DE ARTIS MEDIETATE VEL Пερί του τέχνης μεταξύ Ossia il carattere intermediario della tecnica di Andrea Beghini Liceo ginnasio statale “G.Chiabrera” 2008 1 Indice: 1. Introduzione: un problema complesso. 2. I Greci e la τέχνη: tra mito e società. 3. La questione della tecnica: prospettive filosofiche e scorci artistico- letterari. 4. L’età della tecnica: lo smarrimento del senso. 5. Dal formalismo al Gestell. 6. De artis medietate. “Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditato, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo dalla nostra epoca” MARTIN HEIDEGGER, L’abbandono. 2 DE ARTIS MEDIETATE VEL Пερί του τέχνης μεταξύ Ossia il carattere intermediario della tecnica Introduzione: un problema complesso. Già Sofocle nel primo stasimo dell’Antigone scrisse: “πολλά τά δεινά κουδέν ανθρώπου δεινότερον πέλει”1 dando così voce ad un’inquietudine di fondo, un brivido sottile di serpeggiante irrazionalità rispetto alla figura di un’umanità ambigua, dai moti spesso incontrollabili che oscillano da una polarità all’altra, dal vertice di positività all’estremo di negatività. Proprio questo carattere ambiguo si amplifica nelle attività tramite cui l’uomo si rapporta con il mondo, attività che trovano a loro volta espressione massima nella tecnica intesa sia come progresso tecnologico, sia più sottilmente come quel pensiero tecnico che presiede allo svolgimento delle attività umane (a tale proposito il Dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano la definisce come “insieme di regole adatte a dirigere efficacemente un’attività qualsiasi”2). Dunque, così come l’agire dell’uomo richiede una riflessione etica sull’agire, la tecnica, che si presenta come un’aggrovigliata matassa di problematiche che riguardano l’agire e l’essere stesso dell’uomo, non richiede a sua volta una riflessione sulla tecnica? La tecnica, intesa nei due sensi prima enunciati, offre all’uomo, cioè al soggetto, la facoltà di intervenire e, in un certo senso, di realizzarsi costruttivamente producendo, regolando e modificando tanto il pensiero- se è tecnica di pensiero- quanto la realtà - se è tecnologia-. Parimenti l’effetto prodotto, regolato, modificato interviene e muta il modo proprio di essere dell’uomo. Pertanto, con questa trattazione, si intende esaminare le problematiche che la tecnica ha sollevato nel tempo e solleva tuttora, analizzando alcuni scorci del pensiero occidentale. Partendo così dalle sue radici, l’alveo della cultura greca, si arriverà ad esaminare, in tempi più recenti nell’ambito della cosiddetta “questione della tecnica”, le inquietudini che percorsero gli animi a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo. Ricorrendo poi a interpretazioni più recenti, si cercherà di definire le implicazioni che l’età della tecnica riporta sul modo stesso che l’uomo ha di comprendere il mondo e la propria umanità. Per esemplificare queste problematiche a livello di tecnica di pensiero, si 1 “Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo” in SOFOCLE, Antigone, trad. di Raffaele Cantarella, Mondadori, 1991, Milano. 2 NICOLA ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, p. 1070, terza edizione aggiornata e a ampliata da Giovanni Fornero, UTET, 1998, Torino. 3 proporrà una breve analisi del formalismo hilbertiano, mentre, per dimostrare come la portata della questione della tecnica abbia raggiunto una dimensione epocale, si approderà alla teoria heideggeriana del Gestell. In conclusione, anche per dare chiarezza di un titolo forse enigmatico, proporrò, attraverso un’operazione di estensione teoretica del problema, la mia interpretazione del senso della tecnica. I Greci e la τέχνη: tra mito e società. Lapidaria è l’affermazione del Prometeo di Eschilo: ”I mortali possiedono tutte le arti grazie a Prometeo”3. Il grande tragediografo ateniese, nel riprendere il mito del Titano in quella che doveva essere una trilogia legata comprendente, oltre al pervenuto Пρομηθεύς δησμώτης, anche un Пρομηθεύς πυρφόρος e un Пρομηθεύς λυόμενος, accetta la tradizione già esiodea che fa di Prometeo l’autore del furto del fuoco agli dei. In verità le versioni del mito sono anche in questo caso molteplici e di ardua interpretazione. Esiste, infatti, anche una tradizione mitologenica che individua l’inventore dell’arte di conservare e riprodurre il fuoco in Hermes. È il caso dell’Inno omerico ad Hermes: …Là, dopo aver ben pasciuto d’erba le vacche dal profondo muggito, e averle spinte tutte insieme nella stalla mentre ruminavano il trifoglio e il cipero rugiadoso, raccolse molta legna, e sperimentò l’arte del fuoco. Prese uno splendido ramo d’alloro, e lo fece girare in un ramo di melograno, tenendolo saldamente fra le mani: ne emanava un caldo soffio. In verità Hermes per primo rivelò il fuoco, e gli strumenti per accenderlo. Raccolse molta legna asciutta e dura, e in un fosso scavato nel terreno la accumulò in abbondanza; e lampeggiò la fiamma diffondendo per largo tratto la vampa del fuoco, che intensamente ardeva.4 Il giovane dio presenta le caratteristiche del trickster, della deità scherzosa e ambigua che funge da intermediario tra il mondo degli dei e quello degli uomini e che ora si arma dell’inganno e dell’astuzia ora viene incontro alle esigenze vitali dell’umanità. Il carattere ambiguo proprio di Hermes, che è ad un tempo dio protettore dei ladri e solenne psicopompo, è comune al personaggio mitico di Prometeo: da un lato, egli è il sovversivo, il non consenziente per eccellenza rispetto a un ordine universale che è volontà di Zeus e che si esprime nell’implacabile Necessità; dall’altro, egli è lo spirito creatore mosso da un incontenibile amore per l’umanità sofferente. L’ambigua figura del Titano ha portato nello sviluppo della letteratura occidentale a due filoni interpretativi del suo significato, uno positivo e uno negativo. Quello positivo vede in Prometeo l’entusiastica vitalità di una fantasia libera e creatrice, quasi artistica, e il simbolo stesso dell’universale condizione 3 4 ESCHILO, Prometeo incatenato, v. 507, trad. di Monica Centanni, Mondadori, 2007, Milano. Inno a Hermes IV, vv. 105- 114, trad. di F. Cassola. 4 umana. Tutto il genere umano, come afferma Werner Jaeger in Paideia, si sente rappresentato in quel possente Titano legato eternamente alla parete del monte Caucaso, ed ogni stirpe della terra, ogni popolo e nazione, ogni singolo uomo può sentire su di sé le catene della sofferenza di Prometeo, perché in Prometeo il dolore umano “si immilla”. Da qui l’intuizione che doveva essere profetica rispetto al messaggio cristiano: solo l’Ecce Homo, ossia la divinizzazione del dolore, avrebbe acquisito altrettanta e superiore forza simbolica. Il filone negativo vede in Prometeo l’eterna sconfitta dell’uomo: il Titano, violando l’ordine cosmico, libera un flusso di forze arcane e primordiali che non è in grado di controllare rimanendo così travolto dal turbine dirompente della sua stessa hybris che lo ha indotto ad elevarsi oltre la sua propria misura. Se la lettura positiva celebrava il Titano nella sua sconfitta, la lettura negativa vede solo l’annichilimento che deriva dalla sconfitta: Prometeo, ribelle, ha voluto infrangere l’autorità assoluta del padre degli dei, ha voluto mettere alla prova l’Olimpio in una gara d’astuzia, ma è risultato sconfitto. Se, infatti, Prometeo può contare su un’intelligenza fatta di calcolo e di ingegno, Zeus ha dalla sua parte la forza della necessità; così anche Prometeo, come Agamennone, dovrà piegare il capo sotto il giogo della Necessità tanto da arrivare a riconoscere che: “La mia arte è di gran lunga meno potente della necessità”5. allegoria Goethe ha espresso con una mirabile una condizione analoga a quella del Titano nella ballata dell’Apprendista stregone: il giovane negromante, in assenza del maestro, cerca di evocare le forze magiche come più volte ha visto fare dal suo mentore. L’esito sarà catastrofico: la magia scatenata dal giovane apprendista presto sfuggirà al suo controllo e si ritorcerà contro di lui, solo l’intervento del maestro potrà placare il risultato della spregiudicatezza dell’allievo. Il vecchio maestro stregone S’è finalmente allontanato! Ed ora vorrei che i suoi spiritelli Facessero un pochino a modo mio. Mi ricordo delle parole e dei gesti, e come li usava, e con la forza dello spirito so fare miracoli anch’io. … che cascata spaventosa! Signore e maestro, ascolta il mio grido!Ecco viene il maestro! Padrone il momento è grave. Gli spiriti che ho chiamato, 5 ESCHILO, Prometeo incatenato, v. 514, trad. di Monica Centanni, Mondadori, 2007, Milano. Dove “arte” è appunto traduzione del termine τέχνη. 