STORIA GRECA A 2009-2010 (F.Cordano)– II MODULO –
FONTI ANTICHE a cura di Francesca Berlinzani
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, V, 38- 92 (trad. F. Bevilacqua)
(URGRWR [fine VI-inizio V a. C.]
[, 1] A Sparta non regnava più Anassandrida figlio di Leone, che era morto, ma era suo figlio Cleomene che
deteneva il potere regale: lo aveva ottenuto non per i suoi meriti, bensì per diritto di nascita1. Anassandrida in
effetti aveva sposato una figlia di sua sorella, che gli era molto cara, ma dalla quale non aveva avuto figli. [2]
Stando così le cose, gli efori lo convocarono e gli dissero: «Se tu non vuoi provvedere ai tuoi interessi, noi però
non possiamo assistere inerti a questo e cioè all'estinguersi della stirpe di Euristene. La moglie che hai adesso non
ti dà figli: ripudiala dunque e sposane un'altra: e così agirai in modo gradito agli Spartiati». Lui rispose dichiarando
che non avrebbe fatto nulla di tutto ciò e che non gli davano certo un bel consiglio, esortandolo a cacciare via la
moglie che aveva, esente da ogni colpa nei suoi confronti, per prendersene un'altra: quindi non avrebbe obbedito
loro. [, 1] Di fronte a una simile risposta gli efori e i geronti si consultarono tra loro e poi avanzarono ad
Anassandrida la seguente proposta: «Poiché ti vediamo così attaccato alla moglie che hai, fai come ti suggeriamo
e non opporti, se non vuoi che gli Spartiati decidano a tuo riguardo qualcosa di ben diverso. [2] Non ti chiediamo
più di ripudiare tua moglie: continua pure a offrirle tutto ciò che le offri adesso, ma sposa anche un'altra donna
che possa generarti dei figli». Questo fu all’incirca il loro discorso e Anassandrida accettò il consiglio: , da allora
ebbe due mogli e due case, il che non era assolutamente conforme alle usanze degli Spartiati. [, 1] Non molto
tempo dopo, la seconda moglie mise al mondo il Cleomene di cui stiamo parlando; e mentre lei dava alla luce un
erede al trono per gli Spartiati, proprio allora, per una coincidenza fortuita, la prima moglie, sterile fino a quel
momento, rimase incinta. [2] Era incinta davvero, ma i parenti della seconda moglie, quando appresero la notizia,
cominciarono a crearle dei fastidi, affermando che si vantava senza motivo, per far passare per suo un figlio
altrui. Poiché costoro strepitavano e il tempo ormai stringeva, gli efori, insospettiti, sorvegliarono la donna
mentre partoriva, stando seduti intorno a lei.
[3] Lei, dopo aver generato Dorieo, subito rimase incinta di
Leonida e, immediatamente dopo, di Cleombroto; alcuni poi sostengono che Cleombroto e Leonida erano
gemelli. Invece la madre di Cleomene, la seconda moglie di Anassandrida, figlia di Prinetade figlio di
Demarmeno, non ebbe più figli. [, 1] Cleomene, si dice, non era del tutto sano di mente, ma sulla soglia della
follia; Dorieo invece era il primo di tutti i suoi coetanei ed era fermamente convinto che, grazie ai suoi meriti,
avrebbe ottenuto lui il potere regale. [2] Animato da tale convinzione, quando morì Anassandrida e gli Spartani,
in base alla legge, proclamarono re il figlio maggiore, Cleomene, Dorieo si indignò e, non ritenendo giusto
sottostare al governo di Cleomene, chiese agli Spartiati degli uomini e li condusse a fondare una colonia, senza
aver consultato l'oracolo di Delfi per sapere dove andare a fondarla e senza aver compiuto nessuno dei riti
tradizionali. Non riuscendo dunque a tollerare la situazione, partì con le sue navi per la Libia: gli facevano da
guida uomini di Tera. [3] Giunto nel paese di Cinipe, colonizzò una bellissima località della Libia sulla riva di
un fiume. Ma dopo due anni fu cacciato via dai Maci, dai Libici e dai Cartaginesi e ritornò nel Peloponneso.
[]Qui Anticare, un uomo di Eleone2, gli consigliò, in base ai vaticini di Laio, di colonizzare la terra di Eracle in
Sicilia, asserendo che tutta la regione di Erice apparteneva agli Eraclidi, dal momento che Eracle in persona se ne
era assicurato il possesso3. Dorieo, udite queste parole, andò a domandare all'oracolo di Delfi se avrebbe
conquistato la terra per la quale si accingeva a partire: la Pizia gli rispose di sì. Dorieo allora prese con sé la gente
che aveva già condotto in Libia e navigò lungo le coste dell'Italia. [, 1] In quell'epoca, a quanto raccontano essi
stessi, gli abitanti di Sibari con il loro re Teli si apprestavano a muovere contro Crotone; i Crotoniati, atterriti,
pregarono Dorieo di aiutarli e ottennero quanto chiedevano: Dorieo marciò insieme a loro contro Sibari e
insieme a loro la conquistò. [2] Così, a detta dei Sibariti, avrebbero agito Dorieo e i suoi compagni; i Crotoniati
invece sostengono che nessuno straniero partecipò con loro alla guerra contro Sibari, tranne il solo Callia, un
1 Cleomene, re di Sparta tra il 519 ed il 490 si distinse per la politica spregiudicata volta soprattutto a rinforzare ed accrescere
la Lega del Peloponneso.
2 Villaggio della Beozia.
3 Eracle aveva sconfitto Erice, re degli Elimi e figlio di Afrodite, che lo sfidò, ma nonostante ciò aveva lasciato la terra elima
alla popolazione locale, profetizzando che un giorno un suo discendente avrebbe reclamato quella regione.
1
indovino dell’Elide della stirpe degli Iamidi4, che era arrivato da loro nel modo seguente: giunse a Crotone
fuggendo il tiranno di Sibari, Teli, perché, mentre compiva sacrifici per la guerra contro Crotone, i presagi non
erano stati favorevoli. Questo è quanto affermano i Crotoniati. [, 1] Entrambe le città adducono delle prove a
sostegno delle rispettive versioni dei fatti: i Sibariti un recinto sacro e un tempio situati presso il letto prosciugato
del Crati5, che Dorieo, secondo loro, avrebbe eretto in onore di Atena Cratia, dopo aver espugnato la loro città;
considerano inoltre un indizio decisivo la morte dello stesso Dorieo, cioè che sia stato ucciso per essere andato
oltre le indicazioni dell'oracolo: in effetti se non avesse fatto niente altro, ma si fosse limitato a compiere
l’impresa per la quale era partito, si sarebbe impadronito della regione di Erice e, una volta conquistata, l'avrebbe
conservata e né lui né il suo esercito sarebbero periti. [2] Dal canto loro, i Crotoniati mostrano molti appezzamenti scelti nel territorio di Crotone donati a Callia dell’Elide che ancora ai miei tempi appartenevano ai
discendenti di Callia, mentre nulla era stato dato né a Dorieo né ai suoi discendenti: ora, se Dorieo li avesse
aiutati nella guerra contro Sibari, certamente avrebbe ricevuto assai più doni di Callia. Queste dunque sono le
prove che esibiscono gli uni e gli altri: e ognuno è libero di aderire alla versione che ritiene più convincente. [,
1] Con Dorieo si erano imbarcati, per fondare la colonia insieme a lui, anche altri Spartiati: Tessalo, Parebate,
Celees ed Eurileonte, i quali arrivati in Sicilia insieme a tutta la spedizione, morirono sconfitti in battaglia da
Fenici6 e Segestani: Eurileonte fu l'unico tra i fondatori della colonia a sopravvivere a questa disfatta. [2] Costui
raccolse i superstiti della spedizione, occupò Minoa, colonia di Selinunte, e aiutò gli abitanti di Selinunte a
liberarsi dalla tirannide di Pitagora. Ma, dopo aver rovesciato Pitagora, tentò lui stesso di divenire tiranno di
Selinunte ed esercitò il potere assoluto, ma per breve tempo: infatti i cittadini di Selinunte si ribellarono e
l'uccisero, benché si fosse rifugiato presso l'altare di Zeus Agoraios. [, 1] Seguì Dorieo e morì insieme a lui il
crotoniate Filippo figlio di Butacide, il quale era stato esiliato da Crotone per essersi fidanzato con una figlia di
Teli di Sibari; falliti i suoi progetti matrimoniali, si era recato per mare a Cirene e da lì era partito per seguire
Dorieo con una trireme propria e un equipaggio a sue spese; era stato vincitore a Olimpia ed era il più bello dei
Greci della sua epoca. [2] Grazie alla sua bellezza ebbe dai Segestani onori che nessun altro ottenne: essi
innalzarono un tempietto sulla sua tomba e gli offrono dei sacrifici per propiziarsene la benevolenza. [] Dorieo
perì in tali circostanze. Ma se avesse tollerato di essere suddito di Cleomene e fosse rimasto a Sparta, sarebbe
divenuto re di Sparta: Cleomene infatti non regnò a lungo e morì senza figli, lasciando soltanto una figlia, di
nome Gorgo7. [, 1] Aristagora tiranno di Mileto arrivò dunque a Sparta quando il potere era nelle mani di
Cleomene. Andò a parlare con lui, narrano gli Spartani, portando con sé una tavola di bronzo sulla quale erano
incisi i contorni di tutta la terra, tutto il mare e tutti i fiumi8. [2] Dando inizio al colloquio, Aristagora gli disse:
“Cleomene, non meravigliarti della mia fretta di venire qui. La situazione è questa: che i figli degli Ioni siano
schiavi, invece che liberi, è motivo di vergogna e di grandissimo dolore per noi stessi, ma anche, fra gli altri, per
voi, in quanto siete i primi tra i Greci. [3] Ora dunque, in nome degli dei greci, salvate dalla schiavitù gli Ioni,
uomini del vostro stesso sangue. È facile per voi riuscire in una simile impresa. I barbari infatti non sono forti,
mentre voi, per quanto concerne la guerra, siete giunti al massimo grado di valore. Essi combattono così: archi e
lance corte; vanno in battaglia indossando ampie brache e turbanti sulla testa. [4] Pertanto è facile sconfiggerli.
