G IOVANNI V ITUCCI
Linee di storia romana
con note critiche e bibliografiche
Edizione 2010
[per il modulo A dell’esame di Storia romana]
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SOMMARIO
I. Il Lazio e Roma. L’età regia.
1. Le popolazioni dell’Italia preromana.
2. Gli Etruschi.
3. I Latini.
4. La Roma primitiva e i suoi ordinamenti.
5. Evoluzione dell’istituto regio e avvento della repubblica.
II. La repubblica sotto il predominio dei patrizi.
1. I primi rapporti politici con Cartagine e il ritorno degli
Etruschi.
2. Le città latine e Roma.
3. Lotte contro i Sabini, gli Equi e i Volsci.
4. Guerre con gli Etruschi.
5. Colonie romane e colonie latine. Origini del ‘diritto
latino’.
6. Il predominio politico e religioso dei patrizi sopra i plebei.
7. Ordinamenti del più antico stato repubblicano.
8. Le rivendicazioni della plebe e i suoi primi successi.
III. Dall'incendio gallico al primato nell'Italia centrale.
1. Il disastro e la ricostruzione.
2. I Sanniti e il loro primo conflitto con Roma.
3. Insurrezione e scioglimento della lega latina.
4. La seconda guerra sannitica.
5. La terza guerra sannitica e l’ampliarsi della federazione
romanoitalica.
IV. Il regime nobiliare patrizio-plebeo. Il controllo dell'Italia
meridionale.
1. Conclusione delle lotte fra plebe e patriziato.
2. Introduzione della costituzione ‛serviana’.
3. La nuova nobilitas patrizio-plebea.
4. Taranto e Roma.
5. Pirro in Italia.
6. Pirro in Sicilia e il definitivo fallimento della sua impresa.
7. Importanza dell'espansione nell’Italia meridionale. Sviluppo economico e progresso civile.
V. Roma e Cartagine.
1. Dall'amicizia al conflitto.
2. Gli sviluppi della prima guerra punica.
3. Conseguenze della guerra in Roma e in Cartagine.
4. I Romani oltre l’Adriatico e nell'Italia settentrionale.
5. Origini della seconda guerra punica.
6. Dal Ticino a Canne.
7. Da Canne al Metauro.
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8. Annibale e Scipione.
VI. Militarismo e imperialismo. Dall'espansione in Oriente
alla distruzione di Cartagine.
1. Il conflitto con la Macedonia e il protettorato sulla Grecia.
2. Roma e l'impero siriaco.
3. La dissoluzione della monarchia macedone e il predominio
sulla Grecia.
4. L'assoggettamento della Macedonia e della Grecia.
5. La penetrazione nell'Italia settentrionale e nella Spagna.
6. La terza guerra punica.
7. Trionfo del conservatorismo. Catone e Scipione.
8. Squilibrio economico e società in fermento.
9. Cultura greca e humanitas romana.
VII. La crisi del regime nobiliare. Dai Gracchi alla guerra
sociale.
1. Ripercussioni interne delle grandi conquiste.
2. Il tribunato di Tiberio Gracco.
3. Dal programma conservatore di Tiberio a quello
rivoluzionario di
Gaio Gracco.
4. L’azione politica di Gaio Gracco.
5. Reazione nobiliare e sopravvivenza delle istanze graccane.
6. Giugurta e l’ascesa di Gaio Mario.
7. I Cimbri e i Teutoni. La gloria di Mario.
8. Inasprimento della lotta politica. Eclissi di Mario.
9. L'agitazione degli Italici e la guerra sociale.
VIII. Le guerre civili: Mario, Sulla, Pompeo.
1. Il pronunciamento di Sulla.
2. La sedizione di Cinna e la vendetta di Mario.
3. Le imprese di Sulla in Oriente.
4. Il ritorno di Sulla.
5. Dittatura e riforme antidemocratiche di Sulla.
6. Ripresa delle forze democratiche. Sertorio e la resistenza
in Spagna.
7. Mitridate, Spartaco e l’ascesa di Pompeo.
8. Fine di Mitridate e potenza di Pompeo.
IX. Il declino della repubblica e la monarchia di Cesare.
1. Le ambizioni di Crasso e gl'inizi di Cesare.
2. La congiura di Catilina e l’effimero trionfo di Cicerone.
3. Dal ritorno di Pompeo al ‘primo triumvirato’.
4. Le prime campagne di Cesare nelle Gallie.
5. Torbidi in Roma. Rinnovamento dell’intesa fra i ‘triumviri.
6. Conquista e romanizzazione delle Gallie.
7. Fine di Crasso e inizio della lotta fra Cesare e Pompeo.
8. Dal Rubicone alla morte di Pompeo.
9. Il potere monarchico di Cesare e le idi di marzo.
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X. Conclusione delle guerre civili. Il principato augusteo.
1. Dalla morte di Cesare al triumvirato di Lepido, Ottaviano
e Antonio.
2. Rotta degli anticesariani e rivalità fra i triumviri.
3. Il duello conclusivo fra Ottaviano e Antonio.
4. Ottaviano ‘Augusto’ e ‘principe’ dell'impero.
5. Compromesso tra vecchio e nuovo regime nelle riforme
augustee.
6. Pacificazione e riordinamento dell’impero.
7. La conservazione del principato nel problema della
successione.
XI. Consolidamento del regime imperiale. I Giulio-Claudi.
1. La personalità e il programma di Tiberio.
2. L'opposizione senatoria e il lungo ritiro di Tiberio.
3. L'esperimento assolutistico di Caligola (37-41).
4. L'avvento di Claudio e i primi sviluppi della burocrazia.
5. Le altre realizzazioni di Claudio, 196.
6. Nerone e il consolidarsi dell’assolutismo, 199.
7. Dalla prima persecuzione cristiana alla fine di Nerone.
XII. Dai Flavii agli Antonini. L'ascesa della borghesia italica e
provinciale.
1. La svolta degli anni 68-69.
2. Il principato ‘borghese’ di Vespasiano.
3. Tito e Domiziano. L'impero sotto i Flavii.
4. Nerva. Il principato ‘adottivo’.
5. Traiano e la ripresa dell'espansione territoriale.
6. Il nuovo corso di Adriano.
7. Gli Antonini e la fine dell’impero liberale.
XIII. La crisi del terzo secolo e il tramonto del principato.
1. Evoluzione politica e declino economico.
2. Mistica dell’assolutismo e trasformazione culturale.
3. La dinastia dei Severi.
4. Il periodo della ‘anarchia militare’.
5. La ripresa sotto gli imperatori ‘illirici’.
XIV. Il dominato. Da Diocleziano alla fine dell'impero
d'Occidente.
1. Diocleziano e il nuovo volto dell’impero.
2. Fallimento della tetrarchia. Costantino e l’impero
cristiano.
3. I discendenti di Costantino.
4. I barbari nei confini e la bipartizione dell'impero.
5. L'impero d'Oriente e la fine dell'impero d'Occidente. I
regni romanobarbarici.
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I
Il Lazio e Roma. L’età regia.
1. Le popolazioni dell’Italia preromana. - Uno degli
aspetti più interessanti della storia di Roma antica è
l’unificazione politica e civile dell’Italia, unificazione
che in vario grado e in varie guise si estese ai paesi
gravitanti intorno al bacino del Mediterraneo. Sarà
quindi opportuno gettare anzitutto uno sguardo
d’insieme sulle varie popolazioni che abitavano la
Penisola quando ebbe inizio l’ascesa di Roma. Il
panorama che esse presentano, com’è noto, fu il
risultato di un lungo processo di sovrapposizione a
genti preesistenti di nuove genti venute di fuori, in
possesso di costumi e di lingua talora diversissimi
(basti pensare che alcuni appartenevano agli
“Indoeuropei”, come i Latini, e altri no, come gli
Etruschi); pertanto il problema dell’etnogenesi
dell’Italia, sia per la scarsezza delle testimonianze
letterarie, sia per la relativa incertezza dei dati
forniti dalla moderna indagine archeologica e
linguistica, offre tuttora largo campo a ipotesi e
ricostruzioni non poco contrastanti. Oltre l’arrivo
delle genti già menzionate (quelle “indoeuropee” in
scaglioni successivi: i Latino-Falisci e i Siculi, gli
Umbro-Osco-Sabelli, gli Illiri cui appartenevano da
un lato i Veneti, dall’altro gli Iapigi, che poi dettero
il nome all’Apulia), si ebbe anche la colonizzazione
greca della Magna Grecia e più tardi, dal principio
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del IV sec., l’immigrazione di tribù celtiche, sì che
alla fine ne risultò, come si diceva, un quadro
etnografico assai vario, che si può delineare nel
modo seguente. Nell’Italia settentrionale ad
occidente i Liguri e ad oriente i Veneti, tra cui
vennero poi a incunearsi i Galli riducendo
progressivamente l’area occupata dagli Etruschi.
Nell’Italia centrale, oltre agli Etruschi (che nel VIIVI sec. arrivarono anche in Campania), gli Umbri
(alto Tevere), i Sabini (Terni e Rieti), i Picenti
(sull’Adriatico), i Latini, gli Equi, i Volsci e gli
Ernici (nell’od. Lazio); i Marsi, i Peligni, i Vestini e i
Marrucini
(nell’od.
Abruzzo).
Nell’Italia
meridionale: i Campani, i Sanniti, i Lucani, i Bruzi,
gli Iapigi, i coloni greci.
2. Gli Etruschi. - Fra tutte queste genti
(prescindendo, naturalmente, dai Latini) particolare
importanza per la funzione che svolsero nella storia
e nella civiltà dell’Italia antica ebbero gli Etruschi.
È appena il caso di accennare qui al problema
delle loro origini, uno dei più dibattuti dalla
moderna storiografia, nella quale oggi, sull’opinione
che essi siano scesi in Italia attraverso le Alpi,
prevale quella della provenienza orientale, in
accordo con la tradizione antica raccolta, per
esempio, da Erodoto (I 94).
Dal punto di vista politico gli Etruschi (come
noi li chiamiamo dal latino Etrusci; i Greci li
chiamarono Tirreni, Turrhnoiv , mentre essi stessi si
denominavano Rasèna) non riuscirono a realizzare
una vera unità nazionale. Il massimo organismo
politico da loro creato fu l’unione di dodici cittàstati in una lega che aveva il centro nel santuario
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della dea Voltumna presso Bolsena; ma, con ogni
probabilità, si trattava di una federazione di
carattere religioso che non giunse mai a cementare
stabilmente le forze dei collegati. Anche pensando a
tale disunione si spiega come gli Etruschi, dopo aver
esteso il loro dominio da Mantova, Adria e Spina
fino alla Campania (compresa Roma), dopo aver
signoreggiato sul mare che porta ancora il loro
nome, cominciarono a declinare sotto i colpi dei
Greci d’occidente, dei Latini, dei Galli e infine dei
Romani, che s’imposero ad essi sul principio del III
sec. a.C. Quanto agli ordinamenti interni delle città
étrusche, queste ebbero dapprima un regime
monarchico; più tardi, con un mutamento
costituzionale che quasi ovunque precorse quello
verificatosi a Roma, esse si vennero trasformando in
repubbliche nobiliari rette da magistrati annui (v.
appresso).
3. I Latini. - Ad un certo momento dell’antica
riflessione (pseudo)storica di carattere erudito si
fece derivare il nome dei Latini da quello dal loro
progenitore Latinus; più tardi, questi venne
concepito come un re piuttosto che come un
progenitore, e si pose quindi il problema della
denominazione dei Latini prima dell’avvento del re
Latino, problema che fu risolto con la coniazione
del nome di Aborigines. Indizio, questo nome, di una
convinzione di autoctonia (inesatta, peraltro),
mentre quello di Latini con ogni probabilità nacque
per indicare gli “abitatori della pianura” cioè del
Latium. Questo originario “territorio pianeggiante”,
allargato poi con quello degli Equi, degli Ernici, dei
Rutuli, dei Volsci, e con quello delle colonie latine
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che si presero a fondare dal V sec., giunse ad
estendersi dal Tevere (oltre il quale era l’Etruria) a
Fondi, confinando ad est con i Sabini e i Marsi.
All’antico nome di Latium si aggiunse più tardi la
qualifica di vetus (Latium vetus, o anche antiquum)
allorché, dalla seconda metà del IV sec. a.C., la
denominazione di Lazio fu ancora estesa a sud di
Fondi fin oltre il Garigliano, e questo territorio
costituì il Latium novum o adiectum. Gli antichissimi
Latini, appunto perché abitatori di una piana
costituente
una
naturale
unità
geografica,
realizzarono assai presto lo stabilimento di reciproci
legami fra i numerosi piccoli popoli in cui erano
organizzati; e, per prima cosa, comuni pratiche
cultuali riunirono intorno a un centro sacrale alcuni
di quei populi. Ne sorsero diverse leghe religiose, fra
cui la più importante fu quella che nel VII sec.
giunse a riunire intorno ad Alba Longa una
cinquantina di stati (probabilmente la totalità di
quelli allora esistenti nel Lazio), partecipanti ogni
anno alla solennità detta Latiar o Feriae Latinae, che
si celebrava sul monte Albano in onore di Iuppiter
Latiaris. Al di fuori di queste vanno considerate le
piccole comunità di Antemnae, Caenina, Crustumerium,
Politorium, Ficana, Tellene, Collatia, Corniculum,
Cameria, Ameriola, Medullia, situate nelle vicinanze di
Roma (nella zona compresa tra l’Aniene e il Tevere
che separa Roma dalla Sabina) e alle quali Roma si
sovrappose nella prima età regia. Intorno alla metà
del VII sec., con la distruzione di Alba Longa ad
opera di Tullo Ostilio, la direzione della lega di
Iuppiter Latiaris passò nelle mari dei Romani (e vi
rimase nei secoli, esplicandosi però fin dall’inizio
più che altro nell’organizzazione delle Feriae Latinae,
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cioè senza pervenire a tradursi in un’azione politica
di grande rilievo). Del resto, alle mire egemoniche
dei Romani le città latine risposero con lo stringere
altri legami di alleanza, e fra questi nuovi organismi
federali salì poi a grande importanza una lega avente
il centro sacrale nel santuario di Diana ad Aricia (v.
appresso). Una idea della posizione raggiunta da
Roma nel Lazio verso la fine del VI sec. è possibile
ricavarla dal testo di Polibio (III 22) relativo al
primo trattato fra Roma e Cartagine (v. appresso).
4. La Roma primitiva e i suoi ordinamenti. - La
storiografia antica, salvo qualche divergenza, datò la
nascita di Roma (concepita in termini di fondazione
con rituale etrusco, o di insediamento di elementi
greci) intorno alla metà dell’VIII sec.; al primo anno
dell’ottava olimpiade (corrispondente al nostro
748/7 a.C.) l’aveva fissata Fabio Pittore, il primo
annalista (frgm. 3 Jacoby, FGrHist III C, p. 850), ma
poi sulla sua data prevalse quella del terzo anno
della sesta olimpiade, equivalente al nostro 754/3
a.C., computata da Varrone (èra varroniana). A
determinare queste date d’intorno alla metà del sec.
VIII gli antichi autori giunsero sommando all’anno
in cui dai fasti consolari risultava iniziata la
repubblica (anno corrispondente al nostro 509 a.C.)
il numero di circa 245 anni, quanti ne risultavano
attribuendo ad ognuno dei sette re un periodo di
regno della durata media di 35 anni, ossia all’incirca
lo spazio di una generazione. Un procedimento più
o meno plausibile, ma fondamentalmente arbitrario,
e i suoi risultati non si accordano col dato dello
scavo archeologico, che qualche decennio fa ha
messo in luce resti di capanne del IX sec. sul
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Palatino, dalla parte del Cermalo. Questa zona, che
anche la tradizione indicava come quella su cui
Romolo avrebbe fondato Roma (e che di fatto, per
la sua posizione dominante sul Tevere nel punto in
cui l’isola Tiberina ne facilitava l’attraversamento, si
presentava come una delle più idonee per un
insediamento), fu dunque stabilmente abitata almeno
dal IX sec. a.C. Naturalmente, altra cosa dal
cominciare dei primi insediamenti stabili, di non
precisabile datazione, è l’origine di una vera e
propria comunità organizzata, costituitasi dal
sinecismo del nucleo impiantato sul Palatino con
quello del Campidoglio, del Quirinale e via via degli
altri colli.
In questa primitiva comunità romana i più
antichi ordinamenti politici li troviamo imperniati
intorno alla figura di un rex, il quale ripeteva la sua
autorità, politica e religiosa insieme, dalla
designazione del populus. Il popolo, in una certa fase
di sviluppo degli ordinamenti statali ancora in
embrione, si articolò in tribus e curiae,
raggruppamenti a base familiare e gentilizia nei quali
si coordinava la vita della comunità e del singolo in
ogni atto che avesse rilevanza giuridica: nella
tradizione è allo stesso Romolo, il mitico fondatore
della città, che viene attribuita la creazione sia delle
tre tribù gentilizie dei Ramnes, Tities e Luceres, sia
delle trenta curie, dieci per ogni tribù. In origine
l’ordinamento a base gentilizia esprimeva e tutelava
gl’interessi della classe nobiliare che deteneva il
potere; con lo sviluppo dell’organizzazione statale le
curie si vennero poi trasformando in organi di
governo, e le loro competenze passarono
all’assemblea generale delle trenta curie, i comitia
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curiata. Questi divennero la principale assemblea
civile del popolo romano, con il potere anche di
eleggere il rex.
Oltre ai comizi curiati, che si radunavano alle
pendici del Campidoglio nell’angolo settentrionale
del Foro, esistevano i comitia centuriata, cioè
l’assemblea del popolo in armi diviso per centurie.
Queste centurie, composte di cento uomini, erano le
unità base della fanteria, e in esse si articolava la
legio (= leva) formata complessivamente di 3.000
fanti e 300 cavalieri forniti da ciascuna delle 3 tribù.
Tanto i comizi curiati quanto i centuriati si
adunavano per convocazione del rex, e di fronte a
lui erano privi di ogni iniziativa: un sistema che
manifestamente riproduceva i modi di una ferrea
disciplina militare e che poi si perpetuò come un
costume caratteristico delle assemblee politiche
romane. Gli elementi più cospicui del populus si
acconciarono a questo tipo di assemblea senza
libertà di parola perché potevano far sentire la loro
voce nel senatus. Ancora lo stesso Romolo, secondo
la tradizione, avrebbe istituito quest’organo
consultivo del rex; esso era formato dagli elementi
più rappresentativi del patriziato, che era in
posizione di superiorità rispetto alla massa dei
plebei, e anche questa distinzione del popolo in
patrizi e plebei sarebbe stata opera di Romolo. In
realtà, in una società a base prettamente agricola
dove sussisteva la proprietà terriera, era naturale che
assai presto si formasse da una parte un certo
numero di famiglie più ricche (che a poco a poco si
costituirono in un’aristocrazia fondiaria) e dall’altra
la moltitudine dei meno ricchi fino alla indigenza
(plebs è da confrontare col greco pléthos): si
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diversificarono così i patrizi e i plebei, questi ultimi
normalmente in rapporto di dipendenza verso i
primi come clientes verso il patronus. Le cose,
naturalmente, cambiarono quando si presentarono
condizioni industriali e commerciali favorevoli a
nuove e diverse ricchezze, e la vecchia aristocrazia
fondiaria, per quanto organizzata a difesa dei suoi
privilegi, dovette subire la concorrenza di famiglie
plebee che si affacciavano in primo piano nella vita
politica e sociale.
5. Evoluzione dell’istituto regio e avvento della
repubblica. - Come su Romolo, così sugli altri re di
Roma la tradizione ci ha conservato racconti relativi
a opere di pace (ordinamenti religiosi e giuridici,
lavori pubblici, ecc.) e a imprese di guerra contro le
comunità vicine; tutti racconti sui quali è legittimo
esercitare punto per punto il vaglio della critica, ma
arbitrario giungere a conclusioni globalmente
distruttive (come quella, p. es., di non credere
all’esistenza di un periodo monarchico in Roma). Se
ne farà qualche cenno più avanti; qui conviene
piuttosto
soffermarsi
sulle
caratteristiche
dell’istituto regio dei Latini. A tal fine bisogna tener
conto della “comune nazionalità italica” (come l’ha
chiamata G. D E S ANCTIS , Storia dei Romani, I, p. 170)
“dei Siculi e dei Latini”. Perciò è possibile il
confronto tra istituto regio dei Latini e istituto regio
dei Siculi (v. S. M AZZARINO , Dalla monarchia allo
stato repubblicano, p. 28 sgg.). Infatti nel Lazio antico,
e particolarmente a Roma, il rex oltre le funzioni di
comando sopra ricordate ha anche funzioni sacrali:
«Egli è il capo dello stato romano arcaico, e
l’esistenza di un’età regia in Roma è confermata
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(oltre che dalla tradizione sui sette re di Roma)
dall’istituto del l’interrex, dall’esistenza (in età
repubblicana) di un rex sacrorum e di una regia, e da
molti altri indizi, tra cui quello del cippo del Foro».
Anche presso i Siculi si trova che il re, detto rhesós,
ha caratteri sacrali. Un frammento di Epicarmo
mostra che a questo commediografo greco il rhesós
appare un capo veramente strano: un capo che
sovrintende agli oracoli. A noi moderni il rhesós
siculo «deve apparire un rudimento dell’arcaico stato
siculo, conservatosi ancora al tempo di Epicarmo,
vale a dire agl’inizi del 5° secolo. Il re dei Siculi
(rhesós) è rex e augur... In epoca storica, il rex appare
a Roma come sacerdote, rex sacrorum: il sacerdozio
del rex sacrorum può dare un’immagine di quel
contenuto sacrale originario, che nell’istituto della
regalità romana dovette assumere un’importanza
notevole, accanto al contenuto militare e
giusdicente».
Da questa regalità primitiva si passò ad una
nuova concezione del potere, e a una nuova prassi
nel suo esercizio, che s’inquadra nell’evoluzione
costituzionale delle città laziali come viene chiarita
da un fregio architettonico di Velletri. I rilievi di
questo fregio si riferiscono (S. M AZZARINO , op. cit.,
p. 58 sgg.) «a una scena di vita pubblica, e non già a
figurazione di dèi. Essi vanno datati alla seconda
metà del 6° secolo, e piuttosto nei primi che negli
ultimi decenni (all’incirca 550-525 a.C.) e mostrano
che in questo periodo esisteva già una collegialità
magistratuale». In conclusione (p. 76) «il rilievo di
Velletri ci presenta uno stato con magistrature
collegiali. La collegialità esisteva dunque nello stato
da cui proviene la matrice di quel rilievo già nella
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seconda metà del 6° secolo. Roma non poté essere
estranea a questa innovazione».
Il problema del modo in cui nelle città
etrusco-laziali si passò dalla monarchia alla
collegialità del potere si pone nel modo seguente.
Nella costituzione romana c’è un istituto con
caratteristica “collegialità disuguale”: la dittatura.
Infatti il dictator nomina un suo “collega
subordinato”: il magister equitum. D’altra parte, in
alcune città del Lazio (Aricia, Nomento, Lanuvio) il
dittatore è ordinario (non già straordinario, come il
romano) e annuale. Connettendo i due dati, è facile
pensare che dalla monarchia alla repubblica il
passaggio avvenisse, in Roma, attraverso una
magistratura ordinaria e annuale, e che questa fosse,
come in quelle città latine, la dittatura. Com’è noto
il De Sanctis (op. cit., I p. 393) cercò di spiegare quel
passaggio con la seguente teoria: «I consoli in età
storica erano due. La tradizione aggiunge che nel
366 si diede ad essi un terzo collega col titolo di
pretore, ossia col titolo stesso che allora i consoli
portavano... Non è chi non veda quanto questa
tradizione sull’origine della pretura sia poco
plausibile... È lecito congetturare che fin dall’origine
i pretori fossero tre... In tal guisa si spiega come
solo i due primi divenissero gli eponimi, e come
invece coloro che occupavano il terzo posto si
prendessero a registrare solo più tardi, quando si
cominciò a tener nota anche dei magistrati non
eponimi ... Tale ipotesi rende ragione della dualità,
così singolare in un collegio di magistrati supremi
quali erano i consoli romani ... Il numero di tre ha
poi facile spiegazione nel numero delle tribù. I
pretori furono, come è da credere, in origine i
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comandanti dei Tiziensi, Ramnensi e Luceri,
subordinati dapprima al re, poi, declinando l’autorità
regia, a lui non sottoposti [...]; divenuti comandanti
supremi dell’esercito e poi capi dello Stato, le loro
attribuzioni non erano più compatibili col comando
dei reggimenti delle tribù».
Tale ricostruzione del De Sanctis parte da un
atteggiamento di diffidenza verso molti dati della
tradizione, diffidenza che, se pur temperata rispetto
a precedenti posizioni critiche, appare oggi sempre
più da circoscrivere. «La tradizione sul periodo regio
è assai meno priva di valore di quanto non si
credeva un tempo; oggi un atteggiamento del tutto
negativo ed ipercritico sarebbe ingiustificato. Già i
nomi dei primi re, ed alcuni elementi tradizionali ad
essi relativi, non vanno soggetti a dubbi: a
prescindere da Romulus, nessuno più dubita o
dovrebbe dubitare che di Numa Pompilio, Tullo
Ostilio, Anco Marcio i nomi sono autentici, essendo
impossibile che essi venissero inventati in epoca in
cui nessuno avrebbe avuto interesse a inventarli; ed
anche le imprese ad essi attribuite rispondono, con
varie amplificazioni e confusioni e reduplicazioni, a
verità (p. es., la distruzione di Alba Longa per opera
di Tullo Ostilio). Per il periodo più recente, la
tradizione dà altresì non solo nomi che non vanno
soggetti a dubbi, quando parla dei due Tarquinii e
fra essi pone Servio Tullio, ma anche attribuisce a
questi imprese che certo a quel periodo vanno
attribuite». Così il Mazzarino (op. cit. p. 182 sgg.),
che sulla base di queste premesse ha collegato la
tradizione romana con quella etrusca, nota dai
dipinti della tomba François di Vulci. In tali dipinti
il personaggio indicato col nome di MACSTRNA è
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l’autore principale della rivoluzione “democratica”
che pose fine al governo di Cneve Tarchu[nies] rumach
(= Cnaeus Tarquinius Romanus), e macstrna è il
rendimento etrusco di magister, termine che nella
formula magister populi equivaleva, in Roma, a dictator.
La fine della dinastia degli Etruschi in Roma fu
uno degli ultimi episodi del declino della loro
potenza in Campania e nel Lazio, sanzionato dalla
sconfitta subita presso Aricia nel 524 ad opera dei
Cumani uniti ai confederati Latini.
Sull’etnografia dell’Italia preromana, S. P UGLISI , La civilt à
appenninica. Origini delle comunità pastorali in Italia, Firenze 1959; M.
P ALLOTTINO , Sulla cronologia dell’età del bronzo e dell’età del ferro in
Italia, in «Studi Etruschi» XXVIII (1960), p. 11 sgg.: I D ., Le origini
storiche dei popoli italici, in «Relazioni del X Congresso Intern. di
Scienze Storiche, Roma 1955», II, p. 3 sgg.
Sulla provenienza degli Etruschi dall’Oltralpe, G. D E
S ANCTIS , Storia dei Romani, I, Torino, 1907, p. 125 sgg.; L. P AR ETI ,
Storia di Roma e del mondo romano, I, Torino 1952, p. 110 sgg.; sulla
provenienza orientale, fra gli altri, A. P IGANIOL , Les Etrusques peuple
d’Orient, in «Cah. hist. mond.» I (1953), p. 328 sgg. In generale, cfr.
M. P ALLOTTINO , Etruscologia, 5 a ed. Milano 1953.
Su Latini e Aborigeni, G. D E S AN CTIS , op. cit., I, p. 170 sgg.;
sull’estendersi del Latium, G. V ITUCCI in «Dizionario epigrafico di
antichità romane fondato da E. De Ruggiero», IV, p. 430 sg. Alcuni
nomi dei populi che partecipavano alle celebrazioni annuali in onore
di Iuppiter Latiaris li conosciamo attraverso un elenco che ci è stato
trasmesso da Plinio (Nat. hist. III 69). Tale elenco riguardava le
comunità che in seguito avevano cessato di esistere, e fra queste ne
compaiono due che destano uno speciale interesse. Si tratta de i
Querquetulani e dei Velienses. Tacito (Ann. IV 65) ricorda che
anticamente il Celio si chiamava Querquetulanus, mentre i Velienses
sono evidentemente gli abitanti del Velia, il colle che sorgeva fra il
Palatino e l’Esquilino. Pertanto in quell’elenco si conserva traccia
di un tempo in cui esistevano due comunità a sé stanti, quella del
Celio e quella del Velia, comunità ben distinte da quella di Roma, la
quale probabilmente ancora non si era costituita dal sinecismo
degl’insediamenti sparsi sui vari colli (cfr. S. M AZZARINO , Il pensiero
storico classico, I, Bari 1966, p. 193 sg.). A risultati notevolmente
16
nuovi, ma poco convincenti, è arrivato G. G JERSTAD (Legends and
facts of early Roman history, Lund 1962) attraverso un’analisi dei dati
della tradizione e il loro raffronto con gli elementi che si ricavano
dalla esplorazione archeologica; in conclusione, l’inizio della storia
di Roma dovrebbe essere posticipato di quasi due secoli.
Il testo del primo trattato romano-cartaginese viene così
riferito in P OLYB . III 22: «Fu dunque stipulato il primo trattato fra
Romani e Cartaginesi al tempo di Lucio Giunio Bruto e di Marco
Orazio, i primi che furono creati consoli dopo l’abolizione della
monarchia, dai quali fu anche consacrato il tempio di Giove
Capitolino. Questi fatti sono di ventotto anni anteriori al passaggio
in Grecia di Serse. Il quale (trattato) noi abbiamo trascritto qui di
seguito dopo averlo interpretato con la massima precisione
possibile. Tale infatti anche presso i Romani è la differenza fra la
lingua attuale e quella antica, che a stento anche i più esperti sono
riusciti a comprenderne alcune espressioni. Il trattato suona press’a
poco così: Alle seguenti condizioni sia amicizia tra i Romani e gli
alleati dei Romani (da un lato) e i Cartaginesi e gli alleati de i
Cartaginesi (dall’altro); non navighino i Romani né gli alleati dei
Romani oltre il promontorio Bello, se non costretti da una
tempesta o da nemici, e se qualcuno vi fosse trasportato per forza,
non gli sia lecito né di fare compere né di prendere se non quanto
sia necessario a riparare la nave e alle sacre cerimonie, ed entro
cinque giorni riparta. Quelli che arrivano per ragioni di commercio
non possano concludere alcun affare se non con l’intervento di un
banditore o di uno scriba. Delle cose che in presenza di costoro
siano vendute, tanto in Africa quanto in Sardegna, sotto pubblic a
garanzia il prezzo sia dovuto al venditore. Se qualcuno dei Romani
giunga in Sicilia, nella zona che dominano i Cartaginesi, abbia
completa uguaglianza di diritti. I Cartaginesi non rechino danno al
popolo di Ardea, di Anzio, di Laurento, di Circei, di Terracina, né
ad alcun altro popolo dei Latini quanti (siano) soggetti (ai Romani);
se alcuni non sono soggetti, si astengano dalle (loro) città, e se poi
(ne) dovessero prendere (qualcuna), la consegnino intatta ai
Romani. Non costruiscano una fortezza nel Lazio. Se entrano nel
territorio (del Lazio) come nemici, non vi dovranno pernottare»
(Circa questo trattato, vedi il capitolo seguente).
Sulla data calcolata da Fabio Pittore per la nascita di Roma, e
su altri problemi connessi con gl’inizi della storiografia romana, G.
V ITUCCI , in «Helikon», 1966, p. 401 sgg.
Circa i fasti consolari (espressione che significa “elenco d i
consoli”) si ricordi l’importanza che tale elenco ebbe nell’antico
mondo romano per individuare i singoli anni, e ciò sia in generale
per i bisogni della vita pratica, sia poi nell’uso storiografico per
indicare la cronologia dei fatti. Nella lista i vari anni si
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distinguevano dal nome dei magistrati eponimi, e questi furono per
lo più i consoli (donde il nome di fasti consolari) salvo il periodo in
cui si ebbero i decemviri consulari imperio legibus scribundis e poi i
tribuni militum consulari potestate (v. appresso). Considerata
l’importanza dei fasti consolari per l’ordinato svolgimento della vita
civile, è da ritenere che se ne cominciasse la registrazione non
molto dopo l’inizio della repubblica, il che rappresenta un
importante elemento a favore della genuinità della lista anche nella
sua parte più antica, mentre una tendenza ipercritica vedrebbe in
tale parte il prodotto di un posteriore lavorio di interpolazioni. Su
ciò v. K.J. B ELOCH , Römische Geschichte, Berlin 1926, p. 1 sgg.
I fasti consolari ci sono giunti in una duplice redazione; un a
proviene soprattutto dalle fonti annalistiche (Diodoro Siculo, Livio,
Dionisio di Alicarnasso, che nel loro racconto distinguono appunto
il succedersi degli anni menzionandone gli eponimi), l’altra da fonti
cronografiche quali il “Cronografo del 354”, i “Fasti Idaciani” e il
“Chronicon Paschale”. A tali fonti cronografiche se ne deve
aggiungere una quarta, che fu redatta non come opera letteraria, ma
per essere incisa sull’arco di Augusto nel Foro Romano. Di questa
lista, che elencava gli eponimi dall’inizio dell’età repubblicana al 13
d.C., molti frammenti furono trovati e ricomposti, col concorso di
Michelangelo, nel Palazzo dei Conservatori in Campidoglio, donde
la loro denominazione di Fasti Capitolini. Una recente edizione d i
essi (e degli altri fasti superstiti) è stata curata da A. Degrassi nel
vol. XIII delle Inscriptiones Italiae.
Le varie liste a noi in tal modo pervenute sono identiche a
cominciare dal 280 a.C. in poi, mentre per la parte anteriore esse
presentano varie discrepanze, fra cui sono da ricordare almeno due.
Livio (VI 35, 10) registra un periodo di cinque anni, dal 375 al 371,
in cui a causa della violenza dei contrasti fra plebe e patriziato si
sarebbe verificata una solitudo magistratuum, cioè sarebbero stat i
eletti solo tribuni e edili della plebe (Licinius Sextiusque tribuni plebis
refecti nullos curules magistratus creari passi sunt; eaque solitudo
magistratuum et plebe reficiente duos tribunos et iis comitia tribunorum
militum tollentibus per quinquennium urbem tenuit); tale periodo invece
si riduce a quattro anni in Eutropio (II 3: Verum dignitas tribunorum
militarium non diu perseveravit. Nam post aliquantum nullos placuit fieri et
quadriennium in urbe ita fluxit, ut potestates ibi maiores non essent), e così
pure in Zonara (VII 24) e nei “Fasti Idaciani”, mentre diventa di un
solo anno in Diodoro (XV 75, 1: Nell’anno in cui ad Atene fu
arconte Polizelo, si verificò a Roma, a causa di certi contrasti fra i
cittadini, una “anarchia”).
L’altra particolarità da notare sono i quattro cosiddetti “ann i
dittatoriali”, registrati unicamente dai Fasti Capitolini, secondo i
quali nel 333, 324, 309 e 301 il governo della repubblica sarebbe
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stato per tutto l’anno nelle mani di un dittatore, che ne sarebbe
pertanto divenuto l’eponimo.
Solitudo magistratuum e anni “dittatoriali”, inammissibili come
realtà storica, si rivelano espedienti intesi ad allungare la lista ed
escogitati quando ci si accorse che il numero dei collegi di eponim i
era inferiore a quello degli anni.
Sui più antichi ordinamenti di Roma, A. F ER RABINO , L’Ital ia
romana, Milano 1934, p. 18 sgg.; L. P AR ETI , op. cit., I, p. 237 sgg.; P.
D E F RAN CISCI , La comunità sociale e politica romana primitiva, in
«Relazioni del X Congresso», cit., II, p. 63 sgg.
19
II
La repubblica sotto il predominio dei
patrizi.
1. I primi rapporti politici con Cartagine e il ritorno
degli Etruschi. - Uno dei primi atti a noi noti del
governo repubblicano fu la conclusione di un
trattato di amicizia e di commercio con i Cartaginesi
(l’implacabile rivalità tra Roma e Cartagine era
ancora di là da venire!). Ce ne dà notizia Polibio (III
22), il quale, come s’è visto, afferma che l’accordo fu
stipulato “essendo consoli L. Giunio Bruto e Marco
Orazio” (primo anno della repubblica [509 a.C.]) e
aggiunge che il documento, inciso su tavole di
bronzo, era ai suoi tempi conservato presso il
tempio di Giove sul Campidoglio. Cartagine, fondata
alcuni secoli prima da coloni fenici provenienti da
Tiro, aveva acquistato sempre maggior potenza fino
a diventare il centro politico e commerciale di un
vasto impero. Nella seconda metà del VI secolo i
Cartaginesi avevano vittoriosamente conteso con
Marsiglia, colonia greca fondata dai Focesi, per il
predominio
commerciale
nel
Mediterraneo
occidentale, e in questa lotta avevano avuto
l’appoggio degli Etruschi. Da tale momento presero
l’avvio i rapporti amichevoli fra Cartaginesi e
Romani, la cui politica si svolgeva allora sotto
l’influenza etrusca, e pare che proprio per
confermare quelle buone relazioni dopo il
mutamento di regime avvenuto in Roma venisse
stipulato il trattato di cui ci parla Polibio. Ora è da
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considerare che in questo trattato i Romani si
atteggiano a protettori di varie città dell’interno e
della costa fino alla lontana Terracina, ma poiché
tale protettorato non corrispondeva affatto alla reale
situazione politica, se ne deve ricavare che in quel
momento il governo di Roma nutriva aperte pretese
al predominio su quei popoli del Lazio e, per
intanto, le faceva valere nei confronti di Cartagine.
Però a così rosee speranze i tempi erano poco
propizi: i Latini, in realtà, erano tutt’altro che pronti
a riconoscere la supremazia di Roma e, per di più, la
città dové presto affrontare il ritorno offensivo degli
Etruschi.
Secondo la tradizione vulgata, Tarquinio aveva
spinto Porsenna, il re di Chiusi, a costringere con la
forza i Romani a rimetterlo sul trono, e n’era nata
una guerra terribile. Se essa non era terminata col
disastro, il merito era stato tutto degli atti di
eroismo compiuti dal fiero Muzio Scevola, dal
fortissimo Orazio Coclite, dall’intrepida Clelia, che
riempirono di ammirazione il re etrusco inducendolo
a togliere il blocco della città e a concedere
onorevoli condizioni di pace, mentre Tarquinio
veniva abbandonato al suo destino. In realtà le cose
andarono assai diversamente; accadde, cioè, che
Roma fu vinta dagli Etruschi e costretta ad accettare
le più dure imposizioni, fra cui quella di rinunziare a
tutti gli armamenti. La città era alla mercé dei
vincitori, e fu in grazia del colpo subìto dalla
potenza etrusca nella battaglia di Aricia se l’impresa
di Porsenna nel Lazio e la nuova sottomissione di
Roma si risolse in un fatto passeggero.
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2. Le città latine e Roma - I Latini che, sia pure
indirettamente, avevano impedito che in Roma
s’instaurasse nuovamente la dominazione degli
Etruschi, erano uniti in una lega che stringeva
intorno a Tuscolo (a 5 km dall’odierna Frascati)
alcune importanti città, site per lo più sui Colli
Albani, e aveva come centro sacrale il santuario di
Diana nel territorio di Aricia. Come s’è detto, essa
rappresentava, dopo la distruzione di Alba Longa e
il declino dell’antica lega di Iuppiter Latiaris, uno
degli organismi più importanti del Lazio, cui Roma,
già negli ultimi tempi della monarchia, aveva cercato
di contrapporre un’altra lega da essa diretta, quella
che aveva il centro nel tempio di Diana
sull’Aventino.
Noi non sappiamo in quali precise circostanze,
vari anni dopo, avvampò la guerra fra Roma e la lega
capeggiata da Tuscolo, ma si può ragionevolmente
dubitare che i Romani riportassero nella battaglia del
Lago Regillo (oggi prosciugato, nelle vicinanze di
Frascati) quello strepitoso successo di cui parlò più
tardi la “storia ufficiale”, poiché sembra che a
spingere i contendenti a venire a un accordo fosse la
minacciosa avanzata nel Lazio di popoli vicini.
Unico punto fermo - ma anche qui non mancano
motivi di varie incertezze - è che la guerra si
concluse a favore dei Romani intorno al 493 con un
trattato che vien detto foedus Cassianum da Spurio
Cassio, il console che lo stipulò.
In forza di questo trattato, il cui testo poteva
ancora leggersi a Roma alcuni secoli dopo, cioè al
tempo di Cicerone, si stabilivano non solo accordi di
pace e di alleanza, ma anche si regolavano gli
scambievoli rapporti, in materia di commercio, tra i
22
cittadini di Roma e quelli delle diverse città latine.
Un particolare, quest’ultimo, assai importante
perché rappresentava il primo passo di quel lungo
processo di assimilamento che avrebbe portato
all’unificazione dei Latini nel nome di Roma. Il
trattato era stato concluso a parità di condizioni,
vale a dire che in quel momento la potenza romana
era riconosciuta uguale a quella di tutti i Latini uniti
insieme, ma un sì grande successo non fu ritenuto
sufficiente dalla “storia ufficiale”, che più tardi parlò
addirittura di una supremazia instaurata allora da
Roma sul Lazio. In realtà, tale supremazia Roma
l’acquistò non al principio, ma alla fine del V sec.
a.C., cioè dopo aver validamente concorso alla
difesa delle città latine maggiormente esposte alla
marea dei popoli confinanti che minacciava di
sommergerle. Nel corso del V secolo, infatti, a più
riprese Roma dovette scendere in campo non
soltanto contro la ricorrente pressione degli
Etruschi sui confini settentrionali, ma anche contro
i Sabini, gli Equi e i Volsci che premevano sul Lazio
spostandosi dalle loro sedi montane (a un dipresso
nell’odierno Abruzzo occidentale) in direzione delle
terre più fertili verso il mare. L’alleanza tra Romani
e Latini, stretta sotto la spinta dei comuni pericoli,
stava per subire la prova del fuoco.
3. Lotte contro i Sabini, gli Equi, i Volsci. - Anche
lo sviluppo di questi lontani avvenimenti subì la
consueta deformazione nel racconto degli storici
romani, ma non al punto che non possiamo farcene
un’idea sia pure sommaria e, soprattutto, constatare
che per fortuna delle città latine mancò una vera
intesa fra i loro aggressori. Per quanto riguarda la
23
stessa Roma, il pericolo più grave fu rappresentato
ad un certo momento dai Sabini che, dopo una serie
di incursioni verso il sud fino all’Aniene, riuscirono
nel 460 a penetrare nella città e ad occupare la
roccaforte del Campidoglio! La riscossa però fu
immediata, grazie anche - come pare - all’aiuto dei
Tuscolani, e dopo non molti anni, nel 449, una
nuova vittoria allontanava per sempre da Roma la
loro minaccia.
Quanto agli Equi, essi, dopo aver sommerso,
oppure attirato dalla loro parte, Praeneste (Palestrina)
e aver occupato altri centri latini minori (tra cui
Labici, forse l’odierna Monte Compatri), giunsero ad
accamparsi sul monte Algido (Maschio dell’Ariano)
fra i Colli Albani, a pochi chilometri da Tuscolo. E
fu appunto sui Tuscolani che maggiormente gravò il
compito di fermare gli Equi, anche se più tardi gli
storici romani esaltarono il contributo delle armi
romane, specie con la vittoria riportata nel 458 dal
dittatore Cincinnato.
Del resto un notevole apporto alla causa
comune fu dato anche dagli Ernici, un popolo
stanziato a sud degli Equi e pertanto ugualmente
soggetto alla loro pressione. Gli Ernici costituivano
anch’essi una lega che si raccoglieva intorno ad
Anagnia (altri centri più importanti: Ferentinum, od.
Ferentino; Aletrium, od. Alatri; Verulae, od. Veroli), e
fin dal 486 furono accolti a parità di condizioni
nell’alleanza che univa Romani e Latini e che si
trasformò allora in alleanza fra Romani, lega latina e
lega ernica.
Solo verso la fine del secolo i tre collegati
riuscirono a bloccare la spinta espansionistica degli
24
Equi, costringendoli a ritirarsi dalle posizioni che
avevano guadagnato nel Lazio.
Ancora più duro fu lo scontro contro i Volsci
che, aprendosi un varco fra gli Aurunci e i Latini,
all’inizio del V secolo dilagarono nell’agro Pontino
occupando la regione costiera da Terracina (che essi
chiamarono Anxur) fin oltre Anzio, e spingendosi
nell’interno fino a Velletri. Come capisaldi per
contenere la loro avanzata, furono fondate (intorno
al 492) le colonie di Norba (Norma) e Signia (Segni);
quindi si combatté una serie di lotte asprissime nel
cui racconto venne intessuta, fra l’altro, la storia di
Gneo Marcio Coriolano, il condottiero ribelle che,
costretto in esilio, si sarebbe posto a capo dei Volsci
guidandoli di vittoria in vittoria da Circei fino a
poche miglia da Roma. La spinta volsca verso il
nord lungo il litorale per poco non culminò nella
caduta di Ardea: la città fu rafforzata con l’invio di
coloni diventando anch’essa colonia latina (439). La
presa di Anxur nel 406 e il successivo trapianto di
coloni a Velletri nel 404 e a Circei nel 393 segnano
le ultime tappe della sottomissione dei Volsci, anche
se continuò a verificarsi qualche tentativo di
ribellione.
4. Guerre con gli Etruschi. - A nord più diretto
interesse ebbe per Roma la lotta contro gli Etruschi
meridionali, soprattutto quelli di Veio, una popolosa
e ricca città che sorgeva a circa una ventina di
chilometri sulle rive del Cremera, piccolo affluente
del Tevere. Verso l’inizio del V secolo, mentre
urgeva sul Lazio la minaccia dei Volsci e degli Equi,
i Veienti fecero ripetute scorrerie entro il territorio
romano e riportarono anche grossi successi, come
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quello dell’anno 477 in cui restarono sul campo
quasi tutti i membri della nobile gens dei Fabi (si
sarebbe salvato solo un giovanetto, destinato ad
avere
tra
i
suoi
discendenti
il
grande
Temporeggiatore). Fu un grave colpo per i Romani,
di cui la “storia ufficiale” non poté cancellare il
ricordo, ma solo abbellirlo con i colori della
leggenda. Però alcuni decenni dopo, fermati gli Equi
e i Volsci, la situazione si capovolse e fu Roma a
prendere l’iniziativa delle ostilità. Dapprima, nel
426, venne distrutta Fidene (presso Castel Giubileo);
poi fu la volta di Veio, espugnata nel 396 dopo un
assedio di dieci anni.
Molti dei particolari che gli storici romani
raccontarono su questa guerra debbono ritenersi
leggendari, a cominciare dallo stesso assedio la cui
durata sembra richiamare quella dell’epico assedio di
Troia: in maniera particolare fu ingigantita la figura
di Marco Furio Camillo, il capitano che condusse a
termine l’ardua impresa. Tuttavia è certo che i
Romani avevano riportato sui vicini Etruschi un
successo di prim’ordine. Infatti, delle città che
avevano dato aiuto a Veio, le minori furono
anch’esse conquistate, come Capena, Sutrium (Sutri) e
Nepet (Nepi), mentre con quella assai importante di
Falerii (Civita Castellana), il principale centro del
popolo dei Falisci, fu concordata una tregua. Di
questa in realtà si trattò, più che di una pace, anche
se poi gli storici romani favoleggiarono che i Falisci
si sarebbero addirittura sottomessi a Camillo
ammirati per il suo rifiuto di impadronirsi della città
col tradimento. Egli avrebbe infatti respinto la
proposta di un maestro di scuola, il quale gli aveva
26
offerto di consegnargli i suoi discepoli, tra cui erano
i figli dei maggiorenti falisci.
Dei paesi così conquistati, quelli di Veio e
Capena, come già quello di Fidene, entrarono a far
parte del territorio propriamente romano, mentre
Sutri e Nepi, con l’invio di un certo numero di
coloni, furono trasformate in colonie latine, al pari
di quanto già era stato fatto per Norba, Signia,
Ardea e Circei.
5. Colonie romane e colonie latine. Origini del “diritto
latino”. - Riguardo alle suddette (e, via via, alle
future) colonie latine si deve notare come esse si
distinguessero nettamente dalle colonie romane. Le
colonie romane nacquero con una funzione
essenzialmente militare, e furono impiantate per lo
più sulla costa a difesa dagli attacchi provenienti dal
mare. Erano costituite da poche centinaia di
cittadini romani, che tali restavano nella loro nuova
sede, anche se praticamente, per la lontananza da
Roma, non potevano più esercitare i loro diritti di
cittadinanza.
Le colonie latine, invece, ebbero importanza
per Roma non solo dal punto di vista militare, per la
posizione strategica in cui sorgevano, ma anche - e
sempre più - dal punto di vista economico e sociale
come sfogo all’emigrazione dei più bisognosi. Esse
erano costituite con l’invio di coloni provenienti sia
da Roma, sia dalle città degli alleati Latini ed Ernici,
e diventavano altrettante comunità latine comprese
nella lega latina; pertanto quei Romani che vi erano
inviati come coloni cessavano di essere cives Romani e
diventavano cittadini della nuova comunità latina.
Ma se, in tal modo, Roma perdeva un certo numero
27
di cittadini nel tempo stesso che si ingrandiva la lega
delle città latine, questi svantaggi erano compensati
dalla presenza, nelle nuove comunità latine, di
elementi in genere favorevoli alla politica romana.
Di grandissima importanza fu poi che, per
evitare che rimanesse troncato ogni rapporto fra tali
coloni ex-Romani e la loro patria d’origine, si venne
sviluppando il così detto “diritto latino” in forza del
quale furono a quelli concessi alcuni privilegi come
la facoltà di sposarsi in Roma (ius conubii) e di
riacquistare la cittadinanza romana col semplice
trasferimento del domicilio in Roma (ius migrandi).
Più
tardi
questi
privilegi
furono
estesi
indistintamente a tutti i Latini, onde costoro
godettero di una posizione privilegiata rispetto agli
altri popoli con cui Roma strinse via via rapporti di
alleanza.
A proposito dei quali si deve ricordare che
l’espansione dello Stato romano ben presto si
sviluppò a preferenza attraverso la forma federativa.
Quando cioè Roma affermò la sua supremazia sui
popoli vicini, solo in piccola parte li assoggettò
immediatamente
al
suo
diretto
controllo
incorporandoli nel territorio dello Stato; ai più,
invece, conservò la loro autonomia legandoli però a
sé con un patto di alleanza (foedus), trasformandoli
cioè in foederati con particolari diritti e doveri. Tra
questi alleati i Latini ebbero, come dicevamo, una
posizione di privilegio. L’affermarsi di Roma in
Italia, pertanto, sarà per lungo tempo segnato non
tanto dall’ampliarsi del suo territorio - che fu
piuttosto lento - quanto dall’allargarsi della cerchia
dei suoi foederati.
28
6. Predominio politico e religioso dei patrizi sopra i
plebei. - La riluttanza verso il troppo rapido dilatarsi
dello Stato era uno degli aspetti della tendenza
eminentemente conservatrice della classe che
reggeva il timone della repubblica. Un’eccessiva
espansione territoriale avrebbe comportato un
moltiplicarsi
dei
problemi
di
governo
e
rappresentato, quindi, una grave incognita per il
predominio del patriziato, predominio che la parte
più numerosa del popolo romano, cioè la plebe, era
sempre meno disposta a subire. Difatti per tutto il V
secolo si agitarono in Roma contrasti talvolta più
aspri delle guerre combattute senza posa contro i
Volsci o gli Equi o gli Etruschi.
I plebei, che avevano dovuto condividere gli
sforzi e i sacrifici imposti dalla politica dei patres,
aspiravano ad acquistare nel governo della
repubblica un peso maggiore di quello, assai scarso,
che avevano. E la plebe non era costituita soltanto
dal popolo minuto, ma ne facevano parte anche
elementi cospicui per capacità d’ingegno e di lavoro,
i quali però, appunto perché estranei alla cerchia
delle grandi famiglie nobiliari, erano esclusi dalla
carriera politica: una condizione, questa, tanto più
inaccettabile se si pensa che (come mostra la parte
iniziale dei fasti consolari) all’inizio della repubblica
uomini della plebe avevano raggiunto, col consolato,
il più alto fastigio nella direzione dello Stato. Da tale
direzione, peraltro, essi erano stati a poco a poco
allontanati ad opera dei patrizi, che vennero
monopolizzando l’esercizio del potere fino a
costituirsi in casta chiusa.
Però se la lotta fra patrizi e plebei conobbe
episodi veramente drammatici, essa non mise mai in
29
pericolo le sorti della repubblica: opportune
concessioni da parte dei patrizi e consapevole
rispetto dei principi tradizionali (mos maiorum) da
parte dei plebei consentirono di mantenere una
concordia capace di assicurare col tempo non solo le
maggiori fortune, ma anche un ordinato progresso
morale e civile.
Nel mondo antico religione e politica si sono
sempre e variamente mescolate; soprattutto in
Roma, dove tale confusione fu favorita dal carattere
stesso della religione romana. Sorta, come presso le
altre genti d’Italia, da un’ingenua venerazione per le
immense forze e i grandiosi fenomeni della natura
(Iuppiter è in origine il dio del cielo luminoso; Iuppiter
Fulgur propriamente non è che il dio-fulmine)
commista a forme primitive di totemismo (si pensi
al culto di Iuppiter Lapis, una pietra conservata sul
Campidoglio) e di animismo (credenza nell’azione
buona o cattiva degli “spiriti”), la religione romana
conservò la sua arcaica rozzezza anche quando, per
influsso della civiltà ellenica, si fuse col paganesimo
greco. Alcune divinità si elevarono allora al livello
delle più evolute concezioni dei Greci (onde Iuppiter
fu identificato col maestoso Zeus dell’Olimpo, Iuno
con Hera, Minerva con Athena, ecc.), altre subirono
una completa trasformazione della loro essenza
(come Venere, in origine custode degli orti, che fu
poi assimilata ad Afrodite e divenne la dea
dell’amore con tutti i relativi attributi), ma questo
processo di fusione non valse ad incrinare la vetusta
compagine religiosa dello spirito romano. In essa
non un anelito di elevazione spirituale, ma solo
l’ansia di propiziare all’individuo, alla famiglia, e
soprattutto allo Stato l’aiuto degli dei, concepiti
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come dispensatori di bene o di male a chi li onorasse
nelle forme dovute oppure no. Inoltre, mancando
del fondamento di una vera e propria speculazione
teologica, il politeismo romano fu sempre aperto ad
accogliere da ogni parte nuove divinità e nuovi riti,
ma ciò solo nella fiducia che anche questi potessero
contribuire alla prosperità di tutti e di ciascuno, sì
che in fondo la religione dei Romani restò ancorata
alle sue rozze caratteristiche originarie e soprattutto
alla sua peculiare concezione utilitaria.
Ma perché lo Stato prosperasse bisognava
assicurare che ogni atto importante della vita
pubblica si svolgesse secondo la volontà degli dei.
Di questo i soli patrizi pretesero di essere capaci, in
quanto essi soltanto “avevano gli auspici”, cioè
erano in grado di far sì che l’azione del popolo
corrispondesse al volere divino rettamente indagato
e interpretato con l’ausilio degli àuguri (che vennero
acquistando un’influenza sempre maggiore sui
pubblici affari). Per questa via si arrivò a non
ammettere i matrimoni misti fra patrizi e plebei, e
così il patriziato finì per formare una casta chiusa,
esercitando quanto più possibile in esclusiva
l’imperium inerente alla suprema magistratura della
repubblica, il consolato.
7. Ordinamenti del più antico stato repubblicano. - I
due consoli avevano la direzione dello Stato in
quanto erano nello stesso tempo la più alta autorità
civile, i giudici di grado più elevato e i supremi
comandanti delle forze armate (quest’ultima
attribuzione si rifletteva nella denominazione che
essi ebbero prima di chiamarsi consules, quella cioè di
praetores, da prae ire = marciare alla testa).
31
Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie i
consoli ebbero ben presto l’ausilio dei quaestores; per
il resto essi potevano avvalersi, come una volta
avevano fatto i re, del consiglio dei senatori, anche
essi provenienti dalle famiglie più ragguardevoli.
Non avevano però l’obbligo di sottostare ai loro
pareri (senatusconsulta), anzi il senato non poteva
nemmeno adunarsi se non dietro convocazione dei
consoli, che ne presiedevano le sedute e ne
dirigevano i lavori. Tuttavia questa prevalenza dei
consoli sui senatori tendeva a diventare più formale
che sostanziale, e sta di fatto che per tutta l’età
repubblicana il senato rimase il principale organo di
governo attraverso il quale si attuavano i disegni
politici della classe che deteneva il potere. I
maggiori esponenti delle casate nobili erano sempre
presenti in senato a difendere i propri interessi con
tutto il peso della loro autorità, mentre i consoli, che
del resto provenivano di massima da quella stessa
nobiltà, non duravano in carica che un solo anno,
salvo il caso di qualche rielezione. Poteva dirsi,
quindi, che i consoli passavano ma il senato restava.
Inoltre i consoli, per effetto della loro “collegialità
uguale”, se fossero stati in disaccordo potevano
intralciarsi a vicenda con il diritto di veto (ius
intercessionis): in tal caso i loro contrasti non
potevano risolversi che seguendo i consigli del
senato, i quali anche per questa via divennero per i
consoli sempre più vincolanti. Nello stesso tempo
questa collegialità, al pari dell’annualità della carica,
impediva che qualcuno, attraverso il consolato,
potesse costituirsi uno stabile potere personale.
Del resto, anche sulle assemblee popolari il
senato faceva sentire il peso della sua volontà.
32
Il popolo, cioè l’insieme dei patrizi e dei plebei,
appunto perché composto di cittadini e non di
sudditi, era chiamato a collaborare ad alcuni atti
fondamentali nella vita dello Stato, per esempio
l’emanazione delle leggi o la nomina dei magistrati.
Le deliberazioni al riguardo il popolo le prendeva
alcune radunato nei comizi curiati (assemblea
“civile” del popolo suddiviso in curie), altre nei
comizi centuriati (assemblea “militare” del popolo
suddiviso in centurie). Ora, a parte il fatto che in
queste assemblee i patrizi, forti della loro
organizzazione e della loro potenza, avevano
facilmente ragione dei più numerosi plebei, il senato
poteva far sentire la sua autorità, sia direttamente,
negando la prescritta approvazione ad alcuni
deliberati, sia indirettamente, esercitando la sua
influenza sui consoli che presiedevano le assemblee
popolari. I comizi romani, infatti, avevano ancora in
quest’epoca e conservarono nei secoli quella
fisionomia particolare cui già si è accennato: essi si
adunavano solo quando li convocava il magistrato, e
di fronte a lui osservavano una disciplina assoluta.
Praticamente, non v’era luogo a discussioni; chi
parlava era il magistrato che esponeva le sue
proposte, e il popolo non poteva che esprimere il
suo voto, favorevole o contrario.
Il senato, infine, non mancava di far sentire la
sua influenza nemmeno quando, per assicurare
l’unità di comando necessaria nei momenti di
maggior pericolo per lo Stato, sia per la gravità dei
contrasti interni sia per la minaccia di nemici
esterni, procedeva alla nomina di un dictator, che ora
si era trasformato da magistrato ordinario e annuo
in magistrato straordinario. Questi aveva poteri
33
assoluti, ma la sua carica non poteva durare oltre sei
mesi; inoltre egli veniva nominato da uno dei
consoli, i quali - come s’è visto - in generale agivano
d’intesa col senato.
8. Le rivendicazioni della plebe e i suoi primi successi.
- Tali, per sommi capi, erano gli ordinamenti che
permettevano ai patres di esercitare il predominio da
essi acquistato nei primi decenni del V secolo sopra
i plebei; ma questi, una volta imboccata la via delle
rivendicazioni, seppero trarre grande vantaggio da
una recente innovazione amministrativa: l’istituzione
delle tribù territoriali.
Erano queste qualcosa di totalmente diverso
dalle antiche tribù gentilizie dei Ramnes, Tities e
Luceres, le quali all’inizio, prima di trasformarsi in
organi governativi, erano state raggruppamenti
familiari consociatisi per assicurare quella difesa
delle persone e dei beni a cui lo Stato, ancora in
embrione, non provvedeva. Le tribù territoriali, che
sembrano istituite appunto verso il principio del V
secolo, erano invece circoscrizioni create con lo
scopo di migliorare l’andamento delle operazioni di
leva e della riscossione del tributo. Ogni cittadino
doveva essere iscritto in uno di questi distretti, e
pertanto tutto il territorio dello Stato fu inizialmente
diviso in quattro tribù “urbane”, ove erano iscritti i
cittadini domiciliati in Roma, e sedici tribù
“rustiche” (queste ultime, allargandosi il territorio
per effetto delle successive conquiste, raggiunsero
poi il numero di trentuno).
Di tale organizzazione i plebei si valsero per
tenere adunanze (concilia plebis tributa) e ivi
coordinare i loro attacchi ai privilegi nobiliari;
34
quindi cominciarono coll’usare l’arma delle
secessioni, cioè con una sorta di resistenza passiva,
rifiutandosi di continuare ad adempiere agli obblighi
del cittadino. La prima secessione viene ricordata
per il 494, quando la plebe si ritirò sul Monte Sacro;
essa si lasciò indurre a più miti consigli - si raccontò
poi - dal famoso apologo di Menenio Agrippa, ma è
un fatto che proprio allora ottenne uno dei più
grandi successi, quello di darsi dei capi riconosciuti.
Nacquero così i tribuni della plebe che in origine,
prima di diventare anch’essi veri e propri magistrati,
non furono se non dei capipopolo rivoluzionari, che
il governo patrizio dovette acconciarsi a tollerare
nella loro azione spesso violenta. Sotto la loro guida
la plebe percorse la lunga strada delle sue
rivendicazioni, che erano di natura diversa.
Una delle esigenze che i plebei più largamente
sentivano era quella di strappare al patriziato il
monopolio dell’amministrazione della giustizia.
Della legge erano depositari esclusivamente i nobili,
che se la tramandavano oralmente ed avevano essi
soli la facoltà di applicarla: nel 451 e nel 450 la plebe
ottenne che, invece dei consoli, a capo dello Stato
fossero nominati alcuni magistrati straordinari, i
decemviri consulari imperio legibus scribundis, e questi
approntarono un codice scritto di leggi civili e
penali. Furono le famose Dodici Tavole che, col
sancire l’uguaglianza di tutti gli uomini liberi di
fronte alle leggi civili e col porre a fondamento dello
Stato la legge approvata dal popolo e nell’interesse
del popolo, dovevano diventare fons omnis publici
privatique iuris in un senso ancora più ampio di quello
che Tito Livio (III 34, 6) dava a questa espressione,
35
e cioè il germe da cui si sviluppò il diritto ancora
oggi vigente presso tanti popoli.
Pochi anni dopo, nel 445, con una legge
proposta dal tribuno C. Canuleio (lex Canuleia),
veniva abolito il divieto di matrimonio fra patrizi e
plebei, divieto che, osservato per un certo tempo
soltanto in forza della consuetudine, era già stato
imposto con una legge delle XII Tavole. I plebei,
ormai, potevano battersi per raggiungere di nuovo il
consolato, e nel 444 addivennero a un
compromesso. Negli anni successivi a capo della
repubblica si sarebbero potuti eleggere i soliti due
consoli, provenienti dal patriziato, oppure un certo
numero di cittadini che avevano ricoperto o tuttora
ricoprivano la carica di tribuni militari (cioè di
ufficiali superiori nella legione) e che perciò vennero
denominati tribuni militum consulari potestate: in seno a
costoro potevano essere eletti anche dei plebei. Per
effetto di tale compromesso nel corso di vari anni
non si susseguirono più coppie di consoli, ma collegi
di tribuni militum consulari potestate composti da un
numero variabile di membri (tre, quattro, sei, otto);
solo nel secolo successivo il consolato fu
stabilmente restaurato, quando si concordò che uno
dei due posti di console spettava alla plebe.
Naturalmente, i patrizi cercarono di resistere come
potettero e fra l’altro, quando furono costretti ad
accettare l’eventualità di tornare a dividere con i
plebei la più alta carica dello Stato, essi la
svuotarono di alcune attribuzioni assegnandole ad
una nuova magistratura esclusivamente patrizia, la
censura (a. 443).
I due censori, che si elessero ogni cinque anni
(lustro è da lustrum, il sacrificio di purificazione per
36
il popolo con cui i censori concludevano i loro
lavori), dovevano in primo luogo tenere aggiornata
sia la lista dei cittadini, cioè di quelli che potevano
godere i diritti di cittadinanza, sia la lista dei
senatori, magari cacciandone gl’indegni. Poiché tutto
questo comportava anche una sorveglianza sulla
condotta pubblica e privata di ognuno, i censori ben
presto acquistarono un’influenza grandissima.
Secondo gli storici antichi, nel corso del lo
stesso V secolo la plebe avrebbe strappato anche
una specie di diritto di emanare leggi, cioè avrebbe
imposto che si riconoscessero come valide le
deliberazioni prese nei suoi concilia, ma questa
conquista in realtà avvenne più tardi. Comunque, i
plebei avevano gia fatto parecchi passi verso la
rivendicazione dell’antica uguaglianza; grazie anche
all’apporto delle loro fresche energie sembrava
aprirsi, dopo la presa di Veio, un periodo di
maggiore sicurezza e prosperità, quando su Roma si
abbatté il flagello dell’invasione gallica.
Con la datazione indicata da Polibio per il più antico trattato
romano-cartaginese (vedi il capitolo precedente) è in contrasto la
tradizione confluita in Livio, ove di un simile foedus si parla per la
prima volta solo sotto l’anno 348 (VIII 27, 2: cum Carthaginiensibus
legatis Romae foedus ictum, cum amicitiam ac societatem petentes venissent);
di qui un dibattuto problema, soprattutto, ma non soltanto,
cronologico, su cui cfr. S. M AZZARIN O , Introduzione alle guerre
puniche, Catania 1947.
Circa l’assoggettamento di Roma ad opera di Porsenna, cfr.
T AC ., Hist. III 72: Id facinus (l’incendio del Campidoglio alla fine del
69 d.C.) post conditam urbem luctuosissimum foedissimumque rei publicae
populi Romani accidit ... sedem Iovis Optimi Maximi auspicato a maioribus
pignus imperii conditam, quam non Porsenna dedita urbe neque Galli capta
37
temerare potuissent, furore principum exscindi. Si veda anche P LIN ., Nat.
Hist. XXXIV 139: In foedere quod expulsis regibus populo Romano dedit
Porsina, nominatim comprehensum invenimus ne ferro nisi in agri cultu
uteretur.
Sulla battaglia del lago Regillo v. L. P ARETI in “Stud i
romani” VII (1959) p. 18 sgg. L’accenno alla “storia ufficiale ”
vuole richiamare l’attenzione su uno dei caratteri più salienti della
tradizione storica romana. Si tratta in breve di questo: quando i
Romani cominciarono a scrivere la storia più antica della loro città,
questa si era innalzata al rango di potenza mediterranea. Gli umili
inizi, il travaglio affannoso delle guerre continue, con battaglie
spesso vinte, ma talora anche perdute, parvero a quegli scrittori
come una macchia per la presente grandezza della patria, ed essi si
studiarono di cancellarla alterando la verità con vari espedienti. In
seguito vi furono storici che su quegli stessi fatti diedero racconti
inquinati da altri elementi, per esempio dal gusto per le
amplificazioni o invenzioni retoriche. In conclusione, quando
ancora più tardi quelle narrazioni furono riprese da storici la cui
opera si è conservata fino a noi (come Livio), si era formata e ancor
più si venne consolidando una specie di versione ufficiale spesso
poco rispettosa della verità dei fatti e, quindi, più che mai da
sottoporre al vaglio di un’attenta critica.
Sul foedus Cassianum (le cui clausole sono in parte riferite da
D IONYS . H AL IC ., VI 95, 2) cfr. C IC ., Pro Balbo 23, 53: cum Latinis
omnibus foedus esse ictum Sp. Cassio Postumo Cominio consulibus quis
ignorat? Quod quidem nuper in columna ahenea meminimus post rostra
incisum et perscriptum fuisse. Cfr. anche L IV . II 33, 9: nisi foedus cura
Latinis columna aenea insculptum monumento esset ab Sp. Cassio uno, quia
collega afuerat, ictum, Postumum Cominium bellum gessisse cum Volscis
memoria cessisset. Sui rapporti instaurati dal foedus fra la lega latina e i
Romani sono da tener presente due testi. Uno è un lemma di Festo
(p. 276 L INDSAY ) contenente un frammento di Cincio (antiquario
del I sec., da non confondere con l’annalista Cincio Alimento) ove
si parla di Romani che, in veste di praetores (lo stesso titolo che
precedette quello di consules), si recavano ad assumere il comando
dell’esercito federale: Praetor ad portam nunc salutatur is qui in
provinciam pro praetore aut pro consule exit; cuius rei morem ait fuisse
Cincius in libro de consulum potestate talem “Albanos rerum potitos usque
ad Tullum regem; Alba deinde diruta usque ad P. Decium Murem consulem
(cioè all’anno 340) populos Latinos ad caput Ferentinae, quod est sub
monte Albano, consulere solitos, et imperium communi consilio administrare;
itaque quo anno Romanos imperatores ad exercitum mittere oporteret iussu
nominis Latini, complures nostros in Capitolio a sole oriente auspicis operam
dare solitos. Ubi aves addixissent, militem illum, qui a communi Latio
missus esset, illum quem aves addixerant, praetorem salutare solitum, qui
38
eam provinciam optineret praetoris nomine. La lega di città latine, che
Cincio ricordava come avente il suo centro alla fonte Ferentina, è
quella stessa che troviamo menzionata in un frammento (58 P ETER )
delle Origines di Catone, ove si riporta il testo di una dedica fatta
per conto della lega dal comandante militare dei confederati: lucum
[***] Dianium in nemore Aricino Egerius Baebius Tusculanus dedicavit
dictator Latinus; hi populi communiter: Tusculanus, Aricinus, Lanuvinus,
Laurens, Coranus, Tiburtis, Pometinus, Ardeatis Rutulus. All’atto della
dedica era un tusculano che, col titolo di dictator Latinus,
comandava l’esercito della lega latina, della quale vengono nominati
come membri gli stati-città di Tusculum, Aricia, Lanuvium, Lavinium,
Cora, Tibur, Pometia, Ardea.
Sull’ampliarsi della dominazione romana nella Penisola,
sempre d’importanza fondamentale K.J. B EL OCH , Der italische Bund
unter Roms Hegemonie, Leipzig 1880 (rielaborato nella già citata
Römische Geschichte). Del medesimo autore è ancora da tener
presente, sulle condizioni sociali ed economiche della popolazione
di Roma nei primi secoli della repubblica, Die Bevölkerung der
griechisch-römischen Welt, Leipzig 1886; in particolare, per la società
romana nel V sec., v. A. P IGANIOL , La conquête romaine, 2 a ed., Paris
1930, p. 95 sgg.
Illuminante sul carattere della religiosità romana la
classificazione fatta da Varrone (a noi nota attraverso A UG USTIN .,
De civ. dei VI 3) fra dii certi, dii incerti e dii praecipui atque selecti. Sulle
pratiche cultuali nell’antica Roma è da vedere, in generale, G.
W ISSOWA , Religion und Kultus der Römer, 2 a ed., München 1912,
sostituito ora, nello “Handbuch der Altertumswissenschaft ”
fondato da I. M ÜLL ER , dall’opera di K. L ATTE , Römische
Religionsgeschichte, München 1960; v. anche P. C ATALANO , Contributi
allo studio del diritto augurale, I, Torino 1960.
Sugli ordinamenti dello Stato romano, dalle origini al basso
impero, fondamentale T H . M OMMSEN , Das römische Staatsrecht, voll.
