Storia di Parma
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Musica e Teatro
Enti promotori
Con il patrocinio di
Comitato scientifico Storia di Parma
Domenico Vera (Presidente),
Luigi Allegri, Giuseppe Gilberto Biondi, Roberto Campari, Roberto Greci, Gigliola Fragnito, Francesco Luisi,
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Monte Università Parma Editore S.r.l.
Casa editrice costituita il 4 giugno 2002 da Fondazione Monte di Parma e da Università degli Studi di Parma
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In sovracoperta: Camillo Rusca, Lira e maschere teatrali (1826-1829). Parma, Teatro Regio, timpano. (Foto G. Amoretti)
Nei risguardi: Bartolino de’ Grossi (attr.) e altri, Storie della vita di san Fabiano (1411-1436), particolare. Parma, Cattedrale, già cappella del Comune ora cappella Bernieri. (Foto G. Amoretti)
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Musica e Teatro
a cura di
Francesco Luisi e Luigi Allegri
testi di
Luigi Allegri, Manuela Bambozzi, Marco Capra, Nicola Catelli,
Alfonso Cipolla, Francesca Fedi, Francesco Luisi, Gustavo Marchesi,
Gian Paolo Minardi, Massimo Mussini, Cesarino Ruini, Paolo Russo,
Rodobaldo Tibaldi, Carlo Varotti, Gaspare Nello Vetro
Monte Università Parma Editore
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
LA DRAMMATURGIA
DAL CINQUECENTO ALL’OTTOCENTO
Nicola Catelli
Francesca Fedi*
* Pur nell’ambito di una ricerca condivisa, si
devono a Nicola Catelli i primi tre capitoli,
mentre i capitoli successivi, dedicati al teatro
del Sette e dell’Ottocento, sono da attribuire
a Francesca Fedi.
Cfr. R. Rinaldi, Quattrocento parmense,
in Storia di Parma, diretta da D. Vera, vol.
IX: G. Ronchi (a cura di), Le lettere, Parma,
2012, pp. 59-61. Se ne vedano le edizioni
moderne P. Viti (a cura di), Due commedie
umanistiche pavesi: Ianus sacerdos; Repetitio
magistri Zanini coqui, Padova, 1982, e G.
R. Grund (ed.), Humanist Comedies, Cambridge (Mass.)-London, 2005.
1
2
G. Anselmi, Hecuba, Parmae, 1506.
M. Actii Plauti Asinii Comoediae viginti
nuper emendatae. Et in eas: Pyladae Brixiani
lucubrationes. Thadaei Ugoleti: et Grapaldi
virorum Illustrium Scholia. Anselmi Epiphyllides, Parmae, 1510. I. Affò, Memorie degli
3
Fig. 208 Giovanni Antonio Lorenzini,
Gabinetto di Venere, scenografia di
Domenico Mauro per Il favore degli
Dei (1690). BPPr, BB.VI.26377
(ora in cart. Scenografie farnesiane),
tavola ripiegata tra le pp. 80-81.
(Foto G. Amoretti)
I
DA SUSANNA A DIDONE:
IL TEATRO PRE-INNOMINATO
l coinvolgimento del territorio parmense fra itinerari e corollari delle guerre
d’Italia e l’assenza, fino alla metà degli anni Quaranta del Cinquecento, di uno
stabile centro politico-culturale si ripercuotono anche sullo scarso riguardo dei
letterati nei confronti della scrittura per le scene: mentre altrove vengono elaborati
i capisaldi del teatro moderno di ispirazione classica, la drammaturgia parmense appare perciò, nei primi decenni del XVI secolo, piuttosto attardata. Squisiti
retaggi della fervida stagione umanistica – che a Parma aveva conosciuto esiti di
rilievo come la Repetitio magistri Zanini coqui e la Philogenia di Ugolino Pisani
(Parma, 1405 circa-1445 circa)1 – sono tuttavia, all’inizio del Cinquecento, la
tragedia latina Hecuba di Giorgio Anselmi nipote (Parma, ante 1459-1528), di derivazione euripidea2, e l’elegante edizione in folio delle commedie plautine stampata presso Ottaviano Saladi e Francesco Ugoleto (editore, quest’ultimo, anche
dell’Hecuba), opera collettiva, oltre che summa culturale, dei maggiori intellettuali
parmensi3 (fig. 209). Radicata nella temperie di inizio secolo, e coinvolta nel percorso di sperimentazione che accompagna sul versante volgare l’acclimatazione
del genere tragico, è inoltre la Tragedia nova, intitolata Sosanna del Domenicano
Tiborzio Sacco (Busseto, 1480 circa-?, post 1537), traduzione scenica dell’episodio
biblico di Susanna e i vecchioni (Daniele 13) che tra Quattro e Cinquecento diviene un tema letterario e pittorico di larga fortuna4 (fig. 211). Pubblicata a Venezia nel 1524 (fig. 210), poi di nuovo a Brescia nel 1537, l’opera traspone in azione
scenica il sublime messaggio delle Scritture dando luogo a una programmatica
mixtio fra elementi tragici e comici da un lato e forme più tipiche della sacra
rappresentazione dall’altro. Mentre il dettato poetico aderisce al racconto biblico
(che è “historia” e “Tragedia”)5 spingendosi fino alla traduzione diretta di alcuni
versetti, la trama, oltre a presentare il felice scioglimento della vicenda di Susanna,
amplifica elementi comici sottesi al testo sacro o ne inserisce di nuovi, come le
querelles dei servi di Gioacchino – marito della protagonista – o le sottolineature in senso erotico di alcuni dettagli già presenti in Daniele. Lo stesso giardino
‘violato’, ambientazione concreta dell’oppressione dell’innocente, costituisce in tal
senso anche un’allusione metaforica alla nudità della donna, inserendosi nella più
505
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
scrittori e letterati parmigiani, 5 voll., Parma,
1789-1797, vol. III, 1791, pp. 23-25, e A.
Pezzana, Memorie degli scrittori e letterati
parmigiani raccolte dal padre Ireneo Affò e
continuate da Angelo Pezzana, 4 voll., Parma, 1825-1833, vol. VI, parte II, 1827, pp.
327-328, ricordano anche Gellio Bernardino Marmitta, lettore di Umanità a Parma
nel 1486 e autore di un commento senecano
(Tragoediae Senecae cum duobus commentariis), più volte ristampato a partire dal 1491.
Se ne veda l’edizione moderna F. Magnani, La tragedia “Sosanna” di Tiburzio Sacco
bussetano, in P. Medioli Masotti (a cura
di), Parma e l’Umanesimo italiano. Atti del
Convegno Internazionale (Parma, 20 ottobre 1984), Padova, 1986, pp. 173-230. Cfr.
inoltre M. T. Herrick, Italian Tragedy in
Renaissance, Urbana, 1965, pp. 28-29, e F.
Bertini, “Hor con la legge in man giudicheranno”. Moventi giuridici nella drammaturgia tragica del Cinquecento italiano, Firenze,
2010, pp. 309-324. Scarne informazioni
biografiche su Tiborzio (o Tiburzio) Sacco si
leggono in Affò, Memorie degli scrittori…,
vol. III, p. 196, e Pezzana, Memorie degli
scrittori…, vol. VI, parte II, p. 426.
4
5
Così si legge nella dedica dell’autore a padre Felice Taberna: cfr. Magnani, La tragedia “Sosanna”…, p. 186. L’opera, in cinque
brevi atti suddivisi in scene, fa ricorso a una
pluralità di metri che ricorda analoghi usi di
Galeotto del Carretto: cfr. a riguardo ibid.,
pp. 178-179.
6
Sull’infrazione del vincolo con Dio da parte
dei due giudici si veda Bertini, “Hor con la
legge in man giudicheranno”…, pp. 317 sgg.
Fig. 209 M. Actii Plauti Asinii
Comoediae viginti nuper emendatae
[…], Parma, 1510. BPPr,
BB.II.26967, frontespizio.
(Foto G. Amoretti)
Fig. 210 Tiborzio Sacco, Tragedia nova, intitolata Sosanna, raccolta da Daniello Profeta […],
Venezia, 1524. Bologna, Biblioteca Universitaria, Raro B.89.2, frontespizio.
generale dialettica fra spoliazione/innocenza e ornamento/ipocrisia che costituisce
un Leitmotiv dell’opera. Posti al cospetto, per almeno due scene, della nudità di
Susanna, i frati davanti ai quali la Tragedia doveva essere letta o allestita si trovano
così in una condizione analoga a quella dei due vecchioni che spiano la donna, in
un ponderato rispecchiamento che doveva sollecitare la sensibilità dei confratelli
cui l’opera era rivolta. La parabola di perdizione dei due vecchi su cui propriamente termina la rappresentazione – parabola parallela ma opposta rispetto a quella di
Susanna – invita lo spettatore, prima ancora che al godimento per il giusto castigo
dei malvagi, alla riflessione sulle conseguenze delle passioni umane, orientando la
trasposizione biblica verso un possibile adattamento della catarsi aristotelica: dal
confronto con un’arte suasoria piegata alla lussuria e alla sopraffazione degli innocenti i destinatari della Sosanna potevano perciò trarre un monito che riguardava
l’intima essenza del loro ruolo spirituale e temporale6.
507
Storia di Parma. Musica e Teatro
Fig. 211 Lorenzo Lotto, Susanna e i vecchioni (1517). Firenze, Galleria degli Uffizi.
A una forma pienamente tragica si giungerà però solo con Giuseppe Leggiadro
Gallani (Parma, 1516-?, ante 1572), figura – non a caso – molto legata a Ottavio
Farnese7. La sua Dido (vol. IX fig. 34), che egli stesso dichiara composta anteriormente alla Didone di Lodovico Dolce (1547)8, costituisce il primo esempio di
una prassi teatrale che intende farsi carico di un ruolo civile nei confronti della
casata regnante. Benché in alcuni luoghi la tragedia si mostri prossima a quella del
Dolce, il trattamento della comune fonte virgiliana si rivela in Gallani abbastanza
autonomo. Già il prologo, in cui viene ripreso da vicino un analogo argomento
dell’Orbecche di Giambattista Giraldi Cinzio, definisce la funzione della tragedia:
così [lo spettatore-sovrano] nel contemplar, e veder spesso
l’altrui miserie, e sentir di che piaga,
siano punti, e traffitti, alcuna volta,
color che ’l mondo hoggi beati dice,
si riconosce, e ben cauto diventa
ne l’imprese, che fa di giorno, in giorno,
e l’opre sue con più ragion governa9.
508
7
Si rimanda, anche per la bibliografia relativa, a N. Catelli, Da Irpino a Vico. Scrittori
del primo e del pieno Cinquecento, in Ronchi, Le lettere…, pp. 88-91.
8
La tragedia di Gallani è conservata manoscritta presso BPPr, Ms. Parm. 3800: “Dido
/ Tragedia di m. Giuseppe Leggiadro / Gallani da Parma”. La tragedia è in cinque atti,
con un coro alla fine di ogni atto, ed è composta in endecasillabi sciolti con inserti di
endecasillabi e settenari liberamente rimati,
di stanze di canzone e di ballata, di sequenze di settenari monorimi (aaabbbCc) e di
un’ottava di settenari (abababcc).
9
BPPr, Ms. Parm. 3800, cc. 4v-5r.
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
Ibid., c. 5r. Alla fine del prologo, la canonica richiesta di silenzio da parte dell’autore
si traduce nella promessa di risollevare gli
animi degli spettatori, dopo la visione della luttuosa vicenda, con la composizione di
una nuova commedia (c. 6r).
10
S. Tomassini, L’abbaino veneziano di un
“operaio” senza fucina, in L. Dolce, Didone. Tragedia, a cura di S. Tomassini, Parma,
1996, p. XXIII.
11
C. Lucas, Didon. Trois réécritures tragiques du livre IV de l’Eneide dans le théâtre
italien du XVI e siècle, in G. Mazzacurati,
M. Plaisance (a cura di), Scritture di scritture. Testi, generi, modelli nel Rinascimento.
Atti del Seminario (Ferrara, 14-16 ottobre
1984), Roma, 1987, p. 580.
12
13
Su cui cfr. P. Cosentino, Cercando Melpomene. Esperimenti tragici nella Firenze del
primo Cinquecento, Manziana, 2003, ed Eadem, Oltre le mura di Firenze. Percorsi lirici
e tragici del Classicismo rinascimentale, Manziana, 2008, in particolare pp. 131-134.
14
Se ne veda l’edizione moderna G. L. Gallani, La Porzia. Commedia del secolo XVI,
a cura di B. Nicolini, Napoli, 1962. Della
commedia ho rinvenuto un testimone manoscritto (BPPr, Ms. Parm. 1426/1) che attesta una redazione assai prossima alla stampa,
seppure con alcune varianti notevoli (a cominciare dal titolo originario, La Fincione,
come si legge a c. 3v). Si veda anche M. Turchi, Padri e figli nella “Porzia” del Gallani,
in “Aurea Parma”, XLVII (1963), pp. 83-93.
Secondo A. M. Edoari Da Erba, Compendio copiosissimo dell’origine, antichità, successi, et nobiltà de la città di Parma, suo popolo,
e territorio (BPPr, Ms. Parm. 922, ad v.), poi
ripreso da Affò e Pezzana, Gallani compose anche una “tragedia rusticale”, l’Alithea,
e la commedia Il falso, non pervenuteci (ma
quest’ultima potrebbe coincidere con la medesima Porzia/Fincione).
Che questi versi siano da riferire ai recenti avvenimenti parmensi viene chiarito poco dopo dall’autore, ricordando come in “feste / di comedie di balli, e
torniamenti / consumato habbia la sua patria il tempo”10. È alla luce di questo
nucleo machiavelliano che viene riletta la vicenda della regina di Cartagine,
evidenziando la funzione politica dell’antiveder e l’uso della ragione e della persuasione nel governo delle città e delle alleanze. La dialettica tra affetti e facoltà
dell’intelletto che si riscontra nelle trasposizioni rinascimentali del quarto libro
dell’Eneide è così adattata da Gallani alle regole della conduzione politica e
sociale: la ragione, limitata nella trasposizione tragica operata da Dolce in favore del protagonismo di un Eros “cui non appartengono né principî morali
né competenze etiche”11, guida soprattutto le azioni e i discorsi di Enea, che si
mostra, analogamente al protagonista maschile della Didone del Giraldi Cinzio
(1541), un “esprit rusé et franchement calculateur qui semble répondre à l’ image
machiavélique du prince de la Renaissance”12. Il furor passionale di Didone che
dominava la Dido in Cartagine di Alessandro Pazzi de’ Medici13 o la vexata
quaestio dell’unione carnale con Enea e del conflitto fra pietas e amore tendono
perciò a essere lasciati sullo sfondo di una rappresentazione incentrata piuttosto sul rapporto tra intelletto e ragion di Stato, tra sorte e virtù. Enea è qui il
campione della logica politica e della retorica a essa funzionale: mentre alla fine
dell’atto terzo il coro aborre le chimere di cui il pensiero appesantisce gli animi,
concludendo con un invito ai Cartaginesi a godere del “lieto tempo”, Enea,
dopo aver lamentato all’inizio del quarto atto come gli uomini siano refrattari a
farsi persuadere da giusti argomenti, conduce al cospetto di Didone una serrata
argomentazione sul ruolo delle passioni e della ragione nel governo delle cose
umane, e in particolare sul favore che il Cielo ha in realtà sempre mostrato
verso la regina di Cartagine. La conclusione del coro, pur ribadendo la propria
sfiducia nella forza del ‘discorso’, critica l’eccessiva confidenza che Didone aveva riposto nello “stato caro” faticosamente riacquistato: e si comprende bene a
questo punto come la luttuosa fine della regina intendesse fornire un exemplum
per il nuovo duca Ottavio, ammonendolo alla vigile intelligenza degli eventi
affinché Parma non avesse a far proprio, in futuro, il lamento dei Cartaginesi
per la caduta della città.
GLI INNOMINATI FRA ACCADEMIA, CORTE E SELVA
La tragedia Dido seguiva di pochi anni la Porzia, commedia pubblicata da Gallani intorno al 1548 ma composta forse all’inizio del decennio14. La trama si
basa sul motivo tradizionale dei fratelli – o fratello e sorella, come in questo
caso, con immediato riferimento a Gl’Ingannati degli Accademici Intronati senesi – separati in giovane età da un evento luttuoso e infine fortunosamente
ricongiunti dopo una risolutiva agnizione che pone termine a fitte serie di equivoci. L’individuazione del Sacco di Roma (1527) e dell’assedio di Firenze (1530)
509
Storia di Parma. Musica e Teatro
come cause della separazione e delle vicissitudini dei protagonisti – secondo
un modulo ricorrente il cui abuso verrà stigmatizzato dall’Assiuolo di Giovanni
Maria Cecchi (1549), ma di cui, in questo caso, si possono comprendere bene
le implicazioni rispetto al pontificato di Paolo III Farnese – è in Gallani pretesto per un’energica satira anti-spagnola che risulta, insieme ad alcuni inserti
marcatamente scurrili e a esplicite sollecitazioni sessuali rivolte al pubblico, uno
dei tratti più caratteristici dell’opera. La Porzia è inoltre, a conti fatti, una delle
poche commedie composte da autori parmensi fra Cinque e Seicento15: di lì a
breve, infatti, l’Accademia degli Innominati si guarderà sia dal proporre autonomi modelli comici sia dall’avallare commistioni ‘tragicomiche’ fra i generi
teatrali, mentre in pieno Seicento la produzione parmense sarà attratta quasi
esclusivamente dal dramma spirituale, dagli intermezzi e dal melodramma. Un
Fig. 212 Descrittione delli intermedii fatti nelli Inganni […] (1569). BPPr, Ms. Parm. 763,
frontespizio. (Foto G. Amoretti)
510
15
Affò e Pezzana segnalano al riguardo,
basandosi sul Compendio del Da Erba, due
commedie – La pellegrina e I matrimoni –
di Baldassarre Palmia, sacerdote parmense,
rappresentate rispettivamente per il cardinale Marino Grimani, legato di Paolo III, e
per Pier Luigi Farnese (probabilmente, dunque, intorno alla metà degli anni Quaranta:
cfr. Affò, Memorie degli scrittori…, vol. IV,
1793, pp. 247-248, e Pezzana, Memorie degli scrittori…, vol. VI, parte II, pp. 597-599).