Però gli abitanti di quel continente possiedono tante ricchezze quante non ne possiedono neppure tutti gli altri
popoli messi insieme, a cominciare dall'oro, e poi argento, rame, vesti ricamate, bestie da soma e schiavi: tutto
questo, se lo desiderate davvero, può diventare vostro. [5] Sono stanziati gli uni vicino agli altri, nell'ordine che vi
mostrerò: accanto agli Ioni ci sono, qui, i Lidi, che occupano una terra fertile e sono ricchissimi di denaro”. E
parlava indicando i luoghi sulla mappa della terra che aveva con sè, incisa sulla tavola. “Dopo i Lidi” proseguì
Aristagora “vengono, qui, a oriente, i Frigi, i più ricchi di bestiame e di raccolti fra tutti gli uomini che io
conosco. [6] Ai Frigi sono contigui i Cappadoci, che noi chiamiamo Siri, e con i Cappadoci confinano i Cilici, che
arrivano fino al mare dove si trova, qui, l’isola di Cipro; i Cilici pagano al re un tributo annuo di cinquecento
talenti. Ai Cilici seguono, qui, gli Armeni, anch'essi ricchi di bestiame, agli Armeni i Matieni, che abitano questa
regione. [7] Dopo i Matieni viene il paese dei Cissi, nel quale, sulla riva di questo fiume, il Coaspe, sorge qui Susa,
dove il Gran Re ha la sua residenza e dove si trovano i depositi dei suoi tesori: se conquisterete questa città,
potrete in tutta tranquillità gareggiare in ricchezza con Zeus. [8] Ebbene, oggi per una regione non certo vasta,
né così fertile e dai confini ristretti dovete affrontare combattimenti contro i Messeni, pari a voi per forza, e
contro gli Arcadi e gli Argivi, i quali non posseggono nulla che assomigli all'oro e all'argento, beni il cui desiderio
4 Importante famiglia di indovini attivi ad Olimpia presso il tempio di Zeus. Si dichiaravano discendenti di Iamo, progenie di
Apollo.
5 Fiume sito nei pressi di Sibari, il cui corso fu deviato dai Crotoniati dopo la sconfitta della città al fine di ricoprire con le
sue acque la città di Sibari ormai rasa al suolo.
6 Nell’area occidentale della Sicilia vi erano diverse colonie fenicie, ad esempio Mozia, Solunto, Palermo.
7 Gorgo diventerà poi la sposa di Leonida.
8 Doveva trattarsi della carta dell’ecumene realizzata da Ecateo di Mileto.
2
può indurre a cadere sul campo di battaglia; e quando vi si offre l'occasione di regnare senza fatica su tutta l'Asia,
deciderete diversamente?”. [9] Tale fu il discorso di Aristagora e Cleomene così replicò: “Straniero di Mileto,
rimando la mia risposta di due giorni”. [, 1] Per il momento non andarono oltre. Quando poi venne il giorno
stabilito per la risposta e si incontrarono nel luogo convenuto, Cleomene domandò ad Aristagora quanti giorni di
cammino vi fossero dal mare della Ionia fino alla dimora del re. [2] Aristagora, che in tutto il resto era abilissimo
e capace di ingannare l'altro assai bene, in quel punto commise un errore: in effetti non avrebbe dovuto dire la
verità, se davvero voleva trascinare in Asia gli Spartiati: invece dichiarò che il viaggio verso l'interno richiedeva
tre mesi. [3] Cleomene allora, troncando il discorso che Aristagora si accingeva a fare sull'itinerario, esclamò:
“Straniero di Mileto, allontanati da Sparta prima del tramonto del sole: non fai certo un discorso gradito agli
Spartani, tu che vuoi condurli a tre mesi di marcia lontano dal mare!”. [, 1] Detto ciò, Cleomene se ne andò a
casa. Aristagora, preso un ramoscello di olivo, si recò all'abitazione di Cleomene: vi entrò come supplice e pregò
Cleomene di mandare via la bambina e di ascoltarlo; in effetti vicino a Cleomene c'era la figlia, che si chiamava
Gorgo: era la sua unica figlia e aveva otto o nove anni. Cleomene lo invitò a dire quello che voleva senza aver
riguardo per la presenza della bambina. [2] Aristagora allora cominciò col promettergli dieci talenti, se avesse
fatto ciò che gli chiedeva. Cleomene rifiutò e Aristagora continuò a offrire cifre sempre più alte, fino a proporre
cinquanta talenti; al che la bimba gridò: “Padre, lo straniero ti corromperà, se non te ne vai da qui!”. [3]
Cleomene, orgoglioso dell'ammonimento di sua figlia, si ritirò in un'altra stanza; Aristagora abbandonò
definitivamente Sparta e non ebbe più modo di fornire ulteriori informazioni sulla strada che dal mare conduce
fino al re. [@ Cacciato via da Sparta, Aristagora si recò ad Atene, che si era liberata dalla tirannide nel modo
seguente. Dopo che Armodio e Aristogitone, di antica stirpe gefirea, ebbero ucciso Ipparco, figlio di Pisistrato e
fratello del tiranno Ippia, benché questi avesse avuto in sogno una visione chiarissima della sua imminente
sventura, gli Ateniesi per quattro anni vissero sotto un regime non meno tirannico di prima, ma anzi ancora più
duro. > 1] Ed ecco quale era stata la visione di Ipparco. Nella notte precedente le Panatenee, gli sembrò che
un uomo alto e bello gli stesse accanto e pronunciasse questi versi enigmatici: “Sopporta, leone, soffrendo con
cuore paziente l'insopportabile: non vi è nessuno tra gli uomini che, commettendo ingiustizia, non sconterà la sua
pena”. [2] Non appena fu giorno, Ipparco sottopose apertamente la visione agli interpreti di sogni; ma in seguito,
senza tenerne conto, guidò la processione durante la quale morì. [, 1] Ho dunque esposto la visione avuta in
sogno da Ipparco e l'origine dei Gefirei, ai quali appartenevano i suoi uccisori; ma, detto ciò, devo riprendere il
discorso che mi accingevo a fare inizialmente, raccontando come gli Ateniesi si liberano dai tiranni. [2] Ippia
esercitava la tirannide ed era esacerbato contro gli Ateniesi per la morte di Ipparco; gli Alcmeonidi, ateniesi di
stirpe ed esuli a causa dei Pisistratidi, avevano cercato insieme agli altri fuorusciti ateniesi di rientrare con la forza,
ma senza successo: anzi, nel tentativo di tornare ad Atene e di liberarla, avevano subito una grave disfatta, dopo
aver fortificato Lipsidrio a nord di Peonia9; gli Alcmeonidi dunque, mettendo in atto manovre di ogni tipo contro
i Pisistratidi, presero in appalto dagli Anfizioni la ricostruzione del tempio di Delfi, di quello cioè attualmente
esistente, ma che all'epoca non esisteva ancora10. [3] Poiché erano ben provvisti di denaro e godevano di grande
prestigio fin dai tempi più remoti, edificarono un tempio ancora più bello di quanto fosse previsto nel progetto:
in particolare, benché si fosse stabilito di costruirlo in tufo, ne eressero la facciata in marmo pario. [, 1]
Dunque, a quanto narrano gli Ateniesi, questi uomini, stabilitisi a Delfi, con il loro denaro persuasero la Pizia a
invitare gli Spartiati, ogni volta che fossero venuti a consultare l'oracolo sia come privati sia a nome della città, a
liberare Atene. [2] Gli Spartani, poiché ricevevano sempre lo stesso responso, inviarono con un esercito
Anchimolio figlio di Astro, un cittadino illustre, a scacciare da Atene i Pisistratidi, benché fossero legati loro da
stretti vincoli di ospitalità: ritenevano infatti più ìmportante quanto è dovuto agli dei di quanto è dovuto agli
uomini. Mandarono queste truppe per mare, a bordo di navi. [3] Anchimolio approdò al Falero e fece sbarcare
i suoi uomini. I Pisistratidi, preavvertiti di ciò, avevano chiesto aiuto ai Tessali, con i quali avevano stipulato un
patto di alleanza; alla loro richiesta i Tessali, di comune accordo, inviarono mille cavalieri con il loro re Cinea, di
Condo. I Pisistratidi, appena ebbero con sé gli alleati, attuarono il piano seguente: [4] disboscarono la pianura del
Falero, rendendo così il terreno praticabile ai cavalli, e poi lanciarono la cavalleria contro l'accampamento dei
nemici. Piombando su di loro, essa uccise molti Spartani, tra i quali anche Anchimolio, e bloccò i superstiti sulle
navi. Così andò a finire la prima spedizione spartana; la tomba di Anchimolio si trova in Attica, nel demo di
Alopece, vicino al tempio di Eracle a Cinosarge. [, 1] In seguito gli Spartani allestirono e mandarono contro
Atene una spedizione più consistente, designando come comandante il re Cleomene figlio di Anassandrida; ma
questa volta non si mossero più per mare, bensì per via di terra. [2] Quando invasero l'Attica, per prima si
scontrò con loro la cavallerìa tessala e in breve tempo fu messa in fuga: caddero più di quaranta cavalieri e i
superstiti, così com’erano, ripiegarono direttamente verso la Tessaglia. Cleomene entrò in città e, insieme a quegli
9
Località non distante da Decelea.