I-III, Leipzig 1887 sgg. (sostanziali integrazioni di quest’opera, per
quanto riguarda l’età imperiale, sono rappresentati da due
contributi di A. A LFÖLDI : Die Ausgestaltung des monarchischen
zeremonielles am römischen Kaiserhofe, in “Mitteilungen d. deutsch.
Arch. Inst.”, Röm. Abt., 1934, e Insignien und Tracht der römischen
Kaiser, ibid., 1935). Il Mommsen, peraltro, nell’indagare gli sviluppi
degli ordinamenti statali di Roma, li considerò come originati da
una genuina creazione dei Romani, cioè come affatto isolati d a
analoghi sviluppi verificatisi presso altri popoli italici, i quali si
sarebbero poi limitati, volenti o nolenti, ad adottare e adattare gli
schemi di governo elaborati dai Romani. Contro questa teoria già
formulò valide riserve A. R OSENBERG (Der Staat der alten Italiker,
Berlin 1913); sull’esistenza di una comune cultura italica e di un
39
corrispondente comune travaglio costituzionale che condizionò
l’origine delle istituzioni romano-italiche, v. S. M AZZARINO , Dalla
monarchia allo stato repubblicano, sopra citato. Le lacinie superstiti
della legislazione decemvirale presso S. R ICCOBONO , Fontes iuris
Romani anteiustiniani, I, Leges, 2 a ed., Firenze 1941, p. 21 sgg.
40
III
Dall’incendio gallico al primato nell’Italia
centrale.
1. Il disastro e la ricostruzione. - Col nome di Galli
i Romani chiamarono quelle popolazioni di stirpe
celtica che, muovendo nel primo millennio dalla
Germania meridionale, sciamarono nelle terre
dell’Europa occidentale. Nell’Italia settentrionale
essi si affacciarono, pare, all’inizio del IV secolo ed
ebbero presto ragione delle resistenze opposte dai
Liguri
e
dagli
Etruschi,
cui
strapparono
successivamente
Melpum
(che
chiamarono
Mediolanum, Milano) e Felsina (Bologna).
Un’orda di questi Galli, con a capo Brenno, si
spinse attraverso l’Etruria interna e nel 390
(secondo Livio V 41 sgg.; 386 secondo la migliore
cronologia di Polibio I 6, 1-2) travolse sul fiume
Allia, piccolo affluente del Tevere, lo schieramento
difensivo dei Romani e dei loro alleati. Nessun altro
ostacolo si frapponeva sulla via verso la vicina
Roma, che fu presa e messa a ferro e fuoco. Solo
dopo vari mesi i Romani riuscirono a fare
allontanare i barbari dalla città, e non per l’eroica
riscossa di Camillo - come più tardi si raccontò - ma
pagando una forte somma di riscatto; del resto gli
invasori non erano mossi dal desiderio di conquiste
territoriali, ma solo dalla cupidigia di far bottino.
Gli storici romani, per attenuare le proporzioni
del disastro, raccontarono anche che si ebbe
un’immediata ripresa in ogni campo, tanto che un
41
solo anno sarebbe bastato a ricostruire la città, ma il
vero è che il contraccolpo subito dalla potenza
romana fu assai duro: Volsci ed Equi ripresero i loro
attacchi mentre veniva meno l’aiuto dei Latini e
degli Ernici, che avevano colto il destro per sottrarsi
agli obblighi del trattato che li legava a Roma. Un
compenso a questo pericoloso isolamento i Romani
lo trovarono in una salda unione con la potente città
etrusca di Cere (oggi Cerveteri) che, situata presso la
costa tirrenica, non era stata toccata dalle
devastazioni dei Galli. A Cere erano stati posti in
salvo e avevano trovato ospitalità i patrii Penati e le
Vestali: in cambio di questo beneficio, che
attraverso la continuità dei culti cittadini aveva
assicurato la sopravvivenza del la loro patria, i
Romani offrirono ai Cèriti la civitas sine suffragio (=
senza diritto di voto), una specie di cittadinanza
onoraria che cementava i vincoli fra i due popoli
facendoli hospites gli uni degli altri.
Forti di questa intesa, i Romani potettero
intraprendere quel trentennio di lotte che li
portarono a restaurare il loro prestigio nel Lazio.
Contro i Volsci il conflitto si protrasse con alterne
vicende sino alla definitiva occupazione della
pianura pontina, che nel 358 entrò a far parte del
territorio dello Stato. Ugualmente fortunata fu la
lotta contro gli Equi collegati con Preneste, lotta
nella quale Roma fu largamente aiutata dai
Tuscolani, i più esposti alla minaccia degli Equi.
Nello stesso anno 358, che aveva visto chiudersi il
duello con i Volsci, riusciva a Roma di riannodare le
fila della sua triplice alleanza rinnovando gli antichi
legami con gli Ernici e con le città della lega latina.
Dopo essere in tal modo risalita dal baratro in cui
42
l’aveva precipitata l’invasione dei Galli, Roma
imboccò una nuova politica che portò alla fine della
stretta intesa con i Ceriti e, in generale, della
collaborazione con gli Etruschi.
Causa di questa rottura fu il prevalere della
reazione
conservatrice
su
quei
circoli
democratizzanti di tendenza filo-etrusca che sotto la
guida del tribuno Licinio Stolone avevano
vigorosamente patrocinato le rivendicazioni della
plebe e, come vedremo, erano riusciti a restaurare
l’eleggibilità dei plebei al consolato, Questo dà
ragione del carattere di spietata ferocia che assunse
il rinnovato cozzo dei Romani con gli Etruschi,
soprattutto con i Tarquiniesi ed i Falisci. Così nel
358, dopo uno scontro sfortunato, alcune centinaia
di prigionieri romani furono trascinati a Tarquinia e
passati per le armi; quattro anni appresso, quando la
guerra prese una piega favorevole ai Romani, questi
si vendicarono infliggendo il medesimo trattamento
ad un numero ancor maggiore di Tarquiniesi presi in
battaglia. Nel 353 si pattuì con i Ceriti una tregua
per la durata di cento anni e infine nel 351 fu
conclusa la pace con i Tarquiniesi e i Falisci.
Ma queste lotte così aspre ed impegnative sui
confini settentrionali avevano deteriorato le
posizioni romane, ancora in via di consolidamento,
nel settore meridionale, cioè di fronte alle città
latine. Ce lo mostra, fra l’altro, una clausola
contenuta in un nuovo trattato che nel 348 Roma
concluse con Cartagine allo scopo di confermare
l’antica amicizia e di delimitare le rispettive sfere
d’influenza nella navigazione e nel commercio. “Se i
Cartaginesi”, riferisce Polibio, “avessero preso nel
Lazio qualche città non soggetta ai Romani, essi
43
potevano tenere il bottino e i prigionieri salvo a
consegnare la città ai Romani”. Una clausola, questa,
assai diversa da quella sancita nel precedente trattato
un secolo e mezzo avanti, quando si era convenuto
l’obbligo per i Cartaginesi di astenersi dall’attaccare
le città del Lazio e, se ne avessero presa qualcuna, di
consegnarla intatta ai Romani. Nel 348, dunque,
Roma sembra non solo prevedere attacchi dei
Cartaginesi contro le città latine con lei non
collegate, ma anche incoraggiare tali attacchi
stabilendo i vantaggi che ne potevano derivare
all’aggressore. Evidentemente era un modo di far
pressione sui Latini, le cui relazioni coi Romani si
erano nuovamente guastate.
Allo stesso fine, in fondo, pare fosse stato
concluso qualche anno prima, nel 354, un trattato di
alleanza con i Sanniti.
2. I Sanniti e il loro primo conflitto con Roma. - I
Sanniti erano una popolazione dì stirpe sabellica,
stanziata sull’Appennino meridionale, che al
principio del V sec. avevano cominciato a spostarsi
verso il sud provocando, fra l’altro, la calata dei
Volsci nella pianura pontina. Favorite dal declino
della potenza etrusca, le tribù sannitiche più
meridionali sboccarono nella Campania ove si
sovrapposero agli Ausoni, dei quali peraltro
assorbirono la superiore civiltà, formatasi al
contatto con gli Etruschi e con i Greci della Magna
Grecia. Questi invasori, che i Greci chiamarono
Obikòi e i Latini Opsci oppure Osci, si radicarono
saldamente nelle nuove sedi organizzandosi in tre
leghe, con al centro rispettivamente Nuceria (od.
Nocera), Nola e Capua (od. Santa Maria Capua
44
Vetere). Quest’ultima, la lega dei Campani, era la più
importante per estensione e potenza, tanto che
Capua divenne una delle prime città d’Italia. Il
diverso grado di civiltà e i contrastanti interessi
causarono una frattura fra gli Osci e le più arretrate
tribù sabelliche rimaste sui monti, ossia le tribù (da
nord a sud) dei Caraceni, dei Pentri, degli Irpini, dei
Caudini, che i Romani chiamarono col nome
complessivo di Samnites. Intorno alla metà del IV
secolo i Sanniti costituivano una compagine politica
organizzata su basi federali (meddix si chiamava il
capo di ogni tribù, meddix tuticus il capo di tutta la
federazione), che si estendeva dal versante adriatico
a quello tirrenico, ove premeva sulle fertili terre
tenute dagli Osci.
L’accordo del 354 implicava da parte dei
Romani l’accettazione della politica espansionistica
dei rudi e bellicosi montanari dei Sannio verso la
Campania, e se Roma dovette per il momento
acconciarvisi fu per costituire una minaccia alle
spalle dei Latini recalcitranti, e anche per impedire
che eventualmente i Sanniti si intendessero con gli
stessi Latini. Ma non si era trattato che di
un’occasionale convergenza d’interessi, e difatti,
appena i Sanniti tentarono di realizzare le loro mire
sulla Campania, trovarono la più energica
opposizione proprio nei Romani.
La loro prima mossa fu in direzione di Teano,
uno dei centri del piccolo popolo dei Sidicini.
Questi si rivolsero per aiuti alla lega campana e a sua
volta Capua, facendosi accogliere in seno alla
federazione romano-latina, si assicurò l’appoggio
romano. Scoppiava cosi, nel 343, la prima guerra
sannitica, che ebbe come scontri principali una
45
battaglia al Monte Gauro (nei Campi Flegrei) e una
presso Suessula (non lungi dall’odierna Cancello, in
prov. di Caserta) Gli storici antichi parlarono anche
di una terza battaglia che si sarebbe combattuta a
Saticula (Sant’Agata dei Goti), ma sembra poco
credibile che l’esercito romano si spingesse così
addentro nel Sannio. Comunque, il duello si era
risolto in un trionfo della superiore organizzazione
militare dei Romani, sì che i Sanniti s’indussero a
chiedere pace.
Contemporaneamente si acuivano i vecchi
dissidi fra i Romani e i loro alleati, e mentre i primi,
in vista di eventuali complicazioni nel Lazio,
concedevano ai Sanniti miti condizioni, lasciando
loro mano libera contro i Sidicini di Teano, i Latini
non solo deliberavano di continuare da soli la lotta
contro i Sanniti, ma scendevano in guerra aperta
contro Roma, decisi ad abbatterne la supremazia.
3. Insurrezione e scioglimento della lega latina Verificatosi un totale rovesciamento di posizioni,
dalla parte dei Latini si schierarono i Campani,
scontenti della pace concessa ai Sanniti, e invece
questi ultimi si accordarono con i Romani.
Per effetto di tale accordo un esercito
comandato dai consoli Tito Manlio Torquato e
Publio Decio Mure (340) si portò in Campania
passando non per l’infido territorio del Lazio, ma
addentrandosi nel paese dei Marsi e dei Peligni per
poi scendere attraverso il Sannio a congiungersi con
l’esercito sannita. Lo scontro si ebbe presso la
località di Veseris non lontano dal Vesuvio, e la
vittoria fu assicurata - si raccontò poi - dai
patriottismo del console Decio Mure, che fece getto
46
della propria vita per assicurare il trionfo delle armi
romane. La lotta continuò ancora per due anni e
solo nel 338 i Latini, a cui si erano uniti anche i
Volsci di Anzio, furono definitivamente piegati con
due battaglie combattute nel cuore del loro
territorio.
Le condizioni di pace dettate alle città latine
dopo la loro completa disfatta danno la misura della
lungimiranza della classe politica che reggeva le sorti
della repubblica romana. I Latini avevano violato il
patto di alleanza e, come fedifraghi, avrebbero
potuto attendersi le più dure imposizioni; ottennero,
invece, un trattamento tale che da quel momento in
poi formarono un blocco unico con Roma.
Naturalmente la loro lega, dopo un secolo e mezzo
di vita, dovette sciogliersi, sì che nel Lazio non
sopravvisse che l’antichissima lega religiosa per la
celebrazione delle Feriae Latinae in onore di Giove
Laziare. Le varie città ebbero, quindi, una sorte
diversa a seconda che per ciascuna parve più
opportuna. I centri più importanti della disciolta
lega e più vicini a Roma come Lanuvio, Aricia,
Nomento, Pedo furono trasformati in comuni
romani, vale a dire che i loro abitanti cessarono di
essere Lanuvini, Aricini etc., e diventarono Romani,
con tutti i relativi diritti e doveri, mentre il loro
territorio veniva unito a quello dello stato romano
rendendolo più ampio e compatto. Le altre città
latine, come Tivoli, Preneste, Cora e tutte quelle che
a suo tempo erano nate come colonie latine,
mantennero la loro fisionomia di comuni Latini
formalmente indipendenti, salvo il divieto di unirsi
fra loro in nuove leghe e l’abolizione del
vicendevole diritto di conubium (cioè di contrarre
47
matrimoni “misti” giuridicamente validi) e di
commercium (cioè di stipulare fra loro atti di
compravendita giuridicamente validi). Ciascuna
dovette sottoscrivere con Roma un singolo trattato
di alleanza, che sanciva i vantaggi e gli obblighi dei
suoi cittadini rispetto ai Romani: fra gli obblighi in
primo luogo quello di concorrere con un
contingente militare alle guerre di Roma, tra i
vantaggi quello di poter acquistare, volendo, la
cittadinanza romana col semplice trasferimento del
domicilio in Roma. Un privilegio di non poca
importanza, quest’ultimo, che rendeva possibile ai
personaggi più cospicui delle città latine di stabilirsi
in Roma e di affermarsi, attraverso la partecipazione
alla vita pubblica, in seno alla classe di governo.
Anche per i Campani, che come i Volsci
Anziati erano stati a fianco dei Latini ribelli, ma che
bisognava tutelare dalle mire espansionistiche dei
Sanniti cui restavano esposti, le condizioni di pace
non furono punitive, bensì intese ad assicurare lo
sviluppo di amichevoli rapporti; pertanto, come ad
Anzio, fu conferita la civitas sine suffragio a Capua, a
Cuma, a Suessula, nonché a Fundi (Fondi) e Formiae
(Formia) che si trovavano in posizione dominante
sulla via, ormai d’interesse vitale, che menava dal
Lazio alla Campania. Assai duro fu invece il
trattamento inflitto alla volsca Velletri, ove
l’aristocrazia ribelle fu sbandita e spogliata delle sue
terre, che vennero assegnate a cittadini romani.
Quanto agli Ernici, che a differenza dei Latini
non erano venuti meno al rispetto del trattato di
alleanza, essi restarono nell’antica condizione di
foederati.
48
4. La seconda guerra sannitica. - L’intervento
romano in Campania, se aveva creato i lontani
presupposti per un’espansione verso quelle
contrade, doveva portare, per la stessa ragione, ad
un nuovo e più aspro conflitto coi Sanniti. Gli
insuccessi della guerra del 343 non potevano bastare
a distogliere le mire di costoro da quelle terre
naturalmente ubertose e fecondate dal lavoro di una
popolazione industriosa e civile. Consapevoli di
questo, i Romani si preoccuparono assai presto di
consolidare la loro posizione, badando soprattutto
ad assicurarsi con nuove alleanze il controllo delle
vie naturali di comunicazione con la Campania.
Da parte loro, i Sanniti avevano esteso la loro
ingerenza in Campania stringendo accordi con la
lega osca di Nola e con la città greca di Napoli, dove
ad un certo punto introdussero anche un loro
presidio. Ma questa intesa con i Sanniti sembra che
in Napoli fosse sostenuta dal partito popolare e
invece osteggiata dagli aristocratici i quali, quando
nel 327 i Romani decisero di intervenire
militarmente, intavolarono con loro lunghe trattative
che si conclusero con la stipulazione di un accordo.
Era un gran successo per la politica romana aver
attirato nel sistema delle sue alleanze una delle
principali città della Magna Grecia, ma nello stesso
tempo si dava luogo ad un nuovo, e questa volta
assai più duro, conflitto col Sannio.
Piuttosto oscuri rimangono gli sviluppi di
questa seconda guerra sannitica, anche perché gli
storici romani che più tardi la narrarono ne
alterarono il racconto, sforzandosi di ingrandire le
vittorie e, soprattutto, di mettere in ombra
gl’insuccessi. Ma è certo che le prime battute
49
culminarono in una disfatta per i Romani, che
avevano cercato audacemente di colpire la potenza
nemica nel cuore del suo territorio. Nel 321, mentre
le legioni, al comando dei due consoli s’inoltravano
nello gole verso Benevento, in vicinanza di Caudium
caddero in un’imboscata e furono costrette ad
arrendersi e passare sotto il giogo (Forche Caudine).
Di questo grosso successo i Sanniti non seppero
approfittare e pertanto l’iniziativa restò ai Romani, i
quali, anziché ritentare la prova dell’attacco diretto,
intrapresero un’abile politica per accerchiare i
nemici. Si assicurarono infatti l’amicizia dei popoli
stanziati sull’Appennino a nord dei Sanniti (i Marsi, i
Peligni, i Marrucini, i Frentani) e strinsero alleanza
con alcune città dell’Apulia che si sentivano
minacciate dalla pressione sannitica.
A questo punto i Sanniti si mossero per
spezzare l’accerchiamento e, sboccati nella pianura
laziale, giunsero anche a minacciare da vicino la
stessa Roma, che però riuscì a contenere la loro
offensiva e a presidiare con nuove colonie le vie
d’accesso dal Sannio verso il Lazio e la Campania. In
questa regione i Romani condussero energiche
operazioni non solo per via di terra (e a questo
scopo fu costruita la prima grande arteria stradale
d’Europa, la via Appia, con la quale nel corso della
sua censura cominciata nel 312 Appio Claudio il
Cieco congiunse Roma con Capua), ma anche per
via di mare, creando un corpo di fanteria da sbarco
che agli ordini dei duoviri navales, istituiti nel 311,
operò sulle spiagge di Pompei.
Nonostante qualche complicazione in Etruria, e
malgrado la defezione degli Ernici che vennero
presto domati, la guerra si avviava ad un epilogo
50
favorevole per i Romani, che nel 305 avanzarono
ben addentro nel territorio dei nemici costringendoli
a chiedere pace. Questa fu stipulata nel 304, e
mentre il Sannio restava sostanzialmente intatto (per
il momento non era nemmeno da pensare ad una
diretta dominazione), il territorio romano risultava
ingrandito dal territorio degli ex alleati Ernici che
nel 306 si erano ribellati. Si trattava di Anagnia,
Aletrium e Frusino (Frosinone), i cui abitanti vennero
puniti con l’incorporazione nello Stato romano in
qualità di cives sine suffragio. Infatti a partire da questo
momento) la civitas sine suffragio non rappresentò più
una forma di cittadinanza onoraria, come era stata al
tempo in cui fu data ai Cèriti; ormai le città cui essa
era stata estesa cessavano di essere comunità
autonome per divenire municipi romani, e municipes
diventavano i loro abitanti perché, trasformati in
cives sine suffragio non erano più, per es., Anagnini,
Frusinati ecc., ma cittadini romani di una categoria
inferiore. L’inferiorità consisteva nel dover
adempiere agli obblighi che incombevano sugli altri
cittadini romani (municipes è da munia capere) senza
poter godere dei diritti politici (simboleggiati dal
suffragium o voto).
5.
La terza guerra sannitica e l’ampliarsi della
federazione romano-italica. - Appena sei anni durò
l’intervallo fra la seconda e la terza guerra sannitica.
Quella del 304, piuttosto che una pace, era stata una
tregua, e i Romani ne approfittarono per colpire e
debellare definitivamente gli Equi, che avevano
ripreso le armi, e occuparne buona parte del
territorio ove furono fondate le colonie di Alba
Fucens (nel 303: Liv. X 1, 1) e di Carsioli (nel 302 o
51
nel 298: Liv. X 3, 2; 13, 1. Vell. Pat. I 14). Nel
frattempo grosse nuvole tornavano ad addensarsi
sull’orizzonte, e mentre Roma era costretta ad
impegnarsi contro i Sabini e gli Umbri, dovette
nuovamente affrontare l’urto dei Sanniti, coalizzati
questa volta con gli Etruschi e i Galli Sènoni
(stanziati nelle odierne Marche). Sulle prime, grazie
alla posizione geografica centrale che separava i
nemici del nord da quelli del sud, fu piuttosto
agevole ai Romani di controllarne le mosse; ma
quando un grosso esercito sannita, passando
attraverso il territorio dei Peligni e dei Sabini, riuscì
a congiungersi nell’Umbria con le forze degli altri
coalizzati, il pericolo divenne mortale. Lo scontro
decisivo, che avvenne nel 295 presso Sentinum (non
lungi da Sassoferrato), giustamente fu definito
“battaglia delle nazioni”: dal suo esito, infatti,
doveva dipendere se la penisola aveva ancora da
restar divisa fra popolazioni di stirpe e civiltà
diverse oppure avviarsi alla completa unità nazionale
e statale sotto l’impero di Roma. La grande vittoria,
che costò gravi perdite e la morte di un console
(Publio Decio Mure - si raccontò - come già suo
padre nella guerra contro i Latini del 340, avrebbe
consacrato la vita agli dei inferi), scongiurò per i
Romani il pericolo di rimanere schiacciati dalla
coalizione avversaria, ma per concludere il conflitto
occorsero ancora altri cinque anni di guerra. Al
termine dei quali, nel 290, la potenza romana
risultava notevolmente accresciuta. Il Sannio rimase
indipendente, ma vincolato da un foedus e ancor più
di prima controllato da nuove colonie come
Minturnae e Sinuessa (presso Mondragone), fondate
sul versante tirrenico, e Venusia (in Apulia, od.
52
Venosa), che con i suoi 20 mila coloni rappresentava
per i Sanniti una formidabile minaccia alle spalle.
Parecchie città degli Etruschi, come Volsinii
(Bolsena), Arezzo, Perugia e Chiusi dovettero
entrare nell’alleanza romana, e così pure varie città
degli Umbri, fra cui alcune (Spoleto, Foligno), per la
loro posizione geografica dominante, furono
direttamente occupate dai Romani.
Ugualmente in diretto possesso dei Romani
caddero l’ampio territorio dei Sabini e il Piceno, e
poco dopo venivano strappate ai Galli Senoni le loro
terre sull’Adriatico, ove più tardi furono fondate le
colonie di Sena Gallica (Senigallia) e Arìminum
(Rimini). In tal modo Roma aveva fatto della
confederazione romano-italica una delle principali
potenze del Mediterraneo: il territorio della
repubblica si aggirava sui 20 mila kmq con una
popolazione di circa un milione di cives Romani,
mentre a un paio di milioni assommavano i foederati
distribuiti su un territorio di 60 mila kmq.
Sull’invasione gallica della Penisola v., p. es., A. G R ENIER ,
Les Gaulois, Paris 1923; sulla questione relativa all’itinerario seguito
dall’orda che giunse a occupare Roma, G. V ITUCCI , Problemi di storia
e archeologia dell’Umbria, Perugia 1964, p. 291 sgg. Sullo scontro al
fiume Allia (come poi, in genere, su tutte le battaglie combattute da
Greci e da Romani) sono da vedere gli Antike Schlachtfelder di J.
K ROMAYER e G. V EITH , voll. 4, Berlin 1903-1931, corredati dallo
Schlachten Atlas (ai medesimi autori si deve la trattazione sulle
antichità militari nello Handbuch del M ÜLLER , con il titolo: Heerwesen
und Kriegführung der Griechen und Römer, München 1928). Sulle
relazioni fra Roma e Cere, M. S ORDI , I rapporti romano-ceriti e l’origine
della civitas sine suffragio, Roma 1960. Accennando al secondo
trattato romano-cartaginese, Polibio (III, 24, 1-6) non ne riferisce
la data; tra le varie opinioni dei moderni è preferibile quella che lo
colloca nel 348, al quale anno Livio registra per la prima volta un
foedus fra Roma e Cartagine: cfr. S. M AZZARINO , op. cit. sopra, p. 45.
53
Il racconto della I guerra sannitica spec. in L IV ., VII 29 e
VIII 2 (qualche cenno anche in C IC ., De divinatione I 24, 51;
D IONYS . XV, 3, 2; A PPIAN ., Samn. 1, e altri). Invece Diodoro ne
tace completamente, dal che alcuni critici hanno voluto ricavare che
si tratterebbe soltanto di una falsificazione dell’annalistica (vedi per
esempio F. E. A D COCK , in “Cambridge Ancient History”, vol. VII,
p. 588).
Sulla devotio del console Publio Decio Mure, sospetta alla
critica perché la cosa si ripete per Publio Decio Mure figlio (cos.
295) alla battaglia di Sentinum, e per Publio Decio Mure nipote (cos.
279) alla battaglia di Ascoli contro Pirro, è interessante la formula
riportata da L IV ., VIII 9, 6-9: Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine,
Bellona, Lares, divi Novensiles, di Indigetes, divi quorum est potestas
nostrorum hostiumque, diique Manes, vos precor veneror veniam peto feroque,
uti populo Romano Quiritium vim victoriamque prosperetis hostesque populi
Romani Quiritium terrore, formidine morteque adficiatis. Sicut verbis
nuncupavi, ita pro re publica Quiritium, exercitu, legionibus, auxiliis populi
Romani Quiritium legiones auxiliaque hostium mecum deis Manibus
Tellurique devoveo.
Le condizioni di pace alla fine del bellum Latinum sono
riportate in particolare da Livio (VIII 14: Lanuvinis civitas data
sacraque sua reddita cum eo, ut aedes lucusque Sospitae Iunonis communis
Lanuvinis municipibus cum populo Romano esset. Aricini Nomentanique et
Pedani eodem iure, quo Lanuvini, in civitatem accepti. Tusculanis servata
civitas, quam habebant, crimenque rebellionis a publica fraude in paucos
auctores versum. In Veliternos, veteres cives Romanos, quod totiens
rebellassent, graviter saevitum et muri deiecti, et senatus inde abductus,
iussique trans Tiberim habitari, ut eius, qui cis Tiberim deprehensus esset,
usque mille pondo assium clarigatio esset nec prius quam aere persoluto is,
qui cepisset, extra vincula captum haberet. In agrum senatorum coloni missi,
quibus adscriptis speciem antiquae frequentiae Velitrae receperunt. Et
Antium nova colonia missa cum eo, ut Antiatibus permitteretur, si et ipsi
adscribi coloni vellent; naves inde longae abactae, interdictumque mari
Antiati populo est, et civitas data. Tiburtes Praenestinique agro multati
ceteris Latinis populis conubia commerciaque et concilia inter se ademerunt.
Campanis, equitum honoris causa, quod cum Latinis rebellare noluissent,
Fundanisque et Formianis, quod per finis eorum tuta pacataque semper
fuisset via, civitas sine suffragio data. Cumanos Suessulanosque eiusdem iuris
condicionisque, cuius Capuam, esse placuit. Naves Antiatium partim in
navalia Romae subductae partim incensae, rostrisque earum suggestum in foro
exstructum adornari placuit, rostraque id templum appellatum). A questo
proposito cfr. H. R UDOLPH , Stadt und Staat im römischen Italien,
Leipzig 1935; J. G ÖHLER , Rom und Italien, Breslau 1939, con le
osservazioni di S. M AZZARINO , Dalla monarchia allo stato repubblicano,
cit., p. 159 sgg. e G. V ITUCCI , Latium, in “Dizionario Epigrafico di
54
Antichità Romane fondato da E. De Ruggiero”, vol. IV (1947) p.
433 sgg.
L’ubicazione di Caudium (Forche Caudine) si è in vario modo
tentato di determinarla con riferimento alle moderne località d i
Arienzo, Arpaia, Montesarchio, S. Agata de’ Goti, Moiano; cfr. L.
P ARETI , Storia di Roma, I, p. 690 sgg. Sulle operazioni della III
guerra sannitica nell’anno 298, oltre al racconto di Livio (X 11-13)
ci è pervenuto un breve resoconto nell’epitaffio di Publio Cornelio
Scipione Barbato, che condusse quelle operazioni in qualità d i
console (C.I.L. I 2 6, 7). Le due versioni sono discrepanti, ma non in
maniera inconciliabile, risalendo quella di Livio alla tradizione
annalistica, quella dell’epitaffio alle memorie gentilizie degli
Scipioni. Un recente lavoro d’insieme sullo incontro del mondo
sannitico col mondo romano è quello di E. T. S AL MON , Samnium and
the Samnites, Cambridge 1967.
Sull’ampliarsi del dominio romano nell’Italia centrale, G. D E
S ANCTIS , Storia dei Romani, II, Torino l901 p. 348 sgg.; K. J.
B ELOCH , Römische Geschichte, cit., p. 392 sgg.; A. F ERRABINO , Nuova
storia di Roma, I, Roma 1959, p. 265 sgg.
55
IV
Il regime nobiliare patrizio-plebeo. Il
controllo dell’Italia meridionale.
1. Conclusione delle lotte fra plebe e patriziato. - Nei
cent’anni, circa, che dal disastro dell’occupazione
gallica videro l’ascesa di Roma fino alla conquista
del primato nell’Italia centrale, veniva anche a
compimento quel lungo ciclo di lotte che portarono
i plebei a conquistare nella vita pubblica quella
parità rispetto ai patrizi che avevano avuto all’inizio
della repubblica. Già si è accennato che dopo
l’invasione gallica ebbe per qualche tempo la
prevalenza in Roma una corrente politica di
tendenze democratiche; questa, al termine di una
serie di contrasti, riuscì a fare approvare nel 367 un
gruppo di leggi, dette Liciniae Sextiae dal nome dei
due tribuni che fin dal 376 le avrebbero proposte e
per dieci anni tenacemente propugnate: Gaio Licinio
Stolone e Lucio Sestio Laterano. Per effetto di
queste leggi i plebei, anzitutto, si liberavano della
loro inferiorità “religiosa” ottenendo l’ammissione
nel sacerdozio dei decemviri sacris faciundis, e quindi
potevano essere eletti consoli.
Ma i patrizi, nel momento stesso in cui erano
costretti a condividere con la plebe la suprema
magistratura dello Stato, la svuotarono delle sue
funzioni giudiziarie; cioè, mentre fino allora
l’amministrazione della giustizia era stata di
competenza dei due consoli, a partire dal 366 fu
56
invece affidata a un nuovo magistrato, il pretore, da
eleggere esclusivamente fra i patrizi. La plebe
accettò l’accomodamento confidando di non doverlo
subire a lungo, e difatti nel 337 fu eletto il primo
pretore plebeo nella persona di Quinto Publilio
Filone. Del resto, già prima era riuscito ai plebei di
dare la scalata alle altre magistrature più importanti,
che si chiamavano magistrature “curuli” dallo
speciale scanno usato dai magistrati, la sella curulis:
così nel 356 fu nominato il primo dittatore plebeo,
Gaio Marcio Rutilo, che poi nel 351 fu anche il
primo plebeo a rivestire la censura. Ancora, nel 366
insieme con la pretura era stata istituita (e come
contrapposta ai due edili plebei, che erano gli
aiutanti dei tribuni della plebe) la edilità curule, con
l’incarico di curare la celebrazione dei ludi e di
sorvegliare le strade e i mercati. Tali funzioni
avrebbero dovuto essere riservate a due patrizi, ma
ben presto si stabilì che un anno sì e uno no anche i
plebei potevano essere eletti edili curuli.
Mentre in questo modo gli uomini più eminenti
della plebe spezzavano le barriere che così a lungo li
avevano tenuti in uno stato d’inferiorità rispetto ai
concittadini patrizi, essi si adoperarono anche per
migliorare le condizioni economiche dei plebei
appartenenti agli strati inferiori della cittadinanza.
Di
tale
problema
sembra
si
occupasse
particolarmente una delle leggi Liciniae Sextiae (o, più
precisamente, una lex Licinia, cioè proposta dal solo
Gaio Licinio Stolone), la quale avrebbe introdotto
una nuova regolamentazione nel godimento dell’ager
publicus. Questo era costituito dai terreni che Roma
aveva confiscato ai nemici vinti; di essi era
proprietario lo Stato, che in buona parte li cedeva in
57
uso ai cittadini che volessero sfruttarli dietro la
corresponsione di una modesta percentuale sul
reddito. Fino a quel momento a godere di tali terreni
(in una certa misura che andò aumentando a mano a
mano che con le nuove conquiste si ampliava l’agro
pubblico) lo Stato aveva ammesso esclusivamente i
patrizi, i quali del resto erano all’inizio i soli che
potessero disporre dei capitali necessari per
sfruttarli. Si era così venuta a costituire, sul piano
economico, un’altra forma di privilegio, ma con la
legge Licinia i plebei l’abolirono riuscendo a
strappare ai patrizi il diritto di essere ammessi, alla
pari con loro, al godimento dell’agro pubblico.
È incerto se nel vittorioso corso di tali
rivendicazioni si sia provveduto anche ad alleviare la
condizione dei plebei oppressi dai debiti; comunque,
a quest’ultimo proposito un gran passo avanti si fece
con la legge Petelia, che abolì definitivamente
l’imprigionamento per debiti e che fu fatta
approvare secondo Livio (VIII 28) dal console Gaio
Petelio Libone nel 326, secondo Varrone (De l. Lat.
VII 105) da un omonimo figlio del precedente,
dittatore nel 313. Invece fino allora il ricco aveva
potuto tenere in catene - e anche vendere come
schiavo - il concittadino che non riusciva a
restituirgli il prestito ricevuto.
Procedendo sulla via delle rivendicazioni, i plebei
si sforzarono anche di accrescere l’importanza della
propria assemblea e quella
delle relative
deliberazioni, i plebiscita. Questi dapprincipio non
avevano avuto alcun valore giuridico, e solo con la
minaccia di far ricorso alla violenza la plebe li aveva
fatti rispettare. Ora bisognava costringere i patrizi a
riconoscerne la piena validità, e a questo si venne,
58
forse, già nel 339 durante la dittatura del plebeo
Publilio Filone; è certo, ad ogni modo, che
l’efficacia
dei
plebisciti
fu
definitivamente
sanzionata nel 287 da una legge proposta dal
dittatore Quinto Ortensio.
2. Introduzione della costituzione “serviana”. L’assemblea della plebe si avviava in tal modo ad
affermarsi come organo più importante per
l’espressione
della
sovranità
popolare
e,
probabilmente, proprio per impedire una simile
eventualità il governo nobiliare, intorno al 360,
attuò quella riforma per cui furono i comizi
centuriati che, trasformandosi da adunanze dei soli
cittadini sotto le armi in assemblee generali di tutti i
cittadini, diventarono i principali comizi del popolo
romano. Si tratta, precisamente, di quegli
ordinamenti che gli storici antichi attribuirono al re
Servio Tullio, anticipando di circa due secoli
un’istituzione che invece, per un complesso di
ragioni, deve essere collocata nella prima metà del
IV sec.
Secondo il nuovo ordinamento i cittadini
furono ripartiti in classi e centurie. Le classi erano
cinque, e a ciascuna di esse si veniva assegnati a
seconda dell’entità delle sostanze di cui si era
forniti; non tutti i cittadini, però, furono compresi
nelle cinque classi, perché da una parte ne rimasero
fuori quelli più ricchi, dall’altra i nullatenenti.
Livio (I 43) attribuisce a Servio Tullio la nota
scala dei censi (almeno 100. 000 assi per la I classe,
75. 000 per la II, 50.000 per la III, 25.000 per la IV,
11.000 per la V), ma si tratta di cifre valevoli
59
evidentemente per un’età assai più tarda, forse non
anteriore alla guerra annibalica.
Le centurie erano 193, delle quali 170 furono
costituite dai cittadini delle cinque classi, e cioè 80
dalla I classe, 20 dalla II, 20 dalla III, 20 dalla IV e
30 dalla V. In ogni classe le centurie erano formate
una metà dagli iuniores (cittadini fra i 17 e 45 anni) e
una metà dai seniores (cittadini fra i 46 e 60 anni). Le
rimanenti centurie vennero costituite da coloro che
erano fuori delle classi, e precisamente 18 dai più
ricchi (le centurie dei cavalieri) e 5 dai più poveri
(detti proletarii o capite censi).
Una simile ripartizione della massa dei cittadini
in centurie rispondeva insieme ai bisogni della pace
e della guerra, e pertanto il nome di centuria indicava
contemporaneamente l’unità fondamentale sia
dell’organizzazione civile sia di quella militare. Sul
campo di battaglia una centuria era formata
inizialmente, come dice il nome, da 100 combattenti,
e questi venivano reclutati in seno alla
corrispondente
centuria
del
comizio
che,
naturalmente,
doveva
comprendere
parecchi
cittadini di più per poterne fornire 100 idonei al
servizio di guerra. Di norma il reclutamento veniva
fatto tra gli iuniores (i seniores costituivano una specie
di riserva), e pertanto i cittadini della I classe
dovevano fornire 4000 fanti (40 centurie di iuniores),
quelli della II, III e IV 1000 ciascuna (cioè, ognuna
10 centurie dei suoi iuniores), quelli della V 1500 (15
centurie di iuniores): in totale 8500 uomini, quanti
press’a poco costituivano gli effettivi delle due
legioni in cui si articolava l’esercito romano verso la
metà del IV secolo. Ogni legione aveva infatti 4200
fanti, dei quali 3000 di pesante armatura (con
60
corazza, elmo di bronzo e grosso scudo
rettangolare) e 1200 armati alla leggera (con elmetto
di cuoio e piccolo scudo rotondo); e poiché
l’armamento e l’equipaggiamento erano a carico di
ciascun combattente, la fanteria pesante era formata
dai cittadini delle prime tre classi, che avevano
maggiori possibilità, quella leggera dai cittadini delle
ultime due. Le 18 centurie dei cittadini più ricchi
dovevano poi fornire 600 uomini, con proprie
cavalcature, equipaggiati per il combattimento a
cavallo (300 per ogni legione), mentre le 5 centurie
dei più poveri davano uomini sprovvisti di armi che
nell’esercito venivano addetti a servizi vari.
Da tutto questo è evidente che gli obblighi più
gravosi, in primo luogo quello del servizio militare
in guerra, pesavano sui cittadini più ricchi,
soprattutto quelli delle 18 centurie equestri e della I
classe, ma nello stesso tempo il nuovo ordinamento
attribuiva a costoro il predominio nel governo della
repubblica. Infatti il corpo dei cittadini ripartito
nelle 193 centurie, quando si radunava nei comizi
centuriati che fungevano ora anche da principale
assemblea popolare per l’approvazione delle leggi e
l’elezione dei magistrati, dava il suo voto centuria
per centuria. Ciò vuol dire che i voti dei singoli
cittadini non si sommavano globalmente, ma solo
nell’ambito delle rispettive centurie per determinare
la volontà di ciascuna centuria, e quindi i voti
risultavano complessivamente in numero di 193.
Ora, poiché i cittadini più ricchi, quelli che
militavano a cavallo, avevano a disposizione 18 voti
(corrispondenti alle loro 18 centurie), e 80 ne
avevano i cittadini della I classe, è chiaro che
costoro, se erano concordi, con i loro 98 voti
61
raggiungevano la maggioranza sul totale dei 193 voti
disponibili e, quindi, avevano un peso determinante
per decidere se, per esempio, quella tale legge
doveva essere approvata o respinta, oppure se alle
magistrature superiori, a cominciare dal consolato,
doveva essere eletto un candidato piuttosto che un
altro.
3. La nuova nobilitas patrizio-plebea. - Si capisce
che un ordinamento di tal genere, commisurando al
censo i diritti e i doveri di ciascuno, seppure non
ignorava gli strati più umili della cittadinanza, era
fatto apposta per tutelare gl’interessi della ricca
nobiltà che teneva le redini del potere. Abbiamo
detto nobiltà e non patriziato perché dal momento
in cui, dopo le leggi Licinie Sestie, anche gli
esponenti della plebe tornarono a raggiungere le più
alte magistrature dello Stato, si venne costituendo in
Roma una nuova classe di governo che fu formata
insieme di patrizi e di plebei, la cosiddetta nobilitas
patrizio-plebea.
Naturalmente, sulle prime non furono molti i
plebei che, attraverso la gestione delle più alte
magistrature curuli, riuscirono a penetrare nelle file
di questa nuova nobilitas: homines novi vennero
chiamati costoro con un certo dispregio, e le antiche
famiglie patrizie, collegate da vecchi e nuovi vincoli
d’interesse e di sangue, poterono battere ancora a
lungo la loro concorrenza. Per imporsi nella vita
politica, e anzitutto per assicurarsi il favore dei
comizi, occorreva non solo prestigio personale, ma
anche una grande ricchezza (i magistrati non
avevano stipendio); ma poiché l’economia romana
conservava un carattere eminentemente agricolo, la
62
ricchezza continuò a restare accentrata in prevalenza
nelle mani dei patrizi, grandi proprietari di terre.
Tuttavia non pochi plebei accumularono ingenti
sostanze con l’esercizio dell’industria e soprattutto
del commercio che proprio in quest’epoca, con
l’allargarsi dell’orizzonte politico, ebbe notevole
incremento, come mostra il contemporaneo sviluppo
della circolazione monetaria.
Ad ogni modo i componenti plebei della nuova
nobilitas, se pure per vario tempo rimasero una
minoranza e anche se, chiuso il ciclo delle grandi
rivendicazioni, furono in genere portati ad allinearsi
sulle posizioni conservatrici del patriziato, non
mancarono di far sentire la loro influenza nel
modificare le tradizionali direttive della politica. Ma
a questo proposito conviene osservare che anche
qualche elemento del patriziato attuò una politica in
certa misura democratica, sia pure soprattutto
nell’intento di cattivarsi il favore delle masse
popolari. Ciò vale specialmente per Appio Claudio il
Cieco il quale fra l’altro, nel corso della sua famosa
censura cominciata nel 312, nominò senatori alcuni
cittadini di umili origini, tra cui anche figli di liberti
(cioè di ex schiavi).
Simili provvedimenti causarono, com’era
naturale, forti reazioni, ma ormai si trattava di
diversità di tendenze e di metodi più che di radicali
contrasti, e sotto la guida del governo patrizioplebeo la repubblica si avviò decisamente a
primeggiare fra i paesi del Mediterraneo.
4. Taranto e Roma. - Già nel corso della
seconda, e poi della terza guerra sannitica, i Romani
avevano avuto occasione d’intervenire, con le armi o
63
con le arti della diplomazia, nelle regioni più
meridionali della Penisola, dove le rudi popolazioni
indigene dell’interno premevano sulle città della
Magna Grecia. Dopo che Napoli, rimasta come
un’isola greca nella Campania sommersa dagli Osci,
era stata incorporata nel sistema federale romano, e
mentre si accentuava il declino delle altre colonie
greche sotto la spinta dei bellicosi Lucani, il
principale
baluardo
della
grecità
nell’Italia
meridionale era diventata Taranto, florida per
gl’intensi traffici del suo porto in felice posizione tra
l’Oriente e l’Occidente.
Per parare la minaccia dei barbari confinanti,
già prima la città aveva dovuto chiedere aiuto ai
Greci della madrepatria, e i suoi appelli erano stati
accolti per ultimo dal re di Sparta Cleonimo
(Taranto era stata fondata nell’VIII sec. da coloni
spartani). Cleonimo era sbarcato in Italia nel 303,
ma le sue imprese erano rimaste senza conseguenze
durature anche perché egli si era ben presto guastato
con i Tarentini, nei quali aveva suscitato il timore di
essere venuto nella Magna Grecia più come
conquistatore che come liberatore.
Nella sua spedizione, Cleonimo si era trovato a
fronteggiare anche i Romani, che si erano legati con
i Lucani per completare l’accerchiamento del Sannio,
e quando il re spartano, rotto l’accordo con Taranto,
se ne partì senza aver nulla concluso, i Tarentini
stipularono con i Romani un trattato nel quale si
delimitavano le rispettive zone d’influenza. I
Romani, impegnandosi a non navigare nel golfo di
Taranto, riconoscevano in quella zona la supremazia
dei Tarentini, ma nello stesso tempo si vedevano
64
riconosciuto il diritto di intervenire in tutto il resto
della Italia meridionale.
Questo intervento ebbe luogo nel 282, quando
i Romani stabilirono di accordare il loro aiuto agli
abitanti della colonia greca di Turi che, incalzati dai
Lucani, avevano preferito rivolgersi a loro piuttosto
che ai Tarentini, da cui li dividevano vecchie rivalità.
Le operazioni furono condotte energicamente dal
console C. Fabricio, e poiché la guerra si era
allargata ai Sanniti e ai Bruzi, i Romani non si
limitarono a liberare Turi, ma provvidero ad
occupare
opportune
posizioni
strategiche
introducendo guarnigioni, oltre che in Turi, anche in
Locri e in Reggio. In tal modo l’iniziativa dei Turini
aveva avuto sviluppi assai pregiudizievoli per gli
interessi dei Tarentini; questi avevano ogni ragione
di essere preoccupati delle mosse dei Romani, e
quando in violazione del recente trattato, una
flottiglia romana fece la sua apparizione nel golfo, vi
fu un vero scoppio di furore guerresco. La flottiglia
fu in parte affondata o catturata, in parte costretta a
fuggire, e pochi mesi dopo la città di Turi veniva
espugnata e saccheggiata.
Fallite le trattative che i Romani avevano
intavolato per non estendere ulteriormente il
conflitto già in atto contro Sanniti, Lucani e Bruzi,
fu dichiarata la guerra e nel 281 il console Lucio
Emilio Barbula si affrettò a portare direttamente la
minaccia sulla città nemica. Intercorsero altri
negoziati, appoggiati in Taranto da quelli che
inclinavano ad un accordo con Roma, ma non
approdarono a nulla; ebbero invece successo le
trattative dei Tarentini per assicurarsi l’intervento di
65
Pirro, re dell’Epiro.
5. Pirro in Italia. - Pirro era allora nel fiore degli
anni e delle speranze. Ancora giovinetto aveva
regnato per qualche anno sull’Epiro (corrispondente
all’incirca all’odierna Albania): poi ne era stato
espulso, ma l’aveva recuperato con l’aiuto di
Tolemeo Sotere re di Egitto.
Le sollecitazioni dei Tarentini trovarono presso
di lui facile accoglienza. A convincerlo della
opportunità di una spedizione oltre il mare fu forse
il timore di vedere i Romani prendere possesso della
altra sponda dell’Adriatico, dirimpetto ai suoi
domini, oppure il disegno più vasto di cogliere
quell’occasione per riprendere l’opera del suocero
Agatocle (tiranno di Siracusa dal 316 al 289) in
difesa dei Greci d’occidente contro il minaccioso
espansionismo di Cartagine. L’intervento per
allontanare i Romani dal centro più importante della
Magna Grecia poteva essere, per il re epirota,
un’operazione di secondaria importanza, e cioè la
premessa per una più vasta azione intesa ad unire in
un grande stato i Greci di Italia (Italioti) e di Sicilia
(Sicelioti).
Si trattava, però, di un piano fondato su una
conoscenza assai imprecisa della forza di Roma, né
dobbiamo stupircene perché in effetti, fino a quel
momento, nel mondo greco risonante ancora delle
clamorose imprese di Alessandro Magno e dei suoi
successori, Roma non poteva venir considerata che
una potenza di rango inferiore. A questo errore di
valutazione se ne accompagnò un altro non meno
grave, vale a dire l’illusione che le città greche
66
d’occidente, superando il loro tradizionale spirito di
particolarismo, avrebbero saputo accantonare le
secolari rivalità e, insieme, rinunciare a una parte
della
loro
autonomia:
premesse
entrambe
indispensabili perché potessero entrare a far parte di
uno stato unitario. Il fallimento dell’impresa era
dunque segnato in partenza; il grande talento di
condottiero, un esercito addestrato alle tecniche
dell’arte militare greca - che era allora più progredita
di quella romana - consentirono a Pirro di vincere
varie battaglie, non di riportare il successo finale.
Sbarcato nella primavera del 280 con circa
25.000 uomini e alcune decine di elefanti, il re
epirota si scontrò con i Romani in una località sita
tra le città di Eraclea e Pandosia (nell’odierna
provincia di Matera). Pirro si era attestato dietro il
fiume Siris (odierno Sinni), ma i Romani
animosamente superarono l’ostacolo e diedero inizio
al combattimento. Era la prima volta che essi si
trovavano a fronteggia re l’urto degli elefanti - i
“buoi (nel senso di bestioni) Lucani”, come allora li
chiamarono - e lo scontro si risolse in un grave
disastro. Deciso a sfruttare il successo, Pirro risalì
attraverso la Campania e si spinse nel Lazio fino ad
Anagni, ma la sua speranza di provocare una
sollevazione generale contro Roma andò presto
delusa e per il momento non gli rimase che rientrare
a Taranto.
L’anno dopo (279) il re iniziò la campagna in
direzione dell’Apulia, ove i Romani inviarono le loro
4 legioni e i contingenti alleati agli ordini di
entrambi i consoli. Lo scontro avvenne nel territorio
di Ascoli (oggi Ascoli Satriano, in provincia di
Foggia) e ancora una volta Pirro ebbe la meglio
67
grazie ai suoi elefanti. Sul terreno restavano più di
seimila morti, fra cui il console Publio Decio Mure,
che secondo il racconto degli storici romani aveva
volontariamente sacrificato la vita come già a suo
tempo avevano fatto l’avo nella guerra latina (a. 340)
e il padre nella battaglia di Sentinum (a. 295).
Se anche non si era trattato di una vittoria
decisiva (tant’è vero che più tardi qualche storico
poté addirittura parlare di un successo romano),
tuttavia il senato di Roma deliberò di intraprendere
sondaggi per arrivare ad un accordo e nello stesso
anno 279 ne affidò l’incarico a Gaio Fabricio. Un
simile passo destò le preoccupazioni dei Cartaginesi;
questi avevano tutto l’interesse che Pirro
continuasse ad essere impegnato in Italia (e quindi
impedito di rivolgersi alla Sicilia, dove richiedevano
il suo intervento sia i Siracusani sia gli Agrigentini,
allora in lotta fra loro), e pertanto si affrettarono a
inviare alle foci del Tevere una flotta agli ordini del
generale Magone, incaricato di offrire alleanza e
aiuti. Ma l’offerta non venne accettata: in quel
momento avevano la prevalenza in Roma i pacifisti
che rappresentavano gl’interessi della nobilitas
plebea, ricca non tanto per i grandi possedimenti
terrieri (come i patrizi), quanto per le imprese
commerciali. In fondo la pace con Pirro, che non
aveva affatto ottenuto un successo decisivo, avrebbe
comportato soltanto l’obbligo di rispettare
l’indipendenza della Magna Grecia. Ora ai pacifisti
di parte democratica la rinuncia ad ogni mira
sull’Italia meridionale spiaceva meno che un nuovo
accordo con Cartagine, la quale nei suoi precedenti
trattati aveva sempre badato a limitare lo sviluppo
del commercio romano nel Mediterraneo.
68
6. Pirro in Sicilia e il definitivo fallimento della sua
impresa. - Ben presto però la situazione generale subì
un vero e proprio capovolgimento. Pirro aveva
esitato per vari mesi a sottoscrivere la pace offerta
dai Romani perché, se anche questa gli riconosceva
la figura del vincitore, non gli dava però alcun
vantaggio concreto. Una volta ottenuto dai Romani
l’impegno a rispettare la libertà della Magna Grecia,
egli avrebbe dovuto lasciar l’Italia, e quindi o
tornare in Epiro o passare in Sicilia, ma non - come
desiderava - in veste di liberatore dei Sicelioti dal
dominio cartaginese.
Infatti il suo appoggio era stato sollecitato,
come s’è visto, sia dagli Agrigentini sia dai
Siracusani, e accettando di soccorrere gli uni o gli
altri egli avrebbe immeschinito la sua azione
mescolandosi nei soliti contrasti che dividevano le
città greche.
Però alcuni mesi dopo in Sicilia le cose
mutarono: nella primavera del 278 i Cartaginesi,
preoccupati che il re finisse col decidersi a passare
nell’isola, presero l’iniziativa delle operazioni e
strinsero d’assedio Siracusa. Ma questo era proprio
ciò che Pirro voleva per poter scendere in campo
come paladino dell’indipendenza dei Sicelioti, e di
fatto poco dopo egli salpava da Taranto alla volta
della Sicilia. La sua mossa provocò naturalmente una
svolta nella politica romana: si giudicò troppo grave
il pericolo che egli riuscisse a raccogliere sotto la sua
bandiera le forze greche dell’isola per poi tornare a
riprendere il duello interrotto, e allora in senato
prevalse il parere dei bellicisti, sostenuto in
particolare con un famoso discorso da Appio
69
Claudio il Cieco. Vennero troncate le trattative con
Pirro, che dopo averle trascinate così in lungo
desiderava ora concluderle per non lasciarsi la
guerra alle spalle, e insieme furono accettate le
offerte dei Cartaginesi con i quali si concluse un
nuovo trattato.
Sbarcato in Sicilia nell’estate del 278 con la
metà dell’esercito (l’altra metà era rimasta a difesa di
Taranto), Pirro riuscì facilmente a liberare Siracusa
dal blocco cartaginese e vi fece un ingresso
trionfale. Il suo arrivo suscitò un’ondata di
entusiasmo, e mentre veniva proclamato “egémone e
re della Sicilia” egli si diede a raccogliere rinforzi da
ogni parte. Nella primavera del 277 intraprese una
campagna che lo portò in breve a liberare tutta la
Sicilia tranne la fortezza di Lilibeo (od. Marsala)
sulla punta occidentale dell’isola, dove però
s’imbatté in una resistenza così accanita che quando
i Cartaginesi gli offrirono di trattare la pace egli si
mostrò incline ad un accordo. Ma questo suscitò la
più violenta reazione nei Sicelioti, i quali ben
sapevano che non sarebbero mai stati sicuri se i
Cartaginesi non avessero sgombrato anche
quell’estremo lembo dell’isola, e Pirro dovette
riprendere le operazioni contro Lilibeo finché, dopo
qualche mese di inutile logoramento, fu chiaro che
l’impresa non sarebbe riuscita.
Ciò produsse nei Greci un grande sconforto e
accrebbe il loro malcontento per i gravi sacrifici di
sangue e di denaro cui Pirro li aveva duramente
assoggettati. L’entusiastica adesione di qualche anno
prima si venne mutando in aperta ostilità, e
nell’autunno del 276 al re non restava di meglio che
tornarsene in Italia, dove, più che i Tarentini, lo
70
invocavano i Sanniti, i Lucani e i Bruzi ridotti a mal
partito dai Romani. Infatti questi avevano
continuato la guerra riportando alcuni buoni
successi, e Pirro dové prepararsi con tutto l’impegno
a ristabilire la situazione.
Lo scontro decisivo ebbe luogo nella primavera
del 275, (forse in Lucania piuttosto che presso
Benevento), e seppure non si trattò di una vera e
propria vittoria dei Romani, il risultato fu
ugualmente positivo perché in effetti, dopo quella
battaglia, Pirro si decise ad abbandonare la partita e
a tornarsene in Epiro per rituffarsi nelle lotte di
predominio dei sovrani ellenistici. È vero che egli
lasciava in Taranto un presidio agli ordini del figlio
Eleno, con la evidente speranza di poter riprendere
il duello in tempi migliori, ma poi fu costretto a
richiamare il figlio suggellando così la fine della sua
troppo audace avventura.
7. Importanza dell’espansione nell’Italia meridionale.
Sviluppo economico e progresso civile. - Nel 272 Taranto
ottenne “pace e libertà”, cioè non fu assoggettata,
ma dovette entrare a far parte della confederazione
romano-italica obbligandosi per di più ad ospitare
una guarnigione; anche Bruzi e Lucani ottennero un
trattato di alleanza, mentre ai Sanniti fu tolta buona
parte del territorio, ove la stessa Benevento nel 268
diventò una colonia latina. L’anno dopo entravano
nella confederazione anche i Salentini, con
l’importante porto di Brindisi, e così tutta l’Italia
meridionale veniva inquadrata nel sistema dello
Stato romano. Si trattava di un organismo
composito, popolato di cives optimo iure (tra cui i
coloni delle coloniae Romanae) e di cives sine suffragio (i
71
municipi), di alleati Latini (tra cui i coloni delle
coloniae Latinae) e di alleati Italici (in senso lato):
tutta una varietà di condizioni corrispondenti ad una
varietà
d’interessi
che,
appunto
perché
singolarmente tenuti in considerazione da Roma,
cementavano intorno ad essa genti di origine, lingua
e costumi diversi. In seno a questo organismo
unitario divenne più rapida e agevole ogni sorta di
scambi, dagli economici ai culturali, e questo non a
beneficio dei soli Romani. Così, per esempio, se
proprio in quest’epoca Roma prese a far
concorrenza alle città italiote nelle diverse aree
commerciali e adeguò la sua moneta ad una più larga
rete di scambio, sicché il denarius soppiantò poi le
monete di Taranto, di Reggio, di Napoli ecc., è
anche vero che di lì a non molto, sulla scia delle
armi romane, all’intraprendenza degli Italioti si
sarebbero aperti i più grandi mercati dell’Oriente.
Ma l’annessione dell’Italia greca fu soprattutto
ricca di conseguenze per il progresso della civiltà. La
pace di Roma, infatti, non solo impedì che venissero
sommersi dai popoli confinanti (e poi dai
Cartaginesi) gli istituti civili e religiosi, i costumi e la
lingua dei Greci d’Occidente, ma permise che essi
continuassero ad evolversi e a irradiare la loro
influenza. E furono proprio di origine italiota quegli
ingegni che alla letteratura e all’arte di Roma fecero
muovere i primi passi sulla lunga via che portò al
formarsi di quel comune patrimonio culturale grecoromano destinato a divenire uno dei pilastri della
moderna civiltà.
72
Il resoconto più ampio sul compromesso costituzionale del
367 (leggi Liciniae Sextiae) presso Livio, VI, 35, 4 seg.: creatique
tribuni C. Licinius et L. Sextius promulgavere leges omnes adversus opes
patriciorum et pro commodis plebis: unam de aere alieno, ut deducto eo capite,
quod usuris pernumeratum esset, id quod superesset triennio aequis
portionibus persolveretur; alteram de modo agrorum, ne quis plus quingenta
iugera agri possideret; tertiam, ne tribunorum militum comitia fierent,
consulumque utique alter ex plebe crearetur: cuncta ingentia, et quae sine
certamine maximo obtineri non possent. Per le questioni relative al
godimento delle terre demaniali, L. Z ANCAN , Ager publicus. Ricerche
di storia e di diritto romano, Padova 1935.
Sulla data più probabile dell’introduzione degli ordinamenti
centuriati, attribuiti dalla tradizione a Servio Tullio, cfr. G.
G IANNELLI , Origini e sviluppi dell’ordinamento centuriato, in “Atene e
Roma” XV (1935) p. 229 sgg.; I D . in G IANNELLI -M AZZARINO ,
Trattato di Storia Romana, I, p. 180 sg. Sui riflessi militari dei nuovi
ordinamenti, v. J. K ROMAYER - G. V EITH , Heerwesen und Kriegführung,
cit., p. 255 sgg. A proposito della scala dei censi, attribuita nelle
fonti al VI secolo (Servio Tullio) mentre, come sopra s’è detto, va
piuttosto riferita alla fine del III sec., è da ricordare che la prima
fusione dell’aes grave, cioè l’emissione degli assi librali (la prima
vera e propria moneta romana) ebbe luogo intorno alla metà del IV
sec. Circa un secolo dopo (nel 269 secondo P LIN ., Nat. hist.
XXXIII 44) cominciò la coniazione della moneta argentea: denarius
(10 assi), quinarius (5 assi), sestertius (2 assi e mezzo) del peso
rispettivamente di grammi 4,55; 2,27; 1,13. Per quanto riguarda la
validità del dato cronologico conservato dalla tradizione letteraria,
si deve ricordare che essa è stata sostenuta dai numismatici della
scuola italiana, mentre è stata revocata in dubbio da parecchi
studiosi stranieri, soprattutto dall’inglese H. M ATTINGLY , secondo
cui la coniazione del denarius sarebbe cominciata nel II sec. a.C. M a
a confermare la bontà della data tradizionale è ora sopravvenuto il
dato obiettivo di recenti scavi, da cui risulta che il denarius circolava
già nel III sec. a.C. Cfr. L. B REGL IA , I rinvenimenti monetarii di
Morgantina ecc. in “Ann. Ist. It. di Num.” IX -XI (1966) p. 304 sgg.;
S. C ONSOL O L ANGHER , Ricerche di numismatica, Messina 1967, p. 169
sgg. T. V. B UTTREY e H. B. M ATTINGLY in «Atti Congr. intern.
numism.” Roma 1965, p. 261 sgg. Sulla classe di governo nobiliare,
e sui legami intercorrenti fra i vari gruppi, resta esemplare (a parte
qualche riserva) l’opera di F. M ÜNZER , Römische Adelsparteien und
Adelsfamilien, Stuttgart 1920. Sull’intervento di Roma nelle regioni
più meridionali della Penisola, e particolarmente sulle sue relazioni
con i Tarentini, v. P. W UILLEUMIER , Tarente dès origines à la conquête
romaine, Paris 1939. Lo sbarco in Italia di Pirro, e l’importanza
dell’azione militare e politica da lui intrapresa attirarono l’attenzio-
73
ne di storici greci contemporanei di grande valore, come Ieronimo
di Cardia e Timeo; ma delle loro trattazioni (perdute) ben poco è
passato nei racconti giunti fino a noi, tutti più o meno inquinati
dalle consuete deformazioni dell’annalistica, compresa anche la
plutarchea Vita di Pirro.
Un’idea del racconto liviano (scomparso con la perdita della
II decade, che riferiva gli avvenimenti dal 292 al 218) l’abbiamo,
oltre che dalle periochae (libri XII-XV), dagli epitomatori Floro,
Eutropio e Orosio. L’incertezza della tradizione si riflette, naturalmente, nella discordanza delle ricostruzioni moderne e ha dato
alimento a una vasta bibliografia, anche perché qui si tratta di uno
dei capitoli più attraenti della storia greco-ellenistica (e, come tale,
svolto con la solita maestria da K. J. B EL OCH anche nel vol. IV
della sua Griechische Geschichte). Tra gli scritti più recenti
sull’argomento si ricorderà quello di P. L EVÉQUE , Pyrrhos, Paris
1957. Sull’inserirsi delle poleis d’Italia negli schemi di governo
romani, v. F. S ARTOR I , Il declino della Magna Grecia: libertà italiota e
civitas romana, in “Riv. Storica Ital.” LXXII (1960) p. 5 sgg.
74
V
Roma e Cartagine.
1. Dall’amicizia al conflitto. - Come s’è visto, le
relazioni ufficiali fra la repubblica dei Romani e
quella dei Cartaginesi datavano da tempi assai antichi. Una serie di trattati aveva a più riprese ribadito
la vecchia amicizia fra i due Stati, e l’assenza di
qualsiasi motivo per un sostanziale contrasto aveva
fatto sì che nulla venisse a turbare l’intesa.
Le cose improvvisamente mutarono quando i
Romani, estendendo il loro predominio sull’Italia
meridionale, si affacciarono sullo stretto di Messina.
Ormai la lotta secolare di Cartagine contro i Sicelioti
per assoggettare tutta l’isola non poteva lasciarli
indifferenti: se i Cartaginesi si fossero insediati da
dominatori anche nella parte orientale della Sicilia,
avrebbero costituito una grave minaccia per gli
interessi romani da poco affermati nell’estremità
meridionale della Penisola. E in realtà alla grande
floridezza economica di Cartagine continuava ad
accompagnarsi quella politica espansionistica in
virtù della quale la città era divenuta la capitale di un
grande impero che accentrava, in qualità di alleati o
di sudditi, gli abitanti delle altre colonie fenicie del
Mediterraneo (i Libiofenici) e le popolazioni del
retroterra africano (dalle colonne d’Ercole alle Sirti)
della Spagna meridionale, della Sicilia occidentale,
della Sardegna, della Corsica. Il governo era nelle
mani dei ricchi proprietari terrieri e, soprattutto,
75
degli elementi più cospicui del mondo degli affari;
erano appunto questi che, alla ricerca di nuove aree
per l’espansione dei loro traffici, imprimevano alla
politica cartaginese quel vigoroso dinamismo che ad
un certo punto preoccupò il governo di Roma e finì
per trasformare la vecchia amicizia in mortale
rivalità.
L’immane conflitto, che caratterizzò più di un
secolo di storia (l’età delle guerre puniche), ebbe
modeste origini. V’erano in Sicilia alcune migliaia di
mercenari campani (i Mamertini, così detti dal nome
del dio Mamerte, l’equivalente osco del Marte
latino); a suo tempo questi erano stati al soldo di
Agatocle, tiranno di Siracusa, e dopo la morte di
costui, mentre stavano tornando in patria, si erano
impadroniti con un colpo di mano della città di
Messina (a. 283). Pirro li aveva più volte battuti, ma
senza riuscire ad eliminarli; dopo la sua partenza i
Mamertini avevano ripreso le loro incursioni
brigantesche nel vicino territorio di Siracusa finché,
nel 265, subirono una grave sconfitta ad opera del
duce siracusano Gerone, che ottenne allora dai
concittadini, in ricompensa, il titolo di re. Assediati
in Messina, i Mamertini decisero di chiedere aiuto ai
Cartaginesi, che inviarono un corpo a presidiare la
rocca della città mentre Gerone si ritirava. Ma poco
dopo, poiché le truppe cartaginesi di occupazione
erano viste sempre più di malocchio, i Mamertini
deliberarono di invitare i Romani a prendere
possesso della città.
Accogliendo l’invito, il senato di Roma mostrò
di essere disposto ad affrontare i rischi che esso
comportava, e questo spiega l’azione decisa di Appio
Claudio (cons. 264), che, nonostante la vigilanza
76
della flotta cartaginese, riuscì a far passare al di là
dello Stretto un buon contingente del suo esercito e
costrinse il presidio punico a sgombrare la cittadella
di Messina. Preoccupato per l’energico intervento
romano, Gerone s’indusse ad unirsi coi Cartaginesi,
e i due alleati assediarono Messina, ove nel
frattempo era entrato il console col resto dei suoi
uomini. Appio Claudio non solo si liberò dal blocco,
ma costrinse gli avversari a ritirarsi verso le loro
basi; l’anno appresso il console Marco Valerio
Massimo (detto poi Messalla da Messana, cioè
Messina) obbligava Gerone a passare dalla parte dei
Romani.
2. Gli sviluppi della prima guerra punica. - Con
l’appoggio di Gerone, che rimase poi fedele alleato
fino alla morte, i Romani avrebbero potuto in tempo
relativamente breve piegare i Cartaginesi ad un
accordo; invece la guerra si trascinò con alterne
vicende per oltre vent’anni. Questo dipese
soprattutto dal sistema di cambiare ogni anno i
generali sul campo, cioè i consoli, con evidente
pregiudizio della necessaria continuità nell’azione di
comando, e non certo da difetto di energia nel
senato. Basta pensare alla rapidità con la quale, una
volta compreso che bisognava tagliare la linea dei
rifornimenti con cui Cartagine alimentava la guerra
in Sicilia, si provvide alla costruzione di una flotta
da guerra, e quindi a trasformare anche in potenza
marittima quella che fino allora era stata solo una
potenza terrestre. Con questa flotta il console Gaio
Duilio riportò nel 260 la famosa vittoria di Milazzo,
sopperendo alla scarsa esperienza con l’ingegnosa
trovata dei corvi (una specie di ponti levatoi) me77
diante i quali le sue navi agganciarono quelle
nemiche e permisero ai legionari imbarcati di
combattere come in terraferma.
Questa vittoria fu la premessa indispensabile
per il coraggioso tentativo, fatto qualche anno dopo,
di chiudere la partita portando la guerra
direttamente contro Cartagine. Nel 256, sbaragliato
al capo Ecnòmo la flotta nemica che tentava di
sbarrare il passo, il corpo di spedizione agli ordini
dei consoli Marco Attilio Regolo e Lucio Manlio
Vulsone sbarcò in Africa presso Clupea e vi
organizzò le sue basi. Poi, mentre una metà
dell’esercito col console Vulsone tornava a svernare
in Italia, Attilio Regolo avanzò in direzione di
Cartagine e, sconfitto un esercito nemico,
s’impadronì di Tunes (Tunisi) ove pose i quartieri
d’inverno. Nella primavera dell’anno successivo i
Cartaginesi offrirono nuovamente battaglia, e Attilio
Regolo, che pure avrebbe potuto attendere il
prossimo arrivo dei rinforzi, baldanzosamente
accettò subendo però questa volta un grave rovescio
e cadendo egli stesso prigioniero. Ai nuovi consoli,
che approdarono poco dopo a Clupea, non restò che
raccogliere i pochi superstiti e riprendere il viaggio
di ritorno, durante il quale subirono gravissime
perdite per una tempesta. Tra parentesi, è da notare
che le prime flotte romane soffrirono i danni
maggiori non dall’agguerrita marina avversaria, ma
dalle tempeste da cui gli improvvisati ammiragli si
lasciarono più volte sorprendere.
Abbandonata l’idea dell’attacco diretto a
Cartagine, i Romani ripresero la guerra in Sicilia,
dove s’impadronirono di Panormo (Palermo) e
strinsero d’assedio Lilibeo, senza però riuscire ad
78
espugnarla. Nel 247, fallito un tentativo per
raggiungere un accordo (a perorare la pace i
Cartaginesi avrebbero mandato lo stesso Attilio
Regolo, che invece incitò il senato a non cedere e a
rinviarlo a Cartagine, pur sa pendo che avrebbe
pagato con la vita il suo comportamento: ma questa
pare più leggenda che storia), arrivò in Sicilia un
nuovo esercito con a capo un duce geniale, Amilcare
Barca. Questi, aggrappatosi alle estreme posizioni
nella Sicilia occidentale, riuscì a tenere in scacco per
vari anni i nemici, e solo quando la vittoria navale
romana alle isole Egadi (241) gli tagliò l’afflusso dei
rifornimenti si decise a chiedere pace. L’ottenne a
patto che Cartagine sgombrasse definitivamente la
Sicilia, restituisse i prigionieri e pagasse in venti anni
una forte indennità.
3. Conseguenze della guerra in Roma e in Cartagine. I Romani, che erano sbarcati in Sicilia solo per
impedire che Messina cadesse nelle mani dei
Cartaginesi, si trovarono alla fine padroni di tutta
l’isola tranne il piccolo regno siracusano dell’alleato
Gerone, destinato peraltro a diventare il primo di
una lunga serie di stati vassalli. Ma più importa
osservare che nel resto della Sicilia venne per la
prima volta applicata una nuova forma di dominio
diretto che era stata estranea al processo di
unificazione dell’Italia, unificazione attuata mediante
la concessione della cittadinanza romana o di trattati
di alleanza. In Sicilia i Romani avevano conosciuto
un sistema di governo che sovrapponeva nettamente
dominatori a dominati, ed essi lo applicarono
pressoché integralmente con l’istituzione della
“provincia”, cioè di un territorio assoggettato e
79
sottoposto al governo di un pretore romano, i cui
abitanti (i provinciali) dovevano corrispondere ai
dominatori la decima sui prodotti del suolo. Era il
primo passo verso la creazione dell’impero, cui seguì
poco dopo la riduzione a provincia della Sardegna e
della Corsica (227), che i Romani avevano strappato
nel 238 ai Cartaginesi approfittando delle difficoltà
che questi avevano incontrato a stipendiare le loro
guarnigioni di mercenari.
Ma per Cartagine, che conservava pressoché
intatte le basi della sua potenza, si era trattato più
che altro della perdita di un’area nella quale da
secoli esercitava il monopolio (o quasi) del commercio marittimo. Pertanto il contraccolpo della
sconfitta fu risentito soprattutto dal partito dei
grossi affaristi (capeggiato dalla famiglia dei Barca);
su questo prese il sopravvento il partito dei grandi
proprietari terrieri, il cui programma era di
indirizzare la politica cartaginese, più che alla
espansione marittima e coloniale, alla formazione di
un grande impero nell’Africa settentrionale. Ma di lì
a poco riacquistò la prevalenza il dinamico partito
avversario e questo fu il preludio, sia pure lontano,
alla ripresa della guerra.