Ricordano inoltre la Nicoletta dello stesso
Da Erba e La burla di Arcangelo Spagi (o
Spaggi) detto “di Canosa”, “sottomaestro
delle entrate del duca Ottavio” (cfr. Affò,
Memorie degli scrittori…, vol. IV, p. 176, e
Pezzana, Memorie degli scrittori…, vol. VI,
parte II, pp. 567 e 652). Composero una
commedia anche Giuseppe Pallavicino di
Borgo San Donnino, anteriormente al 1555,
e Federico De’ Rossi (cfr. Affò, Memorie
degli scrittori…, vol. IV, pp. 127 e 184). Si
veda inoltre E. Bocchia, La drammatica a
Parma. 1400-1900, Parma, 1913, pp. 75-78.
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
analogo atteggiamento si riscontra anche nelle scelte editoriali dei Viotti che,
solo in pochi casi, fra XVI e XVII secolo, approntano volumi di commedie
(parmensi e non). Pièces comiche vengono tuttavia regolarmente rappresentate
presso la corte farnesiana e le residenze dei nobili: ne è rimasta una puntuale
testimonianza, ad esempio, per il Cinquecento, nella descrizione dell’apparato e
nella trascrizione dei testi degli intermezzi composti in occasione della rappresentazione colornese de Gl’Inganni, commedia del bresciano Nicolò Secchi allestita dall’Accademia degli Amorevoli durante il carnevale del 156916 (fig. 212).
Sono invece la tragedia e la pastorale i generi d’elezione della letteratura teatrale parmense, anche in virtù dell’intensa speculazione teorica elaborata in seno
all’Accademia degli Innominati. Animato dall’auctoritas di Pomponio Torelli
(Montechiarugolo, 1539-Parma, 1608; fig. 213), il cenacolo degli Innominati
Gli intermezzi sono trascritti in L. Balestrieri, Feste e spettacoli alla corte dei Farnese, Parma, 1981, pp. 75-85, sulla base di
BPPr, Ms. Parm. 763. Dello stesso Secchi
(morto nel 1560) verrà stampata proprio a
Parma, e per istanza dell’Innominato Antonio Maria Garofani, l’edizione postuma della commedia Il Beffa, per Viotti, nel 1584.
16
Fig. 213 Giovanni Battista Trotti, detto il Malosso, Pomponio Torelli (fine XVI-inizio XVII
secolo). Caserta, Palazzo Reale. (Foto A. Gentile)
511
Storia di Parma. Musica e Teatro
impronta una stagione culturale fra le più ricche, anche per interesse nazionale,
della storia parmense17. L’Accademia costituisce anzi uno dei centri privilegiati in
cui si porta a compimento il passaggio da una tragedia focalizzata sul conflitto
fra ragion di Stato e sentimento a una diversa modalità tragica, innervata dalla
riflessione sui processi intellettivo-passionali interni alla ragion di Stato e sul
rapporto, dialettico o conflittuale, fra legge e morale cattolica. L’interesse degli
Innominati per il teatro muove da un complessivo ripensamento dello statuto
della letteratura e del sistema dei generi letterari alla luce di una rilettura laica
– ma al contempo inquadrata in un’ottica spirituale – della Poetica aristotelica.
In relazione al teatro agivano, in questa prospettiva, anche istanze di natura politica: nell’attenzione per la tragedia si traduceva infatti la volontà di considerare
non solo il ‘modo’ rappresentativo più nobile, ma anche il genere che permetteva
– a fronte del progressivo rafforzamento del potere ducale – di misurare i confini della libertas accademica rispetto alla propensione farnesiana all’egemonia
culturale. Non a caso nei testi Innominati ricorre la figura del principe-tiranno,
exemplum, soprattutto negli esiti torelliani, di un animo perturbato e a sua volta
tiranneggiato dalle proprie passioni che si concepisce come individuo al di fuori
di ogni norma di comune giustizia.
Tutto il teatro Innominato risponde insomma a “un’etica insieme umana
e fortemente ideale, in grado di attrarre nelle sue spire la nuova riflessione sul
potere tirannico, accanto alle tematiche più strettamente religiose della cultura
controriformistica”18. La stessa catarsi, ripensata all’insegna di una sintesi – tipicamente torelliana – fra aristotelismo e platonismo, si coniuga con il concetto
di furor platonico, facendo consistere la finalità della tragedia nel ricondurre a
unità le discordi passioni dell’animo e nel purificare lo spettatore dal contatto
con le passioni terrene19. Solo così l’uomo può giungere, come si legge in una
delle più eloquenti tracce del dantismo torelliano, “a riveder l’aere sereno”20,
come individuo e come pars societatis.
La purgazione degli affetti in un’ottica di ascensus ad Coelos è del resto uno
dei fondamenti della poetica filosofica del Torelli: le passioni dell’animo rappresentano anzi l’oggetto costante della sua scrittura, un oggetto che di volta in
volta rimodella dall’interno gli statuti dei generi letterari in cui esso prende forma
(poesia lirica, trattatistica, teatro). Anche per questo motivo il teatro appare come
il naturale punto d’arrivo della sua produzione letteraria, peraltro sempre condotta sul doppio versante della teoria e della prassi. Composte tra il 1587 e il 1605, le
cinque tragedie torelliane sono costruite secondo una struttura ‘a episodi’ di derivazione greca e si basano, in linea con la stessa teorizzazione dell’autore, su fabulae
già note ma non del tutto explanatae, in modo che il poeta possa condurne nodi
e sviluppi in piena libertà. Com’è stato notato, la successione delle tragedie si dispone secondo una sorta di chiasmo21 che congiunge da un lato la Merope (1589,
ma iniziata nel 1587) al Polidoro (1605), in virtù della comune derivazione dal
Liber fabularum di Igino e delle complessive somiglianze di trama, personaggi e
scelte stilistiche; dall’altro il Tancredi (iniziato nel 1588, edito solo nel 1597) alla
Vittoria (1605), sulla base, quanto meno, dell’ambientazione medievale e italica (e
in parte parmense, nel secondo caso) e del ricorso al tema dell’ingiustizia di cor-
512
17
Per un’approfondita analisi dell’Accademia degli Innominati, fondata nel 1574,
rimando a L. Denarosi, L’Accademia degli
Innominati di Parma. Teorie letterarie e progetti di scrittura (1574-1608), Firenze, 2003
(per il teatro pp. 255-400), e ad A. Torre,
Pomponio Torelli, gli Innominati e la civiltà
letteraria del secondo Cinquecento, in Ronchi, Le lettere…, pp. 107-131. Sull’Accademia e sulla figura di Torelli si vedano inoltre
P. Montorfani, Uno specchio per i principi.
Le tragedie di Pomponio Torelli (1539-1608),
Pisa, 2010, e A. Bianchi, N. Catelli, A.
Torre (a cura di), Il debito delle lettere. Pomponio Torelli e la cultura farnesiana di fine
Cinquecento, Milano, 2012.
Denarosi, L’Accademia degli Innominati…, p. 261.
18
Sulle lezioni di Torelli cfr. ibid., passim,
G. Genovese, “Non essendo Poesia altro che
Poetica in atto”. Note sugli scritti di poetica
di Pomponio Torelli, in Bianchi, Catelli,
Torre, Il debito delle lettere…, pp. 57-74, e G.
Vernazza, Poetica e poesia di Pomponio Torelli, Parma, 1964, in particolare pp. 67-103.
19
20
P. Torelli, Galatea, a cura di A. Bianchi,
in Idem, Teatro, introduzione di V. Guercio,
testi, commenti critici e apparati a cura di A.
Bianchi, V. Guercio, S. Tomassini, Parma,
2009, p. 226, v. 36.
Cfr. in particolare V. Guercio, Dalla Merope al Polidoro: sulla storia del tragico torelliano, ibid., pp. XII-XIII.
21
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
Cfr. A. Bianchi, Introduzione, in Torelli, Galatea…, p. 215, e Denarosi, L’Accademia degli Innominati…, pp. 385-387.
22
23
Cfr. ibid., pp. 344-345.
24
Guercio, Dalla Merope al Polidoro…,
pp. XXII-XXIII. Oltre al corpus torelliano,
rimangono le tragedie Semiramis del cesenate Muzio Manfredi, edita per la prima
volta nel 1593 ma risalente alla prima metà
degli anni Ottanta, e la Sidonia del ferrarese
Orazio Ariosti. Perdute sono poi L’Amata,
L’Edipo e il Cristo di Eugenio Visdomini, segretario dell’Accademia, l’Atamante di Giacomo (o Jacopo) Scutellari, medico e fisico,
la Lucrezia del reggiano Gabriele Bombasi, e
una tragedia senza titolo di Girolamo Alessandrini. È stato invece recentemente rinvenuto presso la Biblioteca Panizzi di Reggio
Emilia il manoscritto della tragedia Alidoro
del Bombasi, risalente alla metà degli anni
Sessanta ma corretta a più riprese durante la
stagione accademica, di cui è rimasta anche
la descrizione dell’allestimento avvenuto nel
1568 a Reggio Emilia, alla presenza della corte estense: cfr. M. Abbati, “Alidoro”.
Tragedia in cinque atti di Gabriele Bombasi,
Tesi di Dottorato, Università degli Studi di
Parma, 2013, tutor prof.ssa G. Raboni.
te. Al centro, la Galatea (1603), tragedia boschereccia di argomento mitologico,
segnala una sorta di turning point nella produzione torelliana: mentre per l’ultima
volta viene dato corso al tema amoroso, la figura del tiranno (qui incarnata dal
ciclope Polifemo, geloso dell’amore di Galatea per Aci) è dissociata da quel tentativo di dominare le proprie passioni che ne garantiva la ‘mezzanità’ e si presenta
invece del tutto malvagia e aliena dalla morale cattolica, come saranno in seguito
Ezzelino da Romano nella Vittoria e Polinestore nel Polidoro; fa inoltre la sua
comparsa, anche in opposizione a un pressoché inedito satiro-consigliere malvagio, una “assemblea dei pastori antichi” a sostegno dell’ideale di buon governo,
dietro alla quale si scorge l’ombra degli stessi accademici22. Procedendo un passo
oltre nella medesima direzione, e inscrivendo in un contesto più marcatamente
controriformistico gli schemi, i personaggi e le situazioni della dittologia MeropeTancredi, il dittico conclusivo Vittoria-Polidoro culminerà con la proposta di un
modello di principe cristiano, “apoteosi di un potere santificato e pienamente
legittimo”, che lascia intravvedere la fisionomia di Ranuccio Farnese23.
Proprio questa evoluzione del percorso tragico torelliano risulta alla fine uno
degli aspetti di maggiore interesse della sua produzione, consentendo di “seguire, testimoniare, rivelare da presso, capillarmente e passo per passo, […] nel
concreto farsi poetico della carriera di
uno stesso autore, un’assai più ampia e
generale evoluzione del quadro culturale italiano nel corso del decisivo dei
decenni a cavaliere dei due secoli”24.
Punto di svolta di questo percorso,
la Galatea rappresenta anche la ‘via
torelliana’ alla pastorale, genere particolarmente frequentato all’interno
del milieu parmense dagli anni Ottanta del Cinquecento fino ai primi
decenni del secolo successivo. È, anzi,
questo l’unico genere teatrale, insieme al melodramma, in cui si registra
una convergenza fra interesse durevole mostrato dagli autori parmensi,
consolidata tradizione rappresentativa
e attenzione non sporadica da parte
del principale editore locale. Già nel
1581 viene data alle stampe dal Viotti un’edizione dell’Aminta tassiano
dedicata allo stesso Torelli (fig. 214),
mentre nel 1583 ha luogo l’imporFig. 214 Torquato Tasso, L’Aminta [...],
tante rappresentazione della Danza
Parma, 1581. Roma, Biblioteca dell’Accadi Venere di Angelo Ingegneri presso
demia Nazionale dei Lincei e Corsiniana,
la corte di Isabella Lupi Pallavicino,
6.93 K 7, p. 3.
513
Storia di Parma. Musica e Teatro
e sempre negli stessi anni viene discusso dagli Innominati anche il Pastor fido
del Guarini. La ricca produzione accademica – conservatasi in questo ambito
in misura maggiore rispetto alle tragedie – è testimoniata dalla Semiramis boschereccia di Muzio Manfredi (pubblicata nel 1593)25, principe Innominato nel
1580, dall’Erminia del segretario Innominato Eugenio Visdomini (ante 1591),
tratta dal canto XIX della Liberata in una eloquente sintesi pastorale dei generi
illustri (epopea e tragedia)26, dall’Enone di Ferrante II Gonzaga, signore di Guastalla, dalla Partenia di Barbara Torelli, cugina di Pomponio, dalla Carbonaia
di Giovan Francesco Ugeri (1590) e ancora dalla Mirinda di Marc’Antonio Ferretti (1612; vol. IX fig. 51). Si aggiungano inoltre le opere di autori in contatto
con gli Innominati, come il reggiano Gabriele Zinani, autore del Caride27, e la
vicentina Maddalena Campiglia, cui si deve una Flori (1588)28.
La maggiore leggerezza di tono, oltre al successo che il genere conosce al
di fuori delle mura cittadine, in primo luogo nella vicina Ferrara, garantisce
anche a Parma la fortuna della pastorale, preceduta e affiancata, peraltro, dal
ricorso dei poeti lirici – da Irpino e Borra a Rossi e Marmitta, fino a Torelli e
Baldi – ad ambientazioni idillico-bucoliche29. Da un lato il testo boschereccio
si invera – soprattutto nei casi di Manfredi, Visdomini e Gonzaga – come travestimento tragico che fa della selva una corte idealizzata in cui può realizzarsi
l’idea di buon governo, rientrando così nel côté politico del teatro accademico;
dall’altro sussume in forma mediata alcuni elementi comici che garantiscono
la piacevolezza della rappresentazione. La pastorale prevede infatti la possibilità di un finale lieto senza che per questo venga meno il principio della
catarsi-purgazione. Negli esiti più prossimi alla teorizzazione Innominata, la
pastorale corrisponde anzi tout court alla ‘tragedia di fin lieto’, poco concedendo al tragicomico guariniano (dei due principali rami boscherecci, Aminta
e Pastor fido, la prassi accademica opta idealmente per il primo, di cui viene
colta l’intima tragicità): lo scioglimento felice della fabula è infatti garantito
da una finta catastrofe che viene svelata come tale soltanto alla fine, in modo
che l’azione possa mantenersi all’interno dell’orizzonte tragico. Alla comicità,
del resto, Torelli assegna una funzione prevalentemente conservativa ed etimologicamente ‘divertente’, che inficia la capacità di indurre lo spettatore al
miglioramento di sé:
[…] il piacere delle Comedie […] più tosto conferma gl’animi nelle cose
terrene, come quello che piacere gliele fa, et la Tragedia ci leva quanto pò, et
però usa ogni violenza per stricarne da ogni interesse di questo mondo, per
purgar gl’affetti, et disporne sprezzato ogni cosa alla Virtù30.
Rispetto a questo tipo di comicità, la piacevolezza del decorso pastorale esercita
un’analoga funzione conservativa, confermando però lo spettatore, laddove opportunamente modulata, non nella sua adesione alle passioni e ai costumi del
secolo, ma, specularmente, nella convinzione della bontà dei valori propugnati
dalla Controriforma e dalla morale cattolica, in linea, perciò, con l’esperienza
del teatro gesuitico che a Parma era andata già precocemente sviluppandosi.
514
Cfr. M. Manfredi, A. Decio da Orte,
Semiramis. Acripanda. Due regine del teatro
rinascimentale, a cura di G. Distaso, Taranto, 2001. Sul Manfredi e sulla pastorale
Innominata cfr. in generale Denarosi, L’Accademia degli Innominati…, pp. 345-400, e
Torre, Pomponio Torelli, gli Innominati…,
pp. 128-131, anche per le notizie biografiche
sugli autori citati.
25
E si tratta già di un’apertura all’incipiente
melodramma. Si veda L. Denarosi, L’“Erminia” di Eugenio Visdomini, in “Schifanoia”,
XXIV-XXV (2003), pp. 29-122.
26
La prima edizione della pastorale è parmense (Viotti, 1582).
27
Se ne veda la recente edizione moderna M.
Campiglia, Flori, a Pastoral Drama. A Bilingual Edition, edited with an introduction
ad notes by V. Cox and L. Sampson, translation by V. Cox, Chicago-London, 2004.
28
Si aggiunga la traduzione delle Bucoliche
di Virgilio da parte dell’Accademico Girolamo Pallantieri, edita postuma nel 1603.
29
30
BPPr, Ms. Parm. 1305, p. 20.
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
Fig. 215 Disegno di scenografia teatrale (XVII secolo). BPPr, Ms. Parm. 3708, c. 6. (Foto G. Amoretti)
DRAMMI SACRI E LIBRETTI NEL SEICENTO
31
Cfr. Torre, Pomponio Torelli, gli Innominati…, pp. 126-127.
I primi quattro drammi vennero stampati
a Parma da Anteo Viotti, mentre dell’ultimo
rimane soltanto una testimonianza indiretta
in R. Pico, Appendice de vari soggetti parmigiani […], Parma, 1642, ad v., seguito da
Affò, Memorie degli scrittori…, vol. V, 1797,
pp. 16-18. Cfr. anche DBP, ad v.