L’antico tempio era infatti stato distrutto da un incendio nel 548 a.C.
10
3
Ateniesi che volevano essere liberi, assediò i tiranni che si erano asserragliati dentro la cinta del Pelargico. [,
1] Certamente gli Spartani non sarebbero riusciti a cacciare i Pisistratidi (infatti non intendevano porre un assedio
e i Pisistratidi erano ben provvisti di cibo e di bevande) e dopo qualche giorno di blocco sarebbero tornati a
Sparta; ma si verificò un fatto fortuito, rovinoso per gli uni, ma un vero alleato per gli altri: mentre erano
condotti di nascosto fuori dalla regione, vennero catturati i figli dei Pisistratidi [2] Quando questo accadde, tutti i
piani dei Pisistratidi furono sconvolti: in cambio dei figli si arresero alle condizioni volute dagli Ateniesi, cioè di
abbandonare l'Attica entro cinque giorni. [3] Partirono poi per Sigeo sullo Scamandro11, dopo aver dominato
sugli Ateniesi per trentasei anni; erano originari di Pilo e discendenti di Neleo12, e avevano gli stessi antenati delle
famiglie di Codro e di Melanto, i quali un tempo, benché stranieri, erano divenuti re di Atene. [4] In ricordo di
tali avi Ippocrate aveva dato a suo figlio il nome di Pisistrato, prendendolo da Pisistrato figlio di Nestore. [5] Così
dunque gli Ateniesi furono liberati dai tiranni. E ora esporrò innanzi tutto le cose degne di menzione che fecero
o subirono, una volta liberi, prima che la Ionia si ribellasse a Dario e che Aristagora di Mileto giungesse ad Atene
per chiedere aiuto.
[, 1] Atene, che anche prima era una grande città, allora, liberata dai tiranni, divenne ancora più grande. Due
uomini vi primeggiavano: Clistene, della stirpe degli Alcmeonidi, che si diceva avesse corrotto la Pizia, e Isagora
figlio di Tisandro, di una casata illustre, ma di cui non sono in grado di precisare le origini: comunque i membri
della sua famiglia sacrificano a Zeus Cario. [2] Questi due uomini si contendevano il potere e Clistene, che aveva
la peggio, cercò di guadagnarsi il favore del popolo. In seguito Clistene divise gli Ateniesi in dieci tribù, mentre
prima erano quattro, abolendo le vecchie denominazioni, derivate dai figli di Ione, cioè Geleonte, Egicoreo,
Argade e Oplete, e trovandone di nuove, tratte dai nomi di altri eroi locali, a eccezione di Aiace: Aiace lo aggiunse in qualità di vicino e alleato, benché fosse straniero.
[, 1] A sua volta Isagora, dal momento che aveva la peggio, meditò quanto segue: chiamò in aiuto lo spartano
Cleomene, che era legato a lui da vincoli di ospitalità dai tempi dell'assedio ai Pisistratidi; e circolava l'accusa che
Cleomene fosse intimo della moglie di Isagora. [2] Cleomene innanzi tutto inviò un araldo ad Atene per chiedere
l'espulsione di Clistene e, oltre a lui, di molti altri Ateniesi, che definiva “impuri”. Mandando questo messaggio,
agiva su indicazione di Isagora: infatti gli Alcmeonidi e i loro compagni di fazione erano accusati di un assassinio,
mentre Isagora e i suoi amici risultavano estranei ad esso. [, 1] Ed ecco in quali circostanze gli Ateniesi
“impuri” ricevettero questo appellativo. Vi era ad Atene Cilone, un vincitore a Olimpia; costui alzò la cresta fino
a mirare alla tirannide e, guadagnatosi l'appoggio di un gruppo di coetanei, tentò di occupare l'acropoli: non
essendo riuscito a impadronirsene, andò a sedersi come supplice presso la statua della dea. [2] I pritani dei
naucrari13 che governavano Atene a quell'epoca, indussero Cilone e i suoi a uscire dal tempio per rendere conto
della loro azione, con la garanzia di aver salva la vita. Ma essi furono uccisi e del delitto vennero accusati gli
Alcmeonidi. Tutto ciò era accaduto prima dell’età di Pisistrato. [, 1] Quando Cleomene cercò con la sua
ambasceria di far espellere Clistene e gli “impuri”, Clistene spontaneamente si allontanò in segreto; nondimeno in
seguito Cleomene si presentò ad Atene con un esercito non numeroso e, appena arrivato, cacciò via come
sacrileghe settecento famiglie ateniesi indicategli da Isagora. Fatto ciò, tentò in secondo luogo di sciogliere la Bulè
e di affidare le cariche pubbliche a trecento cittadini della fazione di Isagora. [2] Poiché la Bulè si oppose e si
rifiutò di obbedire, Cleomene, Isagora e i suoi seguaci si impadronirono dell'acropoli. Gli altri Ateniesi, animati
dai medesimi sentimenti, li assediarono per due giorni: al terzo giorno, in base a un accordo, quanti tra gli
assediati erano Spartani poterono allontanarsi dal paese. [3] Così si compiva per Cleomene la profezia: quando
era salito sull'acropoli per occuparla, si era diretto verso i penetrali del tempio della dea, come se avesse
intenzione di rivolgersi a lei; ma la sacerdotessa, alzatasi dal suo seggio prima che egli varcasse la porta, gli aveva
detto: “Straniero di Sparta, torna indietro e non entrare nel tempio: qui ai Dori non è lecito entrare”. E Cleomene
le aveva risposto: “Donna, io non sono Doro, ma Acheo”. [4] Senza tenere conto del presagio, aveva messo
mano all'impresa; e in quella circostanza fu cacciato via insieme agli Spartani. Quanto agli altri assediati, gli
Ateniesi li incarcerarono in attesa di mandarli a morte; tra loro vi era anche Timesiteo di Delfi, di cui potrei citare
straordinarie imprese di forza e di coraggio. [,1] Costoro dunque morirono in catene. Gli Ateniesi in seguito
richiamarono Clistene e le settecento famiglie esiliate da Cleomene; inviarono poi messaggeri a Sardi, volendo
stringere un'alleanza con i Persiani: erano certi infatti che gli Spartani e Cleomene erano ormai loro nemici. [2]
Quando gli inviati giunsero a Sardi ed esposero il messaggio affidato loro, Artafrene, figlio di Istaspe e
governatore di Sardi, domandò loro chi fossero e dove abitassero per chiedere un'alleanza ai Persiani; udita la
risposta, replicò poche parole: se gli Ateniesi avessero offerto al re Dario terra e acqua, egli si sarebbe alleato con
11
In Troade.
Neleo era padre di Nestore.
