla volta, lentamente, in modo che gli Dei si abituino un poco alla volta all’immagine mutante dell’uomo...” Prometeo prese a girare, e tornò ad insegnare agli uomini ciò che già aveva insegnato: ma piano piano, senza fretta, una parola alla volta, in modo che imparassero bene il sapore e masticassero a lungo il significato. Venne però un inverno molto freddo. Gli uomini sapevano coprirsi con pelli di animale o ripararsi in una grotta: ma non conoscevano il fuoco e rischiavano di morire. Non era tempo di prudenza: Prometeo salì fino all’Olimpo e chiese a Zeus di poter portare il fuoco agli uomini. 3. Parnaso: monte situato nei pressi di Delfi, al centro della Grecia. Gli antichi Greci lo avevano consacrato ad Apollo e alle Muse delle arti. 4. Ermes: figlio di Zeus e di Maia, era il messaggero degli dei e protettore dei ladri, dei viaggiatori e dei mercanti. 9 O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 Il mito greco 10 Il mito e l’epica O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 Il furbo Prometeo ha già escogitato il piano per rubare il fuoco. «Il fuoco? Ma con il fuoco si scotteranno!» tuonò Zeus e rideva terribilmente. «Si scalderanno, Zeus», disse paziente Prometeo. «E se qualcuno si scotterà, si ungerà con l’unguento e il dolore gli passerà». Ma Zeus continuava a ridere: «No, Prometeo! Non è ancora tornato il momento di restituire il fuoco agli uomini... Non vedi? Le poche capanne che hanno sono di legno, e andrebbero in fiamme! E poi, Prometeo, il fumo del fuoco sale al cielo: e il pensiero degli uomini, vedendolo, potrebbe ricominciare a salire quassù, e farsi importuno...» Invano Prometeo tentò di convincere Zeus. Prima di tornare fra gli uomini bussò al portone della grande fucina di Efesto5, il fabbro dell’Olimpo. Qui bruciava un fuoco eterno, con il quale il Dio fondeva i metalli per le sue opere stupende. «Vengo a farti una domanda, Efesto», disse Prometeo. «Falla, figlio di Climene», disse il Dio, che stava forgiando una spada per Achille6. «Dimmi, Efesto: è possibile trasportare il fuoco?» «È difficile», rispose il Dio. «E tu sai che nessuno, per volere di Zeus, lo può trasportare...» «Ma se si potesse, lo si trasporterebbe in pesanti vasi di bronzo?» chiese Prometeo tranquillamente. «Non sarebbe necessario», disse sorridendo Efesto. «Cresce sulle pendici dell’Olimpo, giù verso il mare, un giunco che ha una polpa particolare: se si fa seccare e si accende, essa brucia per lunghissimo tempo, protetta dal vento e dalla pioggia...» A Prometeo bastò: scese dall’Olimpo e raccolse uno di quei giunchi; poi lo dipinse di nero perché sembrasse un bastone da viaggio, e tornò da Efesto. «Hai finito la spada di Achille, possente Dio?» gli chiese. «Sono tornato per ammirarla, perché quando venni, qualche giorno fa, l’impugnatura era ancora grezza». Efesto, che amava l’opera sua, levò da un gran cesto la spada lucente di Achille, e tenendola per la lama nelle grandi mani callose, ne mostrò ogni ornamento a Prometeo. Prometeo, chino in avanti, ammirava ed ascoltava con attenzione le parole del Dio: ma intanto, dietro a sé, teneva la punta del finto bastone nella fornace. Quando uscì dalla fucina, un barlume di fuoco rosato brillava nel cavo del giunco: con quello Prometeo abbandonò l’Olimpo. In ogni grotta di uomini che incontrava, in ogni capanna di legno o di paglia, entrava a dare il fuoco, e a raccomandare di essere prudenti. 5. Efesto: figlio di Zeus e di sua moglie Era, Efesto era stato scagliato giù dalla vetta del monte Olimpo appena nato, a causa del suo brutto aspetto. Allevato dalle divinità marine, era diventato un provetto fabbro e, una volta riammesso tra gli altri dei, era diventato il dio dei metalli e delle fucine. 6. Achille: figlio della dea del mare Teti e del mortale Peleo, Achille è uno degli eroi più celebri della mitologia greca. Valoroso, fortissimo e invulnerabile, tranne che nel tallone, combatté per dieci anni la guerra di Troia, e proprio lì venne ucciso. L’ira di Zeus era tremenda, nessuno poteva fermarla né opporsi a essa. Anche se Ermes, in passato, aveva aiutato gli uomini insieme a Prometeo, non poteva disobbedire a Zeus: perciò escogita il piano per catturare il Titano. Così gli uomini si poterono scaldare, e passarono quell’inverno tremendo: e il fuoco rimase in loro possesso, perché lo conservavano come il bene più caro. Ed ecco che una notte, guardando il mondo dall’alto dell’Olimpo, Zeus vide un bosco bruciare. Allora radunò tutti gli Dei, e tuonò: «Chi ha portato il fuoco agli uomini?» Gli Dei si guardavano l’un l’altro e rispondevano: «Io no». «Io nemmeno». «Non me lo sarei mai sognato...» «Non sarà uscita qualche scintilla dalla tua fucina, Efesto?» domandò Zeus. «Le scintille, se anche fossero uscite, sarebbero andate in alto, e non laggiù fra gli uomini», rispose Efesto. «E io come tutti ho rispettato la tua volontà: così dissi anche a Prometeo, quando venne a farmi visita». «Cosa? Prometeo ti visitò?» fece Zeus, accigliandosi. E il Dio del fuoco raccontò ogni cosa, compresa la faccenda del giunco: e Zeus comprese come aveva potuto il fuoco arrivare fino agli uomini. Si inferocì, maltrattando Efesto e ordinandogli di restare dieci anni chiuso nella fucina, poi gridò: «Trovatemi Prometeo, quel ladro ribelle! Terribile sarà la sua punizione!» Prometeo fu cercato: ma non si trovava, perché sapendo di aver disobbedito a Zeus in modo grave, si teneva nascosto su un’isoletta del mare Egeo. «Allora, avete scovato Prometeo?» tuonava Zeus, e la sua ira, invece di diminuire con il tempo, aumentava. Finalmente Ermes ebbe l’idea giusta: mise in giro la voce, per mare e per terra, che i pescatori di Delo avevano dimenticato come si tessono