Il mito
e l’epica
Il mito greco
Laura Orvieto l La nascita delle Muse*
Roberto Piumini l Prometeo
Vai 왘왘왘
Vai 왘왘왘
L’epica classica
Iliade l Priamo e Achille
Odissea l Le Sirene
Eneide l Eurialo e Niso
Vai 왘왘왘
Vai 왘왘왘
Vai 왘왘왘
* L’Editore non è riuscito a individuare gli aventi diritto, ed è
disponibile alla corresponsione dell’equo compenso di norma.
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Il mito e l’epica
La nascita delle Muse
O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
Mito greco raccontato
dalla scrittrice Laura Orvieto
Guida alla lettura
Armonia era una dea,
figlia di Ares e di Afrodite.
I protagonisti dei miti greci sono divinità ed eroi.
Gli antichi Greci adoravano molti dei. Essi venivano immaginati con
sembianze umane perfette: nella maggior parte dei casi, erano bellissimi
ed eternamente giovani; tutti avevano poteri straordinari e si nutrivano solo
di nettare e ambrosia, alimenti divini proibiti ai mortali. Oltre all’aspetto,
gli dei assomigliavano agli uomini anche per il carattere: potevano essere,
infatti, saggi e generosi, ma anche litigiosi e vendicativi. Talvolta litigi
e vendette si consumavano solo tra divinità, ma in altri casi coinvolgevano
gli uomini, con tremende conseguenze per questi ultimi.
Gli dei incarnavano elementi e forze della Natura, come il mare, il fulmine e il
terremoto; sentimenti, come l’amore o la discordia; virtù, come l’intelligenza
e l’astuzia; abilità, come la lavorazione dei metalli e la medicina.
Le divinità più importanti erano dodici e risiedevano sull’Olimpo, un monte della
Tessaglia dove, secondo il mito, si trovava la loro dimora. Tra questi dei maggiori
vi erano Zeus, re dell’Olimpo, padrone del fulmine e supremo giudice; Era, sua
sorella e moglie, protettrice dei matrimoni e della maternità; Apollo, dio del
Sole, delle arti e della medicina; sua sorella Artemide, dea della Luna, della
caccia e dei boschi; Ares, dio della guerra; Afrodite, dea della bellezza e della
fertilità; Atena, dea dell’intelligenza, della strategia bellica e dei mestieri.
Oltre agli dei dell’Olimpo, ve ne erano molti altri, come ad esempio
Poseidone, fratello di Zeus, dio del mare e dei terremoti, e Ade, anch’egli
fratello di Zeus, padrone dell’Oltretomba.
Gli dei erano variamente imparentati tra loro; molti erano figli che Zeus
aveva concepito con altre dee, suscitando la gelosia di Era. Ad esempio,
Apollo e Artemide erano figli di Zeus e della dea Latona, che Era perseguitò
durante la gravidanza e il parto.
Quando invece Zeus si univa con donne mortali, nascevano eroi o donne dal
destino grandioso e tragico, come ad esempio Eracle, Perseo e la bellissima
Elena.
Nonostante i loro grandi poteri, anche gli dei erano sottomessi a una forza
superiore: il Fato, o destino, a cui nessuno, mortale o immortale, poteva
sottrarsi.
Nei miti più antichi, le Muse erano cantatrici divine che con le loro soavi
melodie rallegravano gli dei dell’Olimpo, ma erano anche le dee del Pensiero
in ogni sua forma: saggezza, storia, matematica, astronomia, eloquenza.
Successivamente a ciascuna di esse venne attribuita un’arte specifica, ed è
a quest’ultima tradizione che si è ispirata la scrittrice Laura Orvieto per la sua
riscrittura del mito.
Erano nove sorelle, figlie di Zeus. La loro madre si chiamava Armonia.
Occhi celesti e bruni e neri; capelli biondissimi quasi d’argento, e d’oro
vivo, e castani, e rosso cupo, e nero azzurro; persone snelle, agili, slan-
Come la maggior parte
delle divinità greche, le
Muse erano bellissime e
conservavano in eterno
la loro giovinezza.
Gli dei nascevano già
adulti e dotati di poteri
soprannaturali.
Gli uomini che Callìope
osserva sono gli eroi, che
secondo la mitologia greca
abitarono il mondo in
epoche remote.
Calliope è la musa della
poesia epica, che celebra e rende eterne le
imprese degli eroi.
Anche Clio guarda il
mondo in cui vivono i
mortali, ma vede altre
cose: le vicende dei
popoli, le storie della
gente comune.
Clio è la musa della
storia, che insegna agli
uomini a ricordare i fatti
del passato, a comprenderne le ragioni e a
imparare da essi, per
vivere sempre meglio.
ciate, sottili. Nessuna somigliava all’altra, e tutte erano tanto belle che
non si poteva dire quale lo fosse di più.
La prima che nacque, il primo giorno, fu Callìope.
E la seconda che nacque, il secondo giorno, fu Clio.
Le chiamarono così, con nomi greci, perché le nove fanciulle erano
tutte greche.
Callìope, appena nata, si guardò intorno per vedere il mondo.
Vide nel mondo la gran vita perenne; e uomini che pensavano, combattevano, inventavano cose nuove, soffrivano, morivano per dare a sé
e agli altri più luce, più grandezza, più ricchezza, più spazio e più gioia.
Combattevano per vincere i mostri dell’acqua, della terra e dell’aria, e
il caos che continuamente minacciava di distruggerli. Questa lotta sarebbe
durata all’infinito: Calliope lo vedeva e lo sapeva.
Guardò e guardò, coi suoi grandi occhi azzurri. E poi disse:
«Io canterò le storie degli eroi. Di quelli che affrontano i mostri dell’acqua, della terra e dell’aria, di quelli che combattono e vincono per
una causa, di quelli che muoiono per dare al mondo più luce, più gioia,
più altezza e più giustizia. In poesia le canterò, e insegnerò ai poeti a
cantarle, perché non voglio che le grandi imprese degli eroi, e i loro
nomi gloriosi, vadano perduti come il fumo nell’aria o la schiuma nell’acqua. Voglio che i nipoti possano ricordare gli avi quando da secoli
saranno morti, e si esaltino nelle loro imprese, e i migliori e più forti
siano incitati a mettersi in gara con loro, come se fossero vivi. Così essi
saranno grandi luci, come fari che illuminano le vite e le vie degli uomini
nuovi nei nuovi cammini. Canterò le grandi imprese, e insegnerò ai
poeti a cantarle».
Così disse Callìope. E all’orizzonte, laggiù, lontano, apparvero e passarono grandi ombre maestose, che irraggiavano bagliori luminosi, scintillii d’armi, fosforescenze di pensiero. Erano le ombre degli eroi, che
Callìope vedeva: i passati, i presenti, i futuri: e tutti eran come se fossero sempre vivi nel tempo e nello spazio.
E Clio, la seconda sorella, guardò intorno ella pure, coi suoi grandi
occhi color pervinca. Guardò intorno a lungo, pensosa. E poi disse:
«Ma quante cose, quante cose io vedo nel mondo, oltre alle imprese
degli eroi! Vedo le madri che allevano con pena e con gioia i loro piccini, popoli interi che vivono una loro vita e ognuna è diversa dalle altre,
fiumane di gente che lavora, combatte, obbedisce, soffre e muore, ognuna
con le sue gioie e i suoi dolori, le sue grandezze e le sue miserie. Come
una immensa foresta che è fatta di tanti alberi diversi, e ogni albero è
importante per formare la grande foresta, come un prato verdissimo
del quale non si vedono i confini, e che pure è fatto di innumerevoli fili
d’erba, e ogni filo è uno, con la sua vita e la sua morte, così sono i popoli:
noi vediamo il grande prato, e sappiamo che ognuna delle esistenze che
lo compongono è un mondo con le sue grandezze e le sue miserie, le
sue lotte, le sue sconfitte e le sue vittorie.
«Sì, io canterò le storie dei popoli. Voglio raccontarle tutte, coi loro
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O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
Il mito greco
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Il mito e l’epica
Tersìcore è la musa della
danza, che rende la vita
più armoniosa e accompagna eventi lieti e
tristi.
Eutèrpe è la musa della
musica.
O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
Con la musica, Eutèrpe
rallegra, emoziona e
scuote gli animi dei mortali.
usi e costumi, le rivoluzioni, le leggi, le conquiste. Tutte le storie della
storia del mondo io voglio raccontare, perché le nuove genti le ascoltino e sappiano e si esaltino, e imparino. Imparino a vivere sempre
meglio, ricordando i fatti degli antichi e i perché delle cose».
Così disse Clio: all’orizzonte si videro innumerevoli ombre che passavano; non finivano mai. E Callìope e Clio, la prima e la seconda delle
nove sorelle, si amarono, e cantarono molte volte insieme.
Ecco, il terzo giorno nacque la terza sorella, e il quarto giorno la
quarta. La terza sorella la chiamarono Tersìcore, e la quarta sorella la
chiamarono Eutèrpe. Tersìcore vide quello che facevano le sue sorelle
maggiori e ammirò la loro opera: poi guardò il lavoro degli uomini nel
mondo. E disse:
«Sì, mi piace quello che fanno le mie sorelle. Ma sono cose troppo
difficili per me. Io voglio un’altra cosa.
«Io voglio ballare. Inventerò tutti i balli, tanti, diversi e belli: alcuni
li insegnerò ai contadini per le feste della mietitura, per quelle della
vendemmia e per quelle della primavera, e altri li insegnerò ai re e
alle regine e alle giovani principesse e ai principi per le cerimonie di
corte. Inventerò danze solenni, per i cortei religiosi, altre vivaci, per
le nozze e conviti; danze leggere per le riunioni dei giovani, e altre
lente, dolenti, che accompagneranno gli eroi alla loro tomba. Tutta
la vita degli uomini, dalla nascita alla morte, io l’accompagnerò con
le mie danze, e sarà più armoniosa: insegnerò ai giovani a essere più
belli, alle fanciulle a diventare più agili e graziose, e coi bambini farò
il girotondo».