13 Questa tradizione, che attribuisce ai capi delle naucrarie la responsabilità della strage dei Ciloniani, scagiona gli Alcmeonidi
dalla tradizionale accusa che veniva loro mossa.
12
4
loro, altrimenti li invitava ad andarsene. [3] Gli inviati, desiderosi di concludere l’alleanza, di propria iniziativa
si dichiararono d’accordo. Ma, tornati in patria, dovettero rispondere di gravi accuse.
[, 1]
Cleomene, convinto di essere stato offeso a parole e nei fatti dagli Ateniesi, raccolse truppe in tutto il
Peloponneso, senza precisare per quale motivo; voleva vendicarsi del popolo ateniese e installare come tiranno
Isagora, che lo aveva seguito quando aveva abbandonato l’acropoli. [2] Cleomene dunque con un grande
esercito fece irruzione a Eleusi, mentre i Beoti, secondo gli accordi, si impadronirono di Enoe e di Isia, i demi
più remoti dell'Attica, e i Calcidesi dall'altro lato attaccavano e devastavano le campagne dell'Attica. Gli Ateniesi,
benché impegnati su due fronti, decisero di pensare in un secondo momento a Beoti e Calcidesi e mossero
invece contro i Peloponnesiaci che occupavano Eleusi. [, 1] Le armate stavano per scontrarsi, quando i
Corinzi, essendosi resi conto per primi che non stavano agendo secondo giustizia, cambiarono idea e si
ritirarono. Poi fece lo stesso Demarato figlio di Aristone, l'altro re degli Spartiati, che insieme a Cleomene aveva
guidato l'esercito da Sparta e che in precedenza non era mai stato in disaccordo con lui. [2] In seguito a questo
dissenso, a Sparta fu promulgata una legge in base alla quale i re non potevano accompagnare entrambi l'esercito
in una spedizione (fino ad allora lo accompagnavano tutti e due); e dal momento che uno dei re era esonerato da
tale compito, doveva restare a Sparta anche uno dei Tindaridi14: prima invece anch'essi venivano entrambi
invocati in aiuto e seguivano entrambi le truppe. [3] Allora, a Eleusi, gli altri alleati, vedendo che i re di Sparta
non andavano d'accordo e che i Corinzi avevano abbandonato lo schieramento, si ritirarono a loro volta. []
Questa era la quarta volta che i Dori entravano nell'Attica: due volte vi avevano fatto irruzione per portar la
guerra, due volte per il bene del popolo ateniese: la prima fu nella stessa epoca in cui fondarono Megara (questa
spedizione potrebbe a buon diritto prendere nome dal re di Atene Codro), la seconda e la terza quando erano
venuti da Sparta per cacciare i Pisistratidi, e la quarta allora, quando cioè Cleomene a capo dei Peloponnesiaci
irruppe nel territorio di Eleusi; così in quella circostanza i Dori invasero l'Attica per la quarta volta.
[, 1] Dato che questo corpo di spedizione si era disperso ingloriosamente, allora gli Ateniesi, desiderosi di
vendicarsi, marciarono innanzi tutto contro i Calcidesi. I Beoti mossero in soccorso ai Calcidesi sull'Euripo.
[...]
[, 1] Mentre si preparavano alla vendetta, sopraggiunse un'iniziativa degli Spartani a ostacolare i loro progetti.
Gli Spartani, appresi gli intrighi degli Alcmeonidi nei confronti della Pizia e quelli della Pizia contro di loro e i
Pisistratidi, considerarono una duplice sciagura l'aver cacciato dalla loro patria degli uomini a cui erano legati da
vincoli di ospitalità e il fatto che, nonostante questo, gli Ateniesi non gliene fossero minimamente riconoscenti.
[2] Oltre a ciò, contribuivano a spronarli dei vaticini che predicevano che da parte degli Ateniesi sarebbero venuti
loro molti oltraggi; di tali profezie prima erano all'oscuro, ma le conobbero dopo che Cleomene le portò a Sparta.
Cleomene se ne era impadronito sull'acropoli di Atene: in precedenza erano in possesso dei Pisistratidi, ma
quando erano stati cacciati le avevano lasciate nel tempio: le avevano abbandonate lì e Cleomene le aveva prese.
[, 1] Allora gli Spartani, avendo in mano questi oracoli e vedendo che gli Ateniesi diventavano sempre più
potenti e non erano affatto disposti all’obbedienza, compresero che il popolo dell'Attica, ora libero, avrebbe
acquisito un peso pari al loro, mentre se fosse stato soggetto a un tiranno sarebbe stato debole e pronto a
obbedire; essendosi resi conto di tutto ciò, mandarono a chiamare Ippia figlio di Pisistrato da Sigeo
nell'Ellesponto, dove si erano rifugiati i Pisistratidi. [2] Quando Ippia, in risposta al loro invito, arrivò a Sparta,
convocarono anche rappresentanti degli altri alleati e tennero il seguente discorso: “Alleati, noi riconosciamo di
non esserci comportati correttamente. Istigati da vaticini ingannevoli, cacciammo dalla loro patria degli uomini
che erano legati a noi da strettissimi vincoli di ospitalità e che si impegnavano a mantenere Atene a noi soggetta;
fatto ciò, affidammo poi la città a quel popolo ingrato, che, recuperata la libertà e rialzata la testa grazie a noi, ha
offeso e cacciato via noi e il nostro re; e ora, animato da una grande opinione di sé, si ingrandisce, come hanno
ben imparato i popoli confinanti, Beoti e Calcidesi: e presto anche altri si accorgeranno di aver commesso un
errore. [3] Ma poiché noi abbiamo sbagliato ad agire così, adesso cercheremo insieme a voi di trovare un rimedio:
proprio per questo abbiamo fatto venire qui Ippia e voi, dalle vostre città, per riportarlo ad Atene di comune accordo e con un esercito comune, e per restituirgli ciò che gli abbiamo tolto”.
[, 1] Così parlarono gli Spartani, ma la maggior parte degli alleati non accolse con favore il loro discorso.
Mentre gli altri tacevano, Socle di Corinto disse: [D, 1] “Di sicuro il cielo finirà giù sotto la terra e la terra in alto
sopra il cielo, gli uomini andranno ad abitare nel mare e i pesci là dove prima vivevano gli uomini, dal momento
che voi, Spartani, abolendo regimi fondati sull'uguaglianza di diritti, vi preparate a instaurare nelle città governi
tirannici, di cui non vi è al mondo nulla di più ingiusto e di più sanguinario. [2] Se davvero vi sembra una bella
cosa che le città siano rette da tiranni, cominciate voi con l'affidare il potere a un tiranno in casa vostra e poi
cercate di imporlo agli altri: ma ora voi, che non avete nessuna esperienza di tiranni e anzi vigilate con la massima
14
Castore e Polluce, figli di Tindaro mitico re di Sparta.
5
attenzione che non si installino a Sparta, vi comportate ingiustamente nei confronti dei vostri alleati; se ne aveste
avuto esperienza al pari di noi, certamente avreste da avanzare opinioni più sagge di quella che avete esposto oggi
, VI, 51 segg.
[] Nel frattempo Demarato, figlio di Aristone, rimasto a Sparta, calunniava Cleomene; anche Demarato era re
degli Spartiati, ma della famiglia meno nobile, meno nobile per un unico motivo (entrambe infatti discendono dal
medesimo capostipite), e cioè che in virtù della primogenitura la stirpe di Euristene gode di maggiore
considerazione. [, 1] Gli Spartani, in contrasto con tutti i poeti, sostengono che fu proprio Aristodemo, figlio
di Aristomaco figlio di Cleodeo figlio di Illo, a condurli, durante il suo regno, nella regione che occupano
attualmente, e non i figli di Aristodemo. [2] Non molto tempo dopo, la moglie di Aristodemo, che si chiamava
Argia, partorì; dicono che fosse figlia di Autesione figlio di Tisarneno figlio di Tersandro figlio di Polinice; costei
dunque mise al mondo due gemelli; Aristodemo ebbe appena il tempo di vedere i suoi figli che si ammalò e morì.