In Roma, invece, la vittoria consolidò il potere
della oligarchia patrizio-plebea, la quale tuttavia non
mancò di corrispondere in certa misura alle
aspettative dei ceti inferiori della cittadinanza, che
avevano sopportato tanti sacrifici di sangue e di
denaro. Venne infatti attuata una riforma in senso
più democratico dei comizi centuriati stabilendo un
collegamento tra le 193 centurie e le 35 tribù con un
sistema che rimane piuttosto oscuro, ma che certo
ebbe l’effetto di far partecipare alla direzione della
80
cosa pubblica un certo numero di cittadini che fino
a quel momento ne erano rimasti esclusi.
Meno propensa la classe di governo si mostrò
ad accogliere le aspirazioni dei cittadini più poveri
sui latifondi demaniali. Sarebbe stato nei voti di
costoro che grosse porzioni di agro pubblico
venissero trasformate in territorio dello Stato e
distribuite, in modo che i coloni che vi si
trasferissero come assegnatari di un appezzamento
potessero conservare i loro diritti di cittadini
romani. Ma questo avrebbe portato ad un
ampliamento del territorio statale contrario alle
istanze dell’oligarchia dominante che, preoccupata di
conservare l’equilibrio costituzionale, preferiva
indirizzare l’emigrazione dei cittadini desiderosi di
lavorare un terreno di proprietà verso la
costituzione di nuove colonie latine, cioè di
comunità estranee allo Stato e solo vincolate dagli
obblighi del foedus. Tuttavia nel 232 il tribuno della
plebe Gaio Flaminio riuscì a far approvare una legge
per la distribuzione in piccoli lotti dell’agro gallico e
piceno (e una decina di anni dopo congiunse a Roma
questo territorio con la grande via Flaminia che
arrivava fino a Rimini).
4. I Romani oltre l’Adriatico e nell’Italia
settentrionale. - Nello stesso torno di tempo si ebbero
i primi scontri con i Liguri, cui fu tolto il porto di
Pisa, importante per le comunicazioni con la
Corsica, mentre nel basso Adriatico si dovette
intervenire qualche anno dopo per mettere fine alle
scorrerie dei pirati illirici che danneggiavano i
traffici delle città alleate con i paesi dell’Egeo. Nel
229 una poderosa flotta approdò ad Apollonia (al di
81
là del Canale d’Otranto, dirimpetto a Brindisi), e
costrinse Teuta, la regina degli Illiri, ad assoggettarsi
a dure condizioni di pace, né in questo si esaurì
l’azione dei Romani perché essi si costituirono degli
stabili interessi sull’altra sponda dell’Adriatico
legandosi in alleanza con varie città e con i popoli
dei Partini e degli Atintani.
Qualche tempo dopo si profilò una nuova minaccia da parte dei Galli dell’Italia settentrionale,
che per un momento si temette potessero rinnovare
i nefasti dell’indimenticabile presa di Roma.
Appoggiati da alcune tribù transalpine nell’anno 225
i Lingoni, i Taurisci, gl’Insubri e i Boi riunirono le
loro forze, circa 70.000 fra fanti e cavalieri e,
valicato l’Appennino, discesero attraverso l’Etruria
fra ruberie e devastazioni. I Romani, che nella
gravità dell’ora avevano predisposto il necessario
per la mobilitazione generale (col recensus armatorum
di cui parla Polibio, II 24 attingendo a Fabio
Pittore) affrontarono gli invasori presso Telamone
(in provincia di Grosseto) e li annientarono in una
battaglia nella quale cadde il console Gaio Attilio
Regolo, figlio di colui che per primo aveva guidato
le legioni in Africa.
La grande paura era svanita, ma bisognava
assicurarsi per il futuro: i Boi vennero assoggettati
nel 224 e l’anno dopo si portavano le armi oltre il
Po nel territorio degli Insubri, la cui capitale,
Mediolanum (l’odierna Milano), fu presa nel 222. Sulle
terre a loro confiscate venivano fondate nel 218 le
colonie latine di Piacenza e Cremona, col che Roma
metteva saldamente piede nella Gallia Cisalpina.
Fuori della sua orbita restavano ad occidente le tribù
liguri e celtiche stanziate nell’odierna Liguria e
82
Piemonte, mentre a est si stringevano coi Veneti
rapporti di salda amicizia.
Oltre l’Adriatico la ripresa della pirateria illirica
rendeva necessario nel 219 un nuovo intervento con
forze navali, che costringeva alla fuga il dinasta
Demetrio di Faro (odierna isola di Lesina); poi le
operazioni in questo settore si arrestarono perché
ormai premeva nuovamente la minaccia cartaginese.
5. Origini della seconda guerra punica. - In Cartagine, dopo una breve eclissi alla fine disastrosa della
guerra, erano tornati in auge i fautori della politica
d’imperialismo coloniale. A compensare la perdita
della Sicilia, della Sardegna e della Corsica, costoro
si prefissero la conquista della Spagna, che fu
intrapresa nel 237 sotto il comando di Amilcare
Barca. Con una serie di fortunate campagne questi
risalì da Cadice ad Alicante, e quando, nel 229,
cadde in una imboscata, ebbe un degno continuatore
della sua opera nel genero Asdrubale, che ampliò la
conquista fino al fiume Ebro. Queste vittoriose
operazioni, nel corso delle quali, fra l’altro,
Cartagine si era venuta costituendo un esercito
numeroso e agguerrito, non potevano non
preoccupare i Romani che, dopo aver fatto un primo
passo nel 231 presso Amilcare, intervennero
decisamente nel 226 costringendo Asdrubale
all’impegno di non spingersi con mire ostili a nord
del fiume Ebro. Il governo cartaginese ratificò
l’accordo, e con questo mostrò di approvare la cauta
politica di Asdrubale; ma le cose cambiarono
quando a costui, nel 221, successe nel comando il
cognato Annibale, figlio di Amilcare.
83
Annibale non aveva allora che ventisei anni, ma
sin da ragazzo si era temprato sui campi di battaglia
di Spagna alla scuola del padre e del cognato. Era
dotato di un talento militare straordinario, posto al
servizio di un’idea quasi fanatica di riscossa
antiromana, e dopo aver condotto a termine nel 220
la sottomissione delle tribù iberiche del bacino del
Tago, l’anno appresso con un evidente pretesto
portò il suo attacco contro la città di Sagunto che
era alleata dei Romani. Sagunto era a sud dell’Ebro,
dunque in una regione non inibita all’espansione
cartaginese dall’accordo del 226, ma i Romani per
ragioni di prestigio imposero ad Annibale di togliere
l’assedio. Non ottennero che un rifiuto, e sulla fine
dell’autunno 219 Annibale espugnò la città senza
preoccuparsi di provocare con questo lo scoppio di
una nuova guerra con Roma. Anzi, era proprio ciò
che per tanti anni aveva desiderato.
Nella primavera del 218 i Romani inviarono
uno dei consoli, Tiberio Sempronio Longo, in Sicilia
a preparare uno sbarco in Africa, l’altro, Publio
Cornelio Scipione, nella Cisalpina come per passare
nella Spagna; ma non si fece nessuna delle due cose,
lasciando l’iniziativa ad Annibale. Questi indugiò
alcuni mesi nella Spagna settentrionale, poi
improvvisamente, ai primi di agosto, si avviò a
valicare i Pirenei con 30 mila soldati e 37 elefanti.
Quando giunse la notizia della sua mossa, il console
Publio Cornelio Scipione imbarcò il suo esercito a
Pisa e lo trasportò nel porto dell’alleata Marsiglia,
donde avanzò verso l’interno per tentare di impedire
al nemico il passaggio del Rodano, ma arrivò troppo
tardi. Allora fece partire per la Spagna le sue legioni
agli ordini del fratello Gneo e ritornò nella
84
Cisalpina, ove l’aspettavano altre due legioni.
Intanto Annibale si accingeva a valicare le Alpi (per
il Monginevro, come sembra più probabile) e,
compiuta felicemente l’impresa in un paio di
settimane, alla fine di settembre sboccò in Piemonte
nel territorio dei Taurini.
6. Dal Ticino a Canne. - Annibale contava di
ingrossare le file dell’esercito attirando dalla sua
parte quei Galli che solo da qualche anno i Romani
avevano sottomessi, e a tale scopo si affrettò a
cercare un successo marciando rapidamente contro
Scipione. Questi si era portato a nord del Po e,
sebbene si movesse cautamente in attesa dell’arrivo
dell’altro console che risaliva a grandi giornate dalla
Sicilia, non poté evitare uno scontro fra le opposte
cavallerie, che si concluse in maniera sfavorevole e
nel quale per poco non perdette la vita.
Ripassato il Po e attestatosi a difesa sul fiume
Trebbia, Scipione fu raggiunto dall’esercito del
collega, il quale sui suoi consigli di prudenza fece
prevalere il desiderio di cercare subito una soluzione
sul campo. Fu così che le legioni, dopo aver
attraversato le acque della Trebbia in una rigida
giornata di dicembre, si scontrarono con l’opposto
schieramento in condizioni tutt’altro che favorevoli,
e sebbene si battessero con valore rimasero
soccombenti. Su 40.000 uomini, solo un quarto
trovarono scampo e, ripassato il fiume, si
rinchiusero a Piacenza, che assieme a Cremona
seppe poi resistere per tutta la durata della guerra.
Per valicare l’Appennino, Annibale dové attendere la primavera, e nel frattempo i Romani
riorganizzarono
alacremente
le
loro
forze,
85
affidandone il comando ai nuovi consoli Gneo
Servilio e Gaio Flaminio. Questi, per meglio
sorvegliare i possibili itinerari del nemico, si
dislocarono il primo a Rimini e il secondo ad
Arezzo, ma in tal modo attuarono una divisione delle forze che non tardò a risultare disastrosa. Ai primi di maggio del 217 Annibale si mise in marcia da
Bologna e, superato l’Appennino al passo di Collina,
arrivò a Fiesole. Appena ne fu informato, Flaminio
avvertì il collega di accorrere con le sue forze da
Rimini e non si mosse dalle sue posizioni se non
quando l’esercito nemico, lasciatosi alle spalle
Arezzo, s’inoltrò verso sud in direzione di Cortona.
Allora Flaminio si pose alle calcagna di Annibale per
controllarne le mosse in attesa dell’arrivo del
collega, e così, superata Cortona, s’incamminò verso
Perugia lungo la sponda settentrionale del lago
Trasimeno.
Quivi, nei pressi di Passignano, il Cartaginese
gli aveva teso un’imboscata, e in un nebbioso
mattino di giugno l’esercito di Flaminio si trovò
improvvisamente stretto fra il lago e i monti che lo
fiancheggiano da vicino, mentre le forze nemiche,
opportunamente predisposte, gl’impedivano sia di
avanzare sia di retrocedere. Nella carneficina
restarono sul campo, assieme al console, oltre
ventimila uomini, e poco dopo, ad accrescere le
proporzioni del disastro, venne la disfatta dei 4.000
cavalieri che precedevano l’esercito dell’altro
console.
Era stato un altro grosso successo, ma Annibale non s’illuse di poter puntare direttamente sul
Lazio. Per il momento il suo piano era di scardinare
uno dei pilastri della potenza romana, e cioè di
86
isolare Roma spingendo alla defezione la massa degli
alleati italici: proprio per questo ne aveva rimessi in
libertà quanti ne aveva fatti prigionieri. Con tale
progetto raggiunse il Piceno e, avanzando lungo la
costa adriatica, scese attraverso il territorio dei
foederati sino all’Apulia.
I Romani, per loro conto, reagirono con grande
energia e cominciarono con l’accentrare il potere
nelle mani di un dittatore, Quinto Fabio Massimo. I
precedenti disastri avevano convinto Fabio che con
Annibale occorreva usare soprattutto grande
prudenza, ed egli inaugurò una strategia
temporeggiatrice consistente nel molestare il nemico
con piccole azioni di disturbo, senza mai venire ad
uno scontro decisivo. Se in tal modo non si
riportavano vittorie, almeno si evitavano sconfitte e,
nel frattempo, qualche opportunità migliore poteva
anche maturare. Questa condotta della guerra aveva
però il grave inconveniente di lasciare che Annibale
portasse ovunque liberamente la distruzione, e oltre
l’Apulia ne soffrirono anche il Sannio e la Campania.
“Temporeggiatore” (cunctator) Fabio fu soprannominato per scherno, e solo più tardi, quando si
comprese che egli aveva salvato la patria da una
nuova catastrofe, quell’epiteto ingiurioso si
trasformò in titolo di gloria. Ma sulle prime molti
disprezzarono la sua cautela come codardia, e
quando spirarono i sei mesi della dittatura la
maggioranza in Roma era desiderosa di rompere
gl’indugi e di tentare la prova decisiva.
Uno dei consoli eletti per il 216, Gaio Terenzio
Varrone, aveva riportato larghi suffragi appunto con
la promessa di una rapida soluzione della guerra,
mentre il prudente Lucio Emilio Paolo solo a stento
87
conseguì l’elezione. Furono rinnovati col più grande
fervore i preparativi e, alla testa di 50000 uomini, i
due consoli scesero in Apulia incontro ad Annibale,
che ne contava solo 35000, ma aveva una cavalleria
quasi doppia di quella romana. Lo scontro avvenne
il 2 agosto sulla destra del fiume Ofanto nei pressi
di Canne (a dodici km da Barletta) e segnò un altro
trionfo della superiore capacità tattica del
condottiero cartaginese. L’abilità di Annibale
consisté da un lato nell’accorto sfruttamento della
superiorità della sua cavalleria, dall’altro nell’avere
sdoppiato - per così dire - lo schieramento della sua
fanteria, disponendo sul davanti i fanti celtici e
iberici, e dietro a questi i fanti libici. Mandata
all’attacco la sola fanteria celtica e iberica, questa a
un certo punto, non potendo sostenere la pressione
dei legionari, prese a indietreggiare, ma quando i
Romani ebbero piegata la sua tenace resistenza si
trovarono di contro la fanteria libica, che fino a quel
momento Annibale aveva tenuto ferma al suo diretto
comando. E fu proprio allora che queste truppe
fresche entrarono in azione mentre, con perfetta
sincronia, alle spalle dei legionari piombava la
cavalleria nemica che aveva già volta in fuga quella
romana. Il disastro fu pauroso: cadde, fra gli altri, il
console L. Emilio, e solo 10000 uomini riuscirono a
salvarsi raggiungendo la colonia di Venosa.
7. Da Canne al Metauro. - A Roma per un
momento tutto sembrò perduto, ma superato il
primo sgomento il senato prese in pugno la
situazione curando in primo luogo di mantenere fra i
cittadini la concordia necessaria per affrontare
88
l’estremo pericolo. Così, per esempio, non fu mosso
alcun rimprovero al console Terenzio Varrone che
aveva ostinatamente voluto la battaglia nonostante
le perplessità del collega, anzi gli furono rese
pubbliche grazie per non aver disperato della repubblica. Per l’ulteriore condotta della guerra si
decise di attenersi alla strategia, poco prima tanto
discussa, di Fabio Massimo: sottoporre l’invasore ad
una serie di azioni di logoramento che ne esaurissero
le forze, e mantenere il dominio del mare per
impedire che potesse ricevere aiuti dalla Spagna o
dall’Africa. Non si potette, invece, impedire che non
pochi dei foederati dell’Italia meridionale passassero
dalla parte del vincitore, e soprattutto a questo mirò
Annibale convinto che, anche dopo la strepitosa
vittoria di Canne, i tempi non erano maturi per un
tentativo diretto contro Roma.
Particolarmente grave fu la defezione di quella
che era ancora una delle città più importanti della
Penisola, Capua, a cui poco dopo si aggiunse quella
di Siracusa ove, alla morte del re Gerone (215),
prese il sopravvento il partito antiromano. Nello
stesso tempo il re dei Macedoni Filippo V, che aveva
visto assai di malocchio i Romani metter piede
sull’altra sponda dell’Adriatico, ritenendo che
nessuna occasione migliore gli si sarebbe offerta per
buttarli a mare, firmò un trattato di alleanza con
Annibale. Infine, nel 212, anche Taranto si diede ai
Cartaginesi; ma ormai gli energici provvedimenti
adottati dal senato per raddrizzare la situazione
cominciavano a dare i loro frutti imprimendo agli
eventi un corso sempre più favorevole.
Nel 211, dopo vari mesi di assedio, veniva
riconquistata Capua, che invano Annibale aveva
89
tentato di sbloccare cercando di distrarre gli
assedianti con un’improvvisa ed audacissima marcia
alla volta di Roma alla testa di un gruppo celere. Ma,
per espugnare la città, ci voleva ben altro che un
colpo di mano, e al Cartaginese, dopo aver
contemplato le mura da Porta Collina (sulla via
Nomentana), non restò che tornarsene nell’Italia
meridionale. Ancora nel 211, dopo due anni di
assedio, cadeva Siracusa nonostante le sue potenti
fortificazioni e gli apprestamenti difensivi escogitati
da Archimede. La città fu saccheggiata e ridotta a
provincia come tutto il resto della Sicilia. Meno bene
le cose andarono in Spagna ove i due Scipioni,
Publio e Gneo, dopo aver per oltre sei anni impegnate
le
forze
cartaginesi,
perirono
in
combattimento nello stesso anno 211; ma anche qui
la situazione fu ben presto ristabilita ad opera
soprattutto del giovane Publio Cornelio Scipione,
rispettivamente figlio e nipote dei due caduti.
Ripresa Taranto nel 209, Annibale si trovò
pressoché bloccato nel Bruzio; venuta meno la
speranza di rinfoltire l’esercito con i foederati ribelli,
egli non poteva contare che su rinforzi provenienti
per via di terra dalla Spagna, e l’impresa riuscì al
fratello Asdrubale, che nella primavera del 207
valicò anch’egli le Alpi e scese in Italia con un buon
numero di uomini e alcuni elefanti. L’intenzione di
Annibale era di effettuare il congiungimento delle
forze nell’Italia centrale, e quindi avanzò in Apulia;
lo teneva sotto vigile controllo il console Tiberio
Claudio Nerone, al quale capitò la fortuna di
catturare alcuni messaggeri inviati da Asdrubale al
fratello per avvisarlo dei suoi movimenti. La
decisione del console fu allora tanto rapida quanto
90
audace. Lasciata solo una parte dei suoi uomini a
sorvegliare le mosse di Annibale, col resto delle
forze marciò rapidamente lungo l’Adriatico, si unì
alle legioni del collega e, dopo aver largamente
contribuito alla brillante vittoria sul fiume Metauro
(presso Fano), ove cadde lo stesso Asdrubale, tornò
velocemente in Apulia a riprendere posizione di
fronte ad Annibale.
8. Annibale e Scipione. - Annibale apprese la
notizia della catastrofe dal triste spettacolo della
testa del fratello gettata nel suo accampamento, e
non poté che ritirarsi nelle basi del Bruzio, dove
riuscì a tenere il campo ancora per quattro anni
sebbene la sua condizione apparisse ogni giorno di
più senza una via d’uscita. Tra l’altro, nessun
vantaggio gli era venuto dall’alleanza con Filippo V
di Macedonia; ai Romani, infatti, senza sottrarre
forze alla guerra d’Italia, era bastato appoggiare
l’azione dei nemici che Filippo aveva in Grecia. Tra
questi i più attivi furono i confederati della lega
etolica che, accordatisi coi Romani nel 212,
combatterono contro Filippo fino al 206. In
sostanza, quando il conflitto si concluse, nel 205,
con la pace di Fenice (capitale della lega d’Epiro), i
Romani serbavano sostanzialmente intatte le loro
posizioni oltre l’Adriatico.
Ormai i tempi erano maturi per un’azione
decisiva; si stabilì di portare la guerra in Africa e il
comando dell’impresa fu affidato al giovane Publio
Cornelio Scipione, che già si era distinto nelle
campagne di Spagna dal 210 al 206. Eletto console
per il 205, Scipione si trasferì in Sicilia per
l’allestimento del corpo di spedizione, e nella
91
primavera dell’anno dopo, come proconsole, sbarcò
presso Capo Farina e pose l’assedio a Utica. Ma la
tenace resistenza della città, nonché l’arrivo di un
esercito nemico che si accampò nelle vicinanze, lo
ridussero in una situazione assai difficile da cui poté
uscire perché i Cartaginesi, per consiglio dell’alleato
Siface, re dei Numidi, intavolarono con lui trattative
di pace. La stasi delle operazioni permise di superare
la crisi invernale, e quando nella primavera i
negoziati si conclusero con un fallimento, Scipione
sferrò l’attacco contro gli accampamenti dei
Cartaginesi e dei Numidi menando gran strage. Il
successo fu ribadito qualche mese appresso (giugno
203) da una nuova vittoria riportata ai Campi Magni
(un centinaio di km a sud di Utica), dopo la quale
Siface fu catturato e sostituito, come re dei Numidi,
da Massinissa, fedele alleato di Roma. Occupata
Tunisi, Scipione si preparava a investire la stessa
Cartagine che s’affrettò a richiamare Annibale,
avviando insieme nuove trattative.
Sebbene le condizioni imposte dal duce romano
fossero durissime, i Cartaginesi le accettarono, ma,
poco dopo, l’arrivo di Annibale fece nascere nuove
speranze e la parola fu ancora una volta alle armi.
Lo scontro decisivo (detto comunemente
battaglia di Zama) avvenne a Naraggara nell’estate
del 202, dove Annibale diede un’altra prova delle
sue capacità. Infatti nell’effettuare lo schieramento
egli non mise in linea tutte le forze disponibili e,
ritornando ad una geniale innovazione di Alessandro
Magno rimasta senza seguito per oltre un secolo,
tenne da parte una vera e propria riserva da gettare
nella mischia al momento più propizio. Ma a
Naraggara si trovò di fronte a un condottiero di non
92
minor talento. Infatti Scipione appena che, travolto
lo schieramento avversario, si accorse dell’esistenza
di quella riserva, impedì che i suoi si sparpagliassero
nell’inseguimento e, dopo averli fatti riordinare,
partì nuovamente all’attacco. Per Annibale fu una
disfatta irreparabile, ed egli stesso spinse i suoi ad
accettare la pace, che fu firmata nel 201 a patti
gravissimi, fra cui il pagamento di una forte
indennità, e, soprattutto, il divieto di far guerra
senza il permesso dei Romani.
Sulla prima guerra punica, e sull’intervallo fra la prima e la
seconda, fondamentale il racconto di Polibio (nei primi due libri), il
quale utilizzò da un lato uno storico filocartaginese, l’agrigentino
Filino, dall’altro Fabio Pittore, il più antico annalista, cercando di
rintracciare la verità dei fatti nel raffronto delle due contrastant i
versioni. Nel III libro Polibio incominciava l’esposizione della
seconda punica (anche qui non mancando di utilizzare, accanto a
fonti filoromane, anche fonti filocartaginesi come Sileno di Callatis
e Sosilo spartano), ma la sua opera ci è giunta intera soltanto fino
al V libro; per il resto non ci rimangono che frammenti più o meno
ampi.
Quanto a Livio, il racconto che egli dava della prima punic a
è scomparso con la perdita della seconda decade, mentre la terza
decade si apre col racconto degli inizi della seconda punica. In
questa parte del suo lavoro Livio utilizzò svariati materiali
attingendo da opere dell’annalistica recenziore (Valerio Anziate),
dalla monografia di Celio Antipatro sulla seconda punica, dalle
Storie di Polibio, col risultato di una compilazione di valore
parecchio disuguale. Nella sua Biblioteca storica Diodoro trattò della
prima punica nei libri XXIII e XXIV, della seconda nei libri XXVXXVII (superstiti solo pochi frammenti), attingendo da una fonte
che probabilmente fu poi utilizzata anche da Appiano (della cui
opera ci sono giunti, fra l’altro, il libro Iberico, il libro Annibalico e il
libro Libico).
Ben poco allargano il quadro dell’informazione più
attendibile sia le Vite di Amilcare e di Annibale scritte da Cornelio
Nepote, sia le Vite plutarchee di Fabio Massimo e di Marco Claudio
93
Marcello; di materiali liviani era intessuta in prevalenza, per questa
parte, l’opera di Cassio Dione (frammenti). Da un’analisi di questa
complessa tradizione deve prendere le mosse ogni ricostruzione
dell’età delle guerre puniche, su cui v., in generale, S. M AZZAR INO ,
Introduzione cit. Su Cartagine e i suoi ordinamenti, oltre il classico S.
G SELL , Histoire ancienne de l’Afrique du Nord, I-IV, Paris 1913-1921,
v. C H . J ULL IEN - C H . C OURTOIS , Histoire de l’Afrique du Nord dès
origines à la conquête arabe, 2a ed., Paris 1951.
Su Gerone di Siracusa, e la situazione che precedette
l’intervento romano oltre lo stretto di Messina, cfr. A. S CHENK VON
S TAUFFENBERG , König Hieron der Zweite von Syrakus, Stuttgart 1933.
Sull’origine e gli sviluppi della marina militare romana, i due
lavori di J. H. T HIEL , Studies on the History of Roman Sea-power in
Republican Times (Amsterdam 1946) e A History of Roman Sea-power
before the Second Punic War (ibid. 1954). Il testo dell’elogium inciso
sulla colonna rostrata di C. Duilio (che fu restituito in età augustea)
in C.I.L. I 2 25. Un altro documento epigrafico sulla prima punica, e
in particolare sulle operazioni di guerra dell’anno 259 nelle acque
della Corsica, è rappresentato dall’epitaffio di L. Cornelio Scipione
(C.I.L. I 2 8, 9). Sulla leggenda dei supplizi inflitti ad Attilio Regolo
(Polibio non ne parla), cfr. F.W. W ALBANK , A Commentary o n
Polybius, 1, p. 92 sg.
Un’idea dello sforzo finanziario sopportato dalla repubblic a
nel corso della prima punica si può avere dai calcoli
(inevitabilmente approssimativi) fatti da T. Frank, An Economic
Survey of Ancient Rome, vol. I. Rome and Italy of the Republic, Baltimore
1933, p. 64 sgg. Più eloquenti, o almeno di più immediata evidenza,
i dati sulla diminuzione del numero dei cittadini rilevata dai
censimenti. Mentre nel 251 erano stati censiti (L IV ., periocha XVIII)
297.797 civium capita (cittadini soggetti alle armi, quindi con
esclusione dei proletarii), il loro numero nel censimento dell’anno
246 (L IV ., per. XIX) risultò ridotto a 241.212. Questo non lieve
sacrificio di sangue, sopportato per la gran parte dai cittadini di più
basso livello censitario, propiziò una riforma in senso più
democratico dei comizi centuriati, riforma che - come sembra
suggerire un nuovo documento epigrafico - potrebbe essere stat a
attuata nel 230-29 dai censori Quinto Fabio Massimo e Marco
Sempronio Tuditano (cfr. G. V ITUCCI , Intorno a un nuovo frammento di
elogium, in “Riv Filol. Class.” 1953, p 43 sgg.; I D ., Un nuovo episodio
della II Punica, in “Annuario dell’Accademia Etrusca di Cortona”,
1964. V. anche S. M AZZAR INO , Il pensiero storico classico. II, 1, Bari
1966, p 323 sg.; I D ., sul trattato dell’Ebro e la connessa
dibattutissima questione della responsabilità della seconda guerr a
punica (in Introduzione, cit., p. 100 sgg.).
94
Sullo svolgimento dei fatti d’arme, oltre i già ricordati Antike
Schlachtfelder di J. K ROMAYER E G. V EIT H , v. G. D E S AN CTIS , in
Storia dei Romani, vol. III, 1-2; sulla varia composizione delle forze
che dominavano la scena politica a Roma cfr. A. L IPPOLD ,
Consules. Untersuchungen zur Geschichte dea römischen Konsulates von
264 bis 201 v. Chr., Bonn 1963, e soprattutto F. C ASSOLA , I gruppi
politici romani del III sec. a.C., Trieste 1962.
Sugli accordi che, al tempo della prima guerra romanomacedonica, regolarono la collaborazione coi Romani degli Etoli
(accordi prima conosciuti soltanto da qualche cenno di L IV ., XXVI
24, 8-13), nuova luce è venuta dalla recente scoperta di un
documento epigrafico. Si tratta di un’iscrizione frammentaria
rinvenuta in Acarnania nel 1949 (ora pubblicata in Inscr. Graecae IX,
12, 2, 241) contenente alcune clausole del trattato di alleanza
stipulato nel 212 fra i Romani e la lega etolica. Una quindicina di
anni
dopo
fra
le
due
parti
insorsero
controversie
sull’interpretazione di questi patti e, nel darcene notizia, Polibio
(XVIII 38) fa riferimento alle clausole del 212 in maniera non corrispondente con ciò che si legge nel documento ora ritrovato: la
propensione per i Romani spinse lo storico ad oscurare la verità.
Sull’argomento è da vedere S. C ALDERONE , Pistis-Fides. Ricerche di
storia e diritto internazionale nell’antichità, Messina 1964 (cfr. S.
M AZZARINO , Il pensiero storico classico, II, l, p. l18 sg.); sul valore
dell’espressione tecnica venire in fidem, già A. P IGAN IOL , in
“Mélanges F. de Visscher”, Bruxelles 1950, IV, p. 339 sgg.
95
VI
Militarismo e imperialismo.
Dall’espansione in Oriente alla distruzione
di Cartagine.
La vittoria di Scipione, che nel 201 celebrava
uno splendido trionfo e assumeva il soprannome di
Africanus, indirizzò su un nuovo binario gli sviluppi
della politica di Roma. Suggellata dal buon esito di
tanti sforzi comuni la concordia fra i cittadini,
ribaditi i legami con i foederati italici, strappata ai
Cartaginesi la supremazia nel Mediterraneo
occidentale, la repubblica cominciò a subire sempre
più l’influsso delle personalità che l’avevano
innalzata a tanta potenza, e sotto la loro spinta
imboccò la via dell’espansionismo militaristico.
Quelli che ora si aprivano alle brame dei nuovi
conquistatori erano i paesi del mondo ellenistico; da
tempo questi avevano conosciuto il travaglio di
continue lotte di predominio, ma proprio alla fine
del III secolo una nuova crisi minacciò più
gravemente il loro equilibrio già tanto instabile. Si
trattava in primo luogo degli Stati che si erano
costituiti in seguito allo smembramento dell’impero
di Alessandro Magno: la Siria, comprendente
all’incirca il territorio dell’antico impero persiano)
sotto i Seleucidi, l’Egitto sotto i Lagidi, la
Macedonia sotto gli Antigonidi, il regno di Pergamo
sotto gli Attalidi, mentre nella Grecia i due maggiori
organismi politici erano la lega etolica e la lega
96
achea, formate da libere città unitesi per preservare
la loro indipendenza minacciata dalle mire
egemoniche della Macedonia.
1. Il conflitto con la Macedonia e il protettorato sulla
Grecia. - Nel 204 era salito sul trono d’Egitto il
minorenne Tolemeo V Epifane, e gl’intrighi fra i
dignitari che se ne contendevano la tutela provocarono una serie di lotte e quindi un declino del regno.
Di tale circostanza vollero approfittare Antioco III
di Siria e Filippo V di Macedonia, che si
accordarono per impadronirsi il primo della
Celesiria (terra di confine a lungo contesa fra Lagidi
e Seleucidi), l’altro dei possedimenti egiziani
sull’Ellesponto e sulle coste della Tracia.
Dall’energica azione intrapresa da Filippo si
sentirono minacciati sia il re Attalo I di Pergamo sia
la repubblica marinara di Rodi, che sollecitarono
l’intervento di Roma. Ma più gravemente la
situazione si complicò quando, nella primavera del
200, Filippo fece invadere l’Attica dai suoi alleati
Acarnani. Poiché i Romani nella pace di Fenice
stipulata qualche anno prima con la Macedonia
avevano
dichiaratamente
assunto
la
difesa
dell’indipendenza di varie città e popoli della Grecia,
fra cui anche Atene, ecco che il desiderio dei
militaristi di portar le armi in Oriente si trovò
legittimato dall’obbligo di proteggere gli Ateniesi. A
Filippo venne inviato un ultimatum le cui condizioni
erano praticamente inaccettabili, e fu la guerra.
Un esercito romano sbarcò in Epiro
nell’autunno dello stesso anno 200 e, dopo aver
svernato in Apollonia, fece un’ardita puntata verso
la Macedonia attraverso i passi orientali dell’Illiria,
97
mentre Filippo non osava impegnarsi a contrastarne
l’avanzata. L’anno dopo fu prescelta per l’invasione
una via più meridionale, ma Filippo, presidiando
saldamente le gole del fiume Aòo presso Antigonia
(od. Tepeleni, in Albania), riuscì a bloccare i
movimenti dell’avversario. Così stavano le cose
quando, nell’estate del 198, assunse il comando delle
operazioni il console T. Quinzio Flaminino; si
trattava di un giovane esponente delle nuove leve
politiche, caratteristico rappresentante di quei circoli
che, sulla scia dell’Africano, propugnavano
l’affermazione della potenza romana sui popoli
dell’Oriente ellenistico pur non mancando di
apprezzarne l’alto grado di civiltà.
Con un’abile manovra aggirante, Flaminino
riuscì a far sloggiare Filippo dalle sue posizioni
sull’Aòo e lo inseguì fino in Tessaglia, mentre la
flotta romana che operava nell’Egeo riportava
numerosi successi strappando ai Macedoni le
piazzeforti dell’Eubea. Attirata dagli atteggiamenti
filellenici del console, si dichiarò a favore dei
Romani anche la lega achea, e a Filippo, dopo un
fallito tentativo di accordo, non rimase che tentare
la sorte della battaglia campale. Questa ebbe luogo
nel giugno del 197 in Tessaglia, sulle alture di
Cinoscefale, e per Filippo si risolse in
un’irreparabile disfatta: la falange macedone, onusta
di gloria e invitta per oltre un secolo, dovette
piegare di fronte alla superiorità della più agile
tattica manipolare romana.
Alla vittoria di Cinoscefale avevano collaborato
anche gli Etoli, i più accaniti nemici di Filippo nella
Grecia, i quali avrebbero voluto addirittura
l’abbattimento della monarchia macedone, ma i loro
98
desideri non furono esauditi. Il governo di Roma
non stimava, in quel momento, di impegnarsi troppo
nel complesso mondo politico balcanico, e si limitò
a ridimensionare la potenza della Macedonia
escludendola da ogni ingerenza nella Grecia. E così,
durante la celebrazione dei giuochi istmici nell’estate
del 196, Flaminino fece solennemente annunziare,
fra le più entusiastiche acclamazioni, che Roma
concedeva e garantiva la libertà a tutti i Greci
d’Europa e d’Asia. Naturalmente, anche se non
sarebbe giusto ritenere senz’altro ipocrita un simile
atteggiamento, è un fatto che Roma, nell’atto stesso
di dichiarare liberi i Greci, li sottometteva alla
propria tutela, e questa non tardò molto a
trasformarsi in aperta ingerenza e in predominio.
2. Roma e l’impero siriaco. - Mentre Filippo era
stato duramente contrastato nelle sue mire
egemoniche, Antioco III di Siria aveva potuto
impadronirsi a suo agio di tutta la costa occidentale
dell’Asia Minore e, procedendo oltre l’Ellesponto,
della costa tracica, assoggettando fra l’altro
numerose colonie greche.
Anche nei suoi confronti i Romani non indugiarono a dichiararsi difensori dell’indipendenza dei
Greci, e gli fecero ripetute intimazioni che rimasero
inascoltate. A irrigidirlo sulle sue posizioni contribuì
anche l’incitamento di Annibale, da poco giunto alla
sua corte profugo da Cartagine per evitare di essere
consegnato a Roma, che ne aveva fatto richiesta nel
sospetto che stesse preparando la riscossa. D’altro
canto, il timore suscitato dalla presenza del
Cartaginese presso Antioco contribuì forse non
poco a spingere i Romani ad un’azione risoluta, e
99
quando il re, accogliendo le sollecitazioni degli
Etoli, sbarcò con un esercito in Tessaglia, essi si
prepararono alla lotta con grande impegno.
Il re di Siria, evidentemente, non si proponeva
di abbattere la potenza di Roma, ma solo di costringerla a riconoscere la sua preponderanza
nell’Egeo, e questo spiega perché egli scendesse in
campo con forze piuttosto modeste di cui i Romani
ebbero facilmente ragione, grazie anche all’appoggio
di Filippo di Macedonia e di Eumene di Pergamo.
Nella primavera del 191, mentre l’esercito del
console Manio Acilio Glabrione gli si faceva
incontro, Antioco cercò di sbarrargli il passo alle
Termopile, ma, come già nella più famosa battaglia
del 480, la posizione venne aggirata e l’esercito
siriaco, attaccato alle spalle, fu sterminato. Il re
riuscì a salvarsi con la fuga e, con poche centinaia di
superstiti, s’imbarcò alla volta di Efeso. Qualche
mese dopo gli Etoli s’indussero a chiedere un
armistizio mentre una vittoria navale presso l’isola
di Chio spianava la via all’invasione dell’Asia.
La spedizione fu preparata per l’anno dopo e se
ne voleva affidare il comando a Scipione l’Africano,
ma questi non poteva essere eletto console perché
non erano ancora trascorsi dieci anni dal precedente
consolato (194); allora fu fatto console suo fratello,
il meno brillante Lucio Cornelio Scipione, in modo
che l’Africano, come suo consigliere, avesse
ugualmente la possibilità di dirigere le operazioni.
Rinnovato l’armistizio con gli Etoli, l’esercito
attraversò la Macedonia e la Tracia; quindi, dopo
un’altra grande vittoria della flotta, traghettò
indisturbato l’Ellesponto e scese verso la Lidia a
incontrare il nemico. Era il dicembre del 190 e
100
Antioco, fallito un tentativo di accordo per le
condizioni troppo gravose imposte da Scipione, si
decise ad offrire battaglia non lungi dalla città di
Magnesia, presso il monte Sipilo.
Assente l’Africano, colpito da una malattia, la
responsabilità del comando gravò sulle spalle del
valente Gneo Domizio Enobarbo, un altro
consigliere di Lucio Scipione. Con un accorto
schieramento delle forze, il duce romano compensò
il notevole svantaggio numerico; poi la bravura dei
gregari fece il resto, e per l’esercito siriaco fu la
strage. Bastò questa sola vittoria a prostrare l’impero
seleucidico; Antioco ottenne la pace a durissimi
patti, tra cui il pagamento di un’ingente indennità
(15.000 talenti euboici rispetto ai 10.000 imposti a
Cartagine dopo tutte le devastazioni inflitte all’Italia
da Annibale!) e la rinuncia a tutti i possedimenti in
Asia Minore a occidente del monte Tauro. Questi
territori, che il senato preferì non ridurre a
provincia per evitare i complessi problemi di una
nuova dominazione diretta, furono poi ceduti agli
alleati di Pergamo e di Rodi. Dei consoli del
successivo anno 189, l’uno, Gneo Manlio Vulsone,
riportò grandi vittorie sui Gàlati (così i Greci
chiamavano le tribù di Galli che s’erano stanziate da
circa un secolo in Asia Minore, nella regione detta
appunto Galazia), l’altro, Marco Fulvio Nobiliore,
costrinse alla pace gli Etoli.
In tal modo con pochi anni di guerra, e grazie
anche all’insipienza di Antioco, che con una
strategia temporeggiatrice - quale gli consentiva
l’immensa estensione del suo impero - avrebbe
potuto mettere in serie difficoltà l’esercito invasore,
101
i Romani riuscirono ad affermare la loro supremazia
anche nel Mediterraneo orientale.
3. La dissoluzione della monarchia macedone e il
predominio sulla Grecia. - Tale supremazia fu
consolidata qualche decennio dopo nel corso di
nuovi interventi che presero per lo più la forma di
un fitto lavorìo diplomatico punteggiato qua e là, nei
momenti cruciali, da decise azioni di forza.
L’interesse del governo di Roma in quei paesi era, in
generale, quello di mantenere lo stato di equilibrio
che vi aveva creato, e pertanto si intromise con
energiche ambascerie sia nel conflitto scoppiato nel
186 fra Eumene di Pergamo e il confinante Prusia di
Bitinia, sia nella guerra che qualche anno dopo
divampò fra lo stesso Eumene e Ariarate IV di
Cappadocia, da un lato, e Farnace, re del Ponto,
dall’altro in altre occasioni fu necessario far ricorso
alle armi - come nel caso della Macedonia ove il re
Perseo, figlio e successore di Filippo V, andava
svolgendo un’attiva politica di riscossa nazionale cercando nello stesso tempo di scuotere il prestigio
romano nel mondo greco-orientale. Per effetto di
una abile preparazione diplomatica che portò
all’isolamento della Macedonia, Perseo fu costretto a
far affidamento sulle sole sue forze; e se la guerra,
dichiarata nel 171, si trascinò fino al 168, ciò dipese
non solo dalla condotta esitante del re, timoroso
delle sorti di uno scontro decisivo e perciò sempre
in cerca di un accordo di compromesso, ma anche
dalla mediocrità dei consoli romani che si
alternarono al comando prima dell’arrivo di Lucio
Emilio Paolo. Questi era un duce di consumata
esperienza, appartenente anche egli al circolo degli
102
Scipioni, e ben presto riuscì ad imprimere alle
operazioni un corso più rapido e favorevole. Infatti,
dopo aver costretto Perseo a sloggiare dalle sue
posizioni difensive, lo impegnò in campo aperto
presso la città di Pidna e gl’inflisse un’irrimediabile
sconfitta (giugno del 168).
La vittoria di Pidna segnò l’inizio di una svolta
decisiva nelle relazioni tra Roma e i paesi
dell’Oriente ellenistico, relazioni che furono sempre
più improntate alla massima intransigenza nella
tutela del prestigio e degli interessi romani. Infatti
non solo la Macedonia dovette subire l’abolizione
della monarchia, che ne cementava l’unità statale, e
lo smembramento del territorio in quattro
repubbliche, ma anche altri stati furono duramente
colpiti, come ad esempio la repubblica di Rodi, cui
si imputava di aver tenuto un atteggiamento troppo
tiepido nei confronti di Roma, e che fu punita con la
creazione del porto franco di Delo.
Un trattamento pressoché identico fu riservato
alla Grecia, e cioè alla lega achea e alla lega etolica
che vi costituivano i più importanti organismi
politici. In particolare, la lega achea già da tempo
aveva dovuto tollerare che Roma s’intromettesse a
dirimere, di solito a suo sfavore, le controversie che
la opponevano alle città di Sparta e Messene. Dopo
il trionfo di Pidna, i Romani pretesero la punizione
di tutti coloro che in seno alla lega si erano
dichiarati contrari alla loro politica, e la conseguenza
fu che circa un migliaio di personalità achee vennero
deportate in Italia in attesa di giudizio. Uno di
questi
deportati
fu
Polibio
che,
accolto
amichevolmente nel circolo degli Scipioni, ebbe agio
di fare in Roma quella personale e diretta
103
conoscenza di uomini e cose che gli servì per
delineare nella sua opera i presupposti e gli sviluppi
dell’espansione romana nel bacino del Mediterraneo.
4. L’assoggettamento della Macedonia e della Grecia.
- L’assetto dato alle cose di Macedonia e di Grecia
era quanto mai precario. Ancora una volta il
governo romano aveva cercato d’imporre la sua
dominazione in maniera indiretta, cioè di mantenere
le sue posizioni di forza senza impegnarsi nella
risoluzione dei problemi che sarebbero sorti dal
moltiplicarsi dei domini di tipo provinciale, e
nondimeno una tale situazione si protrasse per circa
un ventennio. Infatti fu solo nel 149 che la
Macedonia, sobillata dalle mene di un tale Andrisco,
un avventuriero che si spacciava per figlio del re
Perseo e accampava pretese al trono, venne percorsa
dall’incendio
di
una
generale
sollevazione
antiromana. La guerra fu liquidata con l’invio di due
legioni agli ordini del pretore Quinto Cecilio Metello
(detto poi Macedonico) e con la definitiva riduzione
della Macedonia a provincia (148).
Qualche anno dopo una sorte non troppo diversa toccava alla Grecia. Una nuova intromissione
di Roma negl’interminabili dissidi tra Sparta e la lega
achea provocò in quest’ultima uno scoppio di
furioso bellicismo, favorito anche dall’illusione che i
Romani, impegnati nell’estremo duello con
Cartagine, non sarebbero intervenuti con la consueta
energia. Ma Cecilio Metello, sceso immediatamente
con le sue forze dalla Macedonia, inflisse alla
coalizione avversaria una prima sconfitta che fu,
poco dopo, ribadita dalla vittoria riportata nel 146 a
Leucopetra (presso Corinto) dal console Lucio
104
Mummio, sopraggiunto con un altro esercito
dall’Italia. Saccheggiata e distrutta Corinto, ordinato
lo scioglimento delle leghe che avevano partecipato
alla guerra antiromana, anche la Grecia nel 145
venne assoggettata al diretto dominio di Roma e
collegata con la provincia di Macedonia, salvo i
territori di alcuni popoli e città alleate, come Sparta
e Atene, che rimasero liberi.
Si concludeva così un lunghissimo ciclo
politico che aveva avuto il suo massimo splendore
nella intrepida difesa dell’indipendenza nazionale
contro gli invasori persiani e poi aveva preso a
declinare irrimediabilmente a causa delle continue
discordie. E fu fortuna che la Grecia trovasse i suoi
conquistatori pronti a raccoglierne il retaggio di
civiltà.
5. La penetrazione nell’Italia settentrionale e nella
Spagna. - Mentre in questo modo, senza troppi
sforzi, Roma riusciva ad assicurarsi il controllo del
mondo greco-orientale, assai più duramente dovette
impegnarsi per eliminare le resistenze che ancora si
opponevano al suo dominio nei paesi del
Mediterraneo occidentale. Intanto si dovette
incominciare con il recuperare nella stessa Italia
settentrionale le posizioni in gran parte perdute al
tempo dell’invasione annibalica: così, nella Gallia
Cisalpina, furono battuti nel 197 gli Insubri e i
Cenomani che qualche anno prima avevano messo a
ferro e fuoco la colonia di Piacenza, poi, nel 191, fu
la volta dei Galli Boi, nel cui territorio furono
fondate nel 189 la colonia latina di Bononia
(Bologna), e nel 183 le colonie romane di Parma e
Mutina (Modena). Più a oriente, oltre i confini degli
105
alleati Veneti, come baluardo contro le incursioni
delle tribù illiriche fu fondata nel 181 la colonia
latina di Aquileia, cui tenne dietro l’assoggettamento
dell’Istria (con una campagna di due anni che fu
conclusa nel 177 dal console Gaio Claudio Pulcro) e
della Dalmazia (155). A occidente si procedette alla
riconquista della Liguria debellando i Liguri Ingauni
(stanziati presso Genova) e soprattutto i Liguri
Apuani (tra Pisa e Lucca), che dopo la disfatta
furono in numero di circa 40.000 trapiantati nel
Sannio (181). L’arrivo di numerosi coloni e l’influsso
da essi esercitato sulle popolazioni locali diedero
l’avvio a un rapido processo di romanizzazione
dell’Italia settentrionale, favorito dall’apertura di
grandi strade come la via Emilia, che proseguendo la
via Flaminia (Roma-Rimini) allacciava Rimini e
Bologna a Piacenza, la via Cassia, che portava da
Roma a Firenze e Lucca per sboccare poi nella via
Aurelia (Roma-Pisa-Genova), e la via Postumia che
congiungeva Genova ad Aquileia passando per
Piacenza e Verona.
Assai più aspre furono le lotte per completare
l’assoggettamento della Spagna cominciato fin
dall’inizio della seconda guerra punica. Nel 197
erano state ufficialmente costituite le due province
di Hispania citerior (a nord) e di Hispania ulterior (a
sud), ma la soggezione ai Romani era un fatto
tutt’altro che pacifico per le bellicose tribù
dell’interno, e si dovette imporla a prezzo di guerre
interminabili e sanguinosissime, che praticamente si
conclusero solo al tempo di Augusto. Intanto nello
stesso 197 si verificò un’insurrezione generale,
capeggiata dai Turdetani, che fu domata
dall’intervento di un grosso esercito agli ordini di
106
Catone, il futuro censorio; poi si dovettero via via
affrontare le resistenze di altre popolazioni,
soprattutto dei Lusitani e dei Celtiberi, contro i
quali si distinse per il suo comportamento, insieme
fermo e generoso, il console Tiberio Sempronio
Gracco, padre dei due famosi tribuni della plebe. I
suoi successori tornarono invece ai metodi delle
repressioni violente e delle devastazioni, che
acuirono negl’indigeni la volontà di resistenza e
portarono, fra l’altro, alla lunga ed estenuante guerra
contro i Celtiberi (154-133); questa si concluse con
la espugnazione della città di Numanzia ad opera di
Scipione Emiliano, ma non mise fine a quelle
ricorrenti carneficine in cui periva il fior fiore delle
legioni romane. Valoroso animatore della resistenza
dal 147 al 139 (quando venne ucciso a tradimento)
era stato Viriato, un umile pastore che si era fatto
duce della sua gente nella lotta per l’indipendenza.
6. La terza guerra punica. - Lo stesso anno 146,
che aveva portato la distruzione di Corinto, vide
dall’altra parte del Mediterraneo la distruzione di
Cartagine. Nei cinquant’anni, circa, che intercorsero
tra la fine della II guerra punica e l’inizio della III, le
relazioni
romano-cartaginesi,
dopo
essersi
mantenute buone per un lungo periodo, avevano
cominciato a subire un rapido deterioramento. Una
clausola del trattato di pace del 201, vietando a
Cartagine di prendere le armi senza il permesso del
senato di Roma, l’aveva esposta senza difesa alle
continue usurpazioni territoriali di Massinissa, il re
della vicina Numidia. Le relative dispute, sottoposte
di volta in volta all’arbitrato romano, furono quasi
sempre risolte in favore di Massinissa finché nel
107
150, dopo un decennio di umiliazioni, si ebbe in
Cartagine un violento contraccolpo che sboccò nella
conquista del potere da parte del partito
democratico antiromano e nell’apertura delle ostilità
contro i Numidi, in spregio del divieto sancito nel
trattato. Non meno grave fu la reazione a questi
avvenimenti in Roma, ove il senato, accogliendo la
proposta che da qualche anno il vecchio Catone
andava ripetendo come un’idea fissa (delenda
Carthago), deliberò di distruggere la città rivale.
Perché una decisione così drastica e per di più
attuata con fredda determinazione quando i
Cartaginesi, non appena accortisi dei gravissimi
pericoli cui s’erano incautamente esposti, si
dichiararono ed erano realmente disposti a
qualunque riparazione? Si risponde, in genere, che la
decisione romana fu dettata soprattutto da ragioni
economiche: motivi di rivalità commerciali,
preoccupazione per la concorrenza dei prodotti
agricoli cartaginesi, cupidigia delle fertili terre
africane; ma nel mondo antico non vi fu uno Stato
che al pari di Roma si disinteressasse di proteggere
lo sviluppo dei suoi traffici commerciali. Piuttosto è
da ritenere che la deliberazione del senato fu ispirata
da considerazioni squisitamente politiche. Catone e i
suoi seguaci, in sostanza, vedevano in Cartagine un
pericolo crescente: nella floridezza economica che la
città aveva riacquistato essi individuavano le basi per
un’immancabile ripresa dell’antica potenza e, per
ragioni di sicurezza, si fecero convinti assertori della
necessità di una guerra preventiva.
Sbarcati in Africa con un poderoso esercito, i
due consoli del 149, dopo essersi fatti consegnare
dai Cartaginesi tutte le armi che avevano, di108
chiararono che un’altra riparazione essi dovevano
per espiare il malfatto: abbandonare la loro città e
fabbricarsene un’altra dove volessero, a non meno di
15 miglia dal mare, perché Cartagine doveva essere
rasa al suolo. Di fronte a questa incredibile
intimazione, i Cartaginesi seppero celare la loro
disperata volontà di resistenza, e col pretesto di
trattative guadagnarono tempo per approntarsi alla
estrema difesa.
Quando i consoli si accorsero di tali
preparativi, era troppo tardi per impadronirsi della
città senza colpo ferire, e dovettero rassegnarsi a
intraprendere le operazioni di assedio che tutto
faceva prevedere lunghe e difficili. E infatti le cose
presero un andamento più favorevole solo quando il
supremo comando fu affidato a Scipione Emiliano,
eletto console per il 147 con procedura d’eccezione
non avendo ancora raggiunta l’età minima prescritta
dalla legge. Nato nel 184 da Lucio Emilio Paolo (il
vincitore di Pidna), ed entrato nella famiglia degli
Scipioni per adozione da parte di un figlio del
grande Africano, egli non deluse le speranze dei suoi
fautori. Stretta in una morsa impenetrabile,
travagliata dalla fame e dalla pestilenza, Cartagine fu
espugnata casa per casa fino all’acropoli; quivi gli
ultimi difensori si arresero a patto di aver salva la
vita mentre la città veniva saccheggiata e poi
distrutta dalle fondamenta. Il centro amministrativo
della nuova provincia d’Africa, che veniva a
comprendere solo una parte dei domini cartaginesi,
fu stabilito nella città di Utica, e Scipione Emiliano,
dopo il trionfo, assunse anche egli il titolo di
Africanus.
109
7. Trionfo del conservatorismo. Catone e Scipione. Gli eventi che portarono la repubblica a primeggiare
fra i paesi del Mediterraneo influirono sul corso
della politica interna di Roma assai più di quanto
non ne fossero stati influenzati. Si è accennato più
di una volta alla ritrosia del senato ad ampliare la
sfera dei domini diretti mediante la costituzione di
nuove province. Per governare queste si rendeva
necessario accrescere il numero dei magistrati forniti
di imperium (dei pretori, cioè, dato che nessuno mai
pensò che i consoli potessero essere più di due), ma
a ciò contrastava lo spirito conservatore della
nobiltà al potere, che per oltre un secolo lasciò
invariato il numero di sei raggiunto dai pretori nel
197 quando furono create le due province di Spagna.
Intanto, per eliminare gl’inconvenienti derivanti dal
numero troppo esiguo dei magistrati superiori, si
fece ricorso il più possibile alla prorogatio imperii,
mediante la quale a un console o a un pretore,
terminato l’anno di carica, si conservava ancora per
uno o più anni l’imperium, che ora egli continuava ad
esercitare in qualità di promagistrato, cioè di
proconsole o di propretore.
Ma a parte questo, la tendenza a non ampliare i
domini provinciali corrispondeva in primo luogo al
desiderio di non moltiplicare i territori nei quali i
magistrati o i promagistrati, in veste di governatori,
avrebbero esercitato una somma pressoché illimitata
di poteri, civili e militari, lontani dal controllo del
senato, l’organo che sorvegliava e assicurava
l’attuazione delle direttive della classe di governo. In
generale, può dirsi che nel periodo delle grandi
conquiste l’atteggiamento della oligarchia nobiliare
patrizio-plebea
fu
tanto
più
gelosamente
110
conservatore quanto più difficile diventava
mantenere il predominio in un organismo politico
che, dalla mediocre misura di un piccolo staterello,
si era innalzato al rango di potenza mondiale, con
una mole di problemi assai più complessi e,
soprattutto, molto diversi da quelli di un tempo.
La medesima gelosia, poi, si manifestava non
solo nell’ostacolare l’ascesa degli homines novi, ma
anche nel vicendevole sorvegliarsi dei nobiles per
impedire che qualcuno di loro avesse a salire in
potenza tanto da prendere il sopravvento e rompere
l’equilibrio del sistema. A questo fine, verso il
principio del II secolo, un’apposita legge fissò
norme precise per lo sviluppo del cursus honorum,
cioè vennero stabiliti l’ordine progressivo delle
magistrature, l’età minima per accedervi, gl’intervalli
fra l’una e l’altra e, per la massima fra tutte, il
consolato, venne sancito che nessuno poteva
rivestirla un’altra volta se non a dieci anni di
distanza dalla precedente. Le deroghe a tali norme
furono pochissime; quando esse divennero più
frequenti, come i sei consolati di Mario dal 107 al
100, era segno che si appressava il tramonto del
regime oligarchico.
Quanto agli sviluppi della lotta politica, questa
continuò a svolgersi sui consueti binari della rivalità
fra le casate nobiliari più cospicue. Ma in assenza di
veri e propri partiti politici con programmi
prestabiliti, e poiché sussisteva un accordo
sostanziale fra i nobili nel mantenere le comuni
posizioni di privilegio, si trattava per lo più di
divergenze di metodi o di questioni personali
connesse con particolari situazioni di famiglia o di
preparazione individuale. Fa spicco, tuttavia, in tali
111
contrasti l’antitesi fra una tendenza più rigidamente
conservatrice, attaccata alle tradizioni e decisa ad
affrontare i nuovi compiti dello Stato ingrandito
senza nulla toccare degli istituti esistenti, e una
tendenza, sia pur moderatamente, innovatrice che,
consapevole dell’insufficienza dei vecchi schemi di
governo rispetto ai nuovi compiti da assolvere,
auspicava un più libero esplicarsi della vita politica
in forme meglio aderenti alla situazione mutata.
Esponente della prima tendenza fu Catone il
Censorio, della seconda Scipione Africano, il
vincitore di Annibale, che alla fine ebbe a
soccombere. Attaccato insieme col fratello Lucio
(l’Asiatico) in una serie di processi, direttamente
ispirati da Catone, sotto l’accusa di essersi
approfittato dell’enorme somma riscossa dal re
Antioco come anticipo dell’indennità di guerra
stabilita dopo la vittoria di Magnesia, l’Africano
riuscì in ultimo ad evitare una vera e propria
condanna, ma subì una irrimediabile perdita di
prestigio e si vide costretto ad allontanarsi da Roma
e a ritirarsi a vita privata. Poco dopo (184) moriva a
Literno.
8. Squilibrio economico e società in fermento. - Il
prevalere della tendenza più intransigente non
soltanto assicurò la conservazione degli antichi
istituti
politici,
suggellando
la
definitiva
trasformazione della aristocrazia in oligarchia, ma
ostacolò ogni benefica evoluzione nel campo
economico-sociale, ove assai opportuno sarebbe
stato intervenire in favore delle classi meno
abbienti, soprattutto per arrestare la rovina dei
cittadini piccoli proprietari.
112
Oltre a questi strati inferiori dei cives Romani,
aveva rivendicazioni da far valere tutta la numerosa
schiera dei foederati Latini e Italici. Costoro, come
avevano validamente collaborato ad affermare il
primato romano nella Penisola, e a preservarlo
resistendo alle lusinghe o alle minacce di Annibale,
così volenterosamente e a prezzo di molto sangue
avevano dato il loro apporto sui campi di battaglia
d’Oriente e d’Occidente per l’espansione del
dominio romano. I benefici delle grandi conquiste,
terre, bottino, tributi, erano però andati
esclusivamente a vantaggio dello Stato romano, il
quale inoltre cominciava a intromettersi con mano
sempre più pesante negli affari interni delle città
alleate. Da un simile stato di cose stava per
germogliare l’aspirazione dei foederati in genere a
diventare anch’essi cives Romani, aspirazione a lungo
soffocata dall’egoismo della città dominante finché
non esplose nell’aperta ribellione e nella guerra.
Altro lievito in fermento nel tessuto sociale
della repubblica era rappresentato dalla categoria dei
cavalieri, cioè dall’insieme di quei cittadini che, a
partire dal III sec., vennero distinti perché in
possesso di un determinato censo. Vi apparteneva
soprattutto la ricca borghesia degli imprenditori, dei
trafficanti, degli appaltatori, che in breve tempo,
operando specialmente nei vari paesi conquistati,
avevano avuto agio di accumulare enormi fortune
senza dover sostenere la concorrenza dei nobili,
rimasti tradizionalmente legati alla grande proprietà
terriera. Anche se i cavalieri non giunsero mai ad
una loro particolare visione dello Stato e dei suoi
ordinamenti, ma limitarono la loro azione politica
alla egoistica difesa dei propri interessi, tuttavia con
113
tale azione essi diedero spesso serie preoccupazioni
al governo nobiliare.
Riuscì, dunque, per vari decenni al trionfante
conservatorismo della nobiltà, che con le sue
splendide imprese di conquista si era posta come al
di sopra di ogni discussione, di mantenere intatti i
suoi privilegi rinviando la risoluzione dei vari
problemi, soprattutto di ordine economico e sociale,
cui si è accennato. Formalmente, alla base
dell’ordinamento statale continuò ad essere la
sovranità popolare, ma le assemblee in cui questa si
manifestava restarono ancor più di prima in balìa
della potente organizzazione delle grandi casate,
anche perché a radunarsi per dare il loro voto erano
per lo più i cives residenti in Roma, mentre di norma
risultava assente la gran massa di quelli sparsi nei
municipi e nelle colonie.
9. Cultura greca e humanitas romana. - La
reazione ultraconservatrice impersonata da Catone
giunse anche a combattere come pericoloso per
l’integrità dei costumi nazionali il diffondersi della
cultura greca, dei Graeculi come quello diceva con
aperto disprezzo. Ma qui non si trattava, in fondo,
che di un argomento polemico nel contrasto con
l’avversa fazione, accentrata nel circolo filellenico
degli Scipioni. Quello che di deteriore Catone
scorgeva nel costume pubblico e privato dei Greci,
corruzione, viltà, ambizione sfrenata, non poteva
essere sconosciuto alla più antica società romana:
solo che cominciava allora a manifestarsi in maggiori
proporzioni, ma non certo per colpa dei rapporti più
immediati col mondo greco-orientale.
114
Era vero, invece, che sotto l’influsso più
diretto dei modelli greci veniva costituendosi una
tradizione letteraria capace di dare frutti cospicui
non solo per un gusto particolare e per l’intensità
dell’espressione, ma talora anche per originalità,
come il teatro di Plauto e di Terenzio, o l’epopea di
Nevio e di Ennio, o l’efficace satira di Lucilio. E il
formarsi di una nuova lingua poetica apriva la strada
alla fioritura dell’età successiva, nella quale le lettere
romane si sarebbero degnamente affermate nella
letteratura del mondo civile per restare fonte di
ispirazione perenne alle generazioni a venire.
Inoltre, nelle opere di qualcuno degli scrittori
ricordati si sentono riecheggiare i nuovi ideali civili
e morali sviluppatisi nel circolo degli Scipioni per
l’innesto della cultura greca nella concezione romana
tradizionalmente informata alla preminenza degli
interessi della res publica su quelli dell’individuo. Lo
storico Polibio aveva trovato la giustificazione del
dominio universale di Roma nell’eccellenza delle sue
istituzioni, e quindi nella virtus collettiva della sua
classe dirigente; il filosofo Panezio, geniale
trapiantatore dello stoicismo in terra romana,
teorizzava per l’individuo stesso l’esigenza di
elevarsi alla dignità di persona umana mercé
l’assiduo sforzo di adeguare la sua azione ad un’etica
“convenienza con se stesso”. Sorgeva così in Roma
l’idea di una humanitas, intesa come coscienza della
condizione umana e capace d’ispirare sentimenti di
giustizia e di comprensione verso gli altri.
Questa nuova concezione non restò estranea ai
progressi della scienza giuridica, che nell’assiduo
sforzo di adeguare le norme di legge ai bisogni
sempre nuovi di uno Stato in vigorosa espansione, e
115
soprattutto di coordinare i rapporti tra individui
appartenenti a paesi di tradizioni e civiltà diverse,
avrebbe fatto Roma madre di diritto alle genti.
Sull’imperialismo, che avrebbe determinato la spinta
espansionistica al principio del II secolo, si è molto discusso e
ancora si discute: com’è naturale, trattandosi in fondo d i
un’etichetta che dovrebbe caratterizzare un’azione politica lunga e
complessa, della quale conosciamo assai meglio il risultato finale (la
conquista) che non il lento maturare delle situazioni che ne
promossero i successivi sviluppi; cfr. A. P IGANIOL , La conquête
romaine, cit., p. 203 sgg. Siamo poi, anche qui, condizionati dalla
“tendenza” delle nostre fonti, rappresentate soprattutto da Polibio
(framm. dei libri XVI e sgg.) e poi da Livio, libb. XXXI-XLV (con
il lib. XLV, l’ultimo conservato per intero, si arriva all’anno 167;
per il periodo successivo le periochae e i sunti degli epitomatori).
Come Livio, si rifanno a materiali polibiani anche Diodoro (framm.
dei libri dal XXVIII in poi), Appiano (oltre i già ricordati libro
Iberico e libro Libico, il libro Macedonico e Illirico e il libro Siriaco) e
Cassio Dione (framm. dei libri dal XVIII in poi, in massima
nell’epitome di Zonara). Inoltre le Vite plutarchee di Tito Quinzio
Flaminino, di Lucio Emilio Paolo, di Catone il Censorio, di
Filopemene.
Nella storia militare del mondo antico la battaglia d i
Cinoscefale, il primo scontro fra la legione romana e la falange
macedone-orientale, consacrò una volta per tutte la facile
superiorità dell’una rispetto all’altra. Un evento che lasciò attoniti i
contemporanei e spinse Polibio a soffermarvisi espressamente
(XVIII 32, 13) “perché molti dei Greci non soltanto al tempo in cui
i Macedoni furono sbaragliati considerarono il fatto come una cosa
incredibile, ma anche in futuro continueranno a chiedersi con
meraviglia perché e come la falange risulta inferiore allo
schieramento romano”. E l’inferiorità della falange, come già vide
lo stesso Polibio, stava nella sua rigidità, cioè nella sua scarsa
adattabilità a un terreno che non fosse sgombro e pianeggiante; cfr.
H. D ELBRÜCK , Geschichte der Kriegskunst im Rahmen der politischen
Geschichte, I, Berlin 1920, p. 424 sgg.
Polibio (XVIII 46, 5; sulle sue orme, più o meno
fedelmente, L IV ., XXXIII 32, 5; P LUT ., Flaminin. X 5; Appian., IX
4) ci ha trasmesso il testo del proclama di Tito Quinzio Flaminino
ai Greci: “Il senato dei Romani e il proconsole Tito Quinzio, vinti
in guerra il re Filippo e i Macedoni, lasciano liberi, senza
116
guarnigioni, non soggetti a tributi, con la possibilità di godere delle
leggi ereditate dai padri, Corinzi, Focesi, Locresi, Eubei, Achei
Ftioti, Magneti, Tessali, Perrebi”. Il testo è così riferito da L IV , l.c.:
senatus Romanus et T. Quinctius imperator Philippo rege Macedonibusque
devictis liberos, immunes, suis legibus esse iubet Corinthios, Phocenses
Locrensesque omnis et insulam Euboeam et Magnetas, Thessalos, Perrhaebos,
Achaeos Phtiotas. Assai numerose furono le attestazioni di omaggio
riservate dai Greci al duce romano “liberatore”, la nostr a
informazione in proposito si è arricchita recentemente di un
decreto scoperto ad Argo (cfr. G. D AUX , in “Bull. Corr. Hell.”
LXXXVIII, 1964, p. 569 sgg.) dal quale si ricava che in quella città,
dopo circa un secolo, si celebravano ancora le feste istituite
appunto in onore di Tito Quinzio Flaminino. E non è a dire che
questi durante le operazioni di guerra avesse trattato i Greci con
mano leggera; ce lo attesta, fra l’altro, un nuovo documento
epigrafico (cfr. M. M ITSOS , in “Rev. ét. gr.” LIX-LX, 1946-47, p.
l50 sgg.; F.G. M AIER , Griech. Mauerbauinschriften, I, Heidelberg 1959,
p. 132 sgg.) che consente di precisare la narrazione liviana sulla
conquista di Elatea nella Focide, avvenuta negli ultimi mesi del 198.
Livio (XXXII 24) racconta che Flaminino, dopo aver espugnato la
città, occupata da Filippo una ventina d’anni prima, dovette
affrontare le ultime resistenze opposte nella rocca dai soldati de i
presidio macedone e dagli Elateesi, e ne venne facilmente a capo:
missis in arcem qui vitam regiis, si inermes abire vellent, libertatem
Elatensibus pollicerentur, fideque in haec data, post dies paucos arcem recipt.
Dunque, Flaminino aveva promesso agli Elateesi la libertas, ma dal
nuovo documento apprendiamo che Elatea cessò di esistere come
polis, che gli Elateesi furono espulsi dalla città e costretti a
rifugiarsi a Stinfalo in Arcadia, donde solo una decina d’anni dopo
riuscirono a ritornare in patria.
Sulla politica “filellenica” del gruppo de gli Scipioni e sulla
opposizione capeggiata da Catone, v. F. D ELLA C ORTE , Catone
Censore. La vita e la fortuna, Torino 1949.
Circa l’ammontare delle indennità di guerra imposte ai
nemici vinti (che nell’età delle grandi conquiste rappresentarono
uno dei cespiti più cospicui della finanza statale) si consideri che
un talento euboico equivaleva a 80 libbre di argento (gr. 327 x 80),
e poiché in quell’epoca una libbra equivaleva a 84 denarii da gr.
3,90, il talento euboico era uguale a 6720 denarii. Pertanto la
somma imposta ad Antioco in conto riparazioni fu di 100 milioni e
800 mila denarii. Ora, secondo i calcoli più o meno approssimativi
del F RANK (An economic survey, cit., I, p. 126 sgg.), nei primi decenni
del II sec. a.C. le entrate dello Stato romano si aggirarono,
mediamente, sui 14 milioni e 200 mila denarii, il che significa che
l’indennità imposta ad Antioco rappresentava la entrata media
117
globale di oltre sette esercizi finanziarii. Su Antioco, in generale, v.
di recente H. H. S CHMITT , Untersuchungen zur Geschichte Antiochos’ des
Grossen und seiner Zeit, Köln - Graz 1964.
Sulla sempre crescente ingerenza romana nelle cose di
Oriente, cfr. G. C ARDINALI , Il regno di Pergamo, Roma 1906; G.
V ITUCCI , Il regno di Bitinia, Roma 1953; E. B ADIAN , Foreign Clientelae
(264-70 B. C. ), Oxford 1958.
Sul tramonto del regno dei Macedoni, v. P. M ELONI , Perseo e
la fine della monarchia macedone, Roma 1953; sulla rivolta di Andrisco,
G. C ARDINALI , Lo Pseudo-Filippo, in “Riv. Filol. Class.” XXXIX
(1911) p. 1 sgg.
Sulla fine dell’indipendenza greca, cfr. G. G IANNELLI , L a
repubblica romana, Milano 1955, p. 482 sgg. Per un’analisi della
situazione nella quale venne maturando in Roma la determinazione
di annientare Cartagine, cfr. L. Z AN CAN , Le cause della terza guerra
punica, Venezia 1936; W. H OFFMANN , Die römische Politik des 2.
Jahrhunderts und das Ende Karthagos, in “Historia” IX (1960) p. 309
sgg.
Per la conquista della provincia d’Asia, G. C ARDINALI , L a
morte di Attalo III e la rivolta di Aristonico, in “Studi di storia antica
offerti a Giulio Beloch” Roma 1910, p. 269 sgg. V. anche D.
M AGIE , Roman Rule in Asia Minor, I-II, Princeton 1950, p. 147 sgg.,
1033 sgg.
Sulle guerre per consolidare ed ampliare le conquiste nella
Spagna, C. W. H. S UT HERLAND , The Romans in Spain, London 1939;
R. T HOUVENOT , Essai sur la province romaine de Bétique, Paris 1940.
Le norme regolatrici della carriera dei pubblici honores
vennero promulgate con la lex Villia (proposta nel 180 dal tribuno
della plebe Lucio Villio), sulla quale c’informa in maniera sommaria
L IV ., XL 44, 1; cfr. M OMMSEN , Staatsrecht, I 3 , p. 529 sg.; G.
R ÖGLER , Die lex Villia Annalis, in “Klio” XL (1962) p. 76 sgg.
Sul costituirsi in seno alla società romana della classe de i
cavalieri, uno degli aspetti più caratteristici dell’evoluzione
economica nell’età delle grandi conquiste, cfr. A. S TEIN , Der
römische Ritterstand, München 1927; M. R OSTOVZEV , Storia economica e
sociale dell’impero romano, trad. it., Firenze 1933, p. 10 sgg.; A.