5 non me ne posso liberare.6 L’ambivalenza di Prometeo, che è ambiguità, come si è visto, per lo più morale, si rintraccia anche nella possibile origine del mito. Sèchan concorda con Wilamowitz nel distinguere due tradizioni cultuali: quella di Pròmethos, divinità ionico- attica delle industrie del fuoco, vasaio e metallurgo venerato nei Prometheia; e quella del Prometheus beoticolocrese che è propriamente il Titano ribelle. Anche per quel che riguarda l’origine del nome gli studiosi non concordano all’unanimità; tuttavia, in questo caso, nonostante tesi come quelle di Curtius e Kuhn che farebbero derivare “Prometeo” dal sanscrito vedico pramantha, termine designante il bastone con cui ci si procurava il fuoco per frizione, i più propendono per ricollegare il nome proprio alla radice metis con il significato ben noto di “colui che arriva prima col pensiero”, rispetto a “colui che pensa dopo”, il fratello Epimeteo. Sarebbe comunque dalla fusione dei due miti sopra citati che Eschilo e, prima di lui, Esiodo avrebbero attinto il proprio materiale facendo entrare Prometeo nel novero delle divinità legate all’arte del fuoco (Atena ed Efesto) che a sua volta contraddistingue la categoria sociale degli artigiani e più in generale i mestieri specializzati praticati al di fuori delle mura domestiche. Ed è Esiodo il primo a segnalare l’ambivalenza morale del “dio intelligente”7 attribuendogli i due epiteti “valente figlio di Iapeto” e “essere dai pensieri scaltri”, in contrapposizione a Zeus che, con i suoi matrimoni con Metis e Themis, è il garante ufficiale dell’ordine e della giustizia. Esiodo, inoltre, distingue chiaramente le due frodi di cui Prometeo si fa autore e i loro esiti nefasti per il destino dell’umanità: la spartizione del cibo e il furto del fuoco. Prometeo, nel sacrificare un grande bue agli dei, separò, all’insaputa di Zeus, le ossa, che furono immolate insieme al grasso, dalle carni, che furono nascoste per la stirpe degli uomini. L’audace ed empia spartizione del Titano provocò la spartizione tra la genia degli dei e quella degli uomini, tra la razza degli immortali e quella dei mortali. La seconda frode, il ben noto furto del fuoco, determinò a sua volta un nuovo radicale mutamento della condizione umana: il fuoco, padre di tutte le tecniche, segnò l’indipendenza degli uomini dai ritmi naturali ma, di conseguenza, anche la loro dipendenza dal lavoro tecnico che subentrò allo spontaneo generarsi dei frutti della terra; segnò la fine dell’età dell’oro e l’inizio di un processo di decadenza che si sviluppa nel corso del mito delle cinque età fino all’età del ferro, quando gli uomini sono ormai destinati all’infelice vecchiaia, alle seduzioni del bel male, che è la donna (Pandora), e al sudore del lavoro. Il lavoro, in particolare, è l’immediata conseguenza -positiva e negativa perché libera l’uomo e lo condanna alla sua eterna “mortalità”- dell’ introduzione delle tecniche che derivano dall’arte del fuoco. Il lavoro, infatti, è il termine medio che consente 6 7 J. W. GOETHE, L’apprendista stregone, trad. di Liliana Scalero, da Opere V, Sansoni, 1961, Firenze. J. P. VERNANT, Mito e pensiero presso i Greci (Il lavoro e il pensiero tecnico), Einaudi, 1978, Torino. 6 di ripristinare un equilibrio fra gli dei e gli uomini poiché “grazie al lavoro gli uomini hanno grandi armenti e son ricchi;/ e lavorando, sarai molto più caro agli immortali”8. Il mito di Prometeo è ripreso, in chiave filosofica, da Platone nel Protagora: il sofista, dal cui nome deriva il titolo del dialogo, espone a Socrate la versione del mito per cui Epimeteo, il fratello stolido del Titano, nel distribuire le qualità agli esseri viventi, si sarebbe dimenticato degli uomini. Per riparare al danno, Prometeo avrebbe sottratto alle officine degli immortali il fuoco, maestro di tutte le tecniche. Tuttavia, tra le arti che derivano dal fuoco non sono comprese né l’arte politica né l’arte militare che sono conoscenze esclusive di Zeus. Dovrà essere il padre degli dei a concedere agli uomini, tramite Hermes, l’arte di governare la città. Già da questo aspetto si può osservare un’evidente incompatibilità tra l’impegno attivo nella dimensione della πόλις e l’esercizio di un mestiere, tra la funzione politica e la funzione tecnica. È ben noto, infatti, come lo spirito aristocratico di Platone inducesse il filosofo ad un rifiuto della concezione politica di Pericle e di Protagora, ossia di una democrazia aperta alla partecipazione alla vita politica da parte di tutti i cittadini, artigiani compresi. Così Protagora, convinto dell’efficacia del modello paideutico sofistico, afferma senza riserve: “Adeguatamente, Socrate, ti è stato dimostrato, in conclusione, come almeno mi sembra, che non a torto i tuoi concittadini permettono che un fabbro, un calzolaio, chiunque si faccia parte diligente nelle deliberazioni politiche, e che non a torto la virtù sia insegnabile e si possa acquisire.”9 Per Platone la tecnica ha una funzione meramente sociale che non contempla la concezione dell’uomo politico. La tecnica è, infatti, essenziale per lo sviluppo della società umana: la stessa specializzazione tecnica ha consentito in tempi remoti l’associazione degli individui in comunità organizzate dove ciascuno riveste una funzione specifica e ad un tempo indispensabile per il funzionamento della dimensione collettiva. La rinuncia alle attività tecniche riporterebbe l’uomo ad una condizione di primitiva solitudine e non renderebbe possibile l’esercizio di quelle nobili funzioni politiche (nel senso di “legate alla realtà della πόλις”) cui l’uomo è votato. E tuttavia, Platone, riflettendo quel predominante interesse degli Elleni per la teoresi, non riconosce, come fece Esiodo -caso eccezionale nella Grecità-, la tensione del lavoro come sforzo umano, né l’artificio tecnico come invenzione intelligente, né il pensiero tecnico nel suo ruolo formatore della Ragione. Per Platone la tecnica riveste un gradino inferiore dell’intelligenza umana, anzi “si trova in lui la cura di separare e d’opporre l’intelligenza tecnica e l’intelligenza, l’uomo tecnico e il suo ideale d’uomo, così come egli separa e oppone nella città la funzione tecnica e le altre due.”10 Questo porta ad alcune brevi considerazioni, sulla scia dell’analisi proposta da Vernant nel testo citato in nota, sulla concezione platonica della società “tripartita” esposta 8 ESIODO, Le opere e i giorni, vv. 308-9, trad. di G. Arrighetti, Monadori, 2007, Milano. PLATONE, Protagora, 324 c, trad. di Francesco Adorno, Laterza, 2003, Bari. 10 J. P. VERNANT, Mito e pensiero presso i Greci (Il lavoro e il pensiero tecnico), p. 280, Einaudi, 1978, Torino. 9 7 nel IV libro della Repubblica. Nel distinguere le tre classi11, quella dei filosofi o governanti, quella dei guerrieri o custodi, e quella dei lavoratori e in particolar modo degli artigiani ( i depositari della funzione tecnica), Platone attribuisce a ciascuna di esse una virtù peculiare. Alla prima classe spetta la “saggezza” (επιστήμη o σοφία), alla seconda classe spetta il coraggio (ανδρεια); quando viene il momento di indicare la virtù propria della terza classe, Platone si limita a riconoscerle quell’unica qualità che è comune a tutte le classi: la σωφροσύνη, la moderazione. Si esprime così in modo manifesto il rifiuto di accordare una virtù positiva a coloro la cui funzione sociale è costituita dal lavoro, cioè dalla conditio sine qua i membri delle altre due classi non potrebbero espletare le loro specifiche funzioni politiche per ragioni di mera sopravvivenza quotidiana. Per cercare di comprendere quale ruolo avesse il lavoro nella società della Grecia antica, quali rapporti esistessero tra il lavoro e le altre attività umane e quali contenuti psicologici si possono rintracciare nella concezione che gli Elleni avevano del lavoro è possibile incominciare col prendere in esame i termini che i Greci utilizzavano. Emerge, infatti, che la ricchezza della lingua greca non dispone di un termine unitario equivalente al nostro “lavoro”: pònos , ad esempio, si riferisce a tutte quelle attività che implicano fatica e sforzo (equivalente al latino labor), mentre il verbo ergàzesthai si riferisce a due ambiti fondamentali: al lavoro dei campi, tà érga, e più in generale a tutte le attività che consentono di produrre qualcosa, tò érgon, in funzione di una propria virtù, areté. Le parole che invece derivano dalla radice indoeuropea tek-, come la nostra “tecnica”, alludono piuttosto alla sfera della fabbricazione, a una proiezione invasiva dell’oggetto artificiale nella realtà, all’attività dell’artigiano che compie un’operazione che rientra nell’ordine del verbo poiein (il medesimo utilizzato per i poeti) e che si contrappone al pràttein. Infatti, mentre il primo verbo esprime una tensione all’oggetto prodotto, il secondo è tutto concentrato sull’attività fine a se stessa e non riferita a qualche cosa altro da sé. La differenza che intercorre tra pràttein e poiein è riconducibile a quella che in italiano sussiste tra “agire” e “fabbricare”, dove “agire” è in genere caricato da uno spessore di positività etica. Tali sottigliezze linguistiche suggeriscono gradi di differenza tra le singole attività lavorative ben più profondi della tripartizione platonica, anche perché legati alla struttura reale della società. Esiodo, negli Erga, distingue, tra le attività legate alla terra, l’arboricoltura dall’agricoltura. Tale distinzione non avviene tanto su base economica, quanto per ragioni religiosocultuali. L’arboricoltura rappresenta la piena armonia dei rapporti tra uomo e natura: essa è tipica dell’età dell’oro in quanto è la terra a offrire spontaneamente i suoi frutti e all’uomo non resta altro da fare che attendere il ciclo delle stagioni per il raccolto. In questa ciclica 11 Tengo a precisare l’uso storicamente improprio, ma funzionale ai fini della chiarezza espositiva e avvalorato da una lunga consuetudine di traduzione, del termine “classe” appartenente piuttosto al lessico economico-sociale tardo settecentesco e poi socialista ottocentesco. 