Ecco parlò Eutèrpe, nata appena un giorno dopo di Tersícore. Eutèrpe
disse:
«Io ti amo, o Tersìcore, e mi piace stare con te. E perciò io ti accompagnerò con la musica. E con la musica dirò agli uomini quello che le
parole non sanno esprimere: risveglierò i loro sentimenti più nascosti,
li esalterò e li placherò, li farò fremere e piangere, darò incanti misteriosi e rapimenti ineffabili. Al suono della musica partiranno lieti per
ardue imprese e gloriose; celebreranno i loro riti nuziali, che commoveranno le giovani spose fin nel profondo; e accompagneranno, lenti, i
loro prodi alla tomba.
«Le madri col canto culleranno i bimbi appena nati: e i bimbi sorrideranno alla vita sentendo il canto della mamma. I contadini e i re
festeggeranno con la musica gli abbondanti raccolti e i lauti banchetti:
con essa i soldati e le vergini accompagneranno le loro marce militari
e i candidi cortei, e per essa tutto, nel mondo, diventerà più vivo, più
armonioso, e misterioso e bello».
Così disse e diede al mondo la musica.
Mentre ella parlava, le piccole foglie della foresta e gli atomi dell’aria
e le acque dei ruscelli e dei fiumi cominciarono a cantare. Fu prima un
bisbiglio, poi un mormorio, poi una sinfonia piena e solenne e travolgente, che riempì la terra e il cielo, e penetrò in ogni fibra, come se una
Melpòmene è la musa
della tragedia, e con le
sue parole definisce le
caratteristiche principali
di questo genere teatrale: farà piangere, ma
solleciterà pensieri nuovi e profondi, emozioni
intense e tumultuose.
Talìa è la musa della
commedia. Anche lei,
come la sorella Melpòmene, indica le caratteristiche del genere: le
commedie saranno allegre, faranno ridere gli
spettatori e avranno un
lieto fine.
vita nuova si aggiungesse all’antica. Fu un incanto e un delirio, e gioia
ineffabile.
E Tersìcore aveva i capelli biondi con riflessi d’argento, ma Eutèrpe
li aveva d’oro vivo, come se fossero fatti di raggi di sole.
Il quinto giorno nacque la quinta sorella, e la chiamarono Melpòmene. Questa non somigliava per nulla alle altre, e faceva anzi contrasto con tutte.
Era bruna e severa, aveva i capelli nero azzurro con riflessi rossi, di
rame, e gli occhi neri e profondi: dava una impressione di tragica grandezza, e la sua vista turbava stranamente chi la vedeva.
Melpòmene, appena venuta al mondo, si guardò intorno, e disse:
«A me piacciono i racconti di cose terribili, quelli che fanno venire
i brividi e non lasciano dormire. Mi piacerà far rappresentare queste
vicende sulla scena, come se fossero vere, ma non saranno vere: e siccome saranno passate attraverso un’anima d’artista, che io avrò ispirato, così anche se faranno piangere non faranno soffrire, anzi daranno
gioia: e nell’anima di chi ascolta spalancheranno profondità ignorate,
pensieri nuovi, orizzonti non prima sognati. E tutti andranno nei miei
teatri e ascolteranno gli attori recitare, tanto la scena sarà appassionante; e staranno lì intenti senza fiatare, tutti presi dall’azione che si
svolge, finta ma vera, davanti a loro. Sul teatro gli eroi e le eroine vivranno
le loro tragiche vicende e spasimeranno, diranno le loro angosce e riveleranno i sentimenti che provano, e poi moriranno: e gli spettatori fremeranno d’orrore e saranno sconvolti fin nel profondo: sconvolti eppure
rapiti dalla grandezza dell’arte. Sì, questo mi piace. E vorrò intorno a
me grandi poeti, attori incomparabili, che scriveranno cose profonde e
belle, e più belle ancora sembreranno, quando saranno recitate sulla
scena. Queste sono le cose che io farò».
Così disse Melpòmene, che aveva gli occhi neri come carboni, e i
capelli nero azzurro, con riflessi rossi, di sangue.
E mentre Melpòmene parlava, ecco apparivano all’orizzonte bagliori
sanguigni, si udivano sospiri e grida e cozzar di spade; ed ella guardava
e ascoltava intenta, presa anche lei dalla sua finzione.
Ma intanto era venuto il sesto giorno e la sesta sorella, ecco, era
apparsa anche lei.
E questa sesta sorella, che nacque il sesto giorno, non aveva affatto
l’aspetto tragico, ma i suoi capelli erano castani con riflessi d’oro brunito, e i suoi occhi parevano pieni di pagliuzze d’oro. La bocca sorrideva e gli occhi ridevano. La chiamarono Talìa.
E Talìa, sorridente e maliziosetta, disse: «A me le cose terribili non
piacciono: oh non mi ci diverto per niente! Anche a me piacciono i fatti
e le belle invenzioni rappresentate sulla scena, mi appassiona il teatro,
e godrò di sentire recitare gli attori quando diranno cose finte che sembreranno vere, ma le cose tragiche io non le posso sopportare. Voglio
commedie allegre, che ci sia qualche volta da piangere ma più spesso
da ridere, e che tutto vada poi a finir bene. Così si resta contenti, si torna
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O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
Il mito greco
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Il mito e l’epica
O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
Polìnnia è la musa della
poesia lirica, quella che
esprime sentimenti, pensieri ed emozioni dell’artista, che dà voce e
forma al suo mondo interiore.
Èrato è la musa della
poesia d’amore, un sentimento meraviglioso
come una rosa rossa, ma
come la rosa ricco di
spine, cioè di dolori.
Le rose rosso fiamma, le
spine, il bambino alato:
sono tutti indizi che
anticipano ciò che Èrato
sta per dire.
a casa tranquilli e di buon umore, si dorme bene e si vive meglio. Perciò
gli artisti che io ispirerò scriveranno belle commedie divertenti, qualche
volta anche satiriche e qualche volta anche serie, ma non mai una tragedia: queste commedie io le farò recitare da bravi attori comici, e la
gente desidererà sempre molto di sentirle. Rideranno, mi ringrazieranno e mi applaudiranno. Sì, la commedia mi piace assai: io proteggerò i poeti che comicizzano la vita, e farò recitare quello che scrivono».
Così disse Talìa, che era una fanciulla lieta e ridente.
Ecco, adesso erano nate sei sorelle, ed erano tutte belle.
E la settima sorella, che nacque il settimo giorno, la chiamarono
Polínnia.
Aveva gli occhi color di viola, pieni di pagliuzze d’argento, e i capelli
di un biondo pallido pallido. Ma quando si accendeva, i capelli di Polìnnia
prendevano riflessi d’oro e di fiamma, e quando era malinconica gli
occhi le diventavano color d’ombra, come il cielo azzurro quando sparisce il sole.
E anche Polìnnia, come le sue sorelle, si guardò intorno, a lungo.
Disse: «Io guardo il mondo, e vedo tante cose. Ma poi guardo la mia
anima, e ne vedo di più. Perché la mia anima è come uno specchio che
riflette le cose viventi: le riflette e le moltiplica; è come un raggio che
rivela cose invisibili a occhi umani, e i pensieri più profondamente
nascosti. È come una corda tesa, che vibra se il vento o anche solo un
sospiro la tocchi. Quello che la mia anima vede io lo dirò: quello che la
mia anima sente io lo canterò. I dolori che fanno piangere e quegli altri
che fanno soffrire e non si può piangere, e le gioie che rendono leggera
l’anima e luminosa, e i sentimenti che ci fanno fremere e ci portano lontano come se non si fosse più noi, e le infinite vibrazioni del pensiero e
dell’essere, tutte queste cose io le esprimerò con parole che saranno singhiozzi, lucide frecce, spasimi acuti, melodie cullanti, brividi esaltanti.
Le esprimerò, e le farò esprimere ai poeti, ai veri poeti. Poiché la loro
anima ha mille corde, vibranti come mille mondi, essi ascolteranno la
loro anima, e quello che essa suggerirà essi diranno. Canteranno quello
che la loro anima canta dentro, e gli uomini ascolteranno intenti».
Così disse Polìnnia dalle mille voci, che aveva un’anima tesa e melodiosa come un’arpa eolia.
Poi venne l’ottavo giorno, e nacque l’ottava sorella. Questa la chiamarono Èrato.
E appena Èrato nacque, le fiorirono intorno innumerevoli rose, tutte
rosse di fiamma, fra innumerevoli spine acute e pungenti; e un piccolo
adorabile bambino alato le volò accanto sorridendo maliziosamente.
Èrato si guardò intorno, guardò il bambino, sorrise e pianse. Poi disse:
«Io canterò l’amore. Senza amore il mondo è freddo e deserto e
morto, e l’anima vuota e sconsolata e desolata. Io canterò l’amore, luce
e fuoco del mondo e dell’anima».
Così disse Èrato, che aveva gli occhi dolci e ardenti, e la sua bellezza
era ardente e strana. Quando ella cantava l’amore il suo fascino era
Il mito greco
Le muse, cioè le arti,
consolano i mortali e
rendono la vita più dolce
e lieta.
irresistibile, l’aria intorno diventava dolce e tenera e ardente e tumultuosa, tutta luce e vibrazione appassionata: lei stessa era vita e luce e
ardore, e incantava e rapiva ogni essere vivente.
Adesso non mancava più che la nona sorella, che era l’ultima. E
mentre le altre erano nate di mattina, come Tersìcore e Eutèrpe, o
quando il sole era alto nel cielo, come Callíope e Clío, o quando stava
per tramontare, rosso fra rosse nubi, come Melpòmene, questa nona
sorella nacque nel mezzo della notte, quando già le stelle splendevano
chiare nel cielo, come fari che accennassero e chiamassero verso di loro:
splendevano lucenti ed eterne, come infinite parole dell’infinito universo. E questa nona sorella, che nacque ultima, nel cuore della notte,
la chiamarono Urània.
Urània non guardò la terra, ma alzò gli occhi verso il cielo.
E disse: «Io, Urània, non vedrò le grandezze e le miserie della terra,
ma guarderò il cielo e studierò le stelle. Sì, le stelle saranno il mio regno,
che è infinito e lucente e magnifico. Lontana dagli uomini, vedendo solo
luci eterne, io studierò le vie degli astri e il corso delle stelle e le loro
leggi, e saprò e dirò di loro cose non mai sapute, meravigliose, e della
luna e del sole. Sì, io vivrò con le stelle, io, Urània».
E Urània aveva i capelli color sole e luna, era più alta di tutte le sue
sorelle, e i suoi occhi parevano un cielo notturno.
Ed era bellissima: tutte le nove sorelle erano bellissime.
E le nove sorelle, le Muse, si presero per mano, e cantarono e danzarono; e tutti accorsero a guardarle, perché l’armonia di tutte loro
insieme dava beatitudine.
Zeus loro padre si rallegrò per avere dato al mondo quelle belle e
care figlie, perché dovunque esse apparissero la terra si allietava, ognuno
dimenticava i suoi dolori e i pensieri tristi: anche le cose più tremende,
quando c’erano loro, non facevano più male. Ascoltandole si scordava
ogni pena, e l’anima era rapita lontana da se stessa, in un mondo ignoto
e luminoso, in un’aria dolce e serena e piena di letizia.
(L. Orvieto, Storie di bambini molto antichi, Milano, Mondadori, 1971)
O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
Ed ecco, infine, l’ultima
sorella: è Urània, musa
dell’astronomia.
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Il mito e l’epica
Prometeo
Mito greco raccontato
dallo scrittore Roberto Piumini
Guida alla lettura
Il ruolo di benefattore
di Prometeo emerge in
molti antichi miti greci.
O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
I miti che raccontano
l’origine delle città, delle
usanze e delle abitudini
si chiamano “eziologici”:
il mito di Prometeo appartiene a questa categoria in quanto racconta
in forma simbolica la
nascita della civiltà.
Zeus teme che gli uomini
possano progredire eccessivamente, e farsi venire la tentazione di sfidare gli dei.
Il mito è una forma di narrazione anonima e popolare elaborata all’interno
di società antichissime e tramandata oralmente per molti secoli.
Con i racconti mitici gli uomini antichi cercarono di trovare una risposta
fantastica e simbolica a quesiti grandi e complessi (ad esempio: come si è
formato il mondo? chi fa sorgere il sole? quando è nato l’uomo?) per i quali
non disponevano di conoscenze scientifiche e razionali.
Ogni popolo, nella sua fase più antica, ha elaborato una propria mitologia,
cioè un insieme di miti. Per la cultura occidentale la mitologia più familiare
è quella del mondo greco.
Il racconto che ti proponiamo è la rielaborazione in stile moderno dell’antico
mito greco di Prometeo, benefattore dell’umanità.
Fin da quando era piccolo, Prometeo aveva sentito dire da suo padre
Giapeto, e dagli altri Titani1:
«Non fidarti di Zeus2, Prometeo. Guarda sempre più in alto di lui,
oppure più in basso».
Prometeo aveva tenuto conto di quel consiglio, ma poiché a guardare più in alto di Zeus non riusciva, guardò più in basso, e vide l’uomo.
Anche Prometeo era mortale, anche se di gran forza e sapienza, e
gli spiaceva vedere gli uomini sbandare di qua e di là sulla terra, rudi e
selvaggi, poco più che animali: era convinto che c’era del buono nell’umanità, e che bisognava aiutarla.
Così cominciò ad aggirarsi per la terra, e ad insegnare agli uomini
le arti della caccia e della pesca, della costruzione dei vasi e della tessitura; e insegnava loro anche le regole della vita in comune, quelle almeno
che bastavano per impedire agli uomini di scannarsi a vicenda. E un
po’ perché Prometeo era buon maestro, un po’ perché gli uomini sapevano imparare, ci fu tra la gente più ordine e pace, si videro cose decenti
e si ascoltarono parole ben dette: insomma si cominciò a vedere e gustare
la civiltà.
A quel punto Zeus si infastidì.
«Prometeo!» diceva apparendogli in sonno, qualche volta anche nelle
veglie. «Prometeo, se gli uomini sono uomini e gli Dei sono Dei, bisognerà che ci sia qualche differenza fra loro! Non esagerare dunque con
la sapienza, Prometeo...»
Prometeo, senza esagerare, continuava l’opera sua: gli piaceva troppo
1. Giapeto... Titani: i Titani erano divinità antichissime. Figli di Urano e di Gea,
erano stati scacciati dal loro padre, ma
dopo che il più piccolo tra loro, Crono,
riuscì a detronizzare Urano, presero il
potere. Furono a loro volta sconfitti da
Zeus, figlio di Crono, quando questi
cacciò il padre. Giapeto e Crono erano
fratelli, quindi Prometeo e Zeus erano
cugini.
2. Zeus: nella mitologia greca era il re di
tutti gli dei. Superbo, potente e permaloso, era capace di gesti di grande generosità, ma anche di estrema ferocia nei
confronti di chi gli disobbediva.
Il mito del diluvio, scatenato dagli dei per
punire gli uomini, compare in molti racconti
antichi: ad esempio, lo
si trova anche nella
Bibbia, e prima ancora
nella mitologia sumera.
Molti antichi popoli
associavano alla Terra
l’idea della fertilità,
della maternità, della
forza rigeneratrice.
La scoperta del fuoco,
che ha rappresentato
una tappa fondamentale
nella storia del progresso umano, è trattata
in molti miti. Per gli
antichi Greci, il fuoco era
stato donato agli uomini
da Prometeo contro il
volere di Zeus.
vedere lo sguardo degli uomini illuminarsi di nuove idee, e sentire la
loro voce tentare nuove parole.
Così andò per anni e anni, finché, a causa del miglioramento degli
uomini, l’ira di Zeus colpì il mondo: un diluvio si scatenò, così lungo e
terribile, che quasi ogni uomo morì.
Non tutti, però: Deucalione, figlio di Prometeo, e Pirra, sua sposa,
riuscirono a salvarsi e a continuare la specie. Il fatto è che Deucalione,
buon allievo del padre, era stato il primo a saper costruire una barca
robusta, e l’aveva appena finita quando il diluvio mandato da Zeus colpi
il mondo: così vi montò, e con Pirra vagò per nova giorni sulla turbolenza del nuovo oceano, finche l’acqua calò e la barca approdò sul monte
Parnaso3.
Tutto intorno era da rifare da capo. Per fortuna, non soltanto Prometeo era dalla loro parte: anche altri Dei, affezionati agli uomini, aiutarono i due naufraghi, ed Ermes4 più di tutti. Il Dio volò sul Parnaso
e disse ai due sposi:
«Volete gente? Ne volete tanta? Non dovete fare altro che gettare
dietro le spalle le ossa di vostra madre».
«Nostra madre? Come possiamo?» chiese Pirra stupefatta, e disperata, perché quello che il Dio chiedeva non era possibile.
Ma Deucalione, dopo aver meditato, disse:
«Ecco cosa intendeva Ermes: la terra è nostra madre. E le ossa di lei
che dobbiamo gettare, sono le pietre!»
Così andarono su un’altura e gettarono dietro le spalle moltissime
pietre: e dalle pietre gettate da Deucalione nascevano uomini; da quelle
gettate da Pirra nascevano donne. E donne e uomini si accoppiarono,
e nacquero molti bambini, così l’umanità tornava ad esistere, salvata
dalla distruzione di Zeus.
Quando Prometeo lo seppe ne gioì.
“Però, dovremo essere più prudenti”, disse fra sé. “Non converrà
rivelare agli uomini le arti e le scienze tutte in una volta: questo provocherebbe di nuovo l’ira di Zeus. Gliene darò una alla volta, lentamente,
in modo che gli Dei si abituino un poco alla volta all’immagine mutante
dell’uomo...”
Prometeo prese a girare, e tornò ad insegnare agli uomini ciò che già
aveva insegnato: ma piano piano, senza fretta, una parola alla volta, in
modo che imparassero bene il sapore e masticassero a lungo il significato.
Venne però un inverno molto freddo. Gli uomini sapevano coprirsi
con pelli di animale o ripararsi in una grotta: ma non conoscevano il
fuoco e rischiavano di morire.
Non era tempo di prudenza: Prometeo salì fino all’Olimpo e chiese
a Zeus di poter portare il fuoco agli uomini.
3. Parnaso: monte situato nei pressi di Delfi, al centro della
Grecia. Gli antichi Greci lo avevano consacrato ad Apollo e alle
Muse delle arti.
4. Ermes: figlio di Zeus e di Maia, era il messaggero degli dei e
protettore dei ladri, dei viaggiatori e dei mercanti.
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O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
Il mito greco
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Il mito e l’epica
O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
Il furbo Prometeo ha già
escogitato il piano per
rubare il fuoco.
«Il fuoco? Ma con il fuoco si scotteranno!» tuonò Zeus e rideva terribilmente.
«Si scalderanno, Zeus», disse paziente Prometeo. «E se qualcuno si
scotterà, si ungerà con l’unguento e il dolore gli passerà».
Ma Zeus continuava a ridere:
«No, Prometeo! Non è ancora tornato il momento di restituire il
fuoco agli uomini... Non vedi? Le poche capanne che hanno sono di
legno, e andrebbero in fiamme! E poi, Prometeo, il fumo del fuoco sale
al cielo: e il pensiero degli uomini, vedendolo, potrebbe ricominciare a
salire quassù, e farsi importuno...»
Invano Prometeo tentò di convincere Zeus. Prima di tornare fra gli
uomini bussò al portone della grande fucina di Efesto5, il fabbro dell’Olimpo. Qui bruciava un fuoco eterno, con il quale il Dio fondeva i
metalli per le sue opere stupende.
«Vengo a farti una domanda, Efesto», disse Prometeo.
«Falla, figlio di Climene», disse il Dio, che stava forgiando una spada
per Achille6.
«Dimmi, Efesto: è possibile trasportare il fuoco?»
«È difficile», rispose il Dio. «E tu sai che nessuno, per volere di Zeus,
lo può trasportare...»
«Ma se si potesse, lo si trasporterebbe in pesanti vasi di bronzo?»
chiese Prometeo tranquillamente.
«Non sarebbe necessario», disse sorridendo Efesto. «Cresce sulle pendici dell’Olimpo, giù verso il mare, un giunco che ha una polpa particolare: se si fa seccare e si accende, essa brucia per lunghissimo tempo,
protetta dal vento e dalla pioggia...»
A Prometeo bastò: scese dall’Olimpo e raccolse uno di quei giunchi;
poi lo dipinse di nero perché sembrasse un bastone da viaggio, e tornò
da Efesto.
«Hai finito la spada di Achille, possente Dio?» gli chiese. «Sono tornato per ammirarla, perché quando venni, qualche giorno fa, l’impugnatura era ancora grezza».
Efesto, che amava l’opera sua, levò da un gran cesto la spada lucente
di Achille, e tenendola per la lama nelle grandi mani callose, ne mostrò
ogni ornamento a Prometeo.
Prometeo, chino in avanti, ammirava ed ascoltava con attenzione le
parole del Dio: ma intanto, dietro a sé, teneva la punta del finto bastone
nella fornace.
Quando uscì dalla fucina, un barlume di fuoco rosato brillava nel
cavo del giunco: con quello Prometeo abbandonò l’Olimpo. In ogni
grotta di uomini che incontrava, in ogni capanna di legno o di paglia,
entrava a dare il fuoco, e a raccomandare di essere prudenti.
5. Efesto: figlio di Zeus e di sua moglie
Era, Efesto era stato scagliato giù dalla
vetta del monte Olimpo appena nato, a
causa del suo brutto aspetto. Allevato
dalle divinità marine, era diventato un
provetto fabbro e, una volta riammesso
tra gli altri dei, era diventato il dio dei
metalli e delle fucine.
6. Achille: figlio della dea del mare Teti
e del mortale Peleo, Achille è uno degli
eroi più celebri della mitologia greca.
Valoroso, fortissimo e invulnerabile,
tranne che nel tallone, combatté per
dieci anni la guerra di Troia, e proprio lì
venne ucciso.
L’ira di Zeus era tremenda, nessuno poteva
fermarla né opporsi a
essa.
Anche se Ermes, in passato, aveva aiutato gli
uomini insieme a Prometeo, non poteva disobbedire a Zeus: perciò
escogita il piano per catturare il Titano.
Così gli uomini si poterono scaldare, e passarono quell’inverno tremendo: e il fuoco rimase in loro possesso, perché lo conservavano come
il bene più caro.
Ed ecco che una notte, guardando il mondo dall’alto dell’Olimpo,
Zeus vide un bosco bruciare.
Allora radunò tutti gli Dei, e tuonò:
«Chi ha portato il fuoco agli uomini?»
Gli Dei si guardavano l’un l’altro e rispondevano:
«Io no».
«Io nemmeno».
«Non me lo sarei mai sognato...»
«Non sarà uscita qualche scintilla dalla tua fucina, Efesto?» domandò
Zeus.
«Le scintille, se anche fossero uscite, sarebbero andate in alto, e non
laggiù fra gli uomini», rispose Efesto. «E io come tutti ho rispettato la
tua volontà: così dissi anche a Prometeo, quando venne a farmi visita».
«Cosa? Prometeo ti visitò?» fece Zeus, accigliandosi.
E il Dio del fuoco raccontò ogni cosa, compresa la faccenda del
giunco: e Zeus comprese come aveva potuto il fuoco arrivare fino agli
uomini.
Si inferocì, maltrattando Efesto e ordinandogli di restare dieci anni
chiuso nella fucina, poi gridò:
«Trovatemi Prometeo, quel ladro ribelle! Terribile sarà la sua punizione!»
Prometeo fu cercato: ma non si trovava, perché sapendo di aver disobbedito a Zeus in modo grave, si teneva nascosto su un’isoletta del mare
Egeo.
«Allora, avete scovato Prometeo?» tuonava Zeus, e la sua ira, invece
di diminuire con il tempo, aumentava.
Finalmente Ermes ebbe l’idea giusta: mise in giro la voce, per mare
e per terra, che i pescatori di Delo avevano dimenticato come si tessono
le reti per prendere il pesce.
Ed ecco, dopo tre mesi che quella favola girava, arriva a Delo un
gran vecchione con un cappuccio, e si reca al porto, dove sono stese le
reti a due metri d’altezza. E il gran vecchio va sotto le reti, e le guarda
e dice:
«Non mi sembra che siano così mal fatte...» Ma in quel momento le
reti gli cadono addosso ed Ermes, che le ha manovrate, grida:
«Certo, Prometeo! Non lasciano scappare i pesci grossi!»
Così Prometeo fu consegnato all’ira di Zeus, che fu davvero tremenda.
Il Dio lo incatenò su una rupe del lontano Caucaso, e diede ordine ad
un’aquila di andare ogni giorno a rodergli il fegato.
Per molto tempo Prometeo restò lassù, gridando nel silenzio del Caucaso al suo regolare tormento. Ogni giorno, infatti, il fegato lacerato
dall’aquila tornava a formarsi...
Terribile era la condanna di Zeus, e lo sarebbe stata in eterno se un
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O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
Il mito greco
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Il mito e l’epica
giorno, passando il fortissimo Eracle7 da quelle parti, non avesse sentito le urla di Prometeo.
In venti balzi possenti Eracle fu sulla rupe, e vide l’aquila che faceva
il suo strazio: allora aspettò che si alzasse in volo e le staccò netta la testa
con un disco di pietra. Poi prese la catena che legava Prometeo e la
strappò dalla roccia come si toglie un cucchiaio dalla panna.
«Ti ringrazio, Eracle», disse Prometeo mettendosi a sedere con una
mano sul ventre. «Ma non temi di chiamare su di te la vendetta di Zeus?»
Eracle rise, e la sua risata rimbombò tra le montagne del Caucaso.
«Sai cosa mi disse, un giorno, il mio saggio maestro Chirone8?»
domandò.
«Che cosa ti disse?» fece Prometeo, respirando con piacere l’aria fine
della montagna.
«Così mi disse Chirone: “Quanto a Zeus, Eracle, ricorda di guardare sempre più in alto di lui, oppure più in basso!”»
E riprese a ridere, nel gran silenzio del Caucaso. E Prometeo rideva
con lui.
(R. Piumini, Il circo di Zeus, © 1986, 2003, 2005 Edizioni EL,
San Dorligo della Valle, Trieste)
O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
7. Eracle: figlio di Zeus e di Alcmena, è
probabilmente l’eroe più celebre della
mitologia greca. Al suo nome sono legate
le celebri “dodici fatiche”, tra cui l’uccisione del terribile leone di Nemea, cui
strappò la pelle che costituì, da quel
momento, il suo mantello. La liberazione
di Prometeo è una delle tante imprese
che gli vengono attribuite.
8. Chirone: era un centauro, creatura con
corpo di cavallo e busto di uomo. Saggio
e sapiente, fu il maestro di molti eroi della
mitologia greca, tra i quali Eracle, Giasone
e Achille. Venne ferito accidentalmente
da una freccia avvelenata di Eracle che lo
faceva soffrire moltissimo. Allora desiderò
morire ma, essendo immortale, doveva
trovare qualcuno a cui cedere l’immortalità. Prometeo si offrì e così Chirone poté
trovare riposo mentre Prometeo salì sull’Olimpo insieme agli altri dei.
L’epica classica
13
L’Iliade di Omero
L’Iliade
Che cos’è l’Iliade. L’Iliade è un poema in 24 libri (o
canti) scritti in greco antico nell’VIII secolo a. C.
Prende il nome da Ilo, mitico fondatore di Troia, e
narra una parte della guerra che gli Achei mossero
contro Troia, per conquistarla e distruggerla.
Insieme all’Odissea, è un testo fondamentale per
la letteratura occidentale, preso a modello e considerato fonte inesauribile di ispirazione da poeti
e scrittori del passato e contemporanei.
la causa della guerra di Troia fu Elena, la donna più
bella del mondo. Figlia di Zeus e di una mortale,
ella era diventata moglie di Menelao re di Sparta;
tutti i principi Achei avevano giurato di combattere
contro chiunque avesse cercato di sedurla e allontanarla dal marito. Purtroppo, però, ciò avvenne a
causa di una disputa tra gli dei.
Durante il banchetto nuziale tra la dea del mare
Teti e il mortale Peleo, la dea della discordia gettò
sul tavolo una mela con la scritta “alla più bella”.
Ne nacque un litigio fra tre dee bellissime: Era,
regina dell’Olimpo; Atena, dea dell’intelligenza; Afrodite, dea della bellezza e della fertilità, ognuna delle
quali desiderava ricevere per sé la mela. Per allontanare il litigio dall’Olimpo, Zeus stabilì che giudice
della gara sarebbe stato Paride, giovane principe
troiano, il quale scelse Afrodite poiché gli aveva
promesso che avrebbe ricevuto, in cambio, la donna
più bella del mondo: Elena, per l’appunto.
Così, quando Paride fu inviato dal re Priamo suo
padre alla corte di Sparta, per svolgere una missione diplomatica, Afrodite incantò Elena e la indusse
ad abbandonare la casa e il marito per seguire il
giovane principe a Troia.
La guerra di Troia nella storia. L’esistenza storica
della città di Troia è stata provata dall’archeologo
dilettante Einrich Schliemann, che alla fine dell’Ottocento ne individuò e portò alla luce i resti nei
pressi di Hissarlik, una località dell’odierna Turchia.
Grazie a questa straordinaria scoperta, e ad altre
successive, gli studiosi hanno potuto dare una collocazione storica alla guerra narrata nell’Iliade: essa
si svolse intorno al 1250 a. C. per ragioni commerciali. Troia, infatti, si trovava sullo stretto dei
Dardanelli, una posizione strategica eccezionale
per controllare i traffici e gli scambi tra Asia ed
Europa; gli Achei conquistarono e distrussero la
città per impadronirsi delle sue ricchezze e per sottrarle il monopolio dei commerci con l’Oriente.
La guerra di Troia nel mito. Secondo il mito, invece,
Omero.
O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
L’autore
Omero è uno dei poeti più celebri della storia della
letteratura, ma è anche uno dei più misteriosi.
Antiche leggende hanno tramandato l’immagine di
un vecchio cantore cieco, vissuto tra il IX e l’VIII
secolo a. C, che vagava da una città all’altra della
Grecia raccontando le sue magnifiche storie.
La tradizione gli attribuisce due grandi poemi, Iliade
e Odissea, ma in realtà non si hanno documenti
storici che provano la sua esistenza. L’assenza di
notizie certe ha provocato un dibattito noto come
“questione omerica”. Gli studiosi si domandano,
infatti, se questo poeta sia realmente esistito, e se
abbia davvero scritto, e quando, i due poemi. Il dibattito dura tuttora e, nonostante rimangano ancora
dubbi, gli studiosi concordano ormai su un punto:
chiunque sia l’autore dell’Iliade e dell’Odissea, lo
ha fatto raccogliendo e trascrivendo miti che, prima
di essere messi per iscritto, erano stati tramandati
per secoli in forma orale.
O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
14
Il mito e l’epica
L’offesa era gravissima. Menelao chiamò a raccolta
i principi achei e ricordò loro l’antico giuramento,
cui nessuno si sottrasse. Agamennone, fratello di
Menelao e re di Micene, si mise alla testa di un esercito e di una flotta come mai si erano visti prima:
così armati, gli Achei navigarono verso Troia e la
misero sotto assedio.
La guerra durò dieci anni, durante i quali molti eroi
achei e troiani vi persero la vita senza che nessuno
riuscisse a prevalere. Anche gli dei presero parte
alla guerra, favorendo ora l’una ora l’altra parte.
Alla fine, Troia fu presa con l’inganno: l’eroe acheo
Odisseo, noto per la sua astuzia, fece costruire un
gigantesco cavallo, al cui interno si nascosero i più
valorosi tra i guerrieri achei. Il cavallo venne posto
davanti alle mura di Troia, gli Achei sgombrarono
il loro accampamento e finsero di essersene andati.
In realtà, si appostarono dietro un’isola e attesero
che i Troiani, felici per la fine della guerra, conducessero in città il cavallo come offerta votiva alla
dea Atena. Durante la notte, i guerrieri nascosti nel
cavallo uscirono, lanciarono segnali ai loro compagni sulle navi e tutti insieme saccheggiarono e
incendiarono la città, uccisero gli uomini, presero
come schiave le donne.
La trama dell’Iliade. Il poema narra la storia di
cinquantuno giorni del decimo e ultimo anno
della guerra di Troia. L’argomento centrale della
narrazione è l’ira di Achille, il più forte guerriero
acheo, invulnerabile in tutto il corpo tranne che
nel tallone.
Dopo un furioso litigio con Agamennone, Achille
abbandona il campo di battaglia giurando di non
prendervi più parte. Le sorti della guerra volgono
quindi in favore dei Troiani, che ricevono anche
l’aiuto di Zeus. Il re degli dei, infatti, ha promesso
alla madre di Achille, la dea Teti, di far pagare ad
Agamennone e a tutti gli Achei l’offesa fatta al figlio.
Durante le operazioni militari, gli Achei subiscono
gravi perdite soprattutto a causa di Ettore, il più
valoroso tra i principi troiani. Patroclo, amico fraterno di Achille, lo prega di ritornare a combattere,
ma poiché questi rifiuta gli chiede in prestito l’armatura splendente, forgiata dal dio Efesto. Quando
Patroclo appare sul campo i Troiani fuggono,
temendo che Achille sia tornato, ma Ettore lo
affronta in duello e grazie all’aiuto del dio Apollo
lo uccide, spogliandolo delle armi.
Il dolore di Achille è immenso, la sua rabbia tremenda: l’eroe giura che la sua vendetta sarà sanguinosa e terribile. Achille riprende dunque il combattimento, seminando panico e strage senza sosta;
come una belva assetata di sangue, cerca Ettore in
ogni dove. Infine, i due restano soli a fronteggiarsi.
In un primo momento Ettore è preso dal panico e
si dà alla fuga, ma poi si ferma e affronta il nemico,
ben sapendo che la sua ora è giunta, perché anche
gli dei lo hanno abbandonato.
Dopo aver ucciso Ettore, Achille ne lega il corpo al
suo carro da guerra e lo trascina per il campo, facendone scempio. Poi si ritira nell’accampamento acheo,
dove hanno inizio i riti e i giochi funebri in onore
di Patroclo.
Il re Priamo, però, non può sopportare che Ettore,
suo figlio prediletto, resti privo di sepoltura. Perciò,
con l’aiuto degli dei, si reca nella tenda di Achille
offrendo all’eroe un enorme riscatto. Colpito dal
coraggio del vecchio re, e impietosito dalla sua
debolezza, Achille accetta il riscatto, restituisce il
corpo e offre una tregua di dodici giorni. L’Iliade si
conclude con i funerali dell’eroe troiano.
Il Sole 24ore S.p.A. 2006
Menelao e Patroclo, copia romana dell’originale
greco della metà del III secolo circa.
L’epica classica
15
Priamo e Achille
(Iliade, Libro XXIV, vv. 477-590)
Priamo si umilia di
fronte ad Achille, che ha
ucciso molti suoi figli,
pur di riavere il corpo di
Ettore. Achille si stupisce nel vedere Priamo,
come chi vede un omicida che, fuggito dalla
sua terra, chiede ospitalità e perdono a un
potente straniero.
480
485
Il vecchio re tenta di
impietosire Achille ricordandogli il padre Peleo.
490
Ettore era il figlio più
amato perché meglio di
ogni altro difendeva
Troia e il suo popolo
dagli Achei.
Secondo la religione
greca, non seppellire i
morti era sacrilegio:
perciò Priamo invita
Achille a rispettare le
leggi divine.
495
500
505
Il discorso di Priamo ha
colpito nel segno: ripensando al padre, Achille
si commuove.
510
Il grande Priamo entrò non visto, ed avvicinatosi
abbracciò le ginocchia di Achille, baciò le sue mani
tremende, omicide, che a lui tanti figli avevano ucciso.
Come quando grave follia colpisce un uomo, che al suo paese
uccide qualcuno ed emigra in terra straniera,
in casa d’un ricco, e chi lo vede prova stupore,
così Achille ebbe un sussulto, quando vide Priamo simile a un dio;
anche gli altri1 stupirono, si guardarono tra loro.
Priamo, in atto di supplice2, gli rivolse questo discorso:
«Ricordati del padre tuo, Achille pari agli dei,
come me avanti negli anni, sulla soglia triste della vecchiaia:
forse anche a lui danno guai i popoli intorno
accerchiandolo, e non c’è nessuno a stornare da lui la rovina.
Eppure tuo padre, sapendo che tu sei vivo,
gioisce nell’animo suo, e spera di giorno in giorno
di vedere suo figlio tornare da Troia;
infelice davvero sono io, che nella vasta Troia ho generato
figli meravigliosi, e non me ne resta nessuno.
Ne avevo cinquanta, quando arrivarono i figli degli Achei:
diciannove m’erano nati tutti da uno stesso ventre,
gli altri me li partorivano donne diverse nella mia casa.
Alla maggior parte Ares violento ha fiaccato i ginocchi;
e quello che per me era unico, che salvava la città e la gente,
tu proprio adesso l’hai ucciso, mentre combatteva per la patria,
Ettore: ora vengo per lui fino alle navi degli Achei
a riscattarlo da te, e porto un compenso ricchissimo.
Su, Achille, rispetta gli dei ed abbi pietà di me,
nel ricordo di tuo padre: ancora più degno di pietà sono io,
ho sopportato quello che al mondo nessun altro mortale,
di portare la mano alla bocca dell’uccisore di mio figlio».
Disse così, ed in lui stimolò il desiderio di piangere il padre:
allora afferrò la sua mano e scansò dolcemente il vecchio.
Immersi entrambi nel ricordo, l’uno per Ettore massacratore
piangeva a dirotto prostrato ai piedi di Achille,
1. gli altri: nella tenda di Achille vi erano altri compagni
d’arme.
2. supplice: in questo momento, Priamo è costretto a umiliarsi
e a supplicare Achille, e pertanto gli si presenta chino a terra.
O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
Guida alla lettura
L’episodio che ti presentiamo si colloca nella parte finale del poema.
Il vecchio re Priamo si reca nella tenda di Achille per implorare la
restituzione del corpo di Ettore.
16
Il mito e l’epica
Achille loda il coraggio
di Priamo e gli offre il
proprio conforto con
alcune argomentazioni:
• i mortali condividono
un medesimo destino di
sofferenza;
• gli dei distribuiscono
gioie e disgrazie: la felicità di avere figli, ma
anche la disgrazia di
perderli in guerra;
• davvero sfortunato è
chi riceve solo disgrazie
dagli dei.