32
L’ispirazione religiosa del teatro Innominato è evidente anche in alcuni esiti sacri,
come il Cristo (perduto) del Visdomini e la tragedia Caterina martire dell’eclettico Fortuniano Sanvitale (Sala Baganza, 1564 circa-Parma, 1626; vol. IX fig. 50),
pittore e poeta, autore del poemetto Anversa conquistata e degli argomenti per
L’Adone del Marino31. Più in generale, il dramma spirituale occupa fino alla metà
del secolo gli scrittoi degli autori parmensi, sia per le sue virtualità spettacolari sia
per l’intensa attività del gesuitico Collegio dei Nobili. Spicca al riguardo, subito
dopo la conclusione della stagione Innominata, la figura di Antonio Maria Prati
(Parma, XVI secolo-1636 circa), autore di cinque drammi religiosi – La Margherita ravveduta (1612; vol. IX fig. 56), La Maria racquistata (1614), L’Egittia pentita
(1615), Tito convertito (1617) e La Vittoria migliorata (1623)32 – tutti rappresentati
515
Storia di Parma. Musica e Teatro
ed editi a Parma. Le opere del Prati sono strutturate secondo uno schema consustanziale al teatro religioso, ovvero il ravvedimento del personaggio principale che,
perso fra gli idola terreni e i piaceri del corpo, viene infine ricondotto per intervento divino nell’alveo della vera religione. La ricorsività dello schema è evidente già
nell’omologia dei titoli. Il periodo trascorso dal protagonista nel peccato è relegato nell’antefatto, mentre l’azione vera e propria prende avvio in coincidenza con
l’evoluzione spirituale del personaggio; allo stesso modo, la conclusione lieta della
vicenda corrisponde all’effettivo riavvicinamento a Dio, celebrato con un canto
di lode conclusivo33. Lo svolgimento del dramma tende così a corrispondere alle
tappe della conversione, dove all’insorgere del sentimento del peccato e al timore
per la punizione di Dio seguono la vergogna e la sfiducia – dettata dalla commisurazione dell’amore divino secondo i parametri degli affetti umani – nella capacità
di perdono di Dio, infine la conversione. La lotta fra morale e peccato, fra inerzia
e pentimento interna all’animo del protagonista connota perciò in senso religioso
la ‘mezzanità’ del personaggio aristotelico, e si estrinseca, anche a beneficio di
macchine spettacolari sempre più ardimentose (fig. 215), nella contesa speculare
fra potenze divine e forze infernali34, o fra personificazioni di vizi e virtù, per il
possesso dell’anima del peccatore, secondo moduli tratti dalla sacra rappresentazione e dal teatro popolare.
Concepiti sotto l’egida della duchessa Margherita Aldobrandini Farnese,
promotrice di una letteratura spesso incentrata su figure muliebri esemplari35, i
drammi del Prati presentano sulla scena donne che giungono a rifiutare l’“amor
di senso e carne”36 e il “fango palustre / de’ carnali sozzissimi diletti”37 dopo un
sofferente travaglio interiore. Ciò che si compie alla fine sulla scena è “un véritable
retournement de la volonté, une affiliation de l’ homme sensuel et pécheur au service
de la Cité de Dieu et de son cheminement providentiel dans l’ histoire”38: alla catarsi
aristotelica si sostituisce dunque l’esemplificazione diretta, e il palco diviene lo
specchio ideale, e ideologicamente orientato, per le coscienze della platea. Il valore esemplare della vicenda – che si riversa anche sul concetto di imitatio letteraria,
a segnalare come al ravvedimento delle anime debba corrispondere anche una
conversione delle forme – è bene esplicitato nel prologo dell’Egittia pentita, svolto
dal beato Giovanni Colombino, fondatore dei Gesuati e a sua volta exemplum di
una conversione cagionata proprio dall’agiografia di Maria Egiziaca:
E che non può l’esempio?
Ceda, ceda il valor d’aurea eloquenza,
o ristretta, o vagante,
che non può tanto in core,
perché del mal venghi, e del bene amante.
Natura pur l’addita:
dammi un occhio, che pianghi,
e fa, che altro il rimiri occhio ridente,
che di tosto il vedrai
depor la gioia, e divenir piangente.
[…]
516
33
Sui drammi del Prati cfr. A. Ceruti
Burgio, Alcuni drammi poco noti del primo
Seicento di Antonio Maria Prati, in Eadem,
Parma rinascimentale e ducale. Poesia, arte e
società a Parma dal tardo ’400 alla fine del
’700, Parma, 1996, pp. 137-151, e F. Bondi,
La Festa e la Storia. Cultura e letteratura nel
Seicento, in Ronchi, Le lettere…, in particolare pp. 143-145.
Spesso, peraltro, camuffate. Anche il motivo del travestimento, frequente in Prati, è
segno di una realtà infida e sfuggente che
l’intelletto umano non riesce a giudicare
con sicura certezza, oltre che allegoria della mutevolezza del mondo e della pervasiva
presenza nei casi umani della dicotomia fra
bene e male.
34
A lei è dedicata anche l’azione scenica La
Giuditta di Antonio Maria Anguissola (Venezia, 1629), pubblicata due anni dopo la
princeps della Iudit dellavalliana, prossima
nella forma e nella scelta dell’argomento alla
modalità della tragedia di lieto fine e improntata a un sensibile ibridismo di genere.
35
A. M. Prati, La Maria racquistata, Parma, 1614, p. 7. Prescindendo da Tito, unico
protagonista maschile, i personaggi dei suoi
drammi sono santa Margherita da Cortona,
convertitasi dopo la morte dell’amante; Maria, nipote dell’eremita Abramo, divenuta
meretrice e poi ricondotta a santa vita, già
protagonista di un’opera di Rosvita di Gandersheim; Maria Egiziaca, prostituta vissuta
fra IV e V secolo, che si fa monaca e viene
riconosciuta come santa; infine, e in parziale eccezione, santa Vittoria, vergine romana
uccisa per aver abbracciato la vita monacale
non acconsentendo al matrimonio.
36
37
Idem, L’Egittia pentita, Parma, 1615, p. 4.
38
M. Fumaroli, Les Jésuites et la pédagogie de
la parole, in M. Chiabò, F. Doglio (a cura
di), I Gesuiti e i Primordi del Teatro Barocco
in Europa. Atti del Convegno (Roma-Anagni,
26-30 ottobre 1994), Viterbo, 1995, p. 46.
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
Ma, qual cagion seconda
puote recare a l’arte,
natale, e crescimento,
se ciò non fa l’esempio?
Questo, questo le fu padre, et alunno
onde ella visse, e vive, e crebbe, e cresce39.
39
Prati, L’Egittia pentita…, pp. 1-2. Gli
intermezzi di tutte le sue opere, pubblicati
insieme ai drammi stessi ed esibiti nel frontespizio, sono di argomento religioso. Il Prati
è inoltre autore degli intermezzi per La Taide convertita del bolognese Ambrogio Leoni,
pubblicati insieme alla Margherita ravveduta
(Parma, 1612).
Su di loro cfr. Affò, Memorie degli scrittori…, vol. IV, pp. 241-243, e Pezzana, Memorie degli scrittori…, vol. VI, seguito della
parte II, 1827, pp. 818-819. Alle pp. 161-162
l’Affò menziona anche le opere teatrali L’Eugenio e La Sinforosa di Girolamo Predomini,
originario di Calestano.
40
Cfr. F. Petrei, La Natività di Christo, Parma, 1644, p. 6.
41
Rafforza il carattere meditativo anche
l’alternanza, all’interno delle varie parti, di
momenti lirici e di passi più ragionativi (ad
esempio: “Lo Spirto non è il Figlio, e non è
il Padre, / Ov’è il Padre, ivi è il Figlio, ivi lo
Spirto, / Sono il Padre, e lo Spirto anc’ov’è il
Figlio […]”, ibid., p. 108).
42
BPPr, Ms. Parm. 68. Il manoscritto trasmette anche i componimenti dedicati
all’autore da due altri poeti parmensi, Lodovico Bianchi (su cui cfr. Bondi, La Festa e
la Storia…, pp. 137-138) e lo stesso Petrei.
Sono compresi anche gli intermezzi, sempre
di argomento religioso.
43
44
BPPr, Ms. Parm. 68, c. 17r.
A delineare il panorama del dramma sacro a Parma concorrono anche le opere
di tre religiosi: Francesco Petrei, dottore in teologia e primicerio della Cattedrale, Ilario Politi, sacerdote, e Pier Carlo Tinti, Minore conventuale40. Il
Petrei, in particolare, compose una Natività di Christo – edita a Parma presso
Vigna – che adegua alla struttura in atti e scene modalità formali più libere
derivanti dal teatro spagnolo, in particolare da Lope de Vega, espressamente
elogiato nella premessa41. La trasposizione evangelica – aperta dal prologo di
Isaia che annuncia la venuta di Cristo da lui stesso profetizzata – è scandita
in atti e in “parti”, ovvero singoli quadri relativamente autonomi, dotati di
un apposito titolo (Le nozze di Maria, Zaccaria al tempio, Il sogno di Elisabetta
etc.), che permettono di far comparire sulla scena un elevato numero di personaggi in un arco temporale dilatato. In netta divergenza rispetto alle unità
aristoteliche, la successione delle parti conferisce al dramma un andamento
riflessivo la cui finalità è la meditazione sulle singole ‘stazioni’ che conducono
alla nascita di Cristo, all’adorazione del puer (anche attraverso un adeguato
spazio riservato al tema barocco del presepe), alla fuga in Egitto, alla punizione di Erode e al ritorno di Gesù a Nazaret42.
Su figure di martiri, la cui morte agìta nell’empito divino trasforma la luttuosa catastrofe tragica in finale lieto, sono invece incentrate le opere di Politi
e di Tinti, che affidano al teatro religioso, secondo una modalità ampiamente
diffusa e consolidata a quest’altezza cronologica, una finalità deittica e parenetica. Del primo è rimasto manoscritto, in una redazione preparatoria alla stampa,
Il Martirio di San Lorenzo (1660)43, aperto da un prologo in cui l’Amor divino
sovverte i tradizionali simboli dell’amore profano e i convenzionali tópoi lirici
per additare la ‘morale’ dell’esemplare martirio:
Son venuto qua giù dal Ciel disceso,
per infiammar il cuore,
d’un mio devoto Amante,
ch’hoggi col fuoco di questa mia face,
vincerà il fuoco ardente,
che gli si appresta da crudel tiranno.
E come salamandra,
o nel rogo Fenice,
risorgerà più candido, e più bello,
e godrà su nel Cielo,
una gloria immortale,
che è premio d’alto Amore44.
517
Storia di Parma. Musica e Teatro
Intorno agli stessi anni, il Tinti scrive invece componimenti dedicati a donne
martiri: il Martirio di Sant’Agnese (1659), il Martirio di Santa Prisca (1660), il
Martirio della Vergine Margherita (precedente a quest’ultimo) e il Martirio di
Santa Barbara45. Il manoscritto del Martirio di Santa Prisca, per inciso, in cui
sono indicati alcuni Avertimenti rivolti a chi intende rappresentare l’opera (fig.
216), conferma l’importanza di un accurato allestimento per la riuscita della
didassi cattolica, e attesta, in questa marcata propensione verso la scena, la coesione fra tessuto culturale cittadino e produzione teatrale sacra.
Nel frattempo, ideale prosecuzione della pastorale Innominata, benché priva
di istanze politiche analoghe a quelle che animavano il cenacolo a fine Cinquecento, era apparsa l’opera di Lorenzo Longhi (Parma, 1603-Piacenza, 1669) Gli
Fig. 216 Pier Carlo Tinti, Avertimenti, in Martirio di Santa Prisca (1660). BPPr, Ms. Parm.
146, c. [94r]. (Foto G. Amoretti)
518
45
Il primo dramma è pubblicato a Parma dal
Vigna, mentre il secondo è conservato manoscritto (BPPr, Ms. Parm. 146). Delle altre
due opere si hanno testimonianze indirette.
Cfr. G. Franchini, Bibliosofia, e memorie
letterarie di scrittori francescani conventuali
ch’ hanno scritto dopo l’anno 1585, Modena,
1693, p. 144 (che attesta anche la morte dello scrittore a Brescello).
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
Anche per Francucci e Longhi rinvio a
Bondi, La Festa e la Storia…, pp. 148-150. Si
aggiunga inoltre la pubblicazione parmense,
per Viotti, della pastorale Alvida (1614) di
Guidubaldo Benamati, originario di Gubbio
e attivo a Parma all’inizio del secolo.
46
47
Cfr. DBP, ad v.
Sul Cadonici cfr. Affò, Memorie degli
scrittori…, vol. IV, p. 272, e Pezzana, Memorie degli scrittori…, vol. VI, seguito della
parte II, p. 831.
48
49
Oltre ad alcuni inserti lirici compaiono,
in corrispondenza con l’uscita di scena dei
personaggi, anche distici a rima baciata.
effetti di Amore, nel 162646, e si ha notizia di un Fiorillo (o Florillo) pubblicato
nel 1620 da Alessandro Francucci (Parma, 1601-post 1642). D’altra parte la stessa inaugurazione del Teatro Farnese, nel 1628, aveva visto una riproposizione
dell’Aminta tassiano accompagnata dal prologo (Teti, e Flora) di Claudio Achillini. Su un versante tragico-boschereccio si colloca poi l’Atalanta di Ranuccio (o
Ranuzio) Pallavicino (Polesine Parmense, 1632-Roma, 1712)47, estranea, tuttavia, all’orizzonte parmense. Lieta azione scenica, ancorché nell’avviso ai lettori
venga piuttosto descritta come tragedia idilliaca, l’opera riprende l’uccisione del
cinghiale calidonio da parte di Meleagro, il quale ne dona in seguito la pelle ad
Atalanta che per prima ha ferito l’animale; la conclusione prevede, rispetto alla
vulgata del mito, il matrimonio fra i due giovani. Composta nel 1667 per il duca
Ferdinando Maria di Baviera, presso il quale il Pallavicino risiedeva già dagli anni
giovanili, l’Atalanta è peraltro un aggraziato congegno testuale concepito per esaltare – con la cadenza melodica di endecasillabi e settenari, con le canzonette di
parisillabi, con i momenti coreutici e con gli espedienti scenografici – i pregi degli
allestimenti teatrali della corte bavarese e le virtù artistiche dei suoi singoli membri (in primo luogo Adelaide di Savoia, interprete di Atalanta).
Riallaccia invece le fila di tragedia e dramma spirituale, verso la fine del
secolo e in tutt’altra temperie culturale, il sacerdote Pompeo Cadonici, autore,
fra gli anni Ottanta e Novanta, di diverse opere di carattere morale e religioso:
Il tiranno fulminato, e la pietà trionfante (Bologna, 1680), La maggior ingratitudine (Parma, 1681), Amor è un laberinto ove chi incauto entra avinto resta (Bologna, 1682), Il traditor pentito (Bologna, 1690), Santa Cecilia e Dell’ innocenza è
protettor il Cielo (entrambi Bologna, 1691)48. Documenti dell’avvenuta apertura
nei confronti della letteratura teatrale europea anche nei ‘centri periferici’, scritti
in una prosa49 che guarda sia alla sintassi della commedia sia ai dialoghi della
narrativa secentesca, i drammi del Cadonici si basano su un’inventio romanzesca che consente all’autore di dispiegare trame avventurose di ambientazione
esotica che esaltano i ricchi apparati previsti per l’allestimento grazie a mutazioni di scena, combattimenti protratti in numerose varianti virtuosistiche,
travestimenti, fughe concitate, lotte per il trono, avvelenamenti, lettere rubate,
patti con il demonio etc. La gamma dei registri può variare così dal lamento patetico al discorso morale, dall’effetto lugubre (come la diretta visione di cadaveri
e morti violente sulla scena) al comico, dando luogo, tuttavia, ad accostamenti
non sempre ben condotti. Le scene comiche e gli inserti ridicoli e grotteschi
fanno perno sulle figure dei servi e sul loro canonico corredo di fraintendimenti, doppi sensi, sgualciture linguistiche e wellerismi, mentre i brani canori, a
cui può essere accostato, per analoga funzione, l’uso serrato di una sticomitia
che spesso sfocia in battute pronunciate all’unisono dai personaggi, evidenziano
un’impronta melodrammatica.
Anche per questa via il melodramma giunge a condizionare gli altri generi
teatrali, sulla scorta di una fascinazione melica che a Parma si coglie nella continuità delle rappresentazioni e nella produzione librettistica degli autori che
frequentano la corte farnesiana (in primo luogo Alessandro Guidi, che proprio
a Parma compone una serie di introduzioni a balletti di corte e soprattutto il
519
Storia di Parma. Musica e Teatro
melodramma Amalasonta in Italia, pubblicato nel 1681)50. E forse non sarà
esente dall’influenza dell’ambiente parmense uno dei più prolifici librettisti del
secondo Seicento, Giulio Cesare Corradi (Parma, 1640/1650-Venezia, 1702),
autore di ventitré drammi musicati da compositori come Marc’Antonio Ziani,
Giovanni Legrenzi, Carlo Francesco Pollarolo, Tomaso Albinoni, e rappresentati nei principali teatri veneziani (oltre che a Dresda, a Mantova, a Modena).
Attivo a Venezia per un quarto di secolo, da La schiava fortunata (1674) a La
pastorella al soglio (1702), Corradi ricorse per i suoi libretti a un ampio ventaglio
di soggetti: dalla divertita riscrittura mitologica (La divisione del Mondo, 1675)
all’opera storica (ad esempio Germanico sul Reno del 1676, Il Vespasiano del
1678, Il Nerone del 1679), dalla trasposizione tassiana (con La Gierusalemme
liberata, 1687 e Gli avvenimenti d’Erminia e di Clorinda sopra il Tasso, 1693)
al dramma esotico (come Tigrane re d’Armenia, 1697, musicato appunto da
Albinoni) etc. L’attenzione per le esigenze della messinscena e per il gusto del
pubblico ha la meglio, tuttavia, sulla tessitura drammatica e linguistica, “quasi
sempre riducibile a uno schema assai semplice che propone una situazione di
partenza sulla quale si innesta un imprevisto, ma ristabilisce poi l’ordine iniziale secondo una visione armonica dei sentimenti”51. La sua “predilezione costante per gli apparati scenografici vistosi” risulta, in compenso, spesso sorprendente: nella Divisione del Mondo, ad esempio, i continui movimenti degli dei che
si rincorrono su più ‘mondi’ (Ade, Oceano, Olimpo, Cieli), come in una sorta
di ariostesco palazzo di Atlante dove si fuggono e si inseguono le proiezioni dei
propri ardori e dei propri timori, sembrano approntati come magnifico ordigno per effetti scenografici fastosi (fig. 217), secondo un habitus che a Parma
trovava parallelamente riscontro nelle rappresentazioni di opere del veneziano
Aurelio Aureli (come Il favore degli Dei – figg. 86, 208, 236-239 – e La gloria
d’Amore – figg. 183, 184, 235 –, allestiti per le nozze del principe Odoardo II,
1690)52 o del bolognese Lotto Lotti (L’Età dell’Oro, 1690; figg. 218, 232, 233).
