I fondamenti filosofici e teologici islamici attraverso quattro

Sull’Islam
(da non considerarsi aventi pertinenza scientifica, ma unicamente riepilogativa e
generale, per uso didattico)
Riflettete tutti sul seguente assunto:
Come nasce un diritto? Come nasce uno Stato? È un problema culturale; attualmente alla cultura si è sostituita l’economia, perdendo quest’ultima la sua ragion
d’essere strumento, finalizzata a sorreggere e tutelare la cultura.
a. Introduzione.
1. L’Islam nasce come rivoluzione politica e religiosa, una creazione nuova, che
nel suo complesso propone una originalità distinta da cui traspare a chiare lettere la
personalità del suo fondatore Maometto, il quale a differenza di Gesù rivela una forma
religiosa, mentre Gesù rivela sé stesso quale unico Dio, via di salvezza per l’uomo, riscatto nell’amore donato sulla Croce della colpa primordiale dell’uomo stesso.
L’Islam è conservazione di elementi preesistenti, combinati e animati da un nuovo spirito.
2. La penisola arabica, precedentemente alla diffusione dell’Islam, era percorsa da
tribalismo e nomadismo e da diffuse pratiche di polidemonismo: folletti, spiriti maligni, gnomi e figure bizzarre derivanti dal paganesimo fantastico greco e romano nel
quale il mondo era sacralizzato: il cristianesimo in realtà, al contrario dello stesso
Islam, desacralizza il mondo e lascia che l’uomo viva il mondo stesso nella pienezza
dei suoi fenomeni che possono essere analizzati e compresi.
3. Nell’Islam sussisteva e sussiste la credenza nelle maledizioni e in riti di adorazione litica (di pietra), poiché queste creature demoniche orribili, in grado di confondersi tra gli uomini anche in sembianze angeliche, dimoravano in alberi, pietre, sabbia.
Il loro fine era sedurre il viandante per divorarlo. Ancor oggi alla Mecca, nel recinto
sacro, divenuto centro del culto Islamico, e che accoglieva secondo la tradizione una
folla di idoli e simulacri, viene ancora, prima tra tutte le pratiche religiose, adorata la
cosiddetta pietra nera, blocco di basalto, forse un aerolito, di cui non si sa se fosse stato identificato o meno con la maggiore deità del luogo, Hùbal. In seguito la stessa pietra nera è assurta a luogo di conservazione e di adorazione rituale per il mussulmano,
divenendo appunto uno dei cinque pilastri della fede Islamica.
4. Cosa si intende allora per sacro e per profano? Sacra può divenire anche una dimensione contingente cui si rende un culto, dimensione che si venera e che diviene
una surrealtà; ma con ciò si va a profanare la dimensione con il trascendente: è proprio
quanto fa il diritto Islamico che rende culto a se stesso, sacralizzando ciò che sacro
non è, cioè le funzioni di un potere politico sovranamente unico, potere politico che
invece è costituzionalizzato e reale regolatore dei rapporti sociali. Mentre, sacralizzando la realtà giuridica, non si può che ricorrere ad un uomo quale intermediatore fra
realtà e trascendenza, e così facendo si profanizza l’uomo, paganizzando la realtà. Solo un documento giuridico costituzionale, espressione di forze diverse che condividano scelte comuni per il benessere sociale e culturale di tutti, desacralizza ogni forma di
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potere perché la rimette ad un’istanza sovraordinata di potere unico, dove i reciproci
controlli (giurisdizione costituzionale ad es., sindacato di legittimità di una legge rispetto al dettato costituzionale) garantiscono la tutela delle libertà fondamentali, permettendone il pieno esercizio dell’efficacia dei diritti individuali.
5. La credenza in esseri mostruosi e cattivi nell’Islam rimane comunque fortissima
e radicata, specialmente tra pastori e viandanti, i quali temono il Ghūl, un essere femminile, variante dell’orco, che secondo le credenze dei Beduini, sviava i pellegrini inducendoli a percorrere strade ignote per poi divorarli.
Su questo insieme, preislamico, volto soprattutto alla superstizione e alla credenza
di un male onnivoro, non individuabile e comunque padrone del mondo, senza possibilità di salvezza, sorsero i fondamenti islamici che risentirono subito di
quell’influenza. Uno dei maggiori punti di contrasto proprio con il cristianesimo, ma
anche con il giudaismo, sorge dalla liberazione che il cristianesimo offre all’uomo della natura, da cui invece l’uomo può ottenere, lavorandola e non combattendola come
un’oscura presenza e minaccia, frutti meravigliosi, oltre che approfondirla e studiarla,
comprendendone le proprie specifiche leggi, senza farne feticcio di adorazione assurda
e di terrore.
b. L’Islam.
6. Islam significa in arabo: sottomissione, obbedienza, consegna di sé, diversamente da quanto un cristiano possa concepire nella donazione di sé. Dio resta al di sopra
del concetto di giustizia umana, favorendo l’idea della predestinazione, senza possibilità di differenziare bene da male, poiché la morale stessa si confonde con il successo
politico, militare, ma non economico, giacché nell’Islam parlare di economia come noi
la intendiamo è difficile.
Il Califfo, l’Imam possono essere ricchi, cioè disporre di molti averi che non vengono destinati al benessere di tutti, proprio perché la categoria giuridica del “tutti”, è
assente, non essendoci quella particolare cultura giuridica, tipica dell’Europa e del costituzionalismo americano, che preserva la sostanziale tutela delle libertà individuali,
garantendo l’efficacia dei diritti fondamentali. Nell’Islam non è possibile individuare
cosa sia dannoso e cosa virtuoso: l’uomo vi è stato già collocato precedentemente.
L’idea centrale della pietà coranica è relativizzata ad un’attesa angosciosa del giudizio, che deriva e si riscontra in parte della omiletica siriaca di origine copta (cfr. Il Corano, Sura II, 19)
7. Per i “dignitari” dell’Islam, ciò che unisce i musulmani tra di loro, è più la volontà di preservare un certo modo di vivere e garantire un “ideale comune della società” (alla moda araba del VII secolo) piuttosto che interiorizzare una semplice fede comune. Ancora oggi, lo sforzo delle autorità musulmane non mira a provare
l’autenticità e la veridicità del dogma islamico, quanto piuttosto a giustificare, con
ogni sorta di piroette del linguaggio, la validità della shari’a, così come loro la concepiscono. È da notarsi come l’unanimità sia ben lungi dal regnare nel mondo musulmano, un mondo che si scompone in una infinità di sette e sotto-sette che si battono per il
potere e il suo controllo. Da ciò deriva il fatto secondo cui diritto e politica siano secondari, o meglio successivi, alla religione, anch’essa meditata quale luogo di dominio
e non di servizio all’altro. Proprio il concetto di altro sfugge dalla compartecipazione
e da un vissuto di amore reciproco, per essere destinato a porsi su un asse prettamente
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politico, di matrice addirittura schmittiana, quello di amico/nemico. Chi è altro, è perciò non solo diverso, ma si costituisce in-sé e per-sé anche come una eventuale minaccia, un pericolo, per divenire infine rischio di esperienza comune a meno che non sia
stato ridotto e assoggettato alla propria esperienza islamica, all’esperienza intesa come
proprio vissuto (Erlebniss), quindi trasferito nella sua soggettività e alterità di uomo e
di cultura, vuoi giuridica che politica che religiosa.
8. La shari’a ha le sue radici nella società araba preislamica, molto prima della nascita di Maometto. Questa società e le sue leggi tribali, insistiamo molto su questo
punto, sono condizionate da tratti profani e magici allo stesso tempo. Le leggi tribali
degli Arabi erano magiche nella misura in cui i loro processi di ricerca e di dimostrazione erano dominati da metodi tipici della divinazione, dell’invocazione e del giuramento. L’aspetto profano si concretizzava nel fatto che queste stesse leggi riguardavano essenzialmente conflitti di pagamento e indennizzo.
Niente, in ogni caso, permette di affermare che una “legge sacra”, simile a quella
degli Ebrei, esisteva in seno alle comunità arabe preislamiche. Di queste leggi arcaiche, la shari’a ha conservato i tratti essenziali delle regole che riguardavano
l’individuo, la famiglia e l’eredità.
Ci sono pervenute quasi immutate così come si applicavano nelle piccole città della
penisola araba e in seno ai clan di Beduini. Tutte queste erano rette da un codice fondato sul sistema patriarcale, un sistema che non dava alcuna protezione all’individuo
appena questo aveva lasciato la sua tribù e il suo clan. Un sistema che non aveva alcun
concetto della “criminalità”, nel senso giuridico del termine. Per gli Arabi, i crimini
erano assimilati ai pregiudizi e il gruppo tribale, nel suo insieme, doveva assumere la
responsabilità degli atti commessi dai suoi membri. È il tipo stesso di sistema che genera le “faide” (come in Sicilia, isola che rimane segnata dall’influenza araba).
c. La formazione della legge musulmana o “Shari’ah”.
9. Il concetto di legge musulmana. Le norme che secondo la credenza islamica Dio
ha stabilite per la condotta esterna dell’uomo in ogni sua manifestazione, nei suoi rapporti con Dio, con gli altri e con se stesso costituiscono la linea che il fedele deve seguire, cioè shair’ah; la quale del resto regola secondo l’atteggiamento musulmano, sia
la condotta esterna che quella della mente (res cogitans) e quella della realtà (res exthensa).
Il fiqh’ (perizia, scienza in senso ampio) indica la conoscenza dell’insieme delle
norme relative a manifestazioni esterne di vita, e quindi per estensione il diritto musulmano nella sua ampia accezione di regola giuridica, ma anche culturale. In ciò notiamo come non si possa mai parlare di un diritto che sia davvero scevro da condizionamenti rituali e cultuali, infine religiosi. La speculazione dogmatica e il sistema che
ne deriva prende il nome di al-fiqh al-àkbar, cioè scienza superiore, che poi viene ad
occuparsi, in ultima analisi, proprio della parte più alta della vita religiosa: il dogma e
la morale.
10. Igtihad (più nota come jihad) indica letteralmente sforzo e tensione del giurista
per condurre a termine la derivazione della norma giuridica dalle fonti del diritto, che
hanno un fondamento sempre e comunque religioso e teologico. Il Dio del Corano è
del tutto simile all’immagine del Dio non rivelata dell’Antico Testamento, una conce-
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zione di Dio che Cristo svolgerà agli uomini come Lui stesso nel Padre e il Padre in
Lui (cfr. Gv, 14, 8-11).
L’Islam infatti non è solo religione, è anche un sistema culturale e cultuale, cioè un
assetto di potere, un’ideologia complessa e articolata. Essendo l’Islam una religione,
detta regole sia di tipo spirituale che di tipo temporale e che nel tempo ha organizzato
queste regole dando vita ad un ordinamento giuridico di ispirazione sacra, in cui lo
Stato assume la forma di teocrazia e al cui interno la forma di governo è di tipo autoritario.
11. Dal punto di vista più strettamente giuridico l’Islam si presenta come un ordinamento con delle caratteristiche molto particolari, per certi versi irripetibili. Come
ogni diritto confessionale è finalizzato al raggiungimento di fini ultraterreni e quindi si
deve dotare di strumenti che permettano di adattare le singole prescrizioni al raggiungimento di quei fini; pur presentando insospettate analogie con il diritto romano, specie nel campo dei diritti reali e del possesso, non è strutturato intorno ad un corpus iuris; pur avvicinandosi ai sistemi di common law non è ad esso assimilabile, presentandosi più come il diritto dei giuristi che come il diritto dei giudici, cioè prevede sempre
ulteriori interpretazioni e non interpretazioni su quella che si definisce come applicazione dirette ad un caso concreto; piuttosto il caso concreto viene posto nell’ambito di
una tradizione teocratica, affatto laica.
12. Il concetto di Stato, ad esempio, si identifica con quello di Dio, e i diritti dello
Stato, evanescente, privo di confini territoriali, globale e totalizzante, sono diritti di
Dio, poiché ogni forma di vita sociale e politica islamica non è che un mezzo per il
trionfo della causa di Dio sulla terra. La consegna di sé, l’obbedienza senza che si possa comprendere il significato di un’azione anche se a danno di un altro, sono norma e
norma giuridica, perché religiosa, cultuale e culturale. Il concetto stesso di Stato
nell’Islam è sostituito da quello di Dio, perciò parliamo di Stato teocratico che ha ed
avrà senso solo e solo se tutte le genti della terra ne saranno assoggettate. Si immagini
ciò in un mondo che si divide sempre di più dal punto di vista politico e che vede i popoli osservare interessi particolari, ristretti a tradizioni storiche riguardanti singolari
unità quasi tribali. E d’altronde andiamo incontro ad una tribalizzazione della politica
e del diritto stesso.
La legge Islamica, quindi, deriva da queste premesse: essa non è infatti legata ad
una consuetudine, ma unicamente all’espressione della volontà di Dio. Si tratta di una
legge discendente da una volontà invisibile, mediata però da Maometto ed esclusivamente dalla sua rivelazione, senza tener conto di usi e costumi, di modernizzazioni
culturali, di esigenze specifiche concrete, cioè scarta l’immanente e relega il trascendente ad un mero rapporto di esclusività profetica che non si rivolge a tutti, ma isola la
figura del profeta al di sopra degli uomini, proprio come un sovrano politico che detta
leggi, costumi, usi, imponendoli in virtù del fatto che essi siano giunti e siano stati trasmessi dall’invisibile.
13. Ciò assume la caratteristica di una tipica dimensione propria nelle religioni
primitive, conformi a quelle dei popoli senza scrittura, in cui la figura dello sciamano
è quella che trasduce e interpreta eventi ed elementi, circostanze particolari e condizioni concrete. Ciononostante si raccorda ad una generale quanto vaga idea di rispetto
delle esigenze altrui, che coincidono però tutte nella volontà di Dio, il quale non libera
l’uomo nella sua volontà di azione, ma lo irrigidisce ad un’istanza politica immanente,
rivestita da autoritarismo sacro e politicamente religioso, pseudo-moralistico, quasi
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che anche la pratica di uno sport debba essere considerato all’interno della volontà di
Dio e della “morale” dell’Imam del momento.
Le dirette ed immediate conseguenze di un tale atteggiamento sono quelle proprio
di una pericolosa fissazione del credente ad una vita interiore condizionata da quella
esteriore e di mediazione politica, in cui Dio si rivela in ogni circostanza umana, che
non si lega alla possibilità di meditare Dio, quanto piuttosto lo si intuisce e interpreta
come una minaccia e un giudizio senza possibilità di salvezza.
Una tale condizione lega il credente alla disperazione e non a percepire, e vivere
Dio, come salvezza per mezzo della grazia e misericordia di Dio dinanzi alla pochezza
del destino umano. Ma ciò produce anche il cortocircuito di un credente molto attento
alle pratiche ascetiche e poi irrimediabilmente rimesso, o dismesso, alla politica e ai
suoi abusi di potere.
14. Di qui anche l’implicazione di una estensione dello Stato Islamico, cioè di
Dio!, su tutti gli altri che per immediata conseguenza sono ritenuti infedeli, pur praticando altre religioni, e che come infedeli costituiscono di per-sé una minaccia o un pericolo incombente che va combattuto. Tutto ciò lascia scaturire un’idea bizzarra di
credenza in Dio che si sostanzia, in ultima analisi, in una militanza politica e in un vero e proprio progetto militaristico di estensione dello Stato islamico quale dominio su
altre nazioni indipendenti.
Neppure è possibile trascurare il fatto che non esiste un Islam, ma diversi Islam,
diversi Islam che si sono succeduti nel tempo, con caratteristiche diverse, con scelte di
fondo diverse e quindi con soluzioni differenti ai problemi della vita pratica; come pure è necessario considerare che ci sono Islam diversi nel territorio, perché questa religione è presente in realtà estremamente differenziate e si trova ad interagire con tradizioni diverse, con governi diversi e quindi per il fatto di essere indissolubilmente legata al potere politico, assume configurazioni originali a seconda dei luoghi, dei tempi
storici e delle vicissitudini politico-giuridiche legate ad una nazione.
15. Non si tratta di un semplice adattamento imposto dalle circostanze; da sempre
l’Islam, all’interno di una visione unitaria che si muove intorno ad alcuni principi irrinunciabili, è caratterizzato da una estrema flessibilità, da una insospettata dinamicità
(insospettata perché normalmente la visione dell’Islam è quella di una religione estremamente statica). Si tratta di caratteristiche tipiche di ogni ordinamento religioso, ma
che nell’Islam sono oltremodo agevolate nella loro esplicazione dalla mancanza di
un’autorità centrale. Esistono così diverse scuole ufficiali (e altre non ufficiali) che,
ognuna a modo loro, sono legittimate a fornire una interpretazione delle fonti
dell’Islam, cioè il Corano. Per meglio spiegare questo passaggio è utile fare un esempio.
16. Come è noto l’Islam nasce con Maometto, e la prima moglie di Maometto,
Khadija, è una figura particolarmente interessante. É una donna nobile, ricca, che si
occupa del commercio, che assume Maometto come suo uomo di fiducia per sceglierlo infine come sposo. Lei è la prima fedele della nuova religione, fornisce a Maometto
le disponibilità economiche, le possibilità e la convinzione per fondare la prima comunità dei fedeli. Insomma, una donna che ha un ruolo pubblico attivo profondamente
antitetico a quella che è la visione stereotipata e consolidata della donna islamica. Tale
connotazione però evidenzia un tratto di aggregazione politica, più che spirituale: in
ciò la religione islamica si fa gruppo politico per l’esercizio diretto del potere politico
e soprattutto militare, giacché l’autorità centrale religiosa è e deve-essere anche quella
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che esercita materialmente scelte di ordine politico e legislativo, come anche militare e
strategico.
Al di là del caso singolo, questo esempio ci serve per comprendere come ogni fenomeno reale possa avere avuto manifestazioni diverse e differenziate nei variegati
Islam e come la nostra visione, che poi a volte non è l’esatta visione delle cose, sia determinata da una serie di passaggi storici non sempre legati ai fondamenti religiosi
dell’Islam. In sostanza, l’attuale configurazione dell’Islam è il risultato di una serie di
fattori (storici, politici, culturali) di cui dobbiamo tenere conto. Per quanto possibile
dobbiamo tenere separate le due cose, ciò che impone il Corano da ciò che avviene
oggi, ciò che è diritto islamico da ciò che è il diritto di uno singolo Stato islamico che
non può però non convergere, infine, in quel diritto coranico e nella religione interpretata come legge politica.
17. Si tratta di un’avvertenza di grande importanza perché la distinzione è molto
chiara nella nostra cultura. Siamo abituati a considerare che le scelte di uno Stato siano indipendenti dalle scelte degli ordinamenti confessionali, ma nell’Islam (nel Daar
al-Islam) la distinzione tra potere temporale e potere spirituale è molto meno netta e
così molti Stati si dichiarano islamici e dettano norme che si richiamano direttamente
alla shar’ia, ma evidentemente applicano la legge islamica alla luce delle proprie esigenze e, adattandola, trasformano il diritto musulmano classico nel diritto di quel singolo Stato.
Perciò le ragioni che giustificano uno studio dell’ordinamento giuridico islamico
sono molteplici. A prescindere dall’interesse derivante dall’approfondimento di un sistema giuridico originale, non c’è dubbio che oggi l’Islam presenta un qualcosa in più,
un interesse qualificato, strettamente legato all’attualità. Uno storico americano, Huntington, profila l’avvicinarsi di un inevitabile scontro fra civiltà, indicando nel futuro
prossimo la necessità di fare i conti con l’Islam. La cronaca poi ci rimanda a una serie
di problemi legati alla presenza di immigrati islamici nel nostro Paese; e lo Stato italiano si interroga, senza riuscire a dare risposte, sulla politica normativa da adottare
nei loro confronti (ghetto? assimilazione? integrazione?).
d. Rilevanza dei problemi politici e culturali.
18. L’era Islamica inizia nel 632 d.C., quando Maometto e i suoi fedeli compiono
l’egira, ovvero abbandonano la Mecca a seguito dei contrasti che erano sorti con gli
abitanti della città. Quindi, il primo avvertimento che va rivolto a chi si avvicina al
mondo musulmano è quello di ricordare che esso segue una datazione diversa da quella utilizzata nel mondo occidentale. Il riferimento a Maometto ci permette poi di ricordare come egli non sia che un profeta, uno dei tanti profeti che sono apparsi sulla terra
nel corso della storia. Su questo elemento si basa la vicinanza, molto sentita nelle istituzioni musulmane e molto chiara nella loro storia, nei confronti delle altre confessioni monoteistiche fondate sulla parola dei profeti che l’Islam riconosce come tali.
Ma, Maometto è anche l’ultimo dei profeti e da qui discenderebbe la superiorità dei
musulmani, giacché solo i fedeli di questa religione sarebbero in condizione di poter
conoscere per intero la Rivelazione. Non si comprendere perché l’ultimo dovrebbe rivestirsi della dignità del migliore dei precedenti. Non è una questione di serie, ma
semmai di acquisizione della verità derivante dal sacrificio di uno per tutti, per la salvezza del mondo e dell’uomo, che è il fondamento da cui è sorto il cristianesimo: la
salvezza dell’altro mediante il proprio sacrificio di amore.
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19. L’Islam riconosce piena dignità alla Gente del Libro, cioè la Bibbia, ai cristiani
e agli ebrei, ritenendo che l’origine sia comune a tutte e tre queste confessioni. Sebbene questo riconoscimento non implichi un’uguaglianza tra i soggetti, essendo solo i
musulmani in grado di vivere rettamente in quanto unici destinatari della Rivelazione
completa, esso produce comunque dei rilevanti effetti giuridici.
Infatti, cristiani ed ebrei godono della dhimma, ovvero di un patto di protezione illimitato. In sostanza, gli appartenenti a queste confessioni non sono considerati miscredenti, la loro libertà religiosa è (meglio dire: sarebbe) pienamente riconosciuta, ed
i gruppi fondamentalisti, di cui tanto oggi si parla rivolgono la loro azione, violenta,
non solo contro i fedeli di queste confessioni, ma anche contro i musulmani che tradiscono l’Islam. Quando la lotta è rivolta contro ebrei o cristiani, la motivazione originaria non è sovente religiosa; la religione è solo utilizzata, strumentalizzata, piegata al
fine del perseguimento di interessi di altra natura. purtroppo man mano la persecuzione è divenuto anche e sostanzialmente a carattere religioso: sia nei confronti dei cristiani sia nei confronti degli ebrei.
20. Dopo la morte di Maometto si succedono quattro califfi (detti ben guidati) e
durante questo periodo si procede a consolidare la parola del Profeta. É questa l’età
dell’oro dell’Islam, cioè il periodo in cui si sarebbe realizzata una perfetta società
islamica. Ciò, a ben vedere, segna profondamente il modo di pensare e di agire dei
musulmani, in quanto il modello ideale di società si è concretizzato sulla terra, a differenza di quanto ad esempio ritengono i cristiani.
È evidente che quell’esperienza storica rappresenta il punto di riferimento, il traguardo verso cui tendere: è a quel modello che bisogna tornare. Ecco perché l’Islam
viene rappresentato da più parti come una religione naturalmente conservatrice o, per
meglio dire, inevitabilmente rivolta al passato e non al futuro come invece accade ad
altre religioni. Tra i comandi contenuti nella sharia (termine che può essere tradotto
come “la retta via” e che indica la legge rivelata da Dio) dobbiamo distinguere quelli
che riguardano il rapporto tra uomo e Dio, cioè i precetti più prettamente religiosi, da
quelli che riguardano le relazioni tra esseri umani. I primi sono detti ibadat, i secondi
mu’amalat.
e. La credenza islamica.
21. Le ibadat sono rappresentate essenzialmente dai cinque Pilastri (arkân al-dîn),
cioè i cinque atti di culto fondamentali della religiosità musulmana. Questi atti trovano
la loro fonte diretta nel Corano che li istituisce e ne disciplina in maniera generale
l’esecuzione. Il primo pilastro è costituito dalla professione di fede Islamica (shahâda)
con la quale un individuo rende testimonianza della unicità del Creatore e della verità
del profeta Maometto.
Possono essere infatti ricollegate alle ibadat anche le disposizioni relative ai cibi e
alle bevande leciti o illeciti, le norme sulla caccia, sull’uccisione rituale e quelle sui
giuramenti. A questo proposito, si è tuttavia osservato che l’Islam non conosce “culto”
propriamente detto. Infatti ciò che noi chiamiamo culto è nell’Islam parte dei doveri
prescritti da Dio nella sharî’a e definiti in maniera minuziosa dai dotti nelle opere di
fiqh. Di conseguenza, mentre in altre religioni lo scopo del rituale è di avvicinare il
credente alla divinità, e nel cristianesimo soprattutto alla figura di Cristo e alla fede in
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Lui, nell’Islam si tratta semplicemente di adempiere ad una precisa volontà divina, che
obbliga, che lega.