le reti per prendere il pesce. Ed ecco, dopo tre mesi che quella favola girava, arriva a Delo un gran vecchione con un cappuccio, e si reca al porto, dove sono stese le reti a due metri d’altezza. E il gran vecchio va sotto le reti, e le guarda e dice: «Non mi sembra che siano così mal fatte...» Ma in quel momento le reti gli cadono addosso ed Ermes, che le ha manovrate, grida: «Certo, Prometeo! Non lasciano scappare i pesci grossi!» Così Prometeo fu consegnato all’ira di Zeus, che fu davvero tremenda. Il Dio lo incatenò su una rupe del lontano Caucaso, e diede ordine ad un’aquila di andare ogni giorno a rodergli il fegato. Per molto tempo Prometeo restò lassù, gridando nel silenzio del Caucaso al suo regolare tormento. Ogni giorno, infatti, il fegato lacerato dall’aquila tornava a formarsi... Terribile era la condanna di Zeus, e lo sarebbe stata in eterno se un 11 O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 Il mito greco 12 Il mito e l’epica giorno, passando il fortissimo Eracle7 da quelle parti, non avesse sentito le urla di Prometeo. In venti balzi possenti Eracle fu sulla rupe, e vide l’aquila che faceva il suo strazio: allora aspettò che si alzasse in volo e le staccò netta la testa con un disco di pietra. Poi prese la catena che legava Prometeo e la strappò dalla roccia come si toglie un cucchiaio dalla panna. «Ti ringrazio, Eracle», disse Prometeo mettendosi a sedere con una mano sul ventre. «Ma non temi di chiamare su di te la vendetta di Zeus?» Eracle rise, e la sua risata rimbombò tra le montagne del Caucaso. «Sai cosa mi disse, un giorno, il mio saggio maestro Chirone8?» domandò. «Che cosa ti disse?» fece Prometeo, respirando con piacere l’aria fine della montagna. «Così mi disse Chirone: “Quanto a Zeus, Eracle, ricorda di guardare sempre più in alto di lui, oppure più in basso!”» E riprese a ridere, nel gran silenzio del Caucaso. E Prometeo rideva con lui. (R. Piumini, Il circo di Zeus, © 1986, 2003, 2005 Edizioni EL, San Dorligo della Valle, Trieste) O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 7. Eracle: figlio di Zeus e di Alcmena, è probabilmente l’eroe più celebre della mitologia greca. Al suo nome sono legate le celebri “dodici fatiche”, tra cui l’uccisione del terribile leone di Nemea, cui strappò la pelle che costituì, da quel momento, il suo mantello. La liberazione di Prometeo è una delle tante imprese che gli vengono attribuite. 8. Chirone: era un centauro, creatura con corpo di cavallo e busto di uomo. Saggio e sapiente, fu il maestro di molti eroi della mitologia greca, tra i quali Eracle, Giasone e Achille. Venne ferito accidentalmente da una freccia avvelenata di Eracle che lo faceva soffrire moltissimo. Allora desiderò morire ma, essendo immortale, doveva trovare qualcuno a cui cedere l’immortalità. Prometeo si offrì e così Chirone poté trovare riposo mentre Prometeo salì sull’Olimpo insieme agli altri dei. L’epica classica 13 L’Iliade di Omero L’Iliade Che cos’è l’Iliade. L’Iliade è un poema in 24 libri (o canti) scritti in greco antico nell’VIII secolo a. C. Prende il nome da Ilo, mitico fondatore di Troia, e narra una parte della guerra che gli Achei mossero contro Troia, per conquistarla e distruggerla. Insieme all’Odissea, è un testo fondamentale per la letteratura occidentale, preso a modello e considerato fonte inesauribile di ispirazione da poeti e scrittori del passato e contemporanei. la causa della guerra di Troia fu Elena, la donna più bella del mondo. Figlia di Zeus e di una mortale, ella era diventata moglie di Menelao re di Sparta; tutti i principi Achei avevano giurato di combattere contro chiunque avesse cercato di sedurla e allontanarla dal marito. Purtroppo, però, ciò avvenne a causa di una disputa tra gli dei. Durante il banchetto nuziale tra la dea del mare Teti e il mortale Peleo, la dea della discordia gettò sul tavolo una mela con la scritta “alla più bella”. Ne nacque un litigio fra tre dee bellissime: Era, regina dell’Olimpo; Atena, dea dell’intelligenza; Afrodite, dea della bellezza e della fertilità, ognuna delle quali desiderava ricevere per sé la mela. Per allontanare il litigio dall’Olimpo, Zeus stabilì che giudice della gara sarebbe stato Paride, giovane principe troiano, il quale scelse Afrodite poiché gli aveva promesso che avrebbe ricevuto, in cambio, la donna più bella del mondo: Elena, per l’appunto. Così, quando Paride fu inviato dal re Priamo suo padre alla corte di Sparta, per svolgere una missione diplomatica, Afrodite incantò Elena e la indusse ad abbandonare la casa e il marito per seguire il giovane principe a Troia. La guerra di Troia nella storia. L’esistenza storica della città di Troia è stata provata dall’archeologo dilettante Einrich Schliemann, che alla fine dell’Ottocento ne individuò e portò alla luce i resti nei pressi di Hissarlik, una località dell’odierna Turchia. Grazie a questa straordinaria scoperta, e ad altre successive, gli studiosi hanno potuto dare una collocazione storica alla guerra narrata nell’Iliade: essa si svolse intorno al 1250 a. C. per ragioni commerciali. Troia, infatti, si trovava sullo stretto dei Dardanelli, una posizione strategica eccezionale per controllare i traffici e gli scambi tra Asia ed Europa; gli Achei conquistarono e distrussero la città per impadronirsi delle sue ricchezze e per sottrarle il monopolio dei commerci con l’Oriente. La guerra di Troia nel mito. Secondo il mito, invece, Omero. O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 L’autore Omero è uno dei poeti più celebri della storia della letteratura, ma è anche uno dei più misteriosi. Antiche leggende hanno tramandato l’immagine di un vecchio cantore cieco, vissuto tra il IX e l’VIII