[3] Gli Spartani dell’epoca decisero, in conformità alla legge, di nominare re il maggiore dei due bambini; ma non
sapevano quale scegliere, dal momento che erano assolutamente identici. Non riuscendo a riconoscere il
primogenito, o prima ancora di provarci, interrogarono la madre: [4] ma quest'
ultima dichiarò che non era in
grado di distinguerli neppure lei; in realtà ne era capacissima, ma lo disse perché desiderava che, se possibile, tutti
e due diventassero re. Gli Spartani erano in difficoltà e, nell’incertezza, mandarono a chiedere a Delfi come
dovessero agire in una simile circostanza: [5] la Pizia ingiunse loro di considerare re entrambi i bambini, ma di
onorare maggiormente il più anziano. Così rispose la Pizia, e gli Spartani, al pari di prima, non sapevano come
individuare il più grande, quando un uomo di Messene, di nome Panite diede loro un suggerimento. [6] Panite
consigliò agli Spartani di spiare quale dei due la madre lavasse e nutrisse per primo: se l'
avessero vista compiere
queste azioni sempre nello stesso ordine, avrebbero avuto tutto quello che cercavano e volevano scoprire; se
invece anche lei si fosse comportata in modo oscillante, accudendo per primo ora l'
uno ora l'
altro, sarebbe stato
evidente che neppure lei ne sapeva di più; in tal caso avrebbero dovuto tentare un'
altra strada. [7] Gli Spartiati
allora, seguendo il consiglio del Messeno, sorvegliarono la madre dei figli di Aristodemo e scoprirono che li
nutriva e li lavava sempre nello stesso ordine, privilegiando il primogenito: ignorava infatti per quale motivo la
stessero osservando. Presero il bimbo prediletto dalla madre in quanto nato per primo e lo allevarono nella casa
della città: a lui misero nome Euristene e al più giovane Procle. [8] Una volta adulti, pur essendo fratelli, furono
in disaccordo, si narra, per tutta la durata della loro vita e i loro discendenti continuano a fare altrettanto. [, 1]
Gli Spartani sono gli unici tra i Greci a raccontare questa storia; invece quanto segue lo scrivo in base a ciò che
sostengono i Greci: e cioè i re dei Dori, fino a Perseo figlio di Danae ed escludendo il dio, sono stati catalogati
con esattezza dai Greci ed è stato dimostrato che sono Greci, poiché già ai loro tempi erano annoverati tra i
Greci. [2] Ho detto “fino a Perseo” senza risalire più indietro, perché a Perseo non è attribuito alcun appellativo
derivante dal nome di un padre mortale, come invece accade con Eracle figlio di Anfitrione: perciò mi sono
espresso in modo corretto, dicendo correttamente “fino a Perseo”. A chi volesse elencare i loro antenati
partendo da Danae figlia di Acrisio risulterebbe che i capi dei Dori discendono direttamente dagli Egiziani. []
Questa è la loro genealogia secondo i Greci. Secondo invece la versione dei Persiani, fu lo stesso Perseo, che era
un Assiro, a divenire Greco e non i suoi avi; quanto ai progenitori di Acrisio, che non avrebbero alcuna relazione
di parentela con Perseo, essi, proprio come sostengono i Greci, erano Egiziani. [] E tanto basti sull'
argomento;
per quale motivo e grazie a quali imprese, pur essendo Egiziani, abbiano ottenuto il potere regale tra i Dori lo
hanno già narrato altri e noi lo tralasceremo; ricorderò invece quello che gli altri hanno omesso di trattare. []
Ed ecco i privilegi che gli Spartiati hanno concesso ai loro re: due sacerdozi, di Zeus Spartano e di Zeus Uranio;
il diritto di muovere guerra al paese che vogliono, senza che nessuno degli Spartiati possa impedirglielo15, pena il
macchiarsi di sacrilegio; in marcia i re avanzano per primi e si ritirano per ultimi; nell'
esercito cento uomini scelti
vegliano su di loro; durante le spedizioni militari possono sacrificare quanti capi di bestiame vogliono e spettano
loro le pelli e le schiene di tutte le vittime immolate. [, 1] Queste sono le loro prerogative in tempo di guerra;
ed ecco quelle del tempo di pace. Quando si celebra un sacrificio a pubbliche spese, i re si siedono a banchetto
per primi e da loro per primi si comincia a servire il pasto, distribuendo a entrambi, per tutte le vivande, porzioni
doppie che agli altri convitati; a loro spettano l'
onore di dare inizio alle libagioni e le pelli degli animali immolati.
[2] A ogni novilunio e il settimo giorno di ogni mese vengono assegnati a ciascun re, a spese della città, una
vittima adulta, da condurre al tempio di Apollo, un medimno di farina e la quarta parte di una misura laconica di
vino; in tutte le competizioni dispongono di posti scelti in prima fila. Hanno il diritto di nominare prosseni i
cittadini che vogliono e di scegliere ognuno due Pizii: i Pizii sono coloro che vanno a Delfi per consultare
l'
oracolo e, al pari dei re, sono mantenuti a pubbliche spese. [3] Quando i re non partecipano al pasto, si
(URGRWR
15 Se questo fu mai vero, non lo era certo ai tempi di Erodoto: è interessante notare che nel passo non si faccia riferimento
alla funzione degli efori.
6
mandano a casa loro due chenici di farina e una cotile di vino per ciascuno, se invece sono presenti, viene offerta
loro doppia razione di tutto e ricevono lo stesso onore anche quando sono invitati a pranzo da privati cittadini.
[4] Custodiscono i responsi degli oracoli, di cui sono a conoscenza anche i Pizii. Amministrano la giustizia da soli
esclusivamente nei casi seguenti: riguardo alle ereditiere (se il padre non ha promesso a nessuno la ragazza in
questione, decidono loro a chi spetta sposarla) e riguardo alle pubbliche vie; [5] inoltre se qualcuno vuole
adottare un figlio, deve farlo davanti ai re. Essi prendono parte al consiglio degli anziani, che sono ventotto; se
non si recano alla seduta, sono i due anziani a loro più vicini per parentela che esercitano le prerogative regali,
esprimendo ciascuno due voti più un terzo, il proprio. [, 1] Questo è quanto la città degli Spartiati assegna ai re
finché sono in vita; ed ecco quanto accorda loro dopo la morte. Dei cavalieri diffondono la notizia per tutta la
Laconia; nella città invece, delle donne vanno in giro percuotendo lebeti. Non appena si verifica tutto ciò, la
norma impone che in ogni casa due persone libere, un uomo e una donna, prendano il lutto: coloro che non lo
fanno, incorrono in gravi pene. [2] Le usanze degli Spartani per la morte dei re sono le stesse dei barbari
dell'Asia: in effetti la maggior parte dei barbari si comporta nello stesso modo quando muoiono i loro re.
Allorché un re degli Spartiati viene a mancare, da tutta Sparta devono recarsi al funerale, oltre agli Spartiati, anche
i perieci, in un numero prestabilito: [3] e quando questi perieci, gli iloti e gli stessi Spartiati si sono riuniti in molte
migliaia, uomini e donne insieme, si percuotono con ardore la fronte e si abbandonano a lamenti senza fine,
proclamando ogni volta che l'ultimo re scomparso è stato il migliore. Se un re muore in guerra, fabbricano una
statua che lo raffigura e la portano alla tomba su una lettiga riccamente addobbata. Dopo la sepoltura, per dieci
giorni non si tengono assemblee, né si svolgono riunioni per eleggere magistrati, ma durante tutto questo periodo
osservano il lutto. [] Concordano con i Persiani anche per un'altra usanza: quando, alla morte di un re, un altro
gli succede, il nuovo sovrano libera dai debiti tutti gli Spartiati che hanno un debito con il re o con la città;
analogamente presso i Persiani il re che si insedia condona a tutte le città i tributi arretrati.