22. In una tradizionale raccolta dell’Imam Al-Bukhari e dell’Imam Muslim, i due
luminari della scienza dell’hadith, si narra che il Profeta Maometto disse: “Si fonda
l’Islam sopra cinque pilastri”. La circostanza che tale testimonianza racchiuda l’unico
vero dogma dell’Islam giustifica la superiorità di questo pilastro rispetto agli altri che
regolano non più dogmi, ma la prassi. Il musulmano è tenuto non solo riguardo a specifici obblighi nei confronti di Dio, ma anche rispetto ad una nuova situazione sociale:
egli diviene membro effettivo della comunità musulmana e inserito nella netta suddivisione fra ciò e chi appartiene all’Islam e ciò e chi non vi appartiene: da una parte ci
sono gli amici, dall’altra i nemici.
Sul piano pratico, la coerenza a questa testimonianza comporta l’obbligo per il fedele di conformare la sua vita alle regole di condotta stabilite dal Corano e dalla Sunna. La testimonianza è un atto personale e volontario e nessuno ne può mettere in discussione la sincerità se non tramite una solenne dichiarazione di abiura.
23. L’adorazione quotidiana (salât) rappresenta il secondo atto di culto fondamentale dell’Islam. Essa viene menzionata dal Corano in numerosi versetti; già all’interno
della seconda sura è stabilito: “Coloro che credono nell’invisibile, assolvono
all’orazione e donano ciò di cui noi gli abbiamo provvisti”. Tale adorazione rituale
presenta comunque delle peculiarità rispetto alla preghiera del mondo cristiano in
quanto soggetta a precise modalità di esecuzione. In primo luogo, essa deve essere
eseguita dal fedele in momenti determinati e per ben cinque volte al giorno.
In secondo luogo, la sua valida esecuzione richiede come condizioni la purezza rituale, il vestiario appropriato, l’orientamento in direzione della Mecca e l’idoneità del
luogo. L’unica preghiera che si svolge in maniera comunitaria è quella del venerdì alle
ore 12:00 e su questo elemento si fondano le recenti richieste di organizzazioni islamiche di considerare il venerdì come giorno di riposo.
24. L’imposta coranica (zakât) costituisce il terzo pilastro dell’Islam. La sharî’a
impone ad ogni musulmano con capacità contributiva di pagare un’imposta a titolo di
assistenza pubblica. L’elemosina obbligatoria rappresenta la manifestazione religiosa
del rapporto tra il credente e i suoi simili che si esprime attraverso la condivisione dei
beni. La fondamentale importanza della preghiera quotidiana è dimostrata dal fatto che
il Profeta a proposito di questo atto di culto avrebbe affermato: “Nel giorno della resurrezione la prima voce che sarà esaminata nel conto del servo è l’adorazione. Se il
risultato dell’esame sarà positivo, anche tutto il resto sarà approvato. Ma se il risultato dell’esame sarà negativo, allora anche tutto il resto sarà riprovato” (Corano II, 3.)
Lo stato di purezza rituale è ottenuto mediante una serie di lavaggi denominati
abluzioni. La legge religiosa prevede l’obbligo di pagare l’imposta solo per coloro che
raggiungono quello che potremmo definire il minimo imponibile (nisâb). La misura
dell’imposta è pari al 2,50% del valore dei cespiti patrimoniali che hanno un valore
superiore al nisâb. Uno dei più significativi è quello che elenca le otto categorie di beneficiari della decima. Accanto all’elemosina obbligatoria, disciplinata dettagliatamente dalla legge sciariatica, esiste una forma di carità privata, assolutamente libera,
che il Testo sacro giudica con maggior favore: “Se le elemosine le farete pubblicamente, buona cosa è questa; ma se le farete in segreto dando dei vostri beni ai poveri,
questa è cosa migliore per voi e servirà d’espiazione per le vostre colpe, chè Dio è bene informato di quello che fate” (Corano II, 271).
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25. Il quarto pilastro, ossia il digiuno nel mese di Ramadân (sawm Ramadân), rappresenta probabilmente l’atto di culto più osservato nel mondo islamico. Esso è disciplinato nelle sue linee essenziali dal Corano che in un versetto recita: “È il mese di
Ramadan, nel quale venne fatto scendere il Corano, codice di vita per gli uomini,
esposizione chiara delle direttive, criterio per distinguere il bene dal male. Chi di voi
veda (l’inizio) del mese, digiuni”.
Hanno l’obbligo di digiunare tutti i musulmani puberi, sani di mente e in condizioni fisiche che permettano di farlo senza danni per la loro integrità fisica. Il digiuno
consiste nel non assumere né cibo né bevanda, nel non fumare, nel non avere rapporti
coniugali, nel non ingerire per via orale (né introdurre nel corpo per altra via) alcuna
sostanza o medicinale. Esso comincia circa un quarto d’ora prima dell’inizio del tempo dell’adorazione rituale dell’alba e si conclude al calar del sole, nel senso che durante la notte poi tutto è permesso!
26. Il quinto pilastro è costituito dal Pellegrinaggio (hajj). Ogni musulmano che ne
abbia le possibilità è tenuto una volta nella vita a recarsi ai luoghi santi dell’Islam. Il
pellegrinaggio che assolve all’obbligo rituale è quello compiuto in un determinato periodo dell’anno e che prevede l’osservanza di un insieme di riti. Il Corano al versetto
IX, 60 stabilisce alcuni di questi riti: “Le elemosine sono per i bisognosi, per i poveri,
per quelli incaricati di raccoglierle, per quelli di cui bisogna conquistarsi i cuori, per il
riscatto degli schiavi, per quelli pesantemente indebitati, per [la lotte sul] sentiero di
Allah e per il viandante”.
Secondo l’interpretazione prevalente, i bisognosi sarebbero i musulmani, mentre i
poveri sono i cittadini non musulmani. “Quelli incaricati” si riferiscono a tutta
l’amministrazione dello Stato. “Quelli di cui bisogna conquistarsi i cuori” possono essere diverse categorie di soggetti: per esempio, neo-convertiti o i non musulmani utili
alla causa Islamica per la loro posizione politico-sociale o professionale.