F ERRABINO , L’Italia romana, Milano 1934, p. 197 sgg.; C. N ICOLET ,
L’ordre équestre à l’époque républicaine, I, Paris 1966.
Una fra le più violente manifestazioni della politica d i
chiusura propugnata da Catone verso ogni forma d’influsso greco si
ebbe nel 186, quando scoppiò lo “scandalo” dei Baccanali, che
erano riunioni misteriche con rituale orgiastico di provenienza
greco-orientale. È notevole che tali riti fossero vietati dal governo
di Roma non soltanto ai cittadini romani, ma anche ai cittadini
118
delle città alleate, il che costituiva un’indebita e pesante ingerenza
nei loro affari. Della vicenda siamo informati, oltre che da L IV .,
XXXIX 8-19, anche da una delle più antiche iscrizioni latine, il
cosiddetto Senatusconsultum de Bachanalibus (C.I.L. I 2 501).
119
VII
La crisi del regime nobiliare.
Dai Gracchi alla guerra sociale.
1. Ripercussioni interne delle grandi conquiste. - Si è
fatto cenno, poco sopra, della pesante crisi di ordine
economico e sociale che nell’età delle grandi
conquiste aveva preso a travagliare in maniera
sempre più grave i ceti inferiori della cittadinanza
romana, in particolare la categoria dei contadini
piccoli proprietari. Per costoro il disastro era
cominciato al tempo dell’invasione annibalica,
quando erano stati costretti ad abbandonare le loro
terre alla furia devastatrice del nemico. Poi erano
sopravvenute le continue campagne di guerra,
anzitutto nella Spagna, a tenerli lontani dal lavoro
con la conseguenza del progressivo indebitamento e
dell’inesorabile rovina delle loro piccole aziende.
Costretti a cedere le loro terre, che passavano a
ingrossare i latifondi della ricca nobiltà, gli antichi
proprietari si venivano riducendo al rango di
braccianti, se non addirittura di disoccupati, per
l’impossibilità di sostenere la concorrenza della
mano d’opera servile. Infatti un’altra conseguenza
delle grandi conquiste era stato l’afflusso in Italia di
masse sempre più numerose di schiavi, all’origine
prigionieri di guerra, che vennero largamente adibiti
ai lavori agricoli. Si trattava di una mano d’opera
assai a buon mercato, dato che il padrone la
compensava solo con quel tanto che bastava a non
farla morire di fame, e in breve le campagne d’Italia
brulicarono di questi lavoratori stranieri, tenuti
120
all’ordine con inflessibile e spesso crudele disciplina,
mentre buona parte della precedente popolazione
agricola si inurbava trasformandosi in plebaglia
oziosa al servizio delle manovre elettorali dei
potenti.
Vi era poi un altro aspetto, e non meno
preoccupante, di questa crisi, e cioè le ripercussioni
di carattere militare. I cittadini piccoli proprietari,
che prestavano servizio nelle legioni, costituivano
ancora il nerbo delle forze armate della repubblica, e
il loro continuo scadimento al livello dei proletari
nullatenenti (che ancora erano esclusi, di fatto, dal
servizio militare), rappresentava un fenomeno di
non poca gravità.
Di questa complessa situazione di disagio
pareva non darsi troppo pensiero l’oligarchia
dominante, che tutta intesa alla tutela dei suoi
privilegi si limitò a una ripresa della colonizzazione
alla periferia della Penisola, cui l’esausta
popolazione romana rispose con scarso entusiasmo.
Ben altri provvedimenti, ormai, erano necessari per
sanare le piaghe del tessuto sociale, e ad essi pose
mano, con ardore di idealista, Tiberio Sempronio
Gracco.
2. Il tribunato di Tiberio Gracco. - Nato nel 162
dall’omonimo personaggio che era stato due volte
console, nel 177 e nel 163, e da Cornelia, figlia
dell’Africano Maggiore, imparentato con l’Africano
Minore, che aveva preso in moglie sua sorella
Sempronia, Tiberio apparteneva alla più schietta
nobilitas. Ma, forse anche per l’influsso di dottrine
filosofiche a sfondo egualitario apprese dai suoi
maestri greci, egli assunse rispetto alle questioni
121
politiche e sociali dei suo tempo un atteggiamento
assai diverso da quello della nobiltà in genere, e
soprattutto in contrasto con i suoi egoistici interessi.
Per restituire al lavoro dei campi le masse del
contadiname inurbato e riportarle all’antica dignità
di liberi agricoltori, egli si propose di mettere a
partito le opportunità che offrivano le immense
estensioni dell’agro pubblico, e quando fu eletto al
tribunato della plebe per l’anno 133 concretò i suoi
progetti in uno schema di plebiscito da sottoporre
all’approvazione dei comizi.
Esisteva da gran tempo un insieme di
provvedimenti che, di tanto in tanto, lo Stato aveva
emanato per regolare il possesso dell’ager publicus
contenendolo entro un certo limite. L’ultimo di
questi provvedimenti, vecchio ormai di un
cinquantennio, aveva stabilito che nessuno potesse
possederne più di 500 iugeri (cioè oltre 120 ettari; si
tenga ben presente la sostanziale differenza tra
proprietà e possesso, che è uso di una cosa senza
esserne proprietari; i possessori dell’agro pubblico lo
sfruttavano, ma senza averne il diritto di proprietà,
che restava allo Stato). Tiberio si riallacciò a questa
disposizione, come se volesse richiamarla in vigore
dato che il limite dei 500 iugeri era stato spesso
superato, ma la sostanza della sua proposta mirava
in fondo a qualcosa di ben diverso. Si doveva
procedere ad una ricognizione generale dell’agro
pubblico per eliminare ogni sorta di abusi e
restringere i possessi, che fossero risultati legittimi,
nei limiti dei 500 iugeri; inoltre, e qui era la novità,
le terre possedute abusivamente, o in eccedenza del
limite, dovevano essere riprese dallo Stato, che ne
avrebbe curato la distribuzione a cittadini
122
nullatenenti in lotti di 30 iugeri (poco più di 7
ettari).
Quelli che sfruttavano su larga scala l’ager
publicus, come s’è accennato, erano i ricchi
latifondisti della nobiltà, e si comprende come la
loro reazione alla proposta agraria di Tiberio fosse
violentissima. Animati dalla più fiera volontà di
resistenza, cui naturalmente si ispirò l’atteggiamento
ufficiale del senato in questo affare, essi pensarono
di osteggiare la riforma agraria con una manovra
ostruzionistica guadagnando alla loro causa uno dei
nove colleghi di Tiberio, il tribuno Marco Ottavio.
Costui si avvalse del suo diritto di veto per bloccare
la proposta di legge, e fu irremovibile ad ogni
preghiera o minaccia finché Tiberio, per uscire dal
grave imbarazzo, si risolse a proporre ai comizi la
sua destituzione. Era una proposta senza precedenti
nella storia ormai plurisecolare del tribunato della
plebe, ma, secondo Tiberio, essa trovava la sua
giustificazione nel fatto che Ottavio aveva agito a
danno e non a favore del popolo; i comizi,
comunque, l’approvarono spianando la strada alla
successiva approvazione della legge agraria.
Si trattava di un grande successo contro le
forze coalizzate della nobiltà, ma tutt’altro che
decisivo, come presto si vide. Approvata la legge e
affidatane l’esecuzione ad un collegio di triumviri
agris iudicandis adsignandis (Tiberio, il fratello Gaio e
l’ex console Appio Claudio, suocero di Tiberio),
costoro si trovarono dinanzi ad una mole enorme di
lavoro soprattutto per dirimere le numerose
questioni che nascevano sulla legittimità dei
possessi. Dopo pochi mesi, Tiberio si accorse che
l’anno del suo tribunato non sarebbe stato
123
sufficiente a condurre a termine l’opera iniziata, e
nello stesso tempo capì che la fine della sua
magistratura avrebbe insieme segnato l’abbandono
della sua riforma. S’indusse allora a imboccare quella
che gli parve l’unica via di uscita e nell’estate, con
un atto che era in contrasto con un’antica prassi
costituzionale, pose la candidatura per essere rieletto
al tribunato per il successivo anno 132.
L’opposizione del senato questa volta fu ancora
più violenta e decisa, anche perché la mossa di
Tiberio offriva il destro all’accusa di voler
rivoluzionare l’ordine costituito. Respinta come
illegale la sua candidatura e scoppiato il tumulto
nell’assemblea popolare, il senato chiese al console
Publio Mucio Scevola di intervenire con i suoi poteri
per imporre il rispetto della legalità e, poiché quello
esitava, Scipione Nasica si pose a capo di una
schiera di senatori più risoluti che con il loro seguito
di clienti e di servi fecero irruzione nell’area
capitolina provocando una zuffa disordinata. Ne
rimase travolto lo stesso Tiberio, che fu raggiunto
da una mazzata alla testa e steso esanime.
3. Dal programma conservatore di Tiberio a quello
rivoluzionario di Gaio Gracco. - Si concludeva così,
tragicamente, la breve parabola politica del non
ancora trentenne Tiberio, che la trionfante reazione
del governo nobiliare condannò come un dissennato
rivoluzionario mentre la sua opera, anche se
rivoluzionaria fu o poté apparire nei metodi, in
realtà era intesa proprio alla conservazione degli
istituti politici tradizionali, anzi alla restaurazione
dell’antico.
124
Tiberio, in fondo, non aveva mirato che a
riedificare le strutture dello Stato agricolo mercé la
ricostituzione della classe dei contadini-soldati che
avevano fatto la grandezza di Roma. A tal punto
aveva gli occhi fissi nel passato, da non accorgersi
che i tempi erano mutati anche per quello che
riguardava i problemi militari: ormai non si trattava
più di difendere il suolo della patria, compito che
l’antico esercito aveva assolto egregiamente, ma di
mantenere il dominio di terre lontane, compito che
rendeva sempre più urgente la creazione di un
esercito di mestiere. Dopo la sua morte, la reazione
del senato non si spinse fino a provocare
l’abolizione della legge agraria, e la commissione
triumvirale (nella quale l’ex pretore Publio Licinio
Crasso, suocero di Gaio Gracco, aveva preso il
posto di Tiberio) poté continuare i suoi lavori. Ma,
oltre alle precedenti, incontrò nuove difficoltà per le
proteste degli alleati italici: di questi i più ricchi,
possessori anche essi di porzioni dell’agro pubblico,
erano stati colpiti dalle limitazioni imposte dalla
legge, mentre i più bisognosi non potevano
partecipare alla distribuzione dei nuovi lotti,
riservata ai cittadini romani. Le loro lamentele
trovarono ascolto presso Scipione Emiliano, che
fece trasferire ai consoli i poteri giurisdizionali del
collegio triumvirale rendendone in tal modo ancor
più difficoltoso il compito. Poco tempo dopo
Scipione fu trovato morto nel suo letto (a. 129), e
sebbene si parlasse ufficialmente di morte naturale,
non è escluso che in realtà si trattasse di un
assassinio politico. Nello stesso tempo gli alleati si
agitavano con sempre maggiore insofferenza finché
nel 125 il console Marco Fulvio Flacco, uno dei più
125
autorevoli ed entusiasti aderenti al movimento
graccano, propose di estendere ad essi la
cittadinanza romana. Naturalmente il suo progetto,
che avrebbe leso troppi interessi, restò lettera morta,
e allora il malcontento dilagò irrefrenabile. Nella
colonia di Fregelle scoppiò la rivolta e si dovette
domarla con la forza delle armi: perché la punizione
fosse di monito agli altri alleati, la città fu rasa al
suolo.
In quest’atmosfera irrequieta, carica di timori e
di speranze, veniva eletto al tribunato della plebe
per il 123 Gaio Sempronio Gracco, di otto anni
minore del fratello Tiberio. Dotato anch’egli di
grande talento, e di un’eloquenza ancora più
efficace, che travolgeva le masse popolari, Gaio si
dedicò subito a continuare l’opera del fratello, o
meglio a integrarla con un programma di riforme
così vasto da farne qualcosa di totalmente diverso.
Se ne ricava l’impressione che egli mirasse a
trasformare l’assetto costituzionale, imperniandolo
su un suo potere personale derivante dall’investitura
del popolo sovrano attraverso successive rielezioni
al tribunato, rielezioni che una nuova norma aveva
reso non più illegittime come ai tempi di Tiberio.
4. L’azione politica di Gaio Gracco. - Prendendo a
spiegare un’attività veramente instancabile, Gaio
fece approvare una lex frumentaria, che disponeva la
periodica distribuzione ai cittadini più bisognosi di
una certa quantità di grano a prezzo di favore, una
lex militaris, per migliorare le condizioni del servizio,
una lex agraria, che richiamava le norme già dettate
da Tiberio reintegrando nella pienezza delle sue
attribuzioni la commissione triumvirale.
126
Ce n’era più che a sufficienza per assicurarsi la
rielezione per l’anno 122 e, forte del consenso
popolare, Gaio continuò per la sua strada
preoccupandosi ora sia di procacciare all’erario il
denaro necessario all’applicazione delle leggi già
approvate, sia di assicurarsi l’appoggio dei cavalieri
nella lotta che si profilava inevitabile contro
l’opposizione del senato. Questo duplice intento egli
conseguì mediante la lex de provincia Asia. Una decina
di anni prima, nel 133, era morto l’ultimo re di
Pergamo, Attalo III, lasciando in eredità al popolo
romano il suo regno, che era entrato a far parte dei
domini provinciali col nome di provincia d’Asia.
Con la sua legge Gaio stabilì che essa fosse
assoggettata al pagamento di una serie di imposte e
che l’appalto della loro riscossione fosse concesso ai
grossi finanzieri dell’ordine equestre.
I cavalieri furono inoltre blanditi con la
approvazione di una lex iudiciaria che ne accresceva
grandemente l’importanza sul piano politico. I
giudici incaricati di emanare le sentenze nei processi
a carico di governatori di provincia accusati di
concussione (estorsione di denaro a danno dei
provinciali)
erano
stati
scelti
fino
allora
esclusivamente nell’ambito dell’ordine senatorio; la
legge di Gaio stabilì invece che tali giudici dovevano
essere non senatori, ma cavalieri. Giustificazione del
provvedimento era il frequente verificarsi di
assoluzioni scandalose di governatori provinciali
(che erano anch’essi senatori) da parte dei giudicisenatori; ma le cose non migliorarono perché i
giudici-cavalieri si valsero del loro potere per
paralizzare con la minaccia di un processo i
127
governatori che volessero impedire gli abusi dei
cavalieri appaltatori d’imposte.
All’inizio del 122, al culmine della popolarità,
Gaio si decise ad avanzare un’altra proposta, che
avrebbe rappresentato il coronamento della sua
opera riformatrice mettendola al sicuro da ogni
pericolo. Si trattava di estendere il diritto di
cittadinanza romana agli alleati latini e il “diritto
latino” agli alleati italici: un provvedimento che, se
da un lato dava l’agognata ricompensa a chi con
tanti sacrifici aveva collaborato alla grandezza di
Roma, dall’altro avrebbe permesso a Gaio di
allargare a tutta l’Italia la cerchia degli entusiasti
fautori della sua politica.
Ma su questo punto il suo buon fiuto l’aveva
tradito. La concessione della cittadinanza a grandi
masse di stranieri non poteva non suscitare
l’opposizione dei cives Romani, in generale
ugualmente gelosi dell’antico privilegio, dal più
potente al più umile. Lo si era constatato appena
pochi anni prima col fallimento del progetto di
Fulvio Flacco, e il senato colse ora il destro per dare
inizio al contrattacco; indusse il tribuno Livio Druso
a intervenire col suo veto e la proposta di Gaio
rimase bloccata. Poco dopo, essendosi Gaio recato
in Africa per presiedere alla fondazione, nel
territorio di Cartagine, della colonia Iunonia, che egli
stesso aveva voluto far sorgere per aprire un altro
sfogo al proletariato di Roma, il senato sviluppò la
sua manovra facendo avanzare da Livio Druso
alcune proposte ultrademagogiche che ebbero
l’effetto di scalzare ancor più la sua declinante
popolarità. E quando pochi mesi dopo rientrò
dall’Africa, Gaio dové constatare che il suo prestigio
128
era irrimediabilmente scosso, al punto di non
riuscire a farsi eleggere tribuno per l’anno appresso.
Era il trionfo dei suoi avversari, che ben presto
posero mano a smantellarne l’opera. Adducendo che
la fondazione della colonia a Cartagine era avvenuta
sotto sfavorevoli “auspìci”, essi promossero
l’abrogazione della legge che l’aveva autorizzata, e
nel giorno dell’assemblea popolare, com’era
facilmente prevedibile, si verificarono scontri
sanguinosi fra i graccani e i loro oppositori. Il
senato non aspettava altro per scatenare la sua
violenta reazione e, decretato che lo Stato era in
pericolo, invocò i necessari provvedimenti. Il
console Lucio Opimio, che era accanitamente
avverso al programma graccano, non indugiò a dare
il via alla repressione. Gaio, che con i più fidi
partigiani si era ritirato sull’Aventino al termine di
inutili trattative, invano cercò scampo nella fuga e
preferì farsi uccidere da un servo.
5. Reazione nobiliare e sopravvivenza delle istanze
graccane. - L’eliminazione di Gaio Gracco assicurò
ancora per molti decenni all’oligarchia senatoria il
predominio nel governo della repubblica, ma
qualche cosa era ormai profondamente mutato, se
non nelle forme, nella sostanza del sistema politico
tradizionale.
Tranne
particolari
di
minore
importanza, il grosso dell’attività riformatrice del
tribuno era destinato a sopravvivere alla sua morte.
La potenza non più esclusivamente economica, ma
anche politica, raggiunta dai cavalieri attraverso la
legge
giudiziaria,
e
soprattutto
la
nuova
consapevolezza del proletariato cittadino di poter
sostenere al potere col suo voto chi gli avesse
129
procurato più larghi benefici, erano elementi tali da
compromettere la solidità delle basi su cui da secoli
poggiava la repubblica nobiliare. Anche se non si
addivenne alla costituzione di un vero e proprio
partito con un programma di rivendicazioni sociali
(poiché questo, propriamente, non furono i
populares), esisteva ormai una forza in grado di
muoversi a sostegno delle istanze democratiche solo
che trovasse qualcuno atto a suscitarla e
organizzarla. A chi fosse capace di tanto, e sia pure
per ragioni contingenti di lotta politica o di
opportunismo personale, era aperta la via per
scardinare il vecchio regime. Senza dire, poi, del
pericolo rappresentato per le forze conservatrici
dall’aspirazione sempre più irrefrenabile degli alleati
latini e italici al conferimento della cittadinanza
romana; una aspirazione certamente giusta, ma che
una volta realizzata avrebbe introdotto nuovi
elementi di squilibrio nelle strutture dello Stato.
Ma questi sviluppi erano appena all’orizzonte, e
l’oligarchia nobiliare, come poté dedicarsi più o
meno indisturbata alla restaurazione della sua
autorità
all’interno,
così
poté
provvedere
all’allargamento e al consolidamento delle conquiste
esterne, specialmente nel settore occidentale.
Mentre nella Spagna si trascinava la lotta
incessante e sanguinosa per piegare i Lusitani e i
Celtiberi, nel 154 si era dovuto intervenire anche
nella Gallia meridionale per difendere l’alleata
Marsiglia dalle incursioni degli Arverni. Circa
trent’anni dopo le incursioni si rinnovarono, e
furono necessarie due campagne di guerra (a. 122 e
121) per debellare la resistenza degli Arverni e degli
alleati Allobrogi. Per stabilire la continuità
130
territoriale fra l’Italia settentrionale e la Spagna, la
regione venne ordinata in una nuova provincia che
fu detta Gallia Narbonensis (dal nome della colonia di
Narbo, oggi Narbonne, fondata nel 118),
corrispondente a un dipresso all’odierna Provenza,
che ancora conserva nel nome il ricordo del suo
ingresso come provincia nel mondo romano.
6. Giugurta e l’ascesa di Gaio Mario. - Di molto
maggior rilievo, anche per le complicazioni di
politica interna, furono le operazioni che si svolsero
in Africa. Il regno di Numidia, che si estendeva per
largo tratto dalla Mauretania alla Cirenaica
racchiudendo
il
territorio
comparativamente
modesto della provincia d’Africa, era travagliato da
una grave crisi. Il re Micipsa, figlio e successore di
Massinissa, alla sua morte (a. 118) aveva lasciato in
eredità i propri domini ai due figli Aderbale e
Iempsale e al nipote Giugurta, da lui benvoluto e
adottato. Giugurta era tanto avido di potenza quanto
privo di scrupoli, ed essendo venuto in discordia coi
cugini per la ripartizione del regno non esitò a far
assassinare Iempsale e a impadronirsi poi con le
armi anche della parte di Aderbale. Questi si affrettò
a Roma per sollecitare l’intervento dei senato, che
provvide a dirimere la lite e a delimitare i domini dei
due contendenti.
Ma qualche anno dopo Giugurta rinnovò
l’aggressione e, nonostante gli ammonimenti romani,
la portò a termine con l’espugnazione di Cirta,
capitale del regno di Aderbale. Nella strage perirono
anche alcuni membri della fiorente colonia di
mercanti italici che operavano nella città, e questo
spinse in Roma l’ordine equestre a reclamare la
131
guerra contro Giugurta, guerra che il senato avrebbe
volentieri evitato, essendo alieno dal trasformare in
dominio provinciale l’assai più comodo protettorato
sulla Numidia. Ma non si poteva lasciare invendicata
l’offesa al prestigio romano, e quando la guerra fu
dichiarata (a. 111) il senato sperò di mantenerla nei
limiti di una spedizione punitiva. La campagna,
pertanto, fu intrapresa con una certa fiacchezza,
intramezzata da trattative nelle quali sempre più
arrogante si fece il comportamento di Giugurta, che
poi arrivò anche ad infliggere una umiliante
sconfitta alle forze del legato Aulo Postumio Albino
costringendole alla capitolazione (a. 110).
A questo punto, sotto la crescente pressione
dei cavalieri appoggiati dai populares, fu deciso di
dare più vigoroso impulso alle operazioni, e il
comando ne fu affidato al console (del 109) Quinto
Cecilio Metello, appartenente a quell’esigua
minoranza di senatori che non erano contrari alla
guerra in Numidia. Metello si preparò con impegno,
circondandosi anche di valenti collaboratori tra cui
Gaio Mario, e nella primavera del 108 riportò una
bella vittoria sul fiume Muthul (d’incerta
identificazione). Non volle, peraltro, o non seppe,
addentrarsi all’inseguimento del nemico nel cuore
del suo territorio per cogliere un successo definitivo,
e allora il favore dei cavalieri e dei populares si spostò
su Mario nella speranza che fosse lui l’uomo adatto
a chiudere la partita con Giugurta.
Nato ad Arpino da mediocre famiglia, Mario
aveva raggiunto la pretura nei 115 all’età di 42 anni:
una buona carriera politica per un homo novus, anche
se aveva goduto l’appoggio della potente casata dei
Cecili Metelli. Ora non si lasciò sfuggire l’occasione
132
favorevole, che pure lo contrapponeva al suo
comandante e protettore, e sebbene da questo in
vario modo osteggiato riuscì a tornare a Roma e a
porre la sua candidatura al consolato. Eletto console
per il 107 e incaricato espressamente, con apposita
legge, del comando in Africa, attese alacremente ai
preparativi preoccupandosi soprattutto del buon
esito delle operazioni di arruolamento. Infatti
nell’organizzazione militare di Roma repubblicana,
in mancanza di veri e propri organici in servizio
permanente, quando gli sviluppi della politica
sboccavano nella guerra colui al quale veniva
affidato il comando delle operazioni doveva in
primo luogo preoccuparsi di allestire l’esercito. E
questo o creandolo ex novo, o potenziandolo nel caso
avesse assunto il comando di un esercito già
costituito.
Ora, già dal tempo delle interminabili
campagne di Spagna le leve si svolgevano con una
certa difficoltà perché buona parte dei cittadini
tenuti al servizio nelle legioni (cioè quelli iscritti
nelle 5 classi censitarie) cercavano di sottrarsi ai loro
obblighi. Per ovviare all’inconveniente era stato via
via diminuito (fino alla cifra bassissima di 1. 500
assi) il censo minimo per l’attribuzione dei cittadini
alla V classe, sicché molti degli appartenenti agli
strati più poveri della cittadinanza potessero esservi
iscritti e, quindi, venir chiamati a prestar servizio
nelle legioni, naturalmente armati ed equipaggiati a
spese dello Stato. Rivelatosi inadeguato anche tale
espediente, Mario fece ancora un passo avanti
reclutando direttamente, come volontari, i capitecensi,
con il risultato che allora, e poi in seguito, le legioni
risultarono formate pressoché esclusivamente di
133
nullatenenti, per i quali il servizio militare diventò
un vero e proprio mestiere. E nessuno allora si rese
conto che tale innovazione, attuata soltanto per
assicurare il necessario afflusso alle armi dei
cittadini, avrebbe in breve portato alla completa
trasformazione dell’esercito. Infatti questo finì per
diventare uno strumento al servizio non più dello
Stato, ma del comandante che meglio sapesse
compensarlo e, in ultima analisi, elemento
dominante nei contrasti politici che segnarono la
fine degli ordinamenti repubblicani.
Assicuratosi col nuovo sistema di arruolamento
un buon contingente di truppe fresche e desiderose
di far bella prova, Mario ritornò in Africa nella
primavera del 107 e, mentre Metello rientrava a
Roma (ove ottenne il trionfo e il titolo di Numidicus),
intraprese
una
serie
di
energiche
azioni
addentrandosi vittoriosamente nel territorio nemico.
Ebbe anche la fortuna di veder favorevolmente
concludersi, due anni dopo, le trattative già avviate
da Metello col re della Mauretania Bocco, il potente
alleato e suocero di Giugurta. Una parte di primo
piano nel condurre a termine le trattative ebbe Sulla,
allora legato di Mario, al quale Bocco consegnò
Giugurta ottenendo in cambio un ingrandimento del
suo regno e un trattato di amicizia e di alleanza.
Anche la Mauretania entrava così a far parte del
sistema degli Stati vassalli di Roma, al pari della
Numidia che venne confermata in tale condizione
sotto lo scettro di Gauda, fratellastro di Giugurta,
mentre questi veniva trascinato a Roma in catene
per rendere più splendido il trionfo del vincitore,
celebrato il capodanno del 104.
134
7. I Cimbri e i Teutoni. La gloria di Mario. - Era
appena chiusa la guerra giugurtina che una nuova, e
ancor più grande, occasione si offriva al talento di
Mario. Nel corso di un largo movimento migratorio
che investì le regioni dell’alto corso del Danubio e i
territori della Germania meridionale, i Cimbri e i
Teutoni, popolazioni di stirpe germanica, si
spostarono verso occidente alla ricerca di nuove
terre e, superato il Reno, penetrarono nella Gallia
minacciando direttamente la provincia romana. I
ripetuti tentativi di respingerli si risolsero in
altrettanti disastri, specialmente l’ultimo, che per la
discordia tra il console Gneo Mallio Massimo e il
proconsole Quinto Servilio Cepione, entrambi a
capo di un esercito, si trasformò nel 105 in
un’orribile strage presso Arausio (odierna Orange).
Dopo la pessima prova dei generali di parte
nobiliare, tutte le speranze si appuntarono su Mario,
il quale venne eletto console per la seconda volta
per l’anno 104 in deroga alla norma che prescriveva
un intervallo di almeno dieci anni tra un consolato e
l’altro (e anzi fu poi rieletto successivamente di
anno in anno fino al 100). Poiché i barbari dopo la
vittoria di Arausio, invece di concentrare gli sforzi
alla ricerca di un successo risolutivo (il che, del
resto, doveva essere estraneo ai loro disegni), si
erano dispersi a far bottino per la Gallia e la Spagna,
Mario ebbe tempo di arruolare un nuovo esercito e
di addestrarlo a dovere, cercando anche di
perfezionarne l’armamento. Inoltre egli portò a
compimento la trasformazione degli organici già in
corso, per cui ogni legione risultò articolata non più
in 30 piccole unità (quali erano i manipoli), ma in 10
coorti di circa 600 uomini, ciascuna delle quali
135
costituiva un’unità tattica sufficientemente grande
per operare con una certa autonomia e consentire un
più agile impiego della legione. E si deve anche
ricordare che fu Mario a fare dell’aquila, affidata a
un aquilifer, la bandiera di ogni legione e, quindi, a
stimolare l’ardore combattivo dei gregarii con il
pungolo dello “spirito di corpo”.
Così, quando qualche anno dopo i barbari
mossero in direzione dell’Italia, l’esercito romano
era pronto a sostenerne l’urto. Fu anche salutare che
le orde degli invasori si accingessero all’impresa
separatamente; infatti i Teutoni presero ad avanzare
verso la Gallia meridionale, mentre per loro conto i
Cimbri si disponevano a valicare i passi delle Alpi
centrali. Mario si fece incontro dapprima ai Teutoni,
e nel 102 li sterminò presso Aquae Sextiae (oggi Aixen-Provence); l’anno dopo affrontò i Cimbri che,
travolta ogni resistenza, avevano dilagato attraverso
la valle dell’Adige nella Transpadana, e li annientò
nella battaglia dei Campi Raudii, presso Vercelli. Il
pericolo era stato veramente terribile, e il vincitore a
buon diritto fu colmato di onori, eletto console per
la sesta volta e accomunato a Romolo e a Camillo
col titolo di “fondatore di Roma”.
8. Inasprimento della lotta politica. Eclissi di
Mario. - Il prestigio di Mario era immenso, ma stava
per tramontare rapidamente.
Proprio nell’anno del suo sesto consolato più
acuta si era fatta la tensione tra il governo nobiliare
e i populares sotto la guida del focoso tribuno Lucio
Apuleio Saturnino affiancato dal pretore Gaio
Servilio Glaucia. Approfittando dell’indiscussa
136
autorità dell’homo novus che al favore popolare
doveva l’essere salito ai più alti fastigi, Saturnino si
fece promotore di un vasto programma di leggi a
favore del proletariato cittadino e, più ancora, degli
alleati italici, e riuscì a vararle superando le
resistenze non soltanto del senato, ma degli stessi
cavalieri, di cui veniva a ledere gl’interessi. Ai
senatori, poi, inflisse la grave umiliazione di
costringerli a giurare che avrebbero osservato i suoi
provvedimenti, e sull’esempio di Mario tutti si
piegarono al giuramento, tranne Cecilio Metello
Numidico, che preferì partire in esilio.
Per poter sviluppare il suo programma,
Saturnino si fece rieleggere tribuno per l’anno 99
mentre Glaucia, nell’intento di assicurarsi l’elezione
al consolato, non esitava a fare assassinare il
competitore Gaio Memmio. A questo punto il
senato, come già ai tempi di Gaio Gracco, poté
decretare che la repubblica era in pericolo e
incaricare il console, Gaio Mario, di provvedere. Per
Mario era il momento della scelta: puntare sulla
carta della rivoluzione, che avrebbe avuto l’appoggio
degli Italici più che delle masse urbane, oppure
aderire alla richiesta di ripristinare l’ordine costituito
separando le proprie responsabilità da quelle degli
attivisti democratici. Preferì la seconda alternativa,
che gli parve più idonea a tutelare la sua posizione,
anche se questa in ogni caso era irrimediabilmente
compromessa. Pur dopo il voltafaccia, non poteva
sperare di essere accolto nella ristretta cerchia dei
dirigenti della politica nobiliare, né, ormai,
conservare la figura di esponente della parte
popolare; e mentre Saturnino e Glaucia cadevano
sotto i colpi della reazione senatoria egli dovette
137
allontanarsi da Roma, ufficialmente per svolgere una
missione diplomatica presso Mitridate, il re del
Ponto.
9. L’agitazione degli Italici e la guerra sociale. Senatori e cavalieri erano stati uniti nel soffocare il
moto capeggiato da Saturnino, ma restava ancora a
dividerli l’insanabile dissidio creato dalla legge
giudiziaria di Gaio Gracco.
L’atteggiamento di inflessibile contestazione
assunto dai giudici-cavalieri nei confronti dei
governatori-senatori spinse il senato al progetto di
avvalersi delle forze popolari nella speranza di
trovare un docile strumento delle sue rivendicazioni
nel tribuno Marco Livio Druso. Costui, che era
figlio dell’omonimo avversario di Gaio Gracco,
avanzò effettivamente nel 91 un certo numero di
proposte, ma queste, se comprendevano l’abolizione
del monopolio giudiziario dei cavalieri, d’altro canto
blandivano i ceti più bassi della cittadinanza con un
insieme di concessioni rese ancor più preoccupanti
dalle contemporanee promesse agli Italici di
accogliere la loro aspirazione a diventare cittadini
romani. In realtà erano gli Italici, presenti in Roma
con numerose delegazioni, che sembravano i più
interessati alle sorti del programma di Druso, e
proprio da parte loro venne la più violenta reazione
quando il senato, non pago di averne abolito le leggi
per vizio di procedura, fece addirittura assassinare il
tribuno. Era la riprova che a Roma almeno in un
punto si stabiliva la convergenza fra senato, cavalieri
e populares, quello di opporsi al desiderio degli alleati
di ottenere i diritti di cittadinanza romana. A
costoro non restava che la via dell’aperta rivolta, ed
138
essi l’imboccarono decisamente scatenando la
guerra.
La guerra sociale (cioè contro i socii ribelli)
avvampò dapprima presso i Marsi e le confinanti
popolazioni sannitiche, che si unirono in lega con
capitale a Corfinio, poi si estese nella Campania,
nell’Apulia, nella Lucania. Le forze di cui i ribelli
disponevano non erano numerose, ma ottimamente
addestrate alla tattica dell’esercito romano che esse
da secoli avevano affiancato sui vari campi di
battaglia. La consapevolezza, poi, di battersi per una
causa sacrosanta ne raddoppiava l’ardore, e sotto la
guida di due duci valenti quali Pompedio Silone e
Papio Mutilo seppero dare molto filo da torcere ai
Romani.
A questi era rimasto l’appoggio degli alleati
mantenutisi fedeli, a cominciare dai Latini, ed essi
affrontarono animosamente la lotta anche se ben
presto dovettero accorgersi che per riportare la
vittoria era necessario concedere quanto fino allora
avevano cercato di negare. I due consoli del 90,
Publio Rutilio Lupo e Lucio Giulio Cesare (parente
molto alla lontana del futuro dittatore), aprirono la
guerra su due fronti recandosi l’uno ad affrontare
Marsi e Piceni, l’altro i Sanniti; ma il bilancio delle
operazioni fu negativo, anzi Rutilio Lupo cadde
addirittura in combattimento.
In tali condizioni, incombendo il pericolo che
la ribellione si allargasse agli Umbri e agli Etruschi,
e sopraggiunta anche la notizia che in Oriente
Mitridate minacciava le posizioni romane, si fece
strada in senato una tendenza conciliatrice. La
propugnava lo stesso console Giulio Cesare, che
fece votare una legge con la quale si conferiva la
139
cittadinanza romana ai Latini e a tutti gli Italici che
non avessero partecipato all’insurrezione. La
medesima tendenza ispirò l’anno dopo (89) una
legge proposta dai tribuni Marco Plauzio Silvano e
Gaio Papirio Carbone (che allargava la con cessione
della civitas Romana ai cittadini delle comunità
federate che ne facessero richiesta entro i sessanta
giorni) e un’altra fatta approvare dal console Gneo
Pompeo Strabone (padre di Pompeo Magno), con la
quale si concedeva ai Transpadani il diritto latino,
cioè la stessa condizione che fino allora avevano
avuta gli alleati Latini.
Tali provvedimenti non mancarono di sortire
l’effetto desiderato sull’esito della guerra, anche se
questa si trascinò ancora con una certa virulenza,
tanto che vi perdette la vita l’altro console dello 89,
Lucio Porcio Catone. I successi più ragguardevoli li
colsero Pompeo Strabone, che riuscì ad espugnare
Ascoli Piceno e ad assicurarsi l’onore di un trionfo,
e Sulla, che condusse una serie di fortunate
operazioni nel Sannio e nella Campania per spezzare
le ultime resistenze degl’insorti.
Sembrava che, superata ormai felicemente la
fase sanguinosa della ribellione, le rivendicazioni dei
socii non dovessero più turbare la politica interna di
Roma; invece proprio da esse partì la scintilla di un
nuovo conflitto, anzi della prima di una serie di
guerre civili che si conclusero col naufragio del
regime repubblicano.
La nostra informazione sugli aspetti più notevoli dei
mutamenti verificatisi nelle strutture sociali ed economiche de l
mondo romano per effetto delle grandi conquiste riposa
principalmente - oltre che sulla tradizione derivata da Livio - su
Plutarco (Vite di Tiberio e Gaio Gracco, di Mario, di Sulla) e su
140
Appiano (Guerre civili, lib. I), cioè su autori relativamente tardi. È
andata infatti pressoché interamente perduta la ricca produzione
degli storici contemporanei o più vicini ai fatti, tra cui fanno spicco
le figure di Calpurnio Pisone (console nel 133), di Sempronio
Asellione (tribunus militum nel 134-133 sotto Numanzia) e di Gaio
Fannio, da identificare con il console del 122. Fannio, che fu
favorevole alla politica riformatrice di Gaio Gracco (salvo che nella
questione dei socii Italici), compose degli Annales in cui dei fatti
dell’età graccana si trattava con una obiettività (veritas), che fu poi
assai lodata dal democratico Sallustio, al quale piacque di
raccogliere questa voce discorde fra le tante ispirate dalla tendenza
senatoria-ottimate (cfr. S. M AZZAR INO , Il pensiero storico classico, II,
1, p. 414 sgg.; v. anche ibid. p. 138 sgg. circa il valore della
tradizione confluita in Appiano).
Sulla personalità e sull’opera dei due Gracchi, v. G.
C ARDINALI , Studi graccani, Genova 1912; I D ., Capisaldi dell a
legislazione agraria del periodo graccano, in “Historia” VII (1933) p. 517
sgg.; J. C ARCOPIN O , Autour des Gracques: études critiques, Paris 1928.
A testimonianza dell’attività svolta dai triumviri graccan i
restano alcuni cippi terminali rinvenuti soprattutto in Lucania, in
Apulia e in Campania, su cui v. C.I.L. I 2 p. 511 sg. Sul punto
culminante dell’attività legislatrice di Gaio Gracco, quello
concernente l’accoglimento dei foederati nel seno della civitas
Romana, è difficile afferrare i termini esatti della situazione per il
grande divario, delle versioni conservate nelle fonti superstiti; si va
da un programma massimo riportato da Velleio Patercolo (II 6, 2:
dabat civitatem omnibus Italicis, extendebat eam paene usque Alpis) ad uno
assai più moderato, riferito da Appiano (Bell. civ. I 23, 99), che
prevedeva il conferimento del ius civitatis ai soli Latini, mentre gli
altri socii venivano “promossi” alla condizione che era stata propria
dei Latini, quindi con possibilità di partecipare anch’essi ai comizi
con diritto di voto, sia pure molto limitato.
Su Giugurta, e sul bellum Iugurthinum di Sallustio, che per noi
è la fonte principale su quegli avvenimenti, cfr. G. F UNAIOLI ,
Sallustio e la storiografia romana, Roma 1942, p. 12 sgg.; G. D E
S ANCTIS , Sallustio e la guerra di Giugurta, in Problemi di storia antica,
Bari 1932, p 187 sgg.; S. M AZZARINO , Il pensiero storico, cit., II 1, p.
364 sgg.
Sulla figura e sull’opera politica di Gaio Mario in generale, si
vedano gli studi di A. P ASSERIN I (in “Athenaeum” n.s. XII, 1934) e
di R. A NDR EOTTI , C. Mario, Gubbio 1940; in particolare, sulle
riforme militari, A. S CHULTEN , Zur Heeresreform des Marius, in
“Hermes” LXIII (1928) p. 240 sgg.; A. P IGANIOL , La conquête
romaine, cit., p. 343 sgg.; sulle campagne per difendere l’Italia
dall’invasione, A. D ONNADIEU , La campagne de Marius dans la Gaule
141
Narbonnaise (104-102 av. J.-Chr.), in “Rev. étud. anc.” LVI (1954) p.
2 sgg.; T.F.C ARNEY , Marius’ Choice of Battlefield in the Campaign of
101, in “Athenaeum” n. s. XXXVI 1958, p. 229 sgg. Sul crollo della
posizione politica di Mario, F.W.R OBINSON , Marius, Saturninus and
Glaucia, Bonn 1912; W. S CHUR , Das sechste Konsulat des Marius, in
“Klio” XXXII (1918) p. 313 sgg.
Sul tribunato di Marco Livio Druso e sullo scoppio della
guerra sociale, cfr. A. B ERNARDI , La guerra sociale e le lotte dei partit i
in Roma, in “Nuova rivista storica” 1944-45. Accanto alle fonti
letterarie (oltre ai frammenti del lib. XXXVIII di D IODORO , V ELL .
P AT . II 15; A PPIAN ., Bell. civ. I 35 sgg.; L IV . LXXIII-LXXV) ci è
rimasto anche qualche documento. In primo luogo le glandes
Asculanae, proiettili di piombo usati nelle operazioni di guerra del
90-89 a.C. intorno ad Ascoli e recanti incise varie parole. I
proiettili rinvenuti erano stati quasi tutti in dotazione ai socii
ribelli, e infatti vi si leggono le scritte: Itali, Italiensis, T. Laf(renius)
pr(aetor) (uno dei capi degl’insorti, cfr. A PPIAN ., Bell. civ. I 47, 204
sgg.), fer(i) Pom(peium) (= colpisci Pompeo), fer(i) Sul(picium) (uno
dei legati di Pompeo Strabone): cfr. C.I.L. I 2 p. 550 sgg. Un altro
documento epigrafico ci ha conservato il testo del decreto emanato
da Pompeo Strabone nel suo campo ad Ascoli il 18 novembre
dell’89, decreto con il quale, in applicazione di una clausola della
lex Iulia de civitate, si concedeva agli appartenenti a uno squadrone
di cavalleria spagnola il diritto di cittadinanza romana come
ricompensa al valor militare (C.I.L. I 2 709). Sono poi da ricordare,
fra i documenti di carattere numismatico, le monete emesse dai
confederati Marsi con tipi e leggende riferentisi alla guerra in
corso. Tra le più significative, il denario argenteo che reca nel verso
l’immagine di un toro che calpesta la lupa (simbolo di Roma) e
l’iscrizione VITELIU (= ITALIA ); cfr. E.A. S YDENHAM , The Coinage of
the Roman Republic, London 1954, p. 89 sgg. E. B ERNAR EGGI ,
Problemi della monetazione dei Confederati italici durante la guerra sociale,
in “Riv. It. Num.” LXVIII (1966).
142
VIII
Le guerre civili: Mario, Sulla, Pompeo.
1. Il pronunciamento di Sulla. - Costretto a
trasformare larghe masse di alleati in cittadini
romani, il governo nobiliare si preoccupò - anche
troppo - del pericolo che costoro avessero a
sconvolgere il preesistente equilibrio politico.
Poiché anch’essi, al pari di tutti gli altri cittadini,
dovevano ora venire iscritti nelle tribù territoriali, si
ricorse all’espediente di iscriverli soltanto in un
numero limitato di tribù, il che voleva dire ridurre
ufficialmente al minimo la loro importanza nella vita
dello Stato (un’importanza che sarebbe stata in ogni
caso attenuata dal fatto che il cittadino non
residente a Roma, o che non vi si recava
appositamente nei giorni dei comizi, in pratica non
aveva modo di esercitare i suoi diritti politici).
Infatti nei comizi tributi (a quell’epoca la principale
assemblea legislativa), ove i cittadini votavano per
tribù, essi avrebbero potuto eventualmente
concorrere a determinare soltanto il voto delle
poche tribù in cui erano stati registrati, mentre i
vecchi cittadini, esprimendo la loro volontà in un
numero maggiore di tribù, avrebbero continuato ad
avere facilmente la prevalenza. Lo stesso valeva per i
comizi centuriati, la principale assemblea elettorale,
nei quali le centurie dei votanti si costituivano con
un sistema che prendeva in considerazione i cittadini
non soltanto in base alla classe censitaria, ma anche
alla tribù di appartenenza. Perché la conquista della
143
cittadinanza da parte degli alleati non restasse una
vittoria mutilata, mettendoli in una dichiarata
condizione d’inferiorità che avrebbe causato nuovi
conflitti, sarebbe stato necessario che all’atto della
registrazione essi venissero ripartiti fra tutte le 35
tribù, e a questo appunto si prefisse di arrivare il
tribuno Publio Sulpicio Rufo.
Correva l’anno 88 e a Sulla, eletto console, era
toccato in sorte il comando della guerra contro
Mitridate proprio in un momento in cui si era acuita
la tensione fra senatori e cavalieri per la solita
questione giudiziaria. Ora poi un comando militare
di Sulla, uomo devoto alle direttive del senato, in
quei paesi d’Oriente ove prosperavano gli affari più
o meno puliti dei capitalisti, era cosa tutt’altro che
desiderabile per l’ordine equestre, e Sulpicio cercò di
sfruttare ai suoi fini questa situazione. Per
guadagnarsi l’appoggio dei cavalieri e superare
l’opposizione del senato alla sua proposta in favore
dei nuovi cittadini, avanzò un altro progetto di legge
in forza del quale il comando della guerra mitridatica
doveva essere trasferito da Sulla a Mario. Sulla, che
era occupato a liquidare gli ultimi strascichi della
guerra sociale e stava assediando Nola, si affrettò ad
accorrere a Roma per cercare d’impedire
l’approvazione delle leggi di Sulpicio, ma questi, con
l’aiuto dei cavalieri, non esitò a scatenare la piazza e
Sulla, minacciato di morte, fu costretto a fuggire
lasciando libero il campo agli avversari.
Le sue legioni sarebbero ora dovute passare
agli ordini di Mario, ma i tempi erano cambiati
anche per la disciplina militare: il nuovo esercito di
mestiere si sentiva legato assai più alla persona del
capo che non al rispetto delle leggi, e così fu facile a
144
Sulla infiammare l’animo dei suoi uomini a
vendicare il torto subito dal loro comandante e
intraprendere una marcia su Roma. Non v’era nulla
che potesse contrastare il passo a quelle sei
agguerrite legioni; e Sulla, impadronitosi della città,
si sbarazzò per prima cosa degli avversari facendoli
dichiarare hostes publici: Sulpicio fu subito eliminato,
Mario riuscì a stento a fuggire in Africa. Vennero
quindi adottati alcuni provvedimenti per tarpare le
ali agli agitatori di parte popolare e infine, sperando
di essersi in tal modo assicurato il terreno alle spalle,
Sulla partì per la guerra mitridatica.
E invece per niente sicuro egli doveva sentirsi
dopo aver dato il pericoloso esempio di inserire le
forze armate nelle competizioni politiche. A nessun
comandante fino allora era stato lecito entrare in
Roma a capo di un esercito in armi, nemmeno per
celebrare il trionfo; da quel momento sulla scena
politica avrebbero avuto una parte di primo piano
gli eserciti o, piuttosto, coloro che meglio avessero
saputo farne strumento delle loro ambizioni.
2. La sedizione di Cinna e la vendetta di Mario. Non appena Sulla fu partito, in Roma riprese il
sopravvento la fazione popolareggiante guidata dal
console dell’87 Lucio Cornelio Cinna, che era un
ardente fautore di Mario. Per revocare i
provvedimenti di Sulla, Cinna non si fece scrupolo
di ricorrere ai tumulti di piazza, ed essendo stato
dichiarato hostis publicus dal senato, si rifugiò presso
l’esercito che aveva sostituito quello sullano
nell’assedio di Nola, l’attirò dalla sua parte e
intraprese
una
nuova
marcia
su
Roma.
Contemporaneamente Mario, reduce dall’Africa e
145
assetato di vendetta, si apprestava a rientrare anche
egli in città. Ogni tentativo di difesa fu vano, e
l’ingresso dei vincitori nell’Urbe diede inizio ad
un’orgia di sangue che durò cinque giorni e si
concluse con la strage dei principali esponenti della
parte nobiliare. Sfogato il suo rancore, il vecchio
Mario ebbe pure la soddisfazione di vedersi eletto
console (per la settima volta!) per l’anno 86, anche
se poco dopo (il 13 gennaio) morì stroncato da una
violenta malattia. Abolite le leggi sullane,
promulgatene altre a favore del proletariato
cittadino (cui si condonavano gran parte dei debiti
che l’opprimevano) e degli ex alleati italici (cui si
consentiva l’iscrizione in tutte le 35 tribù), i populares
si erano impadroniti saldamente del potere, ma su di
loro gravava la minaccia del prossimo ritorno di
Sulla. Di questo, soprattutto, dové preoccuparsi
Cinna che, rieletto console di anno in anno fino
all’84, fu l’anima del governo democratizzante.
Dopo aver inviato in Grecia un corpo di spedizione
agli ordini di Lucio Valerio Flacco (console suffectus
nell’86 dopo la morte di Mario) con l’incarico di
esonerare dal comando Sulla, egli si adoperò per
organizzare un forte esercito col quale si proponeva
di affrontare personalmente l’avversario. Ma al
principio dell’84, mentre s’imbarcava ad Ancona,
cadde vittima di un moto sedizioso, e le truppe
rimasero in Italia ad attendere lo sbarco di Sulla.
3. Le imprese di Sulla in Oriente. - Nei circa
quattro anni trascorsi in Oriente, Sulla aveva avuto
modo di rinsaldarvi la preponderanza romana.
Mentre i grandi regni di Siria e d’Egitto si
estenuavano sempre più nelle incessanti lotte
146
dinastiche, e i minori Stati vassalli vivacchiavano
all’ombra del patronato romano, il regno del Ponto
(sulla costa meridionale del Mar Nero) aveva
intrapreso verso la fine del II secolo una vigorosa
politica espansionistica sotto la guida del re
Mitridate VI Eupatore. Allargata la sua signoria sulla
regione ad oriente del Mar Nero, Mitridate realizzò
con l’appoggio del re Nicomede III di Bitinia la
conquista della Paflagonia e della Galazia, poi quella
della Cappadocia; ma a questo punto le relazioni fra
i due alleati si guastarono e Nicomede sollecitò i
Romani ad intervenire. Si ebbe allora (a. 97) la
missione diplomatica di Mario e, cinque anni dopo,
un intervento di Sulla in qualità di governatore della
Cilicia, ma nulla valse a fermare Mitridate, che
giunse anche ad invadere il regno di Bitinia e,
approfittando delle complicazioni della guerra
sociale, a dichiarare guerra a Roma.
Ai primi dell’88, con azione travolgente,
Mitridate s’impadronì della provincia d’Asia e diede
ordine di sterminare tutti i Romani e gli Italici che
ivi attendevano ai loro traffici lucrosi (si parlò di
80.000 morti). Contemporaneamente, una furiosa
ondata di rivolta antiromana si propagava in Grecia
(specie ad Atene) e in Macedonia, e quando Sulla
nella primavera dell’ 87 sbarcava in Epiro, ai
Romani non restava che il controllo dell’Etolia e
della Tessaglia. Attraversata la Grecia settentrionale,
egli concentrò i suoi sforzi nell’assedio di Atene, la
principale base di Mitridate in terra ellenica, che
l’anno appresso cadde e fu abbandonata al
saccheggio. Pochi mesi dopo, sempre nell’anno 86, il
duce romano mosse incontro a un grosso esercito
pontico, che scendendo dalla Macedonia aveva
147
invaso la Beozia, e a Cheronea riportò con le sue
forze relativamente modeste una vittoria clamorosa.
Il successo fu consolidato più tardi da una nuova
vittoria riportata ad Orcomeno: era la fine della
potenza di Mitridate in Grecia.
Intanto il corpo di spedizione, che nello stesso
anno 86 Cinna aveva inviato contro Sulla al
comando di Lucio Valerio Flacco, aveva per suo
conto recuperato la Macedonia, la Tracia e, dopo
l’uccisione di Valerio Flacco a seguito di un
ammutinamento capeggiato dal suo legato Gaio
Flavio Fimbria (che ora assunse il comando), aveva
incalzato il nemico oltre l’Ellesponto costringendo
Mitridate a rinchiudersi nella piazzaforte di Pitane
(in Misia). A questo punto il re si risolse ad aprire
trattative con Sulla, dal quale invano cercò di
ottenere condizioni più favorevoli minacciando che
altrimenti avrebbe trattato con Fimbria. Con la pace
di Dardano (a. 85) il re dovette rassegnarsi a
restringere il suo regno entro gli antichi confini, a
consegnare la flotta e a pagare una indennità.
Da parte sua, Sulla poteva ritenersi pago di una
tale conclusione dell’impresa. In altre circostanze,
gli sarebbe stato agevole schiacciare le forze di
Mitridate, specialmente se avesse potuto ricevere
qualche aiuto da Roma. Ma proprio in Roma erano i
suoi nemici più accaniti e, dopo aver attirato dalla
sua le truppe di Fimbria (che si tolse la vita) ed
essersi trattenuto a sistemare le cose d’Asia e di
Grecia, raccogliendovi soprattutto grandi somme di
denaro, partì da Patrasso e nella primavera dell’83
sbarcò a Brindisi.
148
4. Il ritorno di Sulla. - Al suo arrivo Sulla non
solo non incontrò resistenze, ma vide affluire gran
copia di aiuti da parte di alcuni elementi della
nobiltà che si erano preparati alla riscossa contro il
governo democratizzante. Erano fra loro il
proconsole Quinto Cecilio Metello Pio e gli ancor
giovani Marco Licinio Crasso e Gneo Pompeo,
quest’ultimo con ben tre legioni assoldate nel Piceno
fra le vastissime clientele che il padre si era ivi
create al tempo della guerra sociale.
Passato dall’Apulia nella Campania, Sulla si
trovò di fronte successivamente gli eserciti dei due
consoli dell’83, Lucio Cornelio Scipione Asiatico e
Gaio Norbano. Quest’ultimo, dopo uno scontro
sfavorevole, fu costretto ad asserragliarsi in Capua,
mentre con Scipione intercorsero trattative che non
approdarono a nulla di risolutivo salvo che, nel
frattempo, i suoi uomini passarono in blocco dalla
parte di Sulla. Per l’anno appresso, che doveva
essere decisivo, i democratici affidarono la loro
fortuna nelle mani di Gneo Papirio Carbone e del
ventiseienne Gaio Mario, figlio adottivo del grande
scomparso. Eletti consoli, costoro si adoperarono
per levare rinforzi da ogni parte, specialmente fra gli
Etruschi e i Sanniti timorosi che una vittoria di Sulla
avesse a privarli dei benefici della cittadinanza
ottenuti sotto il governo popolare. Nella primavera
di quell’anno 82 Sulla risalì dalla Campania verso il
Lazio, sconfisse l’esercito di Gaio Mario
obbligandolo a rinchiudersi a Preneste, e proseguì in
direzione di Roma che, occupata senza resistere, fu
teatro delle solite stragi. Avanzò quindi in Etruria
contro Papirio Carbone che, dopo uno scontro di
esito incerto, di li a poco fu preso e messo a morte
149
da Pompeo. Intanto Sulla aveva impedito che
Preneste fosse sbloccata da due grossi eserciti di
Sanniti e di Lucani, e allora questi, abbandonati gli
assediati al loro destino, marciarono su Roma.
Il prenderla non avrebbe avuto alcuna
importanza per l’esito della guerra, che ormai
appariva scontato; l’intenzione era di ridurla in un
cumulo di macerie, disperata vendetta di una causa
irrimediabilmente perduta. Ma Sulla riuscì a parare il
colpo: arrivato con marcia rapidissima sotto le mura
di Roma poche ore dopo gli avversari, li attaccò con
estrema energia e al termine di un lungo e accanito
combattimento (battaglia di Porta Collina) riportò
piena vittoria. Cadevano allora anche Preneste, ove
Mario trovò la morte, e poi man mano le altre città
in cui si erano arroccati i mariani, fra cui più a lungo
resistettero Norba, Nola e Volterra. Restavano poi
da eliminare le ultime resistenze mariane in alcune
province, come l’Africa e la Sicilia, e in queste
operazioni si distinse Gneo Pompeo, cui Sulla
concesse l’onore di un trionfo e l’appellativo di
Magnus.
5. Dittatura e riforme antidemocratiche di Sulla. Scomparsi i consoli Mario e Carbone, la repubblica
era rimasta acefala; Sulla, ancora nell’anno 82,
convocò i comizi centuriati e ne fu eletto dittatore
con il potere di emanare leggi e di dare una nuova
costituzione alla repubblica, carica che mantenne
ininterrottamente dall’82 al 79 rivestendo nell’80
anche il secondo consolato. Ogni residua
opposizione fu annientata con le proscrizioni (i
proscripti, i cui nomi venivano compresi in apposite
liste esposte in pubblico, potevano essere uccisi da
150
chiunque, e i loro beni erano confiscati e venduti
all’asta), ed è inutile dire che sotto l’etichetta
politica furono consumate vendette private e ogni
sorta di ribalderie. Il flagello infierì non solo in
Roma, ma in tutta l’Italia, e si abbatté specialmente
su Etruschi e Sanniti che, per aver accanitamente
avversato la reazione capeggiata da Sulla, furono
sterminati fin quasi a scomparire dal quadro etnico
della penisola.
Cessato il bagno di sangue, per i vincitori si
trattava di smantellare l’opera del regime
democratico e restituire allo Stato la fisionomia di
repubblica oligarchica. A questo si accinse subito
Sulla con una serie di provvedimenti emanati per lo
più nel corso dell’anno 81 in forza dei suoi poteri
eccezionali. Il senato fu restituito alla sua funzione
di cardine del governo nobiliare, e mentre fino ad
allora era stato di 300 membri (ma per le stragi degli
ultimi anni si era ridotto alla metà) fu portato a 600
membri, con l’immissione, fra l’altro, di numerosi
ufficiali che si erano distinti nella guerra e con
l’inclusione di 300 cavalieri (col che si voleva
eliminare il contrasto per la competenza giudiziaria,
restituita ora al senato). Fu poi riordinato il cursus
honorum, stabilendo gli intervalli fra le magistrature
e, soprattutto, il divieto di rivestire un secondo
consolato prima di dieci anni dal precedente.
Particolarmente colpito fu il tribunato della plebe, di
cui fu limitato il diritto di veto, mentre d’altra parte
perdeva la facoltà di promuovere leggi senza la
preventiva approvazione del senato, il che
significava metter fine alla legiferazione del
proletariato urbano nei comizi tributi sotto la spinta
degli agitatori popolari. Fu anche stabilito che chi
151
avesse rivestito il tribunato della plebe non avrebbe
più potuto ottenere altre magistrature, e questa era
una prospettiva poco allettante per chi voleva fare
carriera politica.
Con altri provvedimenti si cercò anche di
evitare che in futuro la repubblica fosse alla mercé
dei magistrati con comando militare, e così fra
l’altro si stabilì che nessun esercito in armi potesse
trovarsi nel territorio della Penisola a sud dell’Arno
e del Rubicone (a nord di questa linea fu creata la
provincia di Gallia Cisalpina). Era proprio questo il
punto più delicato per la sopravvivenza della
restaurazione nobiliare, ma restavano insopprimibili
le conseguenze derivanti dal mutato carattere
dell’esercito, legato alla persona del condottiero
capace di ricompensarlo con maggiore munificenza
(da ultimo, ben 150.000 veterani avevano ottenuto
da Sulla assegnazioni di terre). Pertanto quando
Sulla nel 79, in piena coerenza con la sua opera di
restitutore dell’antico equilibrio costituzionale,
depose i poteri eccezionali e si ritirò a vita privata
per lasciare libero campo al funzionamento degli
organi di governo, il nuovo assetto statale già recava
i germi della dissoluzione, e fu ventura per lui
morire improvvisamente l’anno dopo senza vederne
il crollo.
6. Ripresa delle forze democratiche. Sertorio e la
resistenza in Spagna. - Benché momentaneamente
prostrata e umiliata, quella dei populares e dei
cavalieri restava ancora una forza notevole per chi
fosse riuscito a riportarla nel giuoco della
competizione politica, e vi si accinse subito Marco
Emilio Lepido, uno dei consoli del 78, che propose
152
l’abolizione delle leggi sullane restrittive dei poteri
del tribunato della
plebe.
Immediatamente
rialzarono il capo tutti i malcontenti, e in primo
luogo quanti erano stati colpiti dalle confische,
specie in Etruria ove si organizzò apertamente la
lotta contro i coloni stanziati da Sulla. Per vincere la
resistenza del senato, Lepido non esitò a mettersi a
capo della ribellione e nel 77, partito per assumere
l’ufficio di governatore della Gallia Narbonese, si
fermò invece in Etruria e, dopo un rapido
concentramento delle forze, mosse in armi contro
Roma.
Dichiarata in pericolo la repubblica, il senato
ne affidò la difesa all’ex console Quinto Lutazio
Catulo e a Pompeo. Questi non aveva ancora
trent’anni, ma si era portato in primo piano con le
imprese compiute a fianco di Sulla, e sebbene fino a
quel momento non avesse rivestito alcuna
magistratura, il
senato gli
fece conferire
eccezionalmente l’imperium con uno strappo alle
norme costituzionali. Pompeo e Catulo ebbero
facilmente ragione degli avversari e Lepido fu
sconfitto presso Roma, ma riuscì a ritirarsi in
Sardegna con le sue forze, che passarono poi in
Spagna ad alimentarvi le superstiti resistenze
mariane.
Animatore di queste resistenze era Quinto
Sertorio. Pretore nell’83, dopo le prime vittorie di
Sulla aveva raggiunto il suo posto di governatore
della Spagna Citeriore dove con una vasta azione,
militare a un tempo e diplomatica, sulle popolazioni
indigene aveva creato un saldo organismo plasmato
sulla falsariga degli ordinamenti romani, ma
improntato alla più viva ostilità verso il governo di
153
Roma. Vivo ancora Sulla, vani erano risultati i
tentativi di abbatterlo e, fattasi sempre più grave la
minaccia, il senato dovette decidersi ad un energico
intervento, mettendosi però ancora una volta nelle
mani della prepotente personalità di Pompeo, che
ancora non si risolveva a congedare l’esercito
affidatogli per combattere Lepido.
Rivestito ora, sempre in deroga alle norme
sullane, di imperium proconsolare con le funzioni di
governatore della Spagna citeriore, Pompeo vi si
trasferì al principio del 76. La sua campagna si
svolse però sulle prime in maniera tutt’altro che
favorevole, e tra il 76 e il 74 subì vari insuccessi. Di
tali rovesci Pompeo attribuì la colpa al senato, al
quale scrisse in tono quasi minaccioso sollecitando
l’invio dei rinforzi richiesti, e solo quando questi
arrivarono le operazioni furono riprese e
felicemente concluse nel 72. Costretto dalle
necessità della guerra a gravare con mano sempre
più ferrea sulle popolazioni locali, che fino allora
l’avevano sostenuto, e a instaurare i metodi della più
crudele disciplina, Sertorio aveva visto rapidamente
scemare la sua popolarità, e infine cadde sotto i
colpi di un suo luogotenente. Tale fu la fine di
questa discussa personalità: un grande capitano,
indubbiamente, ma che per il trionfo della sua parte
politica non s’era fatto scrupolo di stringere accordi
anche col più fiero nemico di Roma, Mitridate.
7. Mitridate, Spartaco e l’ascesa di Pompeo. - Dopo
la pace di Dardano, Mitridate non aveva mai
abbandonato i propositi di rivincita, e vi si era
preparato allargando il suo dominio su nuovi
territori. Una buona occasione per riprendere la
154
partita gli parve quella della morte dell’ultimo re di
Bitinia, Nicomede IV, il quale aveva lasciato erede
del suo regno il popolo romano. Che la vicina
Bitinia venisse in potere dei Romani era troppo
pregiudizievole per le sue mire espansionistiche, ed
egli deliberò di passare all’azione invadendo la
Bitinia e stringendo accordi con Sertorio e con i
pirati che erano tornati a infestare le acque del
Mediterraneo.
A Roma il comando della guerra fu assegnato ai
due consoli dell’anno 74, Marco Aurelio Cotta e
Lucio Licinio Lucullo, quest’ultimo un valente
condottiero che si era formato alla scuola di Sulla.
Le operazioni da lui condotte in Oriente durarono
ininterrottamente fino al 67 (Aurelio Cotta invece
tornò a Roma già nel 71) e furono tutte un
susseguirsi di folgoranti successi, senza però che egli
riuscisse a chiudere vittoriosamente la guerra. Fu
liberata la Bitinia, fu occupato il Ponto, fu invasa
l’Armenia, ove il re Tigrane aveva offerto rifugio a
Mitridate, e ne fu presa la capitale Tigranocerta (a.
69), ma le continue campagne finirono per stancare
l’esercito, che Lucullo sottoponeva ad una rigorosa
disciplina, badando soprattutto che non si
abbandonasse a ruberie nei paesi attraversati.
Questo fece sì che la stanchezza si trasformasse in
malcontento e in aperto rifiuto di obbedienza,
mentre il protrarsi della guerra offriva il destro agli
avversari di Lucullo in Roma di intrigare finché il
senato decise di inviargli un successore. Intanto,
nell’inazione del suo esercito, Tigrane e Mitridate
potevano disfarne le lunghe fatiche e rientrare in
possesso dei loro domini: un altro campo restava
aperto per la gloria di Pompeo.
155
Questi, tornato dalla Spagna nel 71, era arrivato
in tempo per assestare un colpo alle ultime bande di
gladiatori e di schiavi che si erano ribellati nel 73 e,
agli ordini di Spartaco, per due anni avevano
percorso le regioni centromeridionali della Penisola
fra grandi stragi e devastazioni. Dopo la sconfitta
dei due consoli del 72, per un momento si era
temuto per l’incolumità della stessa Roma, ma l’anno
appresso il proconsole Marco Licinio Crasso li aveva
affrontati e sterminati, tranne quelli che
incapparono poi nelle mani di Pompeo.
Pompeo se ne fece un nuovo titolo di merito,
da far valere dinanzi al senato assieme a quelli già
acquistati nella lotta contro Sertorio e, oltre alla
concessione del trionfo, ottenne di poter presentare
la candidatura al consolato sebbene non avesse mai
ricoperto una magistratura ordinaria (dunque, senza
passare per la lunga trafila della questura, dell’edilità
e della pretura). Pose la sua candidatura anche
Crasso, che dopo aver raccolto una favolosa fortuna
impiegando abilmente i denari accumulati al tempo
delle proscrizioni, aveva cercato di emergere nella
vita pubblica e voleva ora sfruttare la vittoria
riportata contro i gladiatori. I due si intesero per
appoggiare vicendevolmente le loro aspirazioni e,
sbandierando
un
programma
di
riforme
democratiche, si assicurarono l’appoggio delle forze
popolari e vinsero le elezioni.
Tale vittoria significava, in pratica, la
liquidazione di quanto restava della legislazione
antidemocratica di Sulla; fra l’altro, i tribuni della
plebe (cui già una lex Aurelia del 75 aveva restituito
il diritto di poter rivestire altre magistrature)
vennero reintegrati nella pienezza delle loro
156
attribuzioni, e fu fortuna per gli ottimati che l’intesa
fra i due consoli ben presto si estinguesse nella
scambievole gelosia. Ma ormai che aveva raggiunto
la dignità consolare e si era assicurato il favore delle
masse, ogni strada era spalancata all’ambizione di
Pompeo e al suo desiderio di primeggiare nella vita
della repubblica.
8. Fine di Mitridate e potenza di Pompeo. - Di lì a
qualche anno, nel 67, su proposta del tribuno Aulo
Gabinio, venne conferito a Pompeo l’incarico di
estirpare la malapianta della pirateria, cresciuta al
punto da paralizzare i traffici marittimi in tutto il
Mediterraneo. Il senato cercò inutilmente di
contrastare la concessione di questo comando
straordinario, che doveva avere la durata di almeno
tre anni, e nelle mani di Pompeo fu concentrata una
massa di uomini e di mezzi così ingente, che
veramente ne facevano il padrone dello Stato. Con
tali enormi apparecchi fu agevole a Pompeo
assolvere rapidamente il compito affidatogli e, nello
stesso tempo, prepararsi il terreno per una nuova
impresa ancora più gloriosa: quella di concludere la
guerra contro Mitridate.
A succedere nel comando a Lucullo era stato
designato il console del 67 Manio Acilio Glabrione,
cui era stato conferito per l’anno appresso il
proconsolato di Ponto e Bitinia; ma questi non ebbe
tempo dimettersi all’opera. Infatti con una proposta
presentata al principio del 66 dal tribuno Gaio
Manilio (proposta che ancora una volta il senato
cercò invano di osteggiare, mentre a suo favore
parlarono Cicerone e Cesare) a Pompeo veniva
157
attribuito il comando sulla Cilicia, il Ponto e la
Bitinia con l’incarico di debellare Mitridate.
Anche per questa impresa le forze messe a sua
disposizione erano ingentissime, ma Pompeo, con la
sua solita tattica prudenziale, cominciò con una abile
azione diplomatica intesa a incrinare l’alleanza fra
Mitridate e Tigrane. Rimasto isolato, Mitridate
nell’estate del 66 fu sconfitto in battaglia campale
sul fiume Lico (ove Pompeo fondò poi, per ricordo,
la città di Nicopoli) e costretto a retrocedere fino al
Bosforo cimmerio. Quivi sperava di preparare la
riscossa, ma intanto il vincitore (che nel 66 aveva
ottenuto anche la sottomissione di Tigrane)
prendeva possesso del suo regno e nel 64 lo
riduceva nella condizione di provincia riunendolo
alla Bitinia (provincia di Bitinia-Ponto).
Ancora nel 64 Pompeo dal Ponto scese nella
Siria, che da tempo era in pieno sfacelo e, deposto
l’ultimo dei Seleucidi, Antioco XIII l’Asiatico, ne
fece una nuova provincia; quindi intervenne a
regolare una contesa dinastica in Giudea e, dopo
aver preso Gerusalemme, ne fece uno Stato vassallo.
Mentre attaccava Gerusalemme, giunse a Pompeo la
notizia della morte di Mitridate. Con le gravezze
imposte ai sudditi per preparare la rivincita, il
vecchio re aveva suscitato una ribellione e, non
riuscendo a domarla, si era data la morte col veleno.
Sbarazzatosi
così
a
buon
mercato
dell’implacabile nemico, Pompeo poté procedere
con tutto agio a dettare gli ordinamenti per i nuovi
dominii, a regolare i rapporti con gli Stati vassalli e
le città libere, e insomma a quanto era necessario
per inserire stabilmente i paesi del vicino Oriente
nell’orbita del mondo romano. Nessun condottiero
158
aveva imposto su terre così lontane e così vaste
l’ossequio al volere di Roma, nessuno aveva raccolto
un bottino così enorme e assicurato all’erario così
ingenti tributi, nessuno si era creato masse di
clientele così imponenti, e quando nel 62 egli
s’imbarcò per l’Italia la sua potenza toccava i più alti
fastigi.
Una certa discrepanza presentano le notizie che ci sono
pervenute intorno ai particolari dell’espediente adottato dal
governo di Roma per limitare l’importanza politica dei novi cives,
cioè delle masse di ex-alleati accolti nella civitas dopo la guerr a
sociale. In Velleio Patercolo (II 20) si legge: Cum ita civitas Italiae
data esset, ut in octo tribus contribuerentur novi cives, ne potentia eorum et
multitudo veterum civium dignitatem frangeret plusque possent recepti in
beneficium quam auctores beneficii, Cinna in omnibus tribubus eos se
distributurum pollicitus est. Parrebbe, dunque, che i novi cives fossero
stati iscritti soltanto in otto delle 35 tribù. D’altro canto in
Appiano (Bell. civ. I 49) leggiamo che “I Romani non iscrissero
questi nuovi cittadini nelle 35 tribù allora esistenti nel loro
ordinamento, affinché, essendo più numerosi dei vecchi cittadini,
non avessero il sopravvento nelle votazioni, ma suddivisili in diec i
parti crearono altrettante nuove tribù, nelle quali essi votavano
come ultimi. E spesso il loro voto risultava inutile, dato che le 35
tribù erano chiamate a votare prima e costituivano più della metà”.