[] Gli Spartani sono invece simili agli Egiziani per quanto segue: presso di loro gli araldi, gli auleti e i cuochi
ereditano il mestiere del padre, e il flautista è figlio di un flautista, il cuoco di un cuoco, l'araldo di un araldo; i figli
degli araldi non vengono mai esclusi a opera di altri che si dedicano a questa professione in virtù della loro voce
squillante, ma continuano la tradizione paterna. Così stanno le cose. [,1] A quell'epoca dunque, mentre
Cleomene si trovava a Egina e agiva per il bene comune della Grecia, Demarato lo andava calunniando, non
tanto perché avesse a cuore le sorti degli Egineti, quanto per invidia e gelosia. Cleomene, al suo ritorno da Egina,
meditava di destituire Demarato, traendo spunto per le sue accuse dal fatto seguente. Aristone, re di Sparta,
aveva sposato due donne, ma non ne aveva avuto figli; [2] poiché non ammetteva che la cosa dipendesse da lui,
sposò una terza donna; ed ecco in quali circostanze. Aristone aveva come amico uno Spartiata a cui era legato
più che a qualsiasi altro concittadino. Costui aveva in moglie la donna di gran lunga più bella di Sparta, che era
divenuta bellissima da bruttissima che era. [3] In effetti la sua nutrice, vedendo che era fisicamente sgradevole
(questa bimba così bruttina era figlia di gente ricca) e che i genitori consideravano il suo aspetto una disgrazia,
resasi conto di tutto ciò, escogitò il seguente rimedio: tutti i giorni la portava al tempio di Elena, che sorge nella
località chiamata Terapne, al di sopra del tempio di Febo; e ogni volta che la portava, la metteva in piedi davanti
alla statua della dea e la supplicava di liberare la piccola dalla sua bruttezza. [4] Ebbene, si narra che un giorno,
mentre la nutrice stava tornando dal tempio, le apparve una donna: le apparve e le domandò che cosa avesse in
braccio; lei rispose che si trattava di una bambina; la donna la invitò a mostrargliela, ma la nutrice rifiutò, poiché i
genitori le avevano proibito di farla vedere a chiunque. La donna insistette: [5] e la nutrice, vedendo che ci teneva
tanto a darle un'occhiata, alla fine gliela mostrò. La donna accarezzò la testa della piccola e dichiarò che sarebbe
diventata la più bella di tutte le donne di Sparta. Da quel giorno, la bimba mutò d'aspetto; e quando giunse all'età
del matrimonio, la prese in moglie Ageto figlio di Alcide, cioè l'amico di Aristone. [, 1] L'amore per questa
donna tormentava dunque Aristone, che ricorse a un espediente: promise all'amico, di cui lei era la sposa, di
donargli l'oggetto da lui prescelto fra tutti i suoi beni e lo invitò a fargli un'analoga concessione; costui, senza
nutrire alcun timore riguardo a sua moglie, perché vedeva che anche Aristone ne aveva una, acconsentì alla
proposta; e si impegnarono con giuramento a mantenere la promessa. [2] Allora Aristone regalò l'oggetto
(qualunque cosa fosse) che Ageto aveva scelto fra i suoi tesori; poi, cercando di avere il contraccambio, tentò di
prendersi la moglie dell'amico. Questi si dichiarava disposto ad accordargli qualsiasi altra cosa, tranne quella
soltanto; tuttavia, obbligato dal giuramento e da quel raggiro ingannatore, gliela lasciò portar via. [, 1] Così
Aristone sposò la sua terza moglie, dopo aver ripudiato la seconda. In un tempo più breve del normale e senza
aver compiuto i dieci mesi, costei diede alla luce Demarato. [2] Uno dei servi andò ad annunciare ad Aristone,
mentre sedeva a consiglio con gli efori che gli era nato un figlio. Ma lui, che ben sapeva quando aveva sposato
sua moglie, contando i mesi sulle dita, dichiarò con tanto di giuramento: “Non può essere mio!”. Gli efori lo udirono, tuttavia, sul momento, non vi fecero alcun caso. Il bambino cresceva e Aristone si pentì di quello che aveva
detto: infatti si era convinto che Demarato fosse sicuramente figlio suo. [3] Lo chiamò Demarato per il seguente
motivo: prima di questi avvenimenti, gli Spartiati avevano innalzato pubbliche preghiere perché ad Aristone, un
7
uomo davvero illustre fra tutti i re che avevano regnato a Sparta, nascesse un figlio; per questo gli fu posto nome
Demarato16. [] Col passar del tempo, Aristone morì e Demarato ottenne il potere regale. Ma era destino, a
quanto pare, che questi fatti, una volta risaputi, mettessero fine al suo regno; Demarato si era scontrato
duramente con Cleomene già prima, per aver ritirato l'esercito da Eleusi; e poi si scontrò con lui in quella
circostanza, quando Cleomene mosse contro gli Egineti che si erano schierati dalla parte dei Medi. [ 1]
Animato dal desiderio di vendicarsi, Cleomene concluse un patto con Leutichida figlio di Menare figlio di Agide,
che apparteneva alla stessa famiglia di Demarato: l’accordo prevedeva che, se Cleomene fosse riuscito a farlo
nominare re al posto di Demarato, lui poi lo avrebbe seguito contro gli Egineti. [2] Leutichida aveva concepito
un odio violento contro Demarato per il seguente episodio: quando Leutichida si era fidanzato con Percalo figlia
di Chilone figlio di Demarmeno, Demarato, con un tranello, aveva mandato a monte il matrimonio,
anticipandolo nel rapire Percalo e nel prenderla in moglie. [3] Da ciò era nata l'ostilità di Leutichida nei confronti
di Demarato; e allora, per istigazione di Cleomene, accusò Demarato sotto giuramento, affermando che regnava
sugli Spartiati senza averne diritto, in quanto non era figlio di Aristone. E dopo questa accusa giurata, lo citò in
giudizio, rievocando la frase pronunciata da Aristone, quando il servo gli aveva annunciato la nascita di un figlio,
ma lui, contando i mesi, aveva giurato che non era suo. [4] Facendosi forte di tali parole, Leutichida voleva dimostrare che Demarato non era figlio di Aristone e che regnava su Sparta senza averne diritto: e convocò come
testimoni gli efori, che in quella circostanza sedevano in consiglio insieme ad Aristone e che avevano udito la sua
affermazione. > 1] Alla fine, poiché il fatto dava adito a varie discussioni, gli Spartiati decisero di chiedere
all'oracolo di Delfi se Demarato era figlio di Aristone. [2] II ricorso alla Pizia era stato predisposto da Cleomene:
questi allora si procurò l’appoggio di Cobone figlio di Aristofanto, un uomo che aveva grande influenza a Delfi, e
Cobone persuase la profetessa Perialla a dire ciò che Cleomene voleva fosse detto. [3] Così la Pizia, quando gli
inviati la interrogarono, sentenziò che Demarato non era figlio di Aristone. In seguito tuttavia la faccenda venne
scoperta; Cobone dovette andare in esilio da Delfi e la profetessa Perialla fu deposta dalla sua carica [, 1] Così
dunque andarono le cose per quanto concerne la destituzione di Demarato. Demarato poi abbandonò Sparta per
rifugiarsi dai Medi a causa del seguente affronto. Dopo essere stato deposto, Demarato rivestiva una carica a cui
era stato eletto. [2] Si stavano celebrando le Gimnopedie e, mentre Demarato vi assisteva, Leutichida, che già era
subentrato al suo posto come re, per deriderlo e per offenderlo mandò un servo a chiedergli che effetto facesse
esercitare una magistratura dopo essere stato re. [3] Demarato, ferito dalla domanda, rispose che lui aveva
sperimentato entrambe le cose, ma Leutichida no, e che quella domanda avrebbe segnato per gli Spartani l'inizio
o di infinite sciagure o di una infinita prosperità. Detto ciò, si coprì la testa e dal teatro si recò a casa sua; là,
compiuti subito i preparativi, immolò un bue a Zeus e, dopo il sacrificio, chiamò sua madre. [, 1] Quando la
madre giunse, le mise in mano parte delle viscere e la supplicò con queste parole: “Madre, appellandomi a tutti gli
dei e in particolare a Zeus protettore del focolare, io ti scongiuro di dirmi la verità: chi è veramente mio padre?
[2] Leutichida, nel corso della discussione, ha sostenuto che tu sei entrata nella casa di Aristone incinta del tuo
primo marito; altri poi, facendo discorsi ancora più folli, affermano che sei andata con un servo, il guardiano
degli asini, e che io sono suo figlio. [3] Io dunque ti prego in nome degli dei di rivelarmi la verità: del resto, se hai
fatto qualcosa di quanto si racconta, non sei certo la sola, ma in numerosa compagnia; e a,Sparta è assai diffusa la
voce che Aristone non avesse un seme atto a procreare, perché altrimenti anche le mogli precedenti gli avrebbero
dato figli”. [, 1] Così parlò e lei gli rispose: “[...] [2] Poi se ne andò e più tardi arrivò Aristone. Appena vide
che avevo delle corone, mi domandò chi me le avesse date. Io risposi che era stato lui, ma lui si rifiutava di
crederlo; io glielo giurai, aggiungendo che non si comportava bene negando la cosa: infatti poco prima era
venuto da me, si era coricato con me e mi aveva donato le corone. [3] Vedendomi giurare, Aristone capì che la
faccenda aveva qualcosa di divino. Le corone risultarono provenienti dall’KHURRQ situato presso la porta del cortile,
l’KHURRQ detto di Astrabaco, e gli indovini dichiararono che avevo avuto a che fare proprio con quell'eroe. [4] Ora,
figlio mio, sai tutto quello che volevi sapere: o sei nato da questo eroe e qunindi tuo padre è l’eroe Astrabaco,
oppure è Aristone: io ti ho concepito in quella notte. Se i tuoi nemici ti attaccano soprattutto su questo punto,
sostenendo che Aristone stesso, quando gli fu annunciata la tua nascita, affermò, in presenza di molti testimoni,
che tu non eri suo figlio (perché il tempo non era ancora trascorso), ebbene tuo padre si lasciò sfuggire quella
frase per la sua ignoranza in materia. [5] Le donne partoriscono anche di nove mesi e di sette, e non tutte portano a termine i dieci mesi: io, figlio mio, ti ho partorito di sette mesi. Aristone stesso, non molto tempo dopo,
riconobbe di aver buttato là quella frase a sproposito. Altre voci sulla tua nascita non ascoltarle: tutta la verità
l'hai udita adesso. E da asinari possano generare figli le mogli di Leutichida e di tutti coloro che fanno discorsi di
questo genere”. [, 1] Tale fu la sua risposta. Demarato, appreso quello che voleva sapere, prese il necessario
per il viaggio e partì per l'Elide, dando a intendere che andava a Delfi a consultare l'oracolo. Ma gli Spartani,
sospettando che Demarato tentasse lo fuga, si diedero a inseguirlo. [2] In qualche maniera Demarato riuscì a
16
Da GHPRV, popolo, ed DUj, preghiera.
