Liceo “Quadri” di Vicenza Corsi di cultura La filosofia del linguaggio Di Paolo Vidali 5 maggio 2011 1.1. Segno e linguaggio Anzitutto va definito il segno, linguistico e non. Per Ch. S. Peirce (1839-1914) è "ciò che sta per qualcos'altro". La storia della trattazione del segno ha fatto emergere tre fondamentali componenti, il significante, cioè la realtà materiale (suono, linea, immagine…) che usiamo per comunicare, il significato, nozione mentale che permette il passaggio tra significante e cosa per cui il segno sta, e denotato, cioè la cosa per cui il segno sta. Lo schema del segno è quindi il seguente. Si coglie subito il problema di un rapporto tra segni e realtà mediato dal significato. Possiamo trattare la correttezza nella disposizione di segni, come le parole di una frase, e porci il problema di come un termine o una frase rappresenta qualcosa. Nel primo casi ci poniamo un problema di sintassi, nel secondo di semantica. Il linguaggio infatti possiede tre funzioni principali: • sintattica: con essa si valuta la correttezza degli enunciati dal punto di vista delle regole di costruzione che ogni lingua (linguaggio) utilizza • semantica: con essa si valuta il rapporto tra enunciati e ciò per cui essi stanno, cioè un mondo possibile • pragmatica: con essa si intende il fatto che il linguaggio produce azioni (“Apri la porta, per piacere”, “taci”) Dal punto di vista della nostra analisi serviranno solo le prime due funzioni, mentre la terza, riferita ad enunciati che non descrivono la realtà ma intendono modificarla, non è di pertinenza della logica che qui analizzeremo. Con queste premesse possiamo chiarire cosa si intende con termine, enunciato e ragionamento. Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 1 1.2 Il termine “Mario”, “bianco”, “corre”, sono termini, cioè nomi, verbi, avverbi, aggettivi dotati di senso. Una frase, Per esempio “Il tavolo è bianco”, è composta da termini. Vi sono però anche altri termini, come gli articoli, le preposizioni, le congiunzioni…, che non hanno un senso in sé, ma solo nel contesto della frase. “Per”, “il”, “e” significano qualcosa solo in rapporto ad altri termini: per esempio “Mario e Giovanni sono fratelli”. Tali termini sono utili perché con la loro presenza si modifica il senso della frase, come avviene utilizzando la negazione: “Mario non è italiano”. Vi sono quindi due tipi di termini: • termini categorematici (o semantici), ovvero quelli in sé dotati di senso; • termini sincategorematici (o sinsemantici), ovvero quelli in sé non dotati di senso ma che lo acquistano collegandosi (sin) con quelli dotati di senso, secondo le regole della sintassi del linguaggio in questione. Finora abbiamo affermato che i termini sono o non sono dotati di senso proprio. E’ la stessa cosa chiederci se sono veri o falsi? Qui appare una distinzione fondamentale, da tenere sempre presente: la distinzione tra termini ed enunciati. 1.3. L’enunciato Con enunciato siintende quella forma linguistica caratterizzata grammaticalmente da un soggetto, una copula e un predicato. Dallo studio della grammatica sappiamo che esistono diversi tipi di enunciati. Per i nostri scopi basterà ricordarne due: • enunciati dichiarativi, che descrivono una qualche situazione: “Mario è italiano”, “Mario corre”; • enunciati ipotetici, che esprimono una ipotesi intorno a una qualche situazione: “Se Mario corre, allora arriva prima”, “Domani potrebbe nevicare”. 1.4 Linguaggio e verità Gli enunciati sono composti da termini, ma qui appare quell’importante distinzione che prima menzionavamo. I termini non possono essere veri o falsi: solo gli enunciati sono veri o falsi. Cerchiamo di capire perché. “tavolo” è un termine dotato di senso dal momento che dicendo “tavolo” sappiamo che cosa vogliamo dire. Ma se diciamo solo “tavolo”, abbiamo detto qualcosa che non è né vero né falso. Solo se passiamo a “Il tavolo è bianco" affermiamo qualcosa che può essere vero o falso. Quando costruiamo una frase che afferma o nega certe relazioni tra termini, quindi quando usiamo enunciati dichiarativi, o semplicemente enunciati, solo allora possiamo parlare di verità o falsità. Se il tavolo a cui ci riferiamo nell’enunciato è proprio quel tavolo bianco che ci sta davanti e diciamo “Il tavolo è bianco”, allora questo è un enunciato vero; se invece diciamo “Il tavolo non è bianco” quell’enunciato è falso. Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 2 2. La filosofia del linguaggio tra antichità e medioevo La filosofia greca ed ellenistica si era concentrata sul tema dell'origine del linguaggio, sulla sua naturalità o convenzionalità, sul rapporto tra parole e cose. Gran parte di questi problemi ha ricevuto significative risposte da Platone, da Aristotele, dagli stoici, risposte che la filosofia medievale eredita senza imbarazzi,. Kai ò logos sarx egéneto: e il logos si fece carne (Gv 1, 14). Sono queste parole, tratte dall'inizio del Vangelo di Giovanni, il punto di partenza migliore per riflettere sul linguaggio nella filosofia medievale. Il cristianesimo, come l'ebraismo, è infatti una religione profondamente legata al tema della parola, del libro, della scrittura e in generale del linguaggio. Dio ha parlato e il mondo ha cominciato ad esistere, la Bibbia è verità rivelata attraverso la parola di Dio, Gesù è Verbum, parola fatta carne per abitare con noi, le auctoritates sono testi e sentenze, la preghiera è discorso umano rivolto a Dio, la parola giunge a dire quella trascendenza a cui lo sguardo sensibile non può arrivare… Il linguaggio è al centro della riflessione cristiana per motivi religiosi, ma lo è anche che per ragioni filosofiche. Tuttavia il nuovo scenario portato dall'annuncio cristiano sposta molti termini della questione. E' Dio stesso che crea usando la parola: Adamo è colui che dà un nome umano alle cose e il problema classico dell'origine del linguaggio trova così una risposta. Dono di natura, come lo chiama san Basilio (330 ca-379), derivato direttamente da Dio, come dice Tertulliano (160 ca - 220 ca), il linguaggio è un segno della benevolenza divina, tuttavia non privo di ambiguità: nella vicenda biblica della torre di Babele il gesto di superbia degli uomini che unendosi vogliono sfidare Dio viene da Lui annullato confondendo le loro lingue. Anche per questo il problema della convenzionalità o naturalità del linguaggio trova una sua soluzione: la diversità delle lingue è l'esito di una colpa a cui si deve rimediare volgendo lo sguardo proprio alla Parola che Dio ha rivolto agli uomini per offrire loro la salvezza. Il problema centrale attorno a cui ruota la riflessione medievale è quello del significato dei termini. Quando affermo che l'"uomo" è un animale razionale e quando dico che questo "uomo" è vecchio, uso il termine nello stesso significato? In che cosa consiste la differenza? A margine di questo problema, come una sorta di domanda di controllo, seguiremo una pista secondaria, anche se collegata al problema principale. Proprio la potenzialità riconosciuta al linguaggio lo rende in gran parte autonomo dalla realtà sensibile: il linguaggio dice Dio, nel cristianesimo, e quindi non può limitare la sua significatività al mondo visibile, non possono essere i sensi il criterio della sua validità. Ma allora, si chiederanno in molti, che valore hanno i termini che rimandano ad enti non esistenti? Dire "nulla" significa qualcosa? Qual è il significato dei termini che denotano qualcosa di non esistente? 2.1 il problema degli universali Porfirio (233 – 305 ca), nella sua Isagogé, cioè Introduzione alle Categorie di Aristotele, si interroga sulla natura dei termini universali, cioè genere (per esempio "animale") e specie (per esempio "uomo"), e lo fa ponendo tre domande: 1) gli universali sono enti reali o concetti? 2) se sono enti, Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 3 sono oggetto di conoscenza sensibile? 3) sono separati dalle cose sensibili o vincolati Per esse? Le posizioni che si preciseranno nel dibattito sono sostanzialmente tre. Per i realisti, come Guglielmo di Champeaux (1070-1121), gli universali sono vere e proprie componenti della realtà, per questo diventano concetti nella nostra mente ed espressioni del nostro linguaggio. Opposta è la posizione dei nominalisti: con Roscellino di Compiègne (†1123 ca) essi non accettano né concetti né oggetti ma solo termini universali. Gli universali sono quindi espressioni linguistiche, che dipendono dai singoli enti conosciuti e senza i quali non esisterebbero. La terza posizione, che si rifà ad Abelardo (1079-1142), è quella dei concettualisti. Essi ammettono l'esistenza di concetti e di termini universali, ma negano che vi siano enti universali. Il nostro intelletto conosce e classifica l'esperienza, generando concetti universali che poi assumono forma linguistica. In questa posizione è l'intelletto a giustificare e fondare il valore degli universali. 2.2. Significatio e nominatio L'universale per Abelardo (1079-1142 è quindi un problema di predicazione (Logica Ingredientibus p. 16): solo capendo l'uso linguistico, grammaticale e logico della predicazione si può fare luce sulla questione degli universali. La premessa da cui muove Abelardo è la differenza tra dire "uomo" e dire "essere un uomo": solo la seconda espressione denota un ente preciso e definito, mentre la prima non rimanda a nulla. Ma allora, perché diciamo che "Socrate è un uomo"? Perché esiste una capacità astrattiva dell'intelletto che da più persone coglie quelle proprietà che insieme definiscono il concetto uomo. Tali proprietà sono colte e riunite dall'intelletto nella nozione uomo e non serve un'essenza realmente esistente per poterle cogliere. Su queste basi la differenza tra termini universali e termini particolare diventa chiara: al nome universale "uomo" corrisponde un'immagine comune a molte cose pur se confusa, mentre al nome singolare "Socrate" corrisponde una forma unica e precisa che si riferisce ad un ente determinato. Pur con una qualche incertezza nei termini, Abelardo arriva a distinguere questi due modi di usare i termini, o meglio queste due funzioni del segno: 1) la significatio, che coincide con il significato del termine, cioè con il riscontro concettuale della parola "uomo"; 2) la nominatio, che coincide con la denotazione, con quella che Anselmo chiamava appellatio e che è il rimandare del termine all'ente realmente esistente. Che cosa significa "rosa" senza le rose? Alle tre questioni poste da Porfirio circa la natura degli universali, Abelardo aggiunge una quarta domanda, destinata a suscitare ampie discussioni: gli universali avrebbero ancora un significato se gli individui a cui rimandano cessassero di esistere? Detto diversamente, il termine "rosa" avrebbe un significato anche senza le rose? Come nome "rosa" continuerebbe a significare anche senza gli enti a cui rimanda. Infatti sarebbe ancora comprensibile la frase "le rose non esistono". Il significato infatti è dato dal concetto, non dalla realtà. Quando le cose non esistono più, il significato permane, ma non può riferirsi ad alcunché di esistente. E se le cose nominate non sono mai esistite, come per la chimera o l'ippogrifo? Allora la situazione è diversa, perché senza individui non si può astrarre nemmeno il concetto, il che rende vuota la significazione. Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 4 Come in Anselmo, anche in Abelardo la perdita di referenzialità non svuota il segno, semmai ne esalta l'autonomia. I termini significano anche in assenza delle cose, perché ciò che dà valore è l'operazione intellettuale dell'astrarre e del significare. Certo, è in rapporto alle cose che ci formiamo nozioni a cui poi associamo delle parole: ma il confronto con la realtà non è tale da rendere inefficace la parola in assenza delle cose. 2.3. La prova a priori dell’esistenza di Dio Il contributo più importante e destinato a una enorme fortuna nella filosofia successiva è la prova dell’esistenza di Dio detta “argomento ontologico”, sviluppato nel Proslogion. L’ambizione è trovare un argomento che non abbia bisogno di altro al di fuori di sé solo, sia per sostenersi, sia per provare che Dio esiste veramente. Così Anselmo immagina una sorta di dialogo fra un filosofo e un ateo, chiamato “stolto” al pari del personaggio del Salmo XIII che affermava in cuor suo che Dio non esiste. Il filosofo stimola l’ateo a produrre, apparentemente per amore di discussione, una definizione di Dio; l’ateo, pur affermando che egli in ogni modo non crede all’esistenza di un tale ente, trova un accordo col filosofo nella definizione di Dio come ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore. Tale concetto appare inizialmente neutro, cioè ammissibile sia dal credente che dal non credente: per il credente Dio è esattamente questo ente ed esiste, per l’ateo lo sarebbe se esistesse, cosa che lui tuttavia non è disposto a concedere. Eppure proprio qui scatta l’argomento anselmiano: un essere che ha tutte le perfezioni non può esistere solo nel intelletto, altrimenti se ne potrebbe pensare uno di ancora più ricco perché tale da possedere in aggiunta l’esistenza reale (dal momento che una cosa reale è maggiore, cioè “più perfetta”, della stessa cosa solo pensata). Chi asserisce che Dio è l’essere che possiede tutte le perfezioni ma poi afferma che non esiste, non sta in effetti pensando quell’essere e dunque si sta contraddicendo. Costui secondo Anselmo è stolto non solo perché non crede in Dio, ma anche perché fonda le sue argomentazioni su un presupposto gnoseologico erroneo (e cioè che si possa dire esistente solo quanto è constatabile coi sensi) e quindi perché sviluppa un’argomentazione autocontraddittoria: dice di pensare l’essere che ha tutte le perfezioni e poi invece pensa l’essere che ha tutte le perfezioni meno una (l’esistenza, appunto); pensa la parola ma non riesce a cogliere tutta la portata del concetto significato da questa. Questo significa che, una volta ammesso che nel nostro intelletto esiste il concetto di Dio secondo la definizione appena formulata (in possesso dunque di quella che i medievali chiamavamo la existentia in intellectu), siamo costretti ad ammettere che deve esistere anche nella realtà l’ente definito, Dio (che possiede pertanto anche la existentia in re) (→ Testo ). Le obiezioni all’argomento ontologico nel Medioevo L’argomento ontologico suscitò una serie di obiezioni e riserve. Il monaco Gaunilone (sec. XI) oppose al Proslogion un breve testo intitolato Difesa dello stolto in cui osservava che io potrei immaginare un oggetto dotato di tutte le perfezioni pensabili come delle isole di fantasia, che lui battezza Isole Beate, di cui non è possibile pensare isole più belle da nessun punto di vista. Ciò non toglie che, come sappiamo fin dall’inizio, esse siano per l’appunto una pura creazione della fantasia e che non esistano affatto: insomma per Gaunilone il passaggio dalla existentia in intellectu a quella in re è un salto indebito, che Anselmo non argomenta. Gaunilone usa qui un argomento quasi-deduttivo detto l’autofagia; lo si impiega quando si mostra che, applicando senza Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 5 eccezioni una regola, si arriva a distruggerla poiché alcune sue conseguenze sono in contraddizione con essa. Anselmo controreplicò (nella sua Risposta) che l’obiezione è scorretta perché le isole possono avere solo le perfezioni del loro genere, cioè quelle che possono spettare a un’isola; Dio invece le possiede tutte e per questo non si può escluderne l’esistenza. In tal modo Anselmo cerca di evitare l’accusa di autofagia, affermando che solo nel caso di Dio in cui si può applicare l’argomento a priori: solo per Dio (e proprio in quanto è l’unico essere dotato di tutte le perfezioni) vale quindi il passaggio dall’existentia in re all’existentia in intellectu. In realtà Gaunilone poneva un serissimo rilievo proprio sulla legittimità del passaggio dal concetto alla realtà: la pura e semplice possibilità logica di un concetto non ci autorizza infatti ad asserire nulla sulla sua esistenza effettiva, come in seguito parecchi altri filosofi anche scolastici, a cominciare da Tommaso, rilevarono. La seconda obiezione di Gaunilone appare altrettanto temibile: se il filosofo e l’ateo si accordassero su un’altra definizione di Dio (che potrebbe essere “l’essere onnipotente”, “l’essere più misericordioso” e via dicendo), allora tutta l’argomentazione di Anselmo non potrebbe più decollare. La definizione “ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore” è essenziale, ma in realtà solo perché contiene già la nozione della esistenza reale di Dio: l’argomento ontologico non è autenticamente una dimostrazione, ma si limita a esplicitare qualcosa che era già da sempre contenuto in essa, come un prestigiatore riesce a estrarre dal suo cilindro un coniglio solo se ce l’ha gia messo dentro prima. Si tratta, in termini più tecnici, di una petizione di principio: una argomentazione dove la tesi che si vuole dimostrare è già presente nella premessa, un circolo vizioso (detto dai logici diallele). Questo passo è tratto dal Proslogion, verosimilmente redatto negli anni 1077-1078, e riporta il nerbo dell’argomento ontologico. Se la fede è una conquista a cui l’uomo non arriva solo grazie alle sue forze ma con l’aiuto della grazia, la ragione non è per questo esonerata dal tentativo di comprendere. E mentre le prove a posteriori sviluppate da Anselmo nel Monologion gli apparivano una serie di argomentazioni le cui premesse richiedevano ulteriori giustificazioni, l’argomento ontologico gli pare l’unica dimostrazione dell’esistenza di Dio davvero autosufficiente 1. Dunque, o Signore, tu che dai l’intelletto della fede, concedimi di intendere, per quanto tu sai essere utile, che tu esisti come crediamo e che tu sei quello che crediamo. Ora noi crediamo che tu sia qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore. 2. O forse non esiste qualche natura siffatta, poiché «l’insipiente ha detto in cuor suo: “Dio non esiste”» (Sal. 14, 1 e 53, 1)? Ma certamente quel medesimo insipiente, quando ode ciò che io dico, cioè «qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore», intende ciò che sente dire; e ciò che intende è nel suo intelletto, anche se egli non intende che ciò esiste. 3. Altro infatti è che una cosa esista nell’intelletto e altro intendere che una cosa esista. … 4. Dunque anche l’insipiente deve convincersi che almeno nell’intelletto esiste qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore, poiché egli lo intende, quando lo sente dire, e tutto ciò che si intende esiste nell’intelletto. Ma certamente ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore non può esistere nel solo intelletto. Infatti, se esiste nel solo intelletto, si può pensarlo esistente anche nella realtà e questo allora sarebbe maggiore. 5. Di conseguenza se ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore esiste nel solo intelletto, ciò di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore è ciò di cui può pensarsi una cosa maggiore. Questo evidentemente non può essere. Dunque, senza dubbio, qualcosa di, cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore esiste sia nell’intelletto che nella realtà. Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 6 [Anselmo, Proslogion, II, 1-5; trad. it. Rizzoli, Milano 1992, pp. 81-85] Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 7 3. La filosofia moderna del linguaggio Che cosa accade quando la filosofia europea moderna affronta le tematiche linguistiche? Da un lato recupera e approfondisce, su basi nuove, il problema semantico, cioè il rapporto tra parole, significati e concetti. Anzi è proprio l’idea, tipicamente moderna, di una ragione unica e presente in ogni uomo a saldare il piano del pensiero e quello del linguaggio. Da qui, come vedremo, si aprono strade diverse, volte ad analizzare il processo con cui attribuiamo significati alle parole, a correggere errori ed abusi del linguaggio e, in certi casi, anche ad inventare una lingua universale che preservi da tali errori. A questi temi si dedicheranno tanto i filosofi di tradizione empirista, come Bacone, Hobbes, Locke, quanto quelli di tradizione razionalista, come Cartesio, i logici di Port Royal e Leibniz. Al di là delle differenze, il problema su cui tutti finiscono per riflettere è se il linguaggio determina, condiziona e talvolta confonde il pensiero, oppure se, viceversa, il linguaggio non sia una condizione necessaria del pensiero. D’altro canto il pensiero moderno riflette, con nuovo interesse, sul problema dell’origine, questione più greca che medievale. In effetti la linguistica moderna valorizza proprio quanto il medioevo aveva trascurato. Il latino resta la lingua dei dotti, ma la nascita e il rafforzarsi delle lingue volgari, nel Cinquecento e nel Seicento, è ormai un fatto acquisito. Si rafforzano gli stati nazionali e con essi acquistano dignità sempre maggiore le grandi lingue europee. A questa varietà di lingue si affianca la scoperta di una ancora più grande diversità di idiomi, frutto dei nuovi rapporti commerciali legati alle rotte oceaniche. Si comincia così a porre la questione del rapporto tra popolo e lingua, e quella connessa del rapporto tra lingua e progresso storico, una tematica che si afferma in epoca moderna per consolidarsi definitivamente nell’Ottocento. La lingua, infatti, è lo specificarsi del linguaggio, la condivisione di un codice per una comunità di parlanti. Il passaggio dal piano generale del linguaggio a quello più specifico delle lingue parlate corrisponde ad una maggiore attenzione agli elementi storici, sociali, pragmatici del linguaggio. In questo direzione vanno i contributi di Vico, e Condillac, in diverso modo tesi ad indagare il nesso che unisce storia e linguaggio. Riassumendo possiamo dire che le questioni centrali attorno a cui ruota il dibattito sono due, articolate a loro volta in due sottotemi: 1. Linguaggio e conoscenza 1.1. teoria degli abusi e degli errori nel rapporto tra linguaggio e pensiero; 1.2. correzione di tali errori, anche attraverso la costruzione di una lingua universale: 2. Lingua e storia 2.1. genesi delle lingue e studio del rapporto tra lingue storiche e popoli che le parlano; 2.2. storicità del processo linguistico e primi passi della cosiddetta linguistica storica. Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 8 4. La riflessione ottocentesca sul linguaggio 4.1 Von Humboldt e la lingua come visione del mondo Karl Wilhelm von Humboldt (1767-1835) rappresenta una delle personalità intellettuali più ricche e articolate di tutto il romanticismo. Figlio di una nobile famiglia prussiana, studia giurisprudenza, filologia, filosofia e storia, frequenta tutti i maggiori pensatori e letterati del mondo tedesco, assume incarichi politici di primo piano – ambasciatore a Roma, plenipotenziario prussiano al Congresso di Vienna, riformatore del sistema scolastico e fondatore dell’Università di Berlino – ma la sua fama rimane legata agli studi sul linguaggio, vera passione intellettuale che attraversa tutta la sua vita. Egli parla perfettamente una decina di lingue europee, studia e conosce molte lingue amerinde, l’egiziano, il cinese, il giapponese, il sanscrito, il malese e il giavanese. La sua competenza linguistica non si limita, tuttavia, al piano comunicativo, ma si addentra nello studio della linguistica comparata e nella stessa filosofia del linguaggio. La lingua come espressione dello spirito Per Humboldt la concezione del linguaggio risente profondamente del contesto romantico in cui egli opera: le lingue sono una produzione spirituale, frutto di una energia creativa e di un processo infinito. La lingua non è un’opera (érgon) ma un’attività (enérgheia). Essa “è il lavoro eternamente reiterato dello spirito, volto a rendere il suono articolato capace di rendere il pensiero” (La diversità delle lingue, 1830-1835, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 36). La lingua diventa così la principale mediazione tra natura e spirito, tra sfera sensibile e sfera intellettuale, tra infinità dello spirito e finitezza dei suoni e delle esperienze. Il linguaggio, scrive Humboldt, deve fare un uso infinito di mezzi finiti ed è in grado di farlo perché tanto il pensiero quanto il linguaggio derivano dall’unica forza spirituale infinita che li anima entrambi (ivi pp.78-79). Lingue e popoli Ma come si sviluppa la forza spirituale che genera tanto la lingua quanto il pensiero? La risposta di Humboldt mette in campo, in modo determinato, il ruolo delle nazioni. Sono i popoli gli autentici soggetti del parlare, poiché le lingue sono espressione di soggettività allargate. La lingua, infatti, è un’attività collettiva, altrimenti non è strumento di comunicazione. Il rapporto tra popolo e lingua riprende, in contesto romantico, il tema del “genio della lingua” proposto da Condillac, allargandolo e approfondendolo. Humboldt, in un testo del 1806 (Latium und Hellas) sostiene che clima, geografia, religione, politica, costumi e lingua determinano una nazione: tuttavia la lingua lo fa in modo prevalente. Essa è l’anima stessa di una nazione ed è inseparabile dal suo sviluppo. La lingua, quindi, è una condizione necessaria dello sviluppo spirituale di una nazione e per questa ragione in essa si inscrive la più autentica identità di un popolo. “La lingua – scrive Humboldt – è la manifestazione fenomenica dello spirito dei popoli: la loro lingua è il loro spirito e il loro spirito è la loro lingua” (ivi, p. 33). Perché, allora, le lingue sono diverse, posto che lo spirito che anima l’umanità è unico? Servendosi di un argomento di causa, Humboldt fa risalire la diversità delle lingue ad una causa comune: essa, infatti, dipende dalla necessità dello spirito di produrre forme sempre nuove. Le singole lingue, come i singoli popoli, sono punti di vista parziali dello sviluppo umano, della unica forza che lo attraversa e lo anima. Con una vigorosa inversione, Humboldt rovescia l’argomento principale tradizionalmente utilizzato da chi sostiene l’origine empirica e occasionale del Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 9 linguaggio. La diversità delle lingue, si sosteneva, è un segno evidente dell’impossibilità a ravvisarvi una causa o un’origine comune e depone a favore di una varietà di situazioni da cui prende avvio il segno e la parola. Per Humboldt, invece, lo spirito è causa unica del linguaggio, del pensiero e in genere dell’attività umana, perché tale spirito va inteso nella sua poliedrica attività: “dobbiamo vedere nella forza spirituale delle nazioni l’effettivo principio esplicativo e la vera causa che determina la diversità delle lingue” (ivi, p. 33). “La vera ragione della molteplicità delle lingue è l’intimo bisogno dello spirito umano di produrre una molteplicità di forme intellettuali che trova il proprio limite nel modo, a noi parimenti ignoto, in cui lo trova la molteplicità delle forme viventi della natura” (Scritti sul linguaggio, Guida, Napoli 1989, p. 69) Quella di Humboldt è una visione laica, cosmopolita ed egualitaria della differenza di popoli e lingue. Una visione che l’Europa dell’imperialismo ottocentesco non farà sua. La lingua come visione del mondo Altra tesi che Humboldt sostiene con forza è quella dell’identità di pensiero e linguaggio Come in Hamann e in Herder, il linguaggio è visto innegabilmente connesso ad ogni tipo di attività intellettuale. Tanto il pensiero quanto la lingua derivano dal medesimo spirito. Per la coerenza degli effetti data l’unicità della causa, tra lingua e pensiero vi è corrispondenza stretta: come la materia del pensare e l’infinità delle sue combinazioni è inesauribile, così è per gli elementi della lingua. Non solo, la lingua porta con sé una strutturazione dell’esperienza, della realtà, del vissuto che si traduce in una Weltanschauung, cioè in una visione del mondo. Ogni lingua rappresenta un punto di vista nella visione del mondo, contiene la trama di concetti e di forme di rappresentazione della realtà. Parlare una lingua, usarla come veicolo di comunicazione, abitarla come lingua madre significa pensare in quella lingua. “Ogni lingua traccia attorno al popolo a cui appartiene un cerchio dal quale è possibile uscire solo passando nel cerchio di un’altra lingua” (Einleitung zum Kawi Werk, § 14, Werke III, p. 434). Così, come abbiamo visto in Herder, anche in Humboldt il linguaggio da un lato forma il pensiero ma, dall’altro, lo imprigiona. La lingua manifesta ed esterna il pensiero, ma tiene l’uomo prigioniero nei suoi confini, precludendogli la possibilità di superarli. Non si può uscire dal cerchio della lingua ricorrendo al solo pensiero - la definizione di un concetto è fatta comunque di parole né utilizzando una lingua diversa - la traduzione porta comunque all’interno di un altro schema linguistico. Eppure, come abbiamo visto, questa determinatezza della lingua sul pensiero non è vista da Humboldt come un limite, ma come una risorsa. Attraverso il linguaggio trapela l’infinita ricchezza dello spirito umano, che “non può mai essere conosciuto esaurientemente attraverso un numero finito di punti di vista” (Latium und Hellas, Werke II, pp. 60-61) Soprattutto quest’ultimo aspetto ha trovato, nel Novecento, una grande eco. Si vede in Humboldt un fondatore della contemporanea filosofia del linguaggio proprio perché ha insegnato a vedere in ogni lingua una peculiare visione del mondo. Humboldt: la lingua come visione del mondo Gli studi linguistici di Humboldt si concentrano in particolare dopo il 1820, anno in cui abbandona, deluso, la scena politica. Segno di questa attività è l’opera in tre volumi Über die Kawi-Sprache auf der Insel Java, che uscirà postuma nel 1836-1839. Ad essa Humboldt fa precedere un’ampia introduzione dedicata alla diversità di struttura delle lingue umane e al loro influsso sullo sviluppo spirituale dell’umanità, comunemente nota come Einleitung zum Kawi-Werk e in italiano come La diversità delle lingue. In essa Humboldt espone la sua più matura e completa elaborazione di una filosofia del linguaggio. Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 10 Solo ad un più attento esame e, in tal caso, in modo chiaro e distinto, si potrà individuare il carattere della diversa concezione del mondo che i popoli hanno fissata nel valore delle parole. Già in precedenza ho spiegato che è difficile che una qualsiasi parola, a meno che non venga usata nel momento contingente come segno materiale del suo concetto, venga accolta nella rappresentazione al medesimo modo da individui diversi. Pertanto si può senz'altro affermare che in ciascuna è insito alcunché, non distinguibile a sua volta con parole, e che, quantunque designino nel complesso gli stessi concetti, nondimeno le parole appartenenti a più lingue non sono mai veri e propri sinonimi. Una definizione, a rigor di termini, non le può comprendere e spesso è possibile solo, per così dire, indicare il posto che esse occupano nel campo di cui fanno parte. Ho già parimenti ricordato in qual modo ciò si verifichi perfino nelle designazioni di oggetti materiali. Ma il campo in cui davvero affiora il diverso valore delle parole è la designazione di concetti spirituali. Di rado qui una parola esprime senza differenze molto evidenti lo stesso concetto espresso da una parola di un'altra lingua. […] Presso le nazioni caratterizzate da una grande vivacità di spirito questo valore, se lo si ricerca fin nelle più sottili gradazioni, resta per così dire in flusso perpetuo. Ogni epoca, ogni scrittore originale, involontariamente vi aggiunge qualcosa di suo oppure lo modifica, perché non può fare a meno di fissare la propria individualità nella lingua, la quale fa insorgere in essa un nuovo bisogno di espressione. W. von Humboldt, Sulla diversità delle lingue, 1836, § 20, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 156-157. 4.2 Nietzsche e il linguaggio come metafisica popolare Friedrich Nietzsche (1844-1900) è un pensatore inattuale. Inattuale per il suo tempo, dominato da una solida fiducia nella ragione e nei valori etici del cristianesimo, mentre Nietzsche è tutto volto a mostrare che anche la più nobile azione umana è frutto degli istinti e del bisogno. Inattuale per i temi che affronta, come la morte di Dio, cioè la caduta di tutti i valori assoluti, o l’annuncio dell’oltre-uomo, cioè di una umanità superiore capace di creare nuovi valori e di dare senso alla realtà. Inattuale infine anche per il tema che stiamo affrontando, quello del rapporto tra linguaggio e ragione, posto che tanto l’uno quanto l’altra sono, per Nietzsche, tracce di una mentalità gregaria, di un bisogno di comunicazione basato sulla debolezza, di un’illusione cui ci siamo abituati ma che va finalmente smascherata e distrutta. Proprio tale inattualità fa di Nietzsche un pensatore contemporaneo: il suo pensiero asistematico, fatto di aforismi e frammenti, anticipa le più meditate riflessioni critiche su cui si concentrerà il Novecento, aprendo uno sguardo disincantato sulla natura umana, sui suoi limiti e sulle sue illusioni. La genealogia del linguaggio Per Nietzsche la realtà di cui l’uomo è parte consiste in un perenne fluire, in un divenire in cui forze, istinti e pulsioni si fronteggiano allo scopo di prevalere. Il divenire è la nota dominante di questa realtà: eppure l’uomo ha cercato costantemente di imporle la stabilità dell’essere. Così è nata la metafisica, la morale dei valori assoluti, la stessa idea di ragione, che cerca identità laddove esistono solo differenze, che cerca permanenze laddove esiste solo il creativo porre e distruggere. Il metodo che Nietzsche utilizza per smascherare l’invenzione dell’essere è la genealogia. Essa consiste nel giustificare per via diversa, cioè storica, psicologica, sociale o antropologica, idee e valori ritenuti perenni, astorici, assoluti. Anche l’analisi del linguaggio ripercorre la stessa strada, nell’intento di mostrare che esso non è un dono divino o comunque la traccia della superiorità umana sugli altri viventi, ma solo il frutto di una più dimessa esigenza. Nel ricostruire genealogicamente la nascita della coscienza, Nietzsche offre infatti un’analisi del ruolo che il linguaggio ha svolto in questo processo. La coscienza, per Nietzsche, è frutto del bisogno umano di comunicazione, della necessità di comprendersi in maniera rapida e sottile. L’uomo infatti è un animale costantemente in pericolo e per questo ha bisogno dei suoi simili. Ma Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 11 tale esigenza produce la necessità di “sapere” che cosa serve, come agire, che ruolo svolgere. “Il pensiero consapevole si determina in parole, cioè in segni di comunicazione, con la qual cosa si rivela l'origine della coscienza medesima. Per dirla in breve, lo sviluppo della lingua e quello della coscienza […] procedono di pari passo”(Gaia Scienza, 1882, § 354). La tesi del bisogno naturale di comunicazione che sta alla base del linguaggio non è nuova: nuove sono le considerazioni che Nietzsche trae da questa genealogia. Il bisogno di comunicare con gli altri uomini spinge a dare importanza a ciò che appare uguale, comune, condiviso, cancellando invece come non comunicabile quanto è individuale e originale. La coscienza si è sviluppata solo in rapporto ad una utilità comunitaria e gregaria e di conseguenza ognuno di noi tende a sviluppare un pensiero “adeguato alla maggioranza e ritradotto nella prospettiva del gregge […] Ciò di cui possiamo aver coscienza è solo un mondo di superfici e di segni, un mondo generalizzato, volgarizzato” (ivi). Il linguaggio è la traccia di un mondo superficiale, fatto di segni comunicabili e di apparenza immediatamente comprensibile: la “superficialità della coscienza e del linguaggio sono, per Nietzsche, l’esatto opposto della profondità che la tradizione occidentale ha riservato al pensiero e alla parola. La metafisica del linguaggio Ma il linguaggio non si limita a enfatizzare la superficie: esso trasforma e condiziona il pensiero, imponendogli la sua struttura: “il linguaggio porta con sé grandi pregiudizi e li coltiva” (Frammenti postumi 1879-1881, 6 [45]). L’errore ha il costante patrocinio del nostro linguaggio, scrive Nietzsche, in particolare quando ci fa credere che dietro alla parola ci sia un evento, una cosa, un ente. Il bisogno di stabilità ci spinge a cercare unità, identità, durata, sostanza, causa, essere, e il linguaggio asseconda tale bisogno, fino a determinarlo: viviamo la “metafisica del linguaggio”. Da qui il nostro uso del nome come se esso identificasse sempre un ente, qualcosa di esistente, di definito e stabile. Anche il verbo, sia attivo che passivo, nasconde e contemporaneamente esprime il nostro bisogno di vedere ovunque un autore. Anche quando un autore non c’è, la struttura del linguaggio ne impone uno. Quando diciamo: “il lampo illumina” cadiamo nella trappola che il linguaggio ha teso al nostro pensiero. E’ il linguaggio a spingerci a stabilire un autore – il lampo – e un’azione l’illuminare - come se fossero due stati diversi, mentre, di fatto, sono un solo evento. In forza del linguaggio il lampo è divenuto qualcosa, un soggetto che compie un’azione. “Porre l’accadere come un agire e l’effetto come un essere: è questo il duplice errore, o interpretazione, di cui ci rendiamo colpevoli” (Frammenti postumi 1887-1888, 2 [84]). E’ così che il nostro pensare si impiglia “nei lacci della grammatica (la metafisica popolare)” ( La gaia scienza, (1882) § 354) quando vediamo dappertutto uomini che agiscono (soggetti), azioni (verbi), effetti di cause (complementi oggetto). Per Nietzsche è il linguaggio stesso, coerentemente con la sua origine, che impone l’essere all’esperienza del divenire. I mezzi espressivi del linguaggio, infatti, “non servono per esprimere il divenire, ma l’essere, il permanere, il conservare (Frammenti postumi 1879-1881, 11 [73]). Un esempio di questa tendenza viene ravvisato in Cartesio: quando questi afferma “si pensa, quindi c’è qualcosa che pensa” egli opera assecondando “la nostra abitudine grammaticale che fa corrispondere a un fare uno che fa” (Frammenti postumi 1887-1888, 10 [158]) Nietzsche conclude la sua analisi sul feticismo della ragione con una frase ad effetto: “Temo che non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora alla grammatica” (Crepuscolo degli idoli, in Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 12 Opere, v.VI, t.III, p. 73). Vuol dire che la struttura di pensiero importata dalla lingua, almeno da quelle di matrice indoeuropea, ci spinge a vedere sempre una causa (soggetto) che agisce (verbo) producendo effetti (complemento oggetto). Se guardiamo un filo d’erba, il prato, la montagna, il paesaggio intero e pensiamo al mondo e all’universo, ecco che scatta per ognuno di questi livelli di realtà il meccanismo di ricerca della causa, indotto dal linguaggio: chi l’ha fatto? chi ne è l’autore? se questo è l’effetto, quale ne è la causa? Per questa via si giunge a Dio, credendo alla grammatica. Anche qui, con un radicale ricorso all’argomento del superfluo, Nietzsche spiega la usatissima via ex causis alla esistenza di Dio. Ricordiamo che già Tommaso, nella sua seconda via, partendo dall’esistenza di un ordine nel mondo, inferiva la necessità di una serie di cause, fino a giungere ad una causa prima (non si può procedere all’infinito né una causa può essere prodotta dal suo effetto) Per Nietzsche, tale modo di ragionare è semplicemente il frutto della gabbia linguistica in cui opera il nostro linguaggio. Nietzsche: il linguaggio e ragione Nietzsche scrive il Crepuscolo degli idoli, ovvero come si filosofa col martello prima entro un più generale progetto di stesura della Volontà di potenza, che non vedrà mai la luce, poi come testo a sé. Egli definisce questo materiale come “la somma di tutte le principali eterodossie filosofiche”, una vera e propria opera di dissacrazione e svelamento dei principali errori della filosofia e della cultura del suo tempo. In questo brano è la ragione ad essere presa di mira, ma nell’analisi di Nietzsche le responsabilità del linguaggio sono rilevanti, al punto da fargli meritare l’epiteto di “metafisica popolare”. Stabiliamo finalmente al contrario in che diverso modo noi (- dico noi per cortesia ... ) consideriamo il problema dell'errore e dell'apparenza. Una volta si prendeva la trasformazione, il cangiamento, il divenire in generale come prova dell'apparenza, come indice che doveva esserci qualcosa a indurci in errore. Viceversa oggi, esattamente nella misura in cui il pregiudizio della ragione ci costringe a stabilire unità, identità, durata, sostanza, causa, cosalità, essere, ci vediamo in certo modo irretiti nell'errore, necessitati all'errore: per quanto si sia intimamente certi, sulla base di una rigorosa verifica in noi stessi, che qui sta l'errore. E lo stesso di quel che accade nei movimenti delle grandi costellazioni: nel caso di queste l'errore ha il costante patrocinio del nostro occhio, nel nostro caso invece ha quello del nostro linguaggio. Il linguaggio, quanto alla sua origine, appartiene all'epoca della più rudimentale forma di psicologia: noi entriamo in un grossolano feticismo se acquistiamo consapevolezza dei presupposti fondamentali della metafisica del linguaggio, ossia, per esprimerci chiaramente, della ragione. Tale feticismo vede dappertutto uomini che agiscono e azioni: crede alla volontà soprattutto come causa; crede all'«io», all'io come essere, all'io come sostanza, e proietta la fede nell'io come sostanza in tutte le cose - soltanto in tal modo crea il concetto di «cosa» ... Il pensiero introduce ovunque l'essere come causa, lo interpola in quanto tale; dal concepire l'«io» segue subito, come derivato, il concetto di «essere» ... Al principio sta l'errore, grandemente funesto, che la volontà sia qualcosa di agente -, che la volontà sia una facoltà ... Oggi sappiamo che essa è soltanto una parola ... Assai più tardi, in un mondo mille volte più illuminato, la sicurezza, la soggettiva certezza nel maneggiare le categorie della ragione giunse sorprendentemente alla coscienza dei filosofi: essi conclusero che queste non potevano avere un'origine empirica ma che anzi l'intera esperienza era in contraddizione con esse. Dove sta dunque la loro origine? - E in India come in Grecia si è commesso lo stesso errore: «Dobbiamo già avere dimorato una volta in un mondo superiore ( - invece di dire: in un mondo molto inferiore: ciò che sarebbe stata la verità), dobbiamo essere stati divini, giacché abbiamo la ragione! » ... In realtà, nulla fino a oggi ha posseduto una più ingenua forza di persuasione che l'errore dell'essere, come fu formulato, ad esempio, dagli Eleati: esso ha anzi a suo favore ogni parola, ogni frase che noi pronunciamo! Anche gli avversari degli Eleati soggiacquero alla seduzione del loro concetto dell'essere: tra gli altri Democrito, quando escogitò il suo atomo ... La « ragione » nel linguaggio: ah, quale vecchia donnacola truffatrice! Temo che non ci sbarazzeremo di Dio perché crediamo ancora alla grammatica ... F. Nietzsche, il crepuscolo degli idoli, (1888) in Opere di Nietzsche, v.VI, t.III, pp. 72-73. Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 13 5. La svolta linguistica nel Novecento Il problema del linguaggio attraversa quasi tutte le principali correnti filosofiche del Novecento. Filosofia della scienza, filosofia analitica, strutturalismo, ermeneutica, psicanalisi, per citare solo alcuni settori di indagine, si concentrano sull’analisi del linguaggio con un’attenzione inedita. C’è chi, come Richard Rorty (1931 -), ha parlato di "svolta linguistica" (linguistic turn) nella filosofia del Novecento. Ma perché si sviluppa questo interesse e perché esso assume dimensioni così vaste? Una risposta univoca è, ovviamente, impossibile, ma si possono avanzare alcune ipotesi. 1. Anzitutto nel nostro secolo prendono forma sempre più definita le scienze del linguaggio. Esse sono la semantica, che permette l’interpretazione dei sistemi simbolici, la fonetica, cioè la scienza dei suoni linguistici, la morfologia, lo studio delle forme linguistiche, la sintassi, cioè la disciplina che studia la corretta combinazione di segni per produrre enunciati, la semiotica, cioè la teoria del segno. Nei primi decenni del Novecento studiosi come Ferdinand de Saussure, Charles Sanders Peirce (1839-1914) e Roman Jakobson (1896-1982), solo per citare i più noti, gettano le basi teoriche che permettono uno studio scientifico del fenomeno linguistico. 2. Negli stessi anni, cioè all’inizio del secolo, matura una generale reazione alla tendenza mentalistica di derivazione psicologista e neo-kantiana: da Gottlob Frege (1848-1925), a Bertand Russell (1872-1970), a Ludwig Wittgenstein (1889-1951) prende il via uno studio del significato inteso non più come analisi di un processo interiore, ma come indicazione delle condizioni di verità (o falsità) degli enunciati. Il significato “esce dalla testa”, rendendo possibile analizzarlo in modo nuovo. 3. Nel Novecento, poi, nascono o si sviluppano alcune correnti filosofiche fortemente linguisticizzate, come la psicanalisi, l'ermeneutica, il neopositivismo: il loro “stile di indagine” e l’agenda dei problemi affrontati saranno molto influenti per tutta la filosofia novecentesca. Più in generale occorre ricordare che la cultura del XX secolo si sviluppa all’insegna della crisi, crisi di valori, di risposte, di prospettive. In una cultura della crisi, in cui la verità sembra ancora più sfuggente, è comprensibile che ci si ripieghi sulle condizioni della verità. L'involucro più esterno di questa verità è, appunto, il linguaggio: si è accomunati nel modo di dire, anche se si è divisi sul contenuto del detto. 4. Il linguaggio viene allora sempre più spesso considerato come un medium, nel senso latino del termine: non solo, cioè, come strumento di comunicazione, ma anche come ambito, mondo, ambiente in cui la comunicazione diventa possibile. L’attenzione al linguaggio mostra che un accesso “immediato” all’essere o alla verità è impossibile. Nell’Ottocento il riferimento al linguaggio serviva a illustrare il comune slancio verso il superamento della scissione, verso l’Assoluto. Nel Novecento esso è piuttosto il segno di un’impossibilità, quella di abbracciare la totalità dell'essere. Anche per questo le filosofie del linguaggio, pur nelle loro consistenti differenze, portano ad una comune istanza anti-metafisica. Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 14 5.1. La tesi Sapir-Whorf e il relativismo linguistico Il grande sviluppo novecentesco dagli studi linguistici ha, evidentemente, comportato anche una profonda diversificazione di approcci. Senza volerne rendere ragione qui, vale la pena ricordare che proprio l’analisi linguistica ha portato ad un rinnovato interesse per quella integrazione tra processi mentali e pratiche linguistiche da cui, almeno riferendoci a de Saussure, la linguistica aveva preso le distanze. Punto di riferimento per questa nuova attenzione al rapporto tra pensiero e linguaggio è la cosiddetta tesi Sapir-Whorf, dal nome dei due studiosi americani a cui si è soliti riferirla. Edward Sapir (1884-1939), antropologo e linguista, si riferisce spesso, nei suoi scritti, ad una categorizzazione linguistica che diventa autonoma dall’esperienza, al punto da imporsi su di essa. La realtà, egli sostiene, è in gran parte inconsciamente costruita sulle abitudini linguistiche del gruppo. Ciò comporta che un cambiamento di lingua implichi un cambiamento di visione del mondo. Con strumenti diversi e differente consapevolezza, riemerge qui la tesi di Karl Wilhelm von Humboldt (1767-1835), secondo il quale la lingua costituisce una Weltanschauung, una visione del mondo, da cui è possibile uscire solo per entrare nel cerchio di un’altra lingua. L’allievo di Sapir, Benjamin Lee Whorf (1897-1941), studioso di lingue antiche americane, accentua questa tesi giungendo a teorizzare la tesi del relativismo linguistico. Proprio lo sviluppo dell’analisi linguistica, secondo Whorf, ha messo in luce che “ciascuna lingua non è soltanto uno strumento di riproduzione per esprimere idee, ma […] dà forma alle idee, è il programma e la guida dell'attività mentale dell'individuo, dell'analisi delle sue impressioni, della sintesi degli oggetti mentali di cui si occupa” (Linguaggio, pensiero e realtà (1956), Boringhieri, Torino 1970, p. 169). Si inverte qui il rapporto di causa-effetto tra esperienza e linguaggio: “Le categorie e i tipi che isoliamo dal mondo dei fenomeni non vengono scoperti perché colpiscono ogni osservatore; ma, al contrario, il mondo si presenta come un flusso caleidoscopico di impressioni che deve essere organizzato dalle nostre menti, il che vuol dire che deve essere organizzato in larga misura dal sistema linguistico delle nostre menti” (ibidem). Se la lingua struttura l’esperienza e il pensiero, allora una sensibile variazione linguistica, per esempio la lingua degli indiani Hopi rispetto all’inglese, porta con sé una consistente diversità concettuale. E’ questo il “principio di relatività, secondo cui differenti osservatori non sono condotti dagli stessi fatti fisici alla stessa immagine dell'universo, a meno che i loro retroterra linguistici non siano simili, o non possano essere in qualche modo tarati” (ibidem, p. 170). Whorf produce analisi molto ricche delle differenze categoriali presenti nelle lingue, per esempio quella degli indiani Hopi confrontata con l’inglese o con le lingue di origine indoeuropea. Strutture centrali, come quelle di tempo e o di azione, sono trattate con considerevoli diversità in una lingua o in un’altra. Ma allora, è possibile tradurre in inglese la lingua Hopi? Per Whorf la risposta è positiva e si basa su una generosa dose di buon senso. Ma non sempre, nella riflessione filosofica, le soluzioni sono così accessibili. 5.2 Quine e l’esperimento della traduzione radicale Un percorso simmetrico ma indipendente, seguito dalla riflessione filosofica circa il problema del significato, porta un filosofo e logico come Willard van Orman Quine (1908-2001) a sostenere l’impossibilità di distinguere una componente linguistica e una componente fattuale nell’analisi di un enunciato. Come conseguenza di questo approccio, in Parola e oggetto (1960) Quine avanza l’esperimento mentale di un linguista che, data una lingua a lui completamente sconosciuta, parlata da una popolazione indigena con cui non ha avuto alcun contatto precedente, riceve l’incarico di produrre un manuale di traduzione, dalla propria lingua a quella. Così, alla vista di un Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 15 coniglio che passa saltellando (questa è la situazione-stimolo), poiché l’indigeno pronuncia “gavagai”, il linguista annota “coniglio” o “guarda, un coniglio”. Quando il linguista, in presenza di una situazione-stimolo simile, sottopone all’indigeno l’enunciato “gavagai”, si aspetta di ottenerne l’assenso o il dissenso. Nel primo caso l’ipotesi che “gavagai” significhi “coniglio” esce rafforzata. Ma chi ci dice che gli oggetti cui il termine si applica siano proprio conigli, anziché semplici stadi, o piccoli segmenti temporali di conigli? Quando il linguista passa alla conclusione che un gavagai è un coniglio intero e perdurante, egli dà per scontato che l’indigeno sia abbastanza simile a noi da disporre di un breve termine generale per conigli e di nessun breve termine generale per stadi o parti di coniglio. Ipotizza, senza averne certezza, una somiglianza di schemi concettuali e di termini che li rappresentano. Ma tale somiglianza non ha un fondamento certo: si limita a registrare un comportamento favorevole – l’indigeno non smentisce l’associazione fatta dal linguista – ma niente più di questo. 5.3 L’approccio analitico Una diversa modalità di studio del linguaggio è quella che si suole contraddistinguere con “filosofia analitica”. Essa rappresenta una concezione “per cui i problemi filosofici possono essere risolti (o dissolti) riformando il linguaggio o ampliando la conoscenza del linguaggio” (R. Rorty, La svolta linguistica (1967), Garzanti, Milano 1994, p. 29). Questo programma di ricerca si è sviluppato inizialmente nell’università di Cambridge e poi a Oxford (da cui il nome di Cambridge-Oxford Philosophy), per poi diffondersi in gran parte della filosofia anglosassone. Partendo da interessi di tipo logico, ma anche etico, l’approccio analitico cerca nel linguaggio un terreno di indagine che permette di affrontare problemi filosofici, di correggere fraintendimenti ed errori determinati da un cattivo uso linguistico, in generale di elaborare una teoria del linguaggio e, in molti casi, anche una connessa teoria cognitiva. 5.4 Wittgenstein e la filosofia come terapia linguistica Alle spalle di questo approccio vi è la figura di Ludwig Wittgenstein (1889-1951). Egli inaugura una originale concezione tanto del linguaggio quanto della filosofia. Figlio di una ricchissima famiglia viennese, studia ingegneria ma si interessa di logica e di fondamenti della matematica. Intelligenza acutissima e personalità inquieta, affida la sua concezione della logica, del linguaggio e dell’etica ad un breve testo, il Tractatus logico-philosphicus, che influenzerà moltissimo le discussioni del Circolo di Vienna. Fin dalle prime pagine Wittgenstein avverte che “la formulazione dei problemi filosofici si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio” (Tractatus logico-philosphicus (1921-1922), Einaudi, Torino 1974, p. 3). Obiettivo del libro è tracciare un limite all’espressione dei pensieri, studiando la forma logica del linguaggio, ma sapendo tuttavia che tale limite non può essere detto: ciò significherebbe ammettere la possibilità di essere da entrambi i lati di tale limite. Invece, il senso del libro è riassumibile così: “Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere” (ibid.). Il linguaggio, secondo Wittgenstein, può descrivere il mondo, ma non le modalità con cui lo fa. La struttura portante del linguaggio, secondo Wittgenstein, consiste nella proposizione. Essa è un enunciato che rappresenta il sussistere o il non sussistere di stati di cose. Per questo può venire detta vera o falsa. “Oggi è venerdì” è vera o falsa, a seconda della data in cui è espressa. Vi sono proposizioni sempre vere (le tautologie, come “oggi è venerdì o non è venerdì”) o sempre false (le contraddizioni, come “oggi è venerdì e non è venerdì”), ma ogni altra proposizione, se ha senso, Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 16 deve potersi dire vera o falsa, a seconda che essa descriva o no uno stato di cose. Il linguaggio è quindi la totalità delle proposizioni (4.001) e la scienza è la totalità delle proposizioni vere (4.11). L’uso corretto del linguaggio non è affatto scontato. Esso, infatti, “traveste i pensieri” (4.002), soprattutto quando si fa filosofia: “Il più delle proposizioni e questioni che sono state scritte su cose filosofiche è non falso, ma insensato (unsinnig). Perciò a questioni di questa specie non possiamo affatto rispondere, ma possiamo solo stabilire la loro insensatezza” (4.003). E’ cioè impossibile, per Wittgenstein, dire se “L’Assoluto esiste” è una proposizione vera o falsa: è semplicemente insensata, perché non c’è un criterio per stabilire se descrive oppure no uno stato di cose. Per questo i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo” (5.6) Ma se la filosofia è un fraintendimento del linguaggio, essa non ha alcuna funzione? Al contrario, il suo scopo è “la chiarificazione logica dei pensieri. La filosofia non è una dottrina, ma un’attività […] Risultato della filosofia non sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni” (4.112). Come ci ricorda Wittgenstein, “non meraviglia che i problemi più profondi propriamente non siano problemi (4.003). Gli esponenti del Circolo di Vienna (Moritz Schlick(1882-1936), Otto Neurath (1882-1945), Hans Hahn (1879-1934), Rudolf Carnap (1891-1970), per citare i più noti), impegnati com’erano a determinare limiti e condizioni del discorso scientifico, trovarono in queste tesi una conferma del loro atteggiamento antimetafisico. Per Schlick, il fondatore del circolo di Vienna, ” la filosofia non è un sistema di conoscenze ma un sistema di atti; essa è infatti quell’attività attraverso la quale viene stabilito e scoperto il senso delle proposizioni. Per mezzo della filosofia le proposizioni vengono chiarificate, per mezzo della scienza vengono invece verificate” (Die Wende der Philosophie, in Gesammelte Aufsätze, Vienna 1938, p. 36). Secondo Rudolph Carnap, tutte le proposizioni della metafisica si rivelano, all’analisi logica, delle pseudo-proposizioni. E precisamente in tali pseudo-proposizioni o compare una parola che erroneamente si ritiene abbia un significato (Dio, Principio, Assoluto…), oppure termini che sono significanti ma che vengono combinati in proposizioni che non hanno senso (“Il Nulla dipende dall’esistenza della negazione”). L’analisi del linguaggio è quindi una terapia contro il suo cattivo uso: la filosofia deve proporsi non come un sapere autonomo ma come attività terapeutica, che impedisca e curi i “crampi del linguaggio” da cui derivano i falsi problemi della filosofia. L’orizzonte dell’analisi linguistica sta disegnando un nuovo destino per la filosofia. Nelle Ricerche filosofiche, pubblicate postume nel 1953, Wittgenstein si allontana da un’impostazione prevalentemente logica del Tractatus, approdando ad una diversa concezione del linguaggio, più attenta al contesto di enunciazione e all’uso che viene fatto delle parole e degli enunciati. Partendo dalla riflessione su espressioni di uso comune e su forme di linguaggio non strutturate ma funzionanti (per esempio fare un gestaccio a qualcuno), egli si sposta progressivamente verso una concezione più aperta e liberalizzata, centrata sulla nozione di gioco linguistico. Comandare e agire secondo il comando, descrivere un oggetto, costruirlo in base a un progetto, riferire un avvenimento…, questi sono alcuni esempi di gioco linguistico. Wittgenstein rimane fedele all’idea, presente già nel Tractatus, che parlare sia un’attività governata da regole, ma tali regole, nelle Ricerche filosofiche, sono sempre più simili a quelle di un gioco. Anche la teoria semantica ne esce cambiata: il significato di un termine è il suo uso nel linguaggio (Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1974, § 43). Ciò vuol dire che per determinarlo occorre capire le condizioni in cui un termine è utilizzato, il gioco in cui appare, la forma di vita in cui lo è utilizzato. Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 17 Da un’idea regolare e purificata del linguaggio si va verso un’immagine più realistica e variegata: “il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con stradine diritte e regolari, e case uniformi” (ivi, § 18). La svolta pragmatica della teoria dei giochi linguistici, oltre a rendere plurali le regole del rapporto tra parole e cose, sposta l’attenzione dai linguaggi formalizzati al linguaggio ordinario. Wittgenstein: i giochi linguistici Le Ricerche filosofiche sono il testo a cui Wittgenstein lavorò fino alla morte, avvenuta nel 1951, senza tuttavia giungere a vederlo concluso e pubblicato. Il contenuto del libro è anticipato dai due quaderni di appunti, il Libro blu e il Libro marrone, relativi ai suoi corsi a Cambridge nel 1933-35. Determinante è la nuova concezione di linguaggio, non più raffigurativo, come nel Tractatus, non più sistema, come nella Grammatica filosofica, ma inteso a partire dalla nozione di gioco, cioè un sistema di regole variabile e contestuale, socialmente condiviso e quindi non arbitrario. Ma quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda e ordine? Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti d’impiego di tutto ciò che chiamiamo “segni”, “parole”, “proposizioni”. E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giuochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati. (Un’immagine approssimativa potrebbero darcela i mutamenti della matematica.) Qui la parola “giuoco linguistico” è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita. Considera la molteplicità dei giuochi linguistici contenuti in questi (e in altri) esempi: Comandare, e agire secondo il comando. Descrivere un oggetto in base al suo aspetto o dimensioni. Costruire un oggetto in base a una descrizione (disegno). Riferire un avvenimento Far congetture intorno all’avvenimento Elaborare un’ipotesi e metterla alla prova. Rappresentare i risultati di un esperimento mediante tabelle e diagrammi. Inventare una storia; e leggerla. Recitare in teatro. Cantare in girotondo. Sciogliere indovinelli. Fare una battuta; raccontarla. Risolvere un problema di aritmetica applicata. Tradurre da una lingua in un’altra. Chiedere, ringraziare, imprecare, salutare, pregare. E’ interessante confrontare la molteplicità degli strumenti del linguaggio e dei loro modi d’impiego, la molteplicità dei tipi di parole e di proposizioni, con quello che sulla struttura del linguaggio hanno detto i logici. (E anche l’autore del Tractatus logico-philosophicus) L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, 1953, trad. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1968, § 23. L’approccio ontologico 5.5 Heidegger e il linguaggio come dimora dell’Essere Una prospettiva ancora diversa nell’analisi del linguaggio viene dalla tradizione ermeneutica, legata ad autori come Martin Heidegger (1889-1976) e Hans Georg Gadamer. Questa linea di riflessione prende le mosse, nel Novecento, dall’impostazione del problema dell’essere che Heidegger delinea nelle pagine di Essere e Tempo (1927). Qui, nel quadro di una Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 18 articolata analisi delle strutture esistenziali, l’uomo, cioè l’Esserci (Dasein), appare come l’unico ente che si pone il problema del senso dell’Essere, che si interroga cioè su che cosa significhi “ente” ed “essere” e su che rapporto intercorra tra i due. Da tale analisi emerge una delle tesi fondamentali di Heidegger, cioè che l’Essere, nella tradizione occidentale, dalla metafisica greca fino a noi, viene pensato come cosa, ente, semplice-presenza. Questa analisi assume sempre più importanza nelle opere di Heidegger, fino a diventarne il tema dominante: “Già sempre l’uomo si attiene innanzitutto e solamente all’ente; e anche se, quando si rappresenta l’ente come ente, il pensiero si riferisce in effetti all’Essere, in verità esso pensa sempre e solo l’ente come tale e mai l’Essere come tale. La «questione dell’Essere» rimane sempre la questione dell’ente” (Lettera sull’«umanismo» (1947), in Segnavia (1976), Adelphi, Milano 1987, p. 284). Emerge così la tesi che accompagnerà Heidegger fino agli ultimi scritti, cioè una riflessione sul darsi dell’Essere che coinvolge, in modo decisivo, il tema del linguaggio. Heidegger stesso riconoscerà come un difetto fondamentale di Essere e Tempo l’aver trascurato il rapporto tra linguaggio e essere. Ma perché tale rapporto è così decisivo? Per Heidegger, a partire dalla filosofia classica, una millenaria esperienza ha travolto il linguaggio nella sua autenticità, per privilegiarne solo un aspetto: la pura funzione di rimando alle cose. Dietro questo travisamento si cela quello che per Heidegger è l'errore metafisico classico: il dominio della semplice-presenza. Ma quale sarà il ruolo di un linguaggio che non venga considerato nei termini della presenza? Il linguaggio, per Heidegger, nella sua essenza non è né espressione né attività dell’uomo. Il linguaggio parla (Die Sprache spricht). Esso non è uno strumento che l’uomo può prendere e lasciare; non ne ha padronanza, perché non è l’uomo che parla il linguaggio, ma è il linguaggio che parla l’uomo. Ciò avviene perché esso, in particolare nel dire poetico, preserva e mostra l’Essere, non come qualcosa che si possegga, ma come qualcosa che si mostra e si sottrae. Da qui deriva anche il ricorso, tutto heideggeriano, a profonde e talvolta spericolate etimologie, che illustrano come, in un senso nascosto e quasi cancellato dall’uso, alcuni termini conservino la loro essenza originaria, il rimando alla verità di ciò che indicano. “Il linguaggio parla - scrive Heidegger-. Noi cerchiamo ora il parlare del linguaggio nella poesia. Ciò che si cerca è, pertanto, racchiuso nella poeticità della parola” (In cammino verso il linguaggio (1959), Mursia, Milano 1973, p. 33). Il linguaggio è la dimora dell’Essere e qui abita l’uomo. Ne deriva un atteggiamento diverso da quello dominante nella metafisica classica, nella tecnica moderna, in generale nella cultura contemporanea. L’uomo non parla per governare le cose attraverso il linguaggio, né parla per realizzare un modello scientifico di verità, intesa come corrispondenza tra soggetto e oggetto. Semmai è chiamato ad ascoltare e rispondere ad un appello che l’Essere gli invia attraverso la parola dei poeti. Solo in questa apertura si dà una verità autentica, perché la verità, seguendo l’etimologia della parola greca, è a-létheia, dis-velamento, uscita dal nascondimento. 5.6 Gadamer: “l’essere che può venir compreso è linguaggio” Hans Georg Gadamer (1900-2001) è l’autore che ha diffuso, articolato storicamente e rielaborato teoreticamente le intuizioni fondamentali di Heidegger relativamente all’ermeneutica. L’idea per cui ogni nostra comprensione muove da una pre-comprensione, presente in Essere e Tempo, viene sviluppata e approfondita nel capolavoro del filosofo di Marburgo, Verità e Metodo (19601-19652). L’ermeneutica contemporanea si precisa sullo sfondo dell’estetica, della storia, della filosofia greca e tedesca, delle scienze dello spirito, ma soprattutto del linguaggio, che domina tutta la terza Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 19 parte dell’opera. Il linguaggio, per Gadamer, è il medium della comprensione, (Verità e Metodo (1960), Bompiani, Milano 1990, p. 542), non nel senso dell’essere uno strumento, ma nel senso di rappresentare l’ambito intrascendibile in cui si danno il pensiero e l’esperienza. “La lingua è soprattutto nessuno strumento, nessun utensile, poiché è essenziale per lo strumento che noi ne padroneggiamo l'uso e cioè che possiamo prenderlo in mano e lasciarlo quando non serve più […].. Noi piuttosto siamo presi dalla lingua, che è propriamente nostra, in tutto il nostro sapere, in tutto il sapere del mondo. Noi cresciamo, impariamo a conoscere il mondo, impariamo a conoscere gli uomini e infine noi stessi, mentre impariamo a parlare. Imparare a parlare non significa: essere introdotti alla raffigurazione del mondo a noi familiare e conosciuto nell'uso di uno strumento a portata di mano, ma significa acquistare conoscenza e familiarità col mondo stesso, così come esso ci incontra” (Ermeneutica e metodica universale, Marietti, Torino 1973, pp. 110-111). Nel linguaggio si esprime la natura dialogica della comprensione, dell’intendere e dell’intendersi. Ma si esprime anche l’azione della storia, la tradizione di testi che ci precedono e ci determinano, il cammino di culture e uomini che hanno costituito un orizzonte di senso in cui ancora abitiamo. Uscito dall’evocazione poetante di Heidegger, l’essere si determina come storia, discorso, orizzonte di senso in cui le cose ci appaiono manifeste. Per questo, secondo Gadamer, “l’essere, che può venir compreso, è linguaggio” (Verità e Metodo, p. 542). Non perché in esso l’essere trovi un limite invalicabile, un condizionamento che non si riesce a superare. Al contrario, l’essere che possiamo comprendere è linguaggio perché solo nel linguaggio si realizza l’esperienza umana della comprensione, del sentirsi parte di un più vasto e precedente orizzonte. 6. Conclusioni Che si indaghi l’origine e le strutture proprie del linguaggio, come nella linguistica, o che si ricerchi il modo in cui il linguaggio ordinario plasma e talvolta confonde i nostri pensieri, come nella filosofia analitica, o che si intenda il linguaggio come dimora dell’Essere, come nell’ermeneutica, in ogni caso la svolta linguistica appare più un esproprio che una conquista. L’uomo si trova sempre più in balia di questo medium in cui naviga ma anche, talvolta, naufraga. Non per colpa solo del linguaggio, ovviamente. Semmai questa crisi del soggetto è una tendenza generale del pensiero novecentesco, a cui la riflessione linguistica dà il suo contributo importante, ma non unico. Analogamente emerge una concezione di linguaggio come sistema strutturato, storicamente determinato, pervasivo e condizionante, ma soprattutto intrascendibile. La riflessione sul linguaggio crea anche le premesse per una migliore capacità di gestione della differenza e di incontro tra culture diverse. Ma, oltre a ciò, appare la consapevolezza che dalla riflessione sul linguaggio emerge una più autentica visione dell’uomo e una più profonda concezione della verità. Paolo Vidali – Filosofia del linguaggio – Corsi di cultura del “Quadri” - maggio 2011 – p. 20