8 ripetitività dei ritmi naturali si possono leggere le movenze di un culto della natura incarnata in divinità come le Horai e le Charites, completamente armonizzate con il vivere degli uomini. Da questa condizione tipica dell’età dell’oro, l’umanità, come si è visto nel mito di Prometeo, è destinata a precipitare nell’età del ferro, quando dovrà procurarsi di che vivere bagnando di sudore i campi. E questa è l’attività in cui Esiodo si riconosce: l’agricoltura. Essa, come già si è accennato, implica rapporti di nuova natura tra gli uomini e gli dei: Demetra, dea del raccolto e delle messi, non interviene elargendo i doni della terra agli uomini, ma assicura un ordine regolare cui gli uomini devono contribuire con la fatica del lavoro nei campi. È significativo che tale lavoro agricolo non richieda nessuna competenza tecnica particolare, nessuna preparazione, in quanto esso è la dimostrazione della virtù con cui gli uomini dosano e concentrano le proprie forze, è una “forma di vita morale”12 e pertanto rientra nella dimensione del pràttein, dell’agire fine a se stesso con lo sguardo sempre rivolto alla comunione con la divinità. Lo stesso concetto è ripreso da Senofonte nell’Economico dove il lavoro della terra è esplicitamente qualificato, al pari dell’attività guerresca, come manifestazione di un certo tipo di areté, tanto che esso contribuisce alla salute e alla vigoria del fisico oltre che della mente13. Alla guerra e all’agricoltura, dunque, non si addice il termine téchne, che è l’indice di un sapere specializzato dai tratti quasi esoterici, poiché nella guerra come nell’agricoltura tutti possono dimostrare il loro intimo valore e tutti percepiscono l’universale dipendenza dalle forze divine. In questo aspetto sta il contenuto cultuale della religiosità arcaica: un sentimento che riconosce il legame reciproco con la divinità e che rifiuta di intervenire, come invece fa la tecnica degli artigiani, sulla natura per modificarla o riprodurla. L’evoluzione del pensiero tecnico procede, pertanto, parallelamente all’evoluzione del pensiero razionale-positivo14, tanto che quest’ultimo arriva a determinare una radicale revisione della stessa concezione del lavoro agricolo: con il passare del tempo l’attività manuale dei campi sarà dequalificata a lavoro servile proprio perché non necessitante di particolare predisposizione che non sia quella fisica. Ma non si tratta soltanto di un’evoluzione del pensiero; entra in gioco, infatti, in questa mutata concezione, l’affermarsi di nuovi assetti socio-politici: si passa gradatamente dal nucleo della famiglia o del clan a quello della πόλις dove il lavoro della terra non può essere più considerato come l’attività fondamentale per un mantenimento “autarchico” ma solo come il tassello di un mosaico di più attività tecniche specializzate che dipendono e si sostengono le une con le altre. Il 12 J. P. VERNANT, Mito e pensiero presso i Greci (Il lavoro e il pensiero tecnico), p. 280, Einaudi, 1978, Torino. Tutta l’analisi sopra proposta intorno ai contenuti psicologici del lavoro presso gli antichi Greci fa riferimento allo studio di Vernant tratto dal saggio citato. 13 SENOFONTE, Economico, IV 24. 14 Credo sia opportuno precisare, sulla scia delle considerazioni di Jaeger in Paideia, che l’età arcaica non deve essere ritenuta al di fuori del pensiero razionale, poiché, se essa non fu caratterizzata da quelle forme che il pensiero acquisì nell’età classica grazie al contributo della filosofia, tuttavia contribuì alla genesi di tali forme in un processo di lineare e continua evoluzione. Non parlerei, pertanto, di pre-razionalità arcaica, quanto di proto-razionalità arcaica; tanto più che il pensiero razionale greco non poteva prescindere, ancora in età classica, da quel straordinario apporto interpretativoconoscitivo di una religiosità immanente che è il mito. 9 grande corpo della πόλις può funzionare economicamente e politicamente solo se, attraverso tutti i suoi membri, può coprire ogni campo d’azione. In questo modello ciascuno occupa il proprio posto senza poter essere sostituito da altri: ciò che accomuna tutti i cittadini dovranno essere le virtù morali e politiche che sono dono di Zeus. Non bisogna pensare, tuttavia, che presso i Greci l’attività tecnica e l’esercizio dei mestieri siano rivolti ad una produzione finalizzata al solo incremento della ricchezza. No, essi oscillano tra due poli: l’abilità, dynamis, dell’artigiano e il bisogno, chreia, dell’utente. Ossia rappresentano l’esercizio e il graduale miglioramento di un’abilità per soddisfare un particolare bisogno di un individuo altro da sé e la téchne in senso stretto è l’insieme delle modalità con cui l’abilità dell’artigiano si può esplicare nella fabbricazione di un oggetto non naturale. Questo significa che la téchne, come la potenza da cui ha origine, non è aperta ad un indefinito progresso, ma si esaurisce nei limiti che la rendono possibile: limite delle risorse e limite dei bisogni umani. L’artigiano greco, infatti, non ha alcun interesse ad intervenire al di fuori della portata delle esigenze naturali, chreiai, degli utenti in quanto non intende intervenire sulla natura umanizzandola, ma inserire la propria abilità nell’ordine naturale naturalizzandola. Tornando al mito di Prometeo, Jean Pierre Vernant osserva come l’interpretazione eschilea abbia tenuto conto di alcune componenti assenti nel testo platonico. Se nel Protagora alla tecnica veniva riservata una mera funzione morale, nel Prometeo incatenato le implicazioni tra tecnica e dimensione etica si fanno più strette. “L’intelligenza e la ragione, in quel che hanno di propriamente umano- scrive Vernant a proposito della tragedia- appaiono come tecniche: è la scoperta successiva delle arti che segna le tappe del loro progresso”15 Prima, avevano occhi e non vedevano, orecchie e non sentivano, ma come le immagini nei sogni vivevano confusamente una vita lunga, inconsapevole. Non sapevano costruire edifici, case all’aperto, non sapevano lavorare il legno: abitavano sottoterra come brulicanti formiche, in caverne profonde senza la luce del sole.16 Appare chiaro come Eschilo metta l’accento sull’originaria infirmitas del genere umano, così debole, immaturo, privo di autonomia spirituale e quindi tanto più necessitante di una fulgida guida che gli illumini la via della sapienza tecnica per vivere realmente nel mondo. Aggiunge Vernant: “In Eschilo si sente un orientamento morale e sociale differente e, parallelamente, la possibilità di integrare meglio il lavoro all’umano: certi tratti nel quadro dell’uomo rivelano l’importanza accordata al tecnico”17. Resta, però, rimarchevole la difficile modalità di accesso del tecnico al valore morale. Le stesse conseguenze cui la 15 J. P. VERNANT, Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi, 1978, Torino ESCHILO, Prometeo incatenato, vv. 447-453, trad. di Monica Centanni, Mondadori, 2007, Milano 17 J. P. VERNANT, Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi, 1978, Torino 16 10 tragedia approda mostrano una condanna del padre di tutte le tecniche piuttosto che una sua glorificazione. Sulla complessa interpretazione del mito di Prometeo già si è discusso in apertura di capitolo: resta da discutere, però, un aspetto direttamente generato dal contrasto tra la funzione tecnica e il valore morale. Dalla tragedia, infatti, emergono due atteggiamenti conoscitivi del mondo: il primo si basa sulla σοφία, ossia sulla saggezza che si fonda a sua volta sui due principi della morale delfico-solonica del nulla di troppo e del conosci te stesso; il secondo invece è rappresentato dal σοφίσμα, che è piuttosto lo stratagemma e che ha come suo mezzo le τέχναι. “Il termine σοφός è usato in tutta la tragedia in relazione a colui che si rende conto della situazione e conseguentemente si comporta con moderazione e assennatezza. Dal momento che il termine era impegnato in questo senso, esso non poteva essere usato per Prometeo. E nemmeno il termine σοφία viene usato in riferimento a Prometeo. Invece della coppia σοφός /σοφία per Prometeo viene usata la coppia σοφιστής /σόφισμα (…). Nemmeno in relazione alle arti che sono state date agli uomini Prometeo viene chiamato da Eschilo σοφός o a lui viene riconosciuta la σοφία. Le invenzioni sono dette al v. 459 σόφισματα (…). È interessante anche il fatto che Hermes equipari Prometeo al puledro che da poco è stato aggiogato e che mordendo il freno cerca di far forza e combatte contro le briglie. L’immagine, è facile rendersene conto, ha un chiaro contenuto ideologico (…). In conclusione, dunque, mentre il Coro si pone su una linea che è quella del riconoscimento della necessità e della σοφία, in quanto comportamento assennato, Prometeo invece si colloca su una linea che si contrappone a questa e si caratterizza per una sapienza di tipo pratico-conoscitivo”.18 Da una parte abbiamo Prometeo e il genere umano tutto, dall’altra il principio regolatore del cosmo; da una parte si trova il σόφισμα, un sapere tutto polarizzato sull’oggetto, sul mezzo, un sapere pratico-conoscitivo formale, esteriore. Dall’altra c’è la σοφία che è la saggezza della vita, o meglio l’arte di saper vivere intesa nella sua profondità eticospirituale. La σοφία è il riconoscimento dell’ordine universale del mondo e l’unica strada per vivere con esso in armonia. Tale strada, a sua volta, prevede due diramazioni complementari: una norma di esplorazione della coscienza che apra gli orizzonti dell’interiorità (conosci te stesso) e una norma di regolazione della coscienza e della vita che pratichi la rigorosa via di mezzo, l’unica via che, se non ripara del tutto, almeno attutisce le sferzate della Τύχη (nulla di troppo). Così, anche, Prometeo dovrà piegarsi al “giogo di necessità”19 e “convertirsi” all’esercizio della σοφία, riconoscendo al v. 514, come si è accennato in precedenza, l‘inferiorità della 18 19 V. DI BENEDETTO, Ideologia del potere e tragedia greca, Einaudi, 1978, Torino. ESCHILO, Agamennone, v. 218, trad. di M. Centenni, , Mondadori, 2007, Milano. 