Su questi problemi, sempre fondamentale T H . M OMMSEN ,
Ges. Schriften, I, p. 262 sgg.; v. anche A. B ISCARD I , La questione
italica e le tribù soprannumerarie, in “La Parola del Passato” VI (1951)
p. 241 sgg. L’applicazione delle leggi sulla concessione del ius
civitatis agli ex-alleati si rispecchia nelle cifre dei censimenti che c i
sono state trasmesse per il periodo immediatamente anteriore e
posteriore alla guerra sociale. I censori del 115/4 avevano censito
349.336 civium capita (L IV ., per. LXIII); questo numero salì
nell’86/5 a 463.000 (cfr. H IER ON ., Chron. p. 151 H ELM ) e a 910.000
nel 70/69 (L IV ., per. XCVIII; cfr. A SCON ., p. 222 S TANGL ).
Sulla figura e l’opera di Sulla, in generale, D RUMANN G ROEBE , Geschichte Roms in seinem Uebergange von der republikanischen
zur monarchischen Verfassung, vol. II, p. 364 sgg.; J. C ARCOPINO , Sylla
ou la monarchie manquée, Paris 1931.
159
Su Cinna e sul governo dei popolari in Roma durante
l’assenza di Sulla, v. H. B ENNET , Cinna and his times, Chicago 1923;
CH. M. B ULST , ‘Cinnanum tempus’, in “Historia” XIII (1964) p. 307
sgg.
Sulla spedizione di Sulla in Oriente (fonti principali il libro
Mitridatico di Appiano e la Vita plutarchea di Sulla), oltre i già citati
Antike Schlachtfelder di J. K ROMAYER e G. V EITH (vol. II), v. N.G.L.
H AMMOND , The two Battles of Chaeronea, in “Clio” XXXI (1938), p
186 sgg.
Sulle riforme costituzionali sullane, cfr. M. A. L EVI , Silla.
Saggio sulla storia politica di Roma dall’anno 88 all’80, Milano 1924,
I D ., La costituzione romana dai Gracchi a Cesare, Firenze 1928, G.
N ICOLINI , Il tribunato della plebe, Milano 1932; A. B ISCARDI ,
Plebiscita et auctoritas dans la législation de Sulla, in “Rev. Hist. Droit”
XIX, 1959, p. 153 sgg. Come è detto espressamente nel testo,
nell’anno 70, essendo consoli Pompeo e Crasso, si arrivò alla
liquidazione di ciò che rimaneva dei provvedimenti antidemocratic i
di Sulla, non del restante complesso dei suoi ordinamenti, che
continuarono ad essere in vigore come espressione delle istanze
della nobiltà rimasta detentrice del potere. Peraltro que i
provvedimenti antidemocratici avevano caratterizzato la riforma
costituzionale di Sulla, e pertanto appare legittimo continuare a
parlare di un crollo della costituzione sullana, nonostante le troppo
sottili distinzioni di U. L AFFI , in “Athenaeum”, LV 1967, p. 177
sgg.
Un’eco del contrasto in seno alla nobilitas fra oppositori e
fautori del ristabilimento dei pieni poteri tribunizi si può cogliere
in C IC ., De leg. III 22; 26. Quivi le riserve degli oppositori appaiono
così enunciate per bocca di Quinto Cicerone: in ista quidem re
vehementer Sullam probo, qui tribunis plebis sua lege iniuriae faciendae
potestatem ademerit, auxilii ferendi reliquerit, Pompeiumque nostrum ceteris
rebus omnibus semper amplissimis summisque effero laudibus, de tribunicia
potestate taceo. Nec enim reprehendere libet nec laudare possum. Al fratello
l’oratore replica osservando: Pompeium vero quod una ista in re non it a
valde probas, vix satis mihi illud videris attendere non solum ei quid esset
optimum videndum fuisse, sed etiam quid necessarium. Sensit enim deberi non
posse huic civitati illam potestatem; quippe quam tanto opere populus noster
ignotam expetisset, qui posset carere cognita? Sapientis autem civis fuit,
causam nec perniciosam et ita popularem ut non posset obsisti, perniciose
populari civi non relinquere.
Su Sertorio e le vicende della resistenza democratica in
Spagna (fonti principali P LUT ., Vite di Pompeo e di Sertorio;
A PPIAN ., Bell. civ. I 108 sgg.), v. specialmente A. S CHULTEN ,
Sertorius, Leipzig 1926.
160
Sulla ripresa della guerra mitridatica e sulla personalità d i
Lucullo, v. K. E CKHARDT , Die armenischen Feldzüge des Lucullus, in
“Klio” IX (1909) pp. 400-412 e X (1910) pp. 72-115 e 192-231; J.J.
VAN O OTEGHEM , Lucius Licinius Lucullus, Bruxelles 1959.
Sulle rivolte degli schiavi e dei gladiatori, e in particolar e
sulla figura di Spartaco, v. G. R ATHKE , De Romanorum bellis servilibus
capita selecta, Berlin 1904, S.J. K OVALEV - A.A. M OTUS , in “Vestn.
Drevn. Istor.’’ II (1956) e III (1957), J.P. B RISSON , Spartacus, Paris
1959; B. D OER , Spartacus, in “Altertum” VI (1960) t p 217 sgg.
Sugl’inizi della carriera politica di Pompeo, M. G ELZER , Cn.
Pompeius Strabo und der Aufstieg seines Sohnes Magnus, in “Abhandl.
Berlin. Akad.”, Philos.-Hist Klasse, 1941, I D ., Pompeius, München
1949 2 ; su Crasso, oltre D RUMANN -G ROEBE , Geschichte Roms, cit. IV,
p. 84 sgg., cfr. A G ARZETTI , in “Athenaeum” XIX,1941, pp.1-37;
XX, 1942, pp. 12-40; XXII-XXIII, 1944-5, pp. 1-62.
Sulle imprese di Pompeo in Oriente, P. G ROEBE , Zum
Seeräuberkriege des Pompeius Magnus (67 v. Chr.), in “Klio” X, 1910, p.
374 sgg.; G.C. A NDER SON , Pompey’s campaign against Mithridates, in
“Journ. Hell. Stud.’’ XII (1922) p. 99 sgg.; D. M AGIE , Roman rule in
Asia Minor, Princeton 1950, I, p. 351 sgg.; II, p. 1220 sgg.; G.
V ITUCCI , Gli ordinamenti costitutivi di Pompeo in terra d’Asia, in “Rend.
Acc. Lincei”, ser. VIII, vol. lI, 1947.
Sull’ammontare del bottino e delle nuove entrate procurate al
bilancio statale dalle imprese di Pompeo, notizie particolareggiate e
sostanzialmente attendibili riportano P LIN ., Nat. hist. XXXVII 16;
P LUT ., Pomp. 45, 3; A PP ., Mithr. 116. Dopo aver distribuito al suo
esercito, fra ufficiali e soldati, 384 milioni di sesterzi (A PP ., l.c.:
“16 mila talenti”), Pompeo versò una somma altrettanto ingente
nelle casse dello Stato, e, con i tributi imposti in Oriente, portò le
entrate annue da 200 a 340 milioni di sesterzi (P LUT ., l.c.).
161
IX
Il declino della repubblica
e la monarchia di Cesare.
1. Le ambizioni di Crasso e gl’inizi di Cesare. Durante gli sviluppi sempre più favorevoli della
campagna in Oriente, il corso delle vicende politiche
in Roma non poteva certamente ignorare
l’irresistibile ascesa di Pompeo, anzi si svolse in
buona parte nell’aspettativa del suo ritorno. A quali
nuove mète avrebbe egli indirizzato la sua ambizione
e la sua ineguagliabile potenza? Ne erano
impensieriti sia la oligarchia nobiliare, nel timore
che potesse verificarsi una crisi dell’equilibrio
costituzionale, sia coloro che di tale equilibrio non
si preoccupavano se non per romperlo a proprio
favore, in primo luogo Marco Licinio Crasso.
Sfumata la momentanea convergenza stabilitasi
al tempo delle elezioni consolari per l’anno 70,
Crasso aveva cercato in vario modo di ostacolare le
fortune di Pompeo, e la sua azione si era fatta più
scoperta soprattutto durante l’assenza del rivale.
Ebbe per qualche tempo l’appoggio di Gaio Giulio
Cesare, il giovane patrizio che, ricco di
un’antichissima nobiltà, ma sprovvisto di mezzi
necessari a contendere con gli altri nobili nella gara
dei pubblici onori, si era volto alla parte popolare
carezzandola con atteggiamenti che avevano
suscitato l’entusiasmo dei nostalgici di Mario. Crasso
poteva fornire a Cesare il denaro indispensabile per
162
coltivare il favore delle masse, Cesare poteva attirare
su Crasso quella popolarità che, con tutte le
elargizioni, egli non era in grado di cattivarsi da
solo. Nel 65, mentre Cesare come edìle curule
mandava in visibilio il popolino con l’offerta di ludi
di grandiosa magnificenza, Crasso faceva avanzare
dai tribuni una proposta in base alla quale gli veniva
conferito l’imperium con l’incarico di procedere
all’annessione dell’Egitto, lasciato in eredità al
popolo romano da Tolomeo XI Alessandro II
(morto nell’80), ma rimasto in possesso di Tolomeo
XII Aulete. Un simile comando in Egitto avrebbe
potuto in qualche modo bilanciare la potenza di
Pompeo, ma la proposta cadde per l’opposizione sia
degli ottimati sia degli equites, fedeli a Pompeo, e
allora Crasso puntò sulla carta di Catilina,
sostenendone le sue aspirazioni al consolato.
Di antica casata patrizia, Lucio Sergio Catilina
aveva anch’egli a suo tempo approfittato delle
proscrizioni sullane per costituirsi una fortuna ma,
al contrario di Crasso, l’aveva completamente
dilapidata, ed ora cercava con ogni mezzo di
rimettersi in sesto. Dopo la pretura, rivestita
nell’anno 68, aveva tenuto per due anni il governo
della provincia d’Africa, ma suscitando con la sua
rapacità tali lamentele che il console presidente dei
comizi non lo ammise come candidato al
supplemento di elezioni consolari che nell’ottobre
del 66 si tennero per il 65. Le precedenti elezioni, in
quell’anno 66, si erano svolte all’insegna della più
sfacciata corruzione, tanto che ai due eletti fu
vietato di entrare in carica ed essi vennero sostituiti
dai due competitori che li avevano accusati e che
risultarono poi eletti nelle elezioni supplementari.
163
Per togliere di mezzo costoro fu imbastita una
congiura che, se anche non ebbe attuazione, mise
peraltro in chiara luce le intenzioni sovversive di
Catilina, uno dei suoi principali artefici. Si disse che
dietro a questi torbidi si agitava l’ombra di Crasso,
ma non è certo, mentre è un fatto che nel 64 egli si
diede a sostenere la candidatura di Catilina al
consolato dell’anno 63, sperando di farne strumento
delle sue mire.
Ma anche questa volta la sua manovra era
destinata al fallimento. I precedenti lontani e vicini
di Catilina erano tali, che la nobiltà era a ragione
impensierita di ciò che poteva accadere quando egli
avesse avuto in mano le leve della suprema
magistratura e allora, in mancanza di meglio, si
decise ad appoggiare la candidatura di un homo novus,
di Cicerone, che sia pure per pochi voti riuscì a
battere Catilina. Deluso nei suoi piani, Crasso cercò
di aprirsi un altro spiraglio facendo avanzare nel 63
dal tribuno Publio Servilio Rullo una proposta di
legge per una larghissima distribuzione di terre in
favore dei cittadini non abbienti; della distribuzione
doveva occuparsi un collegio di decemviri muniti di
imperium straordinario per la durata di cinque anni.
Era chiaro che Crasso, a capo di questo decemvirato
e con l’appoggio di Cesare, sarebbe stato in grado
non solo di aspettare tranquillamente il ritorno di
Pompeo, ma di costringerlo a venire a patti quando
avesse chiesto terre per i suoi veterani. Ma la
proposta, avversata tra l’altro anche dal console
Cicerone (che nel 65 si era ugualmente battuto
contro la concessione del comando straordinario in
Egitto), non fu nemmeno messa ai voti; e mentre
Crasso si rassegnava ad abbandonare le sue mene, e
164
Cesare si adoperava con ogni mezzo per mantener
vive le sue simpatie presso il popolo, l’Urbe fu
percorsa dal brivido della congiura catilinaria.
2. La congiura di Catilina e l’effimero trionfo di
Cicerone. - Nell’estate del 63 Catilina aveva
ripresentato la candidatura al consolato per l’anno
appresso con un nebuloso programma di
rivendicazioni economiche giovevoli, più che ai ceti
popolari, a quanti come lui desideravano pescare nel
torbido della politica per rifarsi una fortuna.
Vivacemente contrastato da Cicerone, e ancora una
volta battuto alle elezioni, Catilina decise di farsi
largo ad ogni costo e, d’accordo con alcuni nobili
della sua risma, ordì le fila di una cospirazione per
impadronirsi del potere attraverso una serie di azioni
terroristiche a cominciare dall’assassinio di
Cicerone. Ma questi teneva gli occhi ben aperti e,
denunciata la congiura in senato, ne ottenne il
decreto che lo autorizzava ad agire per salvare dal
pericolo lo Stato. Non avendo però elementi sicuri
per procedere immediatamente contro Catilina,
Cicerone lo attaccò alcuni giorni dopo in senato con
una celebre invettiva (la Prima catilinaria) e lo
costrinse ad allontanarsi da Roma (novembre 63).
Mentre Catilina raggiungeva a Fiesole le bande
armate che un altro dei cospiratori stava
apprestando per marciare su Roma, rimanevano in
città gli altri capi della congiura; lasciati indisturbati,
costoro continuarono audacemente a tramare e si
prepararono a passare all’azione. Ma le loro mosse
erano attentamente controllate dal console, il quale
questa volta raggiunse prove più concrete e non
165
indugiò ad arrestarli e a farli riconoscere colpevoli
dal senato.
Convocato ancora il senato perché stabilisse
sulla loro sorte (evidentemente, Cicerone voleva
sottrarsi all’odiosità di un provvedimento che certo
auspicava e, come console, avrebbe potuto
senz’altro prendere egli stesso), sulla tesi più
benevola e insieme più legalitaria sostenuta da
Cesare, che proponeva di evitare i pericoli di una
deliberazione troppo affrettata ed eccepiva
l’incompetenza dei senatori a giudicare i congiurati,
prevalse quella più intransigente propugnata da
Catone. Per i prigionieri fu la pena di morte, che
venne eseguita immediatamente (dicembre 63); un
paio di mesi dopo le bande armate, con Catilina alla
testa, venivano sterminate presso Pistoia.
L’homo novus Cicerone aveva reso un buon
servigio all’oligarchia degli ottimati e ai ricchi
cavalieri liberandoli dalla minaccia di una
sovversione economica; ne ebbe molte lodi e più
ancora se ne diede, ma in fondo non era stato che
un episodio di secondaria importanza. Tempi ben
più duri si preparavano per la vita della repubblica, e
al timone sarebbe occorso un polso assai più fermo
del suo.
3. Dal ritorno di Pompeo al “primo triumvirato”. Chiave di volta della situazione politica fu il ritorno
di Pompeo alla fine del 62, anche se l’evento tanto
atteso, e dai potenti tanto temuto, si svolse in
maniera così diversa da quella immaginata. Sbarcato
in Italia, il grande conquistatore che aveva avuto ai
suoi piedi l’Oriente licenziò l’esercito e si presentò
in Roma accompagnato solo da una piccola scorta
166
per chiedere al senato l’onore del trionfo: tutto
secondo le regole dell’ossequio più stretto alla
costituzione nobiliare. Sembrava quasi incredibile
che Pompeo, anzi Pompeo Magno, venisse a
sottoporre disciplinatamente i suoi desideri, e forse
anche per questo si delineò fra i senatori un
atteggiamento di superba freddezza, che li ripagava
delle ansie provate al pensiero di ciò che poteva
accadere al suo ritorno. Alla richiesta di approvare
gli atti da lui emanati in Oriente e di assegnare terre
ai veterani essi risposero di no, e a Pompeo non
rimase che pentirsi di aver troppo presto congedato
le legioni, e attendere il momento della rivincita.
Non dovette attendere a lungo. Nell’anno 60
Cesare aveva posto la candidatura al consolato per il
59 ed era riuscito eletto grazie a quel favore
popolare che mai l’aveva abbandonato. La
consorteria nobiliare, che aveva cercato invano di
contrastargli il passo, corse ai ripari facendogli
assegnare dal senato, come incarico da svolgere nel
58 in qualità di proconsole, quello di governare “le
foreste e i sentieri” (S UET ., Iul. 19), un modo anche
ingiurioso di precludergli ogni campo di azione una
volta finito il consolato. Ma Cesare non era uomo da
lasciarsi scoraggiare e, per parare il colpo, si rivolse
a Pompeo chiedendogli l’appoggio della sua
influenza e promettendogli in cambio di fargli
ottenere quella ratifica dei suoi atti in Oriente che il
senato gli aveva negato. L’accordo fu suggellato dal
matrimonio fra Pompeo e Giulia, figlia di Cesare, e
poco dopo fu allargato con l’adesione di Crasso,
anch’egli in urto col senato.
Era il “primo triumvirato”, come si suol dire
con termine poco preciso riprendendo la
167
denominazione di quello posteriore di Lepido,
Antonio e Ottaviano, che fu invece un potere
triumvirale legalmente costituito. Forte di questi
appoggi segretamente pattuiti, Cesare pose mano
senza indugio a realizzare un ampio programma. Tra
l’altro, furono ratificati gli atti di Pompeo, fu
diminuito (secondo il desiderio di Crasso e dei
cavalieri) il canone per l’appalto delle imposte che si
riscuotevano dalla provincia d’Asia, fu autorizzata la
distribuzione di terre ai proletari e ai veterani di
Pompeo. Di poi, con una legge proposta dal tribuno
Publio Vatinio, Cesare ottenne per un quinquennio
un imperium proconsolare: era proprio quello che più
gli stava a cuore per evitare di trovarsi ridotto
all’inazione al termine del consolato.
Inoltre, per esser più sicuro di lasciarsi alle
spalle una situazione favorevole quando avrebbe
dovuto partire da Roma, si preoccupò di allontanare
dal senato i principali esponenti dei conservatori,
Cicerone e Catone. A questo scopo si avvalse
dell’opera di Publio Clodio, un mestatore ambizioso
e violento che s’era messo al servizio dei triumviri e
odiava mortalmente Cicerone. Eletto tribuno per
l’anno 58, Clodio fece passare una legge che
comminava l’esilio a chi avesse messo a morte
cittadini romani senza che fossero stati condannati
in un regolare processo. Era chiaro il riferimento a
colui che, come console, aveva provocato
l’esecuzione sommaria dei congiurati catilinari, e
Cicerone dovette rassegnarsi a partire da Roma.
Qualche mese prima Catone era stato invece
allontanato con l’incarico (fattogli conferire ancora
da Clodio) di provvedere all’annessione dell’isola di
168
Cipro, che era in potere di un fratello di Tolemeo
Aulete.
Così per opera di Cesare l’autorità del senato, e
quindi il predominio dell’oligarchia, aveva subìto un
colpo irreparabile, ed egli poteva intraprendere
quell’instancabile e multiforme attività destinata a
farne una delle più grandi personalità di ogni tempo.
4. Le prime campagne di Cesare nelle Gallie. - Il
campo d’azione che Cesare si era fatto assegnare con
la
legge
Vatinia
per
esercitare
l’imperium
proconsolare era l’Illirico e la Gallia Cisalpina (cioè
l’Italia a nord della linea Arno-Rubicone). Questo,
dunque, era l’ambito entro il quale sperava di
compiere qualche fortunata impresa militare per
accrescere il suo prestigio personale. L’accordo con
Pompeo e Crasso, che gli aveva consentito di
spiccare il volo, poteva venir meno da un momento
all’altro, ed era urgente costituirsi una posizione di
forza per affrontare con la maggiore libertà di
movimenti i futuri sviluppi della lotta politica. In un
primo tempo fu l’Illirico ad attirare la sua
attenzione: una campagna vittoriosa che avesse
esteso la signoria di Roma nelle regioni danubiane
sarebbe stata impresa tale da assicurargli la
desiderata base di potenza. Poi, avendo per decreto
del senato ottenuto in aggiunta a quelli della legge
Vatinia anche il proconsolato della Narbonese, il suo
interesse si spostò verso la Gallia, dove movimenti
migratori e conflitti tra Celti e Germani avevano
prodotto uno stato di pericolosa tensione.
Scegliendo la via della Gallia e dando inizio a
un’azione che nel corso di otto anni condusse a
inserire stabilmente e attivamente quel paese
169
nell’orbita della civiltà romana, Cesare si acquistava
dinanzi alla storia uno dei più grandi titoli di merito.
L’impresa, di per sé ardua, fu resa ancor più difficile
dalla necessità di seguire attentamente l’evolversi
dalla situazione politica in Roma. Infatti questa a un
certo momento si complicò al punto da mettere in
pericolo il buon esito di tanti sforzi, ma Cesare
riuscì a rattopparla quanto bastava a consentirgli di
proseguire nella sua azione, poi, quando la crisi
scoppiò insanabile, la conquista della Gallia era
compiuta ed egli ormai pronto al duello finale.
Nella primavera del 58, all’arrivo di Cesare, la
provincia Narbonese era minacciata d’invasione da
parte degli Elvezi, che si stavano spostando verso
occidente alla ricerca di nuove terre. Dopo averli
battuti e costretti a rientrare in gran parte nelle loro
sedi, Cesare si rivolse contro Ariovisto, il re della
gente germanica degli Svevi, che da oltre dieci anni
si era insediato in Gallia angariando le popolazioni
celtiche dei Sequani e degli Edui. Anche questa
campagna si concluse rapidamente nello stesso anno
58: fallito un tentativo di accordo, Ariovisto fu
sconfitto e obbligato a ripassare il Reno, e con
questo Cesare si assicurava il favore e l’alleanza
degli abitanti della Gallia centrale. La sua azione
destava però l’ostilità delle bellicose tribù belgiche,
stanziate nelle regioni settentrionali della Gallia, e
poi quella degli Aremòrici, siti nella Gallia nordoccidentale; le une e gli altri furono debellati con le
campagne del 57 e del 56. Il bilancio di questo
primo ciclo di operazioni era certamente positivo,
ma parlare di un’avvenuta conquista della Gallia era
almeno prematuro; se Cesare scrisse a Roma di
prepararsi all’annessione della nuova provincia,
170
dovette farlo per rafforzare la sua posizione di
fronte alla crisi politica che si era determinata.
5. Torbidi in Roma. Rinnovamento dell’intesa fra i
“triumviri”. - Dopo la partenza di Cesare, in Roma si
era sviluppato un movimento favorevole al richiamo
di Cicerone dall’esilio. Lo stesso Pompeo
l’appoggiava, ma l’avversava il tribuno Clodio,
sempre animato da un odio inestinguibile verso
l’oratore. Il facinoroso mestatore, anzi, alla testa
delle sue bande armate mise Roma a soqquadro con
una serie di atti terroristici, ma Pompeo ne rintuzzò
la violenza contrapponendogli un’altra banda
assoldata dal fido Tito Annio Milone, tribuno della
plebe per il 57. In questo clima di sanguinosi
disordini fu approvato per legge il ritorno di
Cicerone, il quale si rituffò ben presto nella politica
raccomandando al senato il conferimento a Pompeo
di un imperium proconsolare per cinque anni, con
l’incarico di curare l’approvvigionamento dell’Urbe,
afflitta da una grave carestia.
Pompeo, che aspirava piuttosto a un comando
che gli permettesse di emulare le imprese di Cesare e
vedeva ora aprirsi la via di un’intesa con il senato,
chiese l’incarico di rimettere sul trono di Egitto
Tolemeo Aulete, che da poco era stato spodestato
da lotte di palazzo, ma il senato disse di no, a lui
come a Crasso, che aveva avanzato la stessa
richiesta. Dunque, i “triumviri” cominciavano ad
essere in contrasto e il senato ne approfittava per
alzare la testa: troppo grave era la situazione che si
delineava perché Cesare non si affrettasse ad
abbandonare per un momento le sue legioni e a
171
combinare un incontro con Pompeo e Crasso per
rinsaldare i vincoli della vecchia collaborazione.
Il convegno ebbe luogo a Lucca nel 56 e, grazie
all’abilità di Cesare, fu ristabilita la concordia con
l’intesa di riportare al consolato per l’anno 55 la
coppia Pompeo-Crasso; debellata in tal modo
l’opposizione nobiliare, i tre si sarebbero divise le
parti
assicurandosi
ciascuno
un
comando
straordinario. Nonostante i tentativi di resistenza
della nobiltà, che provocò un susseguirsi di
tumultuose agitazioni, il responso delle urne fu
favorevole a Pompeo e Crasso, i quali posero subito
mano a realizzare gli accordi dell’anno prima. Su
proposta del tribuno Gaio Trebonio fu conferito a
Crasso un comando quinquennale sulla Siria per
agire contro i Parti, a Pompeo un comando
quinquennale nelle due Spagne; quindi i due consoli
in persona fecero approvare una legge che
prolungava per cinque anni (fino al 50) i poteri
proconsolari di Cesare.
Pure in sua assenza, il piano di Cesare era
pienamente riuscito, ed egli poté concentrarsi nella
impresa gallica mentre Crasso, alla fine del 55,
partiva per la sua spedizione in Oriente; Pompeo,
che al termine del consolato aveva preferito non
allontanarsi troppo da Roma, si dedicava
personalmente all’incarico degli approvvigionamenti
annonari, lasciando governare le Spagne da suoi
fiduciari.
6. Conquista e romanizzazione delle Gallie. - Nel 56
Cesare aveva progettato di compiere l’anno appresso
una spedizione in Britannia per troncare le relazioni
tra quei popoli e le vicine tribù d’Oltremanica, che
172
ne ricevevano incitamenti e aiuti per scuotere il
giogo romano. Sopravvenne però l’invasione della
Gallia settentrionale da parte dei germani Usìpeti e
Tèncteri, e il proconsole dové impegnarsi con tutte
le forze per respingerli al di là del Reno. Passato
anch’egli il fiume, ma solo per una breve azione
dimostrativa in terra germanica, al ritorno prese il
mare con due legioni e sbarcò in Britannia nei pressi
di Dover (agosto 55). Ma l’autunno era alle porte, la
flotta aveva subìto danni dalle tempeste, e dopo
poche settimane a Cesare non rimase che ripassare il
Canale col proposito di rinnovare l’impresa al
ritorno della buona stagione. Nel giugno del 54
sbarcò nuovamente nell’isola con cinque legioni e
riuscì ad addentrarsi nel paese battendo le forze del
re Cassivellàuno e occupandone la capitale al di là
del Tamigi. Ma non era nemmeno da pensare ad una
conquista duratura. Per questa sarebbe stato
necessario permanere a lungo nell’isola e disporre di
basi sicure nella Gallia settentrionale; quivi invece
proprio allora cominciava a divampare l’incendio
della rivolta antiromana. Cesare s’affrettò a
reimbarcare le legioni per ricondurle nel continente,
ad
intraprendere
immediatamente
la
lotta
soprattutto contro gli Eburoni e i Treviri, che
furono battuti nel 53.
Assai più grave fu la sollevazione capeggiata
l’anno dopo da Vercingetorige, giovane principe
degli Arverni, intorno al quale si raccolsero da ogni
parte tutte quelle forze che aspiravano a scuotere il
dominio o l’ingerenza romana. Cesare, che era
venuto a svernare nella Cisalpina per seguire più da
vicino gli sviluppi della politica in Roma, dovette
affrettarsi a ripassare in pieno inverno le Alpi e,
173
ricongiuntosi col grosso delle truppe, mosse alla
volta di Gergovia, la capitale degli Arverni, alla
ricerca delle forze di Vercingetorige. In un primo
scontro questi ebbe la meglio, ma in una successiva
battaglia presso Alesia fu gravemente battuto e
costretto a rinchiudersi nella città. Mentre stringeva
Alesia entro la morsa di un vallo trincerato, Cesare
dovette fronteggiare le ingenti forze che
accorrevano in aiuto degli assediati e, invece di
sloggiare, cinse il suo schieramento di un’altra linea
fortificata al riparo della quale rimase insieme
assediatore e assediato. Falliti numerosi assalti, le
forze celtiche desistettero dai loro tentativi e si
sbandarono
abbandonando
al
suo
destino
Vercingetorige, che poco dopo (settembre del 52) fu
costretto ad arrendersi per fame.
Privi di un capo di riconosciuta autorità, i Galli
non erano più in grado di sviluppare un’azione
efficace; seppure fu necessario ancora un anno di
guerra per spegnere gli ultimi focolai di resistenza,
l’impresa poteva considerarsi felicemente compiuta,
e la Gallia, grazie anche alle miti condizioni di pace,
s’avviò a un rapido processo di romanizzazione.
7. Fine di Crasso e inizio della lotta fra Cesare e
Pompeo. - Nel frattempo, con la scomparsa di Crasso
e il graduale passaggio di Pompeo sulle posizioni del
senato, dell’equilibrio raggiunto con gli accordi di
Lucca non restava più traccia, e la situazione politica
precipitava a grandi passi verso la rottura.
Crasso era partito per la Siria con la speranza
che il suo intervento nella contesa dinastica allora in
atto nel regno dei Parti si traducesse in una brillante
campagna, capace di dare anche a lui quella gloria
174
militare di cui godevano Pompeo e Cesare. Ma la
spedizione si risolse nel più completo disastro e,
nell’estate del 53, disfatto presso Carre, egli perdette
la vita insieme con la maggior parte dei suoi uomini.
Quanto a Pompeo, sulle prime egli si tenne in
disparte dai contrasti delle fazioni lasciando che
Roma cadesse sempre più in preda dei disordini
causati dalle opposte bande di Clodio e Milone.
Quando le violenze culminarono nell’uccisione di
Clodio, lui solo era in grado di mettere fine al caos
con le forze di cui disponeva, e tale fu appunto la
richiesta che il senato si vide costretto a rivolgergli.
Accettandola, Pompeo diventava lo strumento
della politica nobiliare di opposizione alle forze
democratiche, ma nello stesso tempo il senato
doveva rassegnarsi a subire la prepotente ambizione
di Pompeo che, eletto consul sine collega per il 52 in
spregio alle norme costituzionali, accumulava nelle
sue mani una somma di poteri senza precedenti.
Così, mentre le ultime speranze dei popolari si
rifugiavano nel ritorno di Cesare, Pompeo e il
senato concentravano i loro sforzi per spogliare
Cesare di ogni potere alla scadenza ormai prossima
del suo proconsolato. Esisteva una legge fatta votare
da tutti e dieci i tribuni dell’anno 52 che,
concedendo a Cesare di presentare la sua
candidatura al consolato pur essendo lontano da
Roma a capo del suo esercito, gli avrebbe dato la
possibilità di assumere i poteri di console appena
scaduti quelli di proconsole; Pompeo ne fece votare
un’altra secondo la quale le candidature dovevano
esser poste in Roma di persona. Inoltre, nella
eventualità che Cesare riuscisse comunque a
conseguire l’elezione al secondo consolato, Pompeo
175
si adoperò per impedire che egli potesse poi
ottenere subito dopo un nuovo comando
proconsolare, e fece passare una legge in base alla
quale i consoli potevano esercitare un comando
proconsolare solo cinque anni dopo aver rivestito il
consolato. Nello stesso tempo, il senato prorogava
per altri cinque anni, cioè fino al 47, l’imperium di
Pompeo. Contro quest’azione metodica, nulla
avevano potuto i filocesariani di Roma, e quando
arrivò l’anno cruciale, il 50, tutto faceva prevedere la
fine della potenza di Cesare, ritornato privato
cittadino e ridotto alla mercé dei suoi potenti
avversari.
Ma nella lotta politica Cesare era stratega
valente non meno che sui campi di battaglia. Seppe
abilmente attirarsi dalla sua uno dei tribuni, Gaio
Scribonio Curione, già suo fiero nemico, dal quale
fece avanzare una proposta equilibrata e
ineccepibile: per uscire dalla crisi dovevano essere
aboliti i comandi straordinari, quello di Cesare,
dunque, ma anche quello di Pompeo. Essendo nota
l’avversione di Curione per Cesare, era naturale che
di tale proposta sfuggisse sulle prime il lato
favorevole a Cesare; comunque essa fu caldeggiata
da tutti quelli (ed erano la maggioranza) che
desideravano scongiurare il pericolo di una guerra
civile, e sulle prime il senato si pronunciò a
larghissima maggioranza nel senso che i due
proconsoli dovessero deporre i loro comandi. Ma
subito dopo, diffusasi forse ad arte la notizia che
Cesare marciava su Roma, prese il sopravvento la
fazione anticesariana più intransigente e fu preclusa
la via ad ogni soluzione di compromesso.
176
Verso la fine di dicembre, stando ancora a
Ravenna, Cesare inviò al senato una lettera nella
quale si dichiarava disposto a deporre il comando se
anche Pompeo lo avesse fatto, altrimenti avrebbe
saputo provvedere a sé e alla repubblica. Questa
espressione minacciosa ebbe l’effetto che il senato
s’irrigidì nella richiesta che Cesare fosse privato del
suo imperium, e avendo i tribuni Marco Antonio e
Quinto Cassio Longino tentato di intervenire con il
loro veto, non solo ne furono impediti con la
violenza, ma si proclamò lo stato di emergenza.
Incaricati i consoli di prendere gli opportuni
provvedimenti, il giorno dopo si conferivano a
Pompeo i più larghi poteri mentre Cesare, appresa la
decisione degli avversari, non esitava ad entrare in
azione e “gettava il dado” passando il Rubicone ed
entrando in armi nel territorio della repubblica
(gennaio 49).
Era il primo atto di una guerra in cui culminava
l’annoso contrasto fra le forze democratiche e quelle
del conservatorismo manovrate dall’oligarchia
senatoria,
e
questa
considerazione
attenua
grandemente le responsabilità di Cesare. La lotta da
lui scatenata era infatti destinata a concludersi col
definitivo superamento di un regime che aveva dato
buona prova nel governo di uno Stato-città, ma era
inadatto, anzi contrario, ad allargare le sue basi di
pari passo con l’espansione territoriale, chiamando
alla collaborazione anche le fresche energie della
borghesia municipale e provinciale. E se, alla fine,
dal dominio di un’oligarchia la repubblica cadde nel
dominio di uno solo, ed ebbe inizio la lunga serie
dei Cesari, ciò non fu solo per sua colpa. Lo
affermarono gli storici romani (generalmente di
177
tendenze conservatrici) nel nostalgico rimpianto
della libertà repubblicana, ma della fine di questa
libertà erano anche responsabili coloro che
l’avevano voluta mantenere un privilegio di pochi.
8. Dal Rubicone alla morte di Pompeo. - La mossa
di Cesare colse di sorpresa il senato e soprattutto
Pompeo, sulle cui spalle gravava il compito di
difendere le istituzioni. Nella previsione, forse, che
Cesare non avrebbe osato passare così presto
all’azione, Pompeo non aveva richiamato nessuna
delle legioni di Spagna, che erano tutte ai suoi
ordini, né aveva fatto preparativi di sorta. Pertanto
da contrapporre alla legione con cui Cesare era
partito da Ravenna non si trovavano in Italia che
due legioni accampate a Capua, ma queste fino
all’anno prima avevano militato in Gallia, e non
v’era da illudersi che si sarebbero impegnate contro
il loro antico comandante. In queste condizioni,
mentre Cesare con marcia travolgente scendeva
attraverso l’Italia centrale, a Pompeo non rimaneva
che decidere, assai opportunamente, di sgombrare
da Roma e poi dall’Italia. A Brindisi ebbero
rapidamente inizio le operazioni d’imbarco dei
maggiorenti anticesariani, con alla testa i consoli, e
per quanto Cesare s’affrettasse a marce forzate non
riuscì a impedire, anche per mancanza di una flotta,
la felice conclusione della ritirata strategica di
Pompeo.
Questi aveva stabilito di raggiungere i paesi
greco-orientali, ancora risonanti delle sue gesta
vittoriose, ove sarebbe stato agevole raccogliere in
gran copia gli uomini e i denari necessari per
organizzare la riscossa attraverso un’azione
178
combinata con le legioni di Spagna. A Cesare, però,
era rimasta l’Italia con la possibilità di arruolarvi
esperti ufficiali e soldati di ben altra capacità, senza
dire delle legioni che già erano affluite dalla Gallia,
ed egli riprese subito l’offensiva rivolgendosi contro
le forze pompeiane in Spagna. Naturalmente, si
fermò prima alcuni giorni a Roma per assicurarsi il
controllo della situazione, e fra le prime cose si fece
autorizzare dal senato (composto di quei pochi che
non avevano seguito Pompeo) ad attingere
largamente dal pubblico tesoro.
Ben nove erano le legioni di stanza in Spagna
agli ordini di Pompeo, e non fu facile piegare la
resistenza di quelle truppe agguerrite. La campagna
si complicò anche perché Cesare volle assicurarsi le
spalle occupando Marsiglia, che da un momento
all’altro poteva trasformarsi in una base nemica, e
poiché i Massalioti erano decisi a mantenersi neutrali
fu necessario un assedio di alcuni mesi per
espugnarla.
Disciolte le forze pompeiane in Spagna, Cesare
rientrò a Roma alla fine di quell’anno 49 e rivestì la
dittatura che il pretore Marco Emilio Lepido, uno
dei suoi principali fautori, gli aveva fatto conferire
quando si trovava ancora a Marsiglia. Con tali poteri
in appena undici giorni realizzò un notevole
programma di distensione (richiamo di esiliati
politici, alleviamento di debiti), convocò i comizi
che lo elessero console per il successivo anno 48 e,
dopo aver abdicato dalla dittatura, raggiunse a
Brindisi l’esercito che si preparava ad imbarcarsi per
l’Oriente.
Pompeo aveva posto il quartier generale a
Tessalonica (Salonicco) e s’era dato a concentrare
179
ingenti forze, anche di mare, che tenevano sotto
controllo le acque dell’Adriatico. Piuttosto modesta
era la flotta che Cesare aveva racimolato e la
stagione non adatta alla navigazione, ma di questi
elementi a sfavore egli seppe trarre profitto per un
ardito colpo, e ai primi di gennaio del 48 riuscì a
sbarcare inosservato con sette legioni presso Orico
(Paleocastro, in Albania). Occupata la vicina
Apollonia, mosse contro Dirrachio (Durazzo), ma
Pompeo, avvertito tempestivamente, si affrettò ad
accorrere e a presidiare la città accampandosi nelle
vicinanze. A questo punto la posizione di Cesare
cominciò a divenire ogni giorno più difficile: circa
una metà dell’esercito era rimasta sull’altra sponda
dell’Adriatico incapace di violare il blocco, le
vettovaglie scarseggiavano, e fu fortuna che Pompeo
si mantenesse sulla difensiva, sicuro com’era di aver
ragione dell’avversario senza bisogno di affrontarlo.
In primavera arrivarono i sospirati rifornimenti e
rinforzi; anche le altre legioni erano riuscite a
passare il mare, e Cesare tentò di portare un attacco
a fondo alle posizioni nemiche ma fu duramente
respinto. Allora si ritirò in direzione della Tessaglia
per ristorare l’esercito, seguito da Pompeo che
continuava a lasciargli l’iniziativa limitandosi a
controllarne le mosse.
Ma questa condotta passiva creò un grande
nervosismo fra i pompeiani che alla fine imposero al
loro duce di non sottrarsi ulteriormente a una prova
decisiva. Lo scontro avvenne nell’agosto a Farsàlo, e
l’ardore dei legionari cesariani ebbe la meglio sulle
schiere contrapposte, più numerose ma meno
affiatate. Delineatasi la disfatta, Pompeo abbandonò
il campo e con una piccola scorta raggiunse Mitilene
180
donde salpò per l’Egitto. Quivi sperava di trovar
riparo presso Tolemeo XIII, figlio del suo protetto
Tolemeo Aulete, ma i ministri del re giudicarono
ugualmente pericoloso sia l’accoglierlo, nel timore di
compromettersi con Cesare, sia il respingerlo, nel
timore che si rivolgesse a Cleopatra, la sorella e
rivale di Tolemeo, e appena Pompeo fu sbarcato a
Pelusio lo fecero assassinare.
9. Il potere monarchico di Cesare e le idi di Marzo. Una fine così imprevedibile del grande duello con
Pompeo giovava certamente a Cesare, che vedeva di
colpo sparire l’unica personalità capace di cementare
la coalizione avversaria, ma più ancora giovò a
Roma per emergere più presto dal flagello della lotta
fratricida, anche se gli strascichi della guerra furono
ancora più sanguinosi.
Arrivato ad Alessandria poco dopo la morte di
Pompeo, Cesare s’intromise nella contesa dinastica
tra Tolemeo e Cleopatra risolvendola a favore di
quest’ultima, di cui s’era invaghito. I partigiani di
Tolemeo
provocarono
però
un’insurrezione
popolare che lo ridusse a mal partito, costringendolo
ad asserragliarsi con i suoi uomini nella reggia, e
solo parecchio tempo dopo, ricevuti i rinforzi, poté
imporre il rispetto della sua volontà.
Anche troppi erano stati i nove mesi di
permanenza in Egitto, e ora Cesare dové accorrere
in Asia Minore ove Farnace del Ponto, figlio di
Mitridate, stava rinnovando le clamorose gesta del
padre mettendo in pericolo con le sue conquiste i
domini romani. Fu una campagna-lampo, e dopo la
vittoria di Zela (nel Ponto, agosto del 47) Cesare ne
diede notizia al senato col celebre veni, vidi, vici.
181
Era tempo, ormai, di rientrare in Roma, ove la
sua presenza era richiesta per ristabilire l’ordine
turbato dalle mene di alcuni demagoghi. Occorreva
anche restaurare la disciplina fra le truppe che
Marco Antonio stava radunando in Campania per la
prossima spedizione contro i pompeiani d’Africa, e
anche questo riuscì facile al grande prestigio di
Cesare, sicché alla fine dell’anno 47, cessata la
seconda dittatura ed eletto console per la terza
volta, poté imbarcarsi da Lilibeo.
In Africa la fazione senatoria e gli anticesariani
in genere, grazie anche all’appoggio di Giuba, re
della Mauretania, avevano raccolto forze notevoli
con alla testa uomini di gran nome come Quinto
Cecilio Metello Scipione e Marco Porcio Catone, ma
ad esse difettava l’unità di comando. Cesare le
disfece con la vittoria di Tapso (aprile 46); non
molti scamparono rifugiandosi in Spagna, i più
perirono e fra questi Catone, che per non cadere
nelle mani del vincitore si tolse la vita a Utica
(Catone Uticense) e fu poi esaltato nei secoli come
martire della libertà e contrapposto a Cesare
“tiranno”. La contrapposizione vera, però, era
ancora una volta in seno alla stessa nobilitas fra la
tendenza ciecamente conservatrice e quella
innovatrice, fra un vecchio e un nuovo ideale
politico, cui il pensiero greco offriva l’etichetta
rispettivamente della “fermezza” (teorizzata dagli
stoici) e quella della “magnanimità” (teorizzata dai
peripatetici).
La rigida intransigenza di Catone non va
immune
dal
sospetto
che,
attraverso
la
preservazione dell’austera disciplina tradizionale,
mirasse a perpetuare i privilegi di un’esigua
182
minoranza; la generosità di Cesare, pur se esagerata
come motivo propagandistico, non ignorava i
bisogni e le speranze di strati più larghi, per i quali
la libertà strenuamente propugnata da Catone era
poco più che una vana parola.
Costituita la provincia di Africa nova col regno
tolto a Giuba e tornato a Roma, Cesare celebrò
successivamente quattro splendidi trionfi (sui Galli,
sull’Egitto, sul Ponto, sull’Africa) che superarono in
magnificenza quelli celebrati a suo tempo da
Pompeo. Restavano però ancora in piedi gli ultimi
residui dell’opposizione, che al comando dei due
figli di Pompeo, Sesto e Gneo, si erano concentrati
in Spagna assicurandosi anche la collaborazione
degli indomiti Lusitani e Celtiberi. Cesare li debellò
nella primavera del 45 con la vittoria di Munda
(nell’odierna provincia di Cordova), riportata dopo
un’aspra battaglia che per poco non lo vide cadere
prigioniero mentre, come al solito, partecipava
personalmente all’azione.
Celebrato un quinto trionfo, egli ebbe agio di
sviluppare il piano di riforme che già in precedenza,
e specialmente l’anno prima, aveva incominciato ad
attuare. Si trattava anzi tutto, dopo il crollo del
sistema oligarchico, di dare un nuovo assetto allo
Stato migliorando le condizioni dei ceti inferiori, in
Roma e in Italia, ma anche dei provinciali duramente
soggetti
all’arbitrio
dei
governatori.
Un
riordinamento così radicale poteva essere attuato
soltanto disponendo di un potere assoluto capace di
trionfare dell’immancabile reazione conservatrice, e
quindi la crisi costituzionale non poteva sboccare
che nella monarchia di Cesare.
183
La configurazione e il nome di questo potere
personale, sia che Cesare aspirasse a un monarcato
teocratico di tipo ellenistico (come vogliono alcuni),
sia che volesse risuscitare la vetusta monarchia
romana (come vogliono altri), era problema più
formale che sostanziale, anche se nell’infuocato
tramonto della repubblica l’idea che in Roma
tornasse a dominare un rex, accortamente sfruttata
dagli oppositori, era tale da destare la più profonda
emozione. Ma Cesare seppe guardarsi dalla
tentazione del titolo regale, tanto pomposo quanto
inutile per chi, come lui, dal favore popolare e da un
senato prono all’ossequio aveva ripetutamente
ottenuto non solo poteri e privilegi eccezionali
(consolati per cinque e dieci anni, nomina a dittatore
perpetuo, conferimento della cura morum e del titolo
di imperator a vita), ma anche onori divini come
Iuppiter Iulius. Inoltre si era consolidata la pretesa
che in Giulo (figlio di Enea e nipote di Venere)
avessero il loro divino capostipite i Giulii, i quali in
tal modo restavano inseriti nella leggendaria origine
troiana di Roma.
Forte di questa assoluta preminenza, che gli
consentì di mostrarsi assai generoso verso gli
avversari (e anche la sua Clementia fu deificata),
Cesare accentrò nelle sue mani il controllo delle
magistrature e dei governi provinciali, ed emanò una
serie numerosa di provvedimenti intesi a mettere
nuovo ordine in ogni campo della vita pubblica e
privata, compresa la riforma del calendario che da
lui ebbe quella sistemazione che ancor oggi
conserva, salvo il piccolo ritocco apportato nel 1582
dal papa Gregorio XIII. Fra le misure di carattere
sociale a favore del proletariato e dei veterani va
184
ricordato il vasto programma di colonizzazione,
destinato anche a dare impulso allo sviluppo della
romanità al pari dell’ammissione in senato di
elementi provinciali e della concessione della
cittadinanza romana alla Transpadana, onde l’unità
d’Italia, dalle Alpi allo stretto di Messina, fu
realizzata per la prima volta da Cesare.
Si compiva così un altro grande passo verso la
creazione di uno Stato universale, che secondo i
progetti di Cesare doveva allargare i suoi confini in
Oriente fino a comprendere l’impero dei Parti. La
conquista partica sarebbe stato il coronamento della
sua opera di fondatore dell’impero romano, ma alle
idi di Marzo del 44, pochi giorni prima della
partenza per l’impresa, egli cadeva sotto i colpi di
Bruto, di Cassio e di quanti altri speravano di
risuscitare, col suo assassinio, l’antica libertas
repubblicana.
Sulla figura e l’opera di Cesare (fonti principali i suoi stessi
scritti e, accanto a quelli di Cicerone, Sallustio bell. Catilin., la Vita
plutarchea, quella di Suetonio, Appiano Bell. civ. e, della sezione
superstite della Storia romana di Cassio Dione, i libri dal XXXVI al
XLIV per i fatti dal 69 al 44 a.C.) v. in generale A. F ERRABINO ,
Cesare, Torino 1941; M. G ELZER , Caesar, der Politiker und Staatsmann,
6a ed., Wiesbaden 1960. In particolare, sugl’inizi della sua carriera
politica, E. S TRASSBURG ER , Caesars Eintritt in die Geschichte,
München 1938; O. S EEL , Zur Kritik der Quellen über Caesars Frühzeit,
in “Klio” XXXIV (1941) p. 196 sgg. Un quadro panoramico de i
contrapposti schieramenti politici dell’epoca in L. R. T AYL OR , Party
Politics in the Age of Caesar, Berkeley - Los Angeles, 1949.
Dell’opera di Cicerone come politico (fonti principali i suoi
stessi scritti, in primo luogo l’epistolario; poi (oltre la Vita d i
Plutarco) Sallustio, Appiano e Cassio Dione, loc. cit.; di Livio ci è
stata conservata la pagina del libro CXX con la descrizione della
morte) la storiografia moderna ha dato varie ricostruzioni e giudizi
parecchio contrastanti: da quelli fortemente negativi (così, dopo il
M OMMSEN , Storia di Roma antica, trad. ital., Firenze 1960, p. 1274
185
sgg., J. C ARCOPINO , Les secrets de la correspondance de Cicéron, I-II,
Paris 1947; ma v. A. P IGANIOL , in “Rev. Hist.” CCI, 1949, p. 224
sgg.) a quelli di tendenza quasi panegiristica (v., p. es., E. C IACERI ,
Cicerone e i suoi tempi, Roma 1927-29). Sull’inserirsi dell’Arpinate nel
gioco delle principali correnti che si scontravano sulla scena
politica di Roma, v. J. K LASS , Cicero und Caesar. Ein Beitrag zur
Aufhellung ihrer gegenseitigen Beziehungen, Berlin 1939.
Sulle mene di Catilina, con riguardo specialmente alla loro
reale portata (fonti principali le Catilinarie di Cicerone e il bellum
Catilinae di Sallustio), v. L. P ARETI , La congiura di Catilina, Catania
1935; R. S EAGER , The first Catilinarian conspiracy, in “Historia” XIX
(1964) p. 338 sgg.; da vedere anche C HR . M EIER , Pompeius Rückkehr
aus dem Mithridatischen Kriege und die Catilinarische Verschwörung, in
“Athenaeum” N. S. XI, (1962) p. 103 sgg.; Q. Y AVETZ , The failure of
Catiline’s conspiracy, in “Historia” XII (1963) p. 485 sgg.
Sull’azione politica svolta da Cesare nell’anno del suo primo
consolato e sul maturare della situazione che sboccò negli accordi
del cosiddetto primo triumvirato, v. C HR . M EIER , Zur Chronologie
und Politik in Caesars erstem Konsulat in “Historia” X (1961) p. 68
sgg.; H. A. S ANDERS , The so-called first trumvirate, in “Mem. Amer.
Acad. Rome” X (1932) p. 55 sgg.; R. H ANSLIK , Cicero und das erste
Triumvirat, in “Rhein. Mus.” XCVIII (1955) p. 324 sgg.
Su Clodio: L. G URLITT , Lex Clodia de exilio Ciceronis, in
“Philologus” LIX (1900) p. 578 sgg.; F. B. M ARSH , The policy of
Clodius from 58 to 56 B.C., in “Class. Quart.” XXII (1927) p. 30 sgg.
Sul proconsolato gallico di Cesare, e in particolare sulle
operazioni di guerra per l’assoggettamento della Gallia, è più che
mai pregiudiziale il problema critico dell’attendibilità della nostr a
principale fonte d’informazione, rappresentata dai Commentarii de
bello Gallico dello stesso Cesare. L’elemento propagandistico è
certamente presente nell’opera (cfr. p. es., C. E. S TEVENS , The
Bellum Gallicum as a work of propaganda, in “Latomus” XI 1952), ma
troppo negative appaiono su questo punto posizioni come quelle di
L. R AMBAUD , L’art de la deformation historique dans les Commentaires de
César, Paris 1953; cfr. S. M AZZAR INO , Il pensiero storico cit., II, 1 p.
196. Sullo svolgimento delle successive campagne, oltre a C.
J ULLIAN , Histoire de la Gaule, vol. II, e a G. V EITH , Geschichte der
Feldzüge C. Julius Caesars, Wien 1906, v. E. K ÖSTERMANN , Caesar und
Ariovistus, in “Klio” XXIV (1941) p. l96 sgg.; L. P ARETI , Problemi
sulla conquista romana della Belgica, in “Riv. Filol. Class.” N. S. XXI
(1943) p. 22 sgg.; J. L E G ALL , Alesia: archéologie et histoire, Paris
1963.
Sulla spedizione partica e la fine di Crasso, A. G UNTHER ,
Beiträge zur Geschichte der Kriege zwischen Römer und Parther, Berlin
186
1922; D. T IMPE , Die Bedeutung der Schlacht von Carrhae, in “Mus.
Helv.” XIX (1962) p. 113 sgg.
Sull’acuirsi della lotta per il primato fra Pompeo e Cesare, e
sul precipitare della situazione sino allo scoppio della guerra civile,
v. A.E. B OAK , The extraordinary commands from 80 to 48 B.C., in
“Amer. Hist. Rev.” XXIV (1918-19), p. 21 sgg.; E. H OHL , Caesar am
Rubico, in “Hermes” LXXX (1952) p. 246 sgg. Il passaggio del
Rubicone (od. Fiumicino, presso Savignano), che secondo il
calendario ufficiale dell’epoca avvenne intorno al 10 gennaio del
49, in realtà ebbe luogo nel novembre (astronomico) dell’anno
precedente; il calendario ufficiale era allora in anticipo per la
omissione di varie intercalazioni, e sta di fatto che quando qualche
anno dopo (nel 46) Cesare provvide a regolarlo, dovette inserire
circa novanta giorni; cfr. S UETON ., Div. Iul. 40: inter Novembrem ac
Decembrem mensem interiecit duos alios, fuitque is annus, quo haec
constituebantur, quindecim mensium cum intercalario, qui ex consuetudine in
eum annum inciderat.
Sulla guerra fra Cesare e Pompeo, oltre gli Antike
Schlachtfelder, cit., II, p. 401 sgg., v. K. B ARWICK , Caesars Bellum
civile. Tendenz, Abfassungszeit und Stil, Berlin 1951; A. S CHOBER , Zur
Topographie von Dyrrachium, in “Jahresh. Oesterr. Arch. Inst.” XXII
(1926) p. 231 sgg.; M. R AMBAUD , Le soleil de Pharsale, in “Historia”
III (1955) p. 346 sgg.
Sull’attività riformatrice di Cesare, E. G. H ARDY , Some
problems in Roman history. Ten essays bearing on the administrative and
legislative work of Julius Caesar, Oxford 1924; M. C ARY , The municipal
legislation of Julius Caesar, in “Journ. Rom. Stud.” XXVII (1937) p.
48 sgg. Sui particolari aspetti dell’amministrazione finanziaria, R.
K NAPOWSKI , Die Staatsrechnungen der römischen Republik in den Jahren
49-45, Frankfurt am Main 1967.
Sull’interpretazione del travaglio politico-costituzionale che
si concluse alle Idi di marzo, E D . M EYER , Caesars Monarchie und das
Principat des Pompeius, 2a ed., Stuttgart 1919; A. A LFÖLDI , Studien
über Caesars Monarchie, Lund 1953.
Sul confronto tra le personalità di Cesare e di Catone nella
famosa pagina di Sallustio (Bell. Catil. 52, 2-54), cfr. S. M AZZARINO ,
Il pensiero storico cit., II, 1, p. 453 sg.
Sugli onori divini che furono decretati a Cesare ancora in
vita, v. fra l’altro C ASS . D IO , XLIV 6, 4: “e infine gli diedero
l’appellativo di Iuppiter-Iulius e decretarono che fosse eretto un
tempio a lui e alla sua Clemenza, nominandone Antonio sacerdote
con le attribuzioni di un flamen Dialis”.
187
X
Conclusione delle guerre civili.
Il principato augusteo.
1. Dalla morte di Cesare al triumvirato di Lepido,
Ottaviano e Antonio. - I congiurati, soprattutto per gli
scrupoli di Bruto, si erano limitati ad eliminare il
“tiranno” senza toccare i suoi principali
collaboratori: Marco Emilio Lepido, che rivestiva la
carica di magister equitum di Cesare dittatore, e Marco
Antonio, collega nel consolato di Cesare per l’anno
44. Sicuro dei sentimenti, ancora compressi, della
plebe romana turbata per l’uccisione di colui che
tante volte l’aveva beneficata, e con l’appoggio di
Lepido, il console Antonio seppe condurre un’abile
manovra che sboccò in un accordo con gli
anticesariani: si concedeva l’amnistia ai cesaricidi,
ma nello stesso tempo si convalidavano gli atti del
defunto dittatore.
Impadronitosi delle carte e di buona parte dei
denari lasciati da Cesare, Antonio continuò poi a
destreggiarsi tra cesariani e repubblicani con la mira
di aumentare la propria influenza su entrambe le
fazioni; ma il suo giuoco fu ben presto complicato
dal sopraggiungere di Gaio Ottavio, pronipote di
Cesare che nel testamento lo aveva adottato come
figlio e designato fra i suoi eredi. Sebbene Cesare
avesse dato molti altri segni della sua stima verso il
giovane (e si proponeva di farne il suo magister
equitum nella spedizione partica) si trattava soltanto
188
di una designazione ad erede del patrimonio privato,
non ad una successione politica cui era ancora
lontano dal pensare. Ma l’ambigua atmosfera che
regnava in Roma per effetto del compromesso fra le
due opposte fazioni porse occasione ad Ottavio di
atteggiarsi a difensore della memoria di Cesare, che
egli lamentava offesa e tradita, e il suo dissidio con
Antonio andò sempre più accentuandosi nel tempo
stesso che sfumava l’intesa fra Antonio e i
repubblicani. In tale situazione si delineò una
convergenza fra i repubblicani e Ottavio, che ne
approfittò per realizzare il disegno di soppiantare
Antonio a capo dei cesariani. Sebbene privo di
esperienza, il giovane sapeva muoversi con estrema
accortezza negl’intrighi della politica; e quando fu
chiaro che fra breve l’ultima parola sarebbe toccata
alle armi, egli non esitò a crearsi un esercito
attirando dalla sua parte con ingenti donativi due
legioni che Antonio aveva richiamato dalla
Macedonia.
Pressato da due parti, Antonio decise di
trascurare per il momento Ottavio e di affrontare il
pericolo rappresentato dall’esercito dei repubblicani
che Decimo Bruto (diverso dal Marco Bruto capo
della congiura) aveva ai suoi ordini come
governatore della Cisalpina. Mentre Antonio
assediava Bruto a Modena e, spirato l’anno del
consolato, continuava abusivamente ad esercitare il
comando, Ottavio s’intendeva col senato che ai
primi del 43 legalizzò la sua posizione militare
conferendogli un regolare imperium propretorio. I
“repubblicani”, con Cicerone alla testa, potevano
rallegrarsi di aver diviso i due capi dei cesariani, e
cioè di aver trovato in Ottavio un ottimo strumento
189
per combattere Antonio, ma li attendeva la più
amara delusione.
Ottavio dapprima unì le sue forze a quelle che
il senato aveva affidato ai consoli del 43 per
accorrere in aiuto di Decimo Bruto, e collaborò alla
disfatta di Antonio costringendolo a rifugiarsi nella
Gallia Narbonese presso Lepido; di poi, essendo
rimasto l’unico comandante dell’esercito per la
caduta in combattimento di entrambi i consoli, ne
approfittò per reclamare l’elezione a console e non
si fece scrupolo di schiacciare le resistenze del
senato marciando su Roma. Ottavio non aveva
ancora compiuto i vent’anni quando il 19 agosto del
43 ascese al consolato: era la violazione più grave
che mai avessero subìto le regole dell’ordinamento
costituzionale repubblicano. Munito della potestà
consolare, egli ebbe cura in primo luogo di far
legalmente convalidare la sua adozione (il suo nome
diventò allora ufficialmente quello di Gaio Giulio
Cesare Ottaviano); quindi, alle manovre ostili della
fazione senatoria, rispose da un lato facendo
revocare l’amnistia per i congiurati, dall’altro
riavvicinandosi ad Antonio e a Lepido, con i quali
alla fine di ottobre strinse un accordo destinato a
dar origine al “secondo” triumvirato. Infatti, istituita
poco dopo, con una legge fatta votare dal tribuno
Publio Tizio, la magistratura straordinaria dei
triumviri rei publicae constituendae, Lepido, Antonio e
Ottaviano furono rivestiti di imperium consolare per
cinque anni (fino al 31 dicembre del 38) e
praticamente si impadronivano di tutte le leve di
comando.
190
2. Rotta degli anticesariani e rivalità fra i triumviri. I tre si preoccuparono anzitutto di spazzare
l’opposizione senatoria, e si ritornò al sistema delle
proscrizioni, di cui una delle vittime più illustri fu
Cicerone, mortalmente odiato da Antonio per i
violenti attacchi che gli aveva sferrato con le
“Filippiche”. Restavano però ancora in piedi le forze
che in Oriente si raccoglievano agli ordini di Marco
Bruto e di Cassio, e fu deciso che ad affrontarle
sarebbero partiti Antonio e Ottaviano, mentre
Lepido sarebbe rimasto in Roma. Lo scontro
decisivo avvenne nell’ottobre del 42 a Filippi, nella
Macedonia, e la vittoria fu merito esclusivo di
Antonio, che sconfisse in due battaglie prima Cassio
e poi Bruto (già vincitore di Ottaviano)
costringendoli a darsi la morte.
Dal trionfo finale sui cesaricidi usciva
grandemente rafforzata la posizione di Antonio, che
ora avrebbe potuto anche mettere in disparte
Ottaviano, ma non lo fece, forse per dedicare tutte
le energie al piano di conquista in Oriente che aveva
in animo di intraprendere come fedele continuatore
dell’opera di Cesare. Infatti egli si riservò il
comando su tutte le province orientali oltre che sulle
Gallie e parte dell’Africa; ad Ottaviano rimasero il
resto dell’Africa, la Spagna, la Sicilia, la Sardegna e
la Corsica, mentre Lepido veniva escluso da questa
ripartizione con l’accusa di essersi accordato con
Sesto Pompeo. Era questi il superstite della battaglia
di Munda, cui all’inizio del 43, per assicurarsene
l’appoggio nella guerra contro Antonio, il senato
aveva conferito il comando delle forze navali, e che
in seguito, con una serie di azioni fortunate, si era
costituito un potere personale che lo portò ad
191
impadronirsi della Sicilia, della Sardegna e della
Corsica minacciando la posizione di Ottaviano.
Tale complessa situazione politica doveva
semplificarsi nel giro di pochi anni. Dopo Filippi,
mentre Antonio si intratteneva in Oriente,
Ottaviano era tornato in Italia con l’incarico di
procedere alla distribuzione di terre ai veterani,
compito difficile non solo per l’opposizione della
borghesia conservatrice, a cui quelle terre venivano
confiscate, ma anche per i gravi contrasti suscitati
dagli antoniani con a capo Lucio Antonio (il fratello
del triumviro, che nel 41 era console), e soprattutto
da Fulvia, la facinorosa moglie di Marco Antonio.
Contro di questi Ottaviano combatté nell’inverno
dal 41 al 40 il bellum Perusinum, così denominato dalla
città in cui Lucio Antonio fu stretto d’assedio.
Espugnata Perugia, gli avversari di Ottaviano si
rifugiarono parte in Oriente (come Fulvia, che si
affrettò a portare le sue lamentele ad Antonio) e
parte in Sicilia presso Sesto Pompeo.
Si profilava l’eventualità di un accordo fra
Antonio e Sesto Pompeo contro Ottaviano, ma
questi parò il colpo avvicinandosi a Pompeo con un
matrimonio politico e, ripudiata la prima moglie
Clodia, passò a nuove nozze con Scribonia, sorella
di Lucio Scribonio Libone, suocero di Sesto
Pompeo. Antonio mosse in forze dall’Oriente
contro Ottaviano, ma non riuscì a sbarcare a
Brindisi né ad ottenere alcun successo militare;
d’altra parte si trattava di una lotta che nessuno dei
due aveva interesse di spingere a fondo, sicché poco
dopo, per l’intromissione di amici comuni come
Mecenate e Asinio Pollione, si venne ad un’intesa
sancita nel trattato di Brindisi (ottobre 40). A
192
suggellare l’accordo (in forza del quale ad Antonio
veniva
assegnato
l’Oriente,
ad
Ottaviano
l’Occidente, esclusa l’Africa riservata a Lepido)
Antonio, rimasto vedovo di Fulvia, sposava Ottavia,
la sorella di Ottaviano.
L’equilibrio generale poteva sembrare raggiunto
col trattato di Miseno, concluso l’anno dopo, che
riconosceva a Sesto Pompeo il predominio su Sicilia,
Sardegna e Corsica, ma non si trattava che di un
equilibrio instabile. Il segno della rottura fu il
ripudio di Scribonia (a. 39) da parte di Ottaviano,
che l’anno dopo passò in terze nozze con Livia
Drusilla, già moglie di Tiberio Claudio Nerone, e
ben presto divampò la lotta aperta per il possesso
della Sicilia. Ottaviano la iniziò dapprima con
l’ostilità di Antonio, che fece una nuova minacciosa
apparizione a Brindisi, poi, ristabilita nella
primavera del 37 la concordia con il trattato di
Taranto (che portò al rinnovamento per un altro
quinquennio dei poteri triumvirali scaduti alla fine
del 38), la continuò con l’aiuto di Antonio e la
concluse nel 36 con la vittoria navale di Naulòco
(presso Messina). All’eliminazione di Sesto Pompeo
seguì, nello stesso anno 36, l’accantonamento di
Lepido. Questi nella guerra di Sicilia aveva cercato
di sollevare le legioni contro Ottaviano, ma
abbandonato dalle sue truppe finì per essere
spogliato dei poteri di triumviro e relegato
nell’ombra, conservando il solo pontificato
massimo.
3. Il duello conclusivo fra Ottaviano e Antonio. - A
dominare l’impero del popolo romano restavano
così due uomini, Antonio e Ottaviano. Li legava il
193
vincolo di parentela per il tramite di Ottavia, ma li
divideva l’ambizione, se con una sola parola fosse
possibile definire quel complesso di ragioni per cui
la visione politica dell’uno non poteva essere e non
fu quella dell’altro. Alla spedizione contro i Parti,
che Antonio intraprese nel 36 e nell’ottobre dello
stesso anno si concluse con un insuccesso,
Ottaviano non aveva inviato quel contingente di
20.000 uomini che in base al trattato di Taranto era
tenuto a fornire; ma l’incendio della guerra civile
tardò ancora qualche anno a scoppiare. Ottaviano
era assorbito dalla sistemazione della Pannonia e
dalla lotta contro i pirati della costa adriatica,
Antonio dalla guerra di rivincita contro i Parti, nel
corso della quale riuscì ora a conquistare l’Armenia e
a stabilire nei paesi orientali un certo equilibrio
fondato sulla più stretta collaborazione tra Roma e
l’Egitto. Infatti, anziché creare in Oriente nuove
province, Antonio vi costituiva una serie di Stati
vassalli sotto una dinastia romano-egiziana cui egli
donava i vari territori, e i dinasti erano, oltre la
regina madre Cleopatra, i figli Alessandro Helios,
Tolemeo e Cleopatra Selene (nati da lui) e Cesarione
(nato da Cesare).
Questa sistemazione dell’Oriente porse ad
Ottaviano uno dei più efficaci argomenti
propagandistici per la lotta che egli aveva in animo
di scatenare, quasi che Antonio volesse porre al
centro dell’impero l’Egitto e non più l’Italia, allo
stesso modo che, ripudiando Ottavia, dava la
preferenza a Cleopatra. Come prova delle sue
tendenze orientalizzanti e antiromane, ad Antonio
venne imputato di aver celebrato in Alessandria e
non a Roma il trionfo sull’Armenia, anche se allora,
194
più che di un vero e proprio trionfo, si trattò forse
di una cerimonia dionisiaca inserita negli sviluppi
della politica religiosa attuata dal triumviro. Infatti,
per assicurarsi la devozione dei popoli orientali,
Antonio si era inoltrato sulla strada della
divinizzazione che già Cesare aveva imboccato, e si
era atteggiato a novello Dioniso, identificato in
Egitto con Osiride.
Dopo quest’abile preparazione ideologica,
Ottaviano aprì la lotta all’inizio del 32; essendo
scaduti alla fine dell’anno precedente i poteri
triumvirali, egli riuscì ad imporsi con un colpo di
forza debellando in Roma l’opposizione degli
antoniani e costringendo a fuggire i due consoli e
trecento senatori. Restavano dalla sua parte gli altri
settecento senatori, e più ancora il sostegno di un
solenne giuramento di fedeltà col quale l’Italia e le
province occidentali lo riconobbero capo della
guerra che, per evitare l’odiosità di un nuovo bellum
civile, Ottaviano fece dichiarare a Cleopatra, mentre
Antonio, suo alleato, veniva bollato come hostis
publicus.
Ingenti erano le forze di cui Antonio
disponeva, ma alla prova del fuoco la sua posizione
apparve notevolmente indebolita per effetto della
sua politica orientalizzante, la quale non solo aveva
suscitato nelle popolazioni greco-asiatiche una
reviviscenza di spiriti nazionalistici e l’aspirazione a
una maggiore autonomia dal governo di Roma, ma
aveva anche depresso l’ardore delle sue legioni, che
sentivano di battersi per una causa contraria alla
assoluta supremazia romana. Questo, soprattutto, dà
ragione del corso a lui sfavorevole delle operazioni
che culminarono, il 2 settembre del 31, nella
195
battaglia navale di Azio (sulla costa ionica della
Grecia centrale); l’anno dopo era presa Alessandria
e, mentre Antonio e Cleopatra si toglievano la vita,
l’Egitto fu ridotto a provincia. Finita la guerra civile,
debellati i nemici esterni, Ottaviano si apprestava a
soddisfare l’universale desiderio di pace e nel 28,
con solenne cerimonia, faceva chiudere il tempio di
Giano rimasto aperto per più di due secoli.
4. Ottaviano “Augusto” e “principe” dell’impero. Dopo lo sfacelo del regime oligarchico e
l’eliminazione del competitore, restava ad Ottaviano
di dare un nuovo ordinamento allo Stato di cui s’era
fatto padrone, ed egli vi si dedicò con un lungo e
paziente lavoro che fu sostanzialmente di
rivoluzione, nonostante i suoi sforzi per presentarlo
come di restaurazione dell’antica res publica. Si
trattava, in primo luogo, di dar veste costituzionale
al suo potere personale, e a questo si venne
soprattutto nel corso di due memorabili sedute del
senato nel gennaio del 27. Secondo l’espressione che
più tardi l’imperatore stesso usò quando scrisse
l’index rerum a se gestarum destinato a essere scolpito
nel bronzo dinanzi al suo mausoleo (le cosidette Res
gestae divi Augusti), egli si spogliò allora della potestas
eccezionale che aveva fino a quel momento
esercitata, ma ottenne in cambio, oltre a vari onori,
il riconoscimento della sua auctoritas, cioè di una
superiorità personale che lo poneva al di sopra di
tutti gli altri magistrati dello Stato. Al
riconoscimento di una tale auctoritas faceva riscontro
il conferimento del titolo di Augustus, che come
auctoritas deriva dalla stessa radice del verbo augeo. E
Augustus significava “accresciuto”, innalzato al di
196
sopra degli altri, un concetto non famigliare ai Greci
che tradussero Augustus con Sebastòs (“venerato”, da
sébomai), ove è già un accenno a quella concezione
sacrale del nuovo potere destinata a manifestarsi ben
presto nel culto prestato (anche in Italia) alla
divinità dell’imperatore vivente.
Augusto, come da questo momento possiamo
chiamarlo, riceveva inoltre l’imperium proconsulare per
dieci anni, poi periodicamente rinnovato, sulle
province non pacificate (che furono dette
“imperiali”, mentre quelle pacificate furono dette
“senatorie”), e ciò significava il supremo comando
sulle forze armate, che per lo più erano stanziate
appunto in tali province. In questo modo l’esercito
professionale, che con la sua devozione ai
condottieri aveva alimentato le guerre civili e
contribuito al tramonto del regime repubblicano,
veniva stabilmente inserito nel nuovo sistema
politico attraverso la sua diretta dipendenza
dall’imperatore. Al precedente imperio proconsolare
dovevano aggiungersi qualche anno dopo, nel 23, un
nuovo imperium proconsulare maius et infinitum e la
tribunicia potestas che, rinnovata di anno in anno,
consentiva all’imperatore di convocare il senato e di
far votare leggi, quasi fosse un tribuno del popolo
(mentre tale non era, e quindi non sottostava alle
limitazioni della collegialità e dell’annualità).