secolo a. C, che vagava da una città all’altra della Grecia raccontando le sue magnifiche storie. La tradizione gli attribuisce due grandi poemi, Iliade e Odissea, ma in realtà non si hanno documenti storici che provano la sua esistenza. L’assenza di notizie certe ha provocato un dibattito noto come “questione omerica”. Gli studiosi si domandano, infatti, se questo poeta sia realmente esistito, e se abbia davvero scritto, e quando, i due poemi. Il dibattito dura tuttora e, nonostante rimangano ancora dubbi, gli studiosi concordano ormai su un punto: chiunque sia l’autore dell’Iliade e dell’Odissea, lo ha fatto raccogliendo e trascrivendo miti che, prima di essere messi per iscritto, erano stati tramandati per secoli in forma orale. O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 14 Il mito e l’epica L’offesa era gravissima. Menelao chiamò a raccolta i principi achei e ricordò loro l’antico giuramento, cui nessuno si sottrasse. Agamennone, fratello di Menelao e re di Micene, si mise alla testa di un esercito e di una flotta come mai si erano visti prima: così armati, gli Achei navigarono verso Troia e la misero sotto assedio. La guerra durò dieci anni, durante i quali molti eroi achei e troiani vi persero la vita senza che nessuno riuscisse a prevalere. Anche gli dei presero parte alla guerra, favorendo ora l’una ora l’altra parte. Alla fine, Troia fu presa con l’inganno: l’eroe acheo Odisseo, noto per la sua astuzia, fece costruire un gigantesco cavallo, al cui interno si nascosero i più valorosi tra i guerrieri achei. Il cavallo venne posto davanti alle mura di Troia, gli Achei sgombrarono il loro accampamento e finsero di essersene andati. In realtà, si appostarono dietro un’isola e attesero che i Troiani, felici per la fine della guerra, conducessero in città il cavallo come offerta votiva alla dea Atena. Durante la notte, i guerrieri nascosti nel cavallo uscirono, lanciarono segnali ai loro compagni sulle navi e tutti insieme saccheggiarono e incendiarono la città, uccisero gli uomini, presero come schiave le donne. La trama dell’Iliade. Il poema narra la storia di cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno della guerra di Troia. L’argomento centrale della narrazione è l’ira di Achille, il più forte guerriero acheo, invulnerabile in tutto il corpo tranne che nel tallone. Dopo un furioso litigio con Agamennone, Achille abbandona il campo di battaglia giurando di non prendervi più parte. Le sorti della guerra volgono quindi in favore dei Troiani, che ricevono anche l’aiuto di Zeus. Il re degli dei, infatti, ha promesso alla madre di Achille, la dea Teti, di far pagare ad Agamennone e a tutti gli Achei l’offesa fatta al figlio. Durante le operazioni militari, gli Achei subiscono gravi perdite soprattutto a causa di Ettore, il più valoroso tra i principi troiani. Patroclo, amico fraterno di Achille, lo prega di ritornare a combattere, ma poiché questi rifiuta gli chiede in prestito l’armatura splendente, forgiata dal dio Efesto. Quando Patroclo appare sul campo i Troiani fuggono, temendo che Achille sia tornato, ma Ettore lo affronta in duello e grazie all’aiuto del dio Apollo lo uccide, spogliandolo delle armi. Il dolore di Achille è immenso, la sua rabbia tremenda: l’eroe giura che la sua vendetta sarà sanguinosa e terribile. Achille riprende dunque il combattimento, seminando panico e strage senza sosta; come una belva assetata di sangue, cerca Ettore in ogni dove. Infine, i due restano soli a fronteggiarsi. In un primo momento Ettore è preso dal panico e si dà alla fuga, ma poi si ferma e affronta il nemico, ben sapendo che la sua ora è giunta, perché anche gli dei lo hanno abbandonato. Dopo aver ucciso Ettore, Achille ne lega il corpo al suo carro da guerra e lo trascina per il campo, facendone scempio. Poi si ritira nell’accampamento acheo, dove hanno inizio i riti e i giochi funebri in onore di Patroclo. Il re Priamo, però, non può sopportare che Ettore, suo figlio prediletto, resti privo di sepoltura. Perciò, con l’aiuto degli dei, si reca nella tenda di Achille offrendo all’eroe un enorme riscatto. Colpito dal coraggio del vecchio re, e impietosito dalla sua debolezza, Achille accetta il riscatto, restituisce il corpo e offre una tregua di dodici giorni. L’Iliade si conclude con i funerali dell’eroe troiano. Il Sole 24ore S.p.A. 2006 Menelao e Patroclo, copia romana dell’originale greco della metà del III secolo circa. L’epica classica 15 Priamo e Achille (Iliade, Libro XXIV, vv. 477-590) Priamo si umilia di fronte ad Achille, che ha ucciso molti suoi figli, pur di riavere il corpo di Ettore. Achille si stupisce nel vedere Priamo, come chi vede un omicida che, fuggito dalla sua terra, chiede ospitalità e perdono a un potente straniero. 480 485 Il vecchio re tenta di impietosire Achille ricordandogli il padre Peleo. 490 Ettore era il figlio più amato perché meglio di ogni altro difendeva Troia e il suo popolo dagli Achei. Secondo la religione greca, non seppellire i morti era sacrilegio: perciò Priamo invita Achille a rispettare le leggi divine. 495 500 505 Il discorso di Priamo ha colpito nel segno: ripensando al padre, Achille si commuove. 