27. Il mese di Ramadân è il nono dell’anno egiriano. In questo mese le opere compiute hanno presso Allah un pregio superiore alle opere compiute negli altri mesi. Il
mese di Ramadân è il mese dello sforzo per arricchire la spiritualità, per aumentare la
fede, per approfondire la scienza religiosa, per aumentare il timore di Dio, per migliorare la condotta morale e per dare maggiore forza alla pratica dell’Islam e alla diffusione della parola di Allah (Corano II, 185). Il periodo in cui si svolge il pellegrinaggio maggiore inizia l’ottavo giorno del dodicesimo mese lunare e termina il giorno
tredici dello stesso mese. I riti del pellegrinaggio sono: la circoambulazione della Nobile Ka’bah, la preghiera alla stazione di Abramo, la corsa tra la montagna di Safa e
quella di Marwa, la sosta nella piana di ‘Arafah, la lapidazione di Satana, il sacrificio
della vittima consacrata.
28. Tra le altre caratteristiche peculiari dell’Islam vanno segnalate la mancanza di
un’autorità centrale e l’assenza di soggetti che svolgano il ruolo che normalmente
siamo abituati ad attribuire al clero. Quanto al primo punto, esso determina come logica conseguenza che l’Islam non si è dotato di un soggetto che abbia il potere di fornire
un’interpretazione assoluta della verità; ciò evidentemente favorisce la possibilità di
una pluralità di posizioni dottrinali e teologiche che si confrontino con pari dignità.
Per quel che riguarda invece, la scelta di questa confessione religiosa di strutturarsi
prescindendo dalla creazione di un ceto preposto a svolgere stabilmente particolari attività spirituali e a trasmettere il messaggio religioso, va notato come l’assenza di figu-
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re immediatamente riconducibili nell’immaginario collettivo alla qualifica di ministro
di culto, non toglie che operino nel mondo musulmano tutta una serie di soggetti che si
occupano di assicurare il compimento di alcune delicate funzioni, come guidare la
preghiera (imam) o fornire precetti che regolino la vita della comunità dei credenti
(ulama).
Semmai, la possibilità di far riferimento alla nozione tradizionale di ministro di
culto rinviando a queste figure è resa particolarmente difficoltosa dalla mancanza di
un qualsiasi organismo ecclesiale che possa attribuire, negare o riconoscere lo status
di dirigente religioso, carica sancita e legittimata unicamente dalla comunità dei credenti e come tale, peraltro, soggetta in ipotesi a mutamenti continui quanto improvvisi.
29. Sempre per quanto riguarda il tema dei ministri di culto, è opportuno ricordare
come la mancanza di un corpo separato di soggetti che dedichino tutta la loro vita al
servizio della comunità religiosa, venendo di conseguenza ad assumere un ruolo stabile ed ufficiale all’interno di questa, possa in qualche modo derivare anche dal consolidato atteggiamento di chiaro sfavore che l’Islam ha sempre mantenuto nei riguardi
della pratica del celibato. Una impostazione maturata sulla scia di una visione profondamente diversa da quella cristiana del matrimonio e che porta a configurare l’unione
tra uomo e donna, non come un male minore, quanto come lo stato naturale, perfetto,
dell’uomo. Non si dimentichi a tal proposito che Maometto, la cui vita rappresenta un
esempio da seguire per tutti i musulmani, si è sposato più volte e più volte.
f. Fonti del diritto islamico e concetto di Stato islamico.
30. Passando alle vere e proprie fonti del diritto islamico è bene premettere un dato: la rinascita dell’interesse verso lo studio di questo diritto è certo determinato dal
fenomeno dei flussi migratori ma anche, forse soprattutto, dalla rinascita stessa di questo diritto, ovvero dalla crisi dei sistemi nazionali che si erano aperti alla occidentalizzazione e che oggi ripropongono, in tutto o in parte, il diritto musulmano classico al
proprio interno. Si può condividere il giudizio di un autorevole studioso dell’Islam,
secondo cui “il diritto musulmano è diventato oggi uno dei luoghi del conflitto tra tradizione e modernità all’interno dello stesso mondo islamico” (Joseph Schacht, Introduzione al diritto musulmano, Ed. della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, 1995).
31. Come detto, la legge religiosa in generale viene detta sharia. La sharia riparte
in cinque categorie le azioni umane: atti obbligatori, consigliati, liberi, sconsigliati,
proibiti. Questa classificazione si presta immediatamente ad una prima riflessione: il
diritto islamico prevede la possibilità che vengano efficacemente posti in essere degli
atti che siano oggetto di un giudizio negativo, la loro riprovazione non ne inficia la legittimità. Esempio classico di questa categoria di atti, per esempio, è il ripudio. Così
come avviene anche in altri ordinamenti confessionali, l’applicazione della legge religiosa si basa sulla irrilevanza del principio della territorialità, mentre la possibilità di
una pluralità di interpretazioni deve sempre tenere conto di quel limite insormontabile
che è costituito dalla non modificabilità della norma rivelata.
Accanto alla sharia c’è il fiqh, ovvero la conoscenza della legge religiosa, quella
conoscenza che permette una lettura appropriata ed una corretta interpretazione della
volontà divina.
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32. Quelle che noi chiameremmo fonti di produzione e che i musulmani chiamano
invece radici del diritto sono quattro:
1) Il Corano. Come è noto il Corano è il libro che contiene l’insieme delle rivelazioni che il Profeta, Maometto, afferma di aver ricevuto da Dio. I capitoli, in arabo sura, sono e hanno una lunghezza estremamente variabile. Altrettanto diversificate sono
le materie che vengono prese in considerazione, si va dal diritto di famiglia all’usura,
da brevi cenni sulla compravendita e sul prestito alla previsione di disposizioni che regolamentano il diritto di guerra o la situazione giuridica degli Ebrei e dei Cristiani. Si
incontrano talvolta norme di carattere contraddittorio, una antinomia questa che il Corano stesso giustifica, nel momento in cui stabilisce la congruità di una rivelazione
progressiva prevedendo che Dio possa abrogare delle sue precedenti disposizioni sostituendole con delle nuove; da qui l’esigenza di conoscere quale sia il versetto cronologicamente anteriore che viene abrogato e quale quello posteriore, esigenza spesso di
difficile soddisfazione dato che la collocazione dei versetti (prima o dopo) nel libro
non è ritenuto un criterio sufficiente a dirimere l’eventuale contrasto. Le disposizione
coraniche sono di diverso tipo e solo il 3% dei versetti presenta un vero e proprio contenuto giuridico, inoltre molti di queste norme disciplinano settori specifici (specie il
diritto di famiglia e le successioni) o sono accompagnate da prescrizioni di carattere
religioso. In sostanza, questi versetti possono essere considerati il cuore del diritto
Islamico, essendo rivelati e dunque immodificabili, ma non coprono nemmeno una
minima parte di tutte le relazioni umane; per molti fatti la volontà di Dio non si può
evincere dal libro sacro. Ecco perché i musulmani se anche partono nella costruzione
del loro sistema giuridico dal Corano, hanno poi come principale esigenza quella di
andare oltre il Corano.