8
passare dall’Elide a Zacinto prima di loro; ma gli Spartani vi sbarcarono anch’essi, misero le mani su di lui e gli
portarono via i servi. In seguito, poiché gli abitanti di Zacinto non erano disposti a consegnarlo da là potè recarsi
in Asia presso il re Dario; questi gli riservò una splendida accoglienza e gli donò terra e città. [3] Ecco come
giunse in Asia Demarato e dopo quali disavventure; in molte circostanze si era distinto tra gli Spartani per le sue
azioni e i suoi pareri, e in particolare aveva procurato loro l'onore di una vittoria a Olimpia nella corsa delle
quadrighe: e fu l'unico a compiere una simile impresa fra tutti i re che regnarono a Sparta. [, 1] Deposto
Demarato, gli successe nel regno Leutichida figlio di Menare; questi ebbe un figlio, Zeuxidamo, che alcuni
Spartiati chiamavano Cinisco. Zeuxidamo non regnò su Sparta, in quanto morì prima di Leutichida, lasciando un
figlio, Archidamo. [2] Leutichida, quando perse Zeuxidamo, prese una seconda moglie, Euridame, sorella di
Menio e figlia di Diattoride; da lei non ebbe nessun figlio maschio, ma una figlia, Lampito, che diede in sposa ad
Archidamo figlio di Zeuxidamo. [, 1] Neppure Leutichida invecchiò a Sparta, ma pagò in qualche modo quello
che aveva fatto a Demarato: ed ecco come. Aveva guidato una spedizione spartana contro la Tessaglia e, pur
avendo la possibilità di sottomettere tutta la regione, si lasciò corrompere da una grossa cifra di denaro: [2] colto
in flagrante nel suo accampamento, mentre stava seduto su una borsa piena di denaro, fu citato in giudizio e
fuggì da Sparta, mentre la sua casa venne abbattuta; si rifugiò a Tegea e là morì. [, 1] Ma questi fatti avvennero
in epoca successiva. Allora invece, poiché il suo intrigo contro Demarato era andato a buon fine, Cleomene prese
con sé Leutichida e mosse contro gli Egineti, nei confronti dei quali nutriva un terribile rancore a causa
dell'affronto subito. [2] E così gli Egineti, vedendosi arrivare addosso entrambi i re, non ritennero più possibile
opporre resistenza; gli Spartani scelsero e portarono via dieci Egineti, i più ragguardevoli per ricchezza e per
stirpe, tra gli altri anche Crio figlio di Policrito e Casambo figlio di Aristocrate, che avevano grandissima autorità;
li condussero in territorio attico e li affidarono in custodia ai peggiori nemici degli Egineti, cioè agli Ateniesi.
[, 1] In seguito Cleomene, poiché le sue malvage macchinazioni contro Demarato erano venute alla luce, ebbe
paura degli Spartiati e fuggì di nascosto in Tessaglia. Passato da là in Arcadia, cercava di provocare una
sollevazione, coalizzando gli Arcadi contro Sparta e inducendoli tra l'altro a giurare che lo avrebbero seguito
dovunque li guidasse; in particolare era ansioso di condurre i capi degli Arcadi nella città di Nonacri per farli
giurare sull'acqua dello Stige. [2] In questa città, a detta degli Arcadi, si trova l'acqua dello Stige ed ecco in
effetti quello che c'è: una esigua vena d'acqua, sgorgando da una roccia, cade goccia a goccia in una depressione e
tutto intorno alla depressione corre, in cerchio, un muro a secco. Nonacri, dove si trova questa sorgente, è una
città dell'Arcadia nei pressi di Feneo. [, 1] Quando gli Spartani vennero a sapere ciò che tramava Cleomene,
spaventati, lo richiamarono a Sparta perché tornasse a regnare con le stesse prerogative di prima. Ma, non
appena fu rientrato, lo colse la follia (anche prima non era del tutto sano di mente): ogni volta che incontrava
uno Spartiata, lo colpiva sul viso con lo scettro. [2] Poiché si comportava in tal modo ed era fuori di senno, i
parenti lo legarono a un ceppo. Egli, così legato, vedendo un giorno che l'uomo di guardia era rimasto solo,
senza i suoi compagni, gli chiese un pugnale; questi dapprima rifiutò di darglielo e allora Cleomene lo minacciò,
spiegandogli quello che gli avrebbe fatto una volta liberato, finché il guardiano, atterrito dalle minacce (era infatti
un ilota), gli consegnò il pugnale. [3] Cleomene, in possesso dell'arma, cominciò a far strazio di sé a partire dalle
gambe: incidendo le carni nel senso della lunghezza procedette dalle gambe alle cosce, dalle cosce ai fianchi e
all’addome, finché raggiunse il ventre e lo tagliò a pezzi: e così morì. A quanto afferma la maggior parte dei
Greci, ciò avvenne perché aveva indotto la Pizia a dire quello che aveva detto su Demarato; secondo invece gli
Ateniesi, perché quando aveva invaso Eleusi aveva devastato il recinto sacro delle dee; a detta infine degli Argivi,
perché, dopo aver fatto uscire dal santuario dell'eroe Argo quegli Argivi che, scampati alla battaglia, vi si erano
rifugiati, li aveva sterminati e, senza nessun riguardo, aveva incendiato lo stesso bosco sacro. [, 1 ] In effetti,
consultando un giorno l'oracolo di Delfi, Cleomene si era sentito predire che avrebbe conquistato Argo. E
quando, alla testa degli Spartiati, giunse al fiume Erasino, che, si dice, proviene dal lago di Stinfalo (l'acqua di
questo lago, precipitando in un'oscura voragine, riapparirebbe ad Argo e da là in poi verrebbe chiamata Erasino
dagli Argivi), giunto dunque sulla riva di questo fiume, Cleomene gli offrì dei sacrifici. [2 ] Poichè i presagi non
risultavano affatto favorevoli al passaggio del fiume, dichiarò di ammirare l'Erasino che non voleva tradire i suoi
concittadini, ma che neppure in tal caso gli Argivi avrebbero avuto di che rallegrarsi. Poi si ritirò e riportò
l'esercito a Tirea; là, dopo aver immolato un toro in onore del mare, imbarcò le sue truppe e le condusse nel
territorio di Tirinto e di Nauplia. [, 1] Gli Argivi, informati di ciò, accorsero sulla costa per difendersi: quando
furono vicino a Tirinto, nella località chiamata Sepia, si accamparono di fronte agli Spartani, lasciando tra i due
eserciti uno spazio non grande. In quella situazione gli Argivi non temevano una battaglia in campo aperto, ma di
cadere vittime di qualche inganno.
9
7XFLGLGH
I, 67-87 (trad. G. Donini)
[Dopo l’assedio di Potidea, c. 432 a. C.]