Tutti questi poteri si rispecchiavano nella
titolatura ufficiale del capo dello Stato, che oltre alla
menzione della tribunicia potestas comprendeva i titoli
di Imperator (divenuto, anzi, un vero e proprio
prenome in luogo di Gaius), di Augustus, di pontifex
maximus, (dal 12, dopo la morte di Lepido), di pater
patriae, e nell’insieme delineava la figura del princeps.
197
Questo termine, che peraltro non assunse mai un
valore ufficiale, fu prescelto dallo stesso Augusto a
definire la sua posizione nello Stato; egli infatti non
volle, a differenza di Cesare, assumere la figura del
dittatore, che in Roma aveva sempre avuto e
conservato un carattere straordinario ed eccezionale,
ma preferì essere “principe”, cioè Primo cittadino
tra gli altri cittadini, e “principato” fu il nome del
regime costituzionale da lui creato.
5. Compromesso tra vecchio e nuovo regime nelle
riforme augustee. - Per il funzionamento della
macchina statale Augusto chiamò alla collaborazione
i ceti più elevati della cittadinanza romana e fondò il
nuovo ordine sul privilegio della classe senatoria e
della classe equestre. Ciò vuol dire che nella
complessa amministrazione dell’impero determinate
funzioni erano riservate esclusivamente ai senatori o
ai cavalieri. Così, per esempio, la carica di
governatore di provincia non poteva essere rivestita
che da un senatore, e ugualmente solo i senatori
potevano raggiungere il grado più elevato
dell’ufficialità, il comando di una legione, che essi
esercitavano come luogotenenti dell’imperatore.
Ancora, solo a personaggi dell’ordine senatorio
erano accessibili le antiche magistrature: la questura,
il tribunato della plebe, l’edilità, la pretura, il
consolato; ma è appena necessario aggiungere che la
mutata situazione politica aveva svuotato queste
magistrature della maggior parte del loro contenuto.
Prima esse avevano costituito gli organi per
l’attuazione del programma politico della classe
dirigente: ora invece, che il potere era nelle mani
dell’imperatore, non rappresentavano più che
198
qualifiche per poter esercitare determinate funzioni.
Esser console, per es., aveva un tempo significato
aver raggiunto la posizione più elevata nel governo
dello Stato, ora significava essere qualificato per
ottenere i più alti incarichi, ad esempio l’ufficio di
governatore di un’importante provincia. Nello stesso
tempo il senato, pur conservando svariate
attribuzioni (tra cui importantissimo, se non si fosse
sempre più ridotto a una semplice formalità, il
diritto dell’investitura imperiale), perdeva l’antica
funzione di supremo moderatore della vita politica
dello Stato, e mentre per secoli era stato come il
fortilizio della nobilitas, nella quale solo pochi homines
novi erano riusciti a penetrare attraverso la gestione
delle magistrature, ora invece era in balìa
dell’imperatore, che aveva la facoltà di introdurvi
chi volesse. Questa immissione di nuovi elementi
non riuscì peraltro a incidere troppo sulla fisionomia
del consesso, che in generale rimase a lungo
ancorato agli antichi ideali politici; i rapporti fra
imperatore e senato furono spesso improntati a
reciproca diffidenza, ma l’opposizione senatoria
assai di rado diede luogo a episodi di violenta
ribellione, e tra i patres il principe trovò sempre
volenterosi collaboratori.
La classe dei cavalieri (equites), cioè la ricca
borghesia che da oltre un secolo aveva con varia
fortuna lottato contro l’oligarchia nobiliare per
ottenere una parte di maggior rilievo nella vita
pubblica, ebbe anch’essa riconosciuta dalla
costituzione augustea una posizione di privilegio, la
quale anzi col tempo andò sempre aumentando a
detrimento del senato. Nell’ordinamento militare, gli
appartenenti all’ordine equestre avevano il comando
199
dei corpi ausiliari che fiancheggiavano le legioni: le
alae di cavalleria e le cohortes di fanteria, reclutate
nelle province. Nelle legioni, composte di cives
Romani, essi potevano raggiungere solo il grado di
tribunus militum, in sottordine al comandante (legatus
legionis), che era di rango senatorio. Poiché in Roma
le forze navali furono generalmente considerate a un
livello inferiore rispetto alle forze di terra, a
cavalieri anziché a senatori venne affidato da
Augusto il comando delle due flotte principali,
dislocate a Miseno e a Ravenna.
Ma un impiego assai più importante trovarono
gli appartenenti all’ordine equestre nei numerosi
uffici che Augusto organizzò per le varie branche
dell’amministra-zione imperiale, riservando appunto
a loro i posti direttivi col titolo di praefectus o di
procurator. Così fu appannaggio dei cavalieri l’ufficio
di praefectus praetorio (il comandante dei pretoriani),
destinato a diventare in seguito una delle cariche più
elevate, mentre ai tempi di Augusto fu di rango
alquanto modesto. Infatti era allora più importante
la carica di praefectus Aegypti, cioè di governatore
dell’Egitto, unica provincia affidata al governo di un
cavaliere e non di un senatore. Notevoli erano
anche, fra le cariche riservate ai cavalieri, quella di
praefectus vigilum, il comandante delle sette coorti di
vigiles istituite con funzioni di polizia urbana e
specialmente di vigili del fuoco, e quella di praefectus
annonae, cioè di preposto a un servizio assai
complesso
e
delicato
dovendo
curare
l’approvvigionamento della plebs urbana.
Così si chiamava la massa dei cittadini
domiciliati in Roma e non appartenenti alle classi
senatoria o equestre; non era un termine spregiativo,
200
come può sembrare, anche se di fatto larghi strati
della cittadinanza romana erano scaduti a popolino
pronto a tumultuare quando non otteneva ciò che
soprattutto chiedeva, panem et circenses. Augusto
sembra si proponesse di restituire queste masse
all’antica dignità di cittadini e per un certo tempo
ripristinò i comizi popolari, ma i disordini che si
verificarono nell’assemblea lo dissuasero dal
continuare su tale strada, e i comizi decaddero per
sempre. Tale decadenza si verificò in connessione
col fatto che il popolo cessò di aver parte effettiva
sia nell’approvazione delle leggi (emananti ora
sempre
più
direttamente
dall’autorità
dell’imperatore), sia nella scelta delle magistrature di
maggior rilievo, determinata ora anch’essa dal
beneplacito del principe di intesa con un apposito
comitato elettorale misto di senatori e cavalieri. Su
questo punto dell’attività riformatrice di Augusto,
piuttosto oscuro fino a non molto tempo fa, nuova
luce è venuta dal recente trovamento della tabula
Hebana, così chiamata dal luogo del fortuito
ritrovamento, la città di Heba in Etruria.
Di non poca importanza, nel quadro delle
riforme augustee, fu poi il riordinamento
dell’amministrazione finanziaria, suddivisa in vari
uffici di cui erano a capo numerosi procuratores,
appartenenti di norma, come si è detto, all’ordine
equestre. Tale riordinamento, che accanto all’antico
tesoro dello Stato, l’aerarium populi Romani, vide
sorgere due nuove casse, l’aerarium militare e il fiscus
imperiale, fu imposto dall’obbligo di assicurare le
entrate necessarie per la pubblica spesa, specie per il
mantenimento dei funzionari e, soprattutto,
dell’esercito. Si trattava di quasi una trentina di
201
legioni e di numerosi corpi ausiliari (che Augusto
stanziò stabilmente fuori d’Italia sia perché fossero
più pronti alla difesa dei confini, sia perché non
avessero a costituire una minaccia al suo potere)
oltre alle truppe che invece furono accasermate in
Roma (cosa inaudita nell’età re- pubblicana!): i
praetoriani, i vigiles e gli urbaniciani. Questi ultimi
erano alle dipendenze del praefectus urbi, titolare di
un ufficio assai antico e ora riplasmato da Augusto
per esercitare un’alta sorveglianza sull’ordine
pubblico.
6. Pacificazione e riordinamento dell’impero. - Su
questo organismo, destinato a durare per secoli,
Augusto fondò la sua politica, che fu soprattutto
una politica di consolidamento della pace e della
sicurezza, anche se talvolta fu necessario far ricorso
alla guerra. Sopiti i contrasti all’interno, almeno
nelle forme violente, esaltato come restauratore
della famiglia e della religione e come fondatore
della pax Augusta (l’eco più bella di questa
esaltazione risuona nella poesia di Virgilio, di
Orazio, di Ovidio), l’imperatore si preoccupò anche
di provvedere alla tranquillità delle province
periferiche.
Pacificata definitivamente la Spagna per merito
di Marco Vipsanio Agrippa, uno dei più valorosi
collaboratori e genero di Augusto, furono poi
assoggettati la Rezia (odierni Tirolo e Baviera) e il
Norico (il resto dell’odierna Austria, con la parte
settentrionale della Slovenia) ad opera di Tiberio
Claudio Nerone, figliastro dell’imperatore, che portò
il
confine
al
riparo
del
Danubio.
Contemporaneamente Druso, fratello di Tiberio, si
202
spingeva vittoriosamente oltre il Reno nel cuore
della Germania e alla sua morte, nel 9 a.C., l’impresa
veniva condotta a termine da Tiberio (reduce dalla
sottomissione della Pannonia, fra la Dalmazia e il
Danubio), che completava l’assoggettamento del
territorio fino all’Elba. Ma quest’ultima fu conquista
poco duratura perché i Germani, incitati alla
ribellione da Arminio, inflissero una tremenda
disfatta al governatore romano Publio Quintilio
Varo, annientando le sue tre legioni nella selva di
Teutoburgo (9 d.C.). Anche per le complicazioni di
una grave rivolta in Pannonia, non rimase che
arretrare sul vecchio confine del Reno, e la rinuncia
alla riscossa ebbe l’effetto di lasciare per sempre la
Germania fuori del mondo romano.
Al di là dell’Eufrate, che con il Reno e il
Danubio segnava per grandi linee la demarcazione
dell’impero, si estendeva il regno dei Parti. Verso
costoro Augusto abbandonò i propositi aggressivi,
che già erano stati di Cesare e poi di Antonio, e
intraprese una lunga ed accorta azione diplomatica
che nel 20 a.C. portò al riconoscimento del prestigio
di Roma: fra l’altro, si ottenne la restituzione delle
insegne che oltre trent’anni prima erano state
strappate a Crasso. Si trattava però di una situazione
assai fluida per le contrastanti mire dei due Stati ad
assicurarsi il controllo dell’Armenia, e il dissidio non
tardò a riaffiorare in forma violenta. A un quadro
così sommario dell’opera politica di Augusto
bisogna almeno aggiungere un cenno alla
riorganizzazione territoriale
e
amministrativa
dell’Italia (ripartita in 11 regiones) e dell’Urbe
(suddivisa in 14 regiones, comprendenti ciascuna
numerosi vici), all’impulso dato alle opere pubbliche
203
(di Roma poté dire che l’aveva trovata di mattoni e
la lasciava di marmo; cfr. Suet., Aug. 28),
all’incremento dei centri cittadini in Italia e nelle
province. Fu protetto lo sviluppo delle autonomie
comunali, e nelle varie regioni dell’impero ebbe
inizio una splendida fioritura di città grandi e
piccole, fra cui numerose nuove colonie che furono
altrettanti centri d’irradiazione del romanesimo. In
un clima tanto propizio le arti e le lettere romane
attinsero vette assai alte, e nella nuova atmosfera del
principato,
che
un’abile
propaganda
seppe
trasformare nel regno della pace universale
finalmente donata al mondo da Augusto, Roma si
avviò a diventare il principale centro di cultura, oltre
che il centro politico dell’impero. Nella solenne
festività dei ludi saeculares celebrati nel 17 a.C., per
bocca di un coro di pueri e puellae, le intatte speranze
del domani, saliva al cielo l’augurio di Orazio: Alme
sol possis nihil urbe Roma visere maius.
7. La conservazione del principato nel problema della
successione. - Informandosi ai severi dettami della
filosofia stoica, Augusto concepì la sua lunga opera
come un dovere e vi attese, soleva dire, con l’animo
del soldato incrollabilmente fermo al suo posto,
senza lasciarsi abbattere dagl’incomodi di una salute
cagionevole e da una serie di avversità domestiche.
Si preoccupò anche, e assai per tempo, di
trasmettere l’impero nelle mani di un uomo capace
di
reggerne
l’immensa
mole,
naturalmente
scegliendolo nella cerchia dei famigliari, come
imponeva il carattere sacrale e personale del suo
potere.
204
In mancanza di discendenza maschile (non
aveva avuto che una sola figlia, Giulia, nata nel 39
dalla seconda moglie Scribonia), egli pensò dapprima
al giovane Marco Claudio Marcello, figlio di sua
sorella Ottavia, cui nel 25 diede in sposa la
giovanissima Giulia. Ma due anni dopo, appena
ventenne, Marcello, venne improvvisamente a
morte, e allora le speranze dell’imperatore si
appuntarono su Marco Vipsanio Agrippa, il valente
suo collaboratore, cui nel 21 fece l’onore di
accoglierlo come secondo marito di Giulia e nel 18
rese compartecipe dell’imperium proconsulare e della
tribunicia potestas. Morto nel 12 anche Agrippa,
restavano i figli da lui avuti con Giulia, e Augusto
sperò di trovare il successore nei primi due di questi
nipoti, che adottò come figli (chiamandoli Gaio
Giulio Cesare e Lucio Giulio Cesare) e colmò di
onori straordinari avviandoli all’arte del governo. Ma
la sorte sembrava accanirsi contro questi suoi piani,
e i due giovani morirono prematuramente, Lucio nel
2 e Gaio nel 4 d.C. Nella famiglia imperiale non
restava che il sedicenne Agrippa Postumo, l’ultimo
dei cinque figli di Giulia, ma l’imperatore, ormai
prossimo alla settantina, non ebbe la forza di
coltivare questa nuova speranza e si rassegnò a
lasciare che la successione andasse al figliastro
Tiberio, già maturo di anni e di esperienza.
Questi era nato nel 42 dall’omonimo senatore
patrizio Tiberio Claudio Nerone e da Livia Drusilla,
sposata da Augusto in terze nozze nel 38, e sebbene
si fosse largamente distinto anche come diplomatico
avveduto e valente condottiero, non era mai entrato
nel cuore del patrigno, che l’aveva posposto anche
all’altro figliastro Druso, suo fratello minore (morto
205
nel 9 a.C.). Negli ultimi tempi, amareggiato per le
preferenze dimostrate ai giovanissimi Gaio e Lucio
Cesari, Tiberio si era appartato soggiornando a Rodi
per ben otto anni; ora, dopo la morte di Gaio
Cesare, venne adottato da Augusto (e cambiò il
nome di Tiberio Claudio Nerone in quello di Tiberio
Giulio Cesare), ma nel medesimo tempo, sebbene
avesse già un figlio, fu costretto ad adottare (perché
un giorno gli succedesse) Germanico, figlio del
fratello Druso. Si costituiva così, per via adottiva, la
famiglia imperiale giulio-claudia.
Come già a suo tempo aveva fatto con Vipsanio
Agrippa, Augusto rivestì Tiberio dell’imperium
proconsulare e della tribunicia potestas che, innalzandolo
alla posizione di correggente, gli spianavano la via a
succedergli. Caduto tre anni dopo in disgrazia, forse
per i maneggi di Livia, e relegato in un’isola il
giovane Agrippa Postumo, esiliata già da tempo
Giulia, che il padre aveva implacabilmente voluto
punire per la sua vita scostumata, nessun ostacolo si
frapponeva ormai alla successione di Tiberio (che
nel 13, per effetto del conferimento di nuove
attribuzioni, aveva salito un gradino ancora più alto
nella scala del potere), ed egli la raccolse nel 14,
quando Augusto venne a morte all’età di settantasei
anni.
Su questo periodo, che rappresenta una delle svolte d i
maggiore interesse nella storia di Roma, sono andate in massima
parte perdute le opere degli autori contemporanei, a cominciare da
quelle di due storici di così grande importanza (anche per la
diversità della loro “tendenza”) come Asinio Pollione e Livio. Da
Cicerone (Filippiche e Lettere, fino all’anno 43) si passa a scrittori d i
piena età augusteo-tiberiana, come Nicolao di Damasco (Vita di
Augusto) e Velleio Patercolo; quindi ai più tardi Plutarco (Vite d i
206
Cicerone, di Bruto, di Antonio), Suetonio (De vita Caesarum, I e II),
Appiano (Guerre civili e libro Illirico), Cassio Dione (libri XLV-LVI).
La tradizione a noi pervenuta rispecchia, com’è ovvio,
prevalentemente il punto di vista favorevole ad Augusto (e, perciò
stesso, contrario ai suoi avversari, a cominciare da Antonio), frutto
della elaborazione di quei motivi propagandistici di cui la prima eco
può cogliersi nelle celebrazioni della poesia augustea (Virgilio,
Orazio, ecc.). Va anche tenuto presente il cospicuo apporto delle
fonti documentali, soprattutto del materiale epigrafico, che
consente di meglio approfondire vari punti; basti pensare, per
esempio, alle Res gestae divi Augusti, su cui v. appresso.
Sul vario gioco delle fazioni che dopo le Idi di marzo si
contendevano il campo, e sulle accorte mosse di Gaio Ottavio per
inserirsi fra i cesariani e gli anticesariani, v. T. R ICE H OL MES , The
architect of the Roman empire, I, Oxford 1928; W. S CHMITTHENNER ,
Oktavian und das Testament Caesars, München 1952. Quelle stesse
mosse dovevano più tardi essere presentate come i primi sacrifici
durati in difesa delle libere istituzioni della repubblica: Annos
undeviginti natus exercitum privato consilio et privata impensa comparavi,
per quem rem publicam a dominatione factionis oppressam in libertatem
vindicavi (Res gest. 1).
Sulla parte di primo piano avuta dalle forze armate ne l
decidere le sorti dei contrasti politici, cfr. H. B OTERMANN , Die
Soldaten und die römische Politik in der Zeit von Caesars Tod bis zur
Begründung des Zweiten Triumvirats, München 1967.
Con riferimento al bellum Philippense e alla disfatta de i
cesaricidi, un interessante esempio del prevalere della tradizione
filoaugustea a scapito di Marco Antonio può cogliersi nella
notazione registrata nel Calendario Prenestino al 23 ottobre (cfr. A.
D EGRASSI , Inscr. Italiae, XIII 2, Roma 1963, p. 135; 524): [imp.
Caesar A]ugustus vicit Philippis posteriore proelio Bruto occiso.
Sui contrasti che ben presto presero a dividere i triumviri r. p.
c. fino a trasformarsi di lì a poco in guerra guerreggiata (bellum
Perusinum), e in particolare sui contrasti fra Ottaviano e Lepido
nell’anno 42, una testimonianza interessante è costituita dalla
cosiddetta laudatio Turiae. Questo testo, che ci è stato trasmesso in
un’epigrafe frammentaria (D ESSAU , I. L. S. 8393; cfr. M. D URRY ,
Éloge funèbre d’une matrone romaine, Paris 1950), contiene la
celebrazione di una defunta (di malsicura identificazione) fatta tra
l’8 e il 2 a.C. dal marito, il quale fra l’altro esalta l’affetto
dimostratogli dalla sposa in un momento terribile, quando egli era
stato proscritto da Lepido e lei riuscì a farlo fuggire, salvandogli la
vita con grande rischio della sua, e poi a ottenergli la grazia da
Ottaviano (I 27 sgg.: Rara sunt tam diuturna matrimonia finita morte,
non divertio in[terrupta; nam contigit] nobis, ut ad annum XXXXI sine
207
offensa perduceretur. Utinam vetust[um ita extremam sub]isset mutationem
vice m[e]a, qua iustius erat cedere fato maiorem... (II 21 sgg.).
Acerbissimum tamen in vi[ta] mihi accidisse tua vice fatebo[r, reddito iam
non inutili] cive patriae benificio et i[ud]icio apsentis Caesaris Augusti
[quom per te] de restitutione mea M. L[epi]dus conlega praesens
inter[pellaretur et ad eius] pedes prostrata humi, n[on] modo non adlevata,
sed tra[cta et servilem in] modum rapsata, livori[bus c]orporis repleta,
firmissimo animo eum [admone]res edicti Caesaris cum g[r]atulatione
restitutionis me[ae, auditisque verbis eti]am contumeliosis et cr[ud]elibus
exceptis volneribus pa[lam ea praeferres], ut auctor meorum peric[ul]orum
notesceret. Quo noc[uit mox quod fecit!] Quid hac virtute efficaciu[s]?
Praebere Caesari clementia[e locum et cum cu]stodia spiritus mei not[a]re
importunam crudelitatem [egregia tua] patientia? Pacato orbe terrarum,
restituta re publica, quieta deinde n[obis et felicia] tempora contigerunt.
Fue[ru]nt optati liberi, quos aliqua[mdiu sors inviderat. Si fortuna
procede[re e]sset passa sollemnis inservie[ns, quid utrique no]strum defuit?
Procedens a[et]as spem [f]iniebat ...”.
Sul progressivo deterioramento delle relazioni fra Antonio e
Ottaviano, con particolare riguardo alla politica orientalizzante di
Antonio che offrì ad Ottaviano il destro di incentrare la sua
offensiva ideologica nell’alternativa “Roma o Alessandria”, v. R.
S YME , The Roman revolution, Oxford 1939 (trad. ital. 1962); H.
B UCHHEIM , Die Orientpolitik des Triumvirn M. Antonius, Heidelberg
1960. Sulla battaglia di Azio, v. M.A. L EVI , in “Athenaeum” n.s. X
(1932) p. 1 sgg.; sulla fine di Cleopatra, T.C. S KEAT , The last days of
Cleopatra, in “Journ. Rom. St.” XLIII (1953) p. 98 sgg.
Per l’intelligenza più piena della riforma costituzionale
augustea, consistente in ultima analisi nell’inserzione dei poteri del
princeps entro i vecchi schemi del reggimento repubblicano,
fondamentale la formulazione dello stesso Augusto circa l’assoluta
superiorità della sua auctoritas, che lo collocava al di sopra di tutti
coloro che pure furono rivestiti di una potestas (consolare,
proconsolare o tribunizia) pari alla sua (Res gest. 34, 1 sgg.: In
consulatu sexto et septimo [= a. 28 e 27], p[ostquam be]lla [civil]ia
exstinxeram per consensum universorum [po]tens [reru]m om[n]ium, rem
publicam ex mea potestate in senat[us populique Rom]ani [a]rbitrium
transtuli. Quo pro merito meo, senatu[s consulto Au]gust[us appe]llatus sum
et laureis postes aedium mearum v[estiti] publ[ice coronaq]ue civica super
ianuam meam fixa est [et clu]peus [aureu]s in [c]uria Iulia positus, quem
mihi senatum pop[ulumq]ue Rom[anu]m dare virtutis clement[iaequ]e
iustitiae et pieta[tis caus]sa testatu[m] est pe[r e]ius clupei [inscription]em.
Post id tem[pus a]uctoritate [omnibus praestiti, potest]atis au[tem n]ihilo
ampliu[s habu]i quam cet[eri qui m]ihi quoque in ma[gis]tra[t]u conlegae
f[uerunt]. Qui si rivela anche la insufficienza della famosa teoria del
Mommsen, secondo cui in Roma si sarebbe instaurata una
208
“diarchia”, cioè una divisione del potere fra principe e senato, e a
ragione quella teoria non ha più avuto seguito. Sulle componenti
della auctoritas dell’Augusto, con particolare riguardo agli elementi
sacrali ad essa inerenti, ci si limiterà a ricordare W. E NSSL IN ,
Gottkaiser und Kaiser von Gottes Gnaden, in “Sitzb. Bayer. Akad.” 6,
1943, pp. 26 sgg.; W. S ESTON , Dioclétien et la tétrarchie, Paris 1946, p.
193 sg.; M. G RANT , From Imperium to Auctoritas, Oxford 1946; A.
M AGDELAIN , Auctoritas principis, Paris 1947; G. E. F. C HILVER ,
Augustus and the Roman constitution, in “Historia” 1 (1950), p. 420
sgg.
All’inizio del passo sopra citato delle Res gestae si trova
un’indicazione illuminante circa il fondamento dei poteri esercitati
da Ottaviano fra il 32 e il 28: uno dei punti più dibattuti nella
recente bibliografia. Scaduti il 31 dicembre del 33 i poteri de l
secondo triumvirato, nel quinquennio successivo Ottaviano
considerò giustificata la sua posizione di arbitro dello Stato in base
alla continuazione di quel consensus universorum che gli aveva
consentito di potiri rerum omnium per aver posto fine alle guerre
civili nel novembre del 36 (quando, appunto, tolti di mezzo Sesto
Pompeo e Lepido, gli venne conferita dal senato la tribunicia potestas
a vita). Cfr. L.A. M ASCKIN , Il principato di Augusto, trad. ital., Roma
1956, e spec. S. M AZZAR INO , in G IANNELLI -M AZZARINO , Trattato di
storia romana, II, p. 76.
Sui vari aspetti tecnici e organizzativi della riform a
dell’amministrazione statale (territoriale, finanziaria, militare ecc.)
v. i contributi di vari autori pubblicati nel volume “Augustus. Stud i
in occasione del bimillenario augusteo”, Roma 1938. Circa la
pretesa dell’imperatore di voler essere considerato, anche
nell’esplicazione di questa sua attività riformatrice, come un
restauratore dell’ordine antico, è significativo, per esempio, che egli
risuscitasse dopo qualche secolo di obliterazione la figura del
praefectus urbi. Però, mentre a suo tempo il prefetto urbano veniva
nominato ne urbs sine imperio foret (T AC ., Ann. VI 11), ossia per
esercitare l’imperium in Roma durante l’assenza di quelli che
normalmente ne erano rivestiti, ora invece chi portava quell’antico
titolo non era altro che un funzionario imperiale incaricato d i
sovraintendere all’ordine pubblico (e destinato a diventare poi uno
degli organi più importanti del governo cesareo: cfr. G. V ITUCCI ,
Ricerche sulla praefectura urbi in età imperiale, Roma 1956). Del resto,
con riferimento alla ripartizione della città in qualche centinaio di
vici, si deve tener presente che ogni vicus aveva come centro sacrale
un compitum, cioè una cappella che sorgeva a un crocicchio; in
queste cappelle da tempo assai antico si usava venerare le immagin i
dei Lari: ora vi si aggiunse il Genius dell’imperatore (da venerare,
209
dunque, ad ogni angolo di strada), cfr G. V ITUCCI , s.v. Lares, in
“Diz. epigr.”, cit., vol. IV p. 402 sgg.
Riguardo alla celebrazione dei ludi saeculares, del 17 a.C., uno
dei momenti più significativi nell’ambito della restaurazione
religiosa e morale dello stato, sarà interessante richiamare due
provvedimenti intesi a metterne in risalto la particolare solennità. Il
primo è un senatusconsultum, emanato su proposta del console Gaio
Silano, per concedere in via eccezionale di poter assistere ai ludi a
coloro che l’anno prima erano caduti sotto le sanzioni della
legislazione demografica di Augusto (C.I.L. VI 32323 =
R ICCOBONO , Leges, Roma 1943 2 , p 274 sg.): [d(e) e(a) r(e) i(ta)
c(ensuerunt), ut quoniam ludi iei] religio[nis] causa sun[t in]stituti neque
ultra quam semel ulli mo[rtalium eos spectare licet..... ludos] quos
[m]ag(istri) XVvir(um) s(acris) f(aciundis) [ed]ent, s(ine) f(raude) s(ua)
spectare liceat ieis qui lege de marita[ndis ordinibus tenentur]. Il secondo
provvedimento è rappresentato da un editto dei quindecimviri sacris
faciundis (C.I.L. VI 32323 = R ICCOBONO , op. cit., p. 317 sg.):
XVvir(i) s. f. dic(unt): Cum bono more et proinde celebrato frequentibus
exsemplis, quandocumq[ue i]usta laetitiae publicae caussa fuit, minui luctus
matrona[r]um placuerit, idque tam sollemnium sacroru[m l]udorumque
tempore referri diligenterque opserva[r]i pertinere videatur et ad honorem
deorum et ad [m]emoriam cultus eorum, statuimus offici nostri esse per
edictum denuntiare feminis, uti luctum minuant.
Nel campo dell’amministrazione provinciale è da rilevare
l’importanza degli editti augustei ritrovati a Cirene pochi decenni
or sono (su cui v., p. es., P. D E V ISSCHER , Les édits d’Auguste
découverts à Cyrène, Louvain 1940). A parte le altre questioni
particolari, qui si può osservare come il principe esercitasse i suoi
poteri eminenti anche nelle province “senatorie”: il suo imperium
proconsulare maius et infinitum - oltre che la sua auctoritas - gli
consentivano di sovrapporsi al normale imperium proconsulare de l
governatore (proconsul) della provincia “senatoria” di Creta e Cirene.
Ma ancor più importante, nel quadro della documentazione
di recente acquisita, è la testimonianza contenuta nella cosiddetta
tabula Hebana. Questa tabula di bronzo, scoperta occasionalmente
presso la etrusca Heba, od. Magliano in provincia di Grosseto (cfr.
U. C OLI , in “Notizie degli Scavi di Ant.” ser. VIII vol. I, 1947, p.
55 sgg.), contiene una legge sulle onoranze funebri da tributare a
Germanico (morto nel 19), in cui fra l’altro si dispone che alle diec i
centurie senatorio-equestri intestate a Gaio Cesare e Lucio Cesare e
istituite da Augusto nel 5 d.C. per procedere alla destinatio dei
consoli e dei pretori se ne aggiungeranno ora altre cinque intestate
al defunto Germanico.
Su queste norme - prima ignote - relative al conferimento
delle magistrature più elevate, sono da notare brevemente almeno
210
due cose: da un lato che la scelta preliminare dei candidati
(destinatio) era diventata dall’anno 5 d.C. frutto di una
collaborazione col principe dell’ordine senatorio integrato da una
rappresentanza qualificata dell’ordine equestre; dall’altro che tali
operazioni della destinatio si svolgevano sotto la “protezione” de i
defunti (ed eroizzati) giovani principi della famiglia imperiale, ed
erano quindi circonfuse di quell’atmosfera di religiosità che
Augusto volle presente in ogni suo atto di governo. Il sistema della
destinatio, di cui ci ha informati la tabula Hebana, funzionò ancor a
per qualche tempo, e infatti sappiamo che venne “aggiornato” nel
23, alla morte di Druso minore (figlio di Tiberio), con l’istituzione
di altre cinque centurie destinatrici (sempre miste di senatori e
cavalieri) intestate appunto all’eroe Druso. Poi, ancora sotto
Tiberio, i cavalieri vennero messi da parte, cioè la nobiltà senatoria
riuscì a ottenere dall’imperatore di estromettere l’ordine equestre
dall’ingerenza che, a partire dal 5 d.C., aveva avuto nella carriera
dei senatori, e d’allora in poi l’elezione di costoro alla pretura e al
consolato fu un atto di esclusiva competenza dell’assemble a
senatoria (sentiti, naturalmente, i desideri del principe): cfr.
M AZZARINO , Trattato cit. p 555 sgg.
Una testimonianza molto interessante circa la crescente
esaltazione della persona dell’Augustus e i connessi sviluppi del
culto imperiale è rappresentata da un editto emanato nel 10/9 a.C.
dal proconsole d’Asia Paolo Fabio Massimo e a noi pervenuto in
via epigrafica (D ITTENBERGER , O. G. I. S. 458; cfr. U. L AFFI , Le
iscrizioni relative all’introduzione ecc., in “St. Class. e Or.” XVII
1967). Con tale editto il proconsole invitava le poleis della provincia
(che erano formalmente autonome così come solo formalmente si
può parlare qui di un invito e non di un ordine) ad abbandonare il
vecchio calendario e ad introdurne uno nuovo avente come
capodanno il 23 settembre, giorno natale di Augusto. Nel
preambolo introduttivo dell’editto, e a sua motivazione,
l’imperatore viene celebrato con le seguenti espressioni (all’inizio il
testo è lacunoso): “.... se sia un giorno più felice o più utile quello
natalizio del divinissimo Cesare, che giustamente potremmo
considerare essere uguale al principio di tutte le cose, e se non
nell’ordine naturale certo nel rispetto dell’utilità, giacché tutto ciò
che decadeva e volgeva in rovina egli raddrizzò, e dette un altro
volto a tutto il mondo, che avrebbe accolto con gran gioia la
distruzione se non fosse nato Cesare, la comune felicità di tutti;
perciò giustamente uno potrebbe ritenere che principio della vita e
del vivere sia stato per lui quello in cui ha smesso di affliggersi d i
esser nato”; cfr. S. M AZZAR INO , Il pensiero storico, cit., II 2 p. 387
sg.
211
A penetrare nell’atmosfera ufficiale di devoto attaccamento
verso l’imperatore e la sua famiglia ci è di guida anche un testo
contenente le deliberazioni prese nel 4 d.C. dalla colonia di Pisa in
segno di lutto per la morte di Gaio Cesare (C.I.L. XI 1421 = I. L.
S. 140): ..... cum a. [d. II]II nonas Apriles (il 2 aprile) allatus esset
nuntius C. Caesarem, Augusti patris patriae [po]ntif(icis) maxsumi custodis
imperi Romani totiusque orbis terrarum praesi[dis filium, divi nepotem, post
consulatum quem ultra finis extremas populi Ro]mani bellum gerens feliciter
peregerat, bene gesta re publica, devicteis aut in [fid]em receptis
bellicosissimis ac maxsimis gentibus, ipsum volneribus pro re pu[bli]ca
exceptis ex eo casu crudelibus fatis ereptum populo Romano, iam designatu[m
i]ustissimum ac simillumum parentis sui virtutibus principem coloniaeque
no[st]rae unicum praesidium, eaque res nondum quieto luctu, quem ex
decessu [L. C]aesaris fratris eius, consulis designati, auguris, patroni nostri
prin[c]ipis
[iu]ventutis,
colonia
universa
susceperat,
renovasset
multiplicassetque ma[er]orem omnium singulorum universorumque, ob eas res
universi decurio[ne]s colonique .... consenserunt ..., oportere ex ea die, qu[a
ei]us deces(s)us nuntiatus esset usqu[e] ad eam diem qua ossa relata atque
co[nd]ita iustaque eius manibus perfecta essent, cunctos veste mutata,
templisqu[e d]eorum immortalium balneisque publicis et tabernis omnibus
clausis, co[nv]ictibus sese apstinere, matronas quae in colonia nostra sunt
sublugere di[em]que eum quo die C. Caesar obit, qui dies est a. d. VIIII K.
Mart(ias) (il 21 febbraio), pro Alliensi lu[gub]rem memoriae prodi,
notarique in praesentia omnium iussu ac vo[lun]tate caverique, ne quod
sacrificium publicum neve quae supplica[tio]nes nive sponsalia nive convivia
publica postea in eum diem eo[ve d]ie qui dies erit a. d. VIIII K. Mart(ias)
fiant concipiantur indicantu[rve], nive qui ludi scaenici circiensesve eo die
fiant spectenturve.
Sulle imprese militari di Augusto, da lui stesso elencate
nell’Index a partire dal cap. 26, è da vedere l’ampio commentario
del M OMMSEN nella seconda edizione delle Res gestae, Berlin 1883.
In particolare, per la sua politica con i Parti (su cui D. M AGIE ,
Roman rule, cit. I, p. 482 sgg.; II, p. l343 sgg.) è da tener presente
anche la documentazione numismatica rappresentata, fra l’altro, d a
due denarii (cfr. H. M ATTINGLY , Coins of the Roman empire in the
British Museum, vol. I, p. 3 sg.) dei quali l’uno raffigura un Parto in
ginocchio, che porge un vessillo, e reca la leggenda CAESAR
AUGUSTUS SIGN(IS) RECE(PTIS), l’altro raffigura un re armeno
in ginocchio e reca la leggenda CAESAR DIVI F(ILIUS)
ARME(NIA) CAPT(A). Su Arminio e l’abbandono della politica di
conquista in Germania, E. H OHL , in “Hist. Zeitschr.” 1943, p. 457
sgg.; I D . in “Sitzb. Deutsch. Ak. Berlin” 1951, p. 1 sgg.
Per gli sviluppi del problema successorio, di recente L.
L ESUISSE , L’aspect héréditaire de la succession impérial sous les JulioClaudiens, in “Les Étud. Class.” XXX (1962) p. 32 sgg.
212
XI
Consolidamento del regime imperiale.
I giulio-claudi.
1. La personalità e il programma di Tiberio. - Il
trapasso del principato nelle mani di Tiberio ebbe
luogo senza scosse. Era il momento più delicato per
la continuità del nuovo regime, ma Augusto con
troppa cura aveva predisposto ogni cosa perché
potesse verificarsi qualche sorpresa. Con i suoi
poteri di correggente, Tiberio aveva già nelle mani le
leve dello Stato; l’unica incognita, ma solo fino ad
un certo punto, restava l’atteggiamento del senato,
cui spettava l’investitura ufficiale del nuovo
imperatore. Non era infatti da escludere che nel
consesso potesse delinearsi, se non addirittura una
corrente favorevole alla restaurazione della
repubblica, almeno un movimento di opposizione al
nuovo principe ad opera di qualche esponente della
nostalgica nobilitas. Simili timori, che i fatti ben
presto dimostrarono vani, è incerto se e fino a qual
punto Tiberio realmente li concepisse. Così
sembrerebbe dai resoconti piuttosto tendenziosi che
alcuni storici, a cominciare da Tacito, ci hanno
lasciato su questi avvenimenti, ove a Tiberio si
attribuisce una grande ambizione mascherata da
un’ancor più grande ipocrisia; invece, a veder le cose
senza malanimo, si trattava soltanto della naturale
circospezione da parte di Tiberio nell’intavolare le
213
prime relazioni col senato in veste di principe, e il
malanimo di Tacito verso Tiberio, a più di mezzo
secolo dalla sua morte, derivava dal giudicarlo
colpevole di essersi fatto strumento, proprio lui che
era un diretto discendente della più antica nobilitas,
del definitivo consolidamento del nuovo regime.
Legittimata dal senato la sua posizione di
princeps, Tiberio mostrò di concepire il potere
imperiale in maniera alquanto diversa dal suo
predecessore. Legato per nascita alle antiche
tradizioni nobiliari e ad esse molto più sensibile del
padre adottivo, che proveniva da famiglia di sola
dignità equestre, Tiberio rinunciò ad alcuni di quegli
attributi che avevano sottolineato la preminenza
personale di Augusto. Pertanto ricusò il titolo (o
meglio, il nome) di imperator e quello di pater patriae e
fu anche incerto se accettare l’epiteto di Augustus,
ma poi si piegò ad assumerlo per non scardinare le
basi ideologiche del nuovo regime, anche se
fermamente rifiutò ogni forma ufficiale di onori
divini. Il suo ideale sarebbe stato quello di instaurare
una stretta collaborazione col senato nel governo
dell’impero per conservare a Roma e all’Italia
l’antica posizione di preminenza; ma il sistema del
principato per sua natura rendeva oltremodo
difficile tale collaborazione, e Tiberio, con tutto il
suo buon volere, non ne ricavò che fama di
ambiguità e d’ipocrisia. Eppure per lunghi anni egli
si sobbarcò a una fatica per vari rispetti più difficile
dell’opera rivoluzionaria di Augusto, quella cioè di
mantenere il regime sui binari del “principato civile”
resistendo a quanti avevano interesse alla sua
trasformazione in un assolutismo dispotico.
214
2. L’opposizione senatoria e il lungo ritiro di Tiberio.
- In rispondenza con un simile programma di
conservazione, Tiberio proseguì una politica estera
fatta di cautela e moderazione. Ponendo un freno
allo spirito avventuroso del figlio adottivo
Germanico, che da tre anni operava oltre il Reno
senza pervenire a risultati concreti e proporzionati
agli sforzi, egli considerò lavata l’onta di
Teutoburgo con la vittoria riportata nel 16 nel
campo Idistaviso (sulla riva destra del Visuris,
odierno Weser), e richiamò Germanico per affidargli
una missione diplomatica presso i Parti. Raggiunto
un accordo col re Artabano III, che aveva
inaugurato una politica nazionalistica di tendenze
apertamente antiromane, Germanico sulla via del
ritorno morì improvvisamente in Siria (a. 19).
Alimentata da coloro che odiavano Tiberio, si
diffuse ben presto la voce che era stato proprio lui a
far togliere di mezzo il figlio adottivo, geloso delle
generali simpatie che quello riscuoteva a preferenza
di Druso, suo figlio naturale. Vere o infondate che
fossero queste dicerie, intorno alla famiglia di
Germanico si raccolse un circolo di opposizione che
ben presto fu bersagliato da una serie di processi di
“lesa maestà” ispirati dalle mire ambiziose di Lucio
Elio Seiano, il prefetto del pretorio di Tiberio.
Questo cavaliere, oriundo di Volsinii (Bolsena),
dopo essersi cattivate le simpatie del vecchio
imperatore,
si
era
audacemente
proposto
d’impadronirsi in qualche modo del potere facendo
il vuoto nella famiglia imperiale, e per prima cosa gli
riuscì (a. 23) di eliminare col veleno Druso (il figlio
di Tiberio) dopo averne sedotta la moglie Livia, di
cui peraltro invano chiese la mano all’imperatore.
215
Qualche anno dopo, mentre Tiberio si ritirava a
Capri nauseato dai malintesi e dall’equivoco che
sempre più avevano caratterizzato i suoi rapporti col
senato, Seiano metteva nella peggior luce presso di
lui la vedova di Germanico, Agrippina, provocando
la deportazione di lei e del figlio maggiore. Nel 31 la
potenza del prefetto toccò il culmine; Tiberio lo
innalzò a suo collega nel consolato e ormai tutto
sembrava autorizzarlo alle più rosee speranze. La
prolungata assenza dell’imperatore (erano quattro
anni che non rimetteva piede a Roma) già aveva
fatto di Seiano l’arbitro dell’Urbe e dell’impero; ora
egli ritenne fosse giunto il momento propizio per
l’ultimo passo e ordì un complotto per sbarazzarsi di
Tiberio. Ma questi, messo finalmente sull’avviso
dalla cognata Antonia, la vedova di suo fratello
Druso, ebbe tempo di aprire gli occhi e, senza
abbandonare la sua solita cautela, di architettare un
piano per la cattura e la soppressione dell’infedele
ministro (a. 31).
Le malefatte e il tradimento dell’uomo in cui
aveva riposto tanta fiducia resero sempre più cupo e
sospettoso l’ormai settantatreenne imperatore e lo
spinsero a restarsene lontano dagli intrighi della
capitale soggiornando a preferenza nell’isola di
Capri. Secondo i malevoli racconti di Tacito e di
Svetonio, egli avrebbe consumato i suoi ultimi anni
nei più turpi piaceri, trascurando le cure di governo
e abbandonando Roma in preda al terrore di una
sequela di processi politici. Viceversa è un fatto che
egli continuò ad adempiere ai suoi doveri di
principe, come mostra il suo energico intervento nel
35 contro Artabano III per impedirgli d’insignorirsi
dell’Armenia.
216
Anche il pensiero della successione fu per
Tiberio causa di tormento. Costretto dai fondamenti
ideologici del principato, come già Augusto, a non
uscire dalla cerchia della famiglia imperiale, non
aveva da scegliere che tra un uomo maturo (Claudio,
figlio di suo fratello Druso) e due giovanissimi
(Gaio, figlio di Germanico, e Tiberio Gemello, figlio
di suo figlio Druso). Scartato il primo perché gli
sembrava inetto al grave compito, non seppe
decidersi fra gli altri due, e si astenne da una
designazione preferenziale pur prevedendo che la
successione sarebbe andata al maggiore d’età, Gaio,
inviso a lui ma largamente popolare come figlio di
Germanico. E proprio Gaio s’impadronì del potere
all’indomani della sua morte, avvenuta in una villa
presso Miseno il 16 marzo del 37.
3. L’esperimento assolutistico di Caligola (37-41). Quando all’età di 25 anni assumeva il principato
nelle forme ormai consuete (investitura del senato,
giuramento di fedeltà dei magistrati, dei cittadini, dei
provinciali, oltre che dei soldati), Gaio, che era stato
sempre tenuto nell’ombra da Tiberio, non aveva
dato alcuna prova di sé. Ma, come figlio di
Germanico, aveva dalla sua il favore del popolo e
soprattutto dell’esercito. Erano stati i soldati ad
affibbiargli l’affettuoso nomignolo di “scarponcino”
(Caligola è da càliga, la calzatura dei legionari con
cui, da bambino, aveva fatto la sua apparizione al
seguito del padre durante le campagne oltre il Reno
del 14-16), e le simpatie si erano moltiplicate dopo
l’immatura morte di Germanico e le persecuzioni
subite dalla sua famiglia ai tempi di Seiano.
217
Il suo avvento fu salutato con favore anche dai
ceti più elevati, che auspicavano un cambiamento
dei sistemi piuttosto duri instaurati da Tiberio negli
ultimi anni, e in effetti il giovane principe ispirò i
primi mesi di governo ad una politica moderata e,
almeno apparentemente, liberale arrivando finanche
a ripristinare i comizi popolari. Ma di lì a poco si
verificò un totale rivolgimento e Caligola scivolò
rapidamente verso uno sfrenato assolutismo, che si
manifestò anche nell’imporre il culto divino della
sua persona (giunse anche a progettare d’introdurre
una sua statua nel tempio di Gerusalemme, e fu solo
per la sua morte repentina che fu evitata una
tragedia). Attento a blandire il popolino con la più
bassa demagogia, in rotta con la nobiltà vessata nelle
persone e negli averi (le confische erano diventate
un cespite ordinario per sopperire ai bisogni di una
politica di larga spesa), l’imperatore non seppe
nemmeno sfruttare l’enorme potenziale bellico di cui
disponeva per rinverdire la gloria militare ereditata
dal padre. Nel 39 passò il Reno alla testa di un forte
esercito, ma poco dopo rientrò in Gallia senza aver
nulla concluso; l’anno appresso mise in moto una
grossa spedizione per la conquista della Britannia,
ma nemmeno questa volta, pare, con serietà
d’intenti.
In quegli anni l’impero andò avanti per forza
d’inerzia; unica via d’uscita era la morte
dell’imperatore e, dopo il fallimento di due congiure,
una terza riuscì e Caligola fu soppresso (24 gennaio
del 41).
4. L’avvento di Claudio e i primi sviluppi della
burocrazia. - La congiura, cui avevano partecipato
218
elementi dell’ordine senatorio, cavalieri e liberti del
palazzo imperiale, si era prefissa soltanto
l’eliminazione di Caligola, senza affrontare, come
sembra, il problema della successione. Ma era un
problema che s’imponeva con tutta l’urgenza e il
senato, immediatamente convocato dai consoli in
Campidoglio, prese a dibatterlo esaminando anche,
nientemeno, l’opportunità di una restaurazione del
regime repubblicano. Per noi è difficile dire quanti
fossero i fautori di un simile indirizzo politico, che a
un pacato esame della situazione non poteva
apparire che un’utopia. Si trattava, in breve, di
sovrapporre all’edificio pazientemente costruito da
Augusto, e collaudato dalle prove di vari decenni,
quelle stesse pericolanti strutture sulle cui rovine
Augusto aveva edificato. Pertanto è da ritenere che
la grande maggioranza del senato, lasciando cadere il
progetto di una riforma costituzionale, si sia
piuttosto soffermata sulla scelta di una personalità
capace di raccogliere l’eredità dei Cesari e di
continuarne l’opera nel maggior rispetto dei suoi
privilegi. Però, assai prima che fra i senatori si
delineasse un accordo, i pretoriani davano al
problema la loro soluzione acclamando imperatore
Claudio, fratello di Germanico e zio di Caligola, e il
senato dové piegarsi a riconoscere il fatto compiuto,
mostrando quanto fosse infondata la speranza sia di
un cambiamento di regime, sia di avere un
successore estraneo alla famiglia imperiale.
Claudio aveva allora 51 anni; appassionato di
studi storici (era stato istruito da Tito Livio) e
amante dell’erudizione, era vissuto appartato dalla
vita pubblica, alla quale sembrava negato soprattutto
per certi difetti che ne compromettevano la
219
prestanza fisica. Suo zio Tiberio lo aveva giudicato
inetto a succedergli, anche per la debolezza del
carattere; ma si trattava di persona tutt’altro che
sprovveduta, e debbono considerarsi esagerazioni
malevole quelle degli autori antichi che lo
descrivono come uno sciocco e un incapace. Se si
tralasciano le poco onorevoli traversie in cui lo
coinvolsero le malefatte delle mogli Messalina e
Agrippina, Claudio appare, tra i principi della casa
giulio-claudia, uno dei più validi continuatori
dell’opera di Augusto.
Fedele alla concezione del “principato civile”,
egli si preoccupò infatti di consolidare il regime
rendendolo più efficiente mediante la creazione di
una burocrazia capace di coadiuvare l’imperatore nel
disbrigo dei molteplici affari di governo. Per le varie
branche
dell’amministrazione
furono
istituiti
appositi uffici, e la direzione ne venne affidata non a
personaggi dell’ordine senatorio o equestre, ma a
liberti della famiglia imperiale. Come nelle case della
più ricca nobiltà una schiera di liberti e servi
sbrigavano le più diverse incombenze, così servi e
liberti imperiali accudivano nel palazzo alle più
svariate mansioni, e poiché non esisteva una
delimitazione precisa tra affari pubblici e privati
dell’imperatore, alcuni di questi liberti, da segretari
privati, si trasformarono in veri e propri funzionari
imperiali. Si ebbe così un liberto a rationibus, capo
dei servizi finanziari, un liberto a cognitionibus,
preposto al funzionamento del tribunale imperiale
(ufficio destinato ad assumere importanza sempre
maggiore con lo allargarsi della diretta ingerenza del
principe nella amministrazione della giustizia), un
liberto ab epistulis per la corrispondenza ufficiale
220
dell’imperatore, un liberto a libellis (suppliche e
petizioni in genere); e alcuni capi di questi uffici,
come Pallante, Polibio, Narcisso e Callisto,
raggiunsero una potenza pressoché illimitata. Questi
“ministri”, che per le loro origini non si sentivano
vincolati al rispetto delle tradizioni nobiliari,
seppero infondere nella politica di Claudio una
tendenza innovatrice che si manifestò, per esempio,
nel conferimento ai notabili della Gallia del diritto
di accedere alle magistrature e al senato (e invano la
gelosa nobilitas cercò dì opporvisi), in larghe
concessioni della cittadinanza romana a provinciali,
nell’accrescere
l’importanza
dei
cavalieri
ammettendoli al governo di alcune province minori
col titolo di procuratores.
5. Le altre realizzazioni di Claudio. - Anche nella
politica estera la burocrazia di palazzo fece sentire la
sua influenza, e fu sotto la spinta di Narcisso che
Claudio si decise a intervenire in Britannia, per
regolare una contesa dinastica tra due capi locali, e
quindi a organizzare un corpo di spedizione che
intraprese l’assoggettamento dell’isola. Dopo i
successi del primo anno di guerra (43) veniva ridotta
a provincia la regione sud-orientale, e mentre
Claudio celebrava uno splendido trionfo, aveva
inizio una serie di campagne per allargare la
conquista e difenderla dalla minaccia delle
popolazioni che premevano dal nord. Per il resto
Claudio si attenne, sulle orme di Augusto e di
Tiberio, a una prudente difesa dei confini,
rinforzando le fortificazioni sul Reno e sul Danubio
e riducendo nella condizione di provincia il regno
vassallo di Mauretania, ove era scoppiata una
221
violenta rivolta antiromana. Meno fortunata fu la
sua azione per affermare il prestigio di Roma nei
confronti dei Parti; questi, anzi, sotto il re Vologese
I recuperarono il loro predominio sull’Armenia
gettando le premesse di un nuovo conflitto.
Una cura particolare fu dedicata allo sviluppo
delle opere pubbliche, fra cui si ricorderà la
costruzione di due nuovi acquedotti, la sistemazione
di un nuovo porto ad Ostia, il prosciugamento
nell’Abruzzo, presso Avezzano, del lago Fucino (che
se anche non riuscì completamente, rimane una delle
opere più ammirevoli dell’antica ingegneria
idraulica); in somma, tutto un fervore di opere in
relazione con la vigorosa ripresa economica dopo gli
sprechi di Caligola.
Durante il principato di Claudio, verso il 49, si
ebbe in Roma il primo provvedimento anticristiano.
Le sue prime persecuzioni (o, piuttosto, vessazioni)
il cristianesimo le aveva subite ad opera soprattutto
dei Giudei, e - secondo alcuni - per reazione a
questa ostilità l’imperatore Tiberio, visto che le
aspettazioni messianiche dei cristiani non erano
rivolte
contro
l’autorità
romana,
mentre
l’intransigenza religiosa dei Giudei spesso esplodeva
in sommosse antiromane, avrebbe proposto nel 35 al
senato di riconoscere la nuova fede come religio
licita. Il senato però avrebbe negato il prescritto
riconoscimento ufficiale, lasciando il cristianesimo
nella condizione di superstitio illicita (e, in quanto
tale, perseguibile).
Mentre l’intervento favorevole di Tiberio
rimane dubbio, è invece un fatto che Claudio, come
si legge in Svetonio (Claud. 25), “espulse da Roma i
Giudei che incessantemente tumultuavano aizzati da
222
un certo Chresto”. Nel riportare tale notizia,
Svetonio, o meglio la sua fonte, non comprese che
in realtà non si trattava di una delle solite
insurrezioni dei Giudei, capeggiata questa volta da
un agitatore di nome Chresto, ma di disordini
provocati in seno alla comunità giudaica di Roma
dall’attiva propaganda dei primi fedeli di Cristo.
Quanto poi al drastico provvedimento di Claudio, è
chiaro che egli lo adottò senza potersi render conto
che dietro a quelle infrazioni contro l’ordine
pubblico fermentava un movimento spirituale
capace di realizzare la trasformazione del mondo
antico.
Di non poco detrimento fu per Claudio la
condotta della moglie Valeria Messalina, non solo
per il disonore nella vita privata, ma anche per il
capriccioso procacciamento di cariche e onori ai
suoi favoriti, senza che l’imperatore riuscisse a
tenerla a freno. Nel 48, invaghitasi di Gaio Silio, un
ambizioso patrizio, Messalina non esitò a sposarsi
segretamente con lui accordandosi per la
destituzione di Claudio; questa volta però, messo
sull’avviso da Narcisso, l’imperatore riuscì a
superare la solita debolezza verso la moglie e lasciò
che fosse soppressa.
Per nulla più rispettabile si dimostrò Giulia
Agrippina, che Claudio (pur essendo suo zio) sposò
l’anno dopo; si trattava, inoltre, di una donna molto
ambiziosa che, per essere figlia di Germanico e di
Vipsania Agrippina (e, dunque, diretta discendente
di Augusto), riteneva di aver diritto a un posto di
primo piano nella vita dell’impero. Dal precedente
marito Agrippina aveva avuto un figlio, Lucio
Domizio Enobarbo, ed ella si propose di assicurargli
223
la successione al principato a danno dei due figli di
Claudio e Messalina, Tiberio Claudio Britannico e
Ottavia. Dopo aver fatto fidanzare con Ottavia il
giovanissimo Domizio, ottenne l’anno dopo (50) di
farlo adottare da Claudio (onde quello cambiò il suo
nome in Nerone Claudio Druso Germanico Cesare)
e quindi di metterlo sullo stesso piano di Britannico
(ma col vantaggio di avere quattro anni di più).
Naturalmente queste manovre suscitarono la
reazione di quanti erano interessati alla successione
di Britannico, tra cui il potente Narcisso; ma quando
Agrippina si accorse che il suo piano stava per
fallire, non ebbe scrupolo di fare avvelenare
Claudio. Con l’appoggio di Afranio Burro, il
prefetto del pretorio che doveva la nomina al suo
favore, fece sì che il figlio fosse acclamato
imperatore dai pretoriani di guardia al palazzo; e
anche il senato, come già era accaduto per Claudio,
non potette che limitarsi a dare il suo
riconoscimento (13 ottobre 54).
6. Nerone e il consolidarsi dell’assolutismo. - Il
potere imperiale era così venuto nelle mani di un
giovane appena diciassettenne, ma gl’inizi del nuovo
principato, oltre che dal giubilo popolare, furono
accompagnati dalle più liete speranze della nobiltà.
Forte dell’appoggio devoto e autorevole di Afranio
Burro, Nerone risentiva anche i benefici influssi
dell’alta personalità del suo precettore, il filosofo
Seneca, ed egli inaugurò il suo governo con la
solenne dichiarazione di voler rispettare le
attribuzioni del senato e dei magistrati e di voler
tenere ben distinte la sua domus e la res publica (ciò
che il predecessore non aveva fatto). Però a questo
224
impegno, che pareva tradurre in atto la dottrina
stoica del suo maestro sul “governo dell’uomo
migliore”, Nerone rimase fedele solo per alcuni
anni.
Il suo cattivo genio fu dapprima la madre
Agrippina; ostacolata nelle mire di imporre i suoi
voleri come regina-madre, costei intraprese un
pericoloso gioco minacciando di appoggiare le
rivendicazioni dinastiche di Britannico, ma con
l’unico risultato di provocarne l’eliminazione da
parte del fratellastro. Per le stesse ragioni, quattro
anni dopo (59), Agrippina fu irremovibile
nell’opporsi all’ingresso nella famiglia imperiale di
una donna ambiziosa come Poppea Sabina; ma
Nerone, che era fermamente deciso a ripudiare
Ottavia per sposarla, non indietreggiò dinanzi al
matricidio e la fece assassinare. Ufficialmente si
parlò di suicidio: Agrippina si sarebbe tolta la vita
per il fallimento di un suo complotto contro il figlio,
ed essendo noti i suoi intrighi la voce trovò credito;
del resto la sua scomparsa fu generalmente accolta
con grande sollievo. Purtroppo, era un gran freno
che veniva a mancare per Nerone, ed egli cominciò a
sottrarsi a mano a mano anche al controllo di Seneca
e di Burro. Questi morì nel 62 (avvelenato, si disse),
e poco dopo, avendo anche Seneca lasciato il suo
ufficio a corte, il regime neroniano subiva un
radicale mutamento di indirizzo. Fino a quel
momento esso era stato ispirato da una tendenza
nettamente favorevole agl’interessi della classe
senatoria, riconoscibile soprattutto in provvedimenti
di carattere finanziario, come la restituzione al
senato del diritto di emettere moneta d’oro e
d’argento (aurei e denarii; la concessione risulta poi
225
revocata intorno al 62-63), o la proposta, poi non
attuata, di un’abolizione delle imposte indirette. Al
contrario nel 64 venne effettuata una riforma
monetaria consistente nel ridurre di peso sia l’aureus
sia il denarius, con profitto non solo dello Stato, ma
anche della piccola e media borghesia; questa infatti
aveva nel denarius la sua moneta, ed ora il rapporto
fra oro e argento risultava mutato a favore di
quest’ultimo.
Animato da una grande passione per la poesia e
dotato di un certo talento istrionico, il principe non
ebbe ritegno di esibirsi in pubblico e di blandire le
masse popolari, cercando anche di diffondere
un’atmosfera di gusti ellenizzanti propizia alle sue
pretese di assolutismo. Ma, a parte l’odiosità
attiratasi con l’uccisione di Ottavia, falsamente
accusata di adulterio, la necessità di spremere denaro
da ogni parte per alimentare la sua vita fastosa gli
alienò anche le simpatie popolari, e quando, nel
luglio del 64, Roma fu in gran parte distrutta da un
terribile incendio, la voce pubblica lo additò come
colpevole del disastro. Si disse che, mentre le
fiamme divoravano gli edifici, egli ne traesse
ispirazione per cantare la caduta di Troia, o anche
che aveva gettato nel lutto tante famiglie per il
capriccio di ricostruire più bella la città; tutte cose
assai probabilmente non vere, ma che gli fecero
temere una sommossa, onde cercò di placare gli
animi addossando ai cristiani la responsabilità del
flagello.
7. Dalla prima persecuzione cristiana alla fine di
Nerone. - Già da qualche tempo l’opinione pubblica
era ostile alla comunità cristiana, considerata una
226
raccolta di malfattori e di “odiatori del genere
umano”. Per volere di Nerone, che cercava anche
con questo mezzo di blandire le masse, l’autorità
stava dando libero corso alle accuse contro i
cristiani, rei di professare una religione non
ufficialmente ammessa (superstitio illicita), e incolpati
di ateismo (essi veneravano un solo Dio e non
riconosciuto), di lesa maestà e di tradimento dei
costumi nazionali. Ora poi venne scatenata la
persecuzione, per fortuna limitata alla sola città di
Roma, e secondo la tradizione cristiana, non molto
distante dai fatti e pienamente attendibile, subirono
allora il martirio gli apostoli Pietro e Paolo.
L’anno dopo la scoperta di una vasta congiura
ordita dal consolare Gaio Calpurnio Pisone diede
l’avvio a un nuovo bagno di sangue (anche Seneca fu
costretto ad aprirsi le vene), e la repressione fu
tanto più spietata quanto maggiori erano le sostanze
da confiscare ai condannati.
Preso da una frenesia di godimenti e di piaceri,
Nerone dedicò i due anni successivi (66-67) ad un
viaggio in Grecia, ove partecipò ai giuochi istmici e
a varie gare, naturalmente mietendo allori dovunque
ed esaltandosi al punto di concedere la libertà alla
Grecia. Questa concessione fece aumentare il
malcontento delle altre province, oppresse dal più
rapace fiscalismo per contribuire al fasto della corte
imperiale, e specialmente delle province occidentali,
ove ben presto scoppiarono vari moti di ribellione.
Il primo a sollevarsi fu il governatore della
Gallia Lugdunense Gaio Giulio Vindice, un senatore
di origine gallica, e poco dopo all’insurrezione si
unirono Servio Sulpicio Galba, che reggeva la
Spagna citeriore e Marco Salvio Otone, governatore
227
della Lusitania. Vindice fu battuto dall’esercito di
Germania rimasto fedele a Nerone, ma Galba alla
testa delle sue legioni passò in Italia senza
incontrare ostacoli. Nerone poteva contare
sull’appoggio dei pretoriani, ma quando anche questi
si ribellarono e (allettati dalla promessa di un forte
donativum) acclamarono imperatore Galba, non gli
rimase che togliersi la vita (9 giugno del 68).
Troppo solide erano ancora le fondamenta
dell’edificio imperiale se esso riuscì ad emergere
indenne dal malgoverno neroniano. Le antiche
tradizioni saldamente radicate in tanta parte della
nobiltà, l’infaticabile intraprendenza della borghesia,
l’efficienza degli eserciti erano evidentemente forze
tali da operare quasi automaticamente in favore della
conservazione dell’impero nonostante le carenze del
governo centrale. Così il valente generale Gneo
Domizio Corbulone, al termine di una lunga e
brillante campagna, ottenne che il principe partico
Tiridate si assoggettasse a ricevere la corona
dell’Armenia dalle mani di Nerone come suo
vassallo (a. 66). Venne anche rinsaldato, dopo il
fallimento della rivolta capeggiata dal la regina
Budicca (a. 60-61) il dominio sulla Britannia, mentre
fu assai più difficile venire a capo della grande
insurrezione giudaica scoppiata nel 66 e destinata a
cessare solo quattro anni dopo con l’assedio e la
distruzione di Gerusalemme. E quando, con Nerone,
si estinse la famiglia giulio-claudia e scomparve
l’ultimo detentore della auctoritas augustea per
privilegio ereditario, quelle stesse forze fecero sì che
l’inevitabile crisi si componesse rapidamente in un
nuovo assetto che, senza rinnegare il passato,
228
assicurava l’apporto di fresche energie alle fortune
dell’impero.
Tra le principali fonti letterarie a noi pervenute sul
principato di Tiberio figurano l’operetta del contemporaneo Velleio
Patercolo, pubblicata nell’anno 30, e poi opere del II sec. (gli
Annales di Tacito, libb. I-VI; la Vita di Svetonio) e del III sec. (la
Storia Romana di Cassio Dione, libb. LVII e LVIII). Com’è noto, lo
scritto di Velleio Patercolo è ispirato da una “tendenza”
encomiastica in netto contrasto con quella più o meno
accentuatamente sfavorevole che anima gli autori posteriori, a
cominciare da Tacito: donde un grosso problema critico che parte
dalla ricerca delle fonti primarie e si sviluppa nell’analisi dei diversi
interessi materiali e delle varie istanze ideologiche che confluirono
nel determinare la fisionomia dei singoli filoni della tradizione. La
bibliografia sugli autori citati è vastissima; qui basterà rinviare a S.
M AZZARINO , Il pensiero storico classico, cit., II, 2.
Tra le numerose monografie dedicate a studiare
complessivamente la figura e l’opera di Tiberio, v. F.B. M ARSH , The
reign of Tiberius, London 1931; E. C IACERI , Tiberio successore di
Augusto, Milano 1944 2 .
Di grande interesse, e assai dibattuto, è il problema sulla
posizione ufficiale che Tiberio aveva al momento di assumere la
successione. Fondamentale su questo punto è il passo di Velleio
Patercolo (II 121): cum ... senatus populusque Romanus postulante patre
eius (cioè Augusto), ut aequum ei (cioè a Tiberio) ius in omnibus
provinciis exercitibusque esset, quam erat ipsi, decreto complexus esset
(etenim absurdum erat non esse sub illo, quae ab illo vindicabantur, et qui ad
opem ferendam primus erat, ad vindicandum honorem non iudicari parem). Il
conferimento a Tiberio (decretato dal senato nell’anno 13 d.C. a
richiesta di Augusto) di un aequum ius in omnibus provinciis
exercitibusque introduceva nell’esercizio del potere imperiale, in
luogo della precedente collegialità disuguale, una collegialità uguale
(ad vindicandum honorem parem)? Stante l’estrema vecchiezza d i
Augusto, il problema non può evidentemente avere riflessi d i
carattere sostanziale ma soltanto formale, e sotto questo rispetto si
deve rispondere che all’ideologia del potere imperiale allora vigente
l’ipotesi di una collegialità uguale non poteva non essere estranea.
In proposito, v., di recente, D. T IMPE , Untersuchungen zur Kontinuität
des frühen Prinzipats, in “Historia” Suppl. V (1962); L. D UPRAZ ,
Autour de l’association de Tibère au principat, in “Mus. Helv.” 1963, p.
172 sgg.
Sull’articolarsi dell’opposizione a Tiberio, da un lato, negli
stessi ambienti di palazzo, una corrente fautrice di una politica di
229
dichiarato assolutismo (capeggiata da Antonia, figlia del triumviro e
vedova di Druso maggiore, e pertanto cognata di Tiberio), dall’altro
la “resistenza” dei circoli senatorii, v. W. A LLEN , The political
atmosphere of the reign of Tiberius, in “Trans. Proc. Amer. Phil. Ass. ”
LXXII (1941) p. 1 sgg. Lo studio dei rapporti tra principe e senato
ha dato stimolo a vari lavori dedicati a una presentazione
panoramica dei personaggi che componevano l’assemblea e di cui si
sia conservato il ricordo. Tali lavori, in ultima analisi, rientrano
nella più ampia cornice delle ricerche di carattere prosopografico,
intese cioè ad offrirci una serie alfabetica di “medaglioni” ridotti
all’essenziale dei personaggi grandi e piccoli del mondo romano
antico (E. K LEBS , H. D ESSAU , P. VON R OHDEN , Prosopographia
imperii Romani saec. I-III, Berolini 1897-98; in corso di pubblicazione
la seconda edizione iniziata nel 1933 da E. G ROAG e A. S TEIN e
giunta ora alla lettera I (Berolini 1966). Per quanto riguarda la
composizione del senato nell’età giulio-claudia, v. S.J. D E L AET , De
Samenstelling van den Romeischen Senaat gedurende de eerste eeuw van het
Principat (28 voor Ch., 68 na Chr.), Antwerpen 1941; LT.
S CHNEIDER , Zusammensetzung des römischen Senates von Tiberius bis
Nero, Diss., Zürich 1942.
Sulla posizione che, scostandosi da quella di Augusto,
Tiberio assunse di fronte al potere imperiale, sono assai
significativi sia i suoi atteggiamenti contrari agli onori divini (v. M.
R OSTOVZEV , L’empereur Tibère et le culte imperial, in “Rev. hist.” 1930
p. 26 sgg.), sia la rinuncia a certe mediazioni per una più larga
intesa tra classi sociali, in particolare fra ordine senatorio e ordine
equestre; illuminante su questo punto l’abbandono del sistema
introdotto da Augusto per la destinatio dei magistrati più elevati
(vedi il capitolo precedente).
Per l’iniziativa di Tiberio, favorevole al riconoscimento del
cristianesimo come religio licita, il punto di partenza è un passo d i
Tertulliano (Apol. V 2 sg.): Tiberius ergo, cuius tempore nomen
Christianum in saeculum introivit, adnuntiata sibi ex Syria Palaestina, quae
illic veritatem ipsius divinitatis revelaverant, detulit ad senatum cum
praerogativa suffragii sui. Senatus, quia non ipse probaverat, respuit. Caesar
in sententia mansit, comminatus periculum accusatoribus Christianorum. Ciò
che soprattutto lascia dubbiosi circa l’attendibilità di questa notizia
è la necessità di ammettere che in un senatusconsultum dell’età di
Tiberio - cui il dato di Tertulliano dovrebbe risalire - si sapesse far
chiaramente quella distinzione fra Giudei e Cristiani che invece
risulta ancora oscura ai tempi di Claudio.
Per il principato di Caligola, fonti principali restano la Vit a
svetoniana e il lib. LIX di Cassio Dione, mentre il racconto d i
Tacito è andato interamente perduto nella lacuna che ha inghiottito
i libri VII-X degli Annales. Tra le opere dedicate a uno studio
230
complessivo dell’opera e della personalità di Caligola, si ricorda
quella di J.P.V.D. B ALSDON , The emperor Gaius, Oxford 1934. Nel
parlare di una sua “pazzia” le fonti, specie Svetonio, hanno
esasperato l’espressione della loro ostilità verso l’indirizzo
assolutistico impresso al governo imperiale. Una delle linee
direttrici del nuovo regime fu la netta contrapposizione ai
precedenti tiberiani, ed è sotto questa luce che si deve valutare la
restaurazione dei comizi popolari, che Tiberio aveva finito per
abolire come ormai superati dalla situazione costituzionale creata
dal principato. Uno degli aspetti più caratteristici della nuova
concezione teocratica del potere imperiale si riflette in un passo
della Vita di Svetonio (Calig. 35, 3) ove nella cornice di un episodio
di crudeltà e di capriccio è in realtà da scorgere un intervento
dell’imperatore per regolare l’arcaico sacerdozio del rex Nemorensis,
intervento cui egli si indusse per essersi identificato con Iuppiter
Latiaris (cfr. S. M AZZARINO , Trattato cit. p. 167).
Per il principato di Claudio fonti principali restano gli
Annales di Tacito (libb. XI e XII, relativi agli anni dal 47 al 54), la
Vita di Svetonio, Cassio Dione nei libri LX e LXI (quest’ultimo
nell’epìtome di Xifilino). Da ricordare anche l’Apocolokyntosis di
Seneca, in cui raggiunge i toni più aspri la “tendenza” delle fonti
generalmente avversa alla figura di Claudio. Questa è stata
nell’insieme largamente rivalutata dalla storiografia moderna; cfr.
per esempio V. M. S CRAMUZZA , The emperor Claudius, Cambridge
Mass., 1940; T.F. C ARNEY , The changing picture of Claudius, in “Acta
Class.” III (1960) p. 94 sgg.