11 “sua” tecnica rispetto alla forza coercitiva della necessità e il Coro puntualizzerà:”Saggio è chi si inchina di fronte all’Inevitabile”20. Con ciò si è voluto evidenziare che l’introduzione della tecnica nella vita dell’individuo ha aperto una nuova dimensione al pensiero occidentale: essa pone nuove problematiche che confluiscono in complesse implicazioni sociali, psicologiche e che coinvolgono l’uomo fin nella sua più intima essenza, lo coinvolgono ontologicamente poiché intervenire, tramite la tecnica, sulla realtà significa trasferire qualcosa di sé in ciò che è altro da sé, stabilire un nesso profondo verso la dimensione dell’oggetto. Si è voluto evidenziare come la rosa di nuove problematiche fosse stata colta già dalla sensibilità intellettuale del popolo ellenico per quanto essa non avesse ancora avuto modo di manifestarsi come questione dell’essere quanto, piuttosto, come questione morale. La questione della tecnica: prospettive filosofiche e scorci artisticoletterari. In senso stretto la “questione della tecnica” si affaccia alla soglia del pensiero occidentale soltanto in quella congiuntura sociale politica e culturale, a cavallo tra la fine del diciannovesimo secolo e gli inizi del ventesimo, che, per le inquietudini che la percorrevano e che in qualche modo anticipavano il drammatico quanto inarrestabile volgere degli eventi, fu definita da Auden age of anxiety. Nella società di produzione di massa che portava con sé il lascito del pensiero positivistico e che si apriva alle nuove prospettive del capitalismo organizzato, l’individuo che smarrisce se stesso e il senso della sua esistenza nella potenza livellatrice e omologante della massa, l’individuo che perde la propria identità ripiegandosi sulla tecnica, indispensabile strumento del modello economico, quasi confondendo il proprio corpo con le braccia delle macchine, e infine l’individuo che perde la propria umana dignità riducendosi a puro mezzo in un razionale sistema di produzione furono solo alcune delle problematiche sollevate da una vera e propria reazione all’ottimismo tecnico scientifico del Positivismo. Se da una parte si trovavano i profeti della decadenza dell’Occidente che, come Spengler, annunciavano l’imminente morte della cultura occidentale ormai “civilizzata”, dall’altra si trovava chi come Husserl imputava il trionfo della dimensione tecnica a un tradimento delle funzioni della Ragione, ossia alla rinuncia alla dimensione puramente speculativa. Il mondo dominato dalla macchina è, secondo questa interpretazione, un mondo senz’anima, livellatore, mortificante: un mondo nel quale la quantità ha preso il posto della qualità e in cui il culto dei valori dello spirito è stato sostituito dal culto di valori strumentali e utilitari. Le principali conseguenze della “questione della tecnica” sono: l’assoggettamento del lavoro umano alle esigenze dell’automazione, che tende a fare 20 ESCHILO, Prometeo incatenato, v. 936, trad. di Monica Centanni, Mondadori, 2007, Milano. 12 dell’uomo un accessorio della macchina; e l’incapacità della tecnica di venire incontro ai bisogni estetici, affettivi e morali dell’uomo; quindi la sua tendenza a favorire o a determinare l’isolamento dei singoli individui e la loro reciproca incomunicabilità21. Il Positivismo, si è detto, aveva fatto della scienza la guida assoluta della condotta intellettuale umana in ogni aspetto e dimensione della conoscenza, della morale, dell’estetica e della religione. Il metodo sperimentale scientifico risultava applicabile tanto alle scienze cosiddette naturali, quanto alle nuove discipline scientifiche che si proponevano lo studio e l’esplorazione della condotta e della psiche degli individui (psicologia), o del loro comportamento nelle comunità organizzate (sociologia). Il mondo della cultura e dell’arte, almeno nella seconda metà dell’Ottocento, non stentò a manifestare il suo vivo interesse, se non un certo entusiasmo, per la nuova temperie culturale. Il desiderio di sondare scientificamente le possibilità minime, quasi particellari, dei mezzi e delle tecniche artistiche o letterarie e la volontà, erede della poetica della realtà del Romanticismo, di rappresentare il reale così come esso appare, senza alcuna finalità accessoria o interpretazione di fondo, sia essa morale, politica o sociale, portò ad esperienze quali quella del Realismo, soprattutto nell’ambito delle arti figurative, del Naturalismo francese in campo letterario e del Verismo in Italia (per quanto non si possa stabilire una netta scansione cronologica tra una corrente e l’altra). L’interesse per il vero secondo parametri di oggettività, impersonalità e scientificità procedeva parallelamente ai nuovi e sempre più precisi strumenti del progresso tecnologico. La fotografia, in particolare, segnò una vera e propria cesura nel destino delle arti: da una parte esautorò la pittura del compito di riprodurre mimeticamente il reale, aprendole la via alla volta di nuove sperimentazioni, dall’altra stimolò ulteriormente artisti e letterati a concentrarsi i primi sullo studio delle forme, delle luci e della materia (penso in modo particolare al pointillisme di Seurat), i secondi a tratteggiare sulla pagina del romanzo una realtà nitida e asettica quale quella della fotografia. Significativo è il giudizio programmatico di una nuova letteratura, quella naturalista, che Émile Zola espresse ne Il romanzo sperimentale: Quando avremo provato che il corpo dell’uomo è una macchina di cui un giorno si potranno smontare e rimontare gli ingranaggi a piacimento dello sperimentatore, si dovrà ben passare alle manifestazioni passionali ed intellettuali dell’uomo. Da quel momento entreremo in quel dominio che, apparteneva alla filosofia e alla letteratura; sarà la conquista decisiva da parte della scienza, delle ipotesi dei filosofi e degli scrittori. Vi sono 21 N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, p. 1070, terza edizione aggiornata e a ampliata da Giovanni Fornero, UTET, 1998, Torino. 13 la fisica e la chimica sperimentali; vi sarà la fisiologia sperimentale e, più tardi ancora, si avrà il romanzo sperimentale.22 Quale è il compito dello scienziato, tale è il compito dello scrittore che, con lo stesso metodo scientifico adottato dal chimico o dal biologo, procede all’indagine dei moti dello spirito, all’analisi anatomica del sentimento e della passione nelle forme del romanzo sperimentale. Ma la considerazione di Zola sottende la ricerca di un meccanismo di conquista delle manifestazioni intellettuali e dei fenomeni umani che va ben al di là della semplice sfera letteraria. Essa implica che l’uomo e la mente umana possano essere fatti oggetto di studio in modo non dissimile dalle macchine con i loro ingranaggi. Ma, a sua volta, la posta equazione uomo = macchina giustifica l’intercambiabilità dei due termini e ne consente l’identificazione. Ora, identificare l’uomo con la macchina significa portare il fine a coincidere con il mezzo, cioè significa rovesciare la seconda formulazione dell’imperativo categorico kantiano. Una risposta contraria al Positivismo si può leggere nella cultura del Decadentismo che, con la sua attenzione per una realtà in disfacimento e per le civiltà in declino, vede nella rincorsa al progresso scientifico- tecnologico soltanto gli ultimi spasimi di un corpo in agonia. Al di là delle manifestazioni più à rebour della cultura decadente, quali il simbolismo di Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Mallarmè o l’estetismo di Wilde e di D’Annunzio, il Decadentismo è caratterizzato da una più generica cultura della crisi che include, in ambito filosofico, il risveglio di prospettive irrazionalistiche e spiritualistiche. Così, da una parte si avrà la riscoperta degli impulsi assoluti che guidano le azioni degli uomini (dalla Wille zur Macht di Nietzsche, all’esplorazione dell’inconscio da parte di Freud), dall’altra la rivalutazione della dimensione interiore-spirituale e quindi delle proprietà non misurabili o quantificabili dell’animo umano. Particolarmente significativo risulta in tal senso il contributo della filosofia di Henri Bergson. Egli, nell’Introduzione alla metafisica, distingue due tipologie essenziali di conoscenza, quella relativa e quella assoluta. Se la prima procede scomponendo l’oggetto in parti analitiche prescindendo dall’unità dell’intuizione e spiega le singole parti mediante le singole immagini, la seconda avviene mediante uno sforzo d’intuizione grazie al quale la realtà propria e interna di un oggetto è subito presente alla coscienza. La prima è propria dell’analisi scientifica che considera le espressioni parziali e non le parti componenti dell’io, operando sull’immobilità, ossia astraendo punti del movimento, che in realtà non esistono se non come oggetti dei nostri concetti poiché sono parti di durata svincolati da essa per fini pratici, cioè per l’azione. Se, infatti, ci si ripropone di ricostruire l’unità partendo dai singoli punti non si riesce a risalire al movimento: analizzare secondo questi parametri la realtà significa leggere praticamente la qualità sulla base della categoria dell’immobilità ed è come se la 22 ÈMILE ZOLA, Il romanzo sperimentale, trad. dal francese di I. Zaffagnini, Pratiche Editrice, Parma, 1992. 14 nostra intelligenza prendesse “da lontano delle vedute quasi istantanee sulla mobilità indivisa del reale”23. La seconda, invece, è propria della metafisica, la quale procede tramite l’intuizione che, a sua volta, permette di cogliere la durata, ossia la nostra persona, il nostro io, che dura e che è sintesi di molteplicità e unità. L’intuizione, pertanto, ci inserisce nella mobilità della durata e la metafisica diventa “una matematica delle qualità” in quanto trascende i simboli facendosi esperienza integrale. I tratti della filosofia di Bergson qui brevemente sintetizzati consentono almeno in parte di mettere in luce la nota distinzione tra tempo esteriore, astratto e cronologico, e tempo interiore, concreto, indiviso ed eterno. Essa sta alla base di una più radicale distinzione tra la dimensione interiore del soggetto e quella esteriore del mondo oggettivo e soprattutto di una distinzione tra quelle che Dilthey chiamerà scienze dello spirito e scienze naturali, dimostrando come non sia pensabile applicare uno stesso metodo di studio analiticosperimentale tanto alle scienze esatte quanto alle scienze umane. Tra i due saperi, infatti, intercorre una distinzione sostanziale tra studio, per così dire, della struttura e studio del senso interno; e, di conseguenza, anche una distinzione delle strategie conoscitive. Se le scienze tradizionali ricorrono, secondo Bergson, allo strumento dell’analisi, le “scienze dello spirito” e la filosofia nello specifico fanno ricorso all’intuizione immediata dell’essenza di una cosa. Chiamiamo qui intuizione quella simpatia mediante la quale ci si inserisce nell’interiorità di un oggetto per coincidere con ciò che c’è in esso di unico e quindi di inesprimibile24 Questo è il contesto filosofico in cui matura la stessa evoluzione degli studi scientifici e in particolar modo fisici se si pensa alla elaborazione della teoria della relatività da parte di Albert Einstein destinata a rivoluzionare epistemologicamente la fisica classica. E il relativismo accanto all’irrazionalismo e allo spiritualismo si colloca come nuova prospettiva di riflessione. Luigi Pirandello, che particolarmente sensibile era stato nei confronti della multistratificazione dei punti di vista nella definizione della personalità in Uno, nessuno, centomila e che già ne L’esclusa accenna alla teorizzazione di una possibile “etica relativa”, non mancò di notare il dramma dell’individuo alienato, o meglio, identificato con la dimensione tecnica. L’universo dei piani intrecciati, dei paradossi e dei rovesciamenti situazionali di Pirandello partorisce un personaggio di sconcertante potenza tragica. Serafino Gubbio, operatore, è una di quelle figure minime che, come Zeno o Emilio Brentani di Svevo, incarnano, in una dimensione parcellizzata, l’uomo di inizio ventesimo secolo. Il suo humus sociale è quella compagine grigia e uniforme che quasi ha perso memoria della sua origine ottocentesca, quando ancora aveva un senso chiamarla ceto medio. Con l’arrivo prorompente del proletariato, infatti, il mondo della borghesia 23 24 HENRI BERGSON, Introduzione alla metafisica, trad. di Armando Veraldi, Sansoni, Firenze 1949. Ibi. 15 benpensante si è come ritratto inorridito nel suo guscio d’alte sfere lasciando dietro di sé una scia di scorie, di piccoli reietti anonimi e spaesati, un mondo di impiegati e di piccoli funzionari di provincia. Serafino Gubbio è uno di costoro, vanta un’ istruzione classica alle spalle ed è operatore per una casa cinematografica e, poi, la cosa più importante, è una mano che gira una manovella. Un signore, venuto a curiosare, una volta mi domandò: - Scusi non si è trovato ancor modo di far girare la macchinetta da sé?- Vedo ancora la faccia di questo signore: gracile, pallida, con radi capelli biondi; occhi cilestri, arguti; barbetta a punta, gialliccia, sotto la quale si nascondeva un sorrisetto, che voleva parer timido e cortese ma era malizioso. Perché con quella domanda voleva dirmi: “Siete proprio necessario voi? Che cosa siete voi? Una mano che gira la manovella. Non si potrebbe fare a meno di questa mano? Non potreste essere soppresso, sostituito da un qualche meccanismo?”. Sorrisi e risposi: Forse col tempo, signore. A dir vero, la qualità precipua che si richiede in uno che faccia la mia professione è l’impassibilità di fronte all’azione che si svolge davanti alla macchina. Un meccanismo, per questo riguardo, sarebbe senza dubbio più adatto e da preferire a un uomo. Ma la difficoltà più grave, per ora, è questa: trovare un meccanismo, che possa regolare il movimento secondo l’azione che si svolge davanti alla macchina. Giacchè io, caro signore, non giro sempre allo stesso modo la manovella, ma ora più presto ora più piano, secondo il bisogno. Non dubito però, che col tempo – sissignore – si arriverà a sopprimermi. La macchinetta- anche questa macchinetta, come tante altre macchinettegirerà da sé. Ma che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore, resta ancora da vedere. Attraverso le annotazioni e le riflessioni del protagonista si assiste ad un tempo alla sua metamorfosi e alla dolorosa presa di coscienza di tale trasformazione.la metamorfosi è il perfetto adeguamento alla parte che gli è stata assegnata: egli è sì Serafino Gubbio, ma è Serafino Gubbio operatore. La maschera sociale assume sostanzialità complementare rispetto all’individualità del protagonista. Ancora un volta, in Pirandello, si consuma il “gioco delle parti”, ma questa volta si aggiunge una nota di ulteriore e più profonda tragicità: la meccanizzazione del protagonista. L’attività di Serafino Gubbio consiste nel riprendere le scene del cinematografo girando la manovella della macchina da presa. Egli è dunque un operatore che gira la manovella; ma questo girare, questa azione reiterata un numero incalcolabile di volte non è forse il solo vero nesso che collega Serafino Gubbio alla società in cui vive? Egli è necessario, certo, ma solo per quel piccolo dettaglio. Mi spiego meglio: se non fosse per la sua mano che gira meccanicamente, Serafino Gubbio sarebbe socialmente improduttivo e cioè inutile, sarebbe solo un’ombra; a nessuno importerebbe di Serafino Gubbio perché per la società della tecnica tutto assume un parasenso solo in vista della funzionalità e dell’effetto. Il destino del povero operatore è 16 dunque o quello di non esistere o quello di svolgere mitemente la propria mansione secondo il parametro che meglio si addice a una mano che gira una manovella: l’assoluta impassibilità. Infelice destino quello di Serafino Gubbio: morire per vivere da uomo o vivere per morire da macchina! Ciò che il mondo chiede all’operatore è di svuotarsi completamente di ogni umanità: non importa riflettere, non conta pensare, né ricordare, né amare, né commuoversi e in generale sentire qualcosa dentro di sé. L’anima, quel quid inafferrabile, che è come una presenza dell’uomo a se stesso, può spegnersi, la poesia può tacere e la musica del mondo con lei. Il senso di tutto è girare una manovella. Quanto più è simile a una macchina, tanto meglio Serafino Gubbio compie il suo lavoro, tanto più sarà apprezzato e lodato, o forse neppure questo perché ciò che fanno le macchine lo si dà per scontato, passa sotto silenzio: Cominciava ad avvertire che la mia persona non era necessaria; ma che la mia presenza lì aveva la necessità d’una cosa, ch’ella ancora non comprendeva; e che stavo così muto per questo. E quando il sentimento si risveglia, perché sollecitato da un ricordo lontano sfumato nel tempo come la casa di nonna Rosa, o una riflessione con un amico come Simone Pau, o il sentimento indefinito e non ricambiato della signorina Luisetta, ecco che l’anima si risveglia e trovandosi ingabbiata nella scorza d’una cosa, si irrigidisce nella percezione del silenzio e del nulla. Ma verrà il giorno in cui anche l’impassibile efficienza di Serafino Gubbio risulterà superflua perché la sua mano potrà essere sostituita dall’opera infaticabile di un’autentica macchina. Il turbine travolgente della tecnica non imbriglia Gubbio solo, ma anche tutti gli altri personaggi che, secondo la tradizione pirandelliana, si alienano in un’ossessione, una parvenza di realtà qualsiasi: il signor Cavalena, marito succube della pazzia della moglie, che si appiglia al suo status di medico per giustificarsi della perduta dignità, la signorina Luisetta che si identifica in un amore non suo per un uomo che non la considera, Carlo Ferro e Aldo Nuti, uomini dalla differente personalità, che esauriscono le proprie energie in una passione cieca per una donna dalla bellezza medusea, l’attrice Nestoroff. Ma tutti non sono altro che comparse su una pellicola, artifici di una macchina, di quella stessa macchina che Gubbio aziona e che riprende il mondo divorandolo come le fauci di un’orrenda Cariddi. La macchina da presa è tutto, è il prima e il dopo, è l’essere e il non essre, perché sulla pellicola la vita si imprime indelebile e sempre uguale a se stessa, senza scampo. Resta ancora la tigre, simbolo di una natura inquieta e selvaggia, sfregiata e oltraggiata dalla tracotanza dell’uomo, la tigre che appena viene immessa sulla scena divora l’attore Aldo Nuti –uno per tutta l’umanità- così come la Natura con il suo vecchio leone sbrana l’Islandese nella ben nota operetta morale di Leopardi. Eppure questa volta non è la Natura a imporre il suo silenzio, ma la Macchina che tutto riprende con il suo 17 ronzio, anche la scena di morte, perché la mano continua impassibile a girare. La Macchina, creatura mostruosa spesso paragonata a un grosso ragno nero, ha in sé la vita e la morte, mentre la metamorfosi del povero operatore si completa: egli non trova la forza di intervenire di fronte alla scena cruenta, in parte perché paralizzato dal terrore, in parte perché la manovella deve comunque sempre girare. Ma Serafino Gubbio operatore, traumatizzato dal fatto, perderà la voce: Girare ho girato. Ho mantenuto la parola: fino all’ultimo. Ma la vendetta che ho voluto compiere dell’obbligo che m’è fatto, come servitore d’una macchina, di dare in pasto a questa macchina la vita, sul più bello la vita ha voluto ritorcerla contro di me. Sta bene. Nessuno intanto potrà negare ch’io non abbia ora raggiunto la mia perfezione. Come operatore io sono ora veramente perfetto. Ho avuto modo di citare in questa breve analisi del romanzo pirandelliano il poeta di Recanati. Credo sia curioso e quanto mai significativo che già nel suo tempo Giacomo Leopardi presentisse l’enorme carica problematica dello sviluppo tecnico e meccanico in relazione ai condizionamenti e ai mutamenti della forma mentis individuale e collettiva. In un’operetta morale, forse meno nota rispetto agli illustri titoli riportati nelle