[3] I Lacedemoni invitarono anche chiunque tra i loro alleati dichiarava di avere subito qualche altro torto dagli
Ateniesi, e dopo aver convocato la loro assemblea abituale li invitarono a parlare. [4] Vari rappresentanti
venivano avanti e facevano ciascuno le proprie accuse, e in particolare i Megaresi, i quali indicarono non pochi
motivi di discordia, e specialmente il fatto che, contrariamente al trattato, erano esclusi dai porti dell’impero
ateniese e dal mercato di Atene. [5] Si fecero avanti per ultimi i Corinzi, e dopo aver lasciato che gli altri prima
infiammassero i Lacedemoni, li seguirono con un discorso di questo genere: [ 1] ”La fiducia che da voi,
Lacedemoni, prevale nella vita pubblica e nei rapporti privati vi rende più diffidenti se diciamo qualcosa contro
gli altri; e da questo derivate certo moderazione, ma date prova di maggior ignoranza per quanto riguarda i fatti
che avvengono al di fuori. [2] Spesso vi abbiamo avvertiti dei danni che stavamo per subire dagli Ateniesi, eppure
voi non vi rendevate conto delle informazioni che ogni volta vi davamo, ma sospettavate piuttosto che quelli che
vi parlavano lo facessero per i loro interessi privati; e per questo, non prima che subissimo i danni, ma ora che ne
siamo le vittime, avete convocato gli alleati che sono qui, tra i quali spetta a noi più che a ogni altro parlare, in
quanto abbiamo anche le più gravi accuse da presentare, poiché subiamo gli oltraggi degli Ateniesi e siamo
trascurati da voi. [3] E se inosserati commettessero le loro ingiustizie contro la Grecia, avreste bisogno di ulteriori
informazioni, come persone ignare: ma ora che bisogno c'è di fare lunghi discorsi, quando vedete che alcuni sono
già assoggettati, e agli altri loro stanno tramando insidie, e specialmente ai nostri alleati, e che essi hanno fatto i
loro preparativi da molto tempo, nell'eventualità che un giorno siano costretti a subire una guerra? [4] Se così
non fosse, non avrebbero in modo subdolo preso Corcira contro la nostra volontà e non se la terrebbero, e non
assedierebbero Potidea: delle due, questa è la città più favorevole da utilizzare per l'accesso alle regioni confinanti
con la Tracia, e quella avrebbe fornito ai Peloponnesiaci la flotta più grande. [, 1] E di queste cose siete voi i
responsabili, perché prima li avete lasciati rafforzare la loro città dopo le guerre contro i Medi, e poi costruire le
lunghe mura17, e fino ad oggi avete costantemente privato della libertà, non solo quelli che sono stati soggiogati
da loro, ma ora anche i vostri alleati. Infatti chi veramente priva della libertà non è chi ha soggiogato un altro, ma
chi è in grado di mettere fine alla schiavitù ma non se ne cura, anche se gode della reputazione di virtù come
liberatore della Grecia. [2] Con difficoltà ci siamo riuniti ora, e nemmeno ora con idee chiare sulla situazione.
Infatti non dovremmo più esaminare se stiamo subendo torti, ma in che modo ci difenderemo: quelli che
agiscono attaccano dopo aver già fatto i loro piani, di fronte a uomini che non hanno deciso, e attaccano senza
indugiare. [3] E sappiamo in che modo gli Ateniesi avanzano contro i loro vicini, e che li attaccano a poco a
poco. E quando pensano di passare inavvertiti a causa della vostra incapacità di osservare, sono meno audaci, ma
quando si accorgeranno che voi, pur sapendolo, li lasciate fare, insisteranno decisamente. [4] Soli tra i Greci siete
inattivi, Lacedemoni, e vi difendete contro un attacco, non con la forza, ma con l'esitazione, e siete i soli a
distruggere la potenza dei nemici, non quando è al suo inizio, ma quando si è raddoppiata. [5] Eppure si diceva
che ci si poteva fidare di voi: ma in questo caso la fama era certo superiore alla realtà. Noi stessi sappiamo che il
Medo arrivò dai confini della terra ad attaccare il Peloponneso, prima che le vostre forze andassero incontro a lui
in modo adeguato; e ora non vi curate degli Ateniesi, che non sono lontani, come lui, ma vicini, e invece di
attaccarli voi stessi, preferite difendervi contro i loro attacchi e affidarvi alla fortuna affrontando un nemico
divenuto molto più potente; eppure sapete, sia che il barbaro fu per lo più lui stesso responsabile della propria
sconfitta, sia che contro gli Ateniesi stessi noi abbiamo già molte volte avuto successi più per i loro errori che per
l'aiuto proveniente da voi: infatti le speranze riposte in voi hanno già in qualche caso portato alla rovina alcuni
che, a causa della fiducia che avevano in voi, erano anche impreparati. [6] E nessuno di voi creda che queste cose
siano state dette più per ostilità che per rimprovero: il rimprovero è diretto agli amici che sbagliano, l'accusa ai
nemici che hanno offeso. [, 1] Nello stesso tempo, se qualcuno ha il diritto di muovere rimproveri ai vicini, noi
pensiamo di averlo più di altri, soprattutto perché sono grandi le differenze che esistono, differenze di cui a noi
almeno sembra che non siate consapevoli, né che abbiate mai riflettuto che uomini siano gli Ateniesi contro i
quali entrerete in lizza, e quanto, e quanto completamente diversi da voi. [2] Loro sono innovatori e pronti a
ideare progetti e a realizzare con i fatti quello che hanno deciso: voi siete pronti a conservare quello che avete già,
a non prendere nuove decisioni, e nei fatti a non eseguire neanche il necessario. [3] E poi loro sono audaci al di là
delle loro forze, disposti al rischio al di là dei loro calcoli, e incrollabili nelle loro speranze quando si trovano nei
pericoli: la vostra abitudine è di agire al di sotto delle vostre forze, di non fidarvi neanche dei calcoli sicuri della
vostra riflessione, e di pensare che non vi libererete mai dai pericoli. [4] Inoltre loro non hanno esitazioni, mentre
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Si tratta delle due mura fortificate che collegavano Atene con i due porti del Pireo e del Falero, costruite tra il 459 ed il
456. Ad esse si aggiunse nel 445 un terzo muro, parallelo a quello che congiungeva Atene con il Pireo, e che rendeva la città
praticamente inespugnabile salvo in caso di perdita del controllo sul mare.
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voi esitate, e loro sono pronti a uscire dal paese, mentre voi siete legatissimi al vostro: loro infatti credono con
l’assenza di poter guadagnare qualcosa, voi invece con un attacco di danneggiare le cose che possedete già. [5]
Quando sono vittoriosi sui nemici avanzano il più possibile, e quando sono sconfitti cedono il meno possibile.
[6] E inoltre nel servire con le loro persone la città, le considerano come completamente estranee a loro, ma
trattano la loro mente come una cosa che appartiene loro completamente per fare qualche cosa per la città. [7] Se
non eseguono un piano che hanno fatto, ritengono di essere privati di ciò che appartiene a loro; se con un
attacco ottengono qualche cosa, credono di avere in realtà fatto poco in confronto a quello che faranno. E anche
se effettivamente falliscono in qualche tentativo, con altre speranze rimediano alla mancanza: sono infatti i soli
per i quali sperare nelle cose che si pongono come obiettivo equivalga ad averle, perché rapidamente
intraprendono quello che decidono. [8] E in tutte queste attività si affannano tra fatiche e pericoli per la loro vita
intera e godono pochissimo delle cose che hanno, perché cercano sempre di ottenere qualcosa e ritengono che
solo il fare quello che si deve sia davvero una festa, e che sia una disgrazia la tranquillità inattiva piuttosto che
l'attività faticosa. [9] Così se uno riassumendo dicesse che essi per natura sono fatti per non avere tranquillità loro
stessi e per non permetterla agli altri uomini, direbbe una cosa giusta.
[, 1] Eppure con una tale città contro di voi, Lacedemoni, continuate a indugiare, e credete che la tranquillità
non duri più a lungo per quegli uomini che nell'uso delle loro forze militari agiscono, sì, con giustizia, ma nel loro
atteggiamento mostrano che se subiscono offese non le tollereranno: voi invece praticate la giustizia secondo il
principio di non fare del male agli altri e di non ricevere danni voi stessi quando vi difendete. [2] Con difficoltà
raggiungereste questo scopo se viveste vicino a una città simile alla vostra: ma, come vi abbiamo appena
mostrato, i vostri modi sono antiquati in confronto ai loro. [3] È inevitabile che, come in un'attività tecnica, le
novità si impongano sempre; per una città che resta tranquilla le usanze immutabili sono le migliori, ma per quelli
che sono costretti a compiere molte imprese, sono anche necessarie molte innovazioni. È per questo che tra gli
Ateniesi, grazie alla loro grande esperienza, ci sono state più innovazioni che presso di voi. [4] A questo punto
dunque abbia termine la vostra lentezza: ora venite in soccorso degli altri, e soprattutto dei Potideati, come avete
promesso, invadendo l'Attica, affinchè non abbandoniate uomini che sono vostri amici e consanguinei ai peggiori
nemici, e non spingiate noi, gli altri popoli, nella disperazione a qualche altra alleanza. Non faremmo niente di
ingiusto né agli occhi degli dei protettori dei giuramenti, nè agli occhi degli uomini che lo sapranno: infatti
violano i trattati, non quelli che si rivolgono ad altri perché sono stati abbandonati, ma quelli che non vengono in
soccorso di coloro ai quali sono stati legati con i giuramenti. [6] Ma se vorrete essere solleciti, rimarremo: non
agiremmo secondo le leggi divine se cambiassimo, né troveremmo altri alleati più affini. [7] Perciò deliberate
bene e cerecate di esercitare l’egemonia su un Peloponneso non meno grande di quello che i vostri padri vi
hanno lasciato.” [..., 1]Ora si trovava già da prima a Sparta un’ambasceria di Ateniesi venuti per altre
ragioni[...].[2] Si recarono presso i Lacedemoni e dissero che volevