APPUNTI DEL CORSO DI ZOOTECNICA GENERALE 1. I SISTEMI ZOOTECNICI Le modalità con cui si esercita la pratica dell’allevamento animale sono diverse, ma riconducibili ad un idea di sistema zootecnico. Per sistema zootecnico s’intende l’organizzazione delle entità che compongono l’ allevamento e che ne rappresentano le variabili di stato (ambiente fisico, animali, produzioni, mezzi tecnici, lavoro, capitali), e delle loro relazioni che rappresentano le funzioni (transiti di energia, materiali e informazioni). E’ difficile fare una classificazione dei sistemi zootecnici, perchè le aree di confine fra i sistemi sono aleatorie ed i criteri in base ai quali formuliamo la classificazione possono essere arbitrari. Possiamo effettuare la classificazione dei sistemi zootecnici secondo quattro criteri guida: 1) Produttività e legame con la base territoriale agricola dal quale dipende il rifornimento degli alimenti zootecnici impiegati nel ciclo produttivo: l’ allevamento animale può dipendere in toto, parzialmente oppure essere slegato dalla base territoriale di riferimento per la produzione degli alimenti. In funzione della produttività possiamo distinguere colture o superfici foraggiere ad alto, medio o basso livello produttivo. Se tutti gli alimenti impiegati sono acquisiti dall’esterno, gli allevamenti prendono il nome di imprese senza terra. La produttività delle colture foraggiere zootecniche è legata alla fertilità del suolo, alle condizioni ambientali, agli interventi tecnici quali irrigazione, concimazione, lavorazioni, difesa da malerbe e parassiti. Un indicatore indiretto di produttività è il carico animale mantenibile che rappresenta il numero di capi ( espressi in unità convenzionali o in kg di peso corporeo mantenuto) per unità di superficie (normalmente l’ettaro) in condizioni ordinarie (ovvero in un’annata media). Tale carico deve essere calcolato solo sulle risorse foraggiere aziendali, escludendo gli alimenti acquistati dall’esterno. Gli animali occupano una base territoriale virtuale in quanto gli alimenti che consumano sono, in ogni caso, derivati dalla coltivazione di una porzione di terreno appartenente alla stessa azienda nella quale essi sono allevati oppure in aziende lontane (a volte dislocate in altri continenti). La quantità di alimenti provenienti dalla azienda in cui risiede l’allevamento rapportata al consumo complessivo alimentare annuale (espresso in termini di energia o di s.s.) costituisce l’indice di autoapprovvigionamento. 2) specializzazione aziendale e livello produttivo degli animali: dobbiamo distinguere le aziende specializzate, dove viene allevata una sola specie normalmente con un solo indirizzo produttivo (es bovini per produzione di latte o di carne); da quelle miste nelle quali sono presenti più specie; il livello produttivo, riferito alla media della popolazione per quel carattere, viene espresso in percentuale, ed individua la posizione nella quale si colloca l’azienda rispetto alla produttività della popolazione di riferimento. 3) grado di organizzazione interna: possiamo distinguere le imprese zootecniche in base al livello delle tecnologie impiegate e possiamo distinguere in allevamenti dotati di elevato livello tecnologico (uso dell’ I.A, diagnosi di gravidanza, computerizzazione di alcune operazioni, elevato livello di meccanizzazione), da quelli a medio o a basso livello tecnologico nei quali sono adottate mediamente oppure episodicamente tecniche avanzate di produzione. Questo criterio si riferisce anche alle modalità di rilevazione e di elaborazione dei dati aziendali, ciò è importante in quanto l’azienda zootecnica è quella che, nel settore agricolo, produce la maggior mole di dati e la capacità di raccoglierli ed elaborarli in tempo reale è di importanza fondamentale affinché l’imprenditore possa prendere tempestivamente le decisioni tecniche e gestionali sulla conduzione dell’impresa. 4) aspetti socio-economici: Possiamo classificare gli allevamenti in funzione del contesto sociale ed economico in cui essi sono collocati. Il tipo d’impresa ed i suoi collegamenti con il mercato nazionale o internazionale, sia per la vendita dei prodotti che per l’approvvigionamento di mezzi tecnici e capitali, sono rilevanti ai fini della sua collocazione nel contesto produttivo. Es. nei paesi in via di sviluppo nei alcune forme di allevamento sono praticate con la finalità di tesaurizzazione del capitale bestiame. La competizione fra le imprese in regime di concorrenza porta ad un aumento d’intensità produttiva al fine di ridurre il costo unitario di produzione. Però il costo unitario può anche essere ridotto con un abbassamento del grado d’impiego dei fattori produttivi: tale concetto è uno dei perni della politica dell’Unione Europea per gli anni 2000-2006 (contenuta nella cosiddetta Agenda 2000) ed è indicata con il termine di estensivizzazione. In particolare l’estensivizzazione proposta dalla PAC tende a ridurre il carico unitario (espresso in Unità Bovine Adulte UBA, una misura standardizzata della consistenza animale) e ad utilizzare la risorsa foraggera disponibile in modo sub-ottimale. ICL: il grado di intensità di una impresa è il rapporto fra il costo del lavoro e il fatturato definito come indice costo del lavoro Sulla base dei criteri sopraddetti possiamo classificare gli allevamenti in quattro tipi di sistema produttivo a seconda dell’intensità con cui sono impiegati i fattori della produzione (terra, lavoro, capitale, organizzazione). 1) Intensivo. Questo sistema d’allevamento è di norma specializzato, con un unico indirizzo produttivo principale (eventualmente uno secondario come nel caso in cui si produca latte, ma si vendano anche gli animali per il ristallo = ingrassamento o per la macellazione), ad elevato livello produttivo, con alta tecnologia e ben calato in un ambiente imprenditoriale maturo e ampiamente collegato. L’ICL è compreso fra il 20 e il 30%; l’alimentazione rappresentata la maggior parte dei costi. Rientrano in questa categoria le aziende d’allevamento senza terra di suini, avicoli e conigli nelle quali l’intero ammontare degli alimenti è acquisita dal mercato. Gli animali sono in genere mantenuti in stabulazione permanente. 2) Semintensivo. I fattori della produzione sono impiegati ad un livello inferiore rispetto al precedente. Gli animali sono mantenuti in stabulazione semipermanente e l’ICL è compreso fra il 30 ed il 40%. Es. sono gli allevamenti di bovine da latte in cui è praticato anche il pascolamento, allevamenti avicoli a terra, suini plein air, i sistemi semistabulati di allevamento degli ovini e dei caprini da latte (parziale ricorso al pascolamento). 3) Semiestensivo. E’ normalmente praticato con ampio ricorso al pascolamento. Si tratta solitamente di allevamenti misti, con livello produttivo medio-basso e con un ICL compreso fra il 40 ed il 50%. Rientrano in questa categoria gli allevamenti ovini da latte e da carne di buon livello produttivo, gli allevamenti bovini all’alpeggio. 4) Estensivo. Tutti i fattori della produzione sono utilizzati al livello minimo. Il ricovero degli animali è inesistente oppure saltuario. La risorsa alimentare prevalente o esclusiva è il pascolo, l’indirizzo produttivo è di solito misto, i carichi unitari sono piuttosto bassi. é il tipico sistema d’allevamento degli ovini da lana e da carne, dei bovini rustici, dei caprini e dei suini allo stato brado.E’ diffuso in vaste aree dei Paesi in via di sviluppo, ma è frequente anche in zone dei paesi sviluppati non diversamente valorizzabili. Da qualche tempo si indica questo tipo di allevamento come marginaleper indicare una situazione territoriale caratterizzata da forti limiti sotto il profilo della morfologia, della fertilità dei suoli, del clima e delle infrastrutture, anche gli allevamenti che vi si praticano sono detti i marginali. 2. RICHIAMI DI FISIOLOGIA DELLA DIGESTIONE MICROBICA E CENNNI SULL’INGESTIONE E SUL COMPORTAMENTO ALIMENTARE 2.1. PREMESSA In tutte le specie zootecniche la digestione microbica è più o meno importante nell' utilizzazione nutritiva degli alimenti. Nel canale digerente di tutti gli animali, infatti, è sempre presente una certa attività microbica, che è più importante nelle specie erbivore, meno in quelle onnivore e marginale in quelle carnivore. L’attività dei microbi nelle specie erbivore è indispensabile. I microorganismi alberganti nel digerente infatti: 1) consentono l’attacco e la degradazione della parete della cellula vegetale (fibra), la che risulterebbe non digeribile in quanto gli animali non hanno gli enzimi capaci di attaccare i carboidrati strutturali (emicellulose, cellulosa); 2) producono acidi grassi volatili (AGV) utilizzati dall’animale nel proprio metabolismo; 3) sintetizzano proteine ad elevato valore biologico; 4) sintetizzano vitamine del gruppo B. L’attività microbica può essere: 1) prepeptica: è avviene anteriormente alla digestione gastrica (ruminanti e pseudoruminanti); 2) postpeptica: è avviene posteriormente alla digestione gastrica (equidi); 3) interpeptica: è intermedia alla digestione gastrica (ciecotrofi = conigli). PREPETICA: la fermentazione degli alimenti avviene in un sacco prestomacale (rumine, per i bovini, o pseudorumine, per i camelidi) ed è accompagnata da una masticazione secondaria rispetto a quella ingestiva. Il 70% delle sostanze nutritive sono utilizzate in questa sede e la digestione gastrica riguarda prevalentemente le proteine. Questa soluzione consente la migliore utilizzazione della fibra e dell’azoto non proteico, ma non è ottimale l’utilizzazione dei carboidrati di riserva (CNS = carboidrati non strutturali, quali zuccheri semplici e amido). POSTPEPTICA: la digestione della fibra avviene nel grosso colon, dopo che gli amidi e le proteine sono state soggette alla digestione gastrica e intestinale. Questa soluzione consente la migliore utilizzazione dei CNS, ma una minore degradazione della fibra rispetto a quella precedente. Infatti, in presenza di alimenti poveri (ricchi in fibra e poveri in CNS), gli equidi devono ingerire una quantità superiore rispetto ai ruminanti per trarne la stessa quantità di energia. INTERPEPTICA: la digestione microbica avviene nel grosso colon con la produzione di ciecotrofo, che è una pallottola mucillaginosa, in stato di fermentazione, di odore pungente; queste digesta sono emesse dall’ano del coniglio (o lepre) , reingerite e ridigerite nello stomaco e nell’intestino tenue. Alla fine di tale processo avviene l’espulsione delle feci vere (praticamente inodori) per via anale. La ciecotrofia è il sistema digestivo degli erbivori più efficiente. I componenti degli alimenti digeribili per via enzimatica dall’animale sono infatti digeriti prima che inizi la fermentazione microbica che attacca la fibra e i composti non digeriti con la produzione di AGV; la seconda digestione gastro-intestinale serve per digerire i prodotti non volatili ottenuti dalla fermentazione microbica. Il più importante è il primo perchè tipico dei ruminanti, che comprendono la parte più rilevante delle specie allevate: i bovini, i bufalini, i caprini e gli ovini. 2.2. RITENZIONE DEGLI ALIMENTI NEL RUMINE- RUOLO DELLA MASTICAZIONE 2.2.1 Il contenuto del rumine Nel rumine-reticolo è presente in continuazione una massa alimentare fibrosa in corso di fermentazione che rappresenta all’incirca i ¾ del contenuto digestivo totale e dall’8 al 17% del peso corporeo (PC) totale dell’animale, in funzione del tipo della razione somministrata. L’acqua rappresenta l’80-90% del contenuto fresco del rumine e le pareti cellulari vegetali(CS = carboidrati strutturali determinati analiticamente dalla fibra al digerente neutro =NDF) più dell’80% del contenuto secco. Il rumine è approvvigionato durante 5-8 ore al giorno con gli alimenti che vengono ingeriti in una dozzina di pasti. Gli animali al pascolo effettuano due grandi pasti, uno all’alba e l’altro alla sera; anche gli animali in stabulazione, sia fissa che libera. Il contenuto ruminale si accresce durante i pasti ed arriva al massimo durante il grande pasto della sera. L’acqua è apportata dagli alimenti, dall’abbeverata e dalla saliva che è secreta sia continuamente dalle ghiandole parotidi, che nel corso dell’ingestione e della ruminazione (ghiandole sottolinguali): circa 150 l/ gg nel bovino adulto e 10 l/gg negli ovini adulti. La saliva è leggermente alcalina (pH 8,2) e ricca in sostanze tampone (bicarbonati e fosfati) che contribuiscono a mantenere la reazione del mezzo ruminale ad un pH tra 6,2 a 6,5. Il contenuto ruminale è molto condizionato dalla temperatura corporea e dell’anaerobiosi: infatti, l’efficienza delle fermentazioni è massima in totale assenza di ossigeno, con temperatura costante, con un pH subacido e con un sistema dotato in continuo sia dell’alimentazione che della rimozione dei prodotti della fermentazione. Figura 1.1 . Rappresentazione schematica della stratificazione dei componenti del contenuto del rumine. Il contenuto ruminale è rimescolato permanentemente attraverso circuiti obbligatori attivati da circa 2500 contrazioni giornaliere che percorrono la parete ruminale, i pilastri e le pliche di separazione fra i diversi sacchi. Le contrazioni principali, primarie, partono dal reticolo (durata 4 secondi) al ritmo di 1,5 circa al minuto durante i pasti e di uno al minuto nel restante tempo. Si dirigono verso la parte posteriore dell’organo e sono spesso seguite da contrazioni secondarie le quali partono dal fondo del sacco ventrale e si dirigono in senso opposto verso la parte anteriore dello stesso. Il flusso di alimenti e di liquidi implica lo svuotamento del rumine; gli alimenti scompaiono per due vie: 1. La distruzione quasi totale dei tessuti e delle pareti non lignificate da parte della microflora albergante accompagnata dall’evacuazione dei prodotti terminali della loro fermentazione (assorbimento degli AGV ed eruttazione della CO2 e del metano); 2. L’evacuazione verso valle attraverso l’orifizio reticolo-omasale (ORO) delle particelle fibrose non degradate, costituite da tessuti lignificati, , accompagnate dalla massa batterica in fermentazione (gli alimenti che realmente digerisce il ruminante sono quelli che lasciano il rumine indigeriti, il cosiddetto escape ruminale , e dai corpi dei batteri e dei protozoi che albergano nel rumine e che hanno colonizzato le particelle alimentari o che nuotano liberamente nel fluido ruminale). La dimensione di questo orifizio è piccola, ma varia in maniera ciclica; esso si dilata improvvisamente alla fine della contrazione del reticolo e forma un’apertura ellittica lunga 4 cm e larga 1 cm al massimo nei grossi bovini. E durante questo periodo di apertura dell’orifizio, che si ripete per circa 1600 volte al giorno, che si effettua l’evacuazione del contenuto ruminale. Questo particolare dell’orifizio reticoloomasale, e i meccanismi della frantumazione degli alimenti per mezzo della masticazione mericica, fa passare solo le particelle < 1-2 mm negli ovini e 2-4 mm nei bovini. In generale le particelle presenti nell’omaso sono inferiori al millimetro e non subiranno una ulteriore riduzione di dimensione nel corso della successiva digestione. 2.2.2 Circuito di frantumazione degli alimenti: ruolo della ruminazione I ruminanti masticano gli alimenti nel corso dell’ingestione (masticazione ingestiva) con una velocità che è 2 volte più elevata nei piccoli ruminanti: 125-150 movimenti mandibolari per minuto negli ovini e 70-80 movimenti nei bovini Il tempo di masticazione per kg di sostanza secca è basso per gli alimenti concentrati, in quanto essi sono stati macinati più o meno finemente nel corso della preparazione. Esso è tanto più lunga per i foraggi più sono più fibrosi: circa 30 minuti per un buon fieno, oltre 60 minuti per una paglia, 20 minuti per l’insilato di mais contro 5-10 minuti per i concentrati, nel caso della vacca da latte. La masticazione ingestiva riduce gli alimenti in un insieme di particelle di dimensione e di forma estremamente variabili, da un minimo di 1 mm ad un massimo di 4-5 cm. Le piccole particelle (<1 mm) rappresentano circa il 15% della sostanza secca dei foraggi coriacei e intorno alla metà nei foraggi teneri. I frammenti alimentari originatisi da questa masticazione, vengono ingeriti con un fiotto di saliva e costituiscono il bolo alimentare. Essi sono energicamente sospinti verso la porzione caudale del rumine dalle contrazioni del reticolo quale sia la loro dimensione, e sono costretti ad immergersi nella massa fibrosa presente nell’organo. Tale immersione è tanto più rapida quanto più piccoli, più densi e più idrofori sono i frammenti; essa è più rapida per i concentrati e più lenta per i foraggi secchi. Il contenuto ruminale alimentare con razioni costituite da foraggi secchi, è nettamente stratificato: sotto una cupola di gas, si ha uno strato di particelle di foraggi più grandi e leggeri; nel sacco ventrale si ha invece un contenuto più fluido con particelle più piccole e più dense. Poco dopo la fine di un pasto, di solito da 5 a 15 minuti, per l’animale inizia un periodo di ruminazione che è la successione di cicli la cui durata è di circa 1 minuto. Ciascun ciclo inizia con una contrazione supplementare del reticolo, che precede la sua contrazione primaria di qualche secondo. Un bolo (50-80 gr nell’ovino e 600-1000 gr nel bovino) derivante del contenuto del reticolo o del sacco craniale del rumine, è aspirato dall’esofago e rimonta fino alla bocca (bolo mericico). Se il bolo è troppo grosso, la parte eccedente è reingerita ed il rimanente subisce una intensa masticazione (masticazione mericica) che è effettuata con 40-60 movimenti di mandibola al minuto nei bovini e 80-100 negli ovini. In tal modo, le grosse particelle sono ridotte di dimensione e trasformate in piccole particelle (<1mm). Con razioni normali a base di foraggi la ruminazione occupa più tempo dell’ingestione e si effettua in un numero maggiore di periodi; la quantità di s. s. così masticata al giorno nel corso della ruminazione è 2 o 3 volte superiore a quella ingerita. La masticazione mericica è importante nella frantumazione delle particelle alimentari e nel loro tempo di ritenzione ruminale. Con la riduzione della taglia e l’aumento della densità e la perdita delle parti degradabili le particelle hanno una probabilità sempre maggiore di sfuggire alla massa fibrosa, di immergersi verso il sacco ventrale e di guadagnare la parte inferiore di quello craniale da cui sono sospinte verso orifizio reticolo omasale. Figura 1.2 . Circuito delle particelle alimentari nel rumine. La masticazione mericica permette lo svuotamento del rumine che è necessario per un suo successivo riempimento. Le fermentazioni ruminali, rendendo meno resistenti le pareti cellulari e privando le particelle della frazione degradabile, accrescono la loro efficacia. 2. 