515
520
525
530
535
Achille sa di essere
destinato a morire a Troia, senza rivedere suo
padre. E così, infatti,
sarà: il mito racconta
che prima dell’incendio
di Troia Achille viene
ucciso da una freccia di
Paride.
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O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
545
Achille conclude il suo
discorso invitando Priamo a non disperarsi più,
dal momento che questo
non farà tornare in vita
Ettore.
Priamo incalza Achille
insistendo con la sua
richiesta.
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mentre Achille piangeva suo padre, ma a tratti
anche Patroclo: il loro lamento echeggiava per la casa.
Ma quando il divino Achille fu sazio di pianto,
gli svanì quella voglia dal corpo e dal cuore,
s’alzò di scatto dal seggio, sollevò per la mano il vecchio,
mosso a pietà dalla sua testa bianca, dal suo mento bianco,
e, articolando la voce, gli diceva parole che volano:
«Infelice, molti affanni davvero hai patito in cuor tuo.
Come hai osato recarti da solo alle navi degli Achei,
al cospetto dell’uomo che numerosi e gagliardi
figli t’ha ucciso? Hai un cuore forte come l’acciaio!
Ma su, riposati su questo seggio, ed anche se afflitti,
lasciamo comunque dormire nel cuore i dolori;
dal lamento che ci raggela non viene un guadagno:
gli dei stabilirono questo per gl’infelici mortali,
vivere in mezzo agli affanni; loro invece sono sereni.
Due giare sono piantate sulla soglia di Zeus, piene di doni
che egli largisce, l’una di mali, l’altra di beni:
l’uomo cui dà mescolando Zeus che gode del fulmine,
s’imbatte ora in un male, altra volta in un bene;
ma colui cui dà soltanto sciagure, lo fa miserabile,
una fame tremenda lo spinge su tutta la terra divina,
se ne va disprezzato sia dagli uomini che dagli dei.
Così gli dei anche a Peleo dettero splendidi doni
fin dalla nascita: primeggiava fra tutti gli uomini
per felicità e ricchezza, regnava sopra i Mirmidoni,
e a lui che era un mortale dettero in moglie una dea.
Ma il dio anche a lui diede un male, perché mancò in casa sua
una discendenza di figli eredi al potere,
ma generò un solo figlio destinato a morte precoce;
né l’accompagno nella vecchiaia, perché lontano dalla mia patria
me ne sto qui a Troia, a te e ai tuoi figli portando sciagura.
Sentiamo dire che anche tu, vecchio, eri felice in passato:
fra quanti racchiude da un lato Lesbo, terra di Macare,
dall’altro lato la Frigia e l’Ellesponto infinito3,
dicono, vecchio, che tu primeggiassi per ricchezza e per figli.
Ma da quando i Celesti t’hanno mandato questa rovina,
ci sono intorno alla tua città soltanto battaglie e massacri.
Sii forte, non abbandonarti troppo al dolore in cuor tuo:
non ne trarrai un guadagno a disperarti per il tuo figliolo,
né potrai farlo rivivere, piuttosto ne avrai altro male!».
Gli rispondeva allora il vecchio Priamo simile a un dio:
«Non invitarmi a sedere, alunno di Zeus, fino a quando
Ettore sta nella tenda privo di esequie, restituiscilo invece
3. Lesbo... infinito: Lesbo è un’isola prossima alle coste dell’Asia Minore, Macare ne era il leggendario re; la Frigia è la
regione dell’Asia Minore in cui si trovava Troia; l’Ellesponto,
infine, è l’odierno Stretto dei Dardanelli.
L’epica classica
Ora Achille si è irritato,
e risponde male a Priamo, dicendogli che:
• sua madre Teti gli
aveva già imposto di
restituire il corpo di
Ettore;
• il vecchio re è stato
aiutato da un dio, non
si è certo introdotto
nella tenda di Achille da
solo.
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La durezza di Achille
spaventa Priamo, che
ora tace.
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Achille ordina che il
corpo di Ettore venga
ricomposto, ma fa allontanare Priamo nel timore
che, a quella vista, il re
vendicarsi.
In segno di estremo
omaggio al nemico sconfitto, è lo stesso Achille
a depositare il corpo di
Ettore sul carro.
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al più presto, ch’io lo riveda con i miei occhi; tu accetta
il grande riscatto che porto: possa goderne,
e ritornare nella tua patria, dato che prima di tutto
m’hai lasciato in vita, a vedere la luce del sole».
A lui, guardandolo storto, disse Achille, veloce nei piedi:
«Non continuare, vecchio, a irritarmi: io stesso penso
a liberare Ettore, è venuta da me portavoce di Zeus
la madre che m’ha partorito, la figlia del vecchio del mare.
Anche su te vedo chiaro, Priamo, tu non m’inganni,
che un dio t’ha scortato alle rapide navi degli Achei.
Nessuno, nemmeno nel fiore della giovinezza, oserebbe venire
qui al campo: non sfuggirebbe alle guardie, né facilmente
potrebbe spostare la spranga della mia porta.
Smetti dunque di tormentarmi l’anima con i dolori,
potrei, vecchio, non tollerarti più nella tenda,
benché supplice, e venir meno al comando di Zeus».
Disse così, il vecchio ebbe paura e obbedì all’ordine suo.
Il Pelide4 balzò come un leone fuori la porta della sua tenda,
non da solo, anche i due scudieri uscirono con lui,
l’eroe Automedonte ed Alcimo, che Achille stimava
più degli altri compagni, dopo la morte di Patroclo,
i quali sciolsero allora muli e cavalli dal giogo,
fecero entrare l’araldo, il banditore del vecchio,
lo fecero sedere; poi dal carro ben lucidato
scaricarono l’immenso riscatto del corpo di Ettore.
Ma vi lasciarono dentro due mantelli e un chitone5 ben lavorato,
per restituire il morto dopo averlo vestito.
Chiamate poi le ancelle, ordinò di lavarlo e di ungerlo
portatolo altrove, perché Priamo non vedesse il figlio,
se mai non riuscisse a trattenere lo sdegno nel cuore adirato,
alla vista del figlio, e ad Achille montasse la furia,
e l’ammazzasse, venendo meno al comando di Zeus.
Quando poi le donne lo ebbero lavato ed unto di olio,
e gli misero indosso il chitone ed un bel mantello,
Achille stesso l’alzò, l’adagiò sopra la bara,
i compagni quindi lo posero sopra il carro ben lucidato.
(Omero, Iliade, trad. it. di G. Cerri, Milano, Rizzoli, 1996)
4. Pelide: patronimico di Achille, figlio di Peleo.
5. chitone: corta tunica senza maniche, fermate sulle spalle da fibbie.
O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
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Il mito e l’epica
L’Odissea di Omero
L’autore
Su Omero, vedi le notizie riportate nell’episodio
Priamo e Achille tratto dall’Iliade.
L’Odissea
Che cos’è l’Odissea. L’Odissea è un poema in 24
libri scritto in greco antico intorno all’VIII secolo
a. C., ma forse risalente a molto tempo prima.
L’opera prende il nome da Odisseo (Ulisse per i
Latini), l’eroe della mitologia greca celebre per il
suo valore e per la sua astuzia. Insieme all’Iliade, è
un testo fondamentale per la letteratura occidentale, preso a modello e considerato fonte inesauribile di ispirazione da poeti e scrittori del passato e
contemporanei.
La trama. Odisseo, re di Itaca e valoroso guerriero
acheo, si imbarca per tornare nella sua patria dopo
aver combattuto per dieci anni a Troia. La guerra
è stata vinta anche per merito suo, poiché a lui si
deve l’invenzione del gigantesco cavallo grazie al
quale, con l’inganno, i guerrieri achei sono riusciti
a espugnare la città.
Il viaggio di ritorno si rivela però lunghissimo, pieno
di pericoli e ostacolato dall’ira del dio Nettuno, a
cui Odisseo aveva accecato il figlio, il ciclope Polifemo.
Nel corso delle sue peregrinazioni nel Mediterraneo, l’eroe incontra molti personaggi magici o
mostruosi: da alcuni di essi riceve aiuto, da altri
invece deve difendersi. Ogni incontro rappresenta
una prova che l’eroe deve superare utilizzando le
sue doti di astuzia, intelligenza e coraggio.
Infine, dopo dieci anni di viaggio e venti di assenza,
Odisseo sbarca finalmente sulle coste di Itaca, solo
e misero come un povero viandante.
Data la sua lunghissima assenza, a Itaca tutti lo credono morto. Solo sua moglie Penelope continua
ad aspettarlo, respingendo le offerte di matrimonio
dei Proci, giovani e arroganti principi che spadroneggiano nella reggia e ne consumano le ricchezze.
L’unico conforto di Penelope è il giovane figlio Telemaco, che era appena un bimbo quando il padre
era partito per Troia, e che come lei ne attende il
ritorno.
La dea Atena, che protegge Odisseo, lo avvisa del
pericolo rappresentato dai Proci e gli suggerisce di
non recarsi subito alla reggia, ma di incontrare Telemaco in un luogo appartato, progettando con lui la
riscossa. D’accordo con il figlio, dunque, Odisseo si
traveste da mendicante e, così camuffato, si presenta alla reggia, dove i Proci lo insultano e lo deridono. Per poco, però.
Su consiglio di Atena, infatti, Penelope indice una
gara: chi riuscirà a tendere l’arco di Odisseo e a
scagliare una freccia, diventerà il suo sposo. Mentre
i Proci falliscono la gara, il mendicante, con sorpresa di tutti, riesce nell’impresa. A quel punto,
Odisseo svela la sua identità e con l’aiuto di Telemaco uccide i Proci. L’eroe può così riprendere il
suo posto nella reggia a fianco della sua sposa e,
grazie a un nuovo intervento di Atena, stipula la
pace con i parenti dei Proci. Il poema si conclude
con la ritrovata pace tra Odisseo e il suo popolo.