Sulla realizzazione di Claudio che più appare meritevole d i
favorevole apprezzamento, vale a dire l’impianto di un organismo
burocratico capace di assicurare una maggiore efficienza nel
funzionamento dell’amministrazione imperiale, vedi in generale H.G. P FLAUM , Les procurateurs équestres sous le Haut-Empire romain, Paris
1950, p. 36 sgg. Nel quadro di questa attività di potenziamento e di
riorganizzazione degli organi di governo, una cura particolare fu
dedicata a migliorare il funzionamento degli uffici annonarii e delle
distribuzioni di frumento (frumentationes) che si tenevano
periodicamente e gratuitamente a beneficio dei cittadini di Roma:
un impegno fattivo che peraltro non giunse all’abolizione della
praefectura frumenti dandi a suo tempo istituita da Augusto (cfr. G.
V ITUCCI , Nota al cursus honorum di L.Iulius Romulus ecc. in “Riv.
Filol.”, 1947, p. 252 sgg.
Un altro degli aspetti più notevoli dell’attività novatrice di
Claudio, la sua politica di apertura verso le istanze dei maggiorenti
della Gallia, ci è testimoniato, oltre che dal racconto di Tacito
(Ann. XI 23-25), anche da un documento di primario interesse, la
cosiddetta tabula Claudiana di Lione (C.I.L. XIII 1668= I.L.S. 212),
231
un’epigrafe che ha parzialmente conservato il testo del discorso
pronunziato in senato dall’imperatore nell’anno 48 per sostenere la
sua proposta de iure honorum Gallis dando.
Sulla conquista della Britannia, dopo H AVERFIELD , The
Roman occupation of Britain, Oxford 1924, si veda E. Birley, Roman
Britain and the Roman army, Kendal 1953.
Per il principato di Nerone fonti principali restano i libri dal
XIII al XVI degli Annales di Tacito (il libro XVI s’interrompe ai
fatti dell’anno 66), la Vita di Svetonio, Cassio Dione (libri LXII e
LXIII nell’epìtome di Xifilino) e vari accenni negli scritti di Seneca.
L’esame critico della tradizione rappresentata da questi autori è
oggetto di un’apposita ricerca di K. H EINZ , Das Bild Kaisers Nero bei
Seneca, Tacitus, Sueton und Cassius Dio, Diss., Bern 1946, ed è anche
alla base della ricostruzione della figura e dell’opera di Nerone fatta
da M.A. L EVI , Nerone e i suoi tempi, Milano 1949. Vedi anche G.
W ALTER , Néron, Paris 1955. Particolari aspetti di vita romana in età
neroniana (e non nel III sec., come volle anche il Niebuhr) si
riflettono nel Satyricon di Petronio; cfr. S. M AZZARINO , Trattato cit.,
p. 171 sg.
Sui primi anni di governo “costituzionale”, fino a quando
non scoppiò insaziabile il dissidio con l’assemblea senatoria, cf.
F.S. L EPPER , Some reflections on the quinquennium Neronis, in “Journ.
Rom. Stud.” XLVII (1957), p. 95 sgg. La svolta in senso
assolutistico, preceduta dal matricidio e dall’allontanamento di
Seneca, si sviluppò attraverso una serie di provvedimenti che,
mentre danneggiavano la classe nobiliare, parallelamente favorivano
l’economia dei ceti inferiori. Dopo un fallito tentativo di riforma
tributaria consistente nell’abolizione delle imposte indirette, come i
dazi e le dogane, una delle tappe più significative di questo
sviluppo fu la riduzione del peso dell’aureus da 1/40 a 1/45 di
libbra (cioè da grammi 7, 70 circa a g. 7, 30 circa) e del denarius da
1/84 a 1/96 di libbra (cioè da grammi 3,90 circa a g. 3, 40 circa).
Fu un’operazione che si svolse a tutto vantaggio dello Stato (cioè
dell’imperatore, che con la stessa quantità d’oro emetteva adesso
non più 40, ma 45 aurei, e con la stessa quantità d’argento non più
84, ma 96 denarii) e della piccola borghesia che, per pagare i suoi
debiti ai ricchi signori, disponeva ora di un nominale - il denarius di diminuito valore reale (cfr. E.A. S YDEN HAM , The coinage of Nero,
London 1920; L.C. W ESP , Gold and silver coin standards in the Roman
empire, New York 1941). Un altro provvedimento importante nel
campo dell’amministrazione finanziaria era stato quello di sottrarre
la gestione del vecchio Tesoro (aerarium Saturni) ai magistrati che la
esercitavano per antica tradizione (i questori, poi per qualche
tempo, i pretori) e di affidarla a due funzionari imperiali, i praefecti
aerarii Saturni (T AC ., XIII 28 sg.).
232
Sull’incendio di Roma, che certamente non fu doloso, e la
persecuzione dei Cristiani, v. F.W. C LAYTON , Tacitus and Nero’s
persecutions of the Christians, in “Class. Quart.”, XLI (1947), p. 8l
sgg.; K. B UCHNER , Tacitus über die Christen, in “Aegyptus”, XXXIII
(1953) p. 181 sgg.; J. B EAUJEU , L’incendie de Rome en 64 et les
Chrètiens, in “Latomus”, XIX (1960) p. 65 sgg., 291 sgg.
233
XII
Dai Flavi agli Antonini.
L’ascesa della borghesia italica e provinciale.
1. La svolta degli anni 68-69. - Alla morte di
Nerone quattro principi si susseguirono nel giro di
un anno e mezzo alla testa dell’impero
contendendosi il primato con l’appoggio degli
eserciti: nella carenza di un prestigio personale, sia
pure ereditario, il nuovo imperator non poteva
affermarsi che con la forza delle armi vittoriose.
Al vecchio Galba, che non aveva saputo
destreggiarsi tra le opposte fazioni del senato, e per
di più aveva disgustato i pretoriani con la sua
severità, le maggiori difficoltà cominciarono a venire
dagli eserciti di Germania, verso i quali aveva
mostrato la sua avversione per il soffocamento del
moto di Giulio Vindice. Questi eserciti acclamarono
imperatore il loro comandante Aulo Vitellio e si
prepararono a marciare su Roma, ove qualche giorno
dopo una tempesta ancora più rovinosa si abbatteva
sul capo di Galba. Infatti nel gennaio del 69 i
pretoriani insorgevano contro di lui, l’assassinavano
ed acclamavano imperatore Salvio Otone.
Assicuratosi con abile azione il favore del
senato e del popolo, ottenuto il consenso dell’Italia
e il giuramento di fedeltà degli altri eserciti, Otone si
apprestò a fronteggiare la calata delle legioni di
Germania e quindi mosse a incontrarle nell’Italia
234
settentrionale. La battaglia decisiva si svolse in
aprile a Betriacum (presso Cremona); quivi Otone
scontò il duplice errore di non aver atteso i rinforzi
delle legioni delle province danubiane e di non aver
partecipato di persona al combattimento, e per non
sopravvivere alla disfatta si diede la morte.
Entrato in Roma alla testa delle sue truppe,
Vitellio si preoccupò soprattutto di ricompensarle
immettendole largamente nelle coorti pretorie e
urbane; per il resto lasciò mano libera ai suoi
generali (sebbene ostentasse il massimo ossequio
verso il senato) e si abbandonò alla crapula e ai
divertimenti. L’esito del conflitto aveva però lasciato
un grande scontento fra le legioni dell’esercito
danubiano, arrivate troppo tardi in soccorso di
Otone; anche nell’esercito di Oriente il giuramento
di fedeltà a Vitellio era stato prestato senza
entusiasmo, e ai primi di luglio tutte queste forze
furono concordi nell’acclamare imperatore Tito
Flavio Vespasiano, che dal 67 dirigeva le operazioni
contro gl’insorti della Giudea.
Dalla loro parte era non solo il vantaggio
numerico, ma anche quello di una maggiore
efficienza, perché le truppe di Vitellio durante il
soggiorno in Italia e in Roma si erano infiacchite nei
bagordi, e soprattutto avevano molto sofferto per il
cambiamento di clima. Così, senza attendere l’arrivo
delle legioni d’Oriente, riuscì a quelle dell’esercito
danubiano di battere i vitelliani (ancora a Betriacum,
nell’ottobre) e di risolvere la situazione in favore di
Vespasiano. Prima dell’ingresso dei vincitori in
Roma, il praefectus urbi Tito Flavio Sabino, fratello di
Vespasiano, cercò di concludere un accordo con
Vitellio per una pacifica abdicazione, ma i pretoriani
235
si opposero ad ogni compromesso, ed espugnato ed
incendiato il Campidoglio, dove Sabino si era
asserragliato, lo uccisero e si apparecchiarono alla
più strenua resistenza. Dopo aspri combattimenti
per le vie della città, i castra praetoria vennero presi
d’assalto, Vitellio fu trucidato (20 dicembre) e il
giorno dopo Vespasiano, rimasto unico capo
dell’impero, otteneva il riconoscimento del senato.
2. Il principato “borghese” di Vespasiano. - Tito
Flavio Vespasiano era nato presso Rieti nel 9 d.C. da
famiglia di sola dignità equestre, ma era riuscito a
percorrere una brillante carriera raggiungendo sotto
Claudio il consolato. La mediocrità delle sue origini
e la modestia del suo tratto, unite alle solide qualità
dimostrate
nei
vari
incarichi,
l’avevano
raccomandato a Nerone per conferirgli l’importante
comando della guerra giudaica; quelle stesse qualità,
tipiche della borghesia italica, si affermavano ora
con lui alla testa dell’impero, contendendo all’antica
nobiltà romana il monopolio delle cariche goduto
fino a quel momento. Infatti era soprattutto una
nuova mentalità che con l’avvento di Vespasiano si
affermava nel governo della cosa pubblica, meno
incline al fasto del luxus nobiliare e più sensibile alle
esigenze di una sana amministrazione.
Debitore all’esercito della sua elezione, ma
fermamente deciso a mantenere il regime sui binari
del “principato civile”, egli cercò anzitutto di
risolvere il problema costituzionale dei suoi poteri
personali. Considerandosi, e ben a ragione, non
sufficientemente dotato di auctoritas per fondarvi il
suo primato nella direzione dell’impero, si fece
conferire dal senato e dal popolo un esplicito
236
mandato attraverso la promulgazione della
cosiddetta lex de imperio Vespasiani, ove tra l’altro si
legge che egli veniva autorizzato a compiere
qualsiasi atto nell’interesse dello Stato utique
quaecumque ex usu rei publicae maiestate divinarum
huma[na]rum publicarum privatarumque rerum esse
censebit, ei agere facere ius potestasque sit, ita uti divo
Aug(usto) Tiberioque Iulio Caesari Aug(usto) Tiberioque
Claudio Caesari Aug(usto) Germanico fuit.
Forte di questa solenne investitura, che lo
sottraeva ai mutevoli umori degli eserciti,
l’imperatore poté attendere a una severa
restaurazione della disciplina militare, smarritasi in
due anni di guerre civili, e quindi procedere alle
opportune riforme. Da buon borghese, si preoccupò
in particolar modo di rimettere in sesto la finanza
statale, e vi pervenne sia con una politica di rigide
economie, accompagnata da un fiscalismo anche
troppo esoso, sia incrementando i redditi del
patrimonio imperiale, che per effetto delle continue
confische si era dilatato al punto da fare
dell’imperatore il più grande proprietario terriero.
Più difficile gli riuscì invece realizzare il desiderio di
mantenere sul piano della cordiale collaborazione i
suoi rapporti col senato. Infatti, nonostante egli vi
avesse introdotto nuovi elementi presi dal fior fiore
della borghesia italica e delle province occidentali,
nell’assemblea continuarono a prevalere taluni
atteggiamenti dell’antica nobilitas ispirati ad una certa
sostenutezza verso il principe, tuttavia senza dar
luogo a conflitti insanabili.
Risolti i principali problemi di governo,
Vespasiano ebbe cura di rimettere ordine nei diversi
campi dell’amministrazione periferica, e tale scopo
237
fu raggiunto anche mediante la creazione di nuovi
organismi cittadini (colonie e municipi) e col
promuovere l’assimilazione dei provinciali attraverso
larghe concessioni del diritto di cittadinanza romana
o, almeno, del “diritto latino” (che fu esteso a tutta
la Spagna).
A
questo
fervore
di
opere
per
il
consolidamento delle basi politiche e sociali dello
Stato si accompagnò un’energica politica per la
difesa dei confini e la conservazione della pace. La
rivolta dei Batavi, che scoppiata nel clima turbinoso
dell’anno 69 sembrò per un momento sfociare nella
secessione della Gallia, fu prontamente domata
l’anno appresso, e la saggia rinuncia a troppo
drastici provvedimenti repressivi fece sì che la pax
Romana tornasse ben presto a regnare in quelle
regioni. Assai più dura, a causa del suo carattere, fu
nell’estate dello stesso anno 70 la conclusione della
guerra giudaica che il figlio Tito portava a termine
con l’espugnazione di Gerusalemme, la distruzione
del Tempio, la riduzione del paese a provincia
romana (provincia imperiale di Giudea). La vittoria
fu sottolineata dalla celebrazione di un magnifico
trionfo e più tardi dalla dedica dell’arco che ancor
oggi si erge sulla via Sacra. Altre operazioni furono
condotte sui confini del Reno e del Danubio, per
fortificarvi il sistema difensivo, e in Britannia, ove la
conquista fu allargata fino alla Scozia.
Nell’assiduo sforzo di consolidare l’impero,
Vespasiano si preoccupò anche di assicurare la
continuità del regime e perseguì una vera e propria
politica dinastica, preparando assai per tempo la
successione a Tito. Fin dal 71 gli fece conferire la
tribunicia potestas, lo ebbe collega in sette consolati, e,
238
cosa più importante e a un tempo inconsueta, lo
nominò prefetto del pretorio (carica riservata ai
cavalieri), evidentemente per garantirsi la fedeltà dei
pretoriani; e quando dopo dieci anni di principato
morì, il 23 giugno del 79, il potere passò senza
scosse nelle mani di Tito (Titus Flavius Vespasianus,
primogenito e dunque omonimo di suo padre).
3. Tito e Domiziano. L’impero sotto i Flavii. Eccellenti erano le prove di intelligenza e di capacità
che per tanti anni Tito aveva dato a fianco del
padre, ma erano note anche una certa sfrenata
ambizione e una tendenza ai piaceri smodati che a
molti facevano temere si preparasse l’avvento di un
nuovo Nerone. Accadde invece che la responsabilità
dell’impero, ormai tutta sulle sue spalle, gl’ispirò
consigli di moderazione e di prudenza, e in breve
egli seppe conciliarsi quelle simpatie che gli valsero
l’epiteto di “delizia del genere umano”. Qui si
esprimeva soprattutto la soddisfazione degli
ambienti tradizionalisti, e quindi in primo luogo dei
circoli senatorii, per il fatto che Tito, anche se
perdutamente innamorato della principessa giudaica
Berenice, la bellissima sorella del re Erode Agrippa
II, si era ben guardato dal prenderla in moglie e dal
rinnovare, così, lo scandalo che a suo tempo
avevano dato Antonio e la sua unione con l’egizia
Cleopatra.
Purtroppo il suo principato venne funestato da
un susseguirsi di calamità. Nell’agosto del 79 una
terribile eruzione del Vesuvio seppelliva le città di
Pompei, Stabia ed Ercolano (e vi perì anche Plinio il
Vecchio, il dotto naturalista che, per studiare troppo
da vicino il fenomeno, fu una delle prime “vittime
239
della scienza”). L’anno dopo un nuovo incendio,
paragonabile quasi a quello neroniano, distruggeva
una gran parte dell’Urbe, e per di più faceva la sua
apparizione lo spettro della pestilenza. Per la
ricostruzione di Roma e per soccorrere le vittime di
tanti flagelli Tito stanziò somme enormi, e con una
generosità tale, che il suo successore si trovò poi in
gravi difficoltà finanziarie.
Un’improvvisa malattia lo stroncava, a soli 42
anni, il 13 settembre dell’81, e il principato passava
nelle mani del fratello Tito Flavio Domiziano.
Nato il 24 ottobre del 51, Domiziano stava per
compiere i trent’anni quando l’acclamazione dei
pretoriani e il riconoscimento del senato lo
consacravano principe dell’impero. Non aveva,
dunque, una età troppo giovanile, ma era sprovvisto
di esperienza perché sia il padre sia il fratello, pur
pensando alla eventualità di una sua successione,
l’avevano tenuto in disparte dagli affari di governo
giudicando il suo carattere ribelle e ambizioso.
Giunto al potere assai prima di quanto potesse
sperare, Domiziano avvertì immediatamente il
disagio di non possedere alcun prestigio personale e,
abbandonata la politica conciliante col senato già
seguita dal padre e dal fratello, imboccò la via del
più autoritario dispotismo. Pertanto ebbe cura di
potenziare la burocrazia di palazzo, di accrescere
l’importanza del consilium principis, formato dai suoi
consiglieri privati, e soprattutto di assicurarsi il
favore degli eserciti e del popolo, premesse
indispensabili per imporre la pretesa di essere
ubbidito come dominus e venerato come deus.
Assillato ben presto dalle difficoltà finanziarie,
cercò di aumentare le entrate con vari mezzi, fra i
240
quali non ultimo una serie di confische a danno della
ricca nobiltà, che con il suo atteggiamento ostile gli
offriva continue occasioni di imbastire processi di
lesa maestà.
Del resto il suo fu un malgoverno più dal
punto di vista formale (per il carattere assolutistico e
l’abbandono delle tradizioni del “principato civile”)
che sostanziale, come mostrano l’assiduo controllo
esercitato di persona sul funzionamento della
amministrazione centrale e sul comportamento dei
governatori di provincia. Domiziano cercò anche di
restaurare il culto tradizionale arginando il
propagarsi delle nuove religioni orientali; infierì
specialmente contro i Giudei, ma anche i Cristiani
vennero perseguitati (a. 95), e fra costoro caddero
vittime anche Tito Flavio Clemente, cugino
dell’imperatore, e sua moglie Flavia Domitilla. Sarà
appena il caso di dilungarsi a rilevare quanta strada
avesse già fatto il proselitismo cristiano: gli autori
classici, legati alla tradizione pagana, passano la cosa
sotto uno sprezzante silenzio, ma è un fatto che già
nel corso del primo secolo un senatore di rango
consolare, come Flavio Clemente, aveva abbracciato
la nuova fede.
Assai notevole fu anche la ripresa della politica
di espansione sui confini dell’impero. Allargata
ulteriormente la conquista della Britannia e avviata
l’opera di romanizzazione dell’isola, l’imperatore
condusse anche una guerra vittoriosa contro la gente
germanica dei Catti e ne occupò il territorio
procedendo ad una rettifica del confine assai
vantaggiosa per la difesa. Meno brillante fu l’esito
della lotta contro il re dei Daci, Decebalo, che si
concluse con una pace di compromesso, ma servì a
241
contenere per il momento la minaccia di quei barbari
sulle province danubiane.
Nonostante
questi
innegabili
successi,
Domiziano si trovò sempre più invescato nella lotta
contro l’opposizione senatoria, e la necessità di
difendersi da una serie di congiure lo portò a
instaurare negli ultimi anni un regime di terrore che
rese ancora più cupo il carattere tirannico del suo
principato. Dopo vari tentativi falliti, riuscì un
complotto ordito da personaggi delle classi più
elevate d’accordo con liberti e schiavi imperiali, e il
18 settembre del 96 Domiziano fu pugnalato nei
suoi appartamenti.
Con lui si estingueva la dinastia dei Flavii, che
nell’insieme aveva largamente meritato dell’impero
preservandone la coesione contro la minaccia delle
incipienti tendenze separatiste e, soprattutto,
attuando un’illuminata politica, fatta insieme di
conservazione e di innovazione. Conservazione
specialmente del costume e della disciplina
tradizionali (le ripetute espulsioni dei filosofi greci
da Roma risposero ad un bisogno di difesa contro le
distruttive ideologie anarcoidi da essi professate),
innovazione specialmente per l’immissione nella
classe dirigente di nuovi elementi attinti dalle
aristocrazie municipali dell’Italia e delle province. A
tale proposito è notevole che proprio in questo
periodo si ebbe in Roma la istituzione di scuole
superiori a spese dello Stato; evidentemente,
l’imperatore avvertiva l’esigenza di promuovere e
indirizzare la preparazione di una nuova classe di
governo, mentre in precedenza tale istruzione aveva
sempre rivestito un carattere privato.
242
E fu appunto il progressivo inserimento di
queste nuove forze che, continuando ad allargare le
basi politiche dell’impero a scapito della gelosa
nobiltà di Roma (e pertanto ostinata nella sua
opposizione), preparò e contribuì al fulgore dell’era
successiva. Di pari passo, intanto, procedeva il
diffondersi della humanitas romana, e se l’Italia
continuò a restare (ma ancora per poco) al centro
del movimento artistico e letterario, ad essa già si
affiancavano le province più romanizzate, come la
Gallia, la Spagna e l’Africa ormai pronte a
raccogliere e sviluppare l’antica tradizione culturale.
4. Nerva e il principato “adottivo”. - Alla morte di
Domiziano il senato elesse imperatore il vecchio
consolare Marco Cocceio Nerva, uomo di antica
nobiltà patrizia, che era stato fra gli esponenti della
congiura. Egli però non aveva un passato di
condottiero, e la sua elezione provocò il malumore
dei pretoriani, sia per il loro attaccamento a
Domiziano, sia perché avrebbero preferito scegliere
essi stessi il successore. Nonostante la promessa del
solito donativum, il malumore non tardò a
trasformarli in ribelli, e l’imperatore, dopo una vana
resistenza,
dovette
subire
l’umiliazione
di
consegnare loro alcuni fra i congiurati, che furono
immediatamente passati per le armi.
Dopo questo sconcertante episodio ritornò una
certa calma, ma a Nerva apparve subito l’estrema
debolezza della sua posizione e pensò di rafforzarla
adottando come figlio un uomo capace di riscuotere
i consensi del senato e dell’esercito. La sua scelta
cadde su Marco Ulpio Traiano, allora governatore
della Germania, che all’atto stesso della sua
243
adozione (nell’autunno del 97) venne designato alla
successione e rivestito poco dopo della potestà
tribunicia e dell’imperium proconsulare.
Aveva inizio così la serie dei principi
“adottivi”, sotto i quali l’impero toccò il suo apogeo
traducendo in vigorosa spinta di espansione in ogni
campo tutte le sue energie, senza più soffrire troppo
il travaglio della lotta tra principe e senato. La
nobiltà senatoria, abbandonato ormai da tempo ogni
sogno di un’impossibile restaurazione repubblicana,
auspicava che il potere imperiale venisse acquisito
non per diritto di sangue, ma per meriti personali
capaci di contraddistinguere nel suo seno “l’uomo
migliore”. La natura del principato, al contrario, era
tale da esigere quasi di necessità una politica
dinastica, come già Augusto per primo aveva
mostrato.
Ora la circostanza che gl’imperatori da Nerva
ad Antonino Pio non avessero discendenza maschile
rese possibili, mediante l’adozione del successore,
sia la scelta del “migliore” sia la continuità dinastica
di padre in figlio (adottivo).
La nuova atmosfera politica, così diversa da
quella che aveva regnato sotto i Flavii, e
specialmente sotto Domiziano, venne salutata dalla
nobilitas con l’entusiasmo che si può cogliere, per
esempio, nelle parole di Tacito (Agr. 3) quando
scriveva che Nerva aveva mostrato come si
potessero “conciliare due cose un tempo
inconciliabili,
il
principato
e
la
libertà”.
Naturalmente, non era nemmeno da pensare che il
principato facesse qualche passo indietro o soltanto
si fermasse sulla parabola che stava percorrendo
verso il più rigido assolutismo. Il senato, invece che
244
trascurato o perseguitato, si vide restituito nella sua
dignità; ma nel tempo stesso che gli mostrava la sua
deferenza, il principe continuava ad accentrare nelle
sue mani il potere, e quindi a sviluppare una
burocrazia sempre più invadente nei campi un
tempo riservati alla competenza dei senatorimagistrati. Ad ogni modo una distensione vi fu, e vi
concorse anche il fatto che, mentre il senato si
veniva rapidamente mutando, se non nei suoi ideali,
nella sua composizione per effetto dell’ingresso
sempre più largo di elementi provinciali, ugualmente
provinciali (cioè romani di famiglia residente in
provincia) furono due dei più grandi imperatori di
questo periodo, Traiano e Adriano.
E fu appunto nel corso del II secolo che il
sistema amministrativo del principato, attraverso
una più armonica fusione e il perfezionamento delle
sue strutture, raggiunse il grado più alto di
efficienza. La determinazione sempre più precisa
dell’ambito delle funzioni pubbliche e la loro
inserzione nella cornice di un rigoroso ordine
gerarchico vennero anche esteriormente espresse nei
titoli, diventati di uso comune sotto Marco Aurelio,
di clarissimus per gli appartenenti all’ordine senatorio
e di egregius per gli appartenenti all’ordine equestre
(o anche di perfectissimus o di eminentissimus per i gradi
più elevati).
Fu specialmente la carriera equestre che venne
inquadrata entro schemi determinati fino a
raggiungere stabilità di struttura sotto Adriano.
Avvenne allora che, divenuta completamente
pubblica l’amministrazione del palazzo imperiale, ne
scomparvero i liberti che dirigevano i vari dicasteri
per cedere il posto a procuratores, e questi erano
245
cavalieri al pari degli altri procuratores preposti ai vari
uffici amministrativi in ogni parte dell’impero.
Anche le prefetture, all’apice della carriera equestre,
vennero ordinate secondo una scala gerarchica che
dal tempo di Traiano si svolse secondo i gradi della
prefettura dei vigili, dell’annona, dell’Egitto, del
pretorio. Sorvolando su altri particolari, è almeno da
ricordare che sempre nel II secolo venne migliorata
la situazione fiscale col passaggio della riscossione
dei tributi dal sistema delle società appaltatrici
(publicani) a quello della gestione diretta.
Nell’insieme, l’impero vide attenuarsi in certo
grado la sua fisionomia di organizzazione per lo
sfruttamento delle province a beneficio della città
dominante, e dall’accrescersi dei consensi sempre
maggior impulso doveva ricevere la diffusione della
romanità, sentita come apportatrice di ordine e di
pace universale. Questo processo toccò ora il suo
apogeo, favorito dall’esistenza di un’unica grande
area monetaria, dalla tendenza verso un comune
sistema giuridico, dall’affermarsi del latino in tutto
l’occidente (nel mondo orientale il greco aveva
tradizioni culturali troppo valide, e continuò a
imporsi come seconda
lingua dell’impero).
Agricoltura, industria, commerci, potenziati anche
da una fitta rete stradale (ma per i trasporti si usò a
preferenza la più economica via marittima o
fluviale), prosperarono di pari passo con la vita
intellettuale. Poeti, oratori e letterati, a parte quelli
di lingua greca, provennero non solo dall’Italia, ma
anche dalla Spagna e specialmente dall’Africa.
Dappertutto, poi, vi fu una notevole fioritura delle
arti, specie dell’architettura, creatrice di monumenti
che ancor oggi da un capo all’altro del Mediterraneo
246
parlano con la più grande immediatezza della civiltà
di Roma.
5. Traiano e la ripresa dell’espansione territoriale. Dopo il breve principato di Nerva, il nuovo clima
politico si rispecchia nell’impero di Traiano (98117).
Oriundo della Spagna, una delle province più
romanizzate, il nuovo imperatore era un tipico
rappresentante di quella borghesia municipale che i
Flavii avevano inserito nella classe dirigente. Figlio
di un consolare, Traiano aveva anch’egli raggiunto il
consolato ordinario nel 91 per i suoi meriti di
valoroso condottiero e di prudente amministratore.
L’adozione di Nerva lo raggiunse mentre, come
governatore della Germania, stava curando il
rafforzamento delle difese sull’alto Reno, ed egli
continuò ad attendervi anche dopo aver ricevuto la
notizia che alla morte del padre adottivo (27 gennaio
del 98) il potere era passato nelle sue mani. Sicuro
che in Roma nessun pericolo poteva minacciarlo, si
trattenne ancora un anno a sistemare la frontiera
dell’alto Danubio e quindi, nella primavera del 99,
fece il suo ingresso nella capitale fra le più
entusiastiche accoglienze.
Con una consumata abilità di politico che
uguagliava le doti di capitano, Traiano seppe
improntare a reciproco rispetto le sue relazioni col
senato, mostrandosi in ogni occasione pieno di
ossequio verso l’assemblea, che lo ripagò col titolo
di optimus. Tutto questo, peraltro, non portò ad
alcun sostanziale mutamento del rapporto fra
attribuzioni del senato e poteri del principe, che
continuarono a restare preminenti nella direzione
247
politica dell’Italia e dell’impero. Pertanto è difficile
dire se fu veramente sotto l’influenza del senato,
oppure no, che egli svolse all’interno un’azione per
vari aspetti conservatrice. In quest’ambito sono
almeno da ricordare le sue provvidenze intese a
impedire che l’incipiente declino economico, sociale
e demografico facesse decadere l’Italia dalla secolare
funzione di spina dorsale dell’impero. Pertanto,
riallacciandosi a un progetto di Nerva, egli sviluppò
l’istituto degli alimenta, consistente nel sostenere
l’agricoltura mediante la concessione di prestiti
ipotecarii a modico interesse ai proprietari di terre, e
nel
devolvere
poi
gli
interessi
introitati
all’allevamento e all’educazione di un certo numero
di ragazzi.
Ma il campo in cui egli certamente impose la
sua personalità fu quello della politica estera, ove
due problemi in particolare si ponevano per la
sicurezza dell’impero. Si trattava, da un lato, di
allontanare dalle province danubiane il pericolo dei
Daci, già fattosi minaccioso sotto Domiziano,
dall’altro di arrivare ad una stabile sistemazione dei
rapporti con i Parti, l’ormai secolare e irriducibile
nemico di Roma sul confine orientale. Della
risoluzione di questi due problemi egli fece il centro
del suo programma, e stimò che solo con le armi
avrebbe potuto raggiungerla in maniera radicale.
La campagna contro i Daci si svolse in due
riprese, negli anni 101-102 e 105-106 e, al termine di
un’aspra lotta (raffigurata negli episodi più salienti
sulla colonna che ancora si erge nel foro Traiano), si
concluse con la disfatta del re Decebalo e la
riduzione a provincia di un vasto e ricco territorio al
di là del Danubio. La Dacia divenne così il baluardo
248
avanzato dell’impero nell’Europa centrale, e fu
rapidamente romanizzata mediante il trapianto di
numerosi coloni, la cui lingua ancor oggi si continua
nei dialetti romeni.
Alla lotta contro i Parti Traiano dedicò gli
ultimi tre anni del suo principato. Preceduta dalla
riduzione a provincia dell’Arabia (cioè del regno
degli Arabi Nabatei, che dei territori compresi fra
l’Asia Minore e l’Egitto era l’unico rimasto ancora
soggetto a Roma nella forma indiretta del
vassallaggio), la guerra prese le mosse da uno dei
tanti episodi della lunga contesa per il predominio
dell’Armenia, ove il re dei Parti Cosroe aveva
imposto la sovranità del fido Partamasiri.
Entrato nell’Armenia nei primi mesi del 114,
Traiano non accettò le profferte di vassallaggio di
Partamasiri e dichiarò la regione provincia romana;
quindi avanzò vittoriosamente fino al Golfo Persico
e, occupate una dopo l’altra Babilonia, Seleucia e la
capitale Ctesifonte, istituì le altre due province di
Mesopotamia e di Assiria, mentre Cosroe era
costretto a fuggire. Il successo era stato folgorante,
e mai prima di allora l’impero aveva abbracciato
territori così vasti. Ma proprio mentre sarebbe stato
assai opportuno un periodo di raccoglimento per
consolidare le nuove conquiste, scoppiava in Egitto
e in Cirenaica, provocata dall’elemento giudaico, una
furiosa rivolta antiromana che si propagò anche nei
territori appena occupati, ove i Parti ripresero la
lotta guidati dal principe Partamaspate. Costretto a
ridimensionare il suo programma di conquista,
Traiano si rassegnò a lasciar sopravvivere un regno
partico, mutilato della Mesopotamia, e ne incoronò
sovrano Partamaspate come vassallo di Roma. Poté
249
quindi provvedere a domare la rivolta giudaica, ma
intanto Cosroe stava per tornare alla riscossa; si
rendevano necessari nuovi grandiosi preparativi e
l’imperatore partì alla volta di Roma, ma durante il
viaggio si ammalò e morì in Cilicia a Selinunte
(agosto 117).
Troppo impegnativo si era rivelato il piano di
distruggere lo Stato partico, e soprattutto troppo
pericoloso per l’economia generale della difesa
dell’impero; tale almeno lo giudicò Publio Elio
Adriano, che, appena salito al principato, si affrettò
a dare un diverso indirizzo alla politica orientale di
Roma.
6. Il nuovo corso di Adriano. - Anche la
successione di Adriano era stata preceduta da
un’adozione, fatta da Traiano quasi in punto di
morte; lo affermò Plotina, la vedova dell’imperatore,
e sebbene molti ne dubitassero (a ragione,
probabilmente), nessuno osò sollevare obiezioni.
Raggiunto in Antiochia dalla notizia della morte del
padre adottivo, Adriano vi fu acclamato imperatore
dalle truppe e poco dopo gli arrivò il
riconoscimento del senato.
Al pari di Traiano, Adriano era un romano di
Spagna (erano nati entrambi a Italica, la colonia
fondata nel 206 a.C. da Scipione presso Siviglia), e
anch’egli aveva percorso una brillante carriera
distinguendosi da ultimo nella guerra partica.
Partendo per l’Italia, Traiano gli aveva lasciato il
comando delle forze in Oriente; ora, a quarantun
anni, si trovava sulle spalle il pesante fardello
dell’impero, e in primo luogo la responsabilità
dell’impresa contro i Parti rimasta incompiuta. Su
250
questo punto egli non ebbe esitazioni, e,
considerando poco profittevole per l’impero la
ripresa della politica aggressiva di Traiano, rinunziò
senz’altro alle nuove conquiste oltre l’Eufrate e alla
stessa provincia di Armenia, che tornò nell’antica
condizione di stato vassallo. L’Arabia e la Dacia
furono invece conservate e potenziate mercé il loro
definitivo inserimento nel sistema provinciale come
province “imperiali”.
Fermamente convinto della necessità di non
espandere ulteriormente l’impero, ma di aumentarne
piuttosto la coesione migliorando l’organizzazione
in tutti i campi, Adriano provvide a sviluppare i
quadri degli uffici amministrativi e intraprese
un’instancabile azione di diretta sorveglianza che si
esplicò attraverso una serie di lunghi viaggi nelle
varie province. Nel corso di tali viaggi ispezionò di
persona gli eserciti e i loro apprestamenti, controllò
le finanze locali, diede impulso all’amministrazione
della giustizia e ai lavori pubblici, ovunque
cementando con la sua presenza i vincoli dell’unità
imperiale e guadagnandosi l’entusiastica adesione dei
sudditi che, specie in Oriente, gli attestarono la loro
devozione venerandolo come dio.
Oggetto di cura particolare fu la sicurezza dei
confini, che egli cercò di assicurare con grandiose
opere di difesa, tra cui si deve almeno ricordare la
costruzione in Britannia di una linea fortificata,
comprendente anche un muro, largo circa 3 metri e
alto 6, che per 117 km tagliava tutta l’isola dal
Solway Firth al Mare del Nord (Newcastle upon
Tyne). Naturalmente, il programma difensivo
dell’imperatore, che si concretò anche in un
potenziamento dell’esercito, non poteva del tutto
251
escludere le guerre, tra cui la più impegnativa fu
quella combattuta dal 132 al 135 contro i Giudei,
che erano nuovamente insorti e opposero la più
accanita resistenza prima di lasciarsi piegare.
In politica interna Adriano si mostrò rispettoso
del senato come Traiano, anche se il suo programma
di riorganizzazione amministrativa dell’impero lo
portò di necessità a intromettersi in campi
tradizionalmente riservati alla competenza dei
senatori, destandone il più vivo malcontento. E, in
ultima analisi, fu proprio lui ad avviare quel
processo evolutivo che si concluse sotto
Diocleziano con la riduzione a provincia dell’Italia e
con il suo livellamento alle altre province. Adriano
divise infatti l’Italia in quattro distretti, preponendo
a ciascuno un consularis, cioè un alto funzionario
imperiale che vi esercitava la giurisdizione civile
(cfr. S.H.A., Vita Hadr. 22). Sebbene fosse
appassionato cultore di lettere ed arti, non trascurò
di dedicare la sua attenzione a nessuno dei problemi
di governo, e, fra l’altro, con l’approvazione
dell’editto “perpetuo” provvide ad una definitiva
codificazione delle norme di diritto emanate
annualmente dai pretori.
Negli ultimi anni, che trascorse nella sua
splendida villa presso Tivoli (Villa Adriana),
l’imperatore si preoccupò della successione; non
avendo avuto figli, adottò prima (a. 136) il giovane
Lucio Ceionio Commodo (poi L. Aelius Caesar), che
gli premorì, poi Tito Aurelio Antonino, che gli
successe pochi mesi dopo, il 10 luglio del 138.
7. Gli Antonini e la fine dell’impero liberale. - Tito
Aurelio Antonino (ora Imp. Caes. T. Aelius Hadrianus
252
Antoninus Aug.), che era nato nel Lazio, a Lanuvio,
ma da famiglia originaria della romanizzatissima
Gallia Narbonese, aveva allora 52 anni, e i molti
uffici di governo lodevolmente ricoperti lo
indicavano come degno continuatore dell’opera dei
suoi predecessori. Le fonti mettono in rilievo la
dirittura del suo carattere, la nobiltà dei sentimenti,
l’attaccamento al dovere che informarono la sua
azione a grande equilibrio e decoro: ciò che va posto
in relazione con il suo atteggiamento conciliante
verso l’assemblea senatoria.
Con questa, che aveva avuto di che dolersi per
l’invadente politica accentratrice di Adriano e che
minacciava di negare al defunto imperatore la
consueta apoteosi (cioè di consacrarlo ufficialmente
divus), Antonino seppe abilmente destreggiarsi; con
qualche concessione riuscì a placarne i risentimenti
verso il padre adottivo e ne ottenne per sé il
cognome di Pio. Ma il suo programma differiva da
quello di Adriano solo per il desiderio di instaurare
una più stretta intesa col senato, senza sacrificare
nessuna delle prerogative del potere imperiale; per il
resto si propose anch’egli di perfezionare
l’organizzazione civile e militare dell’impero e di
potenziare il sistema di sicurezza dei confini sia con
una complessa azione diplomatica, sia con la
costruzione di opere difensive (come la nuova linea
fortificata in Britannia, circa 100 Km a nord di
quella di Adriano).
Quando Antonino Pio venne a morte, il
problema della successione non si poneva; essa era
già stata regolata più di vent’anni prima secondo la
volontà di Adriano che, nell’atto stesso di adottare
Antonino, gli aveva fatto adottare il diciassettenne
253
Marco Annio Vero e il piccolo Lucio Ceionio
Commodo (figlio di Lucio Elio Cesare). Annio Vero,
vissuto dopo l’adozione col nome di M. Aelius
Aurelius Verus Caesar nel palazzo imperiale presso
Antonino, ne aveva sposato la figlia Annia Galeria
Faustina, e il 7 marzo del 161 gli successe col nome
di Marco Aurelio Antonino (Imp. Caes. M. Aurelius
Antoninus Aug.).
Marco Aurelio era allora sui quarant’anni, e li
aveva trascorsi interamente fra gli studi nutrendosi
specialmente di dottrina stoica, senza mai
partecipare agli affari di governo. Quest’ultima
circostanza lo metteva in condizione d’inferiorità
rispetto ai predecessori, ma dai severi dettami dello
stoicismo egli attinse tutta l’energia necessaria ad
affrontare i nuovi doveri, resi più ardui da un
complesso di avversità e di pericoli.
Uno dei suoi primi atti fu quello di innalzare a
correggente dell’impero il fratello (per adozione)
Lucio Ceionio Commodo, che si chiamò ora
Imperator Caesar L. Aurelius Verus Augustus. Così, per
la prima volta, titolari della potestà imperiale furono
allora due Augusti; ma la collaborazione non si
dimostrò proficua, del che nelle fonti si dà la colpa a
Lucio Vero, il quale avrebbe continuato nella sua
vita di ozi e di piaceri. Eppure più che mai
opportuno sarebbe stato per Marco Aurelio riuscire
a realizzare una collaborazione a così alto livello;
infatti, mentre tanta parte restava da attuare della
politica di pacifico sviluppo dell’impero promossa
da Adriano e da Antonino Pio, egli dovette invece
sobbarcarsi a una lunga serie di campagne di guerra.
Non per questo tralasciò di affrontare i complessi
problemi della riorganizzazione amministrativa, e
254
sebbene fosse rispettoso del senato non esitò
(seguendo l’esempio già dato da Adriano con
l’istituzione dei quattro consulares) a sottrargli il
governo dell’Italia per riordinarlo ed affidarlo a
nuovi funzionari imperiali, i iuridici.
Ma ad imporsi con eccezionale gravità erano
ancora i problemi che Traiano aveva tentato di
risolvere con la forza delle armi, quello della
frontiera danubiana e quello della frontiera partica.
Già peggiorate sotto Antonino Pio, le relazioni con i
Parti arrivarono alla rottura per l’aggressività del re
Vologese III, che, dopo aver imposto una sua
creatura sul trono d’Armenia, invase anche la
provincia di Siria. Furono necessari cinque anni di
guerra, dal 162 al 166, per ripristinare la situazione,
che fu anche migliorata con l’occupazione
dell’Osroene al di là dell’Eufrate.
Appena terminata la guerra partica, si profilò
per l’impero una nuova e assai più grave minaccia ad
opera delle popolazioni barbariche dell’Europa
centrale che, spinte da un vasto movimento
migratorio, invasero la Dacia e superarono il
Danubio arrivando anche in Italia, ove posero
l’assedio ad Aquileia. A tutto questo si aggiungeva
poi il flagello di un’epidemia di peste. Marco Aurelio
s’impegnò personalmente nella difesa, e la guerra si
svolse in due fasi: la prima (167-168) si concluse con
la cacciata degli invasori al di là del Danubio; la
seconda, che l’imperatore condusse da solo essendo
morto nel 169 Lucio Vero, si svolse dal 169 al 175
per sottomettere le popolazioni dei Quadi, dei
Marcomanni e degli Iazigi. Durissimi furono i disagi
e i pericoli che l’esercito romano dovette affrontare
in questa campagna oltre il Danubio, e la ferocia
255
della lotta traspare anche dalla sua descrizione sui
bassorilievi della colonna Antonina (in piazza
Colonna). I barbari furono obbligati a riconoscere il
protettorato romano, obbligandosi a fornire truppe
ausiliarie; ma non ebbe tregua l’imperatore costretto
nello stesso anno 175 a muovere verso l’Oriente,
ove l’ambizioso governatore Gaio Avidio Cassio
aveva usurpato il potere imperiale.
Ristabilita in quelle regioni la sua autorità,
Marco Aurelio ritornò sulla frontiera danubiana, ove
Quadi, Marcomanni e Iazigi avevano ripreso le armi,
ma non riuscì a concludere la guerra. Stroncato dalla
peste il 17 marzo del 180 a Vindobona (Vienna),
suggellava con la morte nell’accampamento la sua
vita di filosofo-imperatore, che con impegno di
stoico aveva tenuto fino all’ultimo il suo posto di
responsabilità.
Con la scomparsa di Marco Aurelio aveva
termine la serie degli imperatori adottivi e, insieme,
la politica liberaleggiante degli Antonini. Già nel 177
Marco Aurelio, rinnovando l’esperimento già fatto
con Lucio Vero, si era associato all’impero come
Augustus Lucio Aurelio Commodo, nato dal suo
matrimonio con Annia Galeria Faustina. Sperava
forse in un miglioramento delle pessime inclinazioni
del giovane, oppure riteneva di non poter altrimenti
assicurare un più pacifico trapasso dei poteri alla sua
morte; ad ogni modo nel 180 l’impero si trovò nelle
mani di un diciannovenne infatuato di sé e
sfrenatamente dispotico. Atteggiandosi a novello
Ercole, Commodo si curò solo d’ingraziarsi
popolino e pretoriani; per la nobiltà senatoria
ricominciarono le persecuzioni e, col terrore, si
256
diffuse dovunque il disordine amministrativo e
l’indisciplina negli eserciti.
Sembrava di essere tornati ai tempi più cupi di
Domiziano, e come allora si ebbe un susseguirsi di
macchinazioni finché, nell’ultimo dell’anno del 192,
Commodo cadde vittima di una congiura di palazzo
che portò all’impero del prefetto urbano Tito Elvio
Pertinace.
Sul costituirsi e sul valore della tradizione a noi pervenut a
intorno agli avvenimenti dei 68-69 (principalmente Tacito, Historiae
libri I-III e Svetonio, Vite di Galba, Otone e Vitellio; inoltre anche
Plutarco, Vite di Galba e di Otone) v. P. Z ANCAN , La crisi del
principato nell’anno 69 d.C., Padova 1939. Perdutosi il seguito delle
Historiae di Tacito dopo la parte iniziale del V libro, e ridotto il
racconto di Cassio Dione (libri LXIV-LXVII) al compendio di
Xifilino, fonte principale per l’età dei Flavi rimangono le biografie
di Svetonio (su cui v. p.es., H.R. G RAF , Kaiser Vespasian.
Untersuchungen zu Suetons Vita divi Vespasiani, Stuttgart 1937). Per i
fatti della guerra giudaica e le varie sue connessioni, fonte assai
importante è il contemporaneo Flavio Giuseppe, su cui vedi W.
W EBER , Josephus und Vespasian, Berlin 1921.
Sull’emergere della figura di Vespasiano fra i pretendent i
all’investitura imperiale, G.E.F. C HILVER , The army in politics, A.D.
68-70, in “Journ. Rom. Stud.” XLVII (1957) p. 29 sgg.
La cosiddetta lex de imperio Vespasiani è edita in C.I.L. VI 930
= I. L. S. 244; su di essa v. M.A. L EVI , in “Athenaeum” N. S. XVI
(1938) p. 85 sgg. Sul risanamento delle finanze e il riordinamento
dell’organizzazione tributaria, v. C.H.V. S UTHERLAND , Aerarium and
fiscus during the early empire, in “Am. Journ. Philol.” LXVI (1945) p.
151 sgg.; F. M ILLAR , The fiscus in the first two centuries, in “Journ.
Rom. Stud.” LIII (1963) p. 29 sgg. Il dato di Svetonio (Vesp. 16, 3)
sull’ammontare delle entrate che Vespasiano avrebbe dichiarato
necessario per evitare squilibri nel bilancio statale è sicuramente da,
respingere. Si legge, in fatti, che l’imperatore fu ... ad manubias et
rapinas necessitate compulsum summa aerarii fiscique inopia; de qua
testificatus sit initio statim principatus, professus quadringenties millies opus
esse, ut res p. stare posset. Quattrocentomila volte (quadringenties
millies) centomila sesterzi (sottinteso, secondo l’uso) fanno 40
miliardi di sesterzi, cifra assolutamente esagerata, derivante da un
probabile errore di trascrizione, e da ridurre forse a 400 milioni d i
sesterzi (cfr. S. M AZZARIN O , Trattato, cit. p. 246 sg.). Come punto
257
di riferimento si può tener presente P L IN ., Nat. Hist. XII 84, dove
si valuta in cento milioni di sesterzi all’anno lo squilibrio della
bilancia commerciale derivante dalle importazioni dall’Oriente.
A proposito dei rapporti fra imperatore e senato, un quadro
panoramico dei componenti l’assemblea in B. S TECH , Senatores
Romani qui fuerint inde a Vespasiano usque ad Traiani exitum, (“Klio”
Beib. X) Leipzig 1912. Sull’incremento dato alla diffusione della
romanità, specialmente nella Spagna, R.K. M C E LDERRY , Vespasian’s
reconstruction of Spain, in “Journ. Rom. Stud.” VIII (1918) p. 53 sgg.
e, in generale, M. R OSTOVZEV , Storia economica e sociale dell’impero
romano, cit., p. 123 sgg.
Sulla rivolta dei Batavi, v. R. A NDREOTTI , La lealtà gallic a
nella rivolta di Giulio Civile, in “Atti V Congresso Studi Romani”, II,
Roma 1940, p. 526 sgg.; sull’ampliamento della conquista nella
Britannia, E. B IRLEY - T. D AVIES P R ICE , The first Roman occupation of
Britain, in “Journ. Rom. Stud.” XXV (1935) p. 58 sgg.
Su Tito, H. P RICE , Titus amor ac deliciae generis humani, in
“Class. Weekly” XXXIX (1945-6) p. 58 sgg.; J. A. C ROOK , Titus and
Berenice, in “Amer. Journ. Philol.” LXXII (1951) p. 162 sgg.
Su Domiziano, e la tendenza a lui avversa che predomin a
nella storiografia antica, v. H. N ESSELHAUF , Tacitus und Domitian, in
“Hermes” LXXX (1952) p. 222 sgg.; sui caratteri e sulle
manifestazioni del suo assolutismo teocratico, K. S COTT , The
imperial cult under the Flavians, Stuttgart - Berlin 1936, p. l02 sgg.
Sulle cure di Domiziano per il buon funzionamento della
amministrazione provinciale, H.W. P L EKET , Domitian, the senate and
the provinces, in “Mnemosyne” XIV (1961) p. 296 sgg. Sulle sue
imprese militari H. B R EUNERT , Zum Chattenkriege Domitians, in
“Bonn. Jahrb.” CLIII (1953) p. 97 sgg.; E. K ÖSTLIN , Die
Donaukriege Domitians, Tübingen 1910; C. P ATSCH , Der Kampf um de n
Donauraum unter Domitian und Traian, in “Sitzb. Akad. Wien” 1937,
p. 38 sgg.
Per il periodo da Nerva a Commodo il racconto di Cassio
Dione, che occupava i libri LXVIII-LXXIII, ci è giunto nel
compendio di Xifilino, e nemmeno completo perché si è perduta la
storia del principato di Antonino Pio e dei primi anni di M.
Aurelio. Perdute anche le biografie imperiali (da Nerva a Elagabalo)
composte da Mario Massimo al tempo dei Severi, perduta la parte
iniziale delle Res gestae di Ammiano Marcellino, che prendevano le
mosse da Traiano (il primo dei libri superstiti è il XIV, relativo ai
fatti dal 353 in poi), non ci restano che le operette di Aurelio
Vittore, di Eutropio, di [Rufio] Festo, la Epitome de Caesaribus, le
Historiae adversus paganos di Orosio e, di gran lunga più importante,
la Historia Augusta. Sotto questo nome si suole designare una grossa
raccolta di biografie imperiali, da Adriano a Numeriano, che
258
abbracciano dunque gli anni dal 117 al 285, salvo una lacuna per il
periodo dal 244 al 253, da Filippo l’Arabo all’inizio di Valeriano. Le
biografie si presentano come opera di sei autori diversi (Elio
Sparziano, Giulio Capitolino, Vulcacio Gallicano, Elio Lampridio,
Trebellio Pollione, Flavio Vopisco) e, recando quasi tutte una
dedica o a Diocleziano o a Costantino, si presentano altresì come
composte in età dioclezianeo-costantiniana. In esse non mancano
notazioni precise - sorrette talvolta anche dalla citazione d i
documenti autentici - ma queste rimangono come affogate in un
contesto di notiziole assurde e di aneddoti manifestamente
fantastici, presentati anch’essi con l’appoggio di documenti che
sono certamente falsi. Senza dire, poi, dei molti anacronismi e
dell’uso che in alcune biografie si riscontra delle opere di Aurelio
Vittore e di Eutropio. È, nell’insieme, una strana caratteristica, e fu
grande merito del Dessau quello di aver intuito e preso a
dimostrare che le Vite della Historia Augusta erano opera di un solo
autore vissuto non al principio, ma alla fine del IV secolo (H.
D ESSAU , Ueber Zeit und Persönlichkeit der Scriptores Historiae Augustae,
in “Hermes” XXIV, 1889, p. 337 sgg.). Si apriva allora la Historia
Augusta-Forschung, uno dei capitoli più interessanti della storiografia
antica, e l’indagine continua ancora oggi con grande fervore per
chiarire sempre meglio la “tendenza” del compilatore e,
soprattutto, gli scopi che egli si prefisse nella sua “falsificazione”.
In breve, può dirsi che l’autore delle Vite va considerato come
espressione dei circoli senatorii romani dell’età a cavallo fra il IV e
il V secolo e delle loro idee: a cominciare dall’impegno in difesa
della tradizione pagana di fronte al cristianesimo trionfante. Della
vastissima bibliografia sull’argomento, v. da ultimo S. M AZZARINO ,
Il pensiero storico, cit., II, 2 p. 214 sgg. Per concludere questo cenno
sulle fonti, si ricordi che “dalla morte di Marco Aurelio” e cioè dal
regno di Commodo, cominciano le Storie di Erodiano, uno storico
contemporaneo e di notevole valore, del quale F. C ASSOLA ha dato
recentemente una bella traduzione con introduzione e note (ed.
Sansoni, Firenze 1968). Per i contemporanei sviluppi de l
cristianesimo, la fonte principale è rappresentata dalla Storia
ecclesiastica di Eusebio, libri III-V.
Sul breve principato di Nerva la monografia più recente è
quella di A. G ARZETTI , Nerva, 1950. Si discute in vario senso sui
risultati della sua politica economica, e anche su certe sue riforme
nel campo delle distribuzioni gratuite di frumento in favore della
plebe di Roma, cioè delle frumentationes, di cui egli avrebbe restituito
al senato la direzione; su ciò v. G. V ITUCCI , Plebei urbanae frumento
constituto, in “Archeol. class.” X, 1958, p. 310 sgg.
Sulla figura e sull’opera di Traiano, oltre che dalle font i
sopra elencate, importanti notizie si ricavano da Plinio (Panegirico e
259
libro X dell’Epistolario). Come opera d’insieme è da ricordare R.
P ARIBENI , Optimus Princeps. Saggio sulla storia e sui tempi dell’imperatore
Traiano, I e II, Messina 1926-1927. Sul programma “alimentario”, a
noi documentato soprattutto dalla “tavola ipotecaria di Veleia”
(C.I.L. XI 1147 = I. L. S. 6675) e dalla “tavola dei Liguri Bebiani”
(C.I.L. IX 1455 = I. L. S. 6509), v. di recente R. D UNCAN J ONES ,
The Purpose and Organisation of the alimenta, in “Pap. Brit. Sch. Rome ”
XIX (1964) p. l23 sgg. Sulla conquista della Dacia, oltre il lavoro
del P ATSCH citato nel capitolo precedente, v. I.A. R ICHMOND , in
“Pap. Brit. Sch. Rome” XIII (1935) p. 1 sgg. (a proposito dei rilievi
della colonna traiana, su cui vedi anche G. B ECATTI , La colonna
coclide istoriata, Roma 1960, p. 26 sgg.) e C. D AICOVICIU , Dacia capta
in “Klio” n. s. XXXVIII (1960) p. 174 sgg. Sull’impresa pertica, J.
G UEY , Essai sur la guerre partique de Trajan (114-117), Bucarest 1937;
P.A. L EPPER , Trajan’s Parthian War, Oxford 1948.
Sulla figura e sull’opera di Adriano gli studi complessivi più
recenti sono quelli di B.W. H ENDER SON , The life and principate of the
emperor Hadrian, London 1923, e B. D’O RG EVAL , L’empereur Hadrien.
Oeuvre législative et administrative, Paris 1950. Sui mutamenti nella
composizione dell’assemblea senatoria, nella quale sempre più
consistente si fa la rappresentanza delle aristocrazie provinciali, v.
P. L AMBRECHTS , La composition du sénat romain de l’accession au trône
d’Hadrien à la mort de Commode (117-192), Antwerpen 1936. Sul
potenziamento dell’amministrazione statale, e sullo sviluppo della
burocrazia, ora non più imperniata sull’attività dei liberti imperiali
(come quando era stata istituita da Claudio), ma sul lavoro
regolarmente retribuito di funzionari scelti nella classe dei cavalieri,
v. H.G. P FLAUM , Les procurateurs équestres, cit., p. 58 sgg.
Sull’impegno personale dell’imperatore nel rendersi conto de visu
della vita e dei bisogni delle comunità provinciali, v. M.
R OSTOVZEV , Storia economica e sociale, cit., p. 415 sgg. Per l’Africa, P.
R OMANELL I , Storia delle province romane dell’Africa, Roma 1959, p. 332
sgg. Sul vallum costruito in Britannia, di recente E. B IRL EY , Research
on Hadrian’s Wall, Kendal 1961. Per la modificazione dell’editto, v.
S. R ICCOBONO , La definizione del ius al tempo di Adriano, in “Bull. Ist.
Dir. Rom.” 1950 p. 5 sgg. Per gli onori divini, A.E. R AUBITSCHEK ,
Hadrian as the Son of Zeus Eleutherios, in “Am. Journ. Arch.” XLIX
(1945) p. 128 sgg.
Per il principato di Antonino Pio, alle fonti sopra elencate si
deve aggiungere l’orazione A Roma di Elio Aristide, su cui v. J. H.
O LIVER , The ruling power. A study of the Roman empire in the second
century after Chr. through Roman oration of Aelius Aristides, in “Trans.
Proc. Am. Philol. Assoc.” XLIII (1953) p. 871 sgg. Oper a
d’insieme: W. H ÜTTL , Antoninus Pius, I-II, Praha 1933-1936; M.
H AMMOND , The Antonine monarchy, “Mem. Am. Acad. Rome”, 1959.
260
Sul nuovo vallum in Britannia, A.S. R OBERTSON , The Antonine Wall,
Glasgow 1960.
Per una più completa comprensione della figura di Marco
Aurelio, alle fonti sopra elencate si devono aggiungere i suoi
Colloqui con se stesso ( Ta; eij " eJ a utov n ). Tra le opere d’insieme, sono
da ricordare U. VON W ILAMOWITZ , Kaiser Marcus, Berlin 1931;
A.S.L. F ARQUAHRSON , Marcus Aurelius. His life and his world, Oxford
1951; F. C AR RATA T HOMES , Il regno di Marco Aurelio, Torino 1953.
Un’analisi della tradizione (particolarmente avversa) su L. Vero, in
P. L AMBRECHTS , L’empereur Lucius Verus. Essai de réhabilitation, in
“Ant. class.” III (1934) p. 173 sgg. Circa i movimenti migratori in
Asia, e le loro ripercussioni sulla spinta dei Germani oltre il
confine danubiano, v. L. H ALFEN , in “Cambr. Anc. Hist.”, XII, p.
104 sgg.; sulla liberazione di Aquileia e le relative misure difensive,
A. D EGRASSI Il confine nord-orientale dell’Italia romana, Bari 1954, p
113 sgg. Sulla colonna antonina e la sua storia sceneggiata delle
campagne combattute fra il 171 e il 175, W. Z WIKKER , Studien zur
Markussäule, I, Amsterdam 1941 e G. B ECATTI , La colonna coclide, cit.
Sul tentativo insurrezionale di Avidio Cassio, J. K ENYON , The revolt
of Avidius Cassius, in “Arch. f. Papyrusf.” VI, 1913, p. 213 sgg.
Sul regno di Commodo si ricorda anzitutto il lavoro di J.
S TRAUB in “Reallex. f. Ant. u. Christ.” III (1957) p. 251 sgg.
Un’ampia monografia complessiva è ora quella di F. G ROSSO , La
lotta politica al tempo di Commodo, Torino 1964, fondata su un
minuzioso riesame della tradizione letteraria e del materiale
documentale.
261
XIII
La crisi del terzo secolo e il tramonto del
principato.
1. Evoluzione politica e declino economico. - L’uccisione
di Commodo concludeva un primo ciclo di sviluppo
del sistema politico creato da Augusto. Nei progetti
del suo ideatore il nuovo regime risultava
dall’inserzione del potere personale del principe,
pacificatore dei contrasti civili, nei tradizionali
schemi
repubblicani
incentrati
nel
senato,
espressione dell’antica nobiltà romana. Arbitro
assoluto delle forze armate, e in misura sempre
crescente delle finanze, della giustizia, delle leggi,
l’imperatore aveva preso in pugno le principali leve
del comando, ma aveva lasciato varie attribuzioni al
senato e ai magistrati inaugurando un sistema di
collaborazione capace di caratterizzare come “civile”
il suo potere.
Peraltro
la
coesistenza,
necessariamente
equivoca, fra poteri del princeps e istituzioni
repubblicane richiedeva un grande equilibrio per
non scivolare nell’assolutismo, come accadde
durante le esperienze “tiranniche” di Caligola o di
Nerone o di Domiziano o di Commodo, e
soprattutto esigeva negli imperatori un prestigio
personale (auctoritas) capace di coordinare il
contrastante gioco delle varie forze e dei rispettivi
262
interessi. Quando una di queste forze, quella degli
eserciti provinciali, prese il sopravvento e volle fare
dell’imperatore l’esclusivo rappresentante dei propri
interessi, il principato civile doveva cedere
ineluttabilmente il passo alla monarchia militare, e
questa a sua volta preparò l’avvento della forma
assolutistica del “dominato” attraverso una crisi che
riempie di sé tutto il III secolo.
Gli aspetti di questa crisi furono molteplici:
Settimio Severo, il vincitore della lotta scatenatasi
alla morte di Commodo fra vari pretendenti, era ben
consapevole che della vittoria egli era debitore
unicamente agli eserciti che avevano appoggiato la
sua candidatura, e che per mantenersi al potere
doveva assicurarsi il favore dell’elemento militare
Questo egli ottenne non soltanto con l’elargizione di
donativi e benefici vari, ma militarizzando, per cosi
dire, il governo dell’impero. Gli appartenenti alle
antiche aristocrazie dirigenti vennero in tal modo via
via esclusi da quei posti che per antico privilegio
occupavano negli uffici militari e civili, e costretti a
far largo ad un buon numero di nuovi elementi più o
meno “barbari”, che si erano distinti nel servizio
militare risalendo dai gradi più bassi fino ai comandi
più elevati. Sulla fedeltà di questi funzionari
l’imperatore
poteva
tranquillamente
fare
affidamento così come quelli potevano contare sui
vantaggi del suo favore.
Ma un tale sistema portava ad una grande
instabilità del potere imperiale. Gli eserciti
provinciali, stanziati l’uno assai lontano dall’altro e
ormai reclutati non più in Italia, ma fra le
popolazioni locali, avevano bisogni e desideri
diversi. Una volta verificatasi la possibilità, per le
263
forze dislocate su un settore della frontiera, di
imporre come imperatore il loro comandante, e
quindi di ricavarne particolari benefici, era naturale
che anche gli altri eserciti alla prima occasione
sostenessero
un
loro
candidato
e
lo
contrapponessero a quello sostenuto da altri. Il
progressivo aggravarsi di questa caotica situazione,
per cui ad un certo punto la monarchia militare
sfociò nell’anarchia militare, aveva come effetto non
solo di compromettere la difesa dei confini dalle
incursioni dei barbari, ma anche di svuotare le casse
dello Stato.
Per trovare i denari necessari a pagare stipendi
e donativi ai suoi soldati, l’imperatore seguiva la
duplice via delle confische e del più esoso
fiscalismo. La pressione tributaria nelle province fu
spinta al massimo e, per assicurare la riscossione
delle tasse nei vari centri, ne furono dichiarati
responsabili i cittadini più abbienti che dovevano
versare di tasca loro quanto mancava a raggiungere
la somma stabilita. Ancora più disastrosa fu
l’introduzione della annona militaris, l’imposta in
natura o, piuttosto, un sistema di requisizioni
adottato per ovviare agli inconvenienti del continuo
svilimento della moneta. Settimio Severo per primo,
come sembra, vi aveva fatto ricorso per assicurare
l’approvvigionamento degli eserciti, e la borghesia
provinciale fu trascinata sull’orlo della rovina.
Quanto poi alle confische, esse colpivano
soprattutto i grandi latifondisti della classe senatoria
e contribuirono ad acuire l’ostilità del senato verso
gl’imperatori del III secolo. Fu una lotta talora
scoperta (come nel caso di Massimino, che il senato
dichiarò hostis publicus), ma per lo più sotterranea,
264
nel corso della quale gl’imperatori a poco a poco
tolsero ai senatori quasi tutti i loro privilegi
amministrativi e, con Gallieno, giunsero ad
escluderli dai comandi militari e, quindi, dal governo
di buona parte delle province.
2. Mistica dell’assolutismo e trasformazione culturale.
- In tal modo, con l’appoggio dell’esercito, gli
imperatori piegavano l’opposizione dei senatori, ma
nello stesso tempo ancor più li umiliavano e, quindi,
indirettamente, toglievano importanza a quel
riconoscimento ufficiale del senato che ancora
costituiva un elemento indispensabile per legalizzare
il loro potere. La naturale conseguenza di ciò fu che
verso la fine del secolo gl’imperatori smisero
addirittura di chiedere il riconoscimento del senato
dopo l’acclamazione dei soldati, e cercarono una
nuova base di legittimità al loro potere
promuovendo lo sviluppo di una vera e propria
mistica dell’autorità imperiale, che ne consacrava il
carattere sovrumano.
L’intrinseca
aridità
dei
culti
ufficiali,
insufficienti
ad
appagare
l’ansia
interiore
dell’individuo, aveva da tempo favorito la diffusione
fra tutte le classi sociali delle religioni orientali, così
ricche di speranze nell’avvento di un mondo
migliore (e si è notato che già nel 95 un console era
cristiano). Nella generale atmosfera di aspettazione
l’imperatore si presentò alle masse come l’unico
capace di realizzarne le aspirazioni e le avviò ad
accogliere una nuova forma di assolutismo
teocratico che da una parte ribadiva la natura divina
della sua persona, dall’altra proclamava l’origine
divina dell’investitura imperiale. “Imperatore-Dio” e
265
“Imperatore per grazia di Dio” furono quindi due
concezioni che per un certo tempo si svolsero
parallelamente mentre in seguito, con l’avvento degli
imperatori cristiani, la seconda ebbe la prevalenza
fino ad escludere l’altra.
Ma bastava un malcontento fra le truppe, o
l’insorgere di un fortunato pretendente, per
trascinare nella polvere il dominus et deus.
Innumerevoli furono gl’imperatori del III secolo
caduti per mano di quei soldati che li avevano
innalzati alla porpora imperiale, sicché può dirsi che
in quest’epoca la nomina ad imperatore equivaleva
ad una condanna a morte a più o meno breve
scadenza.
Di una tale caotica situazione gl’imperatori
erano, dunque, più le vittime che gli artefici,
costretti nello stesso tempo ad assicurarsi la dubbia
fedeltà dei soldati e a resistere all’opposizione
interna capeggiata dal senato e dai ceti abbienti
rovinati dalle enormi spese militari; costretti a
difendere i confini dalle incursioni dei barbari e,
nello stesso tempo, a lottare contro gli avversari
suscitati dai vari pronunciamenti militari. Anche
l’unità dell’impero fu più volte in pericolo; una via
di salvezza fu escogitata da Diocleziano con la
suddivisione del potere nelle mani di due Augusti e
di due Cesari, ma anche questo espediente, in fondo,
ebbe l’effetto di assecondare l’azione delle forze
disgregatrici e di spianare la via alla divisione
dell’impero
stesso.
Contemporaneamente
si
accentuava lo svolgimento dei tradizionali valori
artistici e culturali: i primi con risultati di grande
validità specie nell’architettura e nella ritrattistica,
gli altri, naturalmente, con vari riflessi sulla
266
letteratura storica. Di questa non poca parte è
andata perduta, e se pure con l’ausilio delle
superstiti fonti documentali (iscrizioni, papiri,
monete) è possibile tracciare un quadro complessivo
degli sviluppi del III secolo, meno agevole riuscirà
distinguere, in una rapida sintesi, la personalità e
l’opera dei singoli imperatori, anche perché in
genere la loro azione si svolse, per così dire, sui
binari obbligati della lotta contro i pretendenti,
dell’affermazione del loro assolutismo contro il
senato, della difesa dei confini contro la minaccia
barbarica.
3. La dinastia dei Severi. - Publio Elvio Pertinace,
il quale come s’è detto rivestiva l’alta carica
senatoria di praefectus urbi alla morte di Commodo, fu
acclamato imperatore, dopo solo tre mesi cadde
vittima della indisciplina dei pretoriani, che lo
sostituirono con un altro consolare, Lucio Didio
Giuliano, il pretendente che li aveva comprati con
l’offerta del più alto donativum. Ma la posizione di
costui era troppo debole per resistere alla vigorosa
azione intrapresa dal governatore della provincia
danubiana della Pannonia, Publio Settimio Severo,
nato in Africa da famiglia equestre e salito per le
doti di condottiero fino alle più alte cariche militari
della carriera senatoria. Alla testa delle sue legioni,
che lo avevano acclamato imperatore, Settimio
Severo, atteggiandosi a vendicatore di Pertinace,
marciò su Roma, ottenne il riconoscimento del
senato (giugno 193) e, dopo l’immediata
eliminazione di Didio Giuliano, si sbarazzò anche
dei più validi sostenitori di quello, i pretoriani,
sostituendoli con elementi tratti dal suo esercito. Da
267
allora in poi anche le coorti pretorie, come le
legioni, sarebbero state composte di provinciali, un
altro aspetto del crescente affermarsi di costoro di
fronte all’elemento italico.
Quasi contemporaneamente a Severo si erano
sollevati il governatore della Britannia, Decimo
Clodio Albino, e quello di Siria, Gaio Pescennio
Nigro. Dopo aver tenuto a bada in un primo
momento Clodio Albino con il conferimento del
titolo di Caesar, che implicava associazione al potere
imperiale e designazione alla successione, Severo li
batté entrambi (Nigro ad Isso nel 194; Albino a
Lione nel 197) e rimase unico padrone dell’impero.
Per dare maggiore autorità al suo potere e, insieme,
per assicurarne la trasmissione ai figli, Severo si
autoadottò nella famiglia degli Antonini. Dopo
avere, cioè, ottenuta dal senato la riabilitazione e la
divinizzazione di Commodo, egli si proclamò
ufficialmente nella titolatura divi Commodi frater, e
quindi divi Marci filius, divi Antonini Pii nepos, divi
Hadniani prònepos, ecc. e fece assumere al maggiore
dei suoi due figli (comunemente detto Caracalla) il
nome di Marco Aurelio Antonino. Non si trattava,
però, soltanto di un espediente di governo, ma
anche di una solenne dichiarazione programmatica
in favore della continuità di quella politica che già
gli Antonini avevano avviata, cioè la politica
dell’inserimento
dell’elemento
provinciale
romanizzato fra le forze direttive dello Stato.
Uno degli aspetti di questa politica, che mirava
in fondo ad eliminare la differenza di rango fra
cittadini e sudditi dell’impero, fu anche l’impulso
dato alla rielaborazione del diritto, attenuando la
rigidità dell’antico ius civile e preparando quel
268
livellamento che poi Caracalla attuò con l’estensione
del diritto di cittadinanza romana a tutti i liberi
abitanti dell’impero. Questa venne effettuata con la
emanazione della famosa constitutio Antoniniana del
212, la quale, secondo Cassio Dione, perseguiva
soprattutto l’intento di allargare il numero dei cives
su cui gravavano particolari imposte come, per
esempio, la vicesima hereditatium (la tassa di
successione).
Fortemente impregnato delle superstizioni
orientali (la moglie, Giulia Domna, era una
principessa siriaca della famiglia dei re-sacerdoti del
dio Baal), Settimio Severo ne favorì la diffusione
nell’impero; contro la resistenza senatoria condusse
una ferma politica di repressione e riformò
l’amministrazione statale militarizzandola nel modo
che s’è già accennato. Al termine di una vittoriosa
spedizione contro i Parti (a. 197), istituì le nuove
province di Mesopotamia e di Osroene, ma non
riuscì nemmeno lui a chiudere il secolare conflitto.
Gli ultimi anni li dedicò a consolidare il dominio
della Britannia, ove i Caledonii avevano superato la
linea fortificata di Antonino Pio e minacciavano di
superare anche quella di Adriano, e morì a Eburacum
(York) il 4 febbraio del 211.
A capo dell’impero restavano i due giovani figli
di Settimio Severo, Marco Aurelio Antonino, nato
nel 186, e Publio Settimio Geta, nato nel 189, che
egli già aveva innalzato alla dignità di correggenti
(Antonino Caesar dal 196 e Augustus dal 198, Geta
Caesar dal 198 e Augustus dal 199). Dopo circa un
anno Antonino si sbarazzò del fratello trucidandolo
di sua mano e inaugurò un regime di ferreo
dispotismo.