2.3 Tempi di masticazione, tempi di ritenzione, ingombro e ingeribilità. I tessuti più resistenti alla masticazione, sia durante la ruminazione che ingestione, sono quelli lignificati: lo sclerenchima ed i vasi legnosi. Il risultato è che per kg di sostanza secca ingerita si ha un aumento simultaneo: • del tempo d’ingestione; • del tempo di ruminazione, accentuato dal fatto che la popolazione microbica, che è alimentata meno bene per effetto della diminuzione del contenuto cellulare costituito dal CS e proteine, degrada più lentamente la parete cellulare; • del tempo di ritenzione medio delle particelle nel rumine in quanto dipende dal tempo di ruminazione; • dell’effetto d’ingombro esercitato dalla razione in quanto questo è prodotto dalla proporzione delle particelle non degradabili per il loro tempo di ritenzione, che aumentano entrambi; • del peso del contenuto ruminale espresso in tal quale o in sostanza secca. Il tempo dedicato alla ruminazione non è mai superiore alle 11 ore al giorno; quando è vicino a tale valore può ridursi il tempo di ingestione in quanto il tempo totale di masticazione(ingestione + ruminazione) non può eccedere le 18 ore al giorno a causa dell’affaticamento dei muscoli masticatori e delle altre esigenze dell’animale. Il tempo di ritenzione ruminale (MRT) esprime (in ore) la permanenza media di una determinata classe di particelle, o del liquido compresi i suoi soluti, nel rumine. Il ricambio delle parti solide e dei liquidi presenti nel rumine prende il nome di turnover ruminale. I MRT dei solidi è superiore a quello dei liquidi; esso è maggiore nei bovini rispetto ai piccoli ruminanti per i solidi, mentre quello dei liquidi è pressoché uguale fra le specie. Il MRT dei solidi rispetto ai liquidi è di circa 3 volte nei bovini e di 1,61,7 volte nei piccoli ruminanti. Il MRT dipende sia dalle dimensioni che dal peso specifico delle particelle alimentari. Al crescere della densità relativa (g/ml) il MRT si riduce: ciò significa che le particelle più pesanti hanno maggiore probabilità di affondare nel rumine e di depositarsi sul fondo dal quale poi sono sospinte nel reticolo per passare oltre. Anche la dimensione è rilevante ai fini del MRT: si nota la riduzione del MRT con l’aumento della densità, ma con MRT sempre maggiore a parità di peso con particelle più grandi. Il TMR nel caso di solidi è vacca> capre > pecore Il TMR nel caso di liquidi è capre >pecore> vacca 2.3 LE FERMENTAZIONI MICROBICHE 2.3.1 La micropopolazione ruminale. Nel rumine è presente una imponente massa di microorganismi appartenenti ai gruppi dei batteri, dei protozoi e dei funghi; per lama è anaerobio stretto, ma sono anche presenti delle specie e dei ceppi aerobi facoltativi che hanno il compito di assorbire l’ossigeno che penetra nelrumine con gli alimenti e quello che filtra dalla parete dell’organo. I microorganismi, di solito hanno flagelli o ciglia mobili per nuotare nel liquido ruminale, colonizzano i frammenti di alimento che si trovano immersi nella massa in fermentazione. La concentrazione batterica e quella protozoaria si riducono al crescere della dimensione del microorganismo. All’ interno della popolazione microbica l’interazione più frequente è la sequenzialità, dove un prodotto della fermentazione di una specie batterica è indispensabile per la sopravvivenza di una o più specie. I batteri sono il gruppo più numeroso e preponderante della micropopolazione ruminale. Il loro compito è di colonizzare le particelle di piante ingerite dall’animale, attaccarle con esoenzimi, solubilizzare i CS e fermentarli fino ad AGV, attaccare le proteine alimentari e l’NPN per sintetizzare le proteine del loro corpo, sintetizzare le vitamine del gruppo B. I protozoi non hanno un ruolo ben definito nel quadro delle fermentazioni ruminali. Predando i batteri accrescono il valore biologico delle proteine che dal rumine passano alla digestione gastrica; il VB delle proteine dei protozoi è superiore a quello delle proteine del batteri; possono inglobare sia batteri in fase di fermentazione attiva, ma anche frazioni del contenuto ruminale, favorendo la fermentazione. I funghi anaerobi presenti nel rumine possono essere sia parassiti dei protozoi ciliati che saprofiti dei tessuti vegetali. Questi ultimi giocano un ruolo importante nell’aumentare le disponibilità dei contenuti intracellulari delle cellule vegetali per azione meccanica o enzimatica, anche solubilizzando parte della lignina (che non sarà digerita comunque). I funghi hanno un ruolo sinergico con i batteri nella produzione del metano. Figura 1.4 . Schema della popolazione microbica del rumine. Rappresentazione della popolazione batterica nel rumine dei bovini. I batteri si trovano nel fluido ruminale, sulle particelle alimentari, e attaccate all’epitelio ruminale, dal quale le cellule distali cadono nel fluido. Sono mostrati i batteri aderenti al tessuto in relazione all’urea e all’ossigeno che si diffondono attraverso la parete dell’organo, e verso le cellule epiteliali distali, le quali comprendono il loro substrato nutritivo. 2.3.2. Le fermentazioni I batteri del rumine colonizzano i substrati costituiti dagli alimenti e si accrescono. L’accrescimento della popolazione necessita energia, ottenuta dalla fermentazione dei carboidrati, e proteine che sono ottenute a partire dalle sostanze azotate. I lipidi, a causa della mancanza d’ossigeno, non possono essere impiegati dai batteri come fonte energetica. Tuttavia i grassi sono utilizzati costruire la membrana cellulare batterica e gli acidi grassi insaturi (maggioranza dei costituenti dei lipidi vegetali) sono saturati dai batteri in quanto sono per loro tossici. Le fermentazioni sui carboidrati. La degradazione ruminale dei carboidrati inizia con l’attacco da parte dei batteri dei principali CS (cellulose ed emicellulose) e CNS (amidi e zuccheri semplici) con enzimi extracellulari. Tale attacco porta alla formazione direttamente di glucosio (cellulosa, amidi) o di fruttosio (pectine, emicellulose, pentosani, fruttosani). Le cellule animali hanno una grande affinità per il glucosio in quanto presentano meccanismi per inglobarlo; le cellule della parete del rumine sono impermeabili al glucosio in modo da non sottrarlo al liquido ruminale e rendere possibile la successiva utilizzazione da parte dei batteri. Terminata la fase extracellulare, i monosaccaridi sono utilizzati dai batteri per il proprio metabolismo. Per primo i batteri demoliscono il fruttosio1-6 DI_P (6C) fino ad ac. piruvico (3C, si hanno 2 moli di piruvato per ogni mole di monosaccaride fermentato). L’ac. piruvico è pertanto l’intermediario della fermentazione. Ora, se il ceppo (o i ceppi) batterico sta fermentando la cellulosa, o altri componenti della fibra (batteri cellulosolitici; fermentano bene ad un pH > 6,1), al termine producono ac. acetico, CO2 e ac. formico. L’acido formico fornisce il substrato di fermentazione per i metanobatteri, che sono importanti per il mantenimento della reazione del mezzo nei sistemi anaerobici, sono archeobatteri. Hanno il compito di ossidare l’idrogeno che si libera nel corso delle fermentazioni con il carbonio per produrre metano, con un meccanismo analogo alla fosforilazione ossidativa degli organismi aerobici, dove il metano è l’analogo dell’acqua dei sistemi aerobi. In definitiva, l’attacco ad una mole di esoso (6C) che deriva dalla degradazione dei carboidrati della parete cellulare (CS), porta alla produzione di 2 moli di acido acetico (2 x 2C = 4C), ad una mole di metano (1C) ed a una mole di anidride carbonica (1C). Il guadagno energetico per ciascuna mole di esoso fermentato per questa via è di 4 ATP (1 per la glicolisi + 1 per la produzione di acetato, per mole di piruvato, essendoci 2 moli di piruvato per ogni mole di glucosio che entra nella catena). Il butirrato (4C) è prodotto dai batteri butirrici molto attivi ad un pH compreso fra il 6,3 e il 5,5 con una via iniziale simile a quella dei batteri acetici. Il prodotto finale però non è l’acetato in quanto questo ultimo è attivato ad ecetil-COA e, attraverso la β-condensazione (o la via alternativa del malonato), condensato in acido butirrico (2C + 2C = 4C). Anche in questo caso, per mole di esoso fermentato abbiamo la produzione di una mole di metano ed una mole di CO2. Il bilancio definitivo per mole di esoso è pertanto di una mole di butirrato (4C) + una mole di metano (1C) + una mole di CO2 (1C), con un guadagno energetico di 3 ATP (2 nella glicolisi ed 1 nella butirrogenesi). I batteri che attaccano i substrati costituiti da CNS sono chiamati amilolitici, hanno un pH ottimale fra 6 e 5. La loro attività fermentativa porta alla produzione di acido propionico (3C) che, fra i 3 AGV, è quello meno forte (pKa 4,87 rispetto ad un valore di 4,82 per il butirrico e di 4,75 per l’acetico). Da una mole di esoso si ottengono 2moli di propionato: in questa reazione non si ha perdita di materia ne di energia, in quanto non si perde carbonio ne sotto forma di CO2 ne sotto forma di CH4. Tale via fermentativa fornisce un bilancio dell’ATP dovuto solamente alla glicolisi (2 ATP), ma ha il vantaggio di scaricare(ossidare) i sistemi di trasporto dell’idrogeno (NAD+, FAD+) che, in ambiente riducente come quello anaerobico, sono normalmente carichi (ridotti = NADH-H+; NADPH-H+). Un quadro riassuntivo delle fermentazioni ruminali è riportato di seguito: si parte da 5 moli di carboidrati vegetali (30 C) per arrivare ad un rapporto molare fra i tre AGV tipico (67:22:11) nel caso di razioni medie: 6C sono trasformati in acetato; 2C in propionato; 1C in butirrato; 4C in metano; 6C in CO2; il bilancio dell’ATP è di 16 moli (3,2 per mole di esoso fermentato). Una particolare fermentazione è quella che si sviluppa per opera dei batteri lattici. Poichè la loro attività si sviluppa in maniera tanto maggiore quanto minore è il pH e poiché il loro prodotto finale (acido lattico) è un acido organico molto più forte degli AGV (pKa 3,86), se le razioni sono ricche di zuccheri solubili, l’azione dei lattici è esaltata, il pH è influenzato dalla loro presenza e se non si rimuove la causa (uso dei tamponi, riduzione dell’apporto di zuccheri semplici), l’acido lattico si accumula nel rumine causando la riduzione dell’attività degli altri batteri fino alla loro scomparsa. Questa descritta è l’eziologia della acidosi lattica, una forma di disturbo digestivo fastidiosa per i ruminanti. Figura 1.6 - Proporzioni molari di acidi grassi volatili e di acido lattico, in funzione della acidità (pH) del liquido ruminale. Le fermentazioni sui substrati azotati Le proteine ed i composti azotati non proteici (NPN) contenuti nella razione vengono modificati dalla micropopolazione ruminale. Questa degrada più facilmente le proteine solubili nel liquido ruminale e l’NPN rispetto alle proteine insolubili. Le proteine degradabili (solubili ed insolubili) e l’ NPN danno origine ad un pool di azoto fermentescibile che, attraverso prodotti intermedi (ammoniaca, peptidi e aminoacidi), è utilizzato dai microorganismi per la sintesi delle proteine cellulari (proteina grezza microbica). L’azoto ammoniacale, in presenza di ATP derivante dalla fermentazione dei carboidrati, è organicato dai batteri (prevalentemente dai cellulosolitici) e trasformato in proteine: la possibilità di organicazione dell’azoto, consente ai ruminanti di fornirci alimenti di alto valore biologico (latte e carne) a partire da composti azotati di basso valore biologico (sostanze azotate vegetali) o addirittura a partire dall’azoto inorganico. Se l’NH4 fosse in eccesso rispetto alla disponibilità di ATP (oppure l’ATP fosse in difetto rispetto alla disponibilità azotata), la quota ammoniacale in eccesso filtra la parete del rumine, arriva al fegato in cui è trasformata in urea (l’ammoniaca è tossica) che viene eliminata per via renale oppure riciclata per via salivare; il riciclo dell’urea per via salivare consente un risparmio di azoto importante per animali che si alimentano con foraggi molto poveri in sostanza azotate (es.paglie). Le proteine alimentari non degradate nel rumine (escape ruminale proteico)+ le proteine dei batteri che colonizzano le digesta o il liquido ruminale che oltrepassano l’ostio reticolo-omasale, rappresentano l’entità di proteine realmente a disposizione dell’animale per la digestione successiva. Figura 1.7 -Schema dell’utilizzazione della proteina ed e dell’azoto non proteico (NPN). 2.4 L’INGESTIONE ALIMENTARE L’ingestione alimentare è la quantità (espressa in s. s.) di un determinato alimento (o razione) che un determinato animale è in grado di assumere ad libitum nell’arco di 24 ore. Se lo esprimiamo in termini assoluti (kg di s.s.) e si denomina ingestione, invece in termini relativi (in % del peso corporeo dell’animale), prende il nome di livello di ingestione, o in termini relativi ad un determinato alimento di riferimento (normalmente l’erba) e allora la chiamiamo capacità di ingestione. In tutti gli animali (ruminanti e non) l’ingestione alimentare dipende: - dall’animale (specie, mole, stato d’ingrassamento, gestazione); - dall’alimento (composizione chimica, aspetto fisico, appetibilità); - dalle modalità di distribuzione e presentazione (management); - dal clima; - dalla conduzione dell’allevamento (presenza d’altri animali, sanità, ecc.). L’ingestione è regolata dai centri della sazietà e da quelli della fame, collocati nell’ipotalamo. Questi centri agiscono come un interruttore: quando il centro è orientato verso la fame il comportamento dell’animale è orientato verso la ricerca e l’ingestione dell’alimento e, viceversa. Il centro è influenzato da recettori meccanici che si trovano nelle pareti del rumine che, percependo lo stato di replezione dell’organo, intervengono con l’interruzione o l’inizio dell’alimentazione, e da recettori metabolici, collocati nel fegato o nell’intestino, che monitorano l’entità di metaboliti in circolazione. L’ampiezza dei segnali di fame/sazietà (Is) è condizionato dal grado di distensione del rumine (S), dalla concentrazione ematica dei metaboliti (C), dalla numerosità dei recettori fisici (Ns) e chimici (Nc) secondo la relazione studiata da Conrad e altri: Is = (S x Ns) ± (C x Nc). La digeribilità degli alimenti influenza la loro ingestione in quanto tanto più rapidamente un alimento è degradato nel rumine, tanto più rapidamente scompare per lasciare il posto ad un nuovo alimento. Con alimenti a bassa digeribilità prevalgono gli stimoli legati al grado di replezione ruminale, con il crescere della digeribilità, entrano in gioco i vincoli all’ingestione di tipo metabolica. La digeribilità delle razioni è legata al contenuto in pareti cellulari ed in proteina, ed esiste una relazione inversa fra ingestione e contenuto in CS della razione ed un rapporto diretto fra ingestione e concentrazione proteica. Nel primo caso l’aumento del contenuto in fibra riduce la digeribilità e aumenta i MRT; nel secondo caso, l’aumento di disponibilità azotata consente ai micoorganismi di riprodursi con maggiore efficienza e quindi di attaccare la fibra con superiore efficacia. In entrambi i casi la velocità di svuotamento del rumine aumenta con conseguente più frequente rilascio dei recettori dello stato di distensione delle pareti e quindi più frequente segnale di fame all’ipotalamo. 2.5 IL COMPORTAMENTO ALIMENTARE DEI POLIGASTRICI La più importante differenza fra le diverse specie ruminanti deriva dal rapporto allometrico fra apparato digerente e massa corporea e fabbisogni energetici e massa corporea: il primo mostra un esponente per il peso corporeo di 0,94, o di 1,0, mentre per il secondo tale esponente è 0,75. Ciò in pratica significa che: a) i piccoli ruminanti (PR) hanno una massa corporea 10-12 volte inferiore a quella dei grandi ruminanti (GR). b) ambedue presentano un volume totale dell’apparato digerente che varia in maniera proporzionale al peso corporeo e che mediamente rappresenta il 13-18% di questo. c) i fabbisogni nutritivi di mantenimento ( metabolismo basale + attività spontanee ) sono meno che proporzionali al peso corporeo essendo, infatti, legati al cosiddetto peso metabolico (PM = peso corporeo0,75), per cui i grandi ruminanti tendono ad avere un maggiore volume di apparato digerente per unità di fabbisogni energetici di mantenimento che non i piccoli ruminanti. Per compensare la bassa capacità digestiva i piccoli ruminanti aumentano la velocità di transito degli alimenti nel rumine ed hanno livelli di ingestione più elevati dei grandi ruminanti; ciò comporta una riduzione dei tempi di ritenzione ruminale ed una più bassa digeribilità delle frazioni a lenta fermentazione (soprattutto fibra), compensata da maggiori ingestioni giornaliere di sostanze digeribili. Altre differenze anatomiche riguardano: - il rapporto fra volume ruminale e volume dell’apparato digerente nel suo complesso. I GR hanno un intestino tenue relativamente più piccolo dei PR e digeriscono con minore efficienza gli amidi che possono uscire dal rumine non fermentati. Gli ovini e caprini hanno una efficienza nella digestione degli amidi superiore a quella dei bovini per una maggiore quota di intestino in cui può avere sede la digestione enzimatica; - la dimensione delle ghiandole parotidi è molto maggiore nei PR rispetto ai grandi in quanto nei primi hanno anche la funzione di produrre sostanza in grado di tamponare gli alcaloidi presenti nei foraggi di cui si alimentano (fronde di alberi e di cespugli); - la mobilità del labbro superiore di PR rispetto ai GR e la possibilità dei primi di esplorare con più efficacia lo spazio tridimensionale. Le conseguenze di queste differenza antomo-fisiologica fra PR e GR sono che i primi rispetto ai secondi: a) devono avere livelli di ingestione più alti per soddisfare i loro fabbisogni di mantenimento cui consegue una maggiore velocità di transito ed una minore digeribilità della fibra; b) tendono ad essere più selettivi; c) sono più influenzati nell’ingestione alimentare dalla quantità e dalla dimensione della fibra degli alimenti; d) devono spendere più tempo per ingerire e ruminare ciascun kg di alimento; e) tendono ad avere una maggiore digeribilità delle granelle e delle razioni ricche d’energia. Sulla base di queste differenze anatomo-fisiologiche, i ruminanti sono stati classificati in 3 categorie: 1) i concentrate selectors, a cui appartengono le specie che vivono nei boschi (cervi, daini, ecc..) e che selezionano diete molto ricche in principi nutritivi e povere in fibra, ma con elevate concentrazioni di alcaloidi; 2) i grazers, a cui appartengono i bovini e i bufalini che pascolano esclusivamente (o quasi) le erbe e che mal si adattano ad utilizzare le fronde degli alberi e dei cespugli; 3) gli intermediate feeders, a cui appartengono i caprini e gli ovini che hanno un comportamento intermedio, ma più simile ai selectors i caprini e ai grazers gli ovini. 2.6 CENNI DI METABOLISMO (con particolare riguardo ai poligastrici) Il metabolismo energetico degli animali erbivori differisce da quello degli onnivori (e dei granivori quali gli avicoli) in quanto i nutritivi che derivano dalla digestione sono costituiti nel primo caso prevalentemente da acidi grassi volatili e nel secondo da glucosio (e lipidi). La differenza fondamentale fra poligastrici (e parzialmente anche erbivori monogastrici e ciecotrofi) e monogastrici (onnivori e granivori) sta nel fatto che nei primi i polisaccaridi strutturali ( CS) e quelli di riserva (CNS) sono degradati prevalentemente nel rumine con la produzione dei 3 AGV, mentre nei secondi il glucosio deriva dalla digestione intestinale degli amidi. Nei ruminanti il metabolismo energetico finale è sostenuto direttamente dall’acetato e dal betaidrossi-butirrato d’origine ruminale, che entra nel ciclo Krebs direttamente, mentre nei monogastrici tale funzione è assolta dal glucosio che produce acetato (in realtà acetil_COA) attraverso la glicolisi. I poligastrici, per i quali soltanto una quota limitata di glucosio proviene dalla digestione degli amidi, sintetizzano glucosio nel fegato a partire principalmente da propionato, ma anche dagli aminoacidi neoglucogenetici e dal glicerolo che deriva dall’idrolisi dei lipidi. Possiamo distinguere il metabolismo in assorbitivo e in postassorbitivo: nel primo, successivamente ai pasti, prevalgono i processi anabolici in quanto i nutritivi assorbiti a livello ruminale e intestinale sono in elevata concentrazione; nel secondo, lontano dai pasti, prevalgono processi catabolici. Nei ruminanti è difficile fare questa distinzione in quanto la continua messa d’alimenti in fermentazione nel rumine assicura un continuo rifornimento di metaboliti; tuttavia, in alcune circostanze la domanda metabolica dovuta alla produzione (ad es. animali con elevata produzione di latte; fase finale della gestazione), può essere eccedente rispetto all’apporto di nutritivi con la razione alimentare assunta dagli animali. Parleremo pertanto di bilancio metabolico positivo (in cui gli apporti dal digerente superano la domanda metabolica per il mantenimento e la produzione) e di bilancio metabolico negativo (in caso contrario). 2.6.1 Bilancio metabolico positivo In questo stato i flussi sono orientati dall’apparato digerente al fegato e dal fegato ai tessuti periferici. I principali metaboliti derivanti dalla digestione (aminoacidi, acetato-butirrato, propionato) sono trasferiti dalla vena porta al fegato. L’acetato non è trattenuto dal fegato e passa nella circolazione generale. Viene captato dai tessuti periferici e inserito direttamente nel ciclo di Krebs per la produzione di energia. Può anche essere utilizzato dal tessuto adiposo per la produzione di acidi grassi attraverso la beta-condensazione o il ciclo del malonato. Gli acidi grassi sono poi esterificati con glicerina e depositati sotto forma di lipidi nel tessuto stesso. Il butirrato (in realtà l’ac. butirrico filtra la parete del rumine ed è trasformato in beta-idrossi butirrato) segue lo stesso destino in quanto nei tessuti è idrolizzato ad acetato. Il propionato è trattenuto dal fegato che, attraverso la gluconeogenesi, lo converte in glucosio. Questo metabolita è rilasciato dal fegato ed è impiegato per la nutrizione del tessuto nervoso, per la produzione del latte e per la nutrizione del feto. E’ indispensabile per la sintesi dei grassi nel tessuto adiposo in quanto fornisce la glicerina necessaria per l’esterificazione degli acidi grassi. Il glucosio è usato per fornire il substrato energetico per la contrazione muscolare anaerobia. Può essere, in piccola parte, accumulato nel fegato e nei muscoli sotto forma di glicogeno; l’eventuale quota eccedente è convertita in grasso nel tessuto adiposo o negli adipociti degli altri tessuti. Gli aminoacidi subiscono nel fegato la transaminazione per la sintesi degli AA non essenziali (quelli essenziali sono apportati dalla razione); nel caso dei ruminanti il concetto di AA essenziale è vago, perchè il valore biologico delle proteine di cui è composta la micropopolazione ruminale è elevato, per cui questi animali non hanno vere esigenze in AA. Gli AA rilasciati dal fegato sono captati dai tessuti per il turnover proteico, per la deposizione delle proteine (durante l’accrescimento) e per la produzione (ad es. proteine del latte). Una quota di AA può essere impiegata nel fegato per la sintesi di glucosio (AA glucogenetici). 2.6.2 Bilancio metabolico negativo In questo stato i flussi sono orientati dai tessuti (eccetto il nervoso) al fegato.Si richiede la sintesi di glucosio: uno sbilanciamento energetico significa, pertanto, una carenza metabolica di glucosio e l’intero organismo è impegnato a tamponare questa domanda. La domanda iniziale di glucosio può essere soddisfatta con la riconversione del glicogeno, che era stato depositato nel fegato e nei muscoli. L’entità di glicogeno così disponibile è però molto bassa ( tampona i casi di grave emergenza); per la domanda energetica l’ organismo si rivolge al tessuto adiposo. L’acetato e gli acidi grassi a più lunga catena non possono essere utilizzati per produrre glucosio. Tutti i composti C3 (acido propionico, glicerolo, ecc.) possono essere utilizzati per la gluconeogenesi; invece i composti C2 o i loro polimeri no. Il risultato è che dall’idrolilsi dei trigliceridi del tessuto adiposo può essere utilizzata per la produzione di glucosio soltanto la glicerina. La forte richiesta di energia (glucosio) porta però alla mobilizzazione degli AG dal tessuto adiposo: sono captati dai mitocondri per la produzione di ATP e, la quota in eccesso, è eliminata dal fegato sotto forma di corpi chetonici. Se la richiesta di glucosio è imponente e il rifornimento alimentare di propionato insufficiente (razioni povere in amidi; livello di ingestione basso), il fegato inizia a produrre una quantità notevole di corpi chetonici che sono utilizzati dai tessuti per fini energetici, ma che sono anche eliminati dall’animale con l’expirium e con le urine; questa perdite netta di energia aumenta lo sbilanciamento energetico e, se somministriamo razioni più adeguate, possiamo andare in contro a CHETOSI; che è più frequente: a) nella vacca da latte nelle prime settimane di lattazione, per la nota disincronia fra il massimo livello produttivo (che si verifica intorno alle 6 settimane), ed il massimo livello di ingestione (che si verifica intorno ai 3 mesi); b) nelle pecore, nelle ultime settimane di gestazione soprattutto con gravidanze plurime, quando la domanda di glucosio del feto è alta e l’ingestione alimentare è limitata proprio dalla presenza del feto. In sintesi: un bilancio nutritivo positivo da la garanzia che l’energia in eccesso sia conservata sotto forma di lipidi; uno negativo deve comunque assicurare una produzione di glucosio tale da far fronte alla domanda delle funzioni vitali e produttive degli animali ed evitare un aumento dei corpi chetonici circolanti. 2.6.3 Il ciclo dell’urea L’ammoniaca prodotta in eccesso nel rumine nel corso delle fermentazioni (e lo ione ammonio derivante dalla deaminazione degli AA) è rimossa dal sangue dal fegato e trasformata in urea. Tale funzione epatica è indispensabile in quanto l’NH3 è tossica, soprattutto per il tessuto nervoso in quanto blocca l’ossalacetato che è indispensabile per la respirazione. Il ciclo dell’urea si svolge in parte entro il mitocondrio dell’epatocita, in parte nel citoplasma; Dei 2 gruppi NH3 dell’urea, uno deriva dal glutammato ed uno dall’azoto ammoniacale, che deve essere smaltito. Quindi per ogni mole di ammoniaca da smaltire una mole di gruppi amminici è di origine endogena. Tutta la reazione è fortemente endoergonica: si consumano 4 moli di legami P per mole di urea sintetizzata. In sintesi, nei casi in cui si abbia uno sbilanciamento fra apporti energetici e apporti proteici, o nel caso di forte domanda di glucosio che comporta una elevata attività di deamminazione a carico degli AA neoglucogenetici, l’ammoniaca prodotta nel rumine è convertita in urea dal fegato con un aggravio energetico notevole. S pensi che 100 g di proteina grezza inutilizzata nel rumine sono equivalenti per una pecora alla spesa energetica necessaria alla produzione di 200 g di latte. 3. GENETICA DI POPOLAZIONE APPLICATA AL MIGLIORAMENTO DEGLI ANIMALI ZOOTECNICI 3.1 INTRODUZIONE Riguarda i metodi di riproduzione e di miglioramento e si fonda sulle attuali conoscenze della genetica. I fenomeni ereditari sono considerati sia nel ristretto quadro delle generazioni filiali (F1, prima generazione filiale; F2 seconda generazione filiale, ecc.), sia nell’ambito delle popolazioni animali. Per popolazione animale s’intende un gruppo di molti individui appartenenti alla stessa specie o, all’interno della stessa specie, alla stessa razza, definiti nel tempo, nello spazio e dai caratteri oggetto d’interesse zootecnico. La genetica di popolazione, applicata alle scienze zootecniche, studia, con metodi matematici, statistici e sperimentali, le cause ed i meccanismi che determinano la distribuzione e le variazioni dei genotipi al passare delle generazioni, e la dinamica delle popolazioni, fornendo un insieme di modelli teorici e di prove sperimentali capaci di chiarire il processo di evoluzione della specie. Se le forze agenti sul sistema popolazione sono d’origine naturale, parliamo di selezione naturale, la quale spiega il fenomeno dell’evoluzione delle specie ( Darwin). Se la scelta degli individui é fatta dall’uomo, secondo criteri di convenienza, la selezione é detta artificiale. Per capire i meccanismi della genetica quantitativa dobbiamo introdurre il concetto di probabilità. Come prima definizione possiamo dire che la probabilità di un evento (es. testa nella moneta) é data dal rapporto fra l’evento stesso e la somma di tutti gli eventi possibili del fenomeno esaminato. Definiamo la probabilità di determinato evento: Se un evento può avvenire in n modi egualmente possibili (equipotenti) che si escludono a vicenda (mutualmente esclusivi), dei quali “a” possiede una certa proprietà “x”., la probabilità di ottenere “x” é data dalla relazione: p(x) = a/n Nel caso in cui gli eventi non siano mutualmente esclusivi, ma siano indipendenti, la probabilità che si verifichino entrambi é data dal prodotto delle singole probabilità: p(x e y) = p(x) p(y) Ad esempio, nel caso di due lanci di una moneta, la probabilità di ottenere due volte consecutive .testa. é di 0,5 x 0,5 = 0,25; con tre lanci, la probabilità di ottenere tre “testa”in sequenza é di 0,5 x 0,5 x 0,5 = 0,125. Un caso classico é il rapporto statistico dei sessi alla nascita. Nella realtà, le famiglie in cui sono presenti 8-10 figli maschi (oppure femmine) costituiscono un caso raro. Il sesso é determinato all’atto della fecondazione dallo spermatozoo, che può portare nel proprio corredo aploide il solo cromosoma X o Y, mentre l’oocita ha il solo cromosoma X. Il rapporto dei sessi alla nascita si avvicina al 50% (salvo fattori occasionali che possono generare delle derive). Se indichiamo con p la probabilità di ottenere un maschio e con q quella di ottenere una femmina, avremo che p = 0,5 e q = 0,5, con p + q = 1. Supponiamo che una vacca partorisca nella sua carriera riproduttiva 6 vitelli e vogliamo conoscere quale sarà la ripartizione dei sessi dei nascituri. Intuitivamente potremo dire che avrà 3 vitelli e 3 vitelle, ma questa non é l’unica possibilità. Ma quali sono le probabilità che si verifichino casi diversi da 3 maschi e 3femmine ( ad es.5:1). Ci viene incontro lo sviluppo del binomio: (p + q)n I cui coefficienti possono essere calcolati con il triangolo di Tartaglia Nel nostro caso avremo che p = 0,5 (probabilità di ottenere maschi), q = 0,5 (probabilità di ottenere femmine) e n = 6, per cui lo sviluppo del binomio é il seguente: (p+q)6 = p6 + 6p5q + 15p4q2 + 20p3q3 + 15p2q4 + 6pq5 + q6 Dall’elenco si deduce che la probabilità di avere tutti maschi o tutte femmine é molto bassa. In pratica, in una stalla di 500 vacche di razza Bruna, le bovine capaci di ottenere una carriera riproduttiva di 6 femmine sono: 500 x 0,016 = 7,8 ≈ 8! La potenza del binomio vista più sopra da origine ad una distribuzione detta “binomiale”che, per n→∞, si approssima alla distribuzione “normale” o curva Gaussiana. 3.2 SPECIE, RAZZE E POPOLAZIONI La genetica di popolazione studia la dinamica dei geni nella popolazioni con l’ausilio di metodi matematico-statistici e sperimentali. Occorre distinguere fra popolazioni animali e popolazioni di geni. Per popolazione animale intendiamo un insieme di individui la cui numerosità tende all’infinito (o talmente elevata da approssimare le statistiche a tale limite) capaci di riprodursi fra loro. La specie può essere considerata una popolazione animale. Per specie si intende un gruppo di organismi aventi in comune un numero rilevante di caratteri morfologici, fisiologici ed ecologici, capaci di riprodursi fra loro generando prole illimitatamente feconda. Il concetto di razza deriva dall’osservazione che all’interno delle varie specie esiste un certo polimorfismo, cioè una diversa modalità con cui si presenta un determinato carattere, ad esempio il colore del mantello. La definizione più semplice é quella che considera la razza come un insieme di individui della stessa specie che si distinguono per caratteristiche somatiche e funzionali proprie trasmissibili ai discendenti per eredità. Questa definizione é stata completata con il concetto genetico di razza (gruppo d’individui della stessa specie, omozigoti rispetto a uno o più caratteri) dal concetto zootecnico secondo cui la razza é una popolazione risultante dalla mescolanza di genotipi diversi, ma affini per espressione fenotipica, per cui gli individui della stessa razza presentano un complesso di caratteri morfologici, fisiologici e funzionali simili e trasmissibili ereditariamente. Oggi il concetto di razza é in via di superamento in quanto inglobato da quello di popolazione che, nella tassonomia classica era subordinato a quello di razza e definiva gruppi di soggetti distinguibili dagli altri della stessa specie, ma non ancora dotati di caratteristiche definite. Oggi prevale il termine di gruppo genetico, che comprende un raggruppamento d’animali della stessa specie dotati di caratteristiche comuni differenziate rispetto alla media dei caratteri di interesse zootecnico presenti nella specie a cui appartengono. Le razze zootecniche sono descritte generalmente in termini di medie statistiche dei caratteri rispetto alle quali esse differiscono dalla specie o da altre razze della stessa specie. Questa impostazione biometrica (= misurazioni applicate sul vivente) stabilisce degli standard per mezzo dei quali gli individui di un determinato gruppo candidato a diventare razza possono essere comparati fra di loro e con quelli appartenenti a una differente razza. In termini genetici, le differenze fra le razze sono dovute a variazioni nelle frequenze relative dei geni nelle varie popolazioni più che alla mancanza di certi geni in determinati individui e alla omozigosi dei geni stessi in altri gruppi di individui. Le razze sono il frutto di un processo in continua evoluzione. La formazione di una razza avviene quando la frequenza di un gene, o un gruppo di geni, diventa leggermente diversa in un gruppo di animali rispetto alla popolazione di appartenenza (le cause della variazione possono essere naturali oppure, come nelle specie zootecniche, artificiali). Se il gruppo d’individui con la frequenza variata é isolato rispetto al resto della popolazione, la differenziazione genetica si accresce e si consolida rispetto alla restante popolazione sino a giungere, talvolta, alla perdita di alcuni geni e alla fissazione dei loro alleli (vedi oltre per il meccanismo). Lo studio di una razza comprende la conoscenza: 1) dell’origine, che porta a verificare l’eventuale derivazione da razze preesistenti, la formazione nel luogo in cui é allevata (e da cui normalmente prende il nome, es. la razza ovina Sarda dalla Sardegna, la razza bovina Frisona dalla Frisia, ecc.) quindi può essere considerata autoctona, il grado di selezione artificiale che ha subito, ecc.... La denominazione della razza può derivare anche da caratteri morfologici salienti (Bruna; Large White) o dai metodi di selezione applicati (Purosangue inglese, derivato dall’applicazione della consanguineità); 2) dell’area di diffusione: può essere classificata come razza locale (é allevata solo nell’areale di origine), diffusa (é presente in aree limitrofe a quella di origine) o cosmopolita (é presente in molte parti del continente o del mondo); 3) della consistenza, che può essere elevata, media, bassa, o di reliqua; 4) dei principali caratteri morfologici, costituiti da peso e mole dei due sessi e alle età tipiche, dal mantello, dalle principali misure somatiche (altezza al garrese, lunghezza del tronco, circonferenza toracica, ecc..), dalla presenza di corna o di altri caratteri di specie, ecc. 5) dei principali caratteri produttivi, costituiti da quantità e qualità delle produzioni, durata della carriera produttiva e variabilità delle produzioni stesse intorno alla media della razza; 6) dei principali caratteri riproduttivi, costituiti dall’età al primo parto (per le femmine) e al primo salto (per i maschi), dalla fertilità (% delle femmine gestanti nel corso dell’anno rispetto alle femmine adulte), della prolificità (n°di nati per parto) e della fecondità (fertilità x prolificità = n’°di nati per femmina adulta e per anno). Le razze degli animali zootecnici, pur potendosi considerare “pure” rispetto ad un numero limitato di caratteri, costituiscono delle popolazioni con un grado rilevante di variabilità genotipica, benché affini sotto l’aspetto fenotipico. Una razza-popolazione si considera come una popolazione mendeliana di genotipi, o meglio, di geni la cui distribuzione negli zigoti é regolata dai due meccanismi della: 1) segregazione dei geni alla gametogenesi, e le conseguenti numerose combinazioni che si ottengono negli individui eterozigoti che producono, come é noto, 2n classi di gameti, dove n é il numero di geni presi in considerazione; 2) probabilità d incontro dei gameti alla fecondazione, che dipende dalla frequenza delle singole classi di gameti rispetto a tutti quelli prodotti nell’intera popolazione. 3.3 NUMEROSITA. DEI GENI E DEI GENOTIPI POSSIBILI Le ricombinazioni dell’assetto cromosomico durante la gametogenesi rappresentano una fonte notevole di variabilità. I geni presenti in ciascun cromosoma sono numerosissimi quindi, é praticamente impossibile che ciascun paio abbia esattamente gli stessi geni. La condizione media più probabile é quella di una prevalenza dei loci eterozigoti su quelli omozigoti. Ne consegue che non si può avere una vera eguaglianza fra il patrimonio genetico contenuto nei cromosomi in ciascun paio e quindi, se n é il numero aploide dei cromosomi di una specie, il numero di classi di gameti portatori di un patrimonio ereditario sostanzialmente diverso sarà pari a 2n, mentre il numero dei genotipi possibili assommerà a 3n . Nel caso dei bovini, in cui n = 30, il numero di genotipi possibili é di 330 da una cifra enorme. Possiamo quindi ragionevolmente affermare che, a meno che il numero degli eterozigoti esistenti in una popolazione non sia molto limitato, il numero di individui che possono differire nel patrimonio genetico é praticamente infinito. Pur essendoci un gran numero di geni nel patrimonio individuale, molti di essi hanno manifestazioni fenotipiche simili e additive (poligeni), altri agiscono cooperando con geni maggiori nel determinare i singoli caratteri, molti infine non possiedono manifestazioni visibili pur agendo su vitalità e fecondità degli animali. A medesimi fenotipi possono corrispondere genotipi differenti, di cui alcuni omozigoti e la maggior parte eterozigoti. 3.4 LA FREQUENZA DEI GENI NELLE POPOLAZIONI ZOOTECNICHE Immaginiamo una popolazione infinita (o estremamente numerosa) nella quale esistono due geni con alleli A e a e supponiamo che il numero dei gameti prodotti da ciascun individuo adulto sia lo stesso. Ammettiamo ancora che non vi siano differenze nella fecondità, né nella sopravvivenza degli individui, che gli accoppiamenti avvengano in maniera casuale e che il rapporto fra i sessi sia del 50%. Queste condizioni teoriche sono denominate panmissia e le popolazioni che ne derivano, panmittiche. In tali condizioni l’incontro fra spermatozoo e ovocellula é perfettamente casuale e poiché ogni gamete é portatore di un solo allele (A oppure a) ne deriva che le probabilità di ottenere i tre genotipi possibili (AA, Aa, aa) dipendono esclusivamente dalla frequenza dei due alleli nella popolazione (e quindi nella massa dei gameti). La frequenza di un gene in una popolazione é il rapporto fra i loci occupati dal gene e il numero totale di loci disponibili Se la frequenza dei due alleli é indicata con p(A) e q(a), tale che p+q=1, la distribuzione dei genotipi nella popolazione sarà funzione della frequenza dei geni nella stessa. Mentre in una popolazione si può ottenere teoricamente la totale omozigosi, dominante o recessiva, eliminando l’allele dominante o quello recessivo, la frequenza massima ottenibile del genotipo eterozigote é del 50%. Le variazioni delle frequenze eterozigotiche, al cambiare di una unità di frequenza di un gene, sono inoltre inferiori a quelle omozigotiche. La regola dello sviluppo binomiale dei genotipi di una popolazione panmittica si estende anche a due o più coppie di geni alleli indipendenti. Se indichiamo p(A), q(a), p1(B) e q1(b) le frequenze di due coppie indipendenti di geni, la distribuzione dei genotipi nella generazione F1 é data dallo sviluppo della relazione [p(A) + q(a)]2 x [p1(B) + q1(b)]2 In generale, la distribuzione statistica dei genotipi derivanti dalla libera combinazione di n paia di geni alleli è un polinomio di ordine 2n della forma 2 [p(A) + q(a)]2 x [p1(B) + q1(b)]2 x [p2(C) + q2(c)]2 x ......... x [pn(K) + qn(k)] 3.5 EQUILIBRIO GENETICO NELLE POPOLAZIONI ZOOTECNICHE Riguarda la struttura dei genotipi e la frequenza degli alleli nel passare da una generazione alla successiva nella popolazioni panmittiche. Nel 1908, i due studiosi Hardy e Weinberg supposero che in una popolazione panmittica fossero date delle frequenze genotipiche, ad esempio 64% AA, 32%Aa e 4% aa. Poichè la frequenza zigotica è il quadrato di quella gametica, possiamo ricavare facilmente quest’ultima p(A) = √fAA = √0,64 = 0,80 q(a) = 1-0,80 = 0,20 Cioè nella popolazione saranno prodotti l’80% dei gameti con il gene A e il 20% di gameti con quello a. Tenute conto le caratteristiche della popolazione panmittica, la probabilità di incontro dei gameti portatori dei due alleli sarà proporzionale alla frequenza, per cui si avrà nella generazione successiva la distribuzione zigotica 0,82AA : 2x0,8A0,2a : 0,22a = 0,64AA : 0,32Aa : 0,04 aa Vale a dire, che la nuova generazione avrà la stessa composizione genetica della generazione parentale. La legge di Hardy-Weinberg afferma che, in condizioni di riproduzione casuale e in popolazioni molto numerose (vicine alla panmissia teorica) la distribuzione dei genotipi e la frequenza dei geni non subiscono alcuna modificazione con il passare delle generazioni. In altri termini, la composizione genetica di una popolazione panmittica resta costante e non dipende che dalla frequenza dei singoli geni. Questa legge non è mai valida perchè le restrizioni poste alla definizione di popolazione panmittica non sono realizzabili nelle popolazioni reali. Tuttavia, partendo da tale”assurdo” é possibile confutare la legge e studiare i fattori che tendono a modificare le frequenze zigotiche e gametiche al passare delle generazioni e, pertanto, verificare quantitativamente l’influenza di tali cause sul disequilibrio genetico registrabile in popolazioni animali o in gruppi di individui da esse derivati. 3.6 APPLICAZIONI DELLA LEGGE DI H-W La legge di Hardy-Weinberg é particolarmente utile nei seguenti 3 casi. Frequenza genica di un allele recessivo: se i genotipi della popolazione sono in equilibrio di H-W, l’allele cercato é ottenibile anche se non conosciamo la frequenza dei 3 genotipi con la equazione q(a) = [f(aa)]1/2 Parimenti si può ottenere la proporzione della popolazione che é portatrice del gene recessivo, trovando la frequenza degli eterozigoti che é data da f(Aa)/T = 2q(1-q), nell’intera popolazione; Frequenza di portatori: può interessare la conoscenza dei portatori del gene recessivo all’interno della popolazione normo-fenotipica. Tale frequenza é calcolata dalla relazione f(Aa)/Norm. = 2q/(1+q), fra gli individui fenotipi dominanti Test di equilibrio di H-W: con l’impiego di alcuni marcatori genetici é possibile calcolare la frequenza dei geni in una popolazione parentale. Se la frequenza dei genotipi osservata nella F1 non scosta in maniera significativa da quella teoricamente attesa, allora la popolazione é in equilibrio genetico 3.7 CAUSE DI DISEQUILIBRIO GENETICO DELLE POPOLAZIONI ZOOTECNICHE La legge di Hardy Weinberg non é valida, quasi, mai. Le cause di ordine naturale o artificiale che allontanano le popolazioni animali dalla staticità genetica sono numerose. La conseguenza é che l’invariabilità genetica della popolazione dovuta alla panmissia viene meno per cui le popolazioni si evolvono. I fattori più importanti in grado di determinare la modificazione delle frequenze dei geni nelle popolazioni sono: a) le migrazione b) le mutazioni c) la deriva genetica d) la selezione e) i sistemi di accoppiamento Analizziamo ora ciascuna di queste cause e le conseguenze nell’evoluzione delle popolazioni animali . a. Migrazione. Una popolazione animale ristretta (quale una razza zootecnica) non é mai isolata da altri gruppi di animali della stessa specie. Il fenomeno della migrazione é sostituita nel caso degli animali zootecnici dal commercio di soggetti che permette lo scambio di individui fra varie popolazioni. In tal modo le due popolazioni (quella migrante e quella ricevente) sono mescolate e perdono, o guadagnano, un certo numero di geni modificando in tal modo la frequenza allelica. La nuova frequenza genetica q1 può essere quantificata con la relazione: q1 = (1-m)q + mqx Dove m é la frazione della popolazione scambiata q é la frequenza del gene nella popolazione originaria e qx è la frequenza del gene nella popolazione migrante. Ad esempio, se fra due popolazioni di bovini é scambiato il 5% degli effettivi, (m = 0,05), la frequenza di un gene nella popolazione originaria é di q = 0,5 e quella nella popolazione migrante é qx = 0,3, la nuova frequenza del gene q1 é q1 = (1-0,05)0,5 + 0,05x0,3 = 0,49 Se invece la frazione in uscita degli animali non é bilanciata da una eguale frazione in entrata, occorre fare i conti con i geni che escono e con quelli che entrano. Se nella popolazione originaria costituita da 1000 soggetti p(A) = 0,7 e in quella migrante nella prima con 100 soggetti px(A) = 0,3, la nuova frequenza dell’allele si ottiene con il seguente calcolo. Genotipi della popolazione originaria = 490 AA; 420 Aa; 90 aa; genotipi nel gruppo immigrato (considerato un campione casuale della popolazione di provenienza) = 9 AA; 42 Aa, 49 aa. Nuovi genotipi nella nuova popolazione di 1100 individui = 499 AA; 462 Aa; 139 aa Gameti A = 499 + 231= 730; a = 139+231 = 370 Frequenza gametica = p1 (A) = 730/1100 = 0,664 ; q1 (a) = 370/1100 = 0,336 b. Mutazioni Le mutazioni sono variazioni di patrimonio genetico dovute a cause naturali (errori di trascrizione nella replicazione del DNA, radioattività naturale, ecc., ) o artificiali (esposizione a sostanze mutagene, radioattività artificiale) che portano a delle alterazioni nella frequenza dei geni in una popolazione. Le mutazioni possono essere dirette, se il gene originale muta nel nuovo gene, oppure inverse se il gene mutato torna, con lo stesso meccanismo, allo stato di gene originario. La velocità con la quale si verificano le mutazioni é detto tasso di mutazione, diretto (µ) e inverso (ν), calcolati dalla frequenza con cui i nuovi geni compaiono nella generazione successiva. µ é la proporzione di tutti gli A1 che mutano in A2 da una generazione alla seguente. Se il gene A1 muta in A2 con una frequenza µ per ciascuna generazione, e se poniamo la frequenza di questo gene nella popolazione parentale pari a p0, la frequenza del gene mutato A2 nella generazione successiva (q1) sarà data dalla somma della frequenza del gene nella generazione parentale q1 = q0 + µp0, mentre la nuova frequenza del gene originale A1 é p1 = (p0-µp0). Le mutazioni sono un evento raro; il tasso di mutazione naturale é compreso fra µ= 1:10.000 -1: 1.000.000). Poichè i geni mutati sono in genere recessivi, occorrono alcune generazioni (o popolazioni molto numerose) affinché possa comparire un genotipo omozigote recessivo e dare così visibilità al gene. Nel caso di mutazioni reciproche, si osserva un accumulo del gene mutato A2 nella popolazione se il tasso di mutazione diretta é superiore a quello di mutazione inversa, cioè µ > ν; viceversa se µ < ν. In generale, nella popolazione le variazioni della frequenza del gene originale in presenza di entrambi i sensi di mutazione é data dalla ∆p = µp0 - νq0 E’ evidente che in questa relazione, mano a mano che il gene mutato si accumula nella popolazione, la variazione della frequenza del gene originale diminuisce, in quanto aumenta la frequenza dei geni mutati e si riduce quella dei geni originali. Con il passare delle generazioni questa progressione tende a zero, ovvero all’equilibrio genetico anche per i mutanti e il punto di equilibrio si ottiene per ∆p = 0 , per cui µp = νq ; p/q = ν /µ; Poiché q= 1-p, sostituendo e arrangiando si ottiene la formula dell’equilibrio genetico p = ν/ (µ + ν) Le mutazioni che agiscono anche in popolazioni di media dimensione hanno un effetto limitatissimo sulla frequenza dei geni. c. Deriva genetica casuale (random genetic drift). Alla gametogenesi avviene un’estrazione casuale dei geni presenti nella popolazione. Maggiore é il numero di soggetti che costituiscono la popolazione, più vicina sarà la probabilità che la frequenza gametica degli alleli sia uguale a quella dei geni nella popolazione. In piccoli gruppi possono però verificarsi delle discrepanze dovute al limitato numero di individui. Questo scostamento fra frequenze teoriche e quelle effettivamente riscontrabili sulla base della numerosità del campione é chiamata ‘deriva di campionamento’ e, se il campionamento coinvolge i geni della popolazione, prende il nome di ‘deriva genetica casuale’. La misura dell’errore di campionamento che proviene dalla numerosità degli eventi esaminati é misurata dalla “deviazione standard della probabilità” che é data dalla relazione σ = √pq/2n dove p + q =1 e n = il gruppo di soggetti. Questa causa di variazione delle frequenza genetiche nei piccoli gruppi é importante nel caso di popolazioni animali a numerosità limitata o reliquie. Una quota rilevante del patrimonio genetico può andare perduta esclusivamente a causa della deriva genetica casuale. d. Selezione Le frequenze dei geni nelle popolazioni e dei relativi caratteri ad esse associati possono essere cambiati attraverso la selezione. Nella selezione artificiale l’uomo sceglie gli animali in quanto portatori di un patrimonio genetico d’interesse economico. La selezione naturale secondo Darwin genera l’evoluzione, favorisce i genotipi più adatti alle condizioni ambientali e sfavorisce i meno adatti. La sopravvivenza di un gene in una popolazione sottoposta a selezione dipende dalla sua fitness , ossia dal suo adattamento o capacità di lasciare discendenti. Con fitness si intende la proporzione del genotipo che si riproduce rispetto agli altri genotipi. Fitness = 1 significa che quel genotipo si riproduce completamente, ossia non é esercitata alcuna selezione nei suoi confronti. Fitness <1 significa che sul quel genotipo si esercita una qualche selezione e nel caso limite del valore 0, quel determinato genotipo é totalmente escluso dalla riproduzione. Ad esempio, nei suini il gene per la sensibilità al gas alotano (H) é associato a forme patologiche che compromettono la trasformazione delle carni in prodotti di salumeria. I soggetti sensibili all’alotano (hh) sono riconoscibili e pertanto allontanati dall’allevamento; possono però restare fra i riproduttori soggetti portatori (Hh) non riconoscibili. Supponiamo che in una popolazione in equilibrio la frequenza degli omozigoti sia del 4%, per cui q(h)=0,2. Avremo la seguente situazione Dopo l’intervento selettivo che escluderà completamente dalla riproduzione i soggetti sensibili all’alotano (fitness del genotipo hh = 0), i geni h saranno meno frequenti nella popolazione: infatti la frequenza di questo gene nella generazione successiva é data q1 = ½ 2 pq/(1-q02) = q/(1 + q) = 0,1667 Qualora la selezione contro un gene recessivo sia protratta per n generazioni, la formula é generalizzabile nella qn = q0 1 + nq 0 Questa formula deriva dalla considerazione che se noi eliminiamo dalla popolazione gli omozigoti recessivi hh, la proporzione della popolazione che si riproduce é 1- q02, per cui i geni h possono derivare solo dai genotipi Hh nella proporzione di ½, per cui q1 = ½ 2 pq/(1-q02) Poichè p 0 = 1 − q 0 e 1 − q 02 = (1 − q 0 )(1 + q 0 ) q1 = (1 − q 0 )q 0 q0 = (1 − q 0 )(1 + q 0 ) 1 + q0 Non é possibile eliminare completamente il gene recessivo dalla popolazione. Nel caso in cui sia possibile invece riconoscere l’eterozigote ed eliminarlo completamente, la frequenza del gene recessivo nella popolazione dipenderà esclusivamente dal tasso di mutazione del gene dominante in quello recessivo. Nella pratica dell’allevamento va considerato che non sempre é possibile l’eliminazione di tutti gli omozigoti recessivi perchè dobbiamo tener conto della quota di rimonta. Se in un allevamento di 100 vacche, vi sono 50 individui aa che vorremo eliminare, consideriamo una quota di rimonta annuale del 25% e una fecondità del 80% mi occorrono, 25 vitelle. Le madri che daranno origine a tale rimonta sono 62,5 (62,5 x 0,8 = 50 nati di cui 25 maschi e 25 femmine) e allora sarò costretto a destinare alla riproduzione, oltre le 50 vacche fenotipicamente normali, anche 12,5 vacche con il genotipo recessivo aa. La pressione di selezione “s” su questo genotipo é di 12,5/50 = 0,25. Con pressione di selezione (s) intendiamo la proporzione di individui indesiderati che siamo costretti a mantenere nella popolazione per preservarne la consistenza numerica. s= 0 significa pressione di selezione massima; s=1 la minima. In tal caso la frequenza del gene recessivo nella generazione successiva a quella in cui si é operata la selezione é data dalla relazione e. Sistemi di accoppiamento La legge di Hardy-Weinberg presuppone per il mantenimento dell’equilibrio genetico fra le generazioni, che la riproduzione sia totalmente libera e che gli accoppiamenti avvengano in modo del tutto casuale. Qualsiasi altro metodo di accoppiamento che si allontana dal modello teorico provoca una variazione nella distribuzione dei genotipi e, pertanto, nella frequenza dei geni. I metodi di selezione possono essere distinti in 5 classi differenti che descriveremo nel dettaglio. e.1. Accoppiamento casuale E’ impiegato in zootecnica quando gli animali prescelti sono fatti accoppiare fra di loro a caso. Questo tipo di accoppiamento tende a mantenere stabile la struttura genetica della popolazione, salvo variazioni casuali dovute al numero ristretto degli individui del gruppo selezionato oppure allo stabilirsi di una parentela fra i componenti del gruppo. Non fissa i geni desiderati, ma può essere utile per svelare il patrimonio genetico di un riproduttore (ad esempio un toro) che abbia un numero sufficiente di figli generati con un gruppo di femmine estratte a caso dalla popolazione. e.2 Accoppiamento omeogamico Per tale tipo di accoppiamento sono scelti individui geneticamente simili che, per definizione, sono parenti e pertanto il metodo é indicato come accoppiamento fra consanguinei o consanguineità. Questo tipo di accoppiamento porta ad una graduale diminuzione dei genotipi eterozigoti con un conseguente aumento degli omozigoti. e.3 Accoppiamento selettivo somatico Consiste nel fare accoppiare animali simili nei caratteri somatici e funzionali. E’ la forma tradizionale di selezione zootecnica nella quale gli animali riproduttori sono scelti sulla base di criteri morfologici e funzionali. Il risultato di questo tipo di selezione dipende molto dall’ereditabilità dei caratteri base per la scelta. In generale si ottiene un aumento della rassomiglianza fra genitori e figli e fra discendenti di ogni coppia, ma non si aumenta in modo apprezzabile la frequenza dei geni desiderati ne si giunge alla produzione di un individuo omozigote. Questo tipo di accoppiamento, praticato sistematicamente su tutti i componenti di una popolazione, tende a produrre una progressiva differenziazione delle popolazione stessa in due tipi estremi rispetto all’intensità del carattere selezionato e aumentando la variabilità complessiva del carattere. e.4. Accoppiamento eterogamico Questo tipo di riproduzione si basa sulla dissomiglianza genetica degli individui che sono destinati alla riproduzione ed é conosciuto con il nome d’incrocio. I prodotti dell’incrocio sono geneticamente ibridi, cioè sono eterozigoti rispetto ad un numero maggiore di geni rispetto alla media della popolazione di appartenenza. L’accoppiamento eterogamico compiuto in una razza-popolazione, tende a produrre una certa uniformità genetica e somatica, ma non esercita alcuna influenza sulla frequenza del geni. L’incrocio intrarazziale (ad esempio fra linee pure di suini) o interazziale può essere molto vantaggioso nel caso in cui l’eterozigosi degli F1 determini un aumento di vigore e produttività (eterosi o vigore degli ibridi). e.5. Accoppiamento fra individui somaticamente diversi Questo é concettualmente l’opposto dell’accoppiamento somatico selettivo. L’accoppiamento fra individui somaticamente diversi comporta una maggiore uniformità negli F1 con una minore rassomiglianza fra genitori e figli. In pratica, l’accoppiamento fra animali che differiscono fra loro notevolmente in determinate caratteristiche morfologiche o funzionali, può essere utile per realizzare un tipo intermedio desiderato o per compensare difetti ed inconvenienti presenti nei tipi estremi. Geneticamente non si modifica apprezzabilmente la frequenza degli alleli, ma si aumenta moderatamente quella degli eterozigoti nella popolazione. 3.8 QTL E GENI MAGGIORI (Macciotta N’P.P.) Riguarda le applicazioni della genetica qualitativa o mendeliana ai caratteri d’interesse zootecnico. I caratteri produttivi d’interesse zootecnico sono in gran parte quantitativi: la loro manifestazione è considerata come il risultato dell’azione di un grande numero di loci (poligeni) i cui effetti infinitesimi si sommano dando luogo alla espressione fenotipica del carattere (es. la produzione del latte). Questo modello teorico è utile sotto l’aspetto applicativo (metodi di stima del valore genetico) però fornisce una visione semplicistica del problema: sembra difficile che tutti i geni che influenzano l’espressione fenotipica di un carattere abbiano un’azione infinitesima, cioè che una sostituzione allelica in uno di essi determini una variazione piccolissima ( es. quantità di latte). E’ più realistico che esistano sia loci ad effetto infinitesimo, la maggior parte, sia altri loci che esercitano un’influenza maggiore. Questi ultimi sono i cosiddetti QTL(Quantitative Trait Locus: cioè locus che esercitano un effetto su un carattere quantitativo). I QTLs, a loro volta, vengono distinti per convenzione in due gruppi: - Geni Maggiori, la cui presenza può essere evidenziata mediante l’uso dei dati fenotipici e delle informazioni sulle parentele; - QTL veri e propri, per la cui individuazione è necessario ricorrere all’uso dei marcatori genetici. L’individuazione di QTL e di geni maggiori rappresenta un vantaggio per il miglioramento genetico, sia per la migliore comprensione del determinismo genetico dei caratteri quantitativi sia in termini di miglioramento dell’efficienza degli schemi di selezione (Selezione Assistita da marcatori), soprattutto nel caso di caratteri a bassa ereditabilità o che possono essere misurati in un solo sesso. a. Geni Maggiori Un gene Maggiore, o gene ad effetto maggiore, è un gene allelico che esercita un’influenza su un carattere quantitativo; l’effetto deve essere tale da poter essere evidenziato con l’ausilio dei soli dati produttivi e delle informazioni sulle parentele. Es: il Gene Booroola, identificato nella razza ovina australiana Merinos, che influenza la prolificità. La Merinos, razza specializzata per la produzione della lana, ha una modesta prolificità (media 1,2 nati per parto); però il ceppo Booroola, ha valori medi di 2,5 nati/parto. La differenza nella prolificità media tra Merinos normale (M) e Merinos Booroola (MB) è grande e di non facile interpretazione; inoltre una delle proprietà fondamentali dei caratteri quantitativi è quella di presentare una variabilità graduale (cioè continua), mentre qui siamo di fronte ad un netto divario (una variabilità discontinua). La prolificità, e gran parte dei caratteri legati dalla sfera riproduttiva, presenta valori di ereditabilità piuttosto bassi e quindi con la selezione possiamo prevedere solo un limitato progresso: invece la MB è stata ottenuta dalla M mediante una selezione attuata sulla sola linea femminile (si sceglievano per la riproduzione le femmine nate da parti gemellari mentre i maschi li prendevano casualmente da allevamenti esterni; nel caso dei bovini non si possono prendere a caso i tori). Con tale programma selettivo non si potevano attribuire i risultati all’aumento della frequenza degli alleli favorevoli in loci con un’effetto piccolissimo sul carattere, ma l’unica spiegazione possibile era quella di un graduale aumento della frequenza degli individui portatori di un allele favorevole in un singolo locus ad effetto maggiore sulla prolificità. Attualmente, si ritiene che al locus Booroola esistano almeno due alleli: F, che determina una alta prolificità e che si ritrova con elevatissima frequenza nelle MB; +, che determina una normale prolificità e che è largamente prevalente nella M. La distinzione degli animali sulla base del loro genotipo è basata sui dati fenotipici, specialmente, il tasso di ovulazione (TO, che è un carattere fortemente correlato al n° di nati per parto, ed è il numero di cellule uovo che l’animale produce nel corso di un ciclo sessuale). I tre genotipi possibili vengono così distinti: - FF pecore che hanno avuto nel corso della loro carriera riproduttiva almeno un volta un TO≥5: - F+ pecore che hanno avuto nel corso della loro carriera riproduttiva almeno una volta un TO≥3 ma mai superiore a 4: - ++ pecore che nel corso della loro carriera riproduttiva non hanno mai avuto TO>2. L’effetto dell’allele F sulla prolificità è stato stimato pari ad 1 agnello per parto: una pecora F+ produce in media 1 agnello in più per parto rispetto ad una con genotipo ++. Il gene Booroola è stato localizzato sul cromosoma 6 della specie ovina. Nel gene Booroola, come nella maggior parte dei QTL, non è stato identificato il ruolo biochimico. Il gene Booroola controlla una quota importante della variabilità