antologie scolastiche, Leopardi dimostra quella eccezionale sensibilità, propria degli spiriti eletti, di cogliere i dati presenti allorché accadono e di antivederne, non per profetica dote, ma per altezza d’ingegno, gli effetti futuri. Così nella Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi25, con quella nota ironico- sardonica che percorre tutte le Operette e che già si può evincere dal titolo26, l’autore riconosce che il tempo in cui vive potrebbe anche essere chiamato “l’età delle macchine…non solo perché gli uomini di oggidì procedono e vivono forse più meccanicamente di tutti i passati, ma eziandio per rispetto al grandissimo numero delle macchine inventate di fresco ed accomodate o che si vanno tutto giorno trovando ed accomodando a tanti e così vari esercizi, che oramai non gli uomini ma le macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita.” Dopo aver affermato la sostituibilità dell’uomo con la macchina, egli passa a enumerare i principali vantaggi, o presunti tali, che dovrebbero derivare da tale sostituzione; in primis la possibilità di intervenire non solo sulla vita materiale dell’uomo ma anche su quella spirituale onde portare l’umanità intera al compimento tanto agognato della sua perfezione, curando i pregi e sopprimendo i difetti del genere umano. L’una si è che ella confida dovere in successo di tempo gli uffici e gli usi delle macchine venire a comprendere oltre le cose materiali, anche le spirituali; onde nella guisa che per virtù di esse macchine siamo già liberi e sicuri dalle offese dei fulmini e delle grandini, e da 25 L’operetta fu composta a Recanati tra il 22 e il 25 febbraio 1824 e fu pubblicata per la prima volta nell’edizione Stella, Milano, 1827. 26 I Sillografi sono propriamente gli scrittori di Silloi, componimenti che nell’antica Grecia avevano carattere burlesco e satirico. 18 molti simili mali e spaventi si abbiano a ritrovare per modo di esempio…qualche parainvidia, qualche paracalunnie o paraperfidia o parafrodi, qualche filo di salute o altro ingegno che ci scampi dall’egoismo, dal predominio della mediocrità, dalla prospera fortuna degli insensati, de’ ribaldi e de’ vili,…L’altra cagione e la principale si è che disperando la miglior parte dei filosofi di potersi mai curare i difetti del genere umano, i quali, come si crede, sono assai maggiori e in più numero delle virtù; e tenendosi per certo che sia piuttosto possibile di rifarlo del tutto in una nuova stampa, o di sostituire in suo luogo un altro che di emendarlo;” L’età della Tecnica: lo smarrimento del senso. L’uomo pre- tecnologico agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, ossia le sue azioni non si esaurivano in sé ma tendevano ad un oltre, ad un fine, sia esso trascendente o immanente, che in ogni caso trascendeva l’azione per proiettarla in una sfera ordinata di significati che contribuivano a costruire e ad arricchire nella totalità l’individuo e la sua concezione del mondo. Faro di questo atteggiamento culturale pre- tecnologico è la cultura umanistica che dai suoi albori rinascimentali ha effuso sulla storia del mondo la luce del libero e autonomo esercizio del pensiero nel rispetto e nel compimento della dignità della persona umana. Centro di tale concezione è l’uomo nella sua vita esteriore e soprattutto nella sua vita interiore: è il percorso dell’uomo alla conoscenza di sé, non in senso esistenzialistico, ma metastorico, in qualità di idea assoluta di Uomo, dove cioè ogni mezzo resta uno strumento esteriore per approfondire la portata spirituale dei fini, incondizionati ed altri rispetto ai mezzi, e per attribuire all’azione un senso che accresca ulteriormente la comprensione che l’uomo ha del mondo. Se il fine è il senso delle cose e del mondo, e se il senso è la loro comprensione da parte dell’uomo, allora il fine dei fini è la comprensione che l’uomo ha di sé. Di conseguenza emerge chiaramente che l’uomo, in funzione della portata profondamente spirituale della sua esistenza, non può esaurirsi, nell’ottica umanistica, all’area esteriore dei mezzi: cioè il senso che l’uomo ha della vita è in quello che l’uomo fa ma non è quello che l’uomo fa. Ora, la tecnica, intesa come universo dei mezzi cioè tecnologie, ma anche come razionalità che presiede al loro impiego in termini di funzionalità ed efficienza, almeno per lo sviluppo che essa ha attraversato in età post-positivistica, è arrivata a oscurare questo scenario umanistico. La tecnica, infatti, di per sé, non promuove un senso in quanto appartiene allo scenario dei mezzi, cioè degli strumenti funzionali all’approfondimento della comprensione del senso. Tuttavia, oggi, il mezzo tecnico si è così ingigantito in termini di potenza ed estensione da determinare un sostanziale capovolgimento della quantità in qualità, da diventare indispensabile al punto che l’uomo non può farne a meno per esprimersi. In verità la dipendenza problematica dell’uomo da ogni sorta di tecnica da lui partorita nel corso della storia è già stata analizzata sotto il profilo antropologico nel 19 primo capitolo di questa trattazione; un conto però è riconoscere la dipendenza positiva dalla tecnica, cioè il carattere necessario del mezzo per il benessere dell’uomo stesso, e un altro conto è portare questa dipendenza alle forme dell’identificazione, cioè tradurre il mezzo in fine e la tecnica in essenza dell’uomo. Se la tecnica, ovvero il mezzo, diventa il fine, esso si connota di quei tratti che sono propri del mezzo, cioè la sostanziale assolutezza da ogni produzione di senso che non ricada in sé. Perciò, “chi aziona l’apparato tecnico o vi è semplicemente inserito, senza poter più distinguere se è attivo o se è a sua volta azionato, non si domanda se lo scopo, per cui l’apparato tecnico è messo in azione sia giustificabile o abbia semplicemente un senso, perché questo significherebbe dubitare della tecnica senza di cui nessun senso e nessuno scopo sarebbero raggiungibili, e allora la responsabilità viene affidata al responso tecnico, dove è sotteso l’imperativo che si deve fare tutto ciò che si può fare”27. Là dove la vita è per intero generata e resa possibile dall’apparato tecnico, l’uomo diventa un funzionario di detto apparato e la sua identità viene per intero risolta nella sua funzionalità, per cui è possibile dire che nell’età della tecnica l’uomo è presso di sé solo in quanto è funzionale a quell’altro da sé che è la tecnica. Pertanto, non si parla più in termini di alienazione dell’individuo, come ebbero a fare Feuerbach e Marx mutuando l’espressione da Hegel, ma di identificazione tra individuo e apparato tecnico: non si tratta soltanto di un’inversione dei rapporti di predicazione per cui l’uomo, da soggetto, diviene predicato dell’apparato tecnico, e la tecnica, da predicato, diventa soggetto, ma l’uomo stesso diventa strumento tecnico, cioè è valutato secondo il para-senso della funzionalità. Se la concezione umanistica aveva visto nell’uomo il soggetto della storia, stante l’identificazione tra essenza dell’uomo e tecnica, la tecnica stessa diventa soggetto della storia che si avvia alla volta di una nuova età. Questo implica una ridefinizione di tutti i modi tradizionali di intendere la ragione, la natura, la verità, l’etica, la politica, la religione e l’antropologia. Sotto quest’ultimo aspetto appare con chiarezza come i concetti di uomo, persona e individuo soprattutto, perdano il significato che la tradizione filosofica occidentale ha da sempre loro attribuito. Essi infatti sono intrinsecamente legati alla dimensione spirituale dell’uomo: egli arriva a comprendere la propria umana dignità in quanto si percepisce intimamente come unico e insostituibile. Se questa posizione è stata approfondita, soprattutto nel suo carattere angoscioso e disperante, dalla filosofia esistenzialistica in risposta a quei modelli razionalistici che, eredi diretti delle pretese assolutistiche del Romanticismo ottocentesco, avevano imbrigliato il pensiero e così l’esistenza individuale in una tecnica del λόγος (è il caso del sistema hegeliano o dello scientismo positivistico), la nascita della categoria di individuo è da rintracciare nel pensiero religioso. Per il Cristianesimo in particolare l’individuo è tale in quanto detentore 27 U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Introduzione, pp. 40-41, Feltrinelli, Milano, 2000. 