Frugoni e il melodramma
negli ultimi anni di Antonio Farnese
La vocazione musicale del teatro parmigiano è un dato storico inconfutabile,
con il quale appare necessario misurarsi senz’altro quando si voglia prendere in
considerazione lo sviluppo della drammaturgia nei secoli XVIII e XIX. Vedremo infatti che la predilezione degli ultimi Farnese per il melodramma – in linea
del resto con una tendenza diffusa in tutta la Penisola e a sua volta percepita
come la vera cifra della cultura italiana settecentesca – costituì un retaggio cospicuo, per certi aspetti ingombrante, tale comunque da condizionare a lungo
termine anche gli altri esperimenti di scrittura per le scene.
Esemplare resta, sotto questo profilo, l’esperienza di Carlo Innocenzo Frugoni (Genova, 1692-Parma, 1768; vol. IX fig. 83), il poeta più interessante (e il solo
520
Fig. 217 Giulio Cesare Corradi, La divisione del Mondo. Drama per Musica,
Venezia, 1675. Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Raccolta Drammatica
Corniani Algarotti 3008, antiporta.
50
Cfr. A. Guidi, Prima dell’Arcadia. Le
poesie liriche e l’Amalasonta in Italia (16711681), a cura di L. Salvarani, Trento, 2005.
M. Capucci, Corradi, Giulio Cesare, in
DBI, vol. XXIX, 1983, ad v. (anche per la citazione seguente); cfr. anche DBP, ad v. Fra
i librettisti parmensi si ricorda inoltre Orazio Francesco Ruberti, autore dell’Inganno
trionfato, overo La disperata speranza ravvivata nei successi di Jacopo di Scozia e Maddalena di Francia, musicato da Francesco
Maria Bazzani (1672). Cfr. Bocchia, La
drammatica a Parma…, pp. 128-129; DBP,
ad v., e Bazzani (Bazani), Francesco Maria,
in DBI, vol. VII, 1970, ad v.
51
Cfr. Balestrieri, Feste e spettacoli…, pp.
64-66, e C. Mutini, Aureli, Aurelio, in DBI,
vol. IV, 1962, ad v.
52
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
Fig. 218 Carlo Antonio Forti, Introduzione al Balletto della Serenissima Signora Margherita, e delle Signore Dame, scenografia di Ferdinando
e Francesco Bibiena per L’Età dell’Oro (1690). BPPr, Misc. Erud. in 4°, 178 (ora in cart. Scenografie farnesiane). (Foto G. Amoretti)
Per un’analisi più ampia della produzione
frugoniana si rimanda a F. Fedi, R. Necchi,
Il primo Settecento. La stagione di Carlo Innocenzo Frugoni, e F. Fedi, L’età dei Borbone
(1749-1796), in Ronchi, Le lettere…, rispettivamente alle pp. 194-219 e 220-247.
53
di fama ‘nazionale’) attivo a Parma nel primo Settecento, che fu accolto a corte
da Antonio Farnese sull’onda del successo ottenuto con la tragedia Radamisto
e Zenobia, traduzione da Prosper Jolyot Crébillon messa in scena a Bologna nel
carnevale del 172453. Nel suo primo periodo parmigiano, con frequenza regolare, Frugoni scrisse infatti almeno cinque libretti, collaborando con quattro diversi compositori: Il trionfo di Camilla (1725, musica di Leonardo Leo), I fratelli
riconosciuti (1726, musica di Giovanni Maria Capelli), Medo (1728, musica di
Leonardo Vinci), Lucio Papirio dittatore e Scipione in Cartagine nuova (rispettivamente del 1729 e 1730, entrambi musicati da Geminiano Giacomelli).
Si tratta perlopiù di testi senza alcuna pretesa di originalità, frutto (almeno
in tre casi su cinque) del rimaneggiamento di opere già note e ben accolte dal
521
Storia di Parma. Musica e Teatro
pubblico sui palcoscenici di altre città italiane54. Frugoni per primo, del resto,
era consapevole che il loro successo sarebbe dipeso in misura minima dalla
qualità letteraria, e molto invece dall’esecuzione musicale e dalla maestria degli
interpreti; l’avvertimento ai lettori del Medo su questo punto è chiarissimo:
Aggiunge per fine a tutto questo l’autore, che le molte licenze, ch’egli non
senza sofficiente appoggio pienamente in questo dramma si è tolte, saranno
di leggieri a lui condonate dalli discreti, ed abili estimatori delle cose, da’
quali verranno volentieri imputate alla qualità del medesimo componimento, unicamente ritrovato per servire al genio della musica, alla vaghezza delle
scene, alla dilettazione del popolo, e non per mettersi nel rango delle gravi,
e giudiziose tragedie, che ad altro teatro, e ad altri spettatori son riserbate55.
Per l’allestimento di questi spettacoli, a garanzia di un’ottima riuscita, furono
comunque ingaggiati nel ducato professionisti celeberrimi: Carlo Broschi, detto
“Farinelli” (fig. 97) – per fare solo l’esempio più illustre –, interpretò Attalo ne
I fratelli riconosciuti, Giasone nel Medo (fig. 87), Quinto Fabio nel Lucio Papirio
dittatore e ancora il protagonista in Scipione in Cartagine nuova.
Senza addentrarsi nell’analisi di questa produzione, alquanto modesta sotto
il profilo letterario, sembra però opportuno avanzare qualche ipotesi sulle scelte
sottese all’inventio dei due libretti che Frugoni compose autonomamente, cioè
Medo e Scipione in Cartagine nuova. Nel primo, il personaggio chiave è Medea,
spietata incantatrice che, giunta sotto mentite spoglie nella Colchide per vendicare il padre e riconquistare il regno, cede nel finale (precipitosamente) agli affetti
di madre e sposa: per suo volere il trono ambito toccherà al figlio Medo e alla
sposa di lui Asteria, mentre ella tornerà da regina in Tessaglia, al fianco di un
Giasone pentito e innamorato. Scipione in Cartagine nuova celebra invece le virtù
non tanto belliche, ma morali e politiche del giovane protagonista, che dopo aver
espugnato (nell’antefatto) Cartagena si mostra con i vinti umano e generoso: da
un lato infatti libera la bella Elvira (principessa degli Illigeti) e la restituisce allo
sposo promesso Luceio (principe dei Celtiberi), pur sapendo di averla conquistata
con la sua magnanimità; dall’altro sventa le trame del cartaginese Armene e lo
invia prigioniero a Roma perché sia sottoposto a un giusto processo.
Si tratta certo di due testi congegnati per andare incontro ai gusti di un
pubblico largo, dando spazio al motivo dell’amore contrastato o celato, alle
agnizioni, ai colpi di scena: ma agli spettatori più avvertiti non dovettero sfuggire i riferimenti a una fase politica delicatissima per il ducato, stretto tra la
crisi dinastica (che il matrimonio di Antonio Farnese avrebbe dovuto risolvere)
e le aspirazioni di Elisabetta Farnese, decisa a rivendicare il possesso di Parma
per i suoi figli ‘spagnoli’. Un’allusione alle speranze dei Farnese si può cogliere
anzi nel finale del Medo: qui la scena (un “orrido serraglio di fiere”, dove l’eroe
eponimo si avviava alla morte) improvvisamente
[…] si trasforma, e comparisce una magnifica reggia con gran scala in prospetto, dalla quale scende Asteria servita da Artace con guardie, e seguito
522
I libretti originali del Trionfo di Camilla, de I fratelli riconosciuti e di Lucio Papirio erano stati composti rispettivamente da
Francesco Stampiglia, Francesco Silvani e
Apostolo Zeno. Cfr. F. Dorsi, G. Rausa,
Storia dell’opera italiana, Milano, 2000, pp.
157-158.
54
55
Medo. Dramma per musica […] di Comante Eginetico [C. I. Frugoni] pastor arcade. Da
rappresentarsi nel nuovo Ducal Teatro di Parma la primavera dell’anno 1728 […], Parma,
1728, p. 11.
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
di dame, e cavalieri di corte, e popolo festeggiante. Nel piano della reggia si
vedono negli angoli due eminenti troni reali56.
Sappiamo tuttavia come l’auspicio che Parma e Piacenza potessero restare agli
antichi signori, sotto l’ala dei Borbone ma al riparo dalle loro pretese (come la
Colchide rispetto alla Tessaglia insomma), fosse destinato a tramontare con la
morte di Antonio e l’uscita di scena di Enrichetta. Anche Frugoni allora, persi
i suoi principali committenti, si trovò ad affrontare un periodo penoso d’incertezza, in cui le occasioni stesse di dedicarsi alla scrittura per le scene si fecero
più rade. In compenso dopo l’insediamento nel 1749 di don Filippo e Luisa
Elisabetta – e nonostante la sua proclamata renitenza a questo genere d’impegno – egli avrebbe riassunto per primo il suo incarico di librettista, nel quadro
di un progetto di più vasto respiro.
Don Filippo e il teatro:
tra ménu-plaisir e progettualità politica
56
Ibid., p. 79.
57
G. Tocchini, Frugoni e la Francia: opere massoniche per Parma, in G. Cazzaniga,
G. Tocchini, R. Turchi, Le Muse in loggia.
Massoneria e letteratura nel Settecento. Atti
del Seminario di Studi (Parma, 3 maggio
2001), Milano, 2002, p. 49.
58
Sono in corso di stampa gli atti del recente convegno Guglielmo Du Tillot e i ministri
delle arti nell’Europa dei Lumi (Parma-Colorno, 25-27 ottobre 2012), in concomitanza
del quale è stata allestita la mostra per cui
cfr. G. Fiaccadori, A. Malinverni, C.
Mambriani (a cura di), Guglielmo Du Tillot, regista delle arti nell’età dei Lumi. Catalogo della Mostra (Parma, 28 ottobre 2012-27
gennaio 2013), Parma, 2012.
Tocchini, Frugoni e la Francia…, pp.
51-52.
I pochi anni di regno di Filippo I di Borbone (1749-1765) bastarono comunque a
imprimere alla vita culturale del ducato una svolta positiva, particolarmente evidente proprio nel settore dello spettacolo. Il teatro era infatti “la grande passione
dell’Infante, coltivata già ai tempi della piccola corte di Chambéry con l’aiuto di
Léon Guillaume Du Tillot, che fin da allora lo serviva come intendente dei suoi
‘Ménus-Plaisirs’”57; e quello teatrale fu di conseguenza l’ambito in cui il duca si
mosse con maggiore autonomia decisionale anche rispetto al suo autorevole braccio destro, protagonista della stagione aurea del riformismo parmigiano58.
L’immagine vulgata di un duca debole e distratto sembra anzi da rivedere
alla luce di quanto ha mostrato Gerardo Tocchini, esaminando appunto il programma varato a Parma negli anni Cinquanta:
Se nella battaglia giurisdizionalista il Du Tillot ministro era stato capace di
camminare da solo, e perfino di forzare la mano, anche in mancanza di un
padrone […], per quel che riguarda il teatro e gli spettacoli, per quanto meticoloso e onnipresente, egli fu e restò fedele e leale esecutore della volontà
di Filippo, che in quegli anni era ancora vivo, vegeto, attivo, competente,
appassionato di teatro e con tanto tempo a disposizione; un principe che
non rinunciò ad intervenire a piacere in ogni fase di lavorazione di ciò che
veniva rappresentato sulle scene parmensi59.
59
60
H. Bédarida, Parma e la Francia (17481789) [1928], a cura di A. Calzolari, A. Marchi, 2 voll., Parma, 1986, vol. II, p. 421.
Già Henri Bédarida, del resto, aveva sottolineato come Filippo coltivasse gusti
teatrali ben definiti, dando la preferenza all’opera in musica sulle tragédies régulières e agli spettacoli comici su quelli di moda in Francia, drame bourgeois o
comédie larmoyante60.
523
Storia di Parma. Musica e Teatro
Dal desiderio di promuovere un genere ancora poco coltivato a Parma venne
così, nel marzo 1756, l’invito a Carlo Goldoni, ricondotto nei Mémoires al preciso volere dell’Infante:
Questo principe, che manteneva una compagnia francese molto numerosa e
molto ben affiatata, voleva anche un’opera buffa italiana; e mi fece l’onore di
darmi l’incarico di tre produzioni per l’apertura di questo nuovo spettacolo61.
L’incarico per i tre libretti (La buona figliuola, Il festino e Il viaggiatore ridicolo)
fruttò al commediografo “molto onore e molti vantaggi”; ma la buona riuscita
degli spettacoli risultò almeno in parte compromessa, in base a una dinamica
ingenerosa ma consueta:
Avevo ricavato il soggetto della Buona figliuola dalla mia Pamela. Il Duni ne
compose la musica; l’opera piacque molto, e avrebbe potuto piacere anche di
più, se l’esecuzione fosse stata migliore. Ma ci si era decisi troppo tardi per
poter avere buoni attori.
La buona figliuola fu più fortunata nelle mani del Piccinni, che, avendo avuto alcuni anni dopo l’incarico di un’opera buffa per Roma, preferì questo
vecchio lavoro a tutti i nuovi che gli erano stati proposti.
Il Ferradini compose la musica per il Festino e il Mazzoni la compose per I
viaggiatori ridicoli. I due musicisti riuscirono entrambi a perfezione: i due
lavori furono egualmente bene accolti alla lettura e alla rappresentazione;
ma gli sforzi dei compositori non erano sufficienti a colmare le deficienze
degli attori. Nell’opera buffa principalmente, ho visto la buona esecuzione
sorreggere spesso dei lavori mediocri, e ho visto invece molto raramente
avere successo buoni lavori mal eseguiti62.
Sono rilievi che meritano attenzione per vari motivi, a partire dalla scelta di ricavare il primo libretto per la corte borbonica (e francofona) dalla Pamela, o La
virtù premiata, commedia ‘inglese’ esplicitamente ispirata all’omonimo romanzo
di Samuel Richardson. Nel passaggio all’opera buffa la scena fu trasferita in Italia, la protagonista ribattezzata “Cecchina” e la rivelazione della sua vera identità
affidata al personaggio del soldato Tagliaferro, reso comico da un improbabile
eloquio italo-tedesco63. Il cardine tematico tuttavia rimase quello della dialettica
tra nobili origini e autentica virtù e quindi – in termini più generali – della possibilità di superare le barriere cetuali: argomento ‘serio’ e molto caro alla cultura
massonica, che doveva rappresentare un buon terreno d’intesa tra il commediografo e il duca di Parma64. Quanto poi alla cronica difficoltà di trovare attori in
grado di calarsi efficacemente nei ruoli loro proposti, vedremo come il problema
affliggesse anche e soprattutto i tragediografi, e fosse anzi tra quelli centrali nel
dibattito critico e teorico. Disporre o meno di una troupe adeguata rappresentava
infatti una variabile capace di influire sulle scelte compositive degli autori e sulle
strategie di produzione: e il caso parmigiano è in sé esemplare, se è vero che il
tentativo di riforma del melodramma fu varato da Filippo e Du Tillot nel 1759,
524
C. Goldoni, Memorie, prefazione e traduzione di E. Levi, Torino, 1967, p. 379.
61
62
Ibid. Il viaggiatore ridicolo fu il frutto di
una riduzione della commedia in versi I
viaggiatori, rappresentata nel 1755 ma pubblicata tre anni dopo con il titolo Il Cavalier
Giocondo e una dedica lusinghiera a Frugoni
(per la quale cfr. Fedi, L’età dei Borbone…,
pp. 224-225). Il festino deriva a sua volta
dalla commedia omonima (1754) e sviluppa
una critica sorridente, ma ferma, del costume nobiliare del cicisbeismo.
Alle esigenze specifiche del libretto risponde anche l’introduzione delle figure di Paoluccia e Sandrina che movimentano la trama
con la loro maldicenza.
63
Per i legami massonici di Goldoni e di don
Filippo – oltre ai riferimenti contenuti in G.
M. Cazzaniga (a cura di), La massoneria,
in Storia d’Italia. Annali, vol. XXI, Torino,
2006 – si vedano il citato Tocchini, Frugoni
e la Francia…, e R. Turchi, La “compagnia
de galantomeni”, in Cazzaniga, Tocchini,
Turchi, Le Muse in loggia…, pp. 83-104.
64
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
giusto in coincidenza con il ritorno a Parigi della Compagnia Delisle: quando
cioè promuovere in parallelo l’opera francese (a Colorno) e quella italiana (a Parma) divenne improvvisamente più difficile e oneroso.
Nella nostra prospettiva, specificamente storico-letteraria65, è interessante
soprattutto richiamare la valenza (ancora una volta) strategica dei due libretti
che Frugoni scrisse seguendo le indicazioni dell’Infante66. Già è significativo che
entrambi (Ippolito, ed Aricia – (fig. 219) – e I Tindaridi) risultino direttamente
legati ad altrettante tragédies en musique del celebre Jean-Philippe Rameau, il
quale aveva composto in Francia diverse opere “di sfondo muratorio”, promosse
da una cerchia di nobili personaggi molto vicini a Luigi XV67. Almeno ne I
Tindaridi (fig. 95), infatti, la cifra massonica appare chiara nella celebrazione
del legame amicale, oltre che fraterno, tra i due protagonisti: i gemelli nati a
Leda da padri diversi (l’umano Tindaro e il divino Giove) e così generosamente
disposti a sacrificarsi, ciascuno per la salvezza dell’altro, da spingere il signore
dell’Olimpo a proclamarli entrambi immortali.