510 Il grande Priamo entrò non visto, ed avvicinatosi abbracciò le ginocchia di Achille, baciò le sue mani tremende, omicide, che a lui tanti figli avevano ucciso. Come quando grave follia colpisce un uomo, che al suo paese uccide qualcuno ed emigra in terra straniera, in casa d’un ricco, e chi lo vede prova stupore, così Achille ebbe un sussulto, quando vide Priamo simile a un dio; anche gli altri1 stupirono, si guardarono tra loro. Priamo, in atto di supplice2, gli rivolse questo discorso: «Ricordati del padre tuo, Achille pari agli dei, come me avanti negli anni, sulla soglia triste della vecchiaia: forse anche a lui danno guai i popoli intorno accerchiandolo, e non c’è nessuno a stornare da lui la rovina. Eppure tuo padre, sapendo che tu sei vivo, gioisce nell’animo suo, e spera di giorno in giorno di vedere suo figlio tornare da Troia; infelice davvero sono io, che nella vasta Troia ho generato figli meravigliosi, e non me ne resta nessuno. Ne avevo cinquanta, quando arrivarono i figli degli Achei: diciannove m’erano nati tutti da uno stesso ventre, gli altri me li partorivano donne diverse nella mia casa. Alla maggior parte Ares violento ha fiaccato i ginocchi; e quello che per me era unico, che salvava la città e la gente, tu proprio adesso l’hai ucciso, mentre combatteva per la patria, Ettore: ora vengo per lui fino alle navi degli Achei a riscattarlo da te, e porto un compenso ricchissimo. Su, Achille, rispetta gli dei ed abbi pietà di me, nel ricordo di tuo padre: ancora più degno di pietà sono io, ho sopportato quello che al mondo nessun altro mortale, di portare la mano alla bocca dell’uccisore di mio figlio». Disse così, ed in lui stimolò il desiderio di piangere il padre: allora afferrò la sua mano e scansò dolcemente il vecchio. Immersi entrambi nel ricordo, l’uno per Ettore massacratore piangeva a dirotto prostrato ai piedi di Achille, 1. gli altri: nella tenda di Achille vi erano altri compagni d’arme. 2. supplice: in questo momento, Priamo è costretto a umiliarsi e a supplicare Achille, e pertanto gli si presenta chino a terra. O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 Guida alla lettura L’episodio che ti presentiamo si colloca nella parte finale del poema. Il vecchio re Priamo si reca nella tenda di Achille per implorare la restituzione del corpo di Ettore. 16 Il mito e l’epica Achille loda il coraggio di Priamo e gli offre il proprio conforto con alcune argomentazioni: • i mortali condividono un medesimo destino di sofferenza; • gli dei distribuiscono gioie e disgrazie: la felicità di avere figli, ma anche la disgrazia di perderli in guerra; • davvero sfortunato è chi riceve solo disgrazie dagli dei. 515 520 525 530 535 Achille sa di essere destinato a morire a Troia, senza rivedere suo padre. E così, infatti, sarà: il mito racconta che prima dell’incendio di Troia Achille viene ucciso da una freccia di Paride. 540 O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 545 Achille conclude il suo discorso invitando Priamo a non disperarsi più, dal momento che questo non farà tornare in vita Ettore. Priamo incalza Achille insistendo con la sua richiesta. 550 mentre Achille piangeva suo padre, ma a tratti anche Patroclo: il loro lamento echeggiava per la casa. Ma quando il divino Achille fu sazio di pianto, gli svanì quella voglia dal corpo e dal cuore, s’alzò di scatto dal seggio, sollevò per la mano il vecchio, mosso a pietà dalla sua testa bianca, dal suo mento bianco, e, articolando la voce, gli diceva parole che volano: «Infelice, molti affanni davvero hai patito in cuor tuo. Come hai osato recarti da solo alle navi degli Achei, al cospetto dell’uomo che numerosi e gagliardi figli t’ha ucciso? Hai un cuore forte come l’acciaio! Ma su, riposati su questo seggio, ed anche se afflitti, lasciamo comunque dormire nel cuore i dolori; dal lamento che ci raggela non viene un guadagno: gli dei stabilirono questo per gl’infelici mortali, vivere in mezzo agli affanni; loro invece sono sereni. Due giare sono piantate sulla soglia di Zeus, piene di doni che egli largisce, l’una di mali, l’altra di beni: l’uomo cui dà mescolando Zeus che gode del fulmine, s’imbatte ora in un male, altra volta in un bene; ma colui cui dà soltanto sciagure, lo fa miserabile, una fame tremenda lo spinge su tutta la terra divina, se ne va disprezzato sia dagli uomini che dagli dei. Così gli dei anche a Peleo dettero splendidi doni fin dalla nascita: primeggiava fra tutti gli uomini per felicità e ricchezza, regnava sopra i Mirmidoni, e a lui che era un mortale dettero in moglie una dea. Ma il dio anche a lui diede un male, perché mancò in casa sua una discendenza di figli eredi al potere, ma generò un solo figlio destinato a morte precoce; né l’accompagno nella vecchiaia, perché lontano dalla mia patria me ne sto qui a Troia, a te e ai tuoi figli portando sciagura. Sentiamo dire che anche tu, vecchio, eri felice in passato: fra quanti racchiude da un lato Lesbo, terra di Macare, dall’altro lato la Frigia e l’Ellesponto infinito3, dicono, vecchio, che tu primeggiassi per ricchezza e per figli. Ma da quando i Celesti t’hanno mandato questa rovina, ci sono intorno alla tua città soltanto battaglie e massacri. Sii forte, non abbandonarti troppo al dolore in cuor tuo: non ne trarrai un guadagno a disperarti per il tuo figliolo, né potrai farlo rivivere, piuttosto ne avrai altro male!». Gli rispondeva allora il vecchio Priamo simile a un dio: «Non invitarmi a sedere, alunno di Zeus, fino a quando Ettore sta nella tenda privo di esequie, restituiscilo invece 3. Lesbo... infinito: Lesbo è un’isola prossima alle coste dell’Asia Minore, Macare ne era il leggendario re; la Frigia è la regione dell’Asia Minore in cui si trovava Troia; l’Ellesponto, infine, è l’odierno Stretto dei Dardanelli. L’epica classica Ora Achille si è irritato, e risponde male a Priamo, dicendogli che: • sua madre Teti gli aveva già imposto di restituire il corpo di Ettore; • il vecchio re è stato aiutato da un dio, non si è certo introdotto nella tenda di Achille da solo. 560 565 570 La durezza di Achille spaventa Priamo, che ora tace. 575 580 Achille ordina che il corpo di Ettore venga ricomposto, ma fa allontanare Priamo nel timore che, a quella vista, il re vendicarsi. In segno di estremo omaggio al nemico sconfitto, è lo stesso Achille a depositare il corpo di Ettore sul carro. 