20 di anima, cioè la sua essenza non è mai pienamente legata al mondo che lo circonda in relazioni intramondane, ma tende infinitamente ad una realizzazione ultramondana. La società individualistica di matrice cristiana, dopo essere passata attraverso quella che Galimberti chiama epoca critica, cioè attraverso la rivendicazione della libertà, dell’uguaglianza degli individui e dell’autonomia della loro ragione, sarebbe approdata ad un’epoca organica in cui le leggi, che regolano i rapporti interpersonali, sono legate all’ordine economico e quindi sempre più alla subordinazione dell’uomo alla sua funzione. Il passo per giungere al materialismo storico e al concetto marxiano di alienazione è breve: al di là della quadruplice alienazione del lavoratore rispetto alla macchina, rispetto al proprio lavoro, rispetto al prodotto e rispetto al capitalista, l’individuo è ridotto a personificazione dei suoi interessi economici. Scrive Galimberti: “Quando la razionalità, prima economica e poi tecnica, abolisce quella distanza sempre intercorsa tra cultura e produzione che consentiva all’individuo spazi espressivi socialmente significanti proprio perché non immediatamente produttivi, all’individuo non resta che l’omologazione alla razionalità che fa dell’apparato una semplice risposta funzionale alle sue esigenze. Con ciò non si vuol dire che l’apparato sopprima la libertà degli individui, ma solo che appiattisce il concetto di libertà su quello di competenza, il quale garantisce agli individui unicamente la capacità di muoversi nei circuiti funzionali dell’apparato, più interessato ai meccanismi di pianificazione, organizzazione e centralizzazione che alle sorti dell’individuo”.28 Il passaggio dalla società dominata dalle leggi economiche a quella regolata dal primato della tecnica è rappresentato dall’assunzione di un carattere universale dell’alienazione: essa non riguarda più solo alcuni gruppo sociali quali forze di produzione, dal momento che, nella società della tecnica, nessuno può darsi se non come forza di produzione, ossia è valutato ed esiste solo in nome della propria funzionalità e competenza tecnica. La categoria di individuo viene sostituita da quella di funzionario nello stesso modo in cui la categoria di fine viene sostituita da quella di mezzo: l’azione non tende più a un orizzonte di senso perché diviene automatica operazione volta a potenziare ulteriormente le possibilità del mezzo. Il risultato è l’appiattimento, è l’identificazione dell’uomo, del soggetto nell’oggetto: questa operazione non è una semplice oggettivazione. Essa infatti implicherebbe la permanenza del soggetto in qualche forma in relazione alla quale sarebbe sensato parlare di oggetto: non c’è oggetto senza un soggetto che lo pensi come tale e non c’è soggetto senza un oggetto che lo faccia sentire tale. L’identificazione dei due porta allo smarrimento del senso di entrambi: il risultato è una nuova realtà, fine a se stessa, dove regna la funzionalità del mezzo e dove non si può più parlare di unicità o di insostituibilità poichè ogni parte dell’apparato tecnico può essere indiscriminatamente sostituita e moltiplicata. L’uomo non resta altro che un organo 28 U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica. Antropologia della tecnica. P. 543, Feltrinelli, Milano, 2000 21 dell’apparato, a sua volta composto da altri organi dell’apparato tecnico. È l’età della tecnica. La funzionalità diventa categoria dell’essere, dell’etica, ma anche del pensiero. È con questa declinazione di significato che Galimberti parla di pensiero funzionale, ossia di un ordine logico di strutture di pensiero che prescindono dal significato dell’apparato tecnico per dare giustificazione alla realtà tecnica. Dal formalismo al Gestell. Il formalismo hilbertiano si presenta come una risposta interessante non solo nell’ambito della crisi dei fondamenti della matematica, inaugurato all’alba del ventesimo secolo da Russell, ma per la stessa temperie culturale in cui è maturata. Sono, infatti, gli anni del Circolo di Vienna che per eccellenza rappresentò le nuove tendenze neopositiviste, le quali, con le dovute distinzioni rispetto al Positivismo ottocentesco, mostravano crescente interesse per la fondazione delle scienze e per i controversi rapporti tra logica ed esperienza. Ma soprattutto sono anni in cui la corsa al progresso e, quindi, al potenziamento dell’apparato tecnico–industriale, di cui si è detto ampiamente in precedenza, andava assumendo proporzioni sempre crescenti. Almeno apparentemente lontana da “questioni della tecnica”, la risposta di Hilbert alla crisi dei fondamenti della matematica non può non richiamare, seppur indirettamente, quell’insidiosa operazione di affermazione di una logica utilitaristica della funzionalità e il conseguente tramonto dei significati che, come si è detto, caratterizza l’età della tecnica. La preoccupazione di Hilbert è, in prima istanza, quella di assicurare, tramite l’elaborazione di teorie formali, la fondatezza della matematica risolvendo i problemi causati dall’introduzione del concetto di infinito nell’ambito della teoria degli insiemi. Ossia si propone di giustificare l’applicazione della matematica infinitaria, fondata su concetti ideali e perciò astratti e indefiniti, tramite la matematica finitaria, i cui soli contenuti hanno un significato in quanto derivanti, per mutuare l’espressione kantiana, da un’intuizione sensibile pura (essa tratta e manipola oggetti finiti e simboli). Più precisamente Hilbert si propone di elaborare una teoria che consenta di formalizzare la matematica infinitaria senza dover ricorrere all’intuizione e allo sforzo di comprensione dei suoi enunciati astratti. Sostanzialmente è come se si riducesse la matematica ad un gioco formale che non indaga sul significato dei suoi oggetti, anzi, il formalismo “nega che la matematica sia conoscenza di qualche realtà, e la considera più vicina ad un’attività puramente deduttiva e ludica”29 al pari del gioco degli scacchi dove la regola e le combinazioni delle regole, nel quadro complessivo della partita, non solo definiscono il singolo pezzo, ma lo definiscono in funzione esclusiva della regola, per cui esso di per sé non ha alcun significato. Ne consegue che due sono i momenti fondamentali del sistema formale, quello della 29 GABRIELE LOLLI, Filosofia della matematica. Formalismo. Il Mulino. Bologna. 2002. 22 deduzione meccanica che consiste nella pura applicazione delle regole e quello della costruzione del sistema stesso, ossia la scelta del linguaggio, delle regole e degli assiomi che consentono il funzionamento del gioco. Gli unici principi che aprioristicamente devono essere comunque rispettati sono quelli che Hilbert aveva già individuato per la costruzione dei modelli, ovvero l’indipendenza, la completezza e la coerenza o non contraddittorietà30. A loro volta queste caratteristiche non potranno essere dimostrate se non all’interno del sistema formale e tramite le regole che sono state assunte internamente al sistema (siccome non si può evidenziare uno scarto cronologico tra assunzione delle regole, loro applicazione e loro fondazione sulla base di principi assiomatici, tali regole avrebbero dunque la pretesa di auto-dimostrare la loro fondazione nella loro stessa operatività). Tuttavia - e proprio per questo - il sistema formale resta conchiuso in se stesso, cioè non dà di per sé ragione dell’applicabilità della matematica. ”I sistemi formali sono il modo di presentare le teorie matematiche assiomatizzate quando si precisi il linguaggio e si convenga di usare una logica ricorsivamente enumerabile, una logica cioè in cui le conseguenze si ottengono iterando l’applicazione di alcune regole sintattiche”31. Attraverso queste costruzioni formali, l’intento di Hilbert sarebbe appunto quello di dimostrare che elementi ideali come il concetto di infinito possono essere liberamente applicati senza necessitare di un’autonoma interpretazione, dal momento che non aggiungono nulla alle verità dei domini finiti ed anzi sono giustificabili sulla base della logica classica già applicata negli insiemi finiti. Nonostante il fallimento del progetto hilbertiano (cfr.30), il formalismo ha continuato e continua ad essere una strada percorsa nell’ambito della filosofia della matematica. Sua preoccupazione precipua resta tuttavia quella di liberare la matematica da ogni assunzione metafisica, vale a dire da ogni forma di contenutismo. In tal senso un formalista moderno come Haskell Curry “chiama formalismo ogni filosofia in cui gli oggetti della matematica non sono specificati, o, se lo sono, la loro natura non è rilevante per la validità dei teoremi, sicchè questi siano invarianti rispetto alla loro eventuale sostituzione.”32 Al centro di tutto il formalismo ortodosso si colloca dunque la dimostrazione, mentre, venendo meno ogni interesse per il contenuto, decade anche ogni interesse per il significato che si situa nella comprensione dell’oggetto nella totalità delle strutture intrinseche alla sua natura, e che si manifesta nello studio della rete di relazioni che il significato produce con altri significati. Da quanto detto finora e soprattutto dall’impiego di espressioni e termini come “soggetto”, “oggetto”, “essenza”, “totalità”, parrebbe scorgere in un pensare di tipo metafisico la soluzione o almeno un contro- altare ad ogni pensiero di tipo tecnico o formalistico; non può dunque mancare un riferimento a Heidegger che, paradossalmente rispetto a quanto 30 Gödel, con il secondo teorema di incompletezza, dimostrò che la non contraddittorietà di un sistema non può essere dimostrata all’interno del sistema stesso. 31 GABRIELE LOLLI, Filosofia della matematica. Formalismo. Il Mulino. Bologna. 2002 32 GABRIELE LOLLI, Filosofia della matematica. Formalismo. Il Mulino. Bologna. 