2) La sunna. Per integrare i comandi del Corano il principale punto di riferimento è
la tradizione, intesa come tutto quello che riguarda la vita del profeta e dei suoi primi
compagni. Il suo comportamento, i suoi assensi taciti, le sue azioni, i suoi silenzi, le
sue parole compongono la sunna e diventano norma, giacché la sua vita, pur essendo
la vita di uomo, è considerata ispirata dalla divinità. Tutto ciò è ricostruito attraverso i
racconti dei comportamenti di Maometto, i cosiddetti hadith, trasmessi prima oralmente e poi trascritti. Le raccolte (sei) di hadith vennero fissate definitivamente solo tra
l’870 e il 915, ovviamente questo procedimento si espose a molte strumentalizzazioni
cosicché il problema più rilevante fu quello di accertare l’autenticità dei racconti. In
questo senso l’elemento decisivo veniva individuato nella reputazione dei trasmettitori
del racconto. L’estensione della sunna, cioè la possibilità di riconoscere valore non solo alla tradizione di Maometto ma anche a quella di altri soggetti, come gli imam, coloro che guidano la preghiera, è alla base della divisione dei musulmani tra sunniti e
sciiti.
3) Igma. Accanto alle due fonti scritte di cui ci siamo già occupati, il diritto Islamico pone due fonti orali. Con il termine igma si intende indicare il consenso della comunità in merito a questioni religiose. L’accordo dei fedeli, o meglio dei dottori in
quanto rappresentanti qualificati della comunità, produce diritto e questo sulla base di
un detto attribuito a Maometto secondo cui “la mia comunità non si troverà mai
d’accordo sopra un errore”. Recentemente si è cercato si estendere il significato di igma in modo da poter attribuire la funzione creatrice del diritto all’opinione pubblica;
un’operazione che avrebbe aperto le porte ad una evoluzione in senso moderno del diritto Islamico facendo giocare un ruolo decisivo alle nuove esigenze delle singole co-
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munità, ma il tentativo non ha avuto successo per l’opposizione della dottrina tradizionalista. Va ricordato, infine, che gli sciiti non riconoscono valore giuridico a questo
strumento.
4) Qiyas. Il qiyas è senza dubbio la fonte del diritto maggiormente controversa e
problematica. Con questo termine si indica la possibilità di creare una regola giuridica
attraverso il ricorso al procedimento analogico, per cui da un caso disciplinato espressamente si trae il principio che serve a regolamentare un caso simile ma non previsto.
L’ammissibilità di questo procedimento, i suoi limiti, dividono profondamente le varie
scuole giuridiche in cui si articola il mondo musulmano. Il Qiyas è una forma di ragionamento sillogistico o analogico. Il sostantivo in arabo significa “comparazione di
un termine con un altro, “misurazione”; nella logica è il sillogismo; nel linguaggio
tecnico-giuridico è la deduzione per analogia.
I concetti basilari da tenere presenti per l’applicazione del Qiyas sono quattro:
al-Far, il caso nuovo che richiede una soluzione;
al-Asl, il caso originario, simile al far ma già risolto, tratto spesso da un
Hadīth o da un verso del Corano;
al-Illa, il ragionamento che combina far e asl;
al-Huqm, la regola trasferibile, attraverso l’uso della ragione, dall’asl al far, si
tratta di una sorta di ratio decidendi.
Si distinguono un Qiyas gali (analogia palese), se il caso di riferimento è presente
nel Corano e nella Sunna, e un Qiyas khafi (analogia nascosta), se non è contenuta né
nel Corano né nella Sunna. Il Qiyas è, tra le fonti giuridiche, la più contrastata e quella
che ha più faticato ad affermarsi. Il problema è stato quello di aver spesso confuso il
ragionamento analogico con il buon senso individuale.
33. Accanto a queste radici del diritto, si pone come ulteriore fonte di produzione
normativa la consuetudine. Nello stesso modo in cui questo elemento ha giocato un
ruolo rilevante all’interno del diritto canonico, il riconoscimento della consuetudine è
servito ad adattare il diritto Islamico alle tradizioni ed alle esigenze di comunità molto
differenti tra loro, tanto da agevolare, in alcune occasioni, la progressiva introduzione
di elementi tipici del diritto di paesi stranieri. Come abbiamo osservato precedentemente, solo una piccola percentuale dei versetti presenti nel Corano ha un vero e proprio contenuto normativo. A ciò si deve aggiungere che, per quanto concerne gli
enunciati di natura giuridica, nella maggior parte dei casi, la volontà divina non è agevolmente comprensibile. La necessità di adeguare questa legge religiosa alle differenti
e molteplici realtà temporali ha perciò richiesto, nel corso dei secoli, un’intensa attività di elaborazione di dottrine giuridiche. Nell’Islam quest’opera poteva essere svolta
esclusivamente da dottori della legge. Tali specialisti, fin dal I secolo dell’Islam, cominciarono a riunirsi in scuole o indirizzi giuridici. Queste scuole, che per diversi secoli si distinsero solo sulla base della collocazione geografica (Medina, Mecca, Kufa e
Basra), in un secondo momento presero i nomi dai loro fondatori.