Alla luce di queste implicazioni, il carattere di ‘novità’ che lo stesso Frugoni
rivendicava nel presentare Ippolito, ed Aricia ai “gentili Leggitori” va dunque
riferito non solo all’innesto dello spettacolo francese sulla tradizione musicale
italiana (il principio cardine della riforma), ma ancora una volta alla selezione
delle ‘favole’, o storie, da portare in scena: scelte evidentemente tra le più adatte
a celebrare quell’ideale di ‘regalità virtuosa’ che i settori più aristocratici della
Cfr. il saggio di Paolo Russo, Musica a
corte da Odoardo Farnese alla fine del ducato,
in questo stesso volume, dove la vicenda è
ben studiata anche con l’appoggio di nuovi
documenti.
65
Modernamente riediti in M. Russo (a
cura di), Tommaso Traetta: i libretti della
“Riforma”. Parma 1759-1761, Trento, 2005;
nello stesso volume, a p. XI, anche un elenco
completo dei testi destinati al teatro musicale composti (o riadattati) da Frugoni tra il
1730 e il 1759.
66
67
G. Tocchini, Massoneria e musica italiana nel Settecento europeo, in Cazzaniga,
La massoneria…, pp. 90-119, citazione a p.
98. Per la derivazione dei due libretti rispettivamente da Hippolyte et Aricie (di SimonJoseph Pellegrin) e da Castor et Pollux (di
Pierre-Joseph Bernard) si veda anche l’edizione moderna di Marco Russo citata alla
nota precedente.
Fig. 219 G. B., Atrio, scenografia di Pasquale Canna per Ippolito, ed Aricia, Milano, 1811.
Napoli, Società Napoletana di Storia Patria, Centro Studi Teatrali, Collezione Ragni, ST053.
525
Storia di Parma. Musica e Teatro
massoneria europea avevano fatto proprio e che stava a cuore a don Filippo
non meno che ad altri sovrani europei68. Tra questi ultimi va ricordato almeno
Francesco Stefano di Lorena, anch’egli promotore di una riforma dell’opera
in musica affidata a un gruppo di artisti e funzionari stretti a lui in un “patto
massonico di corte”: Ranieri de’ Calzabigi, Christoph Willibald Gluck, il conte
Giacomo Durazzo, il principe di Kaunitz69. L’imperatore e il duca morirono
peraltro nello stesso anno 1765 e il venir meno del loro appoggio – anche, e anzi
spiccatamente economico – segnò il declino dei rispettivi progetti teatrali. Ma
mentre quello viennese fu trapiantato da Gluck a Parigi, e adattato alle scene
francesi con grande successo, l’esperimento parmigiano non riuscì a superare
le difficoltà che, emerse già con la rappresentazione dei Tindaridi (fig. 220), si
erano aggravate quando Jacopo Antonio Sanvitale (Parma, 1699-1780; vol. IX
fig. 81) aveva sostituito Frugoni nel ruolo di librettista.
Sull’importanza del motivo aristocraticopedagogico nella cultura massonica e sui
suoi sviluppi tra romanzo e testi per le scene
cfr. Tocchini, Massoneria e musica italiana…, p. 100 e passim.
68
Fig. 220 Carlo Innocenzo Frugoni, Argomento, in I Tindaridi. Dramma […], Parma, 1760.
BPPr, BB.VII.26266, p. V. (Foto G. Amoretti)
526
69
Idem, Frugoni e la Francia…, pp. 38-39.
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
70
Enea, e Lavinia fu rappresentato nel 1761,
con scarsissimo successo; nell’occasione infatti “il pubblico manifestò la propria insofferenza ai lussuosi allestimenti lasciando
pressoché vuoto il teatro e non mostrando
alcun particolare gradimento per il nuovo
tentativo di contaminazione proposto”, Russo, Tommaso Traetta…, p. XXXVIII.
Cfr. da ultimo Fedi, Necchi, Il primo Settecento…, p. 216.
71
Mancano tuttavia, allo stato attuale, documenti relativi a una iscrizione di Jacopo
Antonio al Collegio, frequentato invece (prima e dopo) da altri membri della famiglia
Sanvitale. Notizie sugli allestimenti teatrali
da lui promossi nel ducato, in forma privata
o pubblica, si desumono da Pezzana, Memorie degli scrittori…, vol. VI, parte I, 1825,
pp. 175-185.
72
Per una sintesi puntuale, utile anche per
l’aggiornamento bibliografico, cfr. R. Necchi, Letteratura e scienza nel Collegio dei Nobili di Parma, in D. Cofano, S. Valerio (a
cura di), La letteratura degli italiani. Centri e
periferie. Atti del XIII Congresso (Pugnochiuso, 16-19 settembre 2009), Foggia, 2011. Cfr.
inoltre A. Mora (a cura di), Il Collegio dei
Nobili di Parma. La formazione della classe
dirigente (secoli XVII-XIX). Atti del Convegno
(Fontevivo-Fornovo di Taro-Sala Baganza, 2224 maggio 2008), Parma, 2013.
73
G. Capasso, Il Collegio dei Nobili di Parma. Memorie storiche pubblicate nel terzo
centenario dalla sua fondazione (28 ottobre
1901), in “Archivio Storico per le Province
Parmensi”, n.s., I (1901), p. 109.
74
Tra le edizioni parmigiane si ricordino
almeno: Seila figlia di Jefte, tragedia nuovamente composta dal p. Giovanni Granelli della Compagnia di Gesù, Parma, 1765; Tragedie
del padre Giovanni Granelli della Compagnia
di Gesù, Parma, 1767; e vari volumi del
Teatro tragico scelto originale italiano, Parma,
1803-1809. Sul teatro di Poggi si può rimandare ora a R. Salsano, Poetica drammaturgica primosettecentesca in Simone Maria Poggi,
Roma, 2009; manca invece una bibliografia
recente su Granelli, per il quale si veda almeno M. P. Donato, Granelli, Giovanni, in
DBI, vol. LVIII, 2002, ad v.
75
La nobiltà parmigiana e l’educazione teatrale,
tra Collegio dei Nobili e corte
Il coinvolgimento del Sanvitale, autore dell’ultimo testo concepito nell’ambito
del tentativo riformista, Enea, e Lavinia, è a sua volta un dato eloquente70. Il
conte, ormai anziano, era il rappresentante più autorevole di una generazione
di nobiluomini che si erano formati ancora in epoca farnesiana. Il suo sodalizio
con Frugoni risaliva a molti anni addietro e aveva trovato una sorta di simbolico suggello letterario nella fondazione della locale colonia arcadica, accolta in
una sala di Palazzo Sanvitale nel giugno 173971. Nel nostro discorso, tuttavia,
merita soprattutto richiamare il carattere emblematico del ruolo che il conte
aveva assunto nel quadro complessivo della politica culturale intrapresa dai duchi e orchestrata da Du Tillot. Don Filippo aveva saputo valorizzare subito le
sue qualità diplomatiche, inviandolo come ambasciatore presso Luigi XV, dove
Sanvitale aveva trascorso lunghi periodi fra il 1751 e il 1759. Affidargli, rientrato
in patria, una collaborazione con Tommaso Traetta equivaleva però non solo
a riconoscere le sue doti di traduttore e poeta, ma anche a ratificare simbolicamente l’intesa tra i nuovi principi e l’antica nobiltà parmigiana, nel nome di una
theatralische Sendung rivendicata come terreno privilegiato d’intesa.
Per il conte Sanvitale la drammaturgia non era solo un passatempo colto,
cui dedicarsi magari nel suo “teatro domestico”, ma un elemento fondativo nel
patrimonio culturale, frutto di un percorso di formazione che i rampolli delle
nobili famiglie del ducato solevano compiere nel prestigioso Collegio di Santa
Caterina, aperto fin dal 1601 e storicamente in mano ai Gesuiti72. A Parma,
come nei più importanti istituti della Congregazione attivi in altre città europee, la familiarità con un repertorio teatrale scelto (antico e moderno), l’abitudine a tradurre drammi e a calcare le scene erano infatti coltivate nei giovani
convittori e giudicate importanti per la loro educazione morale e politica73.
Dagli anni Venti del secolo in poi si erano peraltro avvicendati a Parma, nel
ruolo di “Accademico” (cioè “direttore degli studi poetici e storici e del teatro”74),
alcuni letterati di grande prestigio: Simone Maria Poggi, Giovanni Granelli,
Giambattista Roberti e – il più celebre dei quattro – Saverio Bettinelli (Mantova,
1718-1808; fig. 221). Ciascuno di loro era tenuto a comporre, a uso primario dei
propri allievi, drammi di vario genere (favole pastorali, commedie, intermezzi e
in primo luogo tragedie), alcuni dei quali circolarono con successo anche al di
fuori del circuito scolastico. Così fu, ad esempio, per l’Idomeneo di Poggi (recitato
la prima volta proprio a Parma nel 1721) e per i drammi di Granelli, che si era
segnalato già nei suoi anni bolognesi con tragedie di argomento biblico o storicoclassico, tutte riedite più volte, anche a Parma: Sedacia ultimo re di Giuda (1731),
Manasse re di Giuda (1732), Dione Siracusano (1734), Seila, figlia di Jefte (1761)75.
Il caso di Bettinelli merita tuttavia un indugio particolare, perché gli anni trascorsi a Parma (dal 1751 al 1759) segnarono un momento fecondo nella sua vita
artistica e – sotto il profilo della drammaturgia – la sua fase d’impegno maggiore.
Prima dell’arrivo nel ducato egli aveva composto (per il Collegio bolognese di
527
Storia di Parma. Musica e Teatro
Fig. 221 Anonimo mantovano, Saverio Bettinelli (fine XVIII secolo). Mantova, Biblioteca
Comunale Teresiana.
San Luigi) solo il Gionata, figlio di Saule, tragedia fedele al testo biblico e quindi
tutta incentrata sul conflitto tra amor paterno e autorità regia, risolto in un lieto
fine edificante quanto scontato. D’altro canto le rigide norme imposte dall’Ordine escludevano dalle scene ogni presenza femminile, vietando agli autori (come
ebbe a deplorare Bettinelli stesso) “la sorgente più naturale degli affetti umani più
dilicati”, e costringendoli per questo a “maneggiare delle imperfette passioni, e
necessariamente fredde, ovvero più pericolose dell’altre, se troppo calde sono”76.
A Parma, tuttavia, la scelta coatta di sviluppare drammaticamente le sole
(minacciose) passioni ‘maschili’ finì per dare luogo a un piccolo ma prezioso
528
S. Bettinelli, Discorso intorno al teatro
italiano e alla tragedia, in Idem, Tragedie,
Bassano, 1771, pp. VII-XL, citazione alle
pp. XXI-XXII. In una redazione successiva,
con alcune varianti che non riguardano i
passi citati, il Discorso si legge in E. Bonora (a cura di), Opere di Francesco Algarotti e
Saverio Bettinelli, Milano-Napoli, 1969, pp.
1113-1145, citazione a p. 1125.
76
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
repertorio di argomento politico. Nel 1753, proprio al Collegio, Bettinelli mise
difatti in scena una traduzione della Rome sauvée di Voltaire, rappresentata a
Parigi appena l’anno precedente; e propose a seguire – tra il 1754 e il 1756 – due
tragedie originali, Demetrio Poliorcete e Serse re di Persia. Nel complesso il trittico
forniva indicazioni interessanti sulle prospettive della scrittura tragica italiana,
anche al di fuori e al di là della pedagogia gesuitica. I modelli più prossimi dello
stile – “vibrato, evidente, e passionato, cioè naturale con nobiltà” – restavano
pur sempre i grandi classici francesi; ma per la scelta dei temi sembrava opportuno tornare all’esempio della Grecia, dove si andava al teatro “per essere buon
cittadini, come noi andiamo alla predica per divenire migliori cristiani”77. Vero
è che, quando diede alle stampe queste riflessioni teoriche, nel 1771, Bettinelli
guardava ormai alle sue tragedie come a un esperimento concluso e poteva addirittura permettersi d’incoraggiare i più giovani a fare un passo oltre, cercando
una materia degna e originale nella storia recente:
Abbiam pure una patria; perché dunque accattar sempre argomenti dall’antichità o dalla favola? V’ha per tutto una religione, delle virtù, delle leggi, e
degli uomini grandi non meno delle passioni, de’ delitti, delle sventure per
mettere insieme a cimento il terrore della celeste vendetta, delle catastrofi
de’ Re, e de’ regni colla pietà dell’innocenza tradita, della virtù oppressa,
delle leggi e della giustizia oltraggiate.
L’Entusiasmo della libertà, onde nacque tanto eroismo tra Greci, non si
troverà a Lucca, a Venezia, a Genova, ove un’epoca non lontana darebbe
campo alla più bella tragedia? Per tal libertà ancora noi somigliamo più che
molte nazioni alla Grecia78.
È ben comprensibile, tuttavia, come nella Parma degli anni Cinquanta, dove
aveva trovato nel duca Filippo un interlocutore sensibilissimo, Bettinelli si fosse
mantenuto su posizioni più caute, tratteggiando con i suoi testi un ideale di
buon governo genericamente ‘classico’, in cui tanto i suoi nobili allievi quanto la
corte borbonica poterono specchiarsi senza riserve. Ne sono figure paradigmatiche Cesare vittorioso su Catilina (ma ancora lontano dalla tirannide e quindi
capace di rendere onore al nemico); il macedone Demetrio che, rinunciando
volontariamente a regnare su Atene, la rende libera per la seconda volta; Serse
che, morendo, sconfigge una volta per tutte le proprie “brutali passioni”, a cominciare dalla febbre di dominio. Attraverso le loro vicende esemplari prende
corpo un sistema di valori in cui la libertà delle poleis non risulta di per sé
incompatibile con l’ideale di una monarchia ‘illuminata’ e clemente, poiché la
misura del potere ‘giusto’ resta fissata nella ‘felicità’ del popolo. Così parla del
resto Serse, rivolgendosi, in un momento di affettuosa sincerità, al figlio che ha
scelto come suo (più degno) successore:
77
Ibid., rispettivamente alle pp. 1143 e 1128.
78
Ibid., p. 1130.
Chiudi l’orecchie alle lusinghe, e l’apri
alla severa verità: la pace
coi vicin serba, dai tributi oppresso
529
Storia di Parma. Musica e Teatro
il popol sgrava, né credi esser mai
in regno impoverito un re possente.
Grande sarai se giusto sei, felice
se per te molti son felici: in questo
sta il destino dei re: così potrai
coprir l’obbrobrio mio con la tua fama79.
Ettore Bonora aveva già chiarito come in questo ‘testamento politico’ si debba
cogliere una rielaborazione dei precetti che don Filippo, ancora fanciullo, aveva ascoltato da Luigi XIV morente, e che Bettinelli (stando alla sua propria,
attendibile, testimonianza) aveva potuto leggere in una copia manoscritta del
duca, discutendone in seguito con lui80. Ora, alla luce di quanto si è detto
circa l’appartenenza latomistica di Filippo e dei suoi più stretti collaboratori,
possiamo cogliere nel Serse anche i riflessi di una pedagogia aristocratica di
matrice massonica: la quale a sua volta aveva individuato un perfetto ‘manuale’
ne Les aventures de Télémaque, fils d’Ulysses di Fénelon, il controverso romanzo
‘a chiave’ edito nel 1699, interpretato a posteriori dai ‘fratelli’ come un tesoro di
insegnamenti per l’educazione del principe saggio e ‘iniziato’81.
Il concorso di poesia drammatica
nella crisi del ducato
Atto I, scena 6: ora in S. Bettinelli, Tiranni a teatro. Demetrio Poliorcete e Serse
re di Persia, a cura di F. S. Minervini, Bari,
2002, p. 203.
79
80
Cfr. E. Bonora, Le tragedie e la poetica del
tragico di Saverio Bettinelli, in N. Albarosa,
R. Di Benedetto (a cura di), Musica e spettacolo a Parma nel Settecento. Atti del Convegno
(Parma, 18-20 ottobre 1979), Parma, 1984,
pp. 29-48. Delle circostanze compositive del
Serse, e della collaborazione prestata dal duca,
Bettinelli parlò distesamente in una lettera
al segretario di Gabinetto di Luisa Elisabetta, monsieur Louis-Jean-Fronçois Collet: cfr.
S. Bettinelli, Opere edite e inedite in prosa
ed in versi, 24 voll., Venezia, 1799-1801, vol.
XIX, 1800, pp. 47-52.
Cfr. Tocchini, Frugoni e la Francia…, p.
50 e note relative, utili anche per i riferimenti
circostanziati all’appartenenza massonica di
Bettinelli. Va ricordato peraltro che Fénelon
era caduto in disgrazia a corte proprio dopo
la pubblicazione del Télémaque, concepito per
l’educazione del principe di Borgogna, nel
quale tuttavia i suoi nemici (Bossuet in primis) avevano additato soprattutto una critica
severa alla politica di Luigi XIV.
81
Per alcune considerazioni più generali intorno al mutamento occorso anche nella vita
culturale dopo l’ascesa al trono del giovane
Ferdinando, e soprattutto dopo la caduta di
Du Tillot, cfr. Fedi, L’età dei Borbone…, pp.
236-244.
82
La morte del duca Filippo, ucciso dal vaiolo nel luglio del 1765, segnò notoriamente la prima tappa di una fase involutiva sul piano politico, le cui ripercussioni finirono per investire anche la storia della drammaturgia italiana. Al progetto
riformatore che il ministro Du Tillot aveva avviato ormai da tre lustri, e che
aveva acquistato complessità e respiro proprio muovendo dall’ambito teatrale,
venne infatti a mancare un mecenate sensibile e aperto, del cui retaggio il giovane duca Ferdinando I di Borbone-Parma si fece carico solo in parte82.