269
Ambizioso e maniaco (dalla mania di portare
un lungo mantello barbarico, detto caracalla, gli
rimase per sempre questo nomignolo), egli continuò
la politica del padre per l’innalzamento dei
provinciali (cui concesse, come già s’è detto, il
diritto di cittadinanza romana mediante la constitutio
Antoniniana del 212), e volle emularne la gloria
militare riprendendo nel 215 la lotta contro i Parti. I
risultati della spedizione furono peraltro di scarso
rilievo e nell’aprile del 217, presso Carre, egli cadde
vittima di una congiura ordita da Macrino, il suo
prefetto del pretorio.
Marco Opellio Macrino, il primo cavaliere che
assunse la porpora imperiale, cercò di mantenersi al
potere col favore dei militari e del popolino di
Roma, ma dopo un anno (giugno 218) fu travolto
dalle macchinazioni della famiglia dei Severi, che
provocarono
la
ribellione
dell’esercito.
Il
pretendente contrapposto a Macrino era il
quattordicenne Eliogàbalo, figlio di Giulia Soemiade
(una nipote di Giulia Domna). Gran sacerdote del
dio Elagabal, da cui fu soprannominato, al momento
dell’acclamazione a imperatore egli assunse il nome
di M. Aurelio Antonino, già portato da Caracalla. La
continuità dinastica era stata così restaurata, ma con
poco profitto della stabilità di governo perché il
ragazzo, che era completamente dominato dalla
forte personalità della nonna, Giulia Mesa, dopo
aver fatto di Roma il teatro delle sue stravaganze di
principotto orientale, nel marzo del 222 fu eliminato
dalla solita rivolta dei pretoriani. Gli succedeva suo
cugino Alessiano Bassiano (nato da Giulia Mamea,
l’altra figlia di Giulia Mesa), che la nonna gli aveva
270
fatto adottare col nome di M. Aurelio Severo
Alessandro.
Severo Alessandro fu per vari aspetti principe
migliore di Caracalla e di Eliogàbalo, anche se nella
storiografia antica, specialmente nella Historia
Augusta, la sua figura venne sottoposta a un
processo di idealizzazione ed esaltata come modello
di virtù. In stridente contrasto col nome che
portava, quello del grande Alessandro (nome nel
quale si esprimevano le profonde aspirazioni di
quell’età verso la fondazione di una monarchia
universalistica), il nuovo principe era debole di
carattere e subì dapprima la volontà della nonna,
l’ambiziosa Giulia Mesa ai cui intrighi doveva il
trono, poi quella della madre; del resto, quando era
stato chiamato all’impero non aveva che diciassette
anni. Tuttavia fu merito della mitezza della sua
indole se Roma non fu insanguinata dalle consuete
violenze, anche se non è da credere (come
raccontarono taluni storici antichi) che veramente
per sua opera si realizzasse un ritorno all’antico
“principato civile”. Più esattamente si deve ritenere
che il senato non fu restaurato nelle antiche
attribuzioni, ma solo trattato con maggior riguardo.
Durante il principato di Severo Alessandro
gravi pericoli si delinearono in Oriente, ove sul
trono dei Parti alla dinastia degli Arsacidi era
succeduta quella dei Sassànidi, fondatori di un
nuovo impero persiano ben organizzato e
fortemente espansionista. Il giovane imperatore, che
non aveva attitudini militari, fu costretto a
intraprendere una difficile campagna per la difesa
dei confini (a. 231-232), ma i risultati furono poco
brillanti; addirittura disastrosi, poi, quelli della
271
guerra contro gli Alamanni che avevano invaso la
Gallia (a. 234-235). Il comportamento troppo
incerto e quasi vile di Severo Alessandro, che si
abbassò a comprare la pace a peso d’oro, suscitò la
rivolta dell’esercito, e il principe fu assassinato
insieme con la madre (marzo 235).
4. Il periodo della “anarchia militare”. - Alla morte di
Severo Alessandro ebbe inizio un vorticoso
susseguirsi di imperatori, acclamati dai vari eserciti e
costretti a restare quasi sempre sul campo per
difendere i confini dai barbari e, più ancora, il loro
potere da numerosi pretendenti. È il periodo della
“anarchia militare”, che durò fino alla morte di
Gallieno.
Gaio
Giulio
Vero
Massimino
(detto
comunemente Massimino il Trace), pervenuto
all’impero dopo una lunga carriera militare
incominciata dai gradi più bassi, dedicò i tre anni del
suo impero (235-238) a respingere le invasioni di
Germani, Sarmati e Daci spremendo tutte le risorse
dell’impero per i bisogni del suo esercito e
tartassando senza alcun riguardo senato e ricca
borghesia. Sollevatosi in Africa il proconsole Marco
Antonio Gordiano, il senato riconobbe imperatori
lui e l’omonimo figlio e, dopo aver istituito un alto
commissariato per la difesa dello Stato (i vigintiviri
consulares ex senatus consulto rei publicae curandae),
preparò la guerra a Massimino condannandolo come
hostis publicus. Mentre i due Gordiani, dopo circa un
mese di regno (aprile 238), erano soppressi dal
comandante della legione III Augusta di stanza in
Africa, che non aveva aderito alla rivolta, Massimino
scese in Italia, ma incontrò gravi difficoltà
272
nell’assediare Aquileia, e nel maggio cadde vittima
del malcontento delle sue truppe.
Il senato, dopo l’uccisione dei due Gordiani,
aveva cercato di farsi arbitro della situazione
proclamando imperatori due dei vigintiviri consulares,
Decimo Celio Calvino Balbino e Marco Clodio
Pupieno Massimo; ma questa soluzione non
incontrò il favore della plebe romana, infatuata di un
suo ideale dinastico, tanto che si dovette venire a un
compromesso: designare alla successione imperiale,
col titolo di Caesar, il giovinetto Gordiano, nipote
dei precedenti. Ma questa nuova formula, in cui la
preminenza l’aveva il senato, non risultò di
gradimento dei pretoriani, i quali circa l’agosto di
quello stesso anno 238 assassinarono Balbino e
Pupieno e proclamarono Augusto il cesare
Gordiano.
Gordiano (III) era solo un ragazzo di circa
dodici anni, ma poté reggersi al potere fino al 244
grazie all’appoggio del suocero, il valente prefetto
del pretorio Gaio Furio Sabinio Aquila Timesiteo,
che ottenne brillanti successi sulla frontiera del
Danubio e dell’Eufrate. Morto Timesiteo, forse per
gl’intrighi di Marco Giulio Filippo, questi gli
successe nella prefettura del pretorio e ben presto
seppe insinuarsi nelle grazie dell’esercito, che
massacrò Gordiano ed elesse lui imperatore.
Filippo (detto l’Arabo per la sua origine),
resistette al potere fino all’autunno del 249
distinguendosi nella difesa del confine danubiano,
ed ebbe la ventura di celebrare il 21 aprile del 248 il
primo millenario della fondazione di Roma. L’anno
appresso fu battuto e ucciso da Traiano Decio,
generalmente noto per la violenta persecuzione
273
contro i cristiani, la quale va considerata come un
aspetto della politica di restaurazione dei valori
tradizionali, anche religiosi, tentata dall’imperatore.
Decio, che fu il primo imperatore romano a morire
in battaglia, cadde nel 251 combattendo contro i
Goti, e dopo due anni di lotte convulse, nei quali si
succedettero al potere Ostiliano, figlio di Decio,
Gaio Vibio Treboniano Gallo (251-253), Gaio Vibio
Volusiano (251-253) e Marco Emilio Emiliano (253),
il potere venne nelle mani di Publio Licinio
Valeriano, proveniente da famiglia di antica dignità
senatoria.
Con la sua elezione il conflitto tra imperatore e
senato si assopiva ancor più che sotto Decio, ma
intanto cresceva da ogni parte la minaccia sui vari
settori del confine; associatosi come correggente il
figlio Publio Licinio Gallieno, Valeriano si divise
con lui i compiti della difesa assumendo per sé la
direzione della guerra contro i Persiani. Dopo
qualche successo, nel 260 patì una disastrosa rotta
ad Edessa e rimase prigioniero nelle mani del re
Shahpur I. Restava unico imperatore Gallieno, che
già aveva combattuto sul Reno e sul Danubio dal
254 al 258, e ora dovette continuare la guerra da
solo, per di più in condizioni generali tanto
disperate, da far sembrare compromessa l’unità
stessa dell’impero. Infatti in Occidente i disastri
causati da una nuova invasione di Franchi e di
Alamanni portarono la Gallia ad organizzare, per
meglio
difendersi,
uno
Stato
separato
(comprendente anche la Spagna e la Britannia) con a
capo l’imperatore Marco Cassianio Latinio Postumo
(258-267), uno dei generali che Gallieno aveva
lasciato sul posto per sorvegliare la situazione.
274
D’altra parte in Oriente la città di Palmira (sita al
centro di un’oasi nel deserto siro-arabico, a metà
strada fra il Mediterraneo e l’Eufrate), dopo aver
costituito un valido baluardo contro i Persiani sotto
il governo del principe indigeno Odenato, alla morte
di costui, venuto il potere nelle mani della vedova
Zenobia e del figlio Vaballato, intraprendeva una
nuova politica di autonomia e di espansione
antiromana, arrivando fino ad invadere l’Egitto.
Gallieno tentò invano di stroncare questi due
moti separatisti, anche perché impegnato a
respingere dall’Italia un’invasione degli Alamanni e
costretto a difendersi da un nugolo di pretendenti.
Questi durante il suo regno furono tanto numerosi,
da indurlo al provvedimento di escludere i senatori
dai comandi militari, sostituendoli con elementi
dell’ordine equestre; in realtà i comandanti militari
di rango senatorio, col loro maggior prestigio, più
facilmente degli altri erano spinti a tentare la scalata
del potere. Fu mentre assediava in Milano il
pretendente Aureolo che Gallieno venne eliminato
da una congiura (marzo 268).
5. La ripresa sotto gli “imperatori illirici”. Scomparso Gallieno, a capo dell’impero si
susseguirono alcune figure di valenti condottieri che
con la loro energia seppero frenarne il processo di
disgregamento. Si tratta degli “imperatori illirici”,
così detti perché originari delle province danubiane.
Il primo di essi fu Marco Aurelio Valerio Claudio
(Claudio II), soprannominato il Gotico per la grande
vittoria riportata nel 269 a Naissus (odierna Nisch, in
Serbia).
275
Ucciso dalla peste nel 270 dopo appena due
anni di governo, ebbe un degno continuatore della
sua opera in Lucio Domizio Aureliano, un brillante
ufficiale che proveniva dai gradi più bassi. Liberata
l’Italia dalla minaccia degli Iutungi, che erano calati
fino nell’Umbria, Aureliano riuscì a restaurare
l’unità dell’impero annientando da una parte le mire
autonomistiche di Palmira, dall’altra battendo
Tetrico, successore di Postumo, e ponendo fine
all’esperimento separatistico della Gallia. Ma i
pericoli restavano gravissimi (tanto che l’imperatore
si preoccupò di fortificare con una nuova cinta
muraria la stessa Roma, le maestose “mura
Aureliane”), mentre scemavano i mezzi di difesa, e si
dovette abbandonare la Dacia riportando in quel
settore il confine sul Danubio. Dopo aver introdotto
varie riforme nell’amministrazione civile, soprattutto
con l’istituzione dei correctores Italiae (che
rappresentò un altro passo verso quel pareggiamento
dell’Italia alle province che fu poi definitivamente
attuato da Diocleziano), Aureliano si preparava ad
una grande spedizione contro i Persiani, ma presso
Bisanzio cadde vittima di una vendetta privata (275).
Rimasto senza imperatore, l’esercito (cosa
inusitata) chiese al senato di nominare il successore,
e l’assemblea, dopo lunghe esitazioni, designò il
vecchio consolare Marco Claudio Tacito, dando in
tal modo la misura delle sue reali possibilità di
fronte al problema del potere imperiale. Si trattava
infatti di un uomo di settantacinque anni, che aveva
percorso una carriera essenzialmente civile; se mai
aveva esercitato comandi militari di un qualche
rilievo, egli doveva essere allora inesperto delle
importantissime innovazioni tattiche e strategiche
276
introdotte da Gallieno in poi nell’esercito per
renderlo più adatto alla guerra di movimento. Sta di
fatto che, dopo appena un anno, Tacito fu travolto
dal malcontento dei militari, che lo sentivano
estraneo al loro ambiente e ai loro ideali, e gli
successe un altro illirico, Marco Aurelio Probo,
degno continuatore dell’opera di Aureliano.
Nei sei anni del suo regno (276-282) Probo si
spostò infaticabilmente da un settore all’altro del
confine per ristabilirvi la sicurezza, battendo sul
Reno i Franchi e gli Alamanni, sul Danubio i
Burgundi, i Vandali e i Sarmati, in Egitto i Blemmi.
Rispettoso del senato, ma non, come vorrebbe una
tradizione tendenziosa, al punto da reintegrarlo nelle
sue antiche funzioni di governo (ciò che del resto
non aveva fatto nemmeno Tacito, l’imperatore eletto
dal senato), Probo si preoccupò di mantenere
nell’esercito la più severa disciplina, provocando
però alla lunga con i suoi rigidi sistemi il
malcontento delle truppe. Su questo stato di cose
fece leva un movimento sedizioso capeggiato dal
prefetto del pretorio Marco Aurelio Caro, e
l’imperatore, ormai incapace di tenere in pugno i
suoi uomini, restò travolto.
Marco Aurelio Caro è soprattutto da ricordare
come il primo imperatore che, dopo l’acclamazione
dell’esercito, non si curò più di ottenere il
riconoscimento del senato. Questo perdeva allora
definitivamente il diritto di partecipare, sia pura in
maniera formale, all’investitura imperiale, il che
rappresenta uno degli aspetti più caratteristici del
passaggio dal “principato” al “dominato”.
Caro, che si era associato all’impero i due figli
Carino (cui affidò la difesa dell’Occidente) e
277
Numeriano, condusse in Oriente una brillante
spedizione, ma trovò la morte l’anno dopo presso il
Tigri (283). Il comando dell’esercito fu allora preso
da Numeriano e, in suo nome, dal prefetto del
pretorio (Lucio Flavio?) Apro; costui per
impadronirsi del potere assassinò Numeriano, ma
non ebbe il favore dell’esercito, che acclamò invece
imperatore Gaio Valerio Diocle, un ufficiale di
origine dalmata. Assunto il potere col nome di Gaio
Aurelio Valerio Diocleziano (284), questi marciò
contro Carino che, seppure vittorioso, fu eliminato
da una congiura (285). Tutto era ormai nelle mani di
Diocleziano e in lui l’impero aveva trovato l’uomo
capace di realizzare le riforme che s’imponevano
d’urgenza in ogni campo.
Tra le fonti letterarie più importanti per la ricostruzione dell’età
dei Severi è la già ricordata opera del contemporaneo E RODIANO
(libb. II-VI). L’altro contemporaneo C ASSIO D IONE (che raggiunse
il consolato per la seconda volta sotto Severo Alessandro nel 229,
data terminale delle sue Storie) vi dedicò i suoi ultimi libri, dal
LXXIV all’LXXX, giunti a noi nel compendio di X IFILINO tranne il
LXXIX e l’LXXX, che in buona parte si sono conservati nel testo
integrale. Poi i breviarii del IV sec., già menzionati nel capitolo
precedente, e, soprattutto notevoli, le biografie della Historia
Augusta. Sull’attività legislativa degl’imperatori, parecchi elementi si
possono ricavare dalle constitutiones inserite nel Codex Iustinianus e
dagli estratti dei giureconsulti raccolti nei Digesta. Indicazioni sulla
durata del regno e sul dies natalis degl’imperatori si trovano nel
calendario romano pubblicato nell’anno 354 da un anonimo che
viene denominato “il Cronografo del 354”, su cui vedi, per
esempio, H. S TERN , Le calendrier de 354, Paris 1953. Della Storia
ecclesiastica di E USEBIO si riferisce all’età dei Severi il libro VI.
Opere complessive di informazione e di orientamento
sull’età dei Severi (e, più in generale, della storia del III sec.): M.
B ESNIER , L’empire romain de l’avènement des Sévères au Concile de Nicée
278
(nella Histoire Générale fondée par G. G LOTZ ), Paris 1937; il vol. XII
della già citata Cambridge Ancient History (Cambridge 1939); A.
C ALDERINI , I Severi. La crisi dell’impero nel III sec., Bologna 1949.
Sui principali aspetti dell’evoluzione economica e sociale ,
sempre di grande importanza la già citata sintesi di M. R OSTOVZEV ,
Storia economica ecc., cit., p. 459 sgg., del quale peraltro non si può
condividere la concezione del III secolo come di un’età
caratterizzata dal conflitto tra le borghesie cittadine da un lato, e
dall’altro le masse dei diseredati soggette alla dura vita militare o al
faticoso lavoro dei campi. Con una simile interpretazione sono in
contrasto, oltre che il noto passo di H ER ODIAN . VII, 3, 3 sulle
spoliazioni di Massimino, anche le suppliche di comunità agricole a
Gordiano III e ai Filippi perché abbiano a cessare le vessazioni e le
requisizioni cui sono sottoposte dai militari: cfr. D ITTENBERGER ,
Syll. 3 888; O.G.I.S. 519.
Per
i
mutamenti
verificatisi
nella
composizione
dell’assemblea senatoria, nella quale appaiono in aumento gli
elementi di provenienza orientale, vedi P. L AMBRECHTS , La
composition du sénat romain de Septime Sévère à Dioclétien (193-284),
Budapest 1937; G. B ARBIERI , L’albo senatorio da Settimio Severo a
Carino, Roma 1952. Sull’ascesa della classe equestre (nella quale
peraltro cominciano a entrare, attraverso i gradi della bassa
ufficialità, molti elementi provinciali) vedi C.W. K EYES , The rise of
the equites in the third century of the Roman empire, Princeton 1915; G.
L OPUSZANSKI , La transformation du corps des officiers supérieurs dans
l’armée romaine du Ier au IIIe siècle ap. J.-C., in “Mel. d’arch. et d’hist. ”
LV, 1938. In questa cornice la prefettura del pretorio, divenuta il
gradino più elevato della carriera equestre, s’avvia alle funzioni e
alla dignità di vicariato imperiale: cfr. A. P ASSERIN I , Le coorti
pretorie, Roma 1939, p. 233 sgg.; L.L. H OWE , The pretorian prefect from
Commodus to Diocletian, Chicago 1942.
Sugli sviluppi del culto imperiale, oltre il già citato W.
E NSSLIN , Gottkaiser und Kaiser von Gottes Gnaden, vedi G. H ERZOG
H AUSER , in R.E., s.v. Kaiserkult, Suppl. IV, col. 806 sgg. Sulla
mistica della vittoria imperiale, che si nutre delle concezioni della
teologia solare, F R . C UMONT , La théologie solaire du paganisme romain,
in “Mem. Acad. Inscr. Bell. Lettr.” XII, 2 (1913) p. 447 sgg.; A.
A LFÖLDI , Insignien und Tracht, cit., p. 84 sgg.
Sulla figura e sull’opera di Settimio Severo le due trattazioni
complessive di M. P LATNAUER , The life and reign of the emperor L.
Septimius Severus, Oxford 1918, e di J. H ASEBROECK , Untersuchungen
zur Geschichte des Kaisers Septimius Severus, Heidelberg 1921.
Nella vasta bibliografia sul regno di Caracalla, una part e
cospicua è dedicata ai problemi relativi all’estensione del ius
civitatis: la sua portata, la sua data, il suo significato. Nemmeno
279
menzionato da Erodiano, il provvedimento si conosceva
unicamente da un sommario cenno del Digesto (I 5, 17: in orbe
Romano qui sunt ex constitutione imp. Antonini cives Romani effecti sunt), a
cui vari decenni fa si è aggiunta la testimonianza di un papiro (Pap.
Giessen, 40). Purtroppo il documento ci è pervenuto lacunoso, e uno
dei punti più controversi è rappresentato dalla espressione (che vi
si legge alla l. 9) cwrªi; ; " º tw' ª n deºdeitikiv w n , cioè “a esclusione dei
dediticii”. Si discute su ciò da cui i dediticii venivano esclusi (e pare
che si trattasse appunto della concessione del diritto di
cittadinanza), e poi su chi fossero i componenti la categoria de i
dediticii (nei quali saranno con ogni probabilità da vedere le masse
indigene rimaste del tutto estranee al processo di romanizzazione).
Su queste interpretazioni, v. S. M AZZAR INO , Trattato, cit., p. 397
sgg. La data finora generalmente accolta per l’emanazione della
constitutio (il 212) è stata di recente posta in discussione: F. M ILLAR ,
The date of the Constitutio Antoniniana, in “Journ. Egypt. Arch.”
XLVIII (1962), p. 124 sgg. vorrebbe spostarla al 214, mentre
secondo W. S ESTON (in Mélanges offerts à J. Carcopino, Paris 1966, p.
877 sgg.) la data più probabile sarebbe quella dell’estate-autunno
213. Sui risultati della campagna partica, celebrata con la leggenda
VIC(TORIA) PART(HICA) che compare nella monetazione del 217
(M ATTINGLY -S YDENHAM , The Roman Imperial Coinage, IV, 1, p. 257),
è da tener presente lo studio di A. G ÜNTHER , Beiträge zur Geschichte
der Kriege zwischen Römern und Parthern, Berlin 1922. Nel continuo
peggioramento della moneta, il denarius argenteo, che all’inizio
dell’impero aveva avuto un contenuto di fino pari al 90% circa,
aveva visto ridursi tale contenuto a meno della metà; al
conseguente rincaro dei prezzi Caracalla cercò di ovviare col
mettere in circolazione un nuovo denarius di peso quasi doppio, il
cosiddetto “antoniniano” (cfr. L.C. W EST , Gold and Silver Coin
Standards, cit., p. 121). Contemporaneamente veniva “ritoccato”
anche il peso dell’aureus, che Nerone aveva portato a g. 7,28 e ora
fu ulteriormente abbassato a g. 6,54: ma la situazione economica
continuò a peggiorare. Con l’ampia notizia di Cassio Dione
(LXXVII 9) circa l’oppressione fiscale messa in atto da Caracalla
non è che in apparente contrasto quanto si legge in un nuovo
documento, ossia nel rescritto indirizzato il 216 dallo stesso
Caracalla ai cittadini della colonia di Banasa nella Mauretania (cfr.
R. T HOUVENOT , in “Compt. Rend. Acad. Inscr.”, 1946, p. 548
sgg.): Obsequium et fidem vestram remunerans, omnia quaecumque sunt
debita fiscalia frumentaria sive pecuniaria, pendentium quoque causarum,
concedo vobis ecc. Se qui, in sostanza, l’imperatore condona gli
arretrati delle imposte dovute sia in denari sia in natura, ciò è solo
perché i Banasitani possano in appresso meglio assolvere ai loro
obblighi verso il fisco, come viene espressamente sottolineato dalla
280
successiva espressione del rescritto: praesumo omnes de cetero annuas
pensitationes sive in frumento seu in pecunia eo promptius daturos quo me
reputabitis non expectasse quin ultro offerrem neque petentibus vobis neque
sperantibus nova remedia et magnificam indulgentiam.
Al tempo di Caracalla risulta testimoniato per la prima volt a
il “correttorato dell’Italia”, istituzione destinata ad avviare il
livellamento amministrativo dell’Italia alle province; su ciò vedi le
note all’ultimo capitolo.
Sul breve tentativo di Macrino, v. H. M ATTINGLY , The reign o f
Macrin, in “Studies to D.M. Robinson”, II, Saint Louis 1953, p. 962
sgg.; su Elagàbalo (oltre gli antiquati O.F. B UTLER , Studies in the life
of Heliogabalus, New York 1908, e J. S TUART H AY , The amazing
emperor Heliogabalus, London 1911), si veda K. G ROSS , in “Reallex. f.
Ant. u. Christ.” IV (1959), p. 987 sgg. Più e meglio studiata la
figura e l’opera di Severo Alessandro, anche in connessione co l
progredire degli studi sulle biografie dell’Historia Augusta, nel cui
ambito la vita di questo imperatore occupa un posto particolare.
Infatti la già notata “tendenza” di reazione paganeggiante
all’impero cristiano, dalla quale fu ispirata la composizione delle
Vite, portò a idealizzare (dunque, a deformare) la rappresentazione
di Severo Alessandro, facendone un modello di imperatore del
buon tempo antico. Per queste interpretazioni della Historia Augusta
sono fondamentali le ricerche di J. S TRAUB (fra l’altro: Studien zur
Historia Augusta, Bernae 1952; Vom Herrscherideal im Spatantike,
Stuttgart 1939). Il principe, che nel suo nome di Alessandro
proclamava l’aspirazione dei tempi verso la fondazione di una
monarchia universale, dovette invece sostenere una dura lotta in
difesa del confine orientale (contro l’aggressività della nuova
dinastia sassanide: cfr. A. C HR ISTENSEN , L’Iran sous les Sasanides, 2 a
ed., Copenhagen 1944, p. 86 sg.) e del confine renano, ove gli
venne meno l’appoggio dell’esercito e fu massacrato (in generale:
A. J ARDÉ , Études critiques sur la vie et le règne de Sévère Alexandre, Paris
1925). Di contro al ristagnare del paganesimo tradizionale è da
osservare da una parte l’ondata di nuovo fervore religioso
introdotto in Roma dalle principesse siriache della casa dei Severi
(si ricordi che fu per impulso di Giulia Domna che F ILOSTRAT O
scrisse la Vita del santone Apollonio di Tiana), dall’altro il largo
diffondersi della fede cristiana sino a dar luogo ai contrasti che
divisero il papa Callisto da Ippolito, eletto vescovo di Roma dai
suoi partigiani e contrapposto a lui.
L’informazione di cui disponiamo per la storia dell’impero
dopo i Severi è ancora più angusta. Il racconto di Erodiano cessa
con la morte di Massimino, e si deve far ricorso soprattutto alle
Vitae della Historia Augusta, oltre che ai più volte ricordati breviarii.
Di grande importanza sarebbe stato poter disporre delle opere del
281
contemporaneo P UBLIO E RENNIO D EXIPPO , autore di Chronika che
andavano dalle origini fino al 268, e di Skythikà che trattavano il
periodo 238-270, ma non si sono conservati che pochissimi
frammenti (editi in J ACOBY , FGrHist II A, p. 452 sgg.). I Chronika
furono continuati da E UNAPIO DI S ARDI , i cui Hypomnèmata historikà
andavano dal 270 al 404; anche questi, come gli scritti di Dexippo,
sono andati perduti, ma noi li utilizziamo indirettamente perché da
essi attinse Z OSIMO , la cui opera ci è pervenuta. Zosimo era un
funzionario dell’impero d’Oriente che verso la fine del V sec.
scrisse una Nuova Storia in 6 libri, di cui il primo offre un
compendio della storia dei primi tre secoli dell’impero. Nella Storia
Ecclesiastica di E USEBIO si tratta del periodo fra i Severi e
Diocleziano nei libri VI e VII.
Sulla figura e l’opera di Massimino il Trace, v. G.M .
B ERSANETTI , Studi sull’imperatore Massimino il Trace, Roma 1940 (con
aggiunte in “Epigr.” III, 1941, p. 5 sgg. e in “Riv. di Filol.” n.s.
XX, 1942, p. 214 sgg.), nonché C. D I S PIGNO , L’attività politicomilitare dell’imperatore Massimino il Trace, in “Rend. Acc. Lincei”, ser.
VIII, vol. III, 1948, p. 123 sgg. Stabilire la precisa successione dei
fatti di quell’anno 238 che vide, oltre la fine di Massimino, anche
quella di altri quattro Augusti: i due Gordiani, Balbino e Pupieno)
dà luogo a non poche perplessità; cfr. G. V ITUCCI , Sulla cronologia
degli avvenimenti del 238, in “Riv. di Filol.” N.S. XXXII (1954) p. 372
sgg. Sulla politica di Gordiano III, cfr. P.W. T OWNSEND , in “Yale
Class. St.” IV (1934), p. 59 sgg. In particolare, sulle sue imprese
contro la Persia è da ricordare una testimonianza di carattere
eccezionale. Si tratta della grande iscrizione trilingue scoperta a
Persepoli una trentina di anni fa e contenente il racconto delle
gesta compiute dal re Shahpur I (241-272), onde si suole
denominarla Res gestae divi Saporis per analogia con le Res gestae divi
Augusti, cfr. G. P UGLIESE C ARRATELLI , Res gestae divi Saporis, in “La
Parola del Passato” II (1947), p. 209 sgg.; E. H ONIGMANN - A.
M ARICQ , Recherches sur les Res Gestae Divi Saporis, Bruxelles 1953.
Su Filippo e il millenario di Roma cfr. J. G AGÉ , Saeculum
novum. Le millénaire de Rome et le templum urbis sur les monnaies du III e
siècle ap. J.-C., in “Trans. Int. Num. Congr.”, London 1938, p. 179
sgg. Su Decio, F.S. S AL ISBURY , The reign of Trajan Decius, in “Journ.
Rom. St.” XIV (1924) p. l sgg. A proposito della persecuzione (da
considerare anzitutto come un atto di difesa del paganesimo, e poi,
indirettamente, di lotta al cristianesimo) è da ricordare che i papir i
egiziani ci hanno conservato un certo numero di documenti molto
interessanti, i libelli. Si tratta di attestati che si rilasciavano a chi
avesse compiuto il prescritto atto di culto agli dei, e servivano a
proteggerlo dal pericolo delle gravi pene previste per i trasgressori
282
(cfr A. B L UDAU , Die ägyptischen libelli und die Christenverfolgung des
Kaisers Decius, in “Röm. Quartalschr.”, Suppl. XXVII, 1931).
Riguardo ai brevi regni degl’imperatori succedutisi fra la
morte di Decio e l’avvento di Valeriano (su cui la nostra
informazione dipende in non poca parte dal materiale
numismatico), v. H. M ATTINGLY , The Reigns of Trebonianus Gallus and
Volusian and of Aemilian, in “Num. Chron.” VI (1946) p. 36 sgg. Su
Valeriano, A. A LFÖLDI , Die Hauptereignisse der Jahre 253-261 n. Chr.
im Orient im Spiegel der Münzprägung, in “Berytus” IV (1937) p. 41
sgg.; G.M. B ERSAN ETTI , Valeriano ed Emiliano, in “Riv. di Filol.” N.
S. XXVI (1948), p. 257 sgg. Sulle nuove persecuzioni contro i
cristiani, che Valeriano promosse più o meno nello stesso spirito d i
quelle di Decio, cfr. P. P ASCHIN I , in “Studi romani” VI (1958), p.
130 sgg. Su Gallieno, in generale, E. M AN NI , L’impero di Gallieno.
Contributo alla storia del III sec., Roma 1949; in particolare, sulle sue
riforme amministrative, H.E. P ETERSEN , Senatorial and equestrian
governors in the third century A.D., in “Journ. Rom. St.” XLV (1955),
p. 47 sgg.; sulle riforme militari A. A LFÖLDI , Zur Kenntnis der Zeit d.
röm. Soldaten-Kaiser. I: Der Usurpator Aureolus und die Kavalleriereform
des Gallienus, in “Zeitschr. Num.” XXXVII, l927, p. 197 sgg.
Sull’imperium Galliarum, v. R. A NDREOTTI , L’usurpatore Postumo nel
regno di Gallieno, I, Bologna 1939; sullo stato palmireno, J.G.
F EVRIER , Essai sur l’histoire politique et économique de Palmyre, Paris
1931.
Su Claudio II, vedi in generale P. D AMERAU , Kaiser Claudius
II. Gothicus, in “Klio” Beih. XX 1934; su Aureliano L. H OMO , Essai
sur le règne de l’empereur Aurélien, Paris 1904, aggiornato per quanto
riguarda la documentazione epigrafica da G. S OTGIU , Studi
sull’epigrafia di Aureliano, Cagliari 1961. Sulle nuove mura di Roma,
I.A. R ICHMOND , The city wall of imperial Rome, Oxford 1930, p. 27
sgg. Sulla restaurazione dell’unità imperiale, R. D USSAUD , Un témoin
archéologique de la fin dramatique de Palmyre, in “Syria” XXII (1941) p.
194 sgg.; G. E LMER , Die Münzprägung der gallischen Kaiser in Köln,
Trier und Mailand, in “Bonn. Jahrb.” CXLVI (1941). Sul tentativo d i
raddrizzare la rovinosa situazione finanziaria con una riforma
monetaria (che resta piuttosto oscura nei particolari), v. di recente
C. G ATTI , La politica monetaria di Aureliano, in “La Parola de l
Passato” XVI (1961) p. 93 sgg. Sull’inconsistenza della tradizione
relativa ad una restaurazione dei privilegi del senato ad opera di
Tacito, vedi G.M. B ER SANETTI , in “Riv. Indo-Gr.-Ital.” XIX (1935)
p. 19 sgg. Lo stesso tema viene ripreso ancora una volta senza
fondamento per Probo, ma vedi per questo e, in generale, sulla
figura e sull’opera dell’imperatore, G. V ITUCCI , L’imperatore Probo,
283
Roma 1952. Sugli ultimi predecessori di Diocleziano è da vedere la
esauriente monografia di P. M ELONI , Il regno di Caro, Carino e
Numeriano, Cagliari 1948, accurata nell’analisi delle fonti e
generalmente plausibile nella ricostruzione di un periodo storico
per vari aspetti così tormentato e oscuro.
284
XIV
Il dominato.
Da Diocleziano alla fine dell’impero
d’Occidente.
1. Diocleziano e il nuovo volto dell’impero. - L’opera
riformatrice di Diocleziano fu veramente grandiosa
e sotto vari rispetti rappresentò il coronamento di
un travaglio durato per tutto il corso del III secolo.
E in effetti la personalità di Diocleziano bene
s’inquadra fra le figure dei restitutores illirici;
saldamente ancorato alla tradizione, egli cercò
sempre con grande impegno, anche se non sempre
con altrettanta fortuna, di salvare i vecchi istituti
politici: un uomo del passato rispetto all’uomo del
futuro, a Costantino, che saprà superare la
tradizione e gettare le basi di un ordinamento capace
di sopravvivere ancora a lungo.
L’opera di restaurazione imponeva anzitutto di
consolidare il potere imperiale, liberandolo dalla
piaga delle continue usurpazioni, e di metterlo
quindi nelle condizioni migliori per assicurare la
difesa dei confini. Diocleziano, che già nel 285
aveva conferito al suo valoroso collaboratore Marco
Aurelio Valerio Massimiano il titolo di Caesar (senza
285
tribunicia potestas), affidandogli il compito di
restaurare l’ordine nelle Gallie e sul limes renano,
l’anno dopo (1° aprile 286) lo innalzava alla dignità
di Augustus (con tribunicia potestas) con l’incarico di
abbattere l’usurpatore Carausio sollevatosi in
Britannia.
L’impresa si rivelò più ardua del previsto, e nel
frattempo Diocleziano maturò il convincimento che
i due Augusti non potevano da soli provvedere agli
sterminati compiti della difesa militare e della
amministrazione civile. Pertanto nel 293 (10 marzo)
a Massimiano venne affiancato, col titolo di Cesare,
Gaio Flavio Giulio Costanzo (comunemente detto
Costanzo
Cloro)
e
contemporaneamente
Diocleziano nominava suo Cesare un altro valente
generale, Gaio Galerio Valerio Massimiano. Nasceva
così la “tetrarchia”, un sistema che, ripartendo fra
quattro capi il governo dell’impero, rappresentava
come un naturale sviluppo dell’istituto della
correggenza entrato ormai da gran tempo nella
prassi costituzionale: esso era destinato sia ad
escludere il pericolo delle usurpazioni, in quanto i
Cesari erano designati a succedere agli Augusti, sia
ad attuare “la scelta del migliore” senza riguardo per
i diritti di sangue. Quest’ultima esigenza, in
contrasto con la naturale aspirazione dei principi ad
assicurare la successione ai loro figli, fu poi la prima
ad essere calpestata, ma intanto il potere imperiale
acquistò una maggiore stabilità che permise di
condurre vittoriose operazioni su tutti i fronti,
ristabilendo dovunque la sicurezza dei confini e
riportando un certo grado di ordine e di pace.
In seno alla tetrarchia Diocleziano conservò
una posizione di preminenza non solo sui due
286
Cesari, ma anche rispetto all’altro Augusto, e la sua
superiorità fu sottolineata dall’assunzione del titolo
di Iovius mentre M. Valerio Massimiano prendeva
quello di Herculius. In questi titoli si proclamava la
natura divina del potere imperiale, ormai sottratto
ad ogni ingerenza del senato ed esaltato dall’
introduzione a corte di un ancor più fastoso
cerimoniale orientalizzante; e come Giove era
superiore ad Ercole, così Diocleziano Giovio era
superiore a Massimiano Erculio.
Forte di una tale assoluta e indiscussa autorità,
Diocleziano poté realizzare il suo vastissimo piano
di riforme. Fra queste un carattere di maggiore
originalità rivela il tentativo di risolvere i problemi
finanziari dell’impero con l’introduzione del sistema
fiscale della capitatio-iugatio. Tale sistema, nel quale si
stabiliva l’identità, ai fini della tassazione, fra caput
(testa di lavoratore-colono) e iugum, cioè fra unità di
forze di lavoro e unità di superficie lavorabile,
veniva a incidere profondamente sull’organizzazione
dello stato, la cui vita restava rigidamente
condizionata dalla quantità di denaro di cui si poteva
disporre per far fronte alle necessità fondamentali, a
cominciare da quella della difesa militare. E poiché
l’imposizione tributaria colpiva soprattutto le plebi
rusticane delle province, la riforma fiscale ebbe
dirette
implicazioni
nella
riforma
dell’amministrazione
provinciale.
Le
antiche
province furono da Diocleziano spezzettate in unità
minori, oltre un centinaio, col che si voleva anche
eliminare il ricorrente pericolo del separatismo,
mentre all’esigenza di mantenere la compattezza
dell’impero e, insieme, di rafforzare il potere
centrale, rispondeva il raggruppamento delle nuove
287
province in dodici distretti maggiori, le diocesi. E
appunto nell’ambito di ogni diocesi si computavano
sia il numero dei coloni, sia l’estensione delle terre
soggette a imposizione (comprese in un apposito
catasto), e poi, in base al rapporto fra questi due
elementi, si determinava l’ammontare del tributo per
ogni caput: ammontare che variava da diocesi a
diocesi, essendo inversamente proporzionale alla
densità demografica. E come per assicurare la
riscossione del tributo si applicava rigorosamente il
principio della responsabilità collettiva, così allo
stesso fine rispose l’istituzione del più stretto
legame fra il colono e la terra, la servitù della gleba.
Ma anche il più rigido sistema fiscale non poteva da
solo bastare a raddrizzare una situazione economica
compromessa, fra l’altro, dalla circolazione di una
moneta divisionale come il denarius, ridottosi a un
piccolo pezzo di rame imbiancato. A cominciare dai
produttori, questi si rifiutavano di cedere la loro
merce in cambio di una moneta il cui valore
intrinseco era di gran lunga più basso del potere di
acquisto attribuitogli dall’autorità statale, e invano
Diocleziano sperò di mettere un freno al rincaro dei
prezzi con l’emanazione di un calmiere, il famoso
edictum de pretiis del 301. Uno dei capisaldi della
riforma dell’amministrazione provinciale fu poi la
definitiva separazione, già avviata da Gallieno, del
potere civile da quello militare. Ai governatori di
provincia
spettava
unicamente
la
cura
dell’amministrazione civile, mentre il comando dei
presìdi militari era riservato ai duces, da essi
indipendenti; i duces erano poi subordinati ai
rispettivi vicarii, i capi delle dodici diocesi, che alla
loro volta erano agli ordini dei prefetti del pretorio.
288
Nella cornice dell’instancabile attività con cui
Diocleziano cercò d’impedire lo sfacelo dell’impero,
vanno messi in rilievo sia il potenziamento
dell’esercito con l’istituzione, fra l’altro, di una forza
di manovra (i comitatenses) al seguito diretto
dell’imperatore, sia l’impulso dato alla costruzione
di strade che dovevano giovare alla difesa militare.
Tra queste particolarmente notevole la strada fra
Bostra (Arabia) e Palmira; un monumento
impressionante è poi il palazzo che l’imperatore si
fece costruire nel territorio di Salonae in Spalato.
Ma la sua figura di restitutor dell’impero, di
restauratore anche a costo di adottare provvedimenti
rivoluzionari, risalta in special modo dall’opera data
al riordinamento amministrativo dell’Italia. Al suo
ideale di restaurazione dell’impero egli infatti
sacrificò anche una delle istituzioni che vigevano
incontrastate dai lontani tempi della repubblica e,
annullando l’antica posizione di privilegio che nei
confronti delle province aveva goduto l’Italia,
provincializzò anche questa dividendola in correcturae
e sottoponendola al regime fiscale della capitazione
(a. 292). Il nuovo ordinamento fu portato a termine
intorno al 298, quando la diocesi Italiciana, risultante
dall’insieme delle varie province (correcturae), fu
posta sotto l’amministrazione di due vicarii
praefectorum praetorio (le altre diocesi dipendevano
invece ciascuna da un solo vicarius). Dei due suddetti
vicarii, corrispondenti alla divisione dell’Italia in
Italia annonaria (a nord) e Italia suburbicaria (quella
centromeridionale), il primo ebbe sede in Milano col
titolo di vicarius Italiae, l’altro in Roma col titolo di
vicarius urbis Romae. Degli antichi privilegi
sopravvissero, per i cives Romani domo Roma, quello di
289
ricevere gratifiche di frumento, di caro porcina e di
vino a basso prezzo.
Un altro aspetto dell’impegno di Diocleziano
nel consolidare le pericolanti strutture dell’impero,
restaurando l’antica disciplina nel rispetto dei culti
tradizionali, si deve forse riconoscere nella grande
persecuzione contro i Cristiani che cominciò nel 303
e continuò poi per circa un decennio. Ma la sua
ferma convinzione che il risanamento dell’impero
dovesse fondarsi sulla fedeltà agli antichi ideali
politici e morali non impedì che Roma perdesse
importanza a favore di altre città che i tetrarchi
scelsero. come sede del loro governo (Nicomedia in
Bitinia, Sirmio in Pannonia, Milano, Treviri in
Gallia). Era il primo passo verso il definitivo
sgretolamento della più grande opera di unificazione
politica realizzata nel mondo antico.
2. Fallimento della “tetrarchia”. Costantino e l’impero
cristiano. - Fra queste luci e queste ombre erano
trascorsi vent’anni di regno quando, nel maggio del
305, Diocleziano metteva in atto il suo proposito di
ritirarsi a vita privata (e vi rimase fino alla morte,
nel 316) facendo insieme abdicare il collega
Massimiano. Diventarono automaticamente Augusti
Costanzo Cloro e Galerio, e al loro posto furono
scelti come Cesari Flavio Severo e Massimino Daia.
Il sistema tetrarchico sembrava funzionare
regolarmente e avviarsi al suo consolidamento, ma
appena l’anno dopo riceveva un colpo mortale
quando, essendo morto Costanzo Cloro, suo figlio
Costantino riapriva la serie delle usurpazioni
facendosi acclamare imperatore dall’esercito (25
luglio 306). Galerio si rifiutò di riconoscerlo ed
290
innalzò ad Augusto il Cesare Flavio Severo; qualche
mese dopo in Roma si sollevavano i pretoriani che
proclamavano Augusto Marco Aurelio Valerio
Massenzio, il figlio di Massimiano, e infine anche
questi s’indusse a rinunziare all’abdicazione
riprendendo la porpora.
Si scatenava così un nuovo periodo di lotte per
la conquista del potere che nemmeno il personale
intervento di Diocleziano riuscì a comporre,
ottenendo solo che Massimiano tornasse ad abdicare
mentre veniva creato Cesare Licinio Liciniano.
Eliminato Flavio Severo da Massenzio, morto
Galerio nel 311, l’anno appresso Costantino travolse
Massenzio nella famosa battaglia di Ponte Milvio
mentre in Oriente Licinio si sbarazzava di
Massimino Daia (313). Per un decennio l’impero
rimase diviso fra Costantino e Licinio finché, venuto
meno l’accordo fra i due, Licinio fu vinto nella
battaglia di Crisopoli (di fronte a Bisanzio) e
Costantino rimase unico imperatore (324).
Costantino (Imp. Caes. C. Flavius Valerius
Costantinus Aug.) continuò l’opera di Diocleziano
rafforzando il potere imperiale nelle forme del più
rigido assolutismo teocratico e perfezionando i
nuovi ordinamenti militari e burocratici, che
strinsero in una ferrea morsa ogni forma di attività
pubblica e privata e furono tra le caratteristiche più
salienti del “basso Impero”. Per limitarsi a un
quadro sommario delle innovazioni di maggior
rilievo, basterà osservare che gli uffici un tempo
riservati all’ordine equestre vennero o aboliti o
affidati a personaggi della classe senatoria. Questa
rimase pertanto l’unica categoria donde l’imperatore
poteva attingere i grandi funzionari e i dignitari di
291
corte, ma ciò non implicò affatto una maggiore
importanza politica del senato, che tra l’altro si
trovò sminuito anche per il trasferimento (a. 330)
della capitale da Roma a Bisanzio (più vicina al
delicato scacchiere danubiano e ribattezzata col
nome di Costantinopoli), dove veniva istituito un
altro senato. Quanto alle tradizionali magistrature,
l’unica a conservare prestigio fu soltanto il
consolato, rivestito talvolta anche dagl’imperatori. Si
trattava però solo di un’altissima distinzione di
rango sociale, senza alcun potere specifico, come
quello che invece spettava alle alte cariche
dell’amministrazione imperiale.
Queste si succedevano secondo un rigoroso
ordine gerarchico e disponevano di un personale
anche esso gerarchicamente ordinato, come risulta
da quella specie di “ruolo organico” rappresentato
dalla Notitia dignitatum omnium, tam civilium quam
militarium in partibus Orientis et Occidentis e giunto a
noi in una edizione risalente al 430 circa.
Sopravvivono le antiche prefetture come la
praefectura praetorio, la praefectura urbi, la praefectura
annonae, la praefectura vigilum, delle quali la prima
subisce la più profonda trasformazione; infatti a
partire dal 320 il territorio dell’impero venne
suddiviso fino a costituire quattro prefetture del
pretorio: la prefettura delle Gallie, dell’Italia,
dell’Africa, dell’Oriente (con successive diverse
strutturazioni), e i relativi prefetti vi esercitarono
poteri amplissimi in veste di veri e propri viceimperatori. Fra gli organi dell’amministrazione
centrale i più elevati diventano il magister officiorum
(una sorta di ministro degli affari interni, da cui
dipendono anche le scholae palatinae, cioè la nuova
292
guardia del corpo che sostituisce i pretoriani aboliti
da Costantino), il quaestor sacri palatii (specie di
ministro della giustizia), il comes sacrarum largitionum
(per le finanze), il comes rerum privatarum (per il
patrimonio imperiale). Accanto a questi dicasteri, e
con la tendenza a invaderne la sfera d’azione,
importanza sempre maggiore venne acquistando
l’ufficio di praepositus sacri cubiculi; altro organo di
particolare rilievo fu infine il consistorium, il consiglio
segreto dell’imperatore composto dei più alti
dignitari.
Ma la figura di Costantino grandeggia
specialmente per la nuova politica inaugurata di
fronte al Cristianesimo, che da lui ottenne pienezza
di libertà e molti privilegi. Scrittori contemporanei
raccontarono che, alla vigilia dello scontro decisivo
con Massenzio al Ponte Milvio, l’imperatore ebbe
una visione che lo spinse a convertirsi,
promettendogli in cambio la vittoria. In una
conversione avvenuta in tali circostanze alcuni
hanno voluto scorgere il frutto di un calcolo
opportunistico, ma senza alcuna buona ragione.
Certo è, comunque, che poco dopo Costantino dette
riconoscimento ufficiale alla nuova religione con
l’editto di Milano del 313, invitando poi i sudditi ad
abbracciarla e dichiarandosi egli stesso cristiano.
Naturalmente, la conversione non trasformò il
carattere assolutistico del suo potere, e non deve
meravigliare che egli s’intromettesse poi a regolare
questioni non solo di disciplina ecclesiastica, ma
anche di fede, convocando fra l’altro nel 325 il
concilio di Nicea ove vennero definiti i principi
della dottrina trinitaria in quella formulazione che
293
(ritoccata dal concilio di Costantinopoli del 381) è
rimasta il Credo della Chiesa cattolica.
Battuti i Goti, accordatosi con i Sarmati, che
secondo un sistema inaugurato già nel III secolo
furono accolti in gran numero entro i confini,
Costantino si preparava a respingere un’invasione
dei Persiani quando nel maggio 337 venne a morte
presso Nicomedia.
3. I discendenti di Costantino. - Convinto sostenitore,
a differenza di Diocleziano, della successione per
diritto di sangue, Costantino già nel 335 aveva
provveduto a ripartire i territori dell’impero fra i
suoi tre figli, Costantino, Costanzo e Costante, e i
due nipoti Delmazio e Annibaliano, figli del
fratellastro Delmazio. Alla sua morte questi ultimi
vennero ben presto eliminati, e dei tre fratelli il
primo, Costantino II, assunse il governo
dell’Occidente (Imp. Caesar Flavius Claudius
Constantinus Aug.), il secondo, Costanzo II, quello
dell’Oriente (Imp. Caesar Flavius Iulius Constantius
Aug.), mentre Costante, sebbene rivestito anch’egli
della dignità di Augusto (Imp. Caesar Flavius Iulius
Constans Aug.), restava in sottordine e sotto la tutela
di Costantino II.
Dopo una vittoria sui Sarmati, Costante si
rifiutò di riconoscere la sua subordinazione al
fratello, e quando questi nel 340 mosse in armi per
imporre la sua supremazia, fu vinto e ucciso presso
Aquileia. Rimasto padrone dell’Occidente, Costante
intraprese una serie di vigorose operazioni in difesa
dei confini mentre in Oriente Costanzo II si batteva
con energia, anche se con poca fortuna, per
respingere i ripetuti attacchi dei Persiani.
294
Disgustatosi l’esercito con la sua fermezza nel
mantenere la disciplina, nel 350 Costante cadde
vittima di una congiura che portò al potere
Magnenzio, un ufficiale semibarbaro (Imp. Caesar
Flavius Magnus Magnentius Aug.). Costui cercò invano
di intendersi con Costanzo, che nel 353 invase la
Gallia e pose fine all’usurpazione ricostituendo nelle
sue mani l’unità dell’impero. Nominato Cesare nel
355 il cugino Giuliano, con l’incarico di
riorganizzare la difesa e l’amministrazione delle
Gallie, Costanzo dovette tornare a riprendere le
armi contro i Persiani; nel 360, pervenutagli la
notizia che Giuliano era stato acclamato imperatore,
mosse a incontrarlo ma, arrivato in Cilicia, si
ammalò e morì (361).
L’improvvisa scomparsa di Costanzo II lasciava
Giuliano unico signore dell’impero (Imp. Caesar
Flavius Claudius Iulianus Aug.) e libero di
intraprendere quella politica di restaurazione del
paganesimo per cui gli venne il nome di Apostata.
Nato nel 331 da Giulio Costanzo, fratellastro di
Costantino I, da piccolo era stato educato alla fede
cristiana, ma poi l’aveva ripudiata sotto la
suggestione di studi filosofici in cui rimase immerso
finché il cugino, con la nomina a Cesare, lo chiamò a
responsabilità di governo. Dimostrando di possedere
attitudini non solo alla meditazione, ma anche
all’attività politica, Giuliano si era distinto nelle
Gallie, prima liberandole dalla minaccia dei Franchi
e degli Alamanni, poi introducendo provvedimenti
intesi a lenire la crisi economica, e uguale cura
spiegò più tardi nel migliorare l’amministrazione
dell’impero. La sua reazione anticristiana, per
quanto energica, rimase senza conseguenze anche
295
per la breve durata; infatti il giovane, desideroso di
gloria militare, s’imbarcò in una spedizione contro i
Persiani senza averne subito alcuna provocazione, e
nonostante le sue truppe avessero dato segni di
scarso entusiasmo. La campagna si concluse
sfavorevolmente; vi trovò la morte lo stesso
Giuliano (363) e con lui si estinse la dinastia fondata
da Costantino.
4. I barbari nei confini e la bipartizione dell’Impero. Dopo pochi mesi di regno di Gioviano, il più
anziano dei protectores domestici (Imp. Caesar Flavius
Iovianus Aug.), l’esercito acclamò imperatore Flavio
Valentiniano. (Imp. Caesar Flavius Valentinianus Aug.),
il quale si associò come Augusto il fratello Valente
(Imp. Caesar Flavius Valens Aug.), affidandogli il
governo della parte orientale. In Occidente egli
condusse alcune brillanti azioni in difesa del limes
renano e danubiano, ma per le spese militari fu
costretto a un fiscalismo sempre più feroce e
rovinoso. Quando nel 375 venne a morte, doveva
succedergli il figlio Graziano, già nominato Augusto
nel 367 (Imp. Caesar Flavius Gratianus Aug.), ma
l’esercito
proclamò
imperatore
il
figliastro
Valentiniano (Valentiniano II, 375-392: Imp. Caesar
Flavius Valentinianus Iunior Aug.) e i due s’intesero
per una pacifica divisione del potere. Nel frattempo
Valente s’era prodigato a proteggere le province
orientali dalla pressione dei barbari, e aveva dovuto
accogliere entro i confini i Visigoti, incalzati alle
spalle dagli Unni. Qualche anno dopo i Visigoti si
ribellarono e, affrontati da Valente, lo travolsero
nella sanguinosa battaglia di Adrianopoli (378).
296
Allora Graziano nominò Augusto per l’Oriente
Teodosio (Imp. Caesar Flavius Theodosius Aug., 379395), e questi riuscì a raddrizzare la situazione
militare, cercando anche di stabilire rapporti di
convivenza con i barbari per trarne nuove forze a
difesa dell’impero. Infatti è appunto da questa epoca
che intere tribù di barbari cominciarono ad
installarsi entro i confini, organizzandosi in maniera
autonoma e fornendo all’esercito imperiale
contingenti sempre più numerosi di foederati che
combattevano agli ordini di propri capi. Graziano
scomparve nel 383 ad opera dell’usurpatore Magno
Massimo, ma quando costui volle eliminare anche
Valentiniano II, Teodosio intervenne e lo debellò.
Fu in quest’epoca che, condannata l’eresia di Ario, si
definirono i fondamenti dell’ortodossia cattolica
(concilio di Costantinopoli del 381), e questa fu
anche l’epoca in cui fiorirono a Roma alcuni ingegni
pagani, fra i quali si può ricordare l’oratore Quinto
Aurelio Simmaco, mentre senza nome rimane per
noi (perché egli volle dissimulare la sua persona)
l’autore delle più volte ricordate Vitae della Historia
Augusta. Protestando indirettamente contro il regime
imperiale, che si era fatto sempre più oppressivo e
persecutorio anche col voler imporre il cristianesimo
come unica religione di Stato, costoro svolsero
un’appassionata polemica contro la nuova fede in
nome degli antichi ideali di Roma pagana. Erano le
ultime voci che si levavano ad esaltare la passata
grandezza e non possono non commuovere, ma
quando
imputavano
la
presente
miseria
all’abbandono delle tradizioni e delle credenze avite,
non tenevano conto che il nostalgico richiamo
all’antica gloria poteva soddisfare le aspirazioni di
297
un cenacolo aristocratico, non le esigenze delle
masse indifferenti a un passato per loro estraneo e
protese verso ogni promessa di un avvenire migliore.
Alla scomparsa di Valentiniano II, Teodosio
tenne per poco il potere da solo, e quando morì
(395) lasciò l’impero diviso tra i due figli (Arcadio in
Oriente, Onorio in Occidente) affidati alla tutela di
Stilicone, un valente condottiero di stirpe vandala.
Continuando l’indirizzo filobarbarico di
Teodosio, Stilicone cercò di attuare una politica di
collaborazione in senso unitario fra Oriente e
Occidente, ma con scarsa fortuna perché proprio
allora maturavano le condizioni morali e materiali
che portarono le due partes dell’impero ad assumere
una fisionomia diversa e ad incontrare un diverso
destino.
5. L’Impero d’Oriente e la fine dell’Impero d’Occidente.
I regni romanobarbarici. - In Oriente Gainas, un
generale di origine gotica, incaricato di sedare una
ribellione degli Ostrogoti accolti nei confini da
Teodosio, aveva fatto causa comune con quei
barbari e col loro appoggio si era imposto ad
Arcadio, instaurando a Costantinopoli una feroce
dittatura.
La sua tirannide venne travolta a furore di
popolo (400), e allora in Oriente ebbe la prevalenza
una ferma politica antibarbarica, appoggiata da una
nobiltà consapevole dei suoi doveri verso lo Stato,
sollecita dei bisogni delle classi medie, preoccupata
di preservare la vita cittadina e ancor forte di una
certa floridezza economica. In tali condizioni
Costantinopoli non poteva che opporsi a Stilicone,
considerato barbaro e protettore dei barbari, e alla
298
sua politica di unione con un Occidente imbarbarito,
economicamente dissestato, con una vita cittadina in
declino e con una nobiltà preoccupata solo di
organizzarsi a difesa dei propri privilegi in forme
che preludono al feudalesimo.
Da questo momento si apriva la frattura tra
l’impero d’Oriente, che si preparava a percorrere la
lunga parabola della civiltà bizantina, e l’impero di
Occidente, avviato ad operare quel complesso
lavorio di reazione fra classicità, cristianesimo e
germanesimo che è alla radice della nostra civiltà.
L’uno sopravvisse ancora per un millennio; l’altro,
sommerso dalle invasioni, stava per “cadere”, o
meglio per procedere sulla via della sua
trasformazione in nuovi organismi politico-sociali.
A puntellare quella vuota impalcatura politicoburocratica, cui era ridotto l’impero d’Occidente,
non potevano più bastare vittorie come quelle di
Stilicone contro i Goti di Alarico (che però alcuni
anni dopo, nel 410, diedero per primi il sacco a
Roma) o quella di Aezio nel 451 contro gli Unni di
Attila. Costui l’anno appresso irrompeva in Italia e,
se si fermò per la distruzione di Aquileia, fu anche
per l’intervento di papa Leone I: Roma poteva dirsi
salva ma solo per poco, perché nel 455 cadde in
potere dei Vandali di Genserico, sbarcati dall’Africa,
e fu messa a sacco per la seconda volta. E poi,
quelle non erano state vittorie dei Romani sui
barbari, ma di barbari su altri barbari, e se l’impero
d’Occidente si fa terminare nel 476 con la
deposizione di Romolo Augustolo ad opera di
Odoacre, il capo ribelle delle milizie germaniche
degli Eruli stanziati in Italia, ciò è solo perché più
299
nessuno, dopo di quello, assunse in Occidente il
titolo di Augustus.
Su questo periodo si vedano in generale L. C ANTARELLI , L a
diocesi italiciana da Diocleziano alla fine dell’impero occidentale, Roma
1903; E. D EMOUGEOT , De l’unité à la division de l’Empire Romain,
Paris 1951 ; F. G ABOTTO , Storia dell’Italia occidentale nel Medio Evo, III, Pinerolo 1911; F. L OT , La fin du monde antique et les débuts du
moyen Age, Paris 1928 ; S. M AZZARINO , Stilicone. La crisi imperiale
dopo Teodosio, Roma 1942; ID ., Aspetti sociali del quarto secolo, Roma
1951; A. P IGANIOL , L’empereur Constantin, Paris 1932 ; ID ., L’empire
chrétien (325-395), nella “Histoire générale fondée par G. Glotz”,
Histoire romaine IV 2, Paris 1947 ; L. R UG GINI , Economia e società
nell’Italia annonaria, Milano 1961; O. S EECK , Geschichte des Untergangs
der antiken Welt, I-VI, Stuttgart, 1895-1921; W. Seston, Dioclétien et
la tétrarchie, Paris 1946 ; E. S TEIN , Histoire du Bas-Empire, I, éd. par
J.-R. P ALANQUE , Paris 1959 ; D. V AN B ERCHEM , L’armée de
Dioclétien et la réforme constantinienne, Paris 1952 ; J. Vogt, Constantin
der Grosse und sein Jahrhundert, 2 a ed., München 1960.
In particolare su Diocleziano, oltre la già citata monografia
del Seston, cfr., dello stesso autore, Iovius et Herculius ou l’épiphanie
des tétrarques, in “Historia” I (1950) p. 257 sgg. Su Costanzo Cloro,
R. A NDREOTTI in “Didaskaleion” IX (1930) p. 157 sgg. Sulla
politica orientale di Diocleziano, W. E NSSLIN , Zur Ostpolitik des
Kaisers Diocletians, in “Sitzb. Bayer. Akad. Wiss.” 1942, Heft 1. Sul
passaggio dal comitatus di Diocleziano ai comitatenses di Costantino,
cfr. W. S ESTON in “Historia” IV (1955) p. 284 sgg.
Per
quanto
concerne
la
riforma
dioclezianea
dell’amministrazione provinciale, una fonte di grande interesse
(oltre L ACTANT ., De mortib. persec. 7, 4) è il Laterculus Veronensis,
cosiddetto perché conservato nella Biblioteca Veronese, di cui la
prima edizione critica fu data nel 1862 dal M OMMSEN nelle
“Abhandlungen” dell’Accademia di Berlino (si trova riprodotta in
O. S EECK , Notitia dignitatum, p. 247 sgg.). Si tratta di un elenco
(laterculus), databile intorno al 300 d.C., delle province, che vi
appaiono raggruppate nelle rispettive diocesi. È da notare che,
mentre per l’Oriente l’elencazione delle diocesi con le rispettive
province è fatta seguendo un ordine geografico, per quanto invece
riguarda l’Occidente (salvo Britannia e Pannonia) l’elencazione
rispetta un ordine gerarchico di carattere ufficiale che si
rispecchiava nel rango dei rispettivi governatori. Tale duplicità di
criterio ha fatto pensare, contro l’opinione comune, che la lista non
300
sia omogenea, cioè che risalga a due fonti diverse e che sia stata
redatta in due periodi diversi (cfr. J. B. B URY , in “Journ. Rom.
Stud.” XIII, 1923, p. 127 sgg.). Nell’elencazione, qua e là imprecisa,
del laterculus, le dodici diocesi (sei in Oriente e sei in Occidente)
appaiono menzionate in quest’ordine: I d. Orientis (con 16
province), II d. Pontica (con 7 prov.), III d. Asiana (con 9 prov.), IV
d. Traciae (con 6 prov.), V d. Misiarum (con 11 prov.), VI d.
Pannoniarum (con 7 prov.), VII d. Britanniarum (con 6 province),
VIII d. Galliarum (con 8 prov.), IX d. Biennensis (= Viennensis, con 7
prov.), X d. Italiciana (con 12 prov.), XI d. Hispaniarum (con 6
prov.), XII d. Africae (con 6 prov.). L’equiparamento della
posizione amministrativa dell’Italia a quella delle province ebbe un
primo avvio nel “correttorato dell’Italia” testimoniato per la prima
volta al tempo di Caracalla, sotto il quale Gaio Ottavio Appio
Suetrio Sabino, console ordinario del 214, fu elect(us) ad corrig(endum)
statum Ita[l(iae)], secondo la testimonianza di C.I.L. X 5398 = I.L.S.
1159. L’ufficio di corrector Italiae (che aveva funzioni diverse da
quelle meramente giurisdizionali spettanti ai iuridici istituiti da M.
Aurelio, ed esercitava più sostanziosi poteri di carattere militare e
amministrativo) appare poi rivestito, sempre in età di Caracalla, da
un Marcellino (Inscrip. Graec. ad res Rom. pertin., I 137), e una
cinquantina d’anni dopo da un Pomponio Basso, che sembra il
console ord. del 259 e del 271 (C.I.L. VI 31747). Viene poi
ricordato nelle fonti letterarie il correttorato di Tetrico, che dopo
essere stato battuto da Aureliano come ultimo sovrano del
separatistico imperium Galliarum, fu dallo stesso Aureliano onorato
con la nomina a corrector totius Italiae secondo S.H.A., Tyr. trig. 24, 5,
con la nomina a corrector Lucaniae secondo A UR . V ICT . 35, 5; E UTR .
IX 13, 2; S.H.A., Vita Aurel. 39, 1. La discrepanza fra le due notizie
non è di poco momento, perché se realmente Tetrico ebbe il
correttorato della sola Lucania si dovrebbe ammettere che già sotto
Aureliano l’Italia non costituisse più un’unica correttura, ma fosse
già stata divisa in varie corretture, cioè in vari distretti
amministrativi corrispondenti alle province del posteriore
ordinamento dioclezianeo. Ma nonostante tale opinione abbia
trovato sostenitori (cfr. R. T HOMSEN , The Italic Regions, cit. p. 201)
essa appare meno attendibile dell’altra che vede in Diocleziano,
l’uomo che giunse poi a dividere l’Italia in province, l’istitutore dei
correctores di singole province. L’iscrizione C.I.L. X 304, ove è
menzionato un corrector Campaniae sotto Carino, fu giudicata falsa
dal Mommsen.
Su Eusebio come autore della Vita Constantini, cfr. F.
V ITTINGHOFF , Eusebius als Verfasser der Vita Constantini, in “Rhein.
Mus.” XCVI (1953) p. 330 sgg.; F. W INKELMANN , Zur Geschichte der
Autentizitäts-problem der Vita Constantini, in “Klio” II (1962) p. 187
301
sgg. Sui problemi relativi alla cronologia della epoca costantiniana,
oltre A. P IGAN IOL , Dates constantiniennes, in “Rev. Hist. et Phil.
Rel.” XII (1932) p. 360 sgg., sono da tenere presenti le indagini
condotte sulla base di un riesame dei dati numismatici da P. B RUUN
(del quale si ricordano qui, fra l’altro, gli Studies in Constantinian
Chronology, New York 1961), anche se taluna delle sue conclusioni
non pare da accogliere, come p. es. lo spostamento della data
tradizionale (28 ottobre 312) della battaglia del Ponte Milvio; cfr.
R. A NDREOTTI , Recenti contributi alla cronologia costantiniana, in
“Latomus” XXIII (1964) p. 537 sgg. Sulla politica religiosa di
Costantino, cfr. ultimamente S. C ALDERONE , Costantino e il
Cattolicesimo, I, Firenze 1962. Sulla storicità dell’editto di Milano,
M. A DRIANI , in “Studi Romani” 1954 p. 18 sgg.
Sull’ordinamento dell’organizzazione tributaria, cfr. A.
D ELEAGE , La capitation du Bas Empire, Paris 1945, il quale conclude:
“Le principe essentiel de Dioclétien fut de déterminer dans chaque
région une unité idéale, en fonction de laquelle tous les éléments
concrets seraient apprécies” (p. 255); “la diversité des noms de
l’unité fiscale correspond seulement à la diversité des éléments
imposables qu’elle atteint et non à une différence intrinsèque.
Toutes les unités représentent une même valeur et peuvent être
additionnées”. Secondo il L OT (Nouvelles recherches sur l’impôt foncier
et la capitation personnelle sous le Bas-Empire, Paris 1955, Diocleziano
“s’est borné à réprimer les abus des agents du fisc” (p. 31).
Sui secondi Flavii, cfr. G. G IGLI , La dinastia dei secondi Flavii,
Roma 1959. Su Magnenzio, cfr. W. E NSSL IN , Der Usurpator Magnus
Magnentius ein Germane, in “Klio” XIX (1925) p. 478 sgg. Su
Giuliano l’Apostata, J. B IDEZ , La vie de l’empereur Julien, Paris 1930;
R. A NDREOTTI , Il regno dell’imperatore Giuliano, Bologna 1936; I D .,
L’opera legislativa e amministrativa dell’ imperatore Giuliano, in “Nuova
Rivista Storica”, 1930, p. 342 sgg.; G. N EGR I , Giuliano l’Apostata, 5 a
ed., Milano, 1954; G. R ICCIOTTI , Giuliano l’Apostata, Milano 1956.
Sulla datazione del De rebus bellicis, S. M AZZARINO , Aspetti sociali del
quarto secolo, cit.; A. D’O R S , Un arbitrista del siglo IV y la decadencia del
imperio romano, “Quadernos de la Fondación Pastor” 7 (1963); R.
A NDREOTTI , in “Riv. Filol. Class.”, n.s. XXXI (1953), p. 164.
Sull’impresa di Giuliano in Oriente, R. A NDREOTTI , in “Historia”
IV (1930), p. 236 sgg.
Su Valentiniano I, cfr. A. S OLAR I , in “Riv. Filol. Class.”,
N.S. X (1932), p. 75 sgg.; R. A NDREOT TI in “Nuova Rivista
Storica” 1931, p. 456 sgg. Sulla generalis lex de specierum praebitione di
Valentiniano I, cfr. A. P IGANIOL , in “Journ. des Savants” 1955, p.
10: “l’oeuvre propre de Valentinien est naturellement caractérisée
par le plus haut sentiment des devoirs de l’Etat”. Sulla battaglia di
Adrianopoli, cfr. J. S TRAUB , Die Wirkung der Niederlage bei
302
Hadrianopel auf die Diskussion über das Germanenproblem in der
spätrömischen Literatur, in “Philologus” 1943, p. 255 sgg. Sulla
politica religiosa di Teodosio, cfr. V. E NSSLIN , in “Sitzb. Bayer.
Akad. Wiss.”, 1953, H. 2.
Si è largamente discusso sull’uso e destinazione de i
contorniati, medaglie del basso impero caratterizzate da un solco
circolare o “contorno” su entrambe le facce. Secondo A. A LFÖLDI ,
Die Kontorniaten. Ein verkanntes Propagandamittel der stadtrömischen
heidnischen Aristokratie in ihrem Kampfe gegen das christliche Kaisertum,
Budapest 1943), i contorniati avrebbero avuto lo scopo di svolgere
una propaganda senatoria pagana contro il cristianesimo; ma cfr. S.
M AZZARINO , in “Encicl. dell’arte antica classica orientale” II
(1959) p. 787 sgg., il quale vede nei contorniati una “pecunia valida
solo entro l’ambito della prefettura urbana di Roma”, e per quest a
spiegazione si fonda su un editto prefettizio urbano, in cui si
menziona la formula pecuniam spectaculis sibi vindicare.
Una sintesi dei problemi economici e sociali in A. P IGANIOL ,
La crise sociale au Bas-Empire (in “Journ. des Savants”, 1955, p. 5
sgg.), che, accettando le conclusioni di S. M AZZARINO (Aspetti
sociali, cit.), afferma “renoncer à l’adaeratio n’est donc pas du tout,
comme prétendait Mickwitz, dans l’intérêt des bureaucrates, mais
dans celui des contribuables”. Altro problema consisteva nel sapere
se i limitanei erano contadini soldati, oppure no; ormai si può
certamente negare che essi fossero contadini soldati: cfr. S.
M AZZARINO , op. cit., e A. P IGAN IOL , in “Journ. des Savants” 1955,
p. 12 secondo cui i limitanei “sont des paysans que la brutalité du
recrutement arrache à leurs terres”. Quanto ai gentiles (questi, sì,
contadini che difendono le loro terre), cfr. G. V ITUCCI , L’imperatore
Probo, cit. p. 46, 106; S. M AZZARINO , Note di storia economica
tardoromana, in “Economia e storia”, 1966, p. 469. Infine, per il
problema dello “chiffre total de la population” di Roma, cfr. ancora
A. P IGANIOL , loc. cit., p. 13, il quale accetta il numero di 120.000 e
141.120 gratificati proposto, rispettivamente per il 419 e per il 452,
dal Mazzarino.
Sulla personalità di S. Ambrogio, cfr. J.-R. P ALANQUE , St.
Ambroise et l’empire romain. Contribution à l’histoire des rapports de
l’Eglise et de l’Etat à la fin du VI e siècle, Paris 1933; F.H. D UDDEN ,
The Life and Times of St. Ambrose, I-II, Oxford 1935; P. R OLL ERO , S.
Ambrogio e la sua età, 2a ed., Milano 1960.
303