2002 23 detto, proprio nella metafisica tradizionale non solo ha scorto la prefigurazione della tecnica, ma ha identificato la tecnica come la suprema realizzazione della metafisica. La tecnica infatti è il grado più rilevante cui l’oblio dell’essere sia giunto, ossia è il trionfo più eclatante del processo di “entizzazione” dell’essere. È opportuno precisare che Heidegger, dopo la tanto discussa Kehre, orienta la sua riflessione, sempre polarizzata intorno alla cruciale domanda dell’essere, nei confronti di una strutturale polemica con il modo tradizionale di pensare metafisicamente. La metafisica nella storia del pensiero occidentale, almeno dopo Platone, non si è più preoccupata di interrogarsi intorno all’essere e quindi di chiarirne l’essenza, ma ha concentrato la sua attenzione sull’essenza degli enti che dell’essere sono mero momento o manifestazione. Dunque per Heidegger, la riproposizione della domanda dell’essere dal punto di vista non più dell’ente ma dell’essere stesso richiede l’abbandono dell’ottica della metafisica tradizionale, il cui stesso linguaggio si rivela insufficiente e inadeguato, per abbracciare un nuovo modo di pensare l’essere post-metafisico. La tecnica, pertanto, in quanto realizzazione di quello che per Heidegger è un nichilismo metafisico, rappresenta la completa riduzione dell’essere a ente, il dominio dell’ente. Tuttavia, il suo modo di concepire la tecnica è più problematico: essa per il suo carattere globale e per il coinvolgimento della totalità della natura stessa nei suoi processi risulta, nella sua essenza, qualcosa di non tecnico, e quindi non ontico, ma ontologico; essa, cioè, è nella sua essenza una forma di disvelamento dell’essere, heideggerianamente inteso come Ereignis. La tecnica, infatti, se all’epoca dei Greci riguardava la sfera del poiein, cioè del produrre, nell’età moderna si configura come una pro-vocazione (Herausforden) che è in grado di trarre fuori dalla natura energia che può essere accumulata e successivamente impiegata. L’elemento naturale è visto come una fonte da sfruttare, anzi non è più visto in sé, ma è guardato alla luce di un elemento di fondo, che è la riserva di energia. Così Heidegger fa l’esempio del Reno che, interrotto dalla centrale idroelettrica, è incorporato nella costruzione stessa della centrale. La provocazione è l’impossessamento da parte della tecnica di quelle condizioni naturali che precedentemente consentivano la produzione. Per designare postmetafisicamente la tecnica, Heidegger usa il termine Gestell, che significa letteralmente impianto o im-posizione, e che tradurrebbe la totalità dell’imporre tecnico nella riduzione della realtà a fondo. Con queste caratteristiche, il Gestell, come evento dell’essere, non è affatto un mezzo dell’attività dell’uomo –come la tecnica è stata lungamente e tradizionalmente intesa- ma esso stesso comprende l’uomo nella sua totalità. Donde, i pericoli che corre l’uomo a considerare la tecnica al di fuori della sua essenza, che non è affatto cosa tecnica, ma è evento dell’essere, sono quelli di smarrire la propria essenza di “pastore dell’essere” e l’essenza della verità. Il punto nodale del ragionamento di Heidegger è che la tecnica, pur essendo forma di disvelamento dell’essere, è solo una possibile forma del disvelamento, e non la forma definitiva e immutabile, cioè non è 24 l’essere. Assumere che il Gestell sia l’ente significa ricadere nella realizzazione della metafisica di cui prima si diceva. De artis medietate. Ben lungi dal voler, e dal poter, “dare” una soluzione all’intricatissima rete di problematiche messe in campo dalla questione della tecnica stricto sensu e, più in generale, dall’evoluzione del pensiero tecnico e della tecnologia nella storia dell’uomo, cercherò, quantomeno, di avanzare timidamente un mio personale contributo, una proposta di riflessione. A tale scopo, tuttavia, mi è utile fare un passo indietro, non cronologicamente, ma con il pensiero, ossia cercare di guardare la questione fino ad ora trattata da un altro punto di vista, come se mi arrampicassi su di una vetta teoretica per assicurarmi una visione d’insieme del panorama che circonda il problema particolare. Mi sia lecito, dunque, introdurre una delle molteplici vexatae quaestiones della storia del pensiero occidentale, quella del dualismo, per introdurre poi la mia interpretazione della funzione della tecnica. Il dualismo ha radici metafisiche e gnoseologiche: è stato definito da Platone, è rimasto insoluto per Aristotele ed è stato ribadito da Cartesio nella formulazione oppositiva della res cogitans e della res extensa, ossia del soggetto pensante rispetto all’oggetto reale e pensato. In Kant, benché con un habitus differente, il dualismo permane nella forma del rapporto tra fenomeno e noumeno, tra conoscibile e non conoscibile in forza delle umane facoltà. Hegel riesce a dare una risposta risolutiva, ma essa rimane valida solo all’interno del suo sistema panlogistico idealistico. Una delle forme più significative di dualismo, lontana dal dualismo ontologico- idealistico in senso platonico, è quella rappresentata dal già citato rapporto soggetto- oggetto che nella storia del pensiero occidentale ha assunto vesti e formulazioni le più diverse ma sempre riconducibili alla matrice comune di opposizione tra una dimensione interiore ed una esteriore. Già per gli stoici l’ agathòn, il bonum, ossia il vero bene, aveva la propria sede nell’anima, ossia intus, nell’interiorità, (e così anche il vero male, il kakòn o malum, era piuttosto il male dell’anima) laddove le suggestioni fallaci e transeunte dei beni e quindi anche dei mali esteriori ricadevano nell’ampio quanto eterogeneo contenitore degli externa, che non escludeva neppure il corpo, mero bagaglio dell’anima. Dal dualismo, oserei definirlo “etico”, degli stoici si passa così ad un dualismo più antropologico: quello del rapporto anima- corpo, uno dei cardini della filosofia cristiana che ha raggiunto le vette più alte d’espressione nella Scolastica e soprattutto nella Summa theologiae di S. Tommaso d’Aquino. La filosofia moderna, almeno da Cartesio in poi, ha ereditato le aporie della Scolastica medievale, sostituendo, però, al termine anima quello meno compromesso dal punto di vista religioso di “mente”. Il rapporto mente- corpo sottende la problematica questione che nasce dal fatto che ogni soggetto pensante ha immediata evidenza della propria coscienza (l’autocoscienza che cartesianamente si 25 riassume nel cogito, ergo sum) ma non della realtà oggettuale che lo circonda. Uno iato incolmabile si apre tra il soggetto che vive la realtà e la realtà che è vissuta dal soggetto, per cui la realtà del reale non può mai acquisire quel grado di evidenza che è fornito dall’autocoscienza. La questione è stata espressa recentemente in modo sintetico ed efficace da Thomas Nagel che concentra la riflessione su tre domande: “1. è una possibilità insensata che l’interno della nostra mente sia la sola cosa che esiste – o che, anche se vi è un mondo esterno alla nostra mente, esso sia totalmente dissimile da quello che crediamo sia? 2. se questo è possibile, hai qualche modo di provare a te stesso che effettivamente non è vero? 3. se non puoi provare che esiste qualcosa all’esterno della tua mente, è giusto continuare a credere comunque nel mondo esterno?”33 . Il dualismo nella storia del pensiero occidentale è risolto attraverso due vie: o ricorrendo ad un monismo di matrice parmenidea o “scavalcando” l’alveo stesso in cui la questione è stata originariamente concepita, la metafisica. Almeno a partire da Nietzsche e dalla sua critica radicale ad ogni costruzione che ponga il senso dell’essere al di là dell’essere e che stabilisca la distinzione tra mondo reale e mondo apparente, la concezione della metafisica tradizionale, come dimostra anche Heidegger, non avrebbe più ragione di essere. Tuttavia il “dualismo kantiano” è tale, pur non avendo matrice metafisica in senso tradizionale, ma trascendentale. Dunque, la questione del dualismo, che, come si è visto, si manifesta anche in sede etica e antropologica, trascende a sua volta ogni superamento della concezione tradizionale della metafisica: è, per così dire, un problema postmetafisico a tutti gli effetti (per non dire “meta- metafisico”!) e, dunque, per usare il lessico di Heidegger, riguarda l’essere nella sua essenza. Ed è a questo punto che mi permetto di introdurre un concetto che chiamerò termine medio, medium, o μεταξύ, in cui confluiscono i termini opposti del dualismo senza che essi perciò si confondano l’uno con l’altro. Il termine medio dà così certezza e dignità ontologica a entrambi i termini opposti senza, tuttavia, che uno esautori l’altro o si identifichi con l’altro: è un ago della bilancia. Ho detto dignità ontologica: effettivamente il medium si potrebbe intendere anche in senso trascendentale, come “categoria delle categorie” (la categoria delle lenti per mezzo delle quali vediamo il mondo); ma in tal caso si ritornerebbe al punto di partenza. Preferisco, dunque, mutuare l’espressione da Heidegger ed intendere il medium come la modalità di disvelamento dell’essere. Il medium, quindi, non è da confondere con la sintesi hegeliana come conclusione di una triade dialettica: esso consiste in un principio che si pone come terzo, sottile margine di convergenza verso cui si riversano la dimensione del soggetto e quella dell’oggetto. Userò una metafora matematica: il medium, intuitivamente (molto intuitivamente!), rappresenta tra soggetto e oggetto quel “termine unificatore” che, sulla retta dei numeri reali, il numero 33 Thomas Nagel, Una brevissima introduzione alla filosofia, p. 23, Il Saggiatore Net, 2002, Milano. 26 irrazionale rappresenta per la successione dei numeri razionali. In quanto principio “ontologico”, il medium riguarda direttamente l’essenza dell’essere, ma assume nell’essere e, quindi, per l’ente determinazioni differenti e vesti differenti, una delle quali è appunto la tecnica. La medietà della tecnica (in latino ars) è caratteristica materialmente e quotidianamente verificabile. Essa è la chiave con cui giornalmente ci apriamo al mondo: ha modificato i nostri spazi (basta pensare ad Internet) e i nostri tempi (basta pensare alla possibilità di registrare un’azione e di rivederla più e più volte), insomma il nostro modo di concepire la realtà; eppure la realtà non è meno reale di quella in cui non esistevano computer o televisioni, non è la realtà ad essere mutata, né il soggetto che tale realtà conosce, ma è cambiato il medium che, come si è detto, realtà e soggetto unifica (il che equivale a dire che entrambi sono cambiati senza che nessun dei due possa rendere intelligibile il cambiamento). La tecnica, pertanto, non è il medium, ma è un medium possibile, cioè l’investimento mediatico attualmente assunto dall’essere, che è solo una delle possibili manifestazioni del termine medio. L’equivoco che contraddistingue l’età della tecnica è pertanto quello di vedere nella tecnica il medium per eccellenza. 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