Rimasto a gestire la politica culturale del ducato insieme al padre Paolo
Maria Paciaudi, il marchese di Felino in verità non pensò affatto di rinunciare
alla riforma degli spettacoli, e anzi mise mano a un’impresa particolarmente ardua, raccogliendo anche quelle istanze di rinnovamento del genere tragico che,
diffuse e alimentate fin dal principio del secolo, ancora stentavano a tradursi
felicemente nella pratica scenica. Il sodalizio con il coltissimo Paciaudi (Torino,
1710-Parma, 1785; vol. IX fig. 89) e il dialogo intrecciato con altri autorevoli
letterati, coinvolti nel dibattito sulla gerarchia dei generi teatrali e (soprattutto
in un’ottica italiana) sulla ‘necessità’ della tragedia, diedero luogo a un progetto
ambizioso, varato nel 1770 attraverso il Programma offerto alle Muse italiane 83.
In poche pagine stampate da Bodoni si bandì allora, a nome del duca, un
concorso annuale aperto a “qualsivoglia italiano, inclinato allo studio di comporre
Tragedie, e Commedie”84. Le opere, rigorosamente inedite, dovevano essere in-
530
Per l’iniziativa cfr. anche ibid., p. 240, e
passim per il ruolo imprescindibile svolto in
tutti i settori della vita culturale parmigiana
da Paciaudi. Della profonda competenza di
quest’ultimo in materia di scrittura tragica
rende buona testimonianza il colloquio intessuto con il giovane Vittorio Alfieri, per
cui cfr. W. Spaggiari, Un maestro di Alfieri:
Paolo Maria Paciaudi [2003], in Idem, 1782.
Studi di italianistica, Reggio Emilia, 2004,
pp. 75-102. Sulle riflessioni settecentesche
in merito alla gerarchia dei generi teatrali e
alla necessità di rifondare una drammaturgia tragica italiana, oggetto di innumerevoli
studi critici, si veda almeno la recente sintesi
di G. Zanlonghi, La riforma della tragedia
nel Settecento. L’ identità italiana a teatro, in
A. Ascenzi, L. Melosi (a cura di), L’ iden83
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
tità italiana ed europea tra Sette e Ottocento. Atti della Giornata di Studi (Macerata, 7
marzo 2005), Firenze, 2008, pp. 11-60.
Programma offerto alle Muse italiane, Parma, 1770, ora anche in F. Fedi, Un programma per Melpomene. Il concorso parmigiano di
poesia drammatica e la scrittura tragica in Italia (1770-1786), Milano, 2007, pp. 117-122,
citazione a p. 118.
84
viate in forma anonima a Giuseppe Pezzana (Parma, 1735-1802), segretario della
Accademica Deputazione preposta al giudizio. Ai vincitori Ferdinando prometteva una medaglia, la stampa dell’opera per Bodoni e soprattutto l’allestimento
della medesima, da affidare a una compagnia stabile formata ad hoc: e l’aspetto
più attraente, decisamente innovativo del Programma, fu subito individuato in
quest’ultima prospettiva, che spinse alla partecipazione un gran numero di autori. Una serie di ostacoli imprevisti (o forse sottovalutati) ebbe però l’effetto di
compromettere sul nascere questa seconda riforma teatrale parmigiana (fig. 222).
Fig. 222 Guillaume Du Tillot, Lettera ai Signori della Regia Accademica Deputazione […]
(Parma, 26 gennaio 1771). BPPr, Fondo Pezzana, cass. 671. (Foto G. Amoretti)
531
Storia di Parma. Musica e Teatro
Il primo a naufragare fu il coraggioso tentativo di istituire a Parma una scuola di recitazione; né ebbe successo quello – intrapreso subito dopo – di mettere
insieme una compagnia reclutando gli attori fuori del ducato, tra i professionisti
che si fossero distinti sui palcoscenici della Penisola. Quasi tutti gli interpellati
finirono infatti per declinare un invito che, per quanto prestigioso, implicava
pur sempre la rinuncia ai contratti già stipulati e a un modus vivendi ben noto,
a fronte dell’incertezza organizzativa e di un trattamento economico non certo
‘principesco’. Infine, mentre le trattative procedevano a fatica, Du Tillot cadde
definitivamente in disgrazia e il suo allontanamento implicò conseguenze notevoli anche sull’andamento del concorso.
Il gruppo stesso degli Accademici incaricati di esaminare le opere concorrenti fu scompaginato dalla caduta del ministro. Lasciarono infatti Parma sia
Giuseppe Pezzana, sia Francesco Venini (Varenna, 1737-Milano, 1820; uno dei
sette giudici), sia Paciaudi, anima ed estensore del Programma. Né bastò l’ingresso nel gruppo di Angelo Pezzana – nuovo segretario “con voto” – per ridare
slancio all’iniziativa. A una prima proclamazione dei vincitori si giunse quindi
solo nel maggio 1772, con un anno di ritardo rispetto alle clausole originali del
bando, tra le perplessità del pubblico e un calo brusco dell’entusiasmo iniziale.
Senza voler ripercorrere qui i vari malintesi e disguidi che segnarono l’effimera vita del concorso, sarà tuttavia opportuno considerare in breve almeno le
opere coronate, per tentare di comprendere meglio quali meriti avessero riconosciuto loro i membri della Deputazione Parmigiana85. Il modello di scrittura
drammaturgica delineato nel Programma non doveva aver costituito, in sé, un
vincolo troppo significativo, essendo improntato a un generico buon gusto classicista, quasi troppo ‘antico’ – anzi – se visto in rapporto ai caratteri di novità
che segnavano i risvolti ‘imprenditoriali’ del progetto.
Il bando stabiliva infatti che le tragedie e le commedie dovessero essere composte in versi, di preferenza liberi, e divise “in quel numero d’atti, che il Poeta
giudicherà convenire all’indole, e alla tessitura del Dramma”86. Saldo restava
anche l’obbligo di rispettare le unità di luogo, tempo e azione: precetto aristotelico ribadito modernamente da Nicolas Boileau, che era chiamato in causa, insieme al suo maestro Orazio, come guida irrinunciabile per i “giovani Poeti”. A
beneficio di questi ultimi si richiamavano infine le caratteristiche specifiche dei
due generi, accomunati in ogni caso dalla finalità morale d’“inspirare avversione pel vizio, ed amore per la virtù”87. La tragedia, destinata a “eccitare il terrore,
e la compassione”, doveva però sviluppare un’azione “eroica” portando in scena
“disgrazie, pericoli, sentimenti straordinari”. Alla commedia, definitivamente
svincolata dall’uso delle maschere, spettava invece dipingere “interessi e caratteri comuni”, assumendo il compito, solo in apparenza più lieve, di “riformare i
costumi, e i difetti delle persone, con le quali viviamo”.
L’individuazione stessa di un canone esemplare presentava una diversa
complessità. Da un lato infatti si poteva genericamente promuovere l’imitazione delle “Tragedie Greche, quelle de’ migliori Tragici Francesi, e le nostre
più accreditate”; dall’altro il fermo proposito di ammettere solo le commedie
“di carattere” implicava il rinvio a vari modelli, ma tutti francesi (Molière,
532
La composizione del collegio giudicante fu
modificata nel 1780 e nel 1783, ma gli ultimi
premi di cui si ha notizia furono assegnati
nel 1779.
85
86
Cfr. Fedi, Un programma per Melpomene…, p. 118.
87
Ibid., p. 119 (anche per le citazioni immediatamente successive).
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
Dufresny, Jean-François Regnard, Destousches)88; mentre un timido cenno
all’eccellenza di “alcune nostre” commedie non bastava a bilanciare la vistosa
assenza di ogni riferimento a Goldoni (che pure continuava a godere nel ducato di una solida fama).
Le opere premiate furono poche, come si accennava: cinque tragedie e tre
commedie, su un centinaio di testi complessivamente sottoposti a giudizio.
Non è semplice però capire quanto la prudenza mostrata dalla Deputazione
nel selezionare l’‘ottimo’ sia dipesa dall’effettivo valore dei concorrenti e quanto
“Le sole commedie di carattere verranno
ammesse. Par che queste ridur si possano a
tre classi; cioè a quelle che ci dipingono il
vizio per renderlo odioso, e che di carattere
propriamente si appellano: a quelle che ci
mostrano l’uomo nello stato, in cui diviene
lo scherzo delle umane vicende, e che dir si
vogliono Commedie di situazione; e a quelle finalmente che ci rappresentano le virtù
con colori, che di esse innamorano, poste
in rischi, o in disgrazie, di cui lo spettatore
sembra entrare a parte, e che per l’effetto che
producono Commedie tenere possono denominarsi”, ibid., p. 120.
88
Fig. 223 Angelo Crescimbeni, Orazio Calini (1760). Collezioni d’Arte e di Storia della
Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna.
533
Storia di Parma. Musica e Teatro
invece dalle concrete difficoltà di trovare un accordo nel gruppo, tanto più a
fronte del rapido collasso organizzativo dell’impresa.
Certo è che tra i letterati che risposero al bando, ma rimasero esclusi dai
premi, c’erano autori già coronati da un’indiscussa notorietà. Pietro Chiari ad
esempio, drammaturgo e romanziere protagonista a Venezia di celeberrime
polemiche letterarie (e a Parma membro ufficiale della colonia arcadica), partecipò nel 1771 con ben due commedie, Il filosofo immaginario e Glafira; mentre
il giovane Ippolito Pindemonte e Alessandro Verri inviarono, rispettivamente
nel 1777 e 1778, le tragedie Ulisse e Pantea. Fin dalla prima premiazione del
1772, tuttavia, fu chiaro che l’imparzialità dei giudici e il rispetto delle regole
concorsuali avrebbero potuto condurre a risultati imprevisti. Con le tragedie
La Zelinda e Corrado marchese di Monferrato vinsero infatti il primo e il secondo premio due outsider, Orazio Calini (Brescia, 1742-1783; fig. 223) e il
più anziano Francesco Ottavio Magnocavalli (Casale Monferrato, 1707-1788):
nobili entrambi e appassionati di teatro fin dalla prima gioventù: ma quasi
sconosciuti nella République des Lettres e risospinti ai margini dell’oblio poco
dopo l’exploit parmigiano.
Sul favore che le loro opere riscossero pesò senza dubbio una sintonia di fondo tra concorrenti e giudici, oggettivamente legati da una forte identità socioculturale. Basti pensare che il presidente della Deputazione era ancora (e rimase
fino alla morte, nel 1780) il conte Sanvitale. Altri membri – Aurelio Bernieri di
Terrarossa (Parma, 1706-1795), Guido Ascanio Scutellari Ajani (Parma, 17111800), Prospero Valeriano Manara (Borgotaro, 1714-Parma, 1800)89 – erano
stati compagni di Magnocavalli nel Collegio di Parma, e al pari di lui (e di Orazio Calini) si erano avvicinati alla drammaturgia traducendo Corneille, Racine,
Crébillon, Fontenelle. Non stupisce perciò che essi abbiano potuto riconoscere
in Zelinda e Corrado, pur lontane nei temi e nell’ambientazione, le stesse qualità
compositive: chiarezza del piano, gestione sicura dell’intreccio, personaggi ben
delineati, contenuti moralmente edificanti, catastrofe finale capace di suscitare
insieme orrore e compassione90.
Sulla preferenza accordata (di misura) a Zelinda si aprirono subito le polemiche, dalle quali però si tennero ben lontani i due autori. D’altro canto, se l’opera
di Calini (con la sua materia ‘persiana’ e i dilemmi amorosi della protagonista)
appariva certo più convenzionale del Corrado, quest’ultimo scontò forse la preferenza data a un argomento troppo oscuro. Le avventure in Terrasanta del marchese di Monferrato, infatti, erano note quasi solo ai cultori di storia locale, per
cui Magnocavalli si trovò costretto a redigere una complicata Prefazione (fitta
di rimandi alla biografia del protagonista e agli antefatti della vicenda), senza la
quale l’intreccio sarebbe risultato incomprensibile.
Un episodio storico ‘moderno’ ispirò di lì a poco anche Valsei ossia L’eroe
scozzese, opera vincitrice del primo premio nel 1774 (quando la seconda medaglia fu invece assegnata ad Auge di Filippo Trenta, moderna rielaborazione di
un mito classico già frequentato dai massimi tragici greci). L’autore di Valsei, il
milanese Antonio Perabò, scelse di portare in scena l’avventura e il sacrificio di
William Wallace (1270-1305), eroe della guerra d’indipendenza scozzese contro
534
89
Gli altri membri della Deputazione furono, tra il 1771 e il 1780, Giuseppe Maria
Pagnini (1737-1814), Carlo Castone Della
Torre di Rezzonico (1742-1796; vol. IX fig.
92) e Angelo Mazza (1741-1817).
90
L’analogia tra i giudizi espressi sulle due
tragedie è ben evidente nelle pagine che introducono le rispettive edizioni, stampate da
Bodoni nel 1772, in ottemperanza all’impegno contratto nel Programma.
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
91
A. Perabò, Valsei ossia L’eroe scozzese, Parma, 1774, p. [II].
92
Sull’evoluzione del concetto di teatro ‘nazionale’ dall’ancien régime alla Restaurazione
si veda da ultimo B. Alfonzetti, Dramma
e storia. Da Trissino a Pellico, Roma, 2013,
pp. 131-151.
Su Albergati è opportuno rimandare a E.
Mattioda, Il dilettante “per mestiere”. Francesco Albergati Capacelli commediografo, Bologna, 1993.
93
Una voce biografica recentissima per Pietro Napoli Signorelli è quella di Pier Giuseppe Gillio in DBI, vol. LXXVII, 2012, ad v.
Per le osservazioni dell’autore sulla sua Faustina si veda però il più perspicuo giudizio in
F. Arato, La storiografia letteraria nel Settecento italiano, Pisa, 2002, p. 423. La Storia
critica de’ teatri antichi e moderni, pubblicata
una prima volta nel 1777 e in seguito ripresa
e ampliata, uscì nell’edizione definitiva in 10
tomi a Napoli nel 1813.
94
Edoardo I, accentuando il patetismo della vicenda “mediante il soccorso degli
episodi permessi dall’Arte”91. Il ‘vero’ Wallace – per citare solo l’esempio più
cospicuo di questa riscrittura – era stato giustiziato atrocemente come traditore,
vicino a Londra: mentre il Valsei di Perabò spira tra i suoi per le ferite ricevute in
battaglia, consegnando l’amata Arsene, figlia (nell’invenzione) del nobile amico
William Douglas, a Robert Bruce, futuro re di Scozia.
La vittoria di Valsei, dopo il secondo premio del Corrado, avrebbe potuto
essere il segno di una nuova tendenza critica abbracciata dai giudici, di un’apertura decisa ai temi storici; ma nel 1775 la vittoria andò a una seconda tragedia
di Magnocavalli, La Rossana, che mostrava invece un ripiegamento verso i temi
cardine del classicismo francese, poiché i personaggi e i ruoli – pur cambiati di
segno e reinterpretati attraverso un’esplicita contaminazione con l’epica ossianica – venivano ancora una volta dal Bajazet di Racine.
Il 1775 è peraltro una data di un certo peso nella storia della drammaturgia italiana, perché giusto in quell’anno, a Torino, fu rappresentata Antonio e
Cleopatra, la prima tragedia alfieriana. Benché l’autore stesso l’avesse poi subito
sottoposta a una spietata autocritica, l’opera fu il punto di avvio di un vero rinnovamento del teatro tragico: un processo certo discusso, non immediatamente
assimilato, ma alla fine capace di incidere nella storia culturale e d’imporsi anche nel mobile panorama europeo. Pubblicando a Siena la prima edizione delle
sue tragedie, fra il 1783 e il 1785, Alfieri riuscì insomma, per altre vie e con
uno sforzo che rispecchia bene il suo solipsismo ‘titanico’, a compiere una parte
almeno dell’impresa accarezzata nel Programma del 1770: creare un corpus di
opere “regolate” capace di fornire la base di un repertorio scenico ‘nazionale’92.
Ma è tanto più significativo che, nonostante la stima e l’affetto professati a Paciaudi, egli non abbia neppure preso in considerazione il concorso parmigiano:
lo slancio dell’iniziativa si era esaurito già con la caduta di Du Tillot e del suo
programma complessivo di riforme; le incertezze, i ritardi, la disomogeneità tra
i membri della Deputazione fecero il resto.
Anche la smilza terna delle commedie premiate non bastò infatti a indicare
una linea di sviluppo davvero nuova. Il prigioniero di Francesco Albergati Capacelli e La marcia del più oscuro Francesco Marucchi (primo e secondo premio
nel 1773), accomunate anche dal tenue sfondo militare, si reggevano entrambe su intrecci amorosi troppo convenzionali e indulgenti al genere ‘lacrimevole’: benché la qualità della scrittura di Albergati (Bologna, 1728-Zola Predosa,
1804, ottimo conoscitore del teatro europeo ed esperto di pratiche sceniche)
conferisse al suo testo una palpabile superiorità93. Anche La Faustina di Pietro
Napoli Signorelli (Napoli, 1731-1815), ultima opera proclamata vincitrice, nel
1779, si può ascrivere alla classe delle commedie “tenere”: e come esemplare nel
genere la promosse più tardi il suo medesimo autore, attraverso la fortunata Storia critica de’ teatri antichi e moderni, nell’ambito di una complessiva apologia
della tradizione comica italiana rivitalizzata da Goldoni94.
535
Storia di Parma. Musica e Teatro
Dal centro alla periferia:
le polemiche sull’Aristodemo
e il modello shakespeariano
La storia del concorso parmigiano di poesia drammatica che abbiamo provato a
riassumere in queste pagine si chiuse con la paradossale coronazione di un’opera
che non era stata sottoposta al giudizio degli Accademici, l’Aristodemo, prima
tragedia di Vincenzo Monti. Il premio, conferito dal duca Ferdinando nel 1786,
fu questa volta non il presupposto, bensì la conseguenza del successo che l’opera aveva riscosso anche a Parma, dove l’anno seguente uscì per Bodoni l’editio
princeps del testo. L’iniziativa del duca, abbracciata a prescindere dalla Deputazione (ma caldeggiata almeno da Prospero Manara), diede ulteriore alimento
alle critiche mosse all’opera da alcuni colti lettori, tra i quali il segretario della
Deputazione stessa, Angelo Mazza: fu lui infatti a subire le più dure repliche
di Monti, che lo aveva identificato come il capofila occulto dei suoi detrattori,
innescando un celebre contenzioso95.