genetica della prolificità nella MB; Si è selezionato inconsciamente a favore dell’allele F ottenendo dei risultati non raggiungibili nel caso di un totale controllo del carattere da parte di soli loci ad effetto infinitesimo. Altri geni maggiori che influenzano le produzioni zootecniche: - il gene Weaver, nella razza Bovina Brown, è responsabile di una malattia che colpisce il sistema nervoso dei bovini, ma che influenza (sicuramente in maniera indiretta) anche la quantità di latte prodotto; - il gene dell’ipertrofia muscolare, evidenziato in alcune razze bovine da carne (Blu Belga, Charolaise, Piemontese) che determina la presenza della cosiddetta “doppia coscia”, caratteristica di pregio per gli animali destinati alla produzione della carne; - il gene della caseina αs1 che, nei caprini, influenza il contenuto proteico del latte. - il gene alotano, evidenziato nei suini, che influenza la qualità della carne. b. Marcatori genetici L’identificazione del gene Booroola è stata possibile grazie all’osservazione dei fenotipi (prolificità o TO) e della trasmissione del carattere entro le famiglie (conoscenza dei rapporti di parentela). In altri casi l’effetto del singolo locus, pur essendo di una certa entità, non è rilevabile in questo modo, ma bisogna ricorrere all’uso di marcatori genetici. Questo è il caso dei QTL propriamente detti. Se due geni si sono molto vicini su un cromosoma, è difficile che tra essi avvenga una ricombinazione. In questo caso i loci si dicono associati, si parla di linkage (in italiano associazione). Le combinazioni alleliche che si trovano nei cromosomi parentali sono dette fasi di linkage. La conseguenza del linkage è che all’atto della meiosi, la trasmissione degli alleli di due geni associati non avviene in maniera indipendente, ma le combinazione alleliche presenti nei cromosomi parentali le ritroviamo anche nei cromosomi presenti nei gameti. Quando tra due geni esiste uno stretto linkage, la seconda legge di Mendel sull’assortimento indipendente degli alleli nei gameti non è più valida: si parla di disequilibrio d’associazione (o di linkage). Il linkage sta alla base dell’utilizzazione dei marcatori genetici. Spesso i geni oggetto di studio sono di difficile identificazione; oppure non è possibile determinare il genotipo degli animali sulla base della manifestazione fenotipica del carattere; non si conosce la localizzazione cromosomica del gene e così via. In questi casi lo studio del gene viene condotto indirettamente attraverso l’impiego di un altro gene ad esso strettamente associato, cioè si ricorre all’uso di un marcatore genetico. L’impiego di un marcatore genetico si basa sul fatto che, esistendo una forte associazione tra esso ed il gene oggetto di studio, la segregazione degli alleli dei due loci non è indipendente (esiste il disequilibrio di associazione): cioè se A e B sono due loci associati su un cromosoma, ciascuno con due alleli (A1 e A2; B1 e B2), e il toro Gelsomino ha su un cromosoma la combinazione allelica A1 B1 e sul cromosoma omologo quella A2 B2, all’atto della formazione dei gameti l’allele A1 andrà a finire nel nemasperma che contiene anche l’allele B1 (tranne il caso in cui si verifichino dei fenomeni di crossing-over, tanto più rari quanto più i due geni sono vicini fra loro). In questo modo i figli che hanno ereditato l’allele A1 da Gelsomino, avranno ricevuto anche l’allele B1. Lo stesso discorso vale per A2 e B2. Quindi in questo caso è possibile conoscere l’allele presente al locus B sulla base dell’allele che è presente al locus A; il locus A è un marcatore genetico del locus B. Va però tenuto ben presente il fatto che se si considera un altro toro, non parente di Gelsomino, non è detto che anche in questo animale l’allele A1 si trovi associato a quello B1 e l’A2 al B2. Cioè la fase di associazione allele marcatore-allele gene di interesse cambia da famiglia a famiglia e, entro la stessa famiglia, può cambiare con il passare delle generazioni (possibilità che si verifichino crossing over). Sulla base di quanto detto in precedenza, possiamo definire un marcatore genetico come gene che presenta le seguenti caratteristiche: a) deve essere strettamente associato con il gene oggetto di studio, poiché più i due loci sono vicini, minore è la probabilità che tra essi si verifichi una ricombinazione. La distanza massima tra marcatore genetico e gene non dovrebbe superare i 20 cM; b) deve presentare un elevato polimorfismo (cioè avere più alleli). Il polimorfismo consente di stabilire l’origine di un allele: se l’allele portato da un individuo è presente nel padre e non nella madre, di certo l’individuo lo avrà ricevuto dal padre. Tanto maggiore sarà il polimorfismo di un locus marcatore, tanto maggiore sarà la possibilità che i genitori abbiano genotipo differente e maggiore sarà la probabilità di individuare l’origine dell’allele. Una delle ragioni della grande diffusione dei marcatori a livello del DNA, ed in particolare dei microsatelliti, deriva proprio dall’elevatissimo polimorfismo che essi presentano; c) deve avere una sicura e facile identificazione genotipica. Il genotipo al locus marcatore deve essere facilmente ed inequivocabilmente determinato. Sino a qualche tempo fa tale determinazione veniva fatta a livello fenotipico, ora la determinazione del genotipo o tipizzazione, viene fatta a livello di DNA. Questa ultima tecnica ha il vantaggio che consente di tipizzare gli animali indipendentemente dalla manifestazione fenotipica del carattere e quindi il più precocemente possibile; d) deve avere un meccanismo ereditario di tipo mendeliano semplice, per identificare facilmente l’origine degli alleli posseduti da un individuo. Un marcatore codominante sarà più informativo di uno i cui alleli presentano fenomeni di dominanza e recessività. c. Genotipo del locus alotano nei suini Un caso d’impiego di marcatore genetico per lo studio di un gene di interesse economico è quello del gene alotano. Nei suini è presente una patologia nota come Ipertermia Maligna che determina una rapida modificazione post-mortem del tessuto muscolare: le carni dei suini colpiti da questa sindrome si presentano pallide, soffici ed essudative (carni PSE). A livello biochimico, tali caratteristiche negative delle carni sono determinate da una glicolisi muscolare troppo rapida che causa un eccessivo abbassamento del pH del muscolo entro la prima ora post mortem; il basso pH e l’ elevata temperatura determinano una denaturazione delle proteine del muscolo con conseguenti scarsa capacità di ritenzione idrica, colore pallido (per effetto dell’ossidazione del ferro del gruppo eme dell’emoglobina) ed una carne eccessivamente molle. L’insorgenza di questa patologia è accentuata dalle situazioni di stress alle quali possono essere sottoposti gli animali ad esempio nel trasporto dall’allevamento al macello, e nelle diverse fasi della macellazione; infatti l’ipetermia maligna insieme con la sindrome PSE delle carni vengono compresa nella più ampia sindrome suina dello stress (PSS). Le carni PSE presentano delle caratteristiche qualitative piuttosto scadenti delle carni con conseguente danno economico per il deprezzamento delle stesse.Il locus responsabile di tale anomalia, denominato appunto gene alotano (Hal), può presentare due alleli: uno dominante (N) che da luogo a carni normali, ed uno recessivo (n) che, se presente in forma omozigote (nn), determina la presenza di carni PSE; gli eterozigoti Nn presentano caratteristiche qualitative della carne comunque inferiori rispetto a quelle degli individui “sani” (NN). La diffusione dell’allele recessivo è stata favorita involontariamente selezionando i suini a favore dell’aumento dei tagli magri nella carcassa, e questa caratteristica pare sia associata alla sensibilità allo stress (e quindi all’allele n). I tre diversi genotipi al locus Hal e le rispettive espressioni fenotipiche sono: Genotipo Fenotipo NN carni normali Nn carni normali nn carni PSE Il genotipo al locus Hal può essere determinato anche sugli animali vivi, mettendo gli animali a contatto con il gas anestetico alotano: gli animali nn, in presenza del gas, hanno spasmi muscolari, irrigidimento degli arti e possono essere pertanto scartati dalla riproduzione. Il test però non individua gli eterozigoti Nn, che possono trasmettere alla discendenza l’allele n. Pertanto è stato necessario ricorrere all’uso dei marcatori genetici. Il gene Hal si trova in un gruppo di sintonia di cui fa parte anche il gene dell’enzima fosfoesoso isomerasi (PHI), enzima presente nei globuli rossi, che può essere usato come marcatore genetico. Il genotipo degli animali al locus PHI, che presenta due alleli (A e B) codominanti è facilmente determinabile mediante elettroforesi. Nel caso dei loci Hal e PHI si stabilisce una associazione fra alleli che rimane fissa nelle generazioni successive. Il verro e la scrofa non sono stati sottoposti ad un test con l’alotano: tre figli (A,C.D) risultano negativi (possono essere NN oppure Nn) ed uno positivo (B, sicuramente nn). Come risalire al genotipo dei tre figli negativi e dei due genitori? Nella terza colonna della tabella 2a è indicato il genotipo al locus PHI degli animali. Il figlio B, che è l’unico di cui conosciamo con certezza il genotipo Hal è anche l’unico omozigote BB al locus PHI; tutti gli altri sono eterozigoti AB. Allora, poiché i loci PHI e Hal sono associati e quindi le loro combinazioni alleliche (aplotipi) si mantengono fisse e siccome B è nn nel locus Hal e BB nel locus PHI, l’aplotipo Hal-PHI sarà nB; quindi, nella famiglia di suini che stiamo esaminando ogni volta che nel locus Phi c’è l’allele B, nel locus Hal vi sarà l’allele n e, viceversa, A sarà associato ad N’ Una volta stabilita la fase di associazione tra gli alleli dei due loci è possibile ricostruire il genotipo al locus Hal di tutti i componenti della famiglia (Tabella 3.4). Va sottolineato che la fase di associazione PHI-Hal (A-N e B-n) è valida solo per la famiglia oggetto di studio e non può essere estesa a tutta la popolazione suina: se si ripetesse l’analisi in un’altra famiglia si potrebbe trovare l’allele A di PHI associato con l’allele n di Hal. Inoltre, condizione indispensabile per l’applicazione di tale analisi è che nella famiglia sia presente almeno un componente positivo al test alotano. Una recente ha mostrato come nelle razze Large White italiana e la Landrace italiana, da anni selezionate per l’eliminazione alla sensibilità all’alotano (attraverso l’impiego di tale test sui verri da impiegare in F.A.), la frequenza dell’allele n sia molto ridotta, mentre in altre, come la Pietrain, che presentano delle caratteristiche eccezionali dal punto di vista della muscolosità e della resa in tagli magri della carcassa, la situazione è completamente rovesciata, con la stragrande prevalenza dell’allele n su quello N. Gene dell’ipertrofia muscolare (doppia coscia) nei bovini da carne L’ ipertrofia muscolare nei bovini è un carattere noto come doppia coscia. Tale carattere si manifesta in diverse razze bovine: la razza dove è stato maggiormente studiato è la Blu Belga; tra le razze italiane esso è presente nella razza Piemontese e anche in quella Marchigiana. A livello fenotipico, gli animali con il carattere doppia coscia, presentano: a) un’ipertrofia muscolare generalizzata di circa il 20%, mentre tutti gli altri organi sono di dimensioni ridotte; b) tessuto muscolare con contenuto adiposo ridotto sino al 40% ed anche minore contenuto di tessuto connettivo, caratteri entrambi apprezzati dal consumatore; c) indice di conversione alimentare inferiore del 9% rispetto alla norma; d) ) aumento delle distocie (+15%) a causa del maggiore peso alla nascita ed alla conformazione dei vitelli. Il gene responsabile del carattere della doppia coscia è un locus autosomale nel quale sono presenti due alleli: uno normale (+) ed uno che determina l’ipertrofia muscolare (mh). Il tipo di rapporto che esiste tra questi due alleli non è del tutto chiaro. In un primo momento si riteneva che l’allele mh fosse recessivo e che pertanto gli animali con genotipo (+/+) e (+/mh) fossero normali, mentre gli animali (mh/mh) manifestassero ipertrofia muscolare. In realtà una recente ricerca condotta su bovini di razza Piemontese e su loro incroci, ha evidenziato che gli eterozigoti e gli omozigoti +/+ non presentano differenze per quanto riguarda la difficoltà di parto mentre le differenze esistono per il peso dei vitelli alla nascita: gli animali +/+ pesavano kg 36,9, gli eterozigoti kg 40,8 e gli omozigoti mh/mh 41,2. Pertanto l’eterozigote è in posizione intermedia tra i due omozigoti anche se più spostato verso il genotipo mh/mh. Le variazionigenetiche che hanno causato la formazione dell’allele responsabile dell’ipertrofia muscolare non sono le stesse nelle differenti razze. d. QTL Il primo esperimento in cui è stata evidenziata una associazione tra un locus marcatore ed un QTL è stato quello condotto da Sax nel 1923 su due varietà di fagiolo che differivano sensibilmente per il peso e per la colorazione del seme; il primo rappresentava il carattere quantitativo oggetto di studio, il secondo il marcatore. La varietà gialla, omozigote dominante (PP) al locus responsabile della colorazione, presentava un peso medio dei semi di 48 centigrammi; la varietà bianca, omozigote recessiva (pp), presentava un peso medio dei semi pari 48 cg. Incrociando le due varietà Sax ottenne degli F1 ovviamente tutti eterozigoti Pp; incrociando gli F1 tra di loro ottenne una F2 con i seguenti genotipi e peso dei semi E’ evidente che a ciascuna classe di genotipi al marcatore corrispondeva un diverso peso medio dei semi; ciò fu interpretato come la prova dell’esistenza di una associazione tra il locus responsabile della colorazione del seme e un QTL che influenzava il peso dei semi stessi. Per cui indicando con A e a gli alleli del QTL che determina un peso superiore ed inferiore rispettivamente, i genotipi al QTl sarebbero i seguenti: L’effetto di sostituzione allelica al QTL può essere stimato dalla relazione: (peso semi PP - peso semi pp)/2 cioè (30.7-26.4)/2 = 2.15 g Si noti che l’effetto risultava perfettamente di tipo additivo in quanto l’eterozigote Pp presentava un peso intermedio rispetto a quello dei due omozigoti. La ricerca dei QTL nelle specie animali di interesse zootecnico si presenta più complessa e difficile: il principio fondamentale è lo stesso, cioè bisogna raggruppare gli animali in base all’allele marcatore posseduto e poi vedere se i due gruppi così costituiti differiscono tra loro nel carattere produttivo studiato; per ovvi motivi di ordine economico e tecnico però non è proponibile un approccio tipo quello visto in precedenza. Se si vuole ricercare, ad esempio, un eventuale QTL con effetto sulla produzione di latte nella razza ovina Sarda non è pensabile di costruirsi una popolazione ad hoc attraverso un piano di incroci come quello attuato da Sax (ci vorrebbe troppo tempo e costoso), ma la popolazione ovina Sarda deve essere analizzata così come è; ciò comporta, rispetto al lavoro di Sax, un maggiore sforzo soprattutto nella fase di elaborazione dei dati. L’analisi inoltre va condotta, come nel caso del gene Hal, entro le singole famiglie. Ad esempio, noi abbiamo l’Ariete Tommaso che è eterozigote ad un locus marcatore A (Tommaso è A1A2); separiamo le figlie di Tommaso (poniamo 60) sulla base dell’allele marcatore che hanno ereditato dal padre, in un gruppo tutte quelle che hanno A1 e nell’altro quelle che hanno A2, e confrontiamo le medie produttive dei due diversi gruppi. Se le medie dei due gruppi, opportunamente corrette per i principali fattori zootecnici che influenzano la produzione (ordine di parto, tipo di parto etc.), sono diverse in maniera statisticamente significativa possiamo concludere che entro la famiglia di Tommaso è associato al locus A un qualcosa (forse un QTL) che influenza la produzione del latte. Le elaborazioni statistiche svolte per evidenziare la presenza del QTL sono estremamente complesse; inoltre, una condizione essenziale è che si possa determinare con esattezza l’allele marcatore che ciascuna figlia ha ereditato dal padre. Uno studio condotto recentemente su bovini da latte ha evidenziato la presenza di QTL che influenzano la produzione quantitativa di latte, con effetti di sostituzione allelica che possono portare a differenze nella produzione di latte pari ad oltre 300 chilogrammi per lattazione. e. Prospettive. La ricerca di QTL in una popolazione di bovini da latte comporta la necessità di disporre oltre che dei dati relativi alle produzioni ed alle parentele, anche del genotipo degli animali ai loci che fungono da marcatori genetici, con conseguente aumento del costo complessivo di attuazione del programma selettivo stesso. Di conseguenza, gli incrementi di progresso genetico ottenibili con schemi di selezione che utilizzano i QTL (schemi MAS= Selezione Assistita da Marcatori) debbono essere messi a confronto con il relativo l’aumento dei costi. Ora il confronto sarebbe probabilmente a sfavore dei QTL, per lo meno in schemi selettivi quali quelli utilizzati per i bovini da latte, sia per gli elevati costi delle analisi sia per la complessità delle elaborazioni; è prevedibile però che presto, in considerazione del fatto che i criteri generali della selezione animale sembrano spostarsi verso schemi caratterizzati dall’aumento della velocità del miglioramento genetico (schemi “giovanili”) piuttosto che verso quelli che prediligono l’aumento dell’accuratezza (i cosiddetti “schemi convenzionali”), tale situazione possa essere ribaltata. 