Terra dei Isola di
Ciclopi
Circe
O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
Terra
dei Ciconi
Averno
Terra dei
Lestrigoni
Isola dei
Feaci
Isola di
Ogigia
Isola del
Sole
Sirene,
Scilla e
Cariddi
TROIA
ITACA
Terra dei
Lotofagi
I viaggi di Odisseo
Graffito s.r.l. - Cusano Milanino (MI)
L’epica classica
19
Le Sirene
(Odissea, Libro XII, vv. 143-200)
Odisseo riprende il mare
dopo la sosta di un anno
nell’isola di Circe.
Secondo gli antichi Greci
ogni forza naturale era
comandata da un dio: in
questo caso, Circe evoca
il vento che favorisce la
navigazione.
145
150
155
Per prima cosa, Circe ha
raccomandato a Odisseo
di badare al pericolo
rappresentato dalle Sirene. Tuttavia, la dea ha
suggerito a Odisseo di
ascoltarne il canto, proteggendosi con uno stratagemma.
160
165
E lei1 si avviò per l’isola2, chiara fra le dee:
io invece tornai sulla nave, ordinai ai compagni
di imbarcarsi anche loro e di sciogliere a poppa le gomene3.
Subito essi salirono e presero posto agli scalmi4,
e sedendo in fila battevano l’acqua canuta5 coi remi.
Poi, dietro la nave dalla prora turchina
Circe dai riccioli belli, dea tremenda con voce umana,
ci inviò il vento propizio che gonfia la vela, valente compagno.
Dopo che disponemmo i singoli attrezzi dentro la nave,
sedemmo: la governavano il vento e il pilota.
Allora col cuore angosciato io dissi ai compagni:
«O cari, non devono saperle uno o due soli
le predizioni che Circe mi disse, chiara fra le dee,
ma io voglio dirvele, perché conosciutele o noi moriamo
o scampiamo, schivando la morte e il destino.
Anzitutto ci esorta a fuggire il canto
e il prato fiorito6 delle divine Sirene.
Esortava che ne udissi io solo la voce. Legatemi dunque
in un nodo difficile, perché lì resti saldo,
ritto sulla scassa7 dell’albero: ad esso sian strette le funi.
Se vi scongiuro e comando di sciogliermi,
allora dovete legarmi con funi più numerose».
Dicendo così io spiegavo ogni cosa ai compagni:
intanto la solida nave rapidamente arrivò
all’isola delle Sirene: la spingeva un vento propizio.
Subito dopo il vento cessò, successe una calma
senza bava di vento, un dio assopiva le onde.
1. lei: la maga Circe.
2. l’isola: Odisseo si trova ancora sull’isola di Circe.
3. gomene: cavi di canapa usati per
ormeggiare le navi. Odisseo, quindi, è
pronto per partire.
4. scalmi: parti di legno o di metallo su
cui poggia o viene legato il remo.
5. acqua canuta: acqua bianca di spuma
per gli spruzzi sollevati dai remi.
6. prato fiorito: l’isola delle Sirene si presenta invitante come il loro canto.
7. scassa: l’alloggio dell’albero, situato
nella parte inferiore dello scafo della
nave.
O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
Guida alla lettura
Una parte delle avventure di Odisseo è narrata in prima persona dall’eroe.
Tra queste, vi è l’incontro con le Sirene, creature marine dotate di un canto
magico e ipnotico che spinge qualunque marinaio lo ascolti a gettarsi in
mare. Odisseo è stato avvisato dalla maga Circe, che lo ha ospitato per un
anno sulla sua isola, del pericolo rappresentato dalle Sirene. La maga ha
suggerito a Odisseo di ascoltarne il canto, raccomandandogli però alcune
precauzioni essenziali per la sua salvezza. Odisseo segue fedelmente
le istruzioni di Circe, dimostrandosi molto prudente: in questo modo, riesce
a soddisfare la curiosità di ascoltare il canto delle Sirene senza mettere
in pericolo la propria vita o quella dei compagni.
20
Il mito e l’epica
170
Odisseo si dispone ad
ascoltare il canto delle
Sirene prendendo molte
precauzioni: la cera per
turare le orecchie dei
suoi marinai, robuste
funi per legare se stesso
all’albero maestro.
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Le Sirene sanno qual è
il punto debole di ogni
uomo: per Odisseo è il
desiderio di conoscenza,
e perciò lo seducono con
la promessa che grazie
a loro potrà sapere «più
cose».
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Lo stratagemma di Odisseo funziona.
195
Secondo alcuni studiosi,
le Sirene rappresenterebbero i molti pericoli
della navigazione.
200
I compagni, levatisi e piegate le vele,
le deposero nella nave ben cava e postisi
ai remi imbiancavano l’acqua con gli abeti piallati8.
Io invece, tagliato col bronzo aguzzo un grande
disco di cera a pezzetti, li premevo con le mani robuste.
Subito la cera cedette, sollecitata dalla gran forza
e dal raggio del Sole, del signore Iperionide9:
la spalmai sulle orecchie a tutti i compagni, uno a uno.
Essi poi mi legarono per le mani ed i piedi
ritto sulla scassa dell’albero, ad esso eran strette le funi,
e sedutisi battevano l’acqua canuta coi remi.
Ma appena distammo quanto basta per sentire chi grida10,
benché noi corressimo, non sfuggì ad esse la nave veloce
che s’appressava e intonarono un limpido canto:
«Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei,
e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce.
Nessuno mai è passato di qui con la nera nave
senza ascoltare dalla nostra bocca il suono di miele,
ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose.
Perché conosciamo le pene che nella Troade vasta
soffrirono Argivi11 e Troiani per volontà degli dèi;
conosciamo quello che accade sulla terra ferace12».
Così dissero, cantando con bella voce: e il mio cuore
voleva ascoltare e ordinai ai compagni di sciogliermi,
facendo segno cogli occhi: ma essi curvi remavano.
Subito Perimede ed Euriloco alzatisi
mi legarono e strinsero di più con le funi.
Ma quando le superarono e più non s’udiva
la voce delle Sirene né il loro canto,
subito i fedeli compagni la cera levarono
che gli spalmai sulle orecchie, e dalle funi mi sciolsero.
(Omero, Odissea, trad. it. di G. A. Privitera, Milano,
Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, 1981)
O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
8. abeti piallati: i remi.
9. Iperionide: epiteto attribuito al dio Sole.
10. distammo... chi grida: appena fummo
a portata di voce dell’isola delle Sirene.
11. Argivi: altro nome con cui nei poemi
omerici vengono chiamati i Greci.
12. ferace: fertile.
L’epica classica
21
L’Eneide di Virgilio
L’autore
Publio Virgilio Marone nacque ad Andes, nei pressi
di Mantova, nel 70 a. C. In gioventù si trasferì a
Roma per studiare e, in seguito, vi si stabilì definitivamente.
Nella grande città, a quel tempo capitale di un vasto
impero, entrò a far parte di un gruppo di intellettuali e artisti protetti da Mecenate, amico dell’imperatore Augusto.
Grazie al favore di Mecenate e di Augusto, Virgilio
poté dedicarsi pienamente all’arte. Scrisse così le
poesie delle Bucoliche, ambientate in campagna, e
il poemetto Georgiche, sempre di argomento campestre. Iniziò il suo capolavoro, l’Eneide, su richiesta
di Augusto, che desiderava celebrare la potenza
e la forza di Roma in un grande poema epico.
Virgilio lavorò all’opera per dieci anni, ma non riuscì
a terminarla a causa di una grave malattia che lo
condusse alla morte nel 19 a. C. Il poeta aveva ordinato di distruggere il manoscritto in caso di una
sua morte prematura, ma l’imperatore Augusto
ordinò ugualmente la sua pubblicazione.
L’Eneide
Che cos’è l’Eneide. L’Eneide è un poema in dodici
libri scritto in latino. Per la sua composizione, Virgilio si ispirò ai più grandi poemi della cultura greca,
l’Iliade e l’Odissea, che per i Romani erano esempi
di grandissimo valore letterario. L’opera prende il
nome da Enea, l’eroe troiano che secondo antiche
leggende avrebbe dato origine alla stirpe dei Romani.
La trama dell’opera. Enea, principe troiano, è riuscito a sfuggire all’incendio e al saccheggio della
sua città. Insieme con il vecchio padre Anchise,
con il figlioletto Ascanio e con altri Troiani sopravvissuti, prende la via del mare. Il Fato (o destino),
infatti, gli ha prescritto di trovare una terra dove
fondare una nuova città destinata a regnare sul
mondo intero. Il viaggio di Enea è lungo, costellato
di pericoli e ostacolato da Giunone, regina degli dei,
che odia i Troiani e teme la stirpe dei discendenti
di Enea. Tra le varie tappe del viaggio vi è Cartagine, patria della regina Didone, che accoglie i profughi e si innamora di Enea. Anche se l’eroe ricambia
questo sentimento, il suo Fato non gli permette di
restare. Perciò l’eroe riprende la navigazione, mentre
Didone, disperata, si suicida.
I Troiani approdano finalmente sulle coste del
Lazio, la meta prescritta dal Fato. Enea viene
accolto benevolmente dal re dei Latini, che gli promette in sposa la figlia Lavinia, ma Turno, re dei
Rutuli e promesso sposo della fanciulla, dichiara
guerra ai nuovi arrivati. Anche i Latini, istigati da
Giunone, prendono le armi contro i Troiani.
Divampa così un conflitto nel quale perdono la
vita molti valorosi soldati di entrambi gli schieramenti. Infine, Enea e Turno si affrontano in un
duello decisivo cui assistono gli dei: mentre Giove
placa l’odio di Giunone contro i Troiani e le impone
di non tentare più di ostacolare i voleri del Fato,
Enea sconfigge e uccide Turno, ponendo fine alla
guerra.