34. Nel corso del tempo le scuole giuridiche (madhhab) vennero a differenziarsi
non solo nella regolamentazione dei singoli istituti, ma addirittura sulle stesse fonti
costitutive del diritto. Attualmente sono quattro le scuole giuridiche sunnite ancora attive. La loro sopravvivenza deve attribuirsi certamente al valore intrinseco delle dottrine professate, ma anche a circostanze esterne come il favore dei sovrani o
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l’influenza dei rispettivi fondatori. Delle quattro scuole sunnite ci limitiamo a mettere
in evidenza le caratteristiche principali:
1) la scuola hanafita - è quella più seguita e si contraddistingue per un ampio uso
del ricorso al ragionamento analogico;
2) la scuola malikita - molto diffusa nel Maghreb, si basa prevalentemente sulla
sunna e sul rilievo dato alle intenzioni su cui poggia ogni singola azione;
3) la scuola hanbalita - respinge l’uso del qiyas, è la scuola più rigida appare in decadenza ma trova ancora applicazione ad esempio in Arabia saudita;
4) La scuola shafiita - prende il nome da Al-Shàf’i che è considerato il vero fondatore della scienza del fiqh - è diffusa nelle cosiddette periferie del territorio musulmano come l’Indonesia e il subcontinente indiano.
35. Da ricordare bene:
a) sultanato: Sultan è sovrano, dall’arabo sulta (forza). È un titolo utilizzato da
dinastie arabe, forma di monarchia, in realtà teocrazia: il Marocco attualmente è un
regno dal 1957; Oman, Brunei e Malesia sono anche sultanati;
b) califfato: questa è una forma di governo, territoriale, in cui però l’esercizio
dell’autorità sovrana è amministrato da un califfo, cioè letteralmente “successore”, ma
di Maometto. Tale figura vuole rappresentare l’unità politica del mussulmani come dal
principio perseguita da Maometto: tale unità chiamasi umma; essa è anche la comunità
dei fedeli la cui istituzione giuridica e politica, canonica, non è prevista da alcuna sura
del Corano, e neppure nella sunna del Profeta stesso. La sunna è proprio la consuetudine, un codice di comportamento che costituisce dopo il Corano la seconda fonte della legge islamica, ed insieme al Corano prende il nome di shar’ià. In buona sostanza la
sunna è tutta una raccolta di detti, abitudini, fatti attribuiti al Profeta Maometto e ai
suoi primi seguaci.
c) I Kharigiti che costituiscono la terza via accanto a sunniti e sciiti dell’Islam si
differenziano sul problema del peccato: il peccato non avrebbe secondo loro
un’origine morale o rispetto ad un’altra persona o rispetto a sé stessi, ma sempre e
comunque contro il Califfo, anche solo non rispettandone le decisioni che sono solo ed
esclusivamente decisioni politiche o giuridiche, ma che nell’Islam e nella complessa
realtà culturale e tradizionale diviene anche essenzialmente decisione religiosa, trascendente la realtà in un cortocircuito continuo tra identificazione del reale e percezione suggestiva dell’immaginario.
d) Gli Ibaditi costituiscono l’unico ramo oggi esistente dei kharigiti, quella corrente religiosa Islamica che costituisce una “terza via” tra sunniti e sciiti, le cui origini
risalgono ai primi tempi dell’Islam. Mentre in passato il Kharigismo ibadita ha conosciuto momenti di grande espansione (all’epoca del regno rustumide di Tahert, che tra
il 761 e il 909 giunse a comprendere gran parte del Nordafrica), attualmente esso è la
confessione maggioritaria in un unico paese: il sultanato dell’Oman, mentre altrove
sussiste solo in piccole comunità, a Zanzibar e in alcune regioni dell’Algeria, della Tunisia, e della Libia. Come gli altri kharigiti (da cui si distinguono per una particolare moderazione e per il ripudio della violenza), anche gli Ibaditi ritengono che il co-
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mando della comunità non spetti necessariamente ad un discendente del Profeta, ma
solo al più degno dal punto di vista religioso, indipendentemente dalla sua parentela,
dalla sua appartenenza etnica e dal colore della sua pelle.
e) A differenza di altri gruppi kharigiti, gli Ibaditi considerano gli altri musulmani non come kāfir ”miscredenti”, bensì come kuffār al-niʿma”coloro che rinnegano la
grazia di Dio”. Per loro il comportamento che un vero credente deve tenere nei confronti degli altri deve esprimersi in tre modi:
 walāya: amicizia ed unità con i veri credenti e praticanti, nonché con
gli Imām ibaditi.
 barāh: dissociazione e ostilità nei confronti dei non credenti e dei peccatori, e
di quanti sono destinati all’inferno.
 wuqūf: riserva (lett. “sospensione”) nei confronti di coloro di cui non è chiara
la situazione.
Come i kharigiti, anche gli Ibaditi distinguono tra califfi “buoni” e “cattivi”. I primi
due califfi, Abu Bakr e ʿUmar, sono considerati “ben guidati”, mentre fu il terzo califfo, ʿUthmān, che introdusse elementi di corruzione (bid’a). Anche la prima parte del
califfato di ʿAlī è considerata buona, e come gli sciiti anche gli Ibaditi disapprovano la
rivolta di Muʿāwiya. Ma l’accettazione dell’arbitrato successivo alla battaglia di
Ṣiffīn lo rese inadatto al ruolo di Imām, e piena è la condanna della successiva battaglia di Nahrawān dove egli sterminò i primi kharigiti.
La teologia ibadita ha molti punti di contatto con quella mutazilita per quel che riguarda il concetto di tawhīd (unità e unicità di Dio). Essi rigettano ogni descrizione
antropomorfica di Dio, arrivando a negare che i beati, nell’Aldilà, possano goderne la
vista. Rifiutano anche di riconoscere a Dio degli attributi che siano distinti dalla Sua
essenza (come per esempio, un Corano increato e distinto da Dio). Un aspetto dottrinale che ha concrete conseguenze nella vita quotidiana degli Ibaditi è il fatto che per
essi la salvezza non viene solo dal credere in Dio e nel Profeta, ma anche dalle opere.
Per questo, gli Ibaditi sentono come forte dovere morale quello di impegnarsi seriamente nelle proprie attività lavorative (per lo più artigianato e commercio). Una sorta
di etica del lavoro che li distingue spesso da musulmani di diversi orientamenti. Un
aspetto interessante della dottrina ibadita è la sua concezione del Corano. Per essa, infatti, il Corano non è increato ed eterno, come ritiene la maggioranza dei musulmani,
tanto sunniti quanto sciiti. Eterno infatti è solo Dio e se anche il Corano fosse eterno,
ciò equivarrebbe ad “associare” altri a Dio, minandone il dogma dell’unicità.
Bibliografia
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G. VERCELLIN, Tra veli e turbanti, Venezia, 2000, pp. 61 ss.
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