3.9 LE RELAZIONI DI PARENTELA FRA GLI ANIMALI Gli animali parenti hanno un corredo genetico simile e l’accoppiamento fra di loro (inincrocio o accoppiamento omeogamico) produce una progenie che ha una frazione di omozigosi più elevata della media della popolazione. Viceversa l’accoppiamento di animali con corredi cromosomici molto diversi (esincrocio o accoppiamento eterogamico) da origine a figli con un grado di eterozigosi superiore a quello medio della popolazione a cui essi appartengono. La conoscenza del grado di parentela fra due individui è importante sia per l’applicazione dei sistemi di valutazione genetica dei candidati alla selezione, sia per le tecniche riproduttive dell’incrocio e della consanguineità. a. La relazione di parentela Gli animali di una popolazione zootecnica hanno una frazione di geni in comune, ma due animali parenti fra di loro presentano una frazione addizionale di geni uguali nel loro corredo genetico. Nel senso comune due individui sono considerati parenti quando hanno un ascendente in comune per cui la frazione addizionale di geni comuni dipende dalla distanza, espressa in atti fecondativi (o generazioni), che li separa dall’antenato comune. I gradi di parentela esprimono la probabilità che due individui abbiano un gene in comune ed è intuitivo il fatto che parenti lontani siano coloro la cui probabilità di avere geni comuni è più bassa. La parentela è calcolata in linea diretta ed in linea collaterale: la prima separa direttamente un individuo dal suo ascendente (genitore, nonno, bisnonno); la seconda è quella che separa due individui che hanno un ascendente comune. I gradi di parentela sono il numero di atti fecondativi intercorrenti fra gli individui in considerazione e poiché per ogni passaggio la probabilità che sia trasmesso un gene è del 50%, essi sono misurati da un coefficiente espresso in frazioni di unità. Esempio. Consideriamo questa struttura familiare A→B→C ↓ D ↓ E in cui le frecce indicano gli atti fecondativi che separano gli individui. Il grado di parentela fra A e B (genitore/figlio) in linea diretta è di primo grado ed il suo coefficiente è 0,5 in quanto la probabilità che essi abbiano un gene in comune è del 50%; quella fra A e C (nonno/nipote) è sempre diretta, ma di 2° grado ed il suo coefficiente è di 0,25 (0,5 x 0,5). La parentela in linea collaterale fra C e E si computa in base agli atti fecondativi che separano i due individui che, nel nostro caso, sono 4, per cui la parentela è di 4° grado ed il suo coefficiente è 0,0625. I gruppi di individui in zootecnica: La famiglia è un gruppo di individui discendenti da antenati comuni; poiché però il corredo genetico ereditato da questi antenati comuni si dimezza con il passare delle generazioni, il concetto di famiglia si perde rapidamente. La linea è un insieme di animali caratterizzati da elevata consanguineità ottenuta con accoppiamenti fra individui parenti; la creazione di linee parentali è utilizzata in zootecnica in alcune specie quali i suini e i conigli per ottenere gli ibridi commerciali. Il ceppo è un gruppo d’animali abbastanza numeroso appartenenti ad una razza in cui gli accoppiamenti all’interno del gruppo si sono verificati con una frequenza superiore a quelli del resto della razza.Es la razza bovina Frisona che oltre al ceppo originario olandese, ha anche quelli tedesco, italiano..; originati per il fatto che all’interno dei confini degli stati o regioni geografiche molto limitate é più facile lo scambio dei riproduttori per ragioni linguistiche. b. Il coefficiente di parentela R Il coefficiente di parentela fra due animali A e B (RAB) è uguale alla frazione media di geni comuni che coppie di animali con la stessa relazione di parentela di A e B possiedono in più rispetto alla frazione media di geni comuni fra due individui qualsiasi della popolazione. Il calcolo del coeff. di parentela è facile se gli animali sono collegati in linea diretta, ma si complica se sono collegati in linea collaterale, soprattutto se essi hanno più di un ascendente comune. La conoscenza della struttura degli ascendenti, che per gli uomini è detta albero genealogico, nelle specie zootecniche è chiamata genealogia o pedigree. Essa è normalmente riportata con i nomi (o con le matricole) degli ascendenti dell’animale in oggetto. Esempio. Vediamo come può essere riportata la genealogia di Telemaco, ronzino baio del figlio di Don Chisciotte (della Mancia). Calcoliamo il coefficiente di parentela fra Maga Magò e Telemaco Rfx e notiamo come esso sia la risultante del prodotto fra i coefficienti di parentela fra Maga Magò e Sailor Moon (Rfg) e di quelli fra Sailor Moon e Telemaco (Rgx) = 0,5 x 0,5 = 0,25. Anche il coefficiente di parentela fra Paride e Telemaco è di 0,25. In generale, il coefficiente di parentela fra due individui X e Y in linea diretta separati da n generazioni è calcolato con [1] Rxy = 0,5n; quello in linea collaterale è ottenuto dal prodotto dei coefficienti calcolati in linea diretta. Esempio (continua) Poniamo che vogliamo calcolare la parentela fra Paride e Galla Placidia (z) sua sorella piena (cioè anche essa figlia di Fritto Misto e di Biancaneve); in questo casi i parenti comuni sono 2, per cui il coefficiente di parentela è la somma dei singoli coefficienti calcolati per via paterna e per via materna Ryz = 0,25 + 0,25 = 0,5: il grado di parentela tra fratelli pieni (non gemelli omozigoti che è l’unico caso negli animali in cui il coefficiente di parentela è 1) è perciò uguale a quello intercorrente fra un genitore ed un figlio. In generale se X e Y sono imparentati tramite più ascendenti comuni, il coefficiente di parentela è calcolato con la relazione [2] Rxy = Σ 0,5n(a) in cui la sommatoria è estesa a tutti gli ascendenti comuni per ciascuno dei quali sono calcolate il numero di generazioni per via diretta. c. La consanguineità Un animale è detto inincrociato (o consanguineo) quando esiste una relazione di parentela fra il padre e la madre; gli accoppiamenti fra animali parenti sono detti accoppiamenti in inincrocio o in consanguineità. L’effetto della consanguineità è l’aumento di loci omozigoti nell’individuo inincrociato rispetto alla media della popolazione. La probabilità che un individuo x abbia un locus omozigote è calcolata dal coefficiente di consanguineità Fx e dipende dalla parentela fra i genitori Rcg. secondo la relazione [3] Fx = 0,5 Rcg. Notiamo subito (e ricordiamo bene) che il coefficiente di consanguineità è riferito ad un singolo animale, mentre quello di parentela a due animali. Esempio. Poniamo che nell’esempio precedente colui che ha trascritto il nome dei genitori di Sailor Moon abbia accertato che il padre di Sailor non era Fiorellino, bensì Arconte. A questo punto Sailor Moon e Fritto misto risultano parenti (mezzi fratelli) con un coefficiente di parentela di 0,25. Il coefficiente di consanguineità di Telemaco è allora 0,5 x 0,25 = 0,125, il che significa che la sua probabilità di avere geni omozigoti rispetto al grado di omozigosi media della popolazione di ronzini della Mancia è superiore del 12,5%. Analogamente al coefficiente di parentela, il coefficiente di consanguineità può essere calcolato direttamente dal pedigree dell’animale con la formula [3] Fx = Σ 0,5n(a) + 1 dove la sommatoria è estesa a tutti gli ascendenti comuni (del padre e della madre di x) ed n è il numero di frecce che collegano, nel diagramma familiare, il padre e la madre attraverso tale ascendente. Qualora anche gli ascendenti di un animale siano essi stessi consanguinei, occorre tenere conto di ciò nel calcolo del coefficiente che diventa [4] Fx = Σ 0,5n(a)+1 (1 + Fa) dove Fa sono i coefficienti di consanguineità degli ascendenti comuni al padre ed alla madre di x. d. L’impiego dell’inincrocio e dell’esincrocio in zootecnica La conoscenza sulle relazioni di parentela fra gli animali è sfruttata, nell’ambito del miglioramento genetico degli animali zootecnici per la costruzione di veri e propri schemi di selezione che utilizzino adeguatamente i vantaggi derivanti dall’omozigosi oppure quelli dell’eterozigosi per alcuni caratteri produttivi. Di norma la consanguineità provoca effetti depressivi sull’espressione del carattere mentre l’eterozigosi ne esalta l’espressione per effetto del meccanismo che nei vegetali prende il nome di vigore ibrido. Le conseguenze negative dell’inincrocio per l’uomo e per gli animali sono note da molto tempo; Poiché la consanguineità comporta l’aumento della frazione di loci omozigoti rispetto alla media della popolazione, non dovremo notare differenze, nel caso di caratteri quantitativi, fra individui consanguinei e non a causa della stessa frazione di geni positivi e negativi che diventa omozigote. I caratteri legati alla vitalità dell’individuo non sono normalmente di tipo additivo (dominanza, sovradominanza, ecc..) l’individuo eterozigote ha espressioni fenotipiche superiori rispetto a quello omozigote. Vi sono geni recessivi che sono responsabili di malformazioni, alcune addirittura letali, che si esprimono soltanto allo stato omozigote. La loro ricerca e l’eliminazione dei riproduttori portatori, che pur vitali e fertili, sono in grado di trasmettere il carattere negativo alla discendenza, costituisce uno degli strumenti concreti in mano alla selezione per contenere il diffondersi dei geni indesiderati. Le tecniche di monitoraggio per tali geni fanno ricorso all’accoppiamento dei maschi candidati alla selezione con le femmine sicuramente portatrici oppure con le proprie figlie; il responso dell’indagine è del tipo “ad esclusione” e riporta la probabilità che l’animale testato possa essere portatore del gene indesiderato. Poiché la consanguineità deprime in particolare la vitalità dell’individuo, gli animali inincrociati presentano in generale la depressione delle produzioni, evidente soprattutto nel caso in cui essi siano posti in condizioni ambientali difficili. L’esincrocio è una tecnica che consente l’aumento del grado di eterozigosi negli animali che ne derivano i quali presentano, rispetto alla popolazione, di norma una robustezza costituzionale superiore che si riflette, in alcuni casi, in una performance produttiva superiore a quella che deriverebbe dalla media delle prestazioni paterne e materne. Il fenomeno dell’eterosi da cui ciò deriva, detto anche lussureggiamento degli ibridi, negli animali non è di norma così evidente come nei vegetali. Non esiste un coefficiente che misuri il grado di eterosi, poiché una tale definizione comporterebbe la completa conoscenza del genotipo della popolazione da cui sono estratti gli individui da accoppiare. Il grado di eterosi si misura con la superiorità della media dei fenotipi rispetto a quella delle popolazioni da cui derivano i genitori. Esempio. calcolare il grado di eterosi esistente nell’incrocio fra Limousine (razza da carne francese) e Sarda (razza rustica isolana); i dati degli accrescimenti medi misurati sulle sue popolazioni sono di kg 1,350 nella prima e kg 0,740 nella seconda. Fatti accoppiare casualmente individui delle due razze e si misurati gli accrescimenti la media di tali dati, risulta di kg 1,120, può essere confrontata nel seguente modo: media parentale = (1,350 + 740)/2 = 1,045 media filiale = 1,120 effetto di eterosi = +0,075 L’eterosi è molto usata in suinicoltura ed avicoltura: nel primo caso si assiste normalmente all’incrocio fra razze diverse (Large White x Landrace, Pietrain x Large White) oppure fra linee diverse della stessa razza; nel secondo caso si fa ricorso quasi esclusivamente all’incrocio fra linee. Questa tecnica prevede la creazione di linee inincrociate fortemente selezionate (grand parents) che sono incrociate fra loro con l’ottenimento dei cosiddetti parents i quali forniranno i prodotti finali da impiegare nella produzione. Lo schema di selezione è detto a due, tre, quattro (o più) linee in funzione del numero di linee che entrano nella costituzione del soggetto definitivo. La tecnica riproduttiva che sfrutta l’eterosi è, in pratica, detta incrocio ed indica l’accoppiamento di animali della stessa specie geneticamente molto diversi; questa denominazione di norma è utilizzata nel caso dell’impiego di due razze; la riproduzione entro la razza (o la linea) è chiamata accoppiamento. Pertanto, un toro di razza Charolaise ed una vacca di razza Modicana sono incrociati fra di loro; due soggetti di razza ovina Sarda sono accoppiati fra loro. Fra i diversi tipi di incrocio, possiamo ricordare: a) l’incrocio industriale che si effettua, nella produzione della carne, fra due razze differenti per l’ottenimento di un prodotto ( F1 = 1a generazione filiale) da destinare completamente alla macellazione; questa tecnica è detta industriale in quanto i prodotti ottenuti sono caratterizzati da grande uniformità morfologica quasi come i manufatti industriali; b) l’incrocio di sostituzione che si attua qualora con la razza A si voglia assorbire gradualmente quella B; il caso classico è quello che, nel passato, ha portato la razza bovina Bruna a sostituire la razza Sarda in molte plaghe della Sardegna; c) l’incrocio continuo o ricorrente, in cui gli F1 sono accoppiati alternativamente con una delle due razze di provenienza per mantenere il grado in insanguamento delle generazioni entro limiti prefissati (37,5 - 66,5). LA VALUTAZIONE LINEARE DEI BOVINI (G. Battacone) Storicamente la valutazione morfologica degli animali avveniva per confronto fra il soggetto in esame e il tipo di animale ideale, quindi si esprimevano giudizi di desiderabilità o meno di un carattere rispetto ad un modello. Questo tipo di valutazione era soggettivo, fortemente legato al valutatore. La valutazione lineare ha l’obiettivo di fornire la descrizione e le caratteristiche morfo-funzionali degli animali. I caratteri morfo-funzionali considerati sono quelli funzionali, economicamente importanti e trasmissibili geneticamente. La valutazione è eseguita misurando su scale lineari crescenti, comprese negli estremi biologici,ognuno degli aspetti morfologici considerati. Si valuta tramite attribuzione di un punteggio numerico che può essere impiegato per la stima dell’ereditabilità di ciascun tratto morfologico, questo consente di arrivare a calcolare i vari “indici genetici” dei riproduttori. I criteri di valutazione variano a seconda delle specializzazioni produttive della specie e razza animale considerata. In Italia nella specie bovina la valutazione lineare è applicata per razze da latte (Frisona Italiana, Bruna Italiana) a duplice attitudine (Pezzata Rossa Italiana) e da carne(Piemontese). Le rispettive associazioni di razza prevedono schede specifiche per la registrazione dei caratteri per perseguire meglio le finalità della selezione di ciascuna razza. Ad esempio: - per l’Associazione Nazionale Allevatori dei Bovini di Razza Piemontese (ANABORAPI) l'azione di miglioramento della razza bovina Piemontese riguarda la precocità dell'età di macellazione, la velocità di accrescimento, l'efficienza di conversione degli alimenti, la resa al macello, le caratteristiche della carcassa e la qualità della carne nonché la facilità di parto e la fertilità, pur non trascurando la produzione lattea. L'azione di miglioramento riguarda inoltre l'eliminazione di eventuali difetti. - per l’associazione nazionale allevatori bovini di razza pezzata rossa italiana (ANAPRI) l'obiettivo della selezione dei bovini di questa razza è la contemporanea ottimizzazione delle produzioni di carne e di latte ( duplice attitudine). Le femmine della linea selettiva duplice attitudine possono entrare nella linea selettiva per la sola produzione di carne detta linea carne, in cui la produzione di latte è destinata all'allattamento dei vitelli. Vrdiamo lo schema di valutazione lineare adottato dall’ANARB: L'OBIETTIVO DELLA SELEZIONE MORFO-FUNZIONALE Per l’Associazione Nazionale Allevatori Razza Bruna Italiana (ANARB) l’obiettivo della selezione di questa razza è produrre soggetti di buona mole, con struttura e costituzione solida, corretta conformazione, precoci per sviluppo e produttività, fecondi e longevi, con attitudine ad elevate e costanti produzioni di latte ad alto titolo di grasso e di proteine, dotati d’alto potere di assimilazione per lo sfruttamento di tutti i foraggi aziendali. Bisogna disporre di animali con caratteristiche genetiche eccezionali, ma è importante anche avere animali costituzionalmente forti e sani in grado di sopportare lo sforzo per conseguire produzioni ottimali. Un apparato mammario ben sostenuto, gli arti ed i piedi forti, ecc, possono avere una forte influenza sulla carriera produttiva dell’animale e sui costi di gestione azienda. Per l’allevatore di bovini bruni è economicamente importante la vendita di bestiame da allevamento e spunta prezzi più alti il bestiame con migliore morfologia.Un’accurata valutazione morfologica ha come scopi principali: - Dare indicazioni sulle caratteristiche morfologiche trasmesse dai tori testati attraverso l’elaborazione di indici genetici per la morfologia. - Fornire i punteggi che vengono riportati sui documenti genealogici. - Individuare i tori da impiegare sulle singole vacche (accoppiamenti programmati), tenendo conto sia degli indici produttivi sia di quelli morfologici. Ciò dimostra, come la valutazione morfologica degli animali, debba essere oggetto di nuove ricerche per adeguarla all’evoluzione in specie per il miglioramento del nostro bestiame. ARMONIZZAZIONE EUROPEA/INTERNAZIONALE Il sistema di valutazione lineare è stato introdotto negli Usa all'inizio degli anni '80 e subito dopo è stato adottato anche per la razza Bruna in Italia, ed ha rappresentato un primo passo per rendere confrontabili le valutazioni morfologiche a livello internazionale. Il processo d'armonizzazione internazionale si è completato con la delibera dei Comitato Europeo della razza bruna dell'8 novembre 1995, che sulla base delle proposte dell’ Anarb , ha sancito, per tutti i Paesi dove la Bruna ha una presenza significativa, quanto segue: - Un criterio comune di rilevamento dei più importanti aspetti morfologici è utile per il confronto dei valori genetici per la morfologia, per una facile interpretazione di tali dati in tutto il mondo; - Ogni Paese può considerare nel proprio ambito altri aspetti morfologici aggiuntivi. - Gli obiettivi della selezione morfologica, possono essere specifici per ogni Paese; - Il sistema più adatto per l'armonizzazione è quello lineare, già in uso in Italia, Svizzera ed Usa; con tale sistema le caratteristiche morfologiche vengono "misurate" da un estremo biologico all'altro, con la possibilità di descrivere l'animale senza porsi in questa fase alcun obiettivo da raggiungere; - aspetti morfologici per i quali si è optato per una descrizione comune utilizzando il sistema lineare: altezza del garrese; profondità addominale; linea dorsale; angolo groppa; ampiezza strutturale agli ischi, angolo garretto; qualità al garretto; pastoie; altezza talloni, mammella anteriore; mammella larghezza posteriore; mammella altezza posteriore; mammella legamento centrale; mammella profondità; capezzoli anteriori lunghezza; capezzoli direzione; capezzoli posizione anteriori. L'IMPORTANZA DEI CARATTERI MORFOLOGICI LINEARI NELLA SELEZIONE ITALIANA I caratteri lineari e gli indici genetici che ne derivano stanno assumendo un'importanza sempre maggiore in Italia, infatti nel 1997 la Commissione tecnica centrale dell'Anarb ha deliberato due nuovi indici inerenti "longevità" e "mammella", basati sui caratteri lineari che sono risultati essenziali per la longevità delle vacche da latte Brune. Il primo criterio che determina la permanenza o meno in stalla delle vacche è la produzione di latte: le vacche più produttive vi rimangono, quelle meno produttive vengono riformate. Il secondo criterio considerato, quando le vacche hanno le stesse produzioni di latte, è la loro morfologia funzionale, quelle morfologicamente migliori vengono preferite, per la maggior durata e per i minori problemi di gestione. - L’ ereditabilità dei caratteri morfologici ha un punteggio finale di 0,38 ed è composto da varie voci: statura 0,35, forza e vigore 0,13 ampiezza strutturale 0,25 attacco coda 0,09 altezza tallone 0,25, capezzoli da dietro 0,13, ecc. - L'indice longevità è determinata prendendo in considerazione cinque caratteri lineari, hanno segno positivo se sono correlati positivamente con la longevità funzionale, mentre hanno segno negativo se la correlazione è negativa, essi sono: altezza al garrese -31, arti di lato -2, attacco anteriore mammella 17, profondità mammella 33 e lunghezza capezzoli -2. Attraverso l’indice di longevità si individuano i soggetti che esprimono al meglio e per più tempo la loro potenzialità produttiva. Per realizzare dei miglioramenti reali nella longevità tale indice è stato introdotto nell'ITE (indice totale economico), così da considerarlo tra gli obiettivi di selezione. Nell'ITE ha sostituito l'indice punteggio finale. - Per l'indice mammella si considerano i seguenti caratteri lineari: profondità mammella, lunghezza capezzoli, attacco anteriore, legamento ed attacco posteriore. Il vecchio indice mammella era ricavato dal valore globale attribuito all'apparato mammario e risultava più legato alla soggettività del valutatore, mentre con il nuovo sistema si rende più attendibile questo importante indice. - Note indicative per l'attribuzione dei punteggi parziali Le valutazioni dei 5 parziali (quattro per i tori): struttura, arti e piedi, caratteri lattiferi, capacità corporea e apparato mammario vengono espresse con valori numerici compresi tra 65 e 100, avendo sempre presente le caratteristiche della vacca ideale. Riassunto degli aspetti morfologici, in ordine d'importanza, per la valutazione complessiva degli animali di razza Bruna: Mammella: (40%) profondità, lunghezza capezzoli, attacco anteriore Caratteri lattiferi: (15%) apertura costato, qualità ossatura. Arti e piedi: (15%) pastoie/piedi, angolo garretto. Struttura: (15%) groppa, dorsale, statura, caratteri di razza. Capacità corporea: (15%) dimensioni, volume torace e addome. STRUTTURA Conformazione individuale, vigore, lunghezza, armonia di tutte le parti, eleganza e portamento e caratteri di razza. Per valutare la struttura si devono considerare le caratteristiche della razza che si riferiscono a: mantello, statura, testa, anteriore, costruzione scheletrica nel complesso e soprattutto groppa e linea dorsale. Per ottenere un’alta valutazione nella struttura un animale deve essere un soggetto attraente con armonica fusione e proporzione di tutte le sue parti, che gli conferiscono uno stile ed un portamento notevoli. Nei tori il monorchidismo porta a diminuire di una classe il valore della struttura, mentre l’ernia ombelicale considerata difetto grave, farà diminuire di una classe non solo la valutazione della struttura ma anche il punteggio totale. I tori con ernia ombelicale, con progratismo e/o brachignatismo non vengono presi in considerazione per la fecondazione artificiale, data l’alta ereditabilità dei difetti. Struttura (max. 15) ARTI E PIEDI Solidi, funzionali, in appiombo, con pastoie forti e talloni alti. Sono importanti per la longevità dell’animale; a questo riguardo, la loro importanza è seconda solo a quella della mammella. Il loro giudizio inizia dagli appiombi che devono essere regolari sia visti di lato che da dietro Arti e piedi (max. 15). CARATTERI LATTIFERI Fine ma non debole, assenza di grossolanità, ossatura di qualità Il collo deve essere lungo e sottile, ben fuso con le spalle, il garrese affilato e ben definito, le costole piatte, larghe, lunghe e spaziate per dare capacità al corpo; le cosce e le natiche discese. Per avere un punteggio maggiore o uguale a 90 nei caratteri lattiferi un animale deve essere "ben definito" ed avere un aspetto forte ma fine, senza grossolanità. L’esperto deve tenere conto dell’influenza dell’alimentazione, della lattazione prolungata e del periodo di asciutta. Caratteri lattiferi (max. 15) CAPACITÀ CORPOREA Torace ed addome capaci, in proporzione all’età ed al periodo della gravidanza; notevole forza, vigore e dimensioni adeguati Nel termine si comprendono il volume di torace ed addome. La lunghezza del corpo, più la profondità e la larghezza, che sono date dalla lunghezza e direzione delle costole, determinano la capacità corporea. Una grande capacità unita a potenza e vigoria, permette all’animale di utilizzare grandi quantità di alimenti, specie foraggio. La capacità del corpo è influenzata da fattori come lo stadio di lattazione e/o di gravidanza, l’età; lo stato di nutrizione e di salute, ecc. Capacità corporea (max. 15) Torace Largo, profondo con costole anteriori ben evidenti, ben unito alle spalle. APPARATO MAMMARIO Fortemente attaccato, ben bilanciato con capacità adeguata e qualità che denotino un’alta produzione di latte ed un lungo periodo di utilizzazione La mammella deve essere produttiva e funzionale. Pertanto si esaminano tutti gli elementi che riguardano la qualità (tessuto mammario e venature) e soprattutto quelli concernenti la funzionalità (profondità, capezzoli, attacchi, legamento, simmetria dei quarti). Si chiede una mammella estesa in avanti, alta e larga all’indietro, saldamente attaccata all’addome, ben equilibrata, e con capezzoli perpendicolari, di giusta lunghezza e diametro. Apparato mammario (max. 40) IL PUNTEGGIO FINALE Il punteggio finale si esprime, per le vacche in lattazione e per i tori oltre i 18 mesi di età, con punti da 65 a 100 corrispondenti alle seguenti classi di qualifica: da 90 a 100 (ottimo) da 85 a 89 (molto buono) da 80 a 84 (buono +) da 75 a 79 (buono) da 70 a 74 (sufficiente) meno di 70 (insufficiente) Alle femmine che non hanno mai partorito ed ai maschi da 8 a 18 mesi si attribuiscono la qualifica complessiva fino al massimo del molto buono. Il punteggio finale è il risultato della somma dei valori parziali pesati a seconda dell’importanza di ciascun aspetto parziale. Si confronta l’animale in esame con il modello ideale; Ad ogni aspetto parziale si attribuisce un valore che esprime il grado/ percentuale di avvicinamento all’ideale; Per determinare il punteggio finale, il quale a sua volta esprime il grado/ percentuale di avvicinamento alla vacca ideale, una volta attribuiti i valori parziali e conoscendo l’importanza di ciascuno di essi, si procederà come nell’esempio di seguito riportato: struttura punti 79 x 0,15 = 11,85 + arti e piedi punti 84 x 0,15 = 12,60 + caratteri lattiferi punti 82 x 0,15 = 12,30 + capacità corporea punti 91 x 0,15 = 13,65 + apparato mammario punti 77 x 0,40 = 30,80 = Punteggio finale punti 81 l'importanza degli aspetti parziali nella valutazione dei tori è la seguente: - struttura (25) - caratteri lattiferi (25) - arti e piedi (25) - capacità corporea (25) Vediamo le singole voci: 1. Statura - È senza dubbio uno dei caratteri lineari che fa più discutere. È correlato positivamente con la produzione (+0.17) e negativamente con la longevità (-0.13). Da ciò emerge quindi che l'impostazione per il futuro dovrebbe essere vacche grandi, ma non troppo. 2. Forza e vigore - È correlata positivamente con entrambe le variabili, anche se in maniera leggerissima; rimane comunque la certezza che sono da preferire le vacche con forza e vigore al di sopra della media. 3. Profondità addominale - Ha correlazione molto forte con la produzione (+0.34), mentre con la longevità funzionale ha correlazione leggermente negativa. È un aspetto che sta perdendo un po' della sua importanza, perché sempre più spesso si sopperisce alle esigenze della vacca da latte non più con la quantità, ma con la qualità dell'alimento. La vacca da preferirsi per il futuro sarà probabilmente quella anche non eccessivamente profonda, ma che trasforma gli alimenti nel minor tempo possibile. 4. Angolosità - Le vacche angolose sono tendenzialmente molto produttive, ma allo stesso tempo, un po' meno longeve. Anche per il futuro si deve ricercare l'angolosità, senza però enfatizzarne i meriti. 5. Linea dorsale - Ai fini della longevità si devono ricercare linee dorsali né troppo forti né troppo deboli . 6. Lunghezza e larghezza groppa - Sono altamente correlate con la statura, vale quindi lo stesso discorso fatto per l'altezza al garrese. 7. Angolo groppa - Le vacche più produttive hanno la groppa tendente al piano, mentre la longevità funzionale è correlata ad un angolo groppa, con ischi leggermente più bassi degli ilei. 8. Arti di lato - Sia la produzione che la longevità funzionale sono correlate positivamente con gli arti leggermente stangati, è chiaro che l'arto con il giusto appiombo rimane l'ottimale, ma dovendo fare una scelta tra arto tendenzialmente falciato o stangato, è da preferirsi quest'ultimo. Gli stessi approfondimenti effettuati negli Usa negli anni scorsi hanno confermato quanto sopra anche nella razza Holstein. 9. Pastoie e talloni - Dagli studi emerge che il piede (pastoie/talloni) è ancora più importante, ai fini della longevità funzionale, dell'angolo del garretto. 10. Attacco anteriore mammella - È estremamente correlato con la produzione e con la longevità funzionale. Attacchi anteriori molto forti e di giusta lunghezza garantiscono alte produzioni per più parti. La tendenza futura sarà quella di dare maggiore importanza a questo aspetto. 11. Altezza e larghezza attacco posteriore mammella - Una maggiore altezza e larghezza dell'attacco posteriore incidono in maniera netta sulla produzione, ma non hanno influenza sulla longevità funzionale delle vacche. Pur privilegiando sempre e comunque attacchi posteriori più alti e larghi perché più produttivi, si può affermare che complessivamente l'attacco anteriore è più importante. 12. Legamento mammella - Correlato in modo positivo sia con la produzione, che con la longevità funzionale, ciò ci dice di continuare a dare nella valutazione morfologica una buona importanza a questo particolare, anche se sia i nostri studi che quelli americani mettono in evidenza che è molto più importante la profondità della mammella, rispetto al legamento. 13. Profondità mammella - Questo aspetto è correlato negativamente con la produzione (-0.38 mammelle profonde) e molto positivamente con la longevità funzionale (+0,43 mammelle alte). Entrambe queste due correlazioni ci dicono in modo lampante che non possiamo tendere in maniera eccessiva né nell'una né nell'altra direzione, ma dobbiamo ricercare quelle mammelle che, garantendo un buon volume, e quindi una certa profondità, siano comunque funzionali. 14. Direzione capezzoli - Capezzoli convergenti sono correlati positivamente sia con la produzione che con la longevità funzionale, questo è in linea con il metodo di valutazione fino ad ora eseguito, con il quale si privilegiano i capezzoli perpendicolari al suolo, ma quando si deve scegliere tra divergenti e convergenti, è sempre quest'ultima la definizione da preferire anche perché di solito è collegata con una buona forza del legamento. 15. Lunghezza capezzoli - Capezzoli corti sono correlati positivamente con la produzione, e, in maniera ancora più netta con la longevità. È un aspetto che diventa sempre più importante, in particolare perché la lunghezza dei capezzoli incide moltissimo sulla mungibilità delle vacche. Nella valutazione della mammella la lunghezza dei capezzoli è seconda solo alla profondità ed è quindi più importante degli attacchi e del legamento. SISTEMA LINEARE DESCRIZIONE TRATTI La descrizione dei tratti col sistema lineare ha permesso l’armonizzazione dei criteri di valutazione a livello internazionale, ed è la più indicata per i seguenti scopi: 1) ridurre la rimonta e di conseguenza aumentare il guadagno; 2) aumentare la longevità delle bovine; 3) migliorare la produzione. La novità del sistema lineare riguarda solo la descrizione degli animali e sostituisce quello precedentemente in vigore nella parte in cui venivano utilizzati i codici dall’1 al 5 con i quali era possibile fotografare l’animale indicandone pregi e difetti esprimendo, per ciascuna parte considerata, la sua perfezione rispetto al modello ideale. La nuova descrizione viene fatta su una scala lineare di valori che va da 1 a 50 con la quale ogni parte presa in considerazione viene misurata da un estremo biologico all’altro. In sostanza non si codifica il risultato di un confronto fra due caratteristiche (quella presa in esame e l’ideale) ma si quantifica il grado, la misura biologica dell’aspetto considerato. Prendendo per esempio la statura, mentre il sistema precedente (quello usato prima del 1985), in base a determinati parametri, si limitava a definirla grande, media, piccola, col sistema lineare la si quantifica con valori crescenti dall’1 (molto bassa) al 50 (molto alta) con valori intermedi (15 bassa, 25 media, 35 alta). Si precisa che, per difficoltà pratiche ed economiche, si tratta sempre di stime e non di misure con metro o nastro misuratore pur se vi sono parametri ben precisi da verificare con misure da effettuare a campione. Alcune volte l’ottimale si trova in corrispondenza del valore intermedio degli estremi biologici, mentre per altri è rappresentato dall’estremo superiore. Nell’assegnare i valori ai vari tratti lineari non si devono considerare l’età e lo stato fisiologico dell’animale. STRUTTURA Statura (*) misurata come altezza al garrese considerando che vi è una correlazione positiva tra la lunghezza media dell’arto con una generale struttura ossea allungata. Viene assegnato il valore 25 alla vacca di 137 cm al garrese. Ad ogni variazione di 1 cm il valore sarà modificato di 2 unità. Forza-vigore Si fa riferimento alla forza scheletrica ed all'armoniosità dell’anteriore, in particolare alla larghezza (vista di fronte) e profondità (vista di lato) del torace nonchè alla testa per la larghezza del musello e l’ampiezza delle narici. È misurata da debole (1/5) a estremamente forte (45/50) Profondità (*) Si considerano i diametri verticali del corpo con particolare attenzione all’impostazione del costato (inserzione ultima costola; punto più basso dell’addome). Anche qui va dall’1 al 50 partendo dalla profondità scarsa fino a raggiungere quella massima che consente di ingerire grosse quantità di alimento. Angolosità L’angolosità di un animale si evince dalla finezza e piattezza di tutte le ossa, dalla "pulizia" ed evidenza delle loro tuberosità (nel senso che non devono essere nascoste da carne superflua o, peggio, da pannicoli adiposi), dall’evidenza della linea dorsale e del garrese, che deve essere ben serrato. Contribuiscono alla stima dell’angolosità anche la piattezza e l’apertura delle costole, la lunghezza del collo, e le due pliche cutanee, la femminilità e la finezza dell’animale nel suo insieme con particolare riguardo a quella della pelle. Al fine di facilitare l’uniformità del giudizio si è convenuto di prendere in esame soltanto l’evidenza o meno delle tuberosità iliache ed ischiatiche, della linea dorsale e del garrese. Saranno assegnati valori bassi all’animale grossolano e con ossatura pesante e valori via via crescenti con l’aumentare della piattezza delle ossa, della finezza e della distinzione. Linea dorsale (*) Anche per questo tratto si passa dalla debolezza (5), che crea problemi di drenaggio e di maggior predisposizione alle infezioni, alla linea dorsale forte e rilevata (45). Angolo groppa (*) (visto di lato) Si misura il grado di inclinazione tra ilei e ischi che influisce negativamente o positivamente sul drenaggio e quindi sulla fertilità della vacca. Il valore intermedio (25) considerato ottimale, corrisponde ad una groppa con 4-5 cm di pendenza dall’ileo all’ischio. Ampiezza strutturale ( *) (agli ischi) Misura l’ampiezza della regione pelvica indicata dalla distanza tra le due tuberosità ischiatiche. Maggiore è lo spazio tra le due tuberosità più facile è il parto. Una distanza media pari a 18 cm deve essere valutata 25. Ad ogni cm in più o meno si modificherà la scala lineare di 5 punti. ARTI E PIEDI Arti posteriori ( *) (visti di lato) Tratto di notevole importanza ai fini della carriera dell’animale. Si può considerare il tratto a due vie per eccellenza, infatti è ritenuto ottimale (la perpendicolare fatta cadere dagli ischi deve sfiorare il garretto e toccare terra 2,5 cm dietro il tallone) il valore intermedio 25, mentre i valori superiori esprimono il grado della falciatura e quelli inferiori l’arto stangato. Qualità garretto (*) Si considera, appunto, la qualità del garretto, che viene valutato nella sua "modellazione ossea". Valori bassi al garretto grossolano, valori alti al garretto ben modellato e privo di rigonfiamenti. Pastoie (*) Si fa riferimento all’elasticità ed alla flessibilità della giuntura che funziona da ammortizzatore. Una pastoia debole avrà valori bassi, mentre i valori alti andranno a quella forte. Altezza talloni (*) Carattere funzionale molto importante in quanto più è alto il tallone, maggiore è la distanza dei tessuti molli del piede da possibili corpi contundenti. Si fa riferimento alla distanza che intercorre dal suolo alla linea che delimita la parte cornea degli unghioni. Il valore 25 corrisponde a 3,5 cm, ad ogni 0,5 cm si avrà una modifica di 4 punti. Valori alti per talloni alti, valori bassi per talloni bassi. MAMMELLA Attacco anteriore (*) Si considera la lunghezza, dall'inizio del quarto all'inserimento nell'addome. Valori bassi (5) per l’attacco corto, alti (45) per quello lungo. Larghezza attacco posteriore (*) Misurata dall’inizio della piega congiungente la mammella all’arto individuata procedendo dal basso verso l’alto e la corrispondente sull’altro arto. 13 cm = 25 Ad ogni variazione di 1 cm il valore sarà modificato di 4 unità. Es. 15,5 cm = 35 Altezza attacco posteriore (*) Si fa riferimento sempre all’inizio della piega della mammella come definito per il tratto precedente ed in relazione al punto medio della distanza fra la vulva ed il garretto. Il valore 25 verrà attribuito quando l’inizio della piega corrisponde al punto medio. Valori più bassi si riferiranno ad un attacco più basso del punto medio, quelli più alti ad un attacco più alto. Legamento (*) Si considera la profondità del solco mediano. Indicativamente una mammella con parete posteriore piatta viene valutata 10, può essere aumentata di 5 unità se ha un buon legamento anteriormente. Un solco mediano profondo 2,5 cm ha un valore di 25 mentre uno di 5 ne vale 40. profondo 5 cm Profondità (*) È vista in rapporto al piano della mammella avendo come riferimento i garretti. Quando il piano è all’altezza dei garretti si valuta 5. Il piano della mammella 10 cm al di sopra dei garretti è valutato 25. Per questo tratto i valori si modificano di 2 unità ad ogni variazione di 1 cm. Direzione capezzoli visti da dietro (*) Influisce sulla facilità di mungitura e sulla possibilità di evitare traumi. Valori bassi (5) ai capezzoli molto divergenti dei quarti, valore medio (25) a quelli perpendicolari al suolo, valori alti (45) a quelli convergenti. Lunghezza capezzoli anteriori (*) Si considera la lunghezza dei capezzoli anteriori valori bassi per i capezzoli troppo corti e valori alti per quelli troppo lunghi passando dal valore 25 da assegnare con lunghezze di 5,5 cm. La facilità di mungitura è legata oltre che alla direzione anche alla dimensione dei capezzoli. Posizione capezzoli anteriori (*) Si considera la posizione dei capezzoli nell'ambito dei quarti anteriori della mammella. Valori bassi vengono assegnati ai capezzoli anteriori inseriti all'esterno dei quarti, mentre valori alti ai capezzoli anteriori inseriti all'interno dei quarti. La posizione intermedia è quella desiderabile ai fini funzionali. (*) Caratteri lineari armonizzati NELLE FIGURE LA TENDENZA VERSO L'OTTIMALE E' EVIDENZIATA DAL FONDO VERDE IL COLORE DEL MANTELLO (G. Battacone) Nei mammiferi il colore del mantello dipende dalla presenza di melanina nella cute e nel pelame. La melanina risiede in organuli citoplasmatici chiamati melanosomi prodotti nei melanociti. I melanosomi sono trasferiti dai melanociti dentro cellule dell’epiderma per mezzo di processi di esocitosi. I melanociti sono cellule specializzate, che migrano dalle creste neurali nel corso dello sviluppo embrionale e risultano fortemente legate alle cellule del sistema nervoso. La pigmentazione della cute, dei peli e della lana dipende dalla attività malanogenica e di esocitosi dei melanociti. La pigmentazione può essere ridotta o resa assente per l’assenza o la riduzione dell’attività dei melanociti. Questi fenomeni possono interessare solo alcune regioni del mantello o l’intero animale. La melanina è un grosso polimero formato da tirosina e cisteina in rapporti quantitativi variabili. La melanina è presente in due distinti tipi: - eumelanina: predomina la tirosina ed è responsabile della pigmentazione nera o bruno scuro. - feomelanina: con presenza variabile di cisteina; colorazione che va dal rosso-bruno al giallo. Entrambi i tipi di melanina, sono prodotti da processi di catalisi a partire dalla tirosina e dalla cisteina, il principale enzima coinvolto in questo processo è la tirosinasi. I melanociti sono in grado di produrre entrambi i pigmenti, tuttavia essi ne sintetizzano solo uno. Il controllo dell’attività dei melanociti è regolata da una serie di mutazioni geniche che in maniera diversa intervengono in fasi diverse dei processi di melanogenesi. - alcuni loci influenzano la differenziazione cellulare o migrazione dei melanociti dalla creste neurali durante le fasi di sviluppo embrionale; - altri loci condizionano la morfologia dei melanociti e la loro capacità di depositare i melanosomi nelle cellule differenziate della cute; - altri loci definiscono alcune componenti enzimatiche coinvolte nei processi di melanogenesi; - alcuni loci sono mutanti che influenzano l’interazione fra l’ormone alfa-MSH e le cellule bersaglio. L’interazione di tutte queste componenti geniche porta alla definizione del colore del mantello degli animali. Il colore dei mantelli dei bovini L’attività di selezione ha sempre spinto per privilegiare le specie e quindi gli animali che meglio ottimizzavano le condizioni ambientali delle aree di produzione questo approccio ha condizionato anche la selezione per quanto attiene alla colorazione dei mantelli. Negli ambienti caratterizzati da elevata incidenza delle radiazioni solari gli animali che meglio si adattano sono quelli con pelame di colore chiaro e cute di colore scuro; ad es Chianina, Marchigiana, Romagnola e Piemontese. Nella razza Holstein la diversa incidenza percentuale del bianco nel mantello condiziona, nelle regioni ad alta esposizione alle radiazioni solari, la produzione di latte e l’efficienza riproduttiva, in particolare la produzione di latte è superiore. Il colore del mantello influenza in maniera evidente la suscettività dei bovini rispetto agli stress termici, questo perché il colore del mantello influisce sulla quantità di calore assorbita dalle radiazioni solari. Risulta evidente che l’effetto del colore del mantello riveste interesse maggiore nei sistemi di allevamento con animali che rimangano per diverso tempo in ambienti non schermati dalle radiazioni solari, per questo non sono state individuate relazioni fra percentuale di bianco sul mantello e produzioni di latte in regioni fredde. Un altro effetto del colore sui risvolti economici dell’allevamento bovino è rappresentato dalla relazione fra la pigmentazione delle palpebre e la suscettività alle lesioni oculari. In particolare in bovini di razza Hereford è stata osservata una minore incidenza di lesioni oculari negli animali a più forte pigmentazione nelle palpebre. Nel genotipo “selvaggio” del Bos taurus il mantello è uniformemente colorato ossia non sono presenti pezzature, Il colore varia tra diverse tonalità comprese fra il bruno scuro e il bruno rossastro ed è tuttora presente in alcune razze bovine (razza Bruna e Jersey in purezza). Gli animali con colorazione “selvaggia” tendenzialmente presentano colorazione più scura nelle parti distali (testa, collo, parte distale degli arti e quarti posteriori), nella medesima razza i maschi generalmente hanno mantello più scuro rispetto alle femmine. Gli animali che da adulti hanno colorazione bruno scuro alla nascita hanno mantello di colore bruno rossastro. Nei bovini le varianti di colore più comunemente osservate rispetto al bruno scuro (selvaggio) sono il rosso e il nero intenso. Mantelli di colori diversi sono originati per modificazioni di questi tre colori base. In molti casi le colorazioni sono il risultato di alleggerimento o assenza della pigmentazione originaria. (es. Limousine per schiarimento del rosso). Altre mutazioni geniche sono responsabili di diluizione della pigmentazione che può essere uniforme o interessare differenti parti del corpo (es. Charolaise e Limousine rispettivamente). Nei bovini il locus extension è responsabile per la gran parte delle variazioni di colore. Per questo locus sono presenti tre alleli. ED: nero dominante E+: l’allele selvaggio con le diverse tonalità fra rosso e nero e: rosso recessivo dominanza: ED>E+>e L’allele ED caratterizza le razze bovine che già dalla nascita hanno il colore definitivo nero intenso con o senza presenza di pezzature (Angus e Holstein). L’allele E+ caratterizza le razze con mantello che va dal bruno-rossastro al nero e con pigmentazione scura che può essere più intensa in alcune regioni del corpo (Jersey e Brown). I vitelli con genotipo E+ sono rossastri alla nascita con minima presenza di pelame scuro in alcune regioni. Le razze bovine rosse (Hereford, Simmenthal) sono omozigoti per l’allele recessivo e. Il colore dei mantelli degli equini La colorazione del mantello di quasi tutte le razze equine è regolato dall’interazione di tre geni che concorrono a definirne il colore base: Altri 9 geni del corredo genico degli equini contribuiscono alla definizione del colore del mantello degli animali adulti. Negli equini nessuna colorazione del mantello può essere considerata come caratteristica assoluta di razza; quindi le mutazioni geniche responsabili dei colori del mantello sono intervenute prima che iniziasse l’attività selettiva che ha definito le diverse razze. I quattro colori base (nero, baio, castano e grigio) dei mantelli equini sono definiti dai geni indicati come: - Agouti - Extension - Grey In diverse razze la gamma dei colori è arricchita dall’azione dei geni responsabili: delle diverse gradazioni dei colori base (cream, dun, champagne e silver) e della presenza del bianco o delle chiazzature bianche (white, roan, tobiano, overo, leopard) Gli animali delle razze Purosangue inglese, Lipizzano e Arabo sono i soli per i quali il colore del mantello è dato dalla sola interazione dei geni responsabili dei colori di base. Le variazioni di colore sono prodotte dai geni che in maniera differente regolano la pigmentazione di base dei melanociti La melanina, contenuta nei melanociti, può essere presente in due distinte forme: - eumelanina. responsabile del colore nero o bruno - feomelanina: responsabile del colore rosso o giallo I geni Extension e Agouti sono quelli responsabili della sintesi di eu/feomelanina e quindi dei colori castano, baio e nero. Il gene Grey pare sia il responsabile della progressiva distruzione della melanina nel corso della vita dell’animale. Gli animali che hanno il gene Grey, destinati quindi all’ingriggimento progressivo, alla nascita possono avere qualsiasi colorazione. Alla nascita i puledri con gene Grey presentano già peli bianchi in particolari regioni del corpo, generalmente nella testa, questa presenza si estende nel corso della vita dell’animale e può interessare l’intero mantello. Seppure il mantello diventi interamente bianco permane la pigmentazione (melanina) nella cute e negli occhi. Il gene Extension regola la sintesi della eumelanina e pertanto nella sua forma dominante porta alla pigmentazione nera mentre nella forma recessiva diminuisce la pigmentazione nera a favore del rosso. La copertura con pelo nero può interessare uniformemente il mantello degli equini oppure può essere localizzata solo in alcune regioni del corpo ed essere assente in tutte le restanti parti. Il gene Agouti interviene nel regolare la distribuzione della sintesi della eumelanina e pertanto si esplica solo in presenza della forma dominante del gene Extension. In particolare la presenza dell’allele dominante dell’Agouti (A) comporta la limitazione di peli neri ad alcune regioni definite del mantello, mentre l’allele recessivo (a) non restringe l’estensione del nero. Pertanto negli animali omozigoti per il gene Extension dominante e Agouti recessivo il mantello sarà uniformemente nero. In associazione con i geni che definiscono i colori base del mantello intervengono altri geni responsabili fondamentalmente della diluizione della pigmentazione di base e pertanto ampliano la gamma di colori dei mantelli in termini di intensità della colorazione. Cream dilution: comporta le colorazioni dorate del mantello in quanto interviene prevalentemente nella diluizione della feomelanina (colore rosso) Dun: l’allele dominante porta alla diluizione di entrambe le forme della melanina; produce mantelli caratterizzati per testa nera e presenza di bande scure nella schiena, nelle spalle e nell’estremità degli arti. Champagne: oltre alla diluizione di entrambi i pigmenti comportano la comparsa di maculatura grigia nella pelle e riflessi metallici nel pelame Silver(pomellato): ha un effetto minore nella diluizione della feomelanina e produce una colorazione argentata sulla groppa e sulla coda. bianco: in questi animali è assente qualsiasi pigmentazione nel pelame e nella cute ma gli occhi sono generalmente neri o marrone. Il bianco nei mantelli equini è risultato dell’interazione di una serie di geni che per interazione comportano l’estensione del bianco a tutto il corpo. roano: peli bianchi frammisti a peli di altro colore; in questi casi il mantello dei puledri ha composizione simile agli animali con il gene Grey, tuttavia si differenziano perché il rapporto fra peli di colore diverso non varia con l’età. I peli bianchi rappresentano circa il 50% del pelame nel tronco dell’animale mentre la testa e la parte distale degli arti ha una minore presenza di peli bianchi per cui sono di colorazione più scura. tobiano: si tratta di mantello con base di colore (nero, rosso e combinazioni) con presenza di chiazze bianche. caratteristiche sono: i quattro arti interamente bianchi, macchia bianca, estesa e raramente simmetrica, che incrocia la linea dorsale, coda spesso di due o più colori overo: la presenza di maculatura bianca è inferiore rispetto al tobiano, gli arti hanno estesa presenza di bianco, la macchia bianca dalla regione ventrale di porta in alto e raramente oltrepassa la linea dorsale, il bianco è presente anche nella testa con maculatura spesso asimmetrica leopard: diffusa presenza di macchie con colore roano, le macchie possono essere più o meno estese e di forma più o meno regolare. La maculatura interessa anche la cute e il colore bianco o striato degli zoccoli. La maculatura seppure presente alla nascita si rende man mano più evidente fino all’età di 5 anni circa. Il colore dei mantelli dei suini La gran parte delle osservazioni sui colori dei mantelli dei suini sono ottenute da esperimenti che studiavano altri aspetti genetici di rilievo economico dell’allevamento suino. Pertanto, essendo osservazioni secondarie lasciano ancora non ben definite le conoscenze genetiche alla base delle colorazioni del mantello dei suini. La base genica di gran parte dei mantelli suini trova spiegazione nell’interazione di distinti loci: extension (locus E), bianco dominante (locus I), cinghiatura bianca (locus Be) e Hereford (locus He) Anche nei suini è l’allele extension il principale regolatore del colore del mantello. Nel tipo“selvaggio” la colorazione del mantello è data dalla presenza contemporanea di pigmento rosso (allele recessivo “e”) e nero (allele dominante “E”). Anche nei suini esistono mantelli caratterizzati da presenza di maculature di colore più scuro rispetto alla colorazione base. La base genica della presenza di maculature è data da mutazioni nel locus Extension, localizzato nel cromosoma 6 dei suini. L’allele I (inhibition of colour) è responsabile dell’assenza di pigmento sia nero che rosso o giallo. Nei suini sono stati individuati 4 alleli per il Kit-locus “bianco dominante”: - recessivo i responsabile del colore normale; - semidominante IP per il fenotipo maculato; - dominante I per fenotipo con assenza di pigmento; - dominante IBe per il fenotipo dominante con cinghiatura. Nelle razze suine “bianche” (Yorkshire, Large Withe e Landrage) generalmente si ha la presenza omozigote dell’allele dominante (II). Per contro nelle razze colorate (Berkshire, Poland-china, Large Blak, Duroc e Pietrain) si ha la presenza in omozigosi dell’allele recessivo (ii). L’incrocio fra razze bianche e razze scure (Large Black) porta ad animali con mantelli che presentano estese macchie bluastre (setole nere su cute bianca), mentre gli incroci fra razze bianche e Pietrain sono perfettamente bianchi. La base genica dei suini caratterizzati da macchia bianca che interessa la regione rostrale della testa è data dall’azione dominante dell’allele He. La presenza di questo carattere nelle razze europee è fatto risalire agli incroci con razze suine provenienti dalla Cina. Il locus Be codifica per la presenza fenotipica della banda (cinghiatura) bianca che avvolge gli animali. Tale locus è presente nella forma dominante in diverse razze suine europee (Hampshire, Cinta Senese) Il colore dei mantelli degli ovini Il colore del mantello degli ovini oltre che essere condizionato dai meccanismi che regolano la sintesi dei pigmenti nei melanociti e influenzato in maniera piuttosto determinante dalle caratteristiche della struttura del pelame. In generale le fibre originate dai follicoli primari sono potenzialmente pigmentati di scuro, mentre le fibre dei follicoli secondari hanno meno possibilità di avere colorazione scura. Questo comporta che nelle pecore siano rari i mantelli con colorazioni scure, questo evidentemente è maggiormente osservato nelle razze caratterizzate da lana con struttura fine o media mentre appare meno vero per razze ovine con lana a fibra grossa. Uno dei loci fondamentali per la definizione del colore del mantello degli ovini è il locus Agouti. Questo locus ha diverse varianti alleliche che ne fanno uno dei loci più complessi nel definire il colore degli ovini. Il locus Agouti fa venire meno la sintesi della eumelanina per cui il solo pigmento sintetizzato è la feomelanina. Negli ovini è abbastanza frequente l’inversione del tipo di pigmentazione, per cui le regioni che sono eumelaniche in un tipo di mantello possono essere feomelaniche in un altro e vice versa. L’azione dell’allele Agouti porta all’espressione delle aree feomelaniche su background eumelanico. Questo comporta che le regioni bianche o pallide del mantello prevalgano su quelle scure. L’allele dominante nel locus Agouti è il “White” che pertanto definisce la maggior parte dei fenotipi bianchi (feomelanici). L’allele Agouti recessivo è portatore del fenotipo eumelanico completo. Fra i mantelli completamente bianchi e quelli interamente neri esiste una vasta serie di mantelli dove prevale una o l’altra pigmentazione. Altro locus di particolare importanza nella definizione del colore del mantello degli ovini è quello indicato come “Extension”. Questo locus codifica per un gruppo di 7 recettori dell’alfa-MSH. l’interazione fra il locus extension e il locus Agouti è determinante nel definire il colore del mantello. L’allele dominante dell’Extension è il Black, questo allele comporta mantelli uniformemente neri. La prevalenza dei mantelli bianchi nelle regioni dove è la lana bianca quella preferita è dovuta al fatto che gli allevatori hanno spinto la selezione verso animali privi dell’Extension dominante. Altri loci sono responsabili della differente tonalità del colore dei mantelli; altri loci ancora regolano la presenza di macchie bianche indipendentemente dal colore del mantello. Classificazione dei mantelli I colori fondamentali per definire il colore dei mantelli sono: bianco, rosso e nero. Per tutte le specie i mantelli sono classificabili in: - Semplici: peli di un unico colore - Composti: peli di due o più colori - Pezzati: presentano macchie di peli di colore differente da quello di base Sul colore del mantello influiscono altri fattori: età dell’animale, stato di salute, sesso e condizioni ambientali. mantelli degli equini Il colore del mantello è un carattere individuale, che raramente definisce la razza di appartenenza, la denominazione del mantello può in alcuni casi essere condizionata oltre che dal colore del pelame anche dal colore dei criniera, della coda e delle estremità dell’animale Mantelli semplici: - Nero o morello: i peli e crini sono tutti neri - Sauro (sorrel): i peli e crini sono tutti rossastri (varie tonalità) - Bianco: peli esclusivamente bianchi su pelle bianca o rosa Mantelli composti con colori separati: - Sorcino: mantello grigio con criniera, coda e estremità distale degli arti neri o grigio più scuro - Baio: mantello rosso, più o meno carico, con criniera, coda e estremità distale degli arti neri o marrone intenso Mantelli composti di due colori mescolati: - Grigio: mantello costituito da peli bianchi e neri mescolati in proporzioni diverse e variamente distribuiti nel corpo - Ubero: mantello formato da peli bianchi e rossi mescolati, i crini mescolati di bianco e nero o di altro colore Mantelli composti di tre colori mescolati: - Roano: mantello costituito da peli rossi, neri e bianchi mescolati, la coda e le estremità sono nere Mantelli pezzati: Per la denominazione corrente, se in genere prevale il colore bianco, il mantello è indicato come “pezzato nero”; “pezzato rosso”, pezzato ubero a seconda del colore delle pezzature sia nel caso in cui il nero, il rosso prevalga sulle macchie bianche i mantelli sono denominati rispettivamente come “nero pezzato” o “rosso pezzato” . L’esatta descrizione del mantello dei cavalli è particolarmente utile anche per l’identificazione dell’animale, sono utili le descrizioni di particolarità di colorazione che riguardano alcune sedi fisse del corpo. Macchie bianche alla fronte pochi peli bianchi senza una forma definita della macchia: Fiore: macchia piccola con contorni irregolari. Pallottola di neve: macchia rotondeggiante. Pallottola di neve e traccia di lista: macchia rotondeggiante leggermente allungata. Stella: macchia a raggi più o meno regolari. Lista: striscia che scende dalla fronte fino alle narici. Bella faccia: macchia estesa sui due lati della faccia. Mascherina: quando il bianco interessa tutta la faccia. Bovente in bianco: quando la macchia interessa le narici, le labbra e il mento. Particolarità del tronco: Riga o striscia di mulo: striscia più scura del resto del mantello che si estende dal garrese fino alla base della coda. Riga mulina crociata: quando la striscia scura si prolunga su una o entrambe le spalle. Particolarità degli arti:Le balzane sono macchie bianche degli arti che a partire dall’attaccatura dello zoccolo interessano l’arto per estensione differente. Traccia di balzana: abbraccia non completamente la corona alla base dello zoccolo. Principio di balzana: abbraccia completamente la base dello zoccolo. Piccola balzana: interessa tutta la pastoia ma non arriva al nodello. Balzana: sorpassa il nodello. Grande balzana: arriva a metà altezza dello stinco mantelli bovini Per molte razze bovine il colore del mantello rappresenta un carattere etnico seppure siano presenti differenze individuali che interessano soprattutto la gradazione dei colori presenti nel mantello. Mantelli semplici -Bianco: peli bianchi che ricoprono pressoché interamente il mantello su pelle più o meno chiara. il colore dei peli è in diverse gradazioni e ne definiscono le caratteristiche di alcune razze: ^ Bianco porcellana:peli bianchi con riflessi porcellanati dati dalla pelle scura(Chianina, Marchigiana). ^ Bianco crema: peli bianco crema su pelle chiara (Charolaise). -Rosso: pelame in diverse gradazioni di rosso, distribuzione uniforme del colore o con gradazione più scura in alcune regioni del corpo. ^ Rosso ordinario: pelo rosso che ricopre in maniera uniforme tutto il corpo (Reggiana, Rossa Danese, Devon). ^ Rosso fulvo: con pelame di tonalità giallo-rossastra (Limousine). ^ Rosso –bruno ordinario: peli marroni con sfumature più chiare nella linea dorsolombare e nel piatto delle cosce (Bruna Svizzera). - Nero: mantello interamente nero (Aberdeen Angus). Mantelli composti di due colori mescolati -grigio: miscuglio di peli neri e bianchi, con distribuzione diseguale nelle diverse parti del corpo, in genere più scuro nel collo, nelle spalle e nella faccia esterna delle cosce.(certi soggetti di razza Bruna, vacche di razza Romagnola e Marchigiana, tori di razza Romagnola e Maremmani) Mantelli pezzati: Generalmente si tratta di pezzature di diverso colore su base bianca del mantello, i più frequenti sono il “pezzato nero” (Holstein) e il “pezzato rosso” (Simmenthal, Pezzata Rossa Italiana) Mantelli suini Solo in poche razze la superficie corporea è perfettamente ricoperta dalle setole per cui sul colore del mantello ha notevole peso la pigmentazione della pelle. Nei suini il colore del mantello è spesso un carattere etnico, i mantelli semplici più comuni sono: Bianco con cute rosa (Large Withe, Landrage), rosso con cute scura (Duroc), nero su cute molto scura, (Large Black). I mantelli pezzati sono meno diffusi le pezzature spesso costituiscono caratteristica di razza e possono interessare definite regioni del corpo o possono essere variamente distribuite: -Cinghiatura: colorazione del garrese e degli arti anteriori difforme dal resto del corpo (Cinta Senese, Hampshire) -Pezzatura nera, grigiastra o rossa su tutto il corpo (Pietrain) Mantelli ovini Il pelame che ricopre gli ovini è costituito da peli che differiscono per costituzione, diametro e lunghezza (giarra, lana) la lana origina dal sottopelo dei mantelli, l’evoluzione unitamente alla selezione hanno portato a farla prevalere sui peli. la lana differisce dal pelo per struttura (assenza di midollo e diametro inferiore) e perché non è interessata da processi di muta in quanto è a crescita indeterminata. il mantello degli ovini è meglio definito dal termine “vello” la lunghezza della fibra definisce ovini in razze a: lana lunghissima (15-20cm), lana lunga (9-14 cm) e lana corta (meno di 8 cm). la copertura del corpo con lana può riguardare parte del corpo o quasi l’intera superficie cutanea. In genere la testa, le orecchie le regioni ventrali del collo e del tronco e le parti distali degli arti sono ricoperte da peli. Il colore del vello può essere: bianco (Sarda), grigio (Massese), nero, rossiccio, pezzato. esistono razze in cui al colore chiaro del vello sono associati i peli di altro colore che ricoprono la testa e gli altri (Suffolk, Comisana) Mantelli caprini Il mantello è costituito da peli in genere piuttosto ruvidi e grossolani di differente lunghezza. I colori di mantello prevalenti sono: -Bianco rosato: peli bianchi su cute rosa (Saanen) -Bianco giallastro: (Girgentana) -Bruno o camosciato: (Camosciata delle Alpi) -Marrone scuro (Garganica) -Nero (Nubiana) Alcune particolarità dei mantelli: -Testa e collo neri della razza maltese -Macchie scure attorno agli occhi della razza Girgentana -Riga nera dal garrese all’attaccatura della coda delle capre Camosciate