Il plauso suscitato a Parma dall’Aristodemo è soprattutto interessante, nel nostro discorso, come testimonianza di una consapevolezza ormai diffusa (presso
gli stessi giudici parmigiani) che le profferte mecenatesche della corte borbonica
non erano bastate a esercitare una vera attrazione sugli autori più inclini a misurarsi originalmente con la scrittura per le scene. Come Alfieri (pur diverso da
lui quasi in tutto), Monti cercava una sua strada più libera fra tradizione classica
e modernità, aprendosi anche a modelli che fino a quel momento erano rimasti
fuori dall’orizzonte italiano: e, infatti, il dibattito sull’Aristodemo investì subito anche l’assimilazione, da parte di Monti, di alcuni “moduli caratteristici di
Shakespeare”: primo tra tutti il furor suscitato nel protagonista dallo spettro di
Dirce, la figlia innocente sacrificata all’ambizione del trono96.
La diffusione del teatro shakespeariano in Italia è un fenomeno di ampia portata, e ben studiato, cui non è certo possibile qui dedicare se non
poche parole: va almeno sottolineato però come essa sia andata avanti quasi
in parallelo con la progressiva marginalizzazione dell’esperienza parmigiana,
pur così antica e ricca, rispetto agli sviluppi della moderna drammaturgia.
Sappiamo del resto che, ancora nel 1770, nel Programma offerto alle Muse
italiane, non si era neppure affacciata l’ipotesi di un’apertura in direzione
dei modelli inglesi97. Ma nel giro di pochi anni, mentre la vita del concorso
procedeva tra mille stenti, proprio la comparsa della traduzione francese delle
opere di Shakespeare, creando una vera “linea di faglia” nella cultura d’Oltralpe98, produsse anche in Italia una svolta che finì per portare alla ribalta
esperimenti di scrittura tragica maturati in contesti diversi, ma tutti nel complesso più ricettivi – sul piano culturale – di quanto non fosse ormai quello
parmense. La stessa Roma papalina, in questo senso, rappresentava una realtà
più vivace e davvero ‘internazionale’, ma anche le città toscane (soprattutto
Siena, accanto a Firenze) e Napoli contribuirono a disegnare l’orizzonte di
riferimento dei nuovi drammaturghi; mentre la grande stagione di Milano e
536
Un accenno alla vicenda già in Fedi, L’età
dei Borbone…, p. 247.
95
A. Bruni, introduzione a V. Monti, Aristodemo, a cura di A. Bruni, Parma, 1998,
pp. IX-XXIV, citazione a p. X. Alla ricezione
montiana di Shakespeare hanno dato spazio
anche alcuni interventi raccolti in G. Barbarisi (a cura di), Vincenzo Monti nella cultura italiana, vol. II: Monti nella Roma di Pio
VI. Atti del Convegno (Roma, 27-29 ottobre
2005), Milano, 2006: tra questi si veda almeno M. Giammarco, Galeotto Manfredi.
Suggestioni shakespeariane, ibid., pp. 247-276.
96
Il dato risalta tanto più se si considera
che un certo interesse aveva riscosso, nella
prima metà del Settecento, almeno l’opera di Joseph Addison, apprezzata anche da
Antonio Conti e dal cardinale Bentivoglio;
per i legami di questi ultimi con l’ambiente
parmigiano cfr. da ultimo Fedi, Necchi, Il
primo Settecento…, pp. 203-204.
97
Cfr. A. Bruni, Per la fortuna di Shakespeare in Italia: l’“Aristodemo” e una traduzione inedita del Monti, in “Studi di Filologia Italiana”, LIII (1995), pp. 223-249,
citazione a p. 225. L’edizione francese delle
opere di Shakespeare, tradotte da Pierre Le
Tourneur, uscì a Parigi in 20 volumi tra il
1776 e il 1782.
98
Fig. 224 Vincenzo Camuccini, La morte di Cesare (1798). Napoli, Museo di Capodimonte.
Storia di Parma. Musica e Teatro
la nuova ascesa di Venezia sarebbero coincise piuttosto con il fiorire del teatro
giacobino e patriottico.
Nel panorama culturale del ducato, più scosso che vivificato dalla fase ‘democratica’ e dalla stagione napoleonica, la tradizione scenica avrebbe trovato
una nuova centralità solo attorno alla metà dell’Ottocento, grazie allo straordinario successo dell’opera verdiana. Furono pochi invece – nello stesso periodo
– gli autori di tragedie e commedie formati a Parma o stabilmente attivi in città
e nel territorio. Tra di loro è necessario tuttavia ricordare Michele Leoni e Parmenio Bettoli, figure diversissime ma entrambe capaci d’imporsi all’attenzione
del pubblico ben oltre i confini locali.
Il nome di Leoni (Fidenza, 1776-Parma, 1858) ci riconduce peraltro alla
questione cruciale del modello shakespeariano e alle resistenze che la sua diffusione – come si è visto – aveva incontrato a Parma nell’ultimo quarto del
Settecento: un’impasse condensata in emblema, per una beffa del caso, dal
fatto che proprio alla Biblioteca Palatina sia rimasto lo “zibaldone” in cui Vincenzo Monti aveva annotato, traducendoli dal francese di Pierre Le Tourneur,
anche un buon numero di passi da Cymbeline, Romeo and Juliet, The Tempest,
Henry IV 99.
I 32 tasselli shakespeariani sono ora editi
in Bruni, Per la fortuna di Shakespeare…,
pp. 242-248, cui si rimanda anche per le
ipotesi di datazione del manoscritto.
99
Michele Leoni e la tragedia storica
È recente e utile anche dal punto di vista bibliografico la voce dedicata a Leoni
da Francesco Millocca in DBI, vol. LXIV,
2005, ad v.
100
L’apprendistato drammaturgico di Leoni sembra quasi il frutto della volontà
di riscattare questa occasione perduta, giocando al rilancio per compensare il
ritardo100. È vero infatti che egli concepì la sua traduzione completa del teatro
di Shakespeare a Milano, e che il lavoro fu portato a termine negli anni del
soggiorno fiorentino (dal 1813 al 1822)101: ma a iniziare Leoni alla letteratura
inglese era stato Giovanni Rasori, un illustre letterato proveniente a sua volta da
Parma, medico e poeta, ottimo conoscitore della cultura europea contemporanea102. Né sarà dunque un caso che sul frontespizio del Giulio Cesare, la prima
tragedia shakespeariana pubblicata nel 1811 a Milano, il traduttore avesse voluto presentarsi orgogliosamente come “parmigiano”.
L’impresa era ambiziosa e riscosse, ancora in fieri, il plauso autorevole di
madame de Staël, che la segnalò nella seconda lettera alla “Biblioteca Italiana”,
pubblicata nel giugno 1816:
Un letterato a Firenze ha fatto studi profondi sulla letteratura inglese, ed
ha intrapresa una traduzione di tutto Shakespeare, poiché, cosa da non
credere! non esiste ancora una traduzione italiana di questo grand’uomo.
Egli traduce di nuovo Milton, ed ha fra i poeti inglesi fatto una scelta
delle più belle odi per naturalizzarle nella lingua de’ suoi concittadini; ma
ottiene egli per questo l’incoraggiamento e la stima che meritano le sue
fatiche?103.
538
Altre versioni shakespeariane comparirono, in sedi diverse, negli anni immediatamente successivi, fino all’edizione completa
delle tragedie in 14 volumi, pubblicata a
Verona, presso la Società Tipografica, tra il
1819 e il 1822.
101
Sull’attività scientifica e il magistero pavese di Rasori cfr. G. Cosmacini, Il medico giacobino. La vita e i tempi di Giovanni
Rasori, Roma-Bari, 2002; per il suo ruolo
nel panorama letterario si veda invece D.
Tongiorgi, Rasori, “La Biblioteca” e “Il Conciliatore”, o dell’ integrazione impossibile, in
G. Barbarisi, A. Cadioli (a cura di), Idee
e figure del “Conciliatore”. Atti del Convegno (Gargnano del Garda, 25-27 settembre
2003), Milano, 2004.
102
103
Si legge in E. Bellorini (a cura di), Discussioni e polemiche sul Romanticismo (18161826) [1943], 2 voll., ristampa a cura di A.
M. Mutterle, Bari, 1975, vol. I, pp. 66-67.
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
Se però si confronta questa apologia con un coevo giudizio di Foscolo il profilo
culturale di Leoni appare alquanto ridimensionato:
La lettera, indirizzata a Quirina Mocenni
Magiotti il 12 marzo 1816 da Hottingen, si
legge in U. Foscolo, Epistolario, vol. VI: 1
Aprile 1815-7 Settembre 1816, a cura di G.
Gambarin, S. Tropeano, Firenze, 1966, pp.
314-315.
104
105
Sulla sua traduzione shakespeariana cfr.
anche R. Abbaticchio, Teorie serie e “semiserie” del tradurre in versi. Da Grisostomo
alla “Biblioteca italiana”, in A. Carrozzini (a cura di), Teorie e forme del tradurre
in versi nell’Ottocento fino a Carducci. Atti
del Convegno Internazionale (Lecce, 2-4 ottobre 2008), Galatina, 2010, pp. 163-172.
Nello stesso volume, sempre per l’attività
traduttoria del letterato parmigiano, cfr. E.
Carriero, “Non verbum pro verbo necesse
habui reddere”: Michele Leoni traduttore del
Paradise Lost di John Milton, pp. 185-196.
106
La stessa Quirina dava conto nelle sue lettere dell’insuccesso delle due tragedie, rappresentate al Teatro del Cocomero nell’inverno
1814-1815: cfr. in merito anche R. Turchi,
Un collaboratore di Gian Pietro Vieusseux: Michele Leoni, “Rassegna della Letteratura Italiana”, XCVII/1-2 (1993), pp. 59-80.
Questa l’ipotesi, convincente, espressa in
D. Goldin Folena, Alla ricerca di un’ identità nazionale: traduzioni e teatro italiano tra
Schlegel e Rusconi, in M. Tatti (a cura di),
Italia e Italie. Immagini tra Rivoluzione e Restaurazione. Atti del Convegno (Roma, 7-9 novembre 1996), in “Studi (e Testi) Italiani”, numero monografico, III (1999), pp. 193-235.
107
E. Peltipolite [M. Leoni], Il duca d’Enghien, Firenze, 1815. È significativo della sua
fortuna che il testo risulti pubblicato nello
stesso anno anche a Foligno, presso Giovanni Tomassini, e nel 1816 a Napoli per
Raimondi. La vicenda continuò nel tempo a
ispirare rivisitazioni drammatiche.
108
L’incipit stesso (“Benché già da due dì le
stanche luci / confortate di sonno a me non
sieno”) sembra modellato su quello dei Sepolcri: “All’ombra dei cipressi e dentro l’urne
/ confortate di pianto è forse il sonno / della
morte men duro?” (corsivi miei).
109
[…] ha molta prontezza di mente, e penna correntissima, e infaticabile attività a lavorare; ma tratta le Muse da libertino: fa tragedie, com’io farei canzonette; traduce un poeta in meno tempo che l’autore non avrà forse speso
a correggere il suo originale; fa da maestro, quando pure, se non è scolare,
non può però assumersi il diritto di dare o di tôrre il dottorato agli altri
scrittori. Non ha studio di classici greci o latini; e non s’è inviscerato nella
lingua che scrive. Finalmente ei s’è in Firenze – e molto più dopo la mia
partenza, perché in Lombardia stava in minoribus, e non s’attendeva di farla
da direttore, – finalmente ei s’è, per dirlo all’omerica, vestito di sfacciataggine
volpi-leonica, e a quanto intesi e congetturai, fece bottega del suo ingegno;
il che non è male, bench’io non sappia fare altrettanto; ma fece anche da
spauracchio agli altri, e s’è meritato le satire104.
Foscolo aveva conosciuto bene Leoni a Milano, negli anni della collaborazione
con Rasori, e poteva valutare il suo lavoro meglio della de Staël. Con il distanziamento critico permesso anche dal tempo si può tuttavia riconoscere che,
almeno come traduttore, Leoni svolse effettivamente un compito meritorio,
mettendo in circolazione testi (non solo shakespeariani) ancora poco accessibili
al nostro pubblico105.
La sua produzione tragica ebbe invece un successo molto limitato: Annibale
e Ifigenia, presentate entrambe nel 1813 al concorso dell’Accademia della Crusca, risultarono deboli sulla scena e suscitarono anche una satira in forma drammatica, quella appunto cui si riferiva Foscolo nella lettera a Quirina Mocenni
Magiotti106. Un certo interesse invece – e la simpatia (anche) della scrittrice
francese107 – procurò a Leoni la stampa sotto pseudonimo de Il duca d’Enghien,
dramma ispirato a una pagina tra le più fosche della biografia napoleonica:
la fucilazione, nel marzo 1814, di Louis Antoine de Bourbon-Condé, l’ultimo
della sua dinastia, accusato da Bonaparte, senza prove, di essere a capo di un
complotto realista108. Al centro della tragedia – alfieriana nell’impianto e nei
temi, ma disseminata di echi da Foscolo109 – sta la determinazione del nuovo
tiranno a sopprimere nel giovane duca l’ultima “irrequietudine” borbonica; la
conquista del potere assoluto implica infatti la rinuncia alla prerogativa regia
della clemenza e l’asservimento del potere giudiziario (Enrico viene processato
sbrigativamente da un tribunale militare, ma la sentenza è già scritta). Invano
Giuseppina Beauharnais e Carlo, amico inseparabile di Enrico, cercano con
mezzi diversi di scongiurare l’esecuzione: solo la morte del duca può ridare a
Napoleone il sonno invocato fin dalla prima scena. Ma mentre la vittima si
avvia al patibolo, per Bonaparte la notte si popola già degli spettri di Luigi XVI
e dei morti di Jaffa che profetizzano la sua funesta parabola (“tu il più gran re
sarai; tu il più gran reo”) e la giusta punizione del cielo.
Il duca d’Enghien seguiva da presso Bonaparte e i Francesi. Pensiero (1814),
dove la polemica anti-napoleonica dello stesso Eleuterio Peltipolite aveva assun-
539
Storia di Parma. Musica e Teatro
to forma di pamphlet. La militanza ideologica di Leoni si andò tuttavia, negli
anni, assestando su posizioni più caute, specie dopo il rientro a Parma, nel 1823,
dove fu nominato segretario dell’Accademia di Belle Arti e docente di lettere italiane all’Università. Inseguendo la prospettiva di una sistemazione certa
egli finì tuttavia per compromettere i rapporti con l’“Antologia” e la cerchia di
Giovan Pietro Vieusseux, fondatore della rivista, assai lontana dal suo nuovo
“habitus comportamentale vincolato al passato, a istituzioni, come quella del
mecenatismo, ormai superate e che, dati i tempi, non potevano essere riproposte
e accettate se non a prezzo di gravi compromessi”110.
La storia, classica e medievale, continuò comunque a offrire a Leoni spunti di elaborazione drammatica: ma i soggetti sviluppati nelle sue tragedie più
tarde paiono scelti espressamente per contenere un’apologia della tradizione cristiana, se non decisamente guelfa111. Paolo ad esempio (vincitrice nel 1846 del
premio bandito dalla Reale Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Modena)
è costruita attorno al personaggio dell’omonimo apostolo mandato a morte da
Nerone e mette in scena l’epilogo del suo tentativo di evangelizzare Roma. Il
tratto di maggiore originalità del testo sta forse nell’interpretazione del personaggio di Atte, la liberta amante dell’imperatore, che Leoni immagina convertita e legata anzi a Paolo da un sentimento misto di gratitudine (per l’insegnamento di verità ricevuto) e di spirituale trasporto. Nel finale addirittura, benché
le si prometta in cambio la vita dell’apostolo, Atte rifiuta di tornare al paganesimo; Nerone le risparmia allora la vita non più per amore, ma perché possa
lungamente dolersi della morte di Paolo e Timoteo, “frutto / dell’incauta opra
sua”112. L’ultima battuta tocca infine (ma questo prevedibilmente) allo spietato
Tigellino, che soffoca un guizzo di dubbio concepito da Nerone (“Può dunque
[…] una fallace / Religion tanta inspirar virtute?”) e lo richiama alla necessità di
usare solo “la scure” contro le menti accese dei cristiani.
Nell’Avvertimento premesso al testo di Paolo, significativamente, Leoni era
tornato al topico elogio della potenza espressiva delle tragedie greche, riconducendone il merito alla “Religione, la quale discorrea sempre come sangue in vene
le varie parti di simili componimenti”. Una nuova drammaturgia italiana avrebbe dunque potuto sortire gli stessi effetti se “fosse presentata con egual spirito e
sustanza nella materia del nostro Culto di dottrine tanto più vere e venerande”113.
Con la successiva tragedia presentata (e premiata, nel 1754) al concorso modenese, Imelda, Leoni tornò comunque al più topico intreccio politico-sentimentale, ispirandosi a un episodio di storia bolognese. L’eroina eponima, Imelda de’
Lambertazzi, ama, ricambiata, il guelfo Corrado dei Gievernei. Invano la madre
e lo zio della fanciulla cercano di piegare alle ragioni del cuore e della concordia
civile il fratello Armanno, capo ghibellino, il cui odio di parte è alimentato da
Roberto, respinto da Imelda e doppiamente nemico di Corrado. Sarà Armanno
a uccidere quest’ultimo con un’arma intrisa di veleno, per impedirgli la fuga con
Imelda; la quale a sua volta, avvelenata dal bacio impresso sulla ferita, morirà tra
le braccia della madre. La voce della pietas cristiana in Imelda è quella dello zio
Piero, “prelato”, mediatore instancabile tra le fazioni opposte, l’unico capace di
vedere a fondo nell’egoismo di Roberto (“Tu per Roma / né per Cesare sei – sei
540
110
Così Turchi, Un collaboratore di Gian
Pietro Vieusseux…, p. 78.