Foce del
TEVERE
TRACIA
Polidoro
GAETA
Tempio di
Minerva
CUMA
Sibilla
Capo PALINURO
TROIA
EPIRO
Eleno
Monte ERICE
Terra dei
Ciclopi
CARTAGINE
Didone
DELO
Oracolo
di Apollo
STROFADI
Arpie
CRETA
pestilenza
I viaggi di Enea
Graffito s.r.l. - Cusano Milanino (MI)
O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
DREPANO
Anchise
22
Il mito e l’epica
Eurialo e Niso
(Eneide, Libro IX, vv. 367-449)
Guida alla lettura
L’episodio si colloca nell’ambito della guerra fra i Troiani e le popolazioni del
Lazio, i Latini e i Rutuli. Durante una pausa nei combattimenti, Enea lascia
l’accampamento per cercare aiuti presso altri popoli della zona, ma i Rutuli
approfittano della sua assenza per attaccare. Eurialo e Niso, due valorosi
Troiani legati da profonda amicizia, tentano una sortita notturna per
avvisare Enea del pericolo. I due attraversano il campo nemico e,
approfittando dell’oscurità, fanno strage di Rutuli. All’alba, carichi di armi
e di bottino, si rimettono in marcia, ma vengono avvistati da un reparto
della cavalleria nemica. Ecco che cosa accade in quel momento.
L’episodio inizia con una
descrizione della situazione complessiva.
370
Eurialo e Niso si stanno
allontanando dal campo
nemico, ma lo splendente elmo di Eurialo,
illuminato dalla luna,
emana un bagliore che
viene avvistato dai cavalieri nemici.
I cavalieri latini conoscono bene il territorio
e bloccano le possibili
vie di fuga dei due
Troiani.
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Non appena si accorge
dell’assenza di Eurialo,
Niso torna sui suoi passi
per cercarlo.
390
Intanto, mentre il grosso dell’esercito indugia1 schierato in campo,
cavalieri mandati in avanscoperta dalla città latina
si recavano da Turno per portare le risposte del re:
trecento, tutti armati di scudo e guidati da Volcente2.
Ormai vicini al campo, già sotto le mura,
scorgono da lontano i due piegare verso un sentiero a sinistra:
aveva tradito l’incauto3 Eurialo il bagliore dell’elmo,
luccicante nell’ombra della notte ai raggi della luna.
Non passa inosservato. Dalla sua schiera Volcente grida:
«Fermi, uomini; che fate per strada in armi?
chi siete? dove andate?» Non rispondono,
affidandosi alla notte, e nel bosco tentano in fretta la fuga.
In ogni luogo, dove a loro è noto un bivio, i cavalieri
fanno barriera e di guardie circondano qualsiasi varco.
Era la selva vasta, irta di cespugli e d’elci nere4
e d’ogni parte assiepata di densi rovi;
solo qualche sentiero biancheggiava fra l’intrico dei passaggi.
L’oscurità dei rami e il peso del bottino impacciano
Eurialo e il timore l’inganna sulla retta via.
Niso s’allontana. Imprudentemente5 oltrepassa i nemici
e i luoghi che dal nome d’Alba6 furono chiamati Albani
(allora a pascoli incolti li possedeva il re Latino),
quando s’arresta, volgendosi invano a cercare l’amico:
«Eurialo, ahimè, dove mai t’ho lasciato?
dove ti cerco?» Rifacendo tutto il tortuoso cammino
dell’ingannevole selva7 e scrutando le orme dei suoi passi,
1. indugia: attende.
2. Volcente: generale latino, guida il
reparto di cavalleria.
3. incauto: poco prudente. Eurialo non
aveva pensato che l’elmo splendente
avrebbe potuto essere visto da lontano.
4. elci nere: querce scure.
5. imprudentemente: senza prudenza,
perché non si accerta che l’amico sia con
lui.
6. Alba: località presso il campo troiano
che il re Latino utilizzava come pascolo
per il bestiame.
7. ingannevole selva: il bosco è «ingannevole» perché buio e fitto di vegetazione.
395
La situazione è drammatica, ma Niso non
esita. Invocando l’aiuto
di Diana si prepara ad
aiutare l’amico, ben
sapendo che i nemici
sono troppo numerosi
per poter essere sopraffatti.
Con un formidabile tiro
del suo arco Niso uccide
un soldato nemico. La
morte del soldato viene
descritta con crudo realismo: in questo modo,
il poeta esprime il suo
orrore nei confronti
della violenza generata
dalla guerra.
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Volcente non riesce a
capire da dove provengano le frecce. Rabbioso, rivolge la sua
furia contro Eurialo.
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Niso esce dal nascon diglio in un tentativo
estremo di salvare l’amico.
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Eurialo muore, trafitto
dalla spada di Volcente.
lo percorre a ritroso, errando8 tra le macchie silenziose.
Ode i cavalli, ode lo strepito e i richiami degli inseguitori:
non passa molto tempo, quando alle orecchie gli giunge un grido
e vede Eurialo sopraffatto ormai, per l’insidia dei luoghi
e della notte, per lo sconcerto dell’assalto improvviso,
travolto da tutta la schiera, mentre invano tenta di difendersi.
Che fare? con che forze, con quali armi potrà mai
salvare il giovane? o dovrà gettarsi tra le spade
pronto a morire, affrettando nel sangue una fine gloriosa?
Ritratto come un lampo il braccio per vibrare l’asta,
in alto volge lo sguardo alla luna e così prega:
«O dea9, che sei ornamento degli astri e custode dei boschi,
o figlia di Latona, assistimi propizia in questa impresa.
Se mai Irtaco, il padre mio, per me ai tuoi altari
portò doni ed io li accrebbi con le mie cacce,
appendendoli alla volta o fissandoli ai frontoni del tuo tempio10,
fa’ ch’io sgomini quella schiera, guida il volo dei miei strali11».
Detto questo, con la forza di tutto il corpo scaglia il ferro:
l’asta volando fende le ombre della notte
e colpisce la schiena di Sulmone, che volgeva il dorso;
lì s’infrange e con le schegge del legno gli trapassa il cuore.
Stramazza esangue, vomitando sangue a caldi fiotti
dal petto, e scuote i fianchi in lunghe convulsioni.
Scrutano12 tutt’intorno. E Niso, imbaldanzito,
levandolo sopra l’orecchio scaglia un altro dardo.
Mentre s’affannano13, stridendo l’asta attraversa le tempie
di Tago e arroventata s’arresta nel cervello trafitto.
S’agita come una furia Volcente, ma non v’è luogo in cui scorga
l’autore del colpo o dove possa sfogare la sua rabbia.
«Pagherai intanto tu, col tuo caldo sangue
lo scotto per entrambi», grida e, spada in pugno,
si getta contro Eurialo. Sbigottito, come un folle allora Niso,
che più a lungo non può celarsi nelle tenebre
e sopportare simile dolore, lancia un urlo.
«Io, io, sono io che ho colpito, contro di me rivolgete il ferro,
o Rùtuli! la colpa è mia; nulla ha osato costui,
né l’avrebbe potuto (chiamo a testimoni cielo e stelle);
ha solo amato troppo l’infelice amico suo».
Così gridava, ma la spada spinta a tutta forza
trafigge a Eurialo il costato, rompendo il suo candido petto.
Cade riverso nella morte, scorre il sangue
per il bel corpo e, reclinando, il capo s’abbandona sulla spalla:
8. errando: vagando senza una direzione
precisa.
9. dea: Diana, figlia di Latona e sorella di
Apollo, protettrice della caccia, dei boschi,
degli arcieri.
10. appendendoli... tempio: poiché Diana
era la dea della caccia, era usanza presso
i Greci e i Romani offrire una parte della
selvaggina cacciata al tempio della dea.
11. strali: frecce.
12. Scrutano: i cavalieri rutuli si guardano
intorno per capire da dove sia partito il colpo.
13. s’affannano: i cavalieri si agitano, cercando di individuare il luogo da cui è partita la freccia.
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Il mito greco
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Il mito e l’epica
Virgilio descrive la morte
di Eurialo con una delicata e commovente similitudine che paragona il
giovane soldato a un
fiore abbattuto dalla
pioggia.
Con questi ultimi versi il
poeta celebra la gloria
dei due giovani eroi e
assegna alla sua poesia
l’importante funzione di
tramandare nei secoli il
loro ricordo.
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come un fiore purpureo14 che, reciso dall’aratro,
langue morendo, o come i papaveri che chinano il capo
sul collo stanco, quando la pioggia li opprime.
Niso allora si getta nella mischia e cerca in mezzo a tutti
solo Volcente, solo di Volcente si dà cura.
I nemici gli si stringono intorno, tentano con ogni mezzo
di respingerlo, ma lui imperterrito li incalza, ruota
come un fulmine la spada, finché in gola del Rùtulo che grida
non la immerge, togliendo, ormai morente, la vita al nemico.
Ma poi, trafitto, sull’amico esanime si getta
e nella placida morte trova alfine riposo.
Fortunati entrambi! Se qualche potere possiedono i miei versi,
mai verrà giorno che alla memoria del tempo vi sottragga,
finché i discendenti di Enea la rupe immobile del Campidoglio
domineranno15 e il padre dei Romani16 avrà impero sul mondo.
(Virgilio, Eneide, trad. it. di M. Ramous, Venezia, Marsilio, 1998)
O. Trioschi, Leggere nuvole © Loescher Editore, 2010
14. purpureo: di colore rosso acceso, come
il sangue.
15. finché... domineranno: fino a che i
Romani, discendenti di Enea, dimoreranno
sul colle del Campidoglio. Oggi il colle è
sede del Quirinale, la residenza del Pre-
sidente della Repubblica.
16. padre dei Romani: il Senato, la più
importante istituzione della Roma antica.