585 590 al più presto, ch’io lo riveda con i miei occhi; tu accetta il grande riscatto che porto: possa goderne, e ritornare nella tua patria, dato che prima di tutto m’hai lasciato in vita, a vedere la luce del sole». A lui, guardandolo storto, disse Achille, veloce nei piedi: «Non continuare, vecchio, a irritarmi: io stesso penso a liberare Ettore, è venuta da me portavoce di Zeus la madre che m’ha partorito, la figlia del vecchio del mare. Anche su te vedo chiaro, Priamo, tu non m’inganni, che un dio t’ha scortato alle rapide navi degli Achei. Nessuno, nemmeno nel fiore della giovinezza, oserebbe venire qui al campo: non sfuggirebbe alle guardie, né facilmente potrebbe spostare la spranga della mia porta. Smetti dunque di tormentarmi l’anima con i dolori, potrei, vecchio, non tollerarti più nella tenda, benché supplice, e venir meno al comando di Zeus». Disse così, il vecchio ebbe paura e obbedì all’ordine suo. Il Pelide4 balzò come un leone fuori la porta della sua tenda, non da solo, anche i due scudieri uscirono con lui, l’eroe Automedonte ed Alcimo, che Achille stimava più degli altri compagni, dopo la morte di Patroclo, i quali sciolsero allora muli e cavalli dal giogo, fecero entrare l’araldo, il banditore del vecchio, lo fecero sedere; poi dal carro ben lucidato scaricarono l’immenso riscatto del corpo di Ettore. Ma vi lasciarono dentro due mantelli e un chitone5 ben lavorato, per restituire il morto dopo averlo vestito. Chiamate poi le ancelle, ordinò di lavarlo e di ungerlo portatolo altrove, perché Priamo non vedesse il figlio, se mai non riuscisse a trattenere lo sdegno nel cuore adirato, alla vista del figlio, e ad Achille montasse la furia, e l’ammazzasse, venendo meno al comando di Zeus. Quando poi le donne lo ebbero lavato ed unto di olio, e gli misero indosso il chitone ed un bel mantello, Achille stesso l’alzò, l’adagiò sopra la bara, i compagni quindi lo posero sopra il carro ben lucidato. (Omero, Iliade, trad. it. di G. Cerri, Milano, Rizzoli, 1996) 4. Pelide: patronimico di Achille, figlio di Peleo. 5. chitone: corta tunica senza maniche, fermate sulle spalle da fibbie. O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 555 17 18 Il mito e l’epica L’Odissea di Omero L’autore Su Omero, vedi le notizie riportate nell’episodio Priamo e Achille tratto dall’Iliade. L’Odissea Che cos’è l’Odissea. L’Odissea è un poema in 24 libri scritto in greco antico intorno all’VIII secolo a. C., ma forse risalente a molto tempo prima. L’opera prende il nome da Odisseo (Ulisse per i Latini), l’eroe della mitologia greca celebre per il suo valore e per la sua astuzia. Insieme all’Iliade, è un testo fondamentale per la letteratura occidentale, preso a modello e considerato fonte inesauribile di ispirazione da poeti e scrittori del passato e contemporanei. La trama. Odisseo, re di Itaca e valoroso guerriero acheo, si imbarca per tornare nella sua patria dopo aver combattuto per dieci anni a Troia. La guerra è stata vinta anche per merito suo, poiché a lui si deve l’invenzione del gigantesco cavallo grazie al quale, con l’inganno, i guerrieri achei sono riusciti a espugnare la città. Il viaggio di ritorno si rivela però lunghissimo, pieno di pericoli e ostacolato dall’ira del dio Nettuno, a cui Odisseo aveva accecato il figlio, il ciclope Polifemo. Nel corso delle sue peregrinazioni nel Mediterraneo, l’eroe incontra molti personaggi magici o mostruosi: da alcuni di essi riceve aiuto, da altri invece deve difendersi. Ogni incontro rappresenta una prova che l’eroe deve superare utilizzando le sue doti di astuzia, intelligenza e coraggio. Infine, dopo dieci anni di viaggio e venti di assenza, Odisseo sbarca finalmente sulle coste di Itaca, solo e misero come un povero viandante. Data la sua lunghissima assenza, a Itaca tutti lo credono morto. Solo sua moglie Penelope continua ad aspettarlo, respingendo le offerte di matrimonio dei Proci, giovani e arroganti principi che spadroneggiano nella reggia e ne consumano le ricchezze. L’unico conforto di Penelope è il giovane figlio Telemaco, che era appena un bimbo quando il padre era partito per Troia, e che come lei ne attende il ritorno. La dea Atena, che protegge Odisseo, lo avvisa del pericolo rappresentato dai Proci e gli suggerisce di non recarsi subito alla reggia, ma di incontrare Telemaco in un luogo appartato, progettando con lui la riscossa. D’accordo con il figlio, dunque, Odisseo si traveste da mendicante e, così camuffato, si presenta alla reggia, dove i Proci lo insultano e lo deridono. Per poco, però. Su consiglio di Atena, infatti, Penelope indice una gara: chi riuscirà a tendere l’arco di Odisseo e a scagliare una freccia, diventerà il suo sposo. Mentre i Proci falliscono la gara, il mendicante, con sorpresa di tutti, riesce nell’impresa. A quel punto, Odisseo svela la sua identità e con l’aiuto di Telemaco uccide i Proci. L’eroe può così riprendere il suo posto nella reggia a fianco della sua sposa e, grazie a un nuovo intervento di Atena, stipula la pace con i parenti dei Proci. Il poema si conclude con la ritrovata pace tra Odisseo e il suo popolo. Terra dei Isola di Ciclopi Circe O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 Terra dei Ciconi Averno Terra dei Lestrigoni Isola dei Feaci Isola di Ogigia Isola del Sole Sirene, Scilla e Cariddi TROIA ITACA Terra dei Lotofagi I viaggi di Odisseo Graffito s.r.l. - Cusano Milanino (MI) L’epica classica 19 Le Sirene (Odissea, Libro XII, vv. 143-200) Odisseo riprende il mare dopo la sosta di un anno nell’isola di Circe. Secondo gli antichi Greci ogni forza naturale era comandata da un dio: in questo caso, Circe evoca il vento che favorisce la navigazione. 145 150 155 Per prima cosa, Circe ha raccomandato a Odisseo di badare al pericolo rappresentato dalle Sirene. Tuttavia, la dea ha suggerito a Odisseo di ascoltarne il canto, proteggendosi con uno stratagemma. 160 165 E lei1 si avviò per l’isola2, chiara fra le dee: io invece tornai sulla nave, ordinai ai compagni di imbarcarsi anche loro e di sciogliere a poppa le gomene3. Subito essi salirono e presero posto agli scalmi4, e sedendo in fila battevano l’acqua canuta5 coi remi. Poi, dietro la nave dalla prora turchina Circe dai riccioli belli, dea tremenda con voce umana, ci inviò il vento propizio che gonfia la vela, valente compagno. Dopo che disponemmo i singoli attrezzi dentro la nave, sedemmo: la governavano il vento e il pilota. Allora col cuore angosciato io dissi ai compagni: «O cari, non devono saperle uno o due soli le predizioni che Circe mi disse, chiara fra le dee, ma io voglio dirvele, perché conosciutele o noi moriamo o scampiamo, schivando la morte e il destino. Anzitutto ci esorta a fuggire il canto e il prato fiorito6 delle divine Sirene. Esortava che ne udissi io solo la voce. Legatemi dunque in un nodo difficile, perché lì resti saldo, ritto sulla scassa7 dell’albero: ad esso sian strette le funi. Se vi scongiuro e comando di sciogliermi, allora dovete legarmi con funi più numerose». Dicendo così io spiegavo ogni cosa ai compagni: intanto la solida nave rapidamente arrivò all’isola delle Sirene: la spingeva un vento propizio. Subito dopo il vento cessò, successe una calma senza bava di vento, un dio assopiva le onde. 1. lei: la maga Circe. 2. l’isola: Odisseo si trova ancora sull’isola di Circe. 3. gomene: cavi di canapa usati per ormeggiare le navi. Odisseo, quindi, è pronto per partire. 4. scalmi: parti di legno o di metallo su cui poggia o viene legato il remo. 5. acqua canuta: acqua bianca di spuma per gli spruzzi sollevati dai remi. 6. prato fiorito: l’isola delle Sirene si presenta invitante come il loro canto. 7. scassa: l’alloggio dell’albero, situato nella parte inferiore dello scafo della nave. O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 Guida alla lettura Una parte delle avventure di Odisseo è narrata in prima persona dall’eroe. Tra queste, vi è l’incontro con le Sirene, creature marine dotate di un canto magico e ipnotico che spinge qualunque marinaio lo ascolti a gettarsi in mare. Odisseo è stato avvisato dalla maga Circe, che lo ha ospitato per un anno sulla sua isola, del pericolo rappresentato dalle Sirene. La maga ha suggerito a Odisseo di ascoltarne il canto, raccomandandogli però alcune precauzioni essenziali per la sua salvezza. Odisseo segue fedelmente le istruzioni di Circe, dimostrandosi molto prudente: in questo modo, riesce a soddisfare la curiosità di ascoltare il canto delle Sirene senza mettere in pericolo la propria vita o quella dei compagni. 20 Il mito e l’epica 170 Odisseo si dispone ad ascoltare il canto delle Sirene prendendo molte precauzioni: la cera per turare le orecchie dei suoi marinai, robuste funi per legare se stesso all’albero maestro. 175 180 Le Sirene sanno qual è il punto debole di ogni uomo: per Odisseo è il desiderio di conoscenza, e perciò lo seducono con la promessa che grazie a loro potrà sapere «più cose». 185 190 Lo stratagemma di Odisseo funziona. 195 Secondo alcuni studiosi, le Sirene rappresenterebbero i molti pericoli della navigazione. 200 I compagni, levatisi e piegate le vele, le deposero nella nave ben cava e postisi ai remi imbiancavano l’acqua con gli abeti piallati8. Io invece, tagliato col bronzo aguzzo un grande disco di cera a pezzetti, li premevo con le mani robuste. Subito la cera cedette, sollecitata dalla gran forza e dal raggio del Sole, del signore Iperionide9: la spalmai sulle orecchie a tutti i compagni, uno a uno. Essi poi mi legarono per le mani ed i piedi ritto sulla scassa dell’albero, ad esso eran strette le funi, e sedutisi battevano l’acqua canuta coi remi. Ma appena distammo quanto basta per sentire chi grida10, benché noi corressimo, non sfuggì ad esse la nave veloce che s’appressava e intonarono un limpido canto: «Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei, e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce. Nessuno mai è passato di qui con la nera nave senza ascoltare dalla nostra bocca il suono di miele, ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose. Perché conosciamo le pene che nella Troade vasta soffrirono Argivi11 e Troiani per volontà degli dèi; conosciamo quello che accade sulla terra ferace12». Così dissero, cantando con bella voce: e il mio cuore voleva ascoltare e ordinai ai compagni di sciogliermi, facendo segno cogli occhi: ma essi curvi remavano. Subito Perimede ed Euriloco alzatisi mi legarono e strinsero di più con le funi. Ma quando le superarono e più non s’udiva la voce delle Sirene né il loro canto, subito i fedeli compagni la cera levarono che gli spalmai sulle orecchie, e dalle funi mi sciolsero. (Omero, Odissea, trad. it. di G. A. Privitera, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, 1981) O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 8. abeti piallati: i remi. 9. Iperionide: epiteto attribuito al dio Sole. 10. distammo... chi grida: appena fummo a portata di voce dell’isola delle Sirene. 11. Argivi: altro nome con cui nei poemi omerici vengono chiamati i Greci. 12. ferace: fertile. L’epica classica 21 L’Eneide di Virgilio L’autore Publio Virgilio Marone nacque ad Andes, nei pressi di Mantova, nel 70 a. C. In gioventù si trasferì a Roma per studiare e, in seguito, vi si stabilì definitivamente. Nella grande città, a quel tempo capitale di un vasto impero, entrò a far parte di un gruppo di intellettuali e artisti protetti da Mecenate, amico dell’imperatore Augusto. Grazie al favore di Mecenate e di Augusto, Virgilio poté dedicarsi pienamente all’arte. Scrisse così le poesie delle Bucoliche, ambientate in campagna, e il poemetto Georgiche, sempre di argomento campestre. Iniziò il suo capolavoro, l’Eneide, su richiesta di Augusto, che desiderava celebrare la potenza e la forza di Roma in un grande poema epico. Virgilio lavorò all’opera per dieci anni, ma non riuscì a terminarla a causa di una grave malattia che lo condusse alla morte nel 19 a. C. Il poeta aveva ordinato di distruggere il manoscritto in caso di una sua morte prematura, ma l’imperatore Augusto ordinò ugualmente la sua pubblicazione. L’Eneide Che cos’è l’Eneide. L’Eneide è un poema in dodici libri scritto in latino. Per la sua composizione, Virgilio si ispirò ai più grandi poemi della cultura greca, l’Iliade e l’Odissea, che per i Romani erano esempi di grandissimo valore letterario. L’opera prende il nome da Enea, l’eroe troiano che secondo antiche leggende avrebbe dato origine alla stirpe dei Romani. La trama dell’opera. Enea, principe troiano, è riuscito a sfuggire all’incendio e al saccheggio della sua città. Insieme con il vecchio padre Anchise, con il figlioletto Ascanio e con altri Troiani sopravvissuti, prende la via del mare. Il Fato (o destino), infatti, gli ha prescritto di trovare una terra dove fondare una nuova città destinata a regnare sul mondo intero. Il viaggio di Enea è lungo, costellato di pericoli e ostacolato da Giunone, regina degli dei, che odia i Troiani e teme la stirpe dei discendenti di Enea. Tra le varie tappe del viaggio vi è Cartagine, patria della regina Didone, che accoglie i profughi e si innamora di Enea. Anche se l’eroe ricambia questo sentimento, il suo Fato non gli permette di restare. Perciò l’eroe riprende la navigazione, mentre Didone, disperata, si suicida. I Troiani approdano finalmente sulle coste del Lazio, la meta prescritta dal Fato. Enea viene accolto benevolmente dal re dei Latini, che gli promette in sposa la figlia Lavinia, ma Turno, re dei Rutuli e promesso sposo della fanciulla, dichiara guerra ai nuovi arrivati. Anche i Latini, istigati da Giunone, prendono le armi contro i Troiani. Divampa così un conflitto nel quale perdono la vita molti valorosi soldati di entrambi gli schieramenti. Infine, Enea e Turno si affrontano in un duello decisivo cui assistono gli dei: mentre Giove placa l’odio di Giunone contro i Troiani e le impone di non tentare più di ostacolare i voleri del Fato, Enea sconfigge e uccide Turno, ponendo fine alla guerra. Foce del TEVERE TRACIA Polidoro GAETA Tempio di Minerva CUMA Sibilla Capo PALINURO TROIA EPIRO Eleno Monte ERICE Terra dei Ciclopi CARTAGINE Didone DELO Oracolo di Apollo STROFADI Arpie CRETA pestilenza I viaggi di Enea Graffito s.r.l. - Cusano Milanino (MI) O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 DREPANO Anchise 22 Il mito e l’epica Eurialo e Niso (Eneide, Libro IX, vv. 367-449) Guida alla lettura L’episodio si colloca nell’ambito della guerra fra i Troiani e le popolazioni del Lazio, i Latini e i Rutuli. Durante una pausa nei combattimenti, Enea lascia l’accampamento per cercare aiuti presso altri popoli della zona, ma i Rutuli approfittano della sua assenza per attaccare. Eurialo e Niso, due valorosi Troiani legati da profonda amicizia, tentano una sortita notturna per avvisare Enea del pericolo. I due attraversano il campo nemico e, approfittando dell’oscurità, fanno strage di Rutuli. All’alba, carichi di armi e di bottino, si rimettono in marcia, ma vengono avvistati da un reparto della cavalleria nemica. Ecco che cosa accade in quel momento. L’episodio inizia con una descrizione della situazione complessiva. 370 Eurialo e Niso si stanno allontanando dal campo nemico, ma lo splendente elmo di Eurialo, illuminato dalla luna, emana un bagliore che viene avvistato dai cavalieri nemici. I cavalieri latini conoscono bene il territorio e bloccano le possibili vie di fuga dei due Troiani. 375 380 O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 385 Non appena si accorge dell’assenza di Eurialo, Niso torna sui suoi passi per cercarlo. 390 Intanto, mentre il grosso dell’esercito indugia1 schierato in campo, cavalieri mandati in avanscoperta dalla città latina si recavano da Turno per portare le risposte del re: trecento, tutti armati di scudo e guidati da Volcente2. Ormai vicini al campo, già sotto le mura, scorgono da lontano i due piegare verso un sentiero a sinistra: aveva tradito l’incauto3 Eurialo il bagliore dell’elmo, luccicante nell’ombra della notte ai raggi della luna. Non passa inosservato. Dalla sua schiera Volcente grida: «Fermi, uomini; che fate per strada in armi? chi siete? dove andate?» Non rispondono, affidandosi alla notte, e nel bosco tentano in fretta la fuga. In ogni luogo, dove a loro è noto un bivio, i cavalieri fanno barriera e di guardie circondano qualsiasi varco. Era la selva vasta, irta di cespugli e d’elci nere4 e d’ogni parte assiepata di densi rovi; solo qualche sentiero biancheggiava fra l’intrico dei passaggi. L’oscurità dei rami e il peso del bottino impacciano Eurialo e il timore l’inganna sulla retta via. Niso s’allontana. Imprudentemente5 oltrepassa i nemici e i luoghi che dal nome d’Alba6 furono chiamati Albani (allora a pascoli incolti li possedeva il re Latino), quando s’arresta, volgendosi invano a cercare l’amico: «Eurialo, ahimè, dove mai t’ho lasciato? dove ti cerco?» Rifacendo tutto il tortuoso cammino dell’ingannevole selva7 e scrutando le orme dei suoi passi, 1. indugia: attende. 2. Volcente: generale latino, guida il reparto di cavalleria. 3. incauto: poco prudente. Eurialo non aveva pensato che l’elmo splendente avrebbe potuto essere visto da lontano. 4. elci nere: querce scure. 5. imprudentemente: senza prudenza, perché non si accerta che l’amico sia con lui. 6. Alba: località presso il campo troiano che il re Latino utilizzava come pascolo per il bestiame. 7. ingannevole selva: il bosco è «ingannevole» perché buio e fitto di vegetazione. 395 La situazione è drammatica, ma Niso non esita. Invocando l’aiuto di Diana si prepara ad aiutare l’amico, ben sapendo che i nemici sono troppo numerosi per poter essere sopraffatti. Con un formidabile tiro del suo arco Niso uccide un soldato nemico. La morte del soldato viene descritta con crudo realismo: in questo modo, il poeta esprime il suo orrore nei confronti della violenza generata dalla guerra. 400 405 410 415 420 Volcente non riesce a capire da dove provengano le frecce. Rabbioso, rivolge la sua furia contro Eurialo. 425 Niso esce dal nascon diglio in un tentativo estremo di salvare l’amico. 430 Eurialo muore, trafitto dalla spada di Volcente. lo percorre a ritroso, errando8 tra le macchie silenziose. Ode i cavalli, ode lo strepito e i richiami degli inseguitori: non passa molto tempo, quando alle orecchie gli giunge un grido e vede Eurialo sopraffatto ormai, per l’insidia dei luoghi e della notte, per lo sconcerto dell’assalto improvviso, travolto da tutta la schiera, mentre invano tenta di difendersi. Che fare? con che forze, con quali armi potrà mai salvare il giovane? o dovrà gettarsi tra le spade pronto a morire, affrettando nel sangue una fine gloriosa? Ritratto come un lampo il braccio per vibrare l’asta, in alto volge lo sguardo alla luna e così prega: «O dea9, che sei ornamento degli astri e custode dei boschi, o figlia di Latona, assistimi propizia in questa impresa. Se mai Irtaco, il padre mio, per me ai tuoi altari portò doni ed io li accrebbi con le mie cacce, appendendoli alla volta o fissandoli ai frontoni del tuo tempio10, fa’ ch’io sgomini quella schiera, guida il volo dei miei strali11». Detto questo, con la forza di tutto il corpo scaglia il ferro: l’asta volando fende le ombre della notte e colpisce la schiena di Sulmone, che volgeva il dorso; lì s’infrange e con le schegge del legno gli trapassa il cuore. Stramazza esangue, vomitando sangue a caldi fiotti dal petto, e scuote i fianchi in lunghe convulsioni. Scrutano12 tutt’intorno. E Niso, imbaldanzito, levandolo sopra l’orecchio scaglia un altro dardo. Mentre s’affannano13, stridendo l’asta attraversa le tempie di Tago e arroventata s’arresta nel cervello trafitto. S’agita come una furia Volcente, ma non v’è luogo in cui scorga l’autore del colpo o dove possa sfogare la sua rabbia. «Pagherai intanto tu, col tuo caldo sangue lo scotto per entrambi», grida e, spada in pugno, si getta contro Eurialo. Sbigottito, come un folle allora Niso, che più a lungo non può celarsi nelle tenebre e sopportare simile dolore, lancia un urlo. «Io, io, sono io che ho colpito, contro di me rivolgete il ferro, o Rùtuli! la colpa è mia; nulla ha osato costui, né l’avrebbe potuto (chiamo a testimoni cielo e stelle); ha solo amato troppo l’infelice amico suo». Così gridava, ma la spada spinta a tutta forza trafigge a Eurialo il costato, rompendo il suo candido petto. Cade riverso nella morte, scorre il sangue per il bel corpo e, reclinando, il capo s’abbandona sulla spalla: 8. errando: vagando senza una direzione precisa. 9. dea: Diana, figlia di Latona e sorella di Apollo, protettrice della caccia, dei boschi, degli arcieri. 10. appendendoli... tempio: poiché Diana era la dea della caccia, era usanza presso i Greci e i Romani offrire una parte della selvaggina cacciata al tempio della dea. 11. strali: frecce. 12. Scrutano: i cavalieri rutuli si guardano intorno per capire da dove sia partito il colpo. 13. s’affannano: i cavalieri si agitano, cercando di individuare il luogo da cui è partita la freccia. 23 O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 Il mito greco 24 Il mito e l’epica Virgilio descrive la morte di Eurialo con una delicata e commovente similitudine che paragona il giovane soldato a un fiore abbattuto dalla pioggia. Con questi ultimi versi il poeta celebra la gloria dei due giovani eroi e assegna alla sua poesia l’importante funzione di tramandare nei secoli il loro ricordo. 435 440 445 come un fiore purpureo14 che, reciso dall’aratro, langue morendo, o come i papaveri che chinano il capo sul collo stanco, quando la pioggia li opprime. Niso allora si getta nella mischia e cerca in mezzo a tutti solo Volcente, solo di Volcente si dà cura. I nemici gli si stringono intorno, tentano con ogni mezzo di respingerlo, ma lui imperterrito li incalza, ruota come un fulmine la spada, finché in gola del Rùtulo che grida non la immerge, togliendo, ormai morente, la vita al nemico. Ma poi, trafitto, sull’amico esanime si getta e nella placida morte trova alfine riposo. Fortunati entrambi! Se qualche potere possiedono i miei versi, mai verrà giorno che alla memoria del tempo vi sottragga, finché i discendenti di Enea la rupe immobile del Campidoglio domineranno15 e il padre dei Romani16 avrà impero sul mondo. (Virgilio, Eneide, trad. it. di M. Ramous, Venezia, Marsilio, 1998) O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010 14. purpureo: di colore rosso acceso, come il sangue. 15. finché... domineranno: fino a che i Romani, discendenti di Enea, dimoreranno sul colle del Campidoglio. Oggi il colle è sede del Quirinale, la residenza del Pre- sidente della Repubblica. 16. padre dei Romani: il Senato, la più importante istituzione della Roma antica.