111
Per un accenno alle posizioni contraddittorie di Leoni, diviso tra l’ammirazione
per Giordani, la difesa di padre Bresciani e
la simpatia per il neoguelfismo giobertiano,
cfr. ibid., p. 76.
M. Leoni, Paolo. Tragedia in cinque atti,
Modena, 1847, p. 65 (corsivo mio).
112
113
Ibid., p. 3.
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
per te solo”, gli obietta alla fine del terzo atto); ed è sempre Piero che persuade
Corrado a non accettare lo scontro armato e a lasciare piuttosto la patria, in
attesa di tempi migliori, portando con sé Imelda, dopo un matrimonio segreto.
La fede politica dell’autore si rispecchia anche nella figura del buon Corrado che
rivendica di aver abbracciato la causa romana senza faziosità, in nome del bene
comune: “Per Italia io son: tu per gli estrani”, rimprovera infatti ad Armanno114.
L’opzione neoguelfa di Leoni risalta tanto più se si valuta la sua produzione
teatrale mettendola a confronto con quella di Giovanni Battista Niccolini (San
Giuliano Terme, 1782-Firenze, 1861) che aveva diviso con lui alcune tappe
importanti del proprio percorso culturale: anch’egli era amico di Foscolo dagli
anni giovanili, segretario a Firenze dell’Accademia di Belle Arti, collaboratore dell’“Antologia”. Al pari di Leoni, inoltre, Niccolini si dedicò alla tragedia
storica, riscuotendo però un notevole successo per l’entusiasmo patriottico dei
suoi personaggi, eroi della lotta contro i dominatori stranieri ma anche contro
il dispotismo papalino. Il protagonista di Arnaldo da Brescia (1843) – considerata la sua opera migliore – è anzi una vittima dell’accordo tra l’imperatore
Federico I Barbarossa e il papa Adriano IV; e il modello di libertà per il quale
egli combatte, ed esorta i suoi alle armi, è la Roma repubblicana115.
Al di là tuttavia del loro intrinseco valore, e del diverso plauso incontrato presso i contemporanei, è evidente per noi che, come quelle di Leoni, anche le tragedie di Niccolini non riuscirono a imporsi durevolmente come testi rappresentati,
e che la grande fortuna scenica dei temi storico-patriottici fu invece legata sempre più alla popolarità dell’opera lirica. Quasi nessuno, oggi, ricorda un Nabucco
composto proprio da Niccolini, tragedia fitta di allusioni alla disfatta napoleonica
in Russia, la cui stesura risale al 1815: Temistocle Solera, l’autore dell’omonimo
libretto musicato da Verdi, sarebbe nato solo l’anno dopo, e avrebbe trovato in
Francia, paradossalmente, il modello compositivo per l’opera poi celebrata (non
senza forzature) come uno dei manifesti del Risorgimento italiano.
Un parmigiano a Tripoli (e altrove):
Parmenio Bettoli commediografo
Idem, Imelda. Tragedia, Parma, 1854, p.
53.
114
115
Si veda in proposito la recentissima interpretazione di Arnaldo da Brescia (che corregge anche le tradizionali letture in chiave ghibellina) in Alfonzetti, Dramma e storia…,
pp. 243-244.
Non nel genere tragico, ma in quello comico si misura infine la vena del drammaturgo più interessante attivo a Parma nel secondo Ottocento.
Parmenio Bettoli (Parma, 1835-Bergamo, 1907; fig. 225) nacque suddito
ancora di Maria Luigia, ma (per quanto una prima pièce, Il falsario e il traditore, fosse andata in scena al Teatro Regio già nel 1852) la maggior parte delle
sue commedie fu composta nel periodo post-unitario, e rappresentata un po’
ovunque in Italia, senza apparentemente incontrare a Parma un’accoglienza
più calda che altrove. Invano poi si cercherebbe in questo repertorio un radicamento nella realtà geografica più familiare all’autore, benché i personaggi
risultino caratterizzati da un certo realismo anche linguistico, solo a tratti ve-
541
Storia di Parma. Musica e Teatro
Fig. 225 Parmenio Bettoli (1890 circa). CMPr, Legato Ferrarini, Foto Stampe, 536.
nato di caricatura. I cittadini di Bettoli – poiché l’ambientazione, questo sì, è
quasi sempre urbana – sono medi e piccoli borghesi, artigiani, imprenditori,
qualche volta redattori o giornalisti com’era lui (ne Un gerente responsabile, ad
esempio)116: ma le loro vicende accadono in una contemporaneità indistinta dal
punto di vista ‘regionale’.
Il divertimento del pubblico, il ‘far ridere’, è il primo degli obiettivi concreti che Bettoli si pone, mostrando in re, e anche nelle tante dichiarazioni di
‘poetica’ collocate a margine delle sue stampe, di avere introiettato senza troppi
traumi la logica imprenditoriale cui anche la creatività degli artisti e dei letterati
si trovava a rispondere nella società italiana uscita dal processo risorgimentale.
Non fu così per tutti, ovviamente: e il dilagare della ‘protesta scapigliata’ è
l’esempio più alto e più celebre dell’energia con cui tanti giovani intellettuali,
542
La commedia fu rappresentata per la prima volta a Firenze nel marzo 1869 e stampata più volte negli anni successivi.
116
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
L’ampio paragrafo intitolato Il poligrafo Parmenio Bettoli di C. Varotti (si veda
Idem, Il secondo Ottocento, in Ronchi, Le
lettere…, pp. 306-308) mette giustamente in
risalto, fin dal titolo, soprattutto la varietà e
la ricchezza della sua produzione.
117
Così nella prefazione a P. Bettoli, Storia
del teatro drammatico italiano dalla fine del
secolo XV alla fine del secolo XIX, Bergamo,
1901.
118
Ad esempio: “Il termine ‘mattatore’, di
probabile derivazione dallo spagnolo matador, è testimoniato per la prima volta,
per così dire ‘ufficialmente’, nel Dizionario
comico di Parmenio Bettoli del 1885, ma
doveva ovviamente circolare già da alcuni
anni”, G. Livio, Il teatro del grande attore e
del mattatore, in Storia del teatro moderno e
contemporaneo, diretta da R. Alonge, G. Davico Bonino, vol. II: Il grande teatro borghese.
Settecento-Ottocento, Torino, 2000, pp. 611675, citazione a p. 613.
119
F. Mezzadri, Parmenio Bettoli, in “Archivio Storico per le Province Parmensi”, IV s.,
XLVII (1995), pp. 405-414, citazione a p.
407.
120
121
La commedia forma una specie di dittico
farsesco, di argomento ‘esotico’, con Un pizzicagnolo in Africa, anch’essa pubblicata nei
primi anni Ottanta.
Per un’analisi sintetica ma convincente de
L’emancipazione della donna (1869) cfr. Varotti, Il secondo Ottocento…, pp. 307-308.
122
proprio in quegli anni, provarono appunto a contrastare il meccanismo della
‘mercificazione’ dei ‘prodotti’ culturali.
L’atteggiamento di Bettoli fu diverso, più spregiudicato e insieme più conservatore. La relativa modestia della sua condizione di nascita lo spinse a cercare
presto un impiego nel mondo del giornalismo e dell’editoria, dove riuscì in
effetti a conquistarsi un certo spazio, collaborando con testate anche importanti, compresi il neonato “Corriere della Sera” (nel 1876) e naturalmente la
“Gazzetta di Parma”, di cui per vari anni fu anche direttore, prima di spostarsi a Bergamo. La qualifica di “poligrafo” si attaglia particolarmente bene
a questo vivace polemista, narratore, divulgatore117: la cui autentica vocazione
fu tuttavia – come egli stesso volle sottolineare con forza – sempre il teatro; e
con piena coerenza infatti egli si dedicò non solo alla scrittura di numerosissime commedie ma anche alla critica teatrale e perfino alla ricostruzione storica.
La sua opera sul teatro italiano, che rimase interrotta dopo le pagine dedicate
al periodo giacobino, avrebbe dovuto “esporre, in forma narrativa […] la storia il più esattamente ricca di dati delle consecutive vicende del nostro teatro
drammatico, durante i secoli XVI, XVII, XVIII e XIX”118. Con opportuna
modestia Bettoli precisava, nell’occasione, di non volersi porre nel solco erudito
di Alessandro D’Ancona (“un maestro, uno insuperabile”), mirando invece a
diffondere un’“opera popolare, di facile lettura e di non troppa mole”, che venne
infatti stampata nella forma agile delle dispense. Anche il Dizionario comico:
277 voci andava incontro a un’esigenza più divulgativa che scientifica: eppure la
sua fortuna è stata lunga, se nella recente Storia del teatro di Einaudi il repertorio si trova ancora citato, almeno per la tempestività con cui seppe registrare i
mutamenti del lessico settoriale119.
Tra le varie imprese legate al suo amore per le scene va registrato anche il
progetto di fondare un teatro a Tripoli, dove Bettoli si trasferì per pochi anni
come corrispondente della stampa italiana, e dove cercò anche di promuovere
investimenti economici da parte dei suoi connazionali, persuaso com’era delle
“grandi possibilità di sviluppo economico e politico” che l’Africa mediterranea
poteva offrire120. Nel protagonista di Un gorgonzolese a Tripoli, l’aspirante imprenditore teatrale, investito dalle proteste della figlia trascinata lontano dalla
‘civiltà’, si può cogliere infatti un rispecchiamento autobiografico, oltre a una
buona dose di autoironia121. Ma la realtà concreta della città africana non ha
quasi peso nella vicenda, che si sostiene invece sull’affettuoso contrasto padrefiglia e sul tema topico del “buon matrimonio”.
La maggior parte dei drammi di Bettoli, del resto, è riconducibile alla categoria delle commedie “di costume”, attraverso le quali il suo moralismo (e
l’etimologia del termine qui è significativa) poteva dispiegarsi in toni perlopiù
bonari, scherzando sulle fissazioni, le stranezze e anche le meschinerie dei personaggi, con un effetto comico garantito. Una visione solidamente conservatrice
prende corpo invece in alcuni testi più ‘impegnati’, nei quali Bettoli fa mostra
in primo luogo di una radicale antipatia verso le aspirazioni femminili al riscatto sociale e culturale, che liquida come una moda importata dall’America
(L’emancipazione della donna, non a caso, è ambientata in Alabama)122 o come
543
Storia di Parma. Musica e Teatro
un’utopia signorile, destinata a infrangersi contro la tenacia, e in fondo la legittimità, di convenzioni rese solide dal buon senso.
È molto significativa, sotto questo aspetto, la scelta di dare un seguito a Les
idées de M.me Aubray, prospettando un epilogo inevitabilmente regressivo della
vicenda portata in scena da Dumas figlio123. La sola possibilità del matrimonio
di Giannina, fanciulla corrotta dalla miseria e ragazza-madre, con il ben nato
Camillo, figlio dell’idealista e filantropa madame Aubray, rappresentava infatti
per Bettoli “uno sfregio, un insulto ai principi di sana morale, che regolano la
nostra società”: il miglior modo, anzi, per “eccitare le crescenti generazioni,
come già si fece con la Dama delle Camelie, a correre in cerca di spose tra le
vestali del Dio degli Orti”124. Per rispondere alle critiche seguite alla prima rappresentazione (Firenze, 1869), Bettoli aggiunse nella stampa un secondo finale
a quello originario, bollato insieme come crudele e inverosimile: ma la morale
rimase immutata. Sconvolti dal riapparire del seduttore di Giannina, deciso a
strapparle il bambino che Camillo sta paternamente allevando, i due sposi sono
comunque annichiliti dal fallimento della loro utopia: e del resto (chiosa l’amico Barantin nel secondo finale) in una tale situazione “bene… proprio bene, era
impossibile che l’andasse a finire”125.
Non stupisce che simili assunti abbiano suscitato all’epoca qualche reazione
severa. Bettoli si rese conto benissimo, del resto, di essersi alienato il favore di
una buona fetta di pubblico, e in una pagina vibrante indicò lucidamente i motivi dell’ostilità dei critici, chiamando in causa anche le sue opere più oltranziste:
La commedia, pubblicata a Parigi nel
1867, era uscita l’anno dopo a Milano, tempestivamente tradotta.
123
Perché io ho scritto un A.R.U. – innocentissima commedia uscita testé per
le stampe – ma nella quale si scorge chiaro, dal suo medesimo titolo, come
io abbia voluto volgere in satira le dottrine internazionalistiche… L’Alleanza Repubblicana Universale; commedia che mosse in tal guisa gli sdegni
dei propugnatori e profeti della liquidazione sociale che, a Genova, dove fu
data la prima volta, si volle assolutamente farla cadere e, quindi, s’impose a
Bellotti-Bon di non rimetterla in scena, sotto comminatoria… che so io!…
forse di petrolio e di peggio…
Perché ho scritto e fatto rappresentare un mio Catilina, nel quale, estrinsecando il mio modo di vedere e di giudicare, ho fatto di questo famoso cospiratore un facinoroso, un pescator nel torbido, un intrigante, dedicando il
mio lavoro ai petrolieri della comune di Parigi, il più esatto fra i ricorsi storici
della congiura di Catilina…
Perché, finalmente, scrivo appendici letterarie ed artistiche, ed anche qualche articolo, per la Gazzetta di Parma, foglio ufficiale della provincia, ergo
venduto, salariato, prezzolato, pagnottista, e via discorrendo126.
Quest’apologia è affidata alle pagine finali di un piccolo capolavoro narrativo
di Bettoli: la Storia della commedia L’Egoista per progetto, cioè della beffa giocata
agli esperti e ai critici teatrali, oltre che al pubblico pagante, con la diffusione
di una falsa commedia goldoniana, frutto in realtà del rimaneggiamento di una
propria pièce ancora inedita, Il signor Prosdocimo.
544
P. Bettoli, Le idee della signora Aubray,
in Idem, Teatro, 11 voll. II, Milano, 18691881, vol. IV, 1870, prefazione.
124
Ibid., p. 135. Più aperta a prospettive di
tolleranza e integrazione sociale (realizzabili
però ben lontano dal mondo borghese europeo) risulta la tarda commedia Il patriarca
di Pitcairn (1906), ispirata all’ammutinamento del Bounty, per cui cfr. W. Spaggiari, L’utopia del mondo nuovo. Il patriarca di
Pitcairn di Parmenio Bettoli, in “Archivio
Storico per le Province Parmensi”, IV s., LX
(2008), pp. 407-416.
125
[P. Bettoli], Storia della commedia
L’Egoista per progetto di P.T. Barti, Milano,
1875, p. 98. A.R.U. (rappresentata per la prima volta nel 1871 e pubblicata a Milano nel
1875) è effettivamente una satira piuttosto
greve della parabola politica del ciabattino
Petronio, sempre pronto a cianciare di rivoluzione con gli amici dell’osteria, ma fulmineo nel cambiare bandiera dopo aver ricevuto un’eredità insperata.
126
La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento
127
Nel 1871 Paolo Ferrari aveva pubblicato
a Milano una “Commedia storica in quattro
atti” dal titolo Goldoni e le sue sedici commedie nuove, andata in scena per la prima volta
nel 1853, interessante esempio di metateatro.
La vicenda aveva preso avvio dall’inasprirsi delle tensioni con Luigi Bellotti
Bon, il capocomico che da anni portava in scena le commedie di Bettoli, ma
aveva appunto cominciato ad allentare i rapporti con lui, preferendo investire in
autori nuovi e in testi più sicuri (e le contestazioni alla prima di A.R.U. spiegano
bene questo atteggiamento). Impossibile ripercorrere qui il dipanarsi dello scherzo allestito per ripicca da Bettoli, cominciato con scarsa convinzione e poi sfuggito di mano al suo stesso ideatore. Basterà dire che il falso apografo goldoniano
(vergato su carta antica scovata presso il “signor Malmaturi di Bassa de’ Magnani”) ingannò prima, a Venezia, un bibliotecario della Marciana, poi lo stesso
Bellotti Bon, disposto a sborsare 2.000 lire per l’esclusiva, e a spedire la somma
al presunto proprietario del manoscritto (Pier Taddeo Barti, pescivendolo), senza
accorgersi che l’indirizzo era quello di Bettoli (“in strada San Michele 63”)!
Conta tuttavia di più, nella nostra prospettiva, il fatto che già la notizia del
ritrovamento e poi le recite allestite con successo a Roma e a Torino (mentre il
pubblico fiorentino si mostrò subito più perplesso) abbiano suscitato innumerevoli articoli di giornale, recensioni, interventi pubblici in Italia e all’estero. Il
motivo profondo di discussione, a ben vedere, erano infatti le prospettive generali del teatro comico italiano, che già dalla metà degli anni Cinquanta Paolo
Ferrari – drammaturgo e autorevole critico, tra i primi ad avallare l’autenticità
almeno parziale dell’Egoista – stava proponendo di ancorare a un rilancio del
grande modello goldoniano127. Si può ben credere, anzi, che la pièce dedicata
da Ferrari stesso a Goldoni (alla sua idea di teatro, ai rapporti con capocomici
e committenti, alle polemiche, al pubblico veneziano) abbia fornito un buono
spunto di ispirazione a Bettoli; e non solo per la falsificazione in sé, ma anche
per il racconto romanzesco della burla. Il ritmo e il taglio della Storia della
commedia L’Egoista per progetto, a loro volta, fanno di questa prosa una perfetta
materia drammatica: a riprova della tenacia di una vocazione che Bettoli, con
tutti i suoi limiti, difese almeno con sincerità.
545
Musica e Teatro
decimo volume della
Storia di Parma
è stampato
su carta Presto Silk
dalla tipografia Step
di Parma
per conto di Monte Università Parma Editore
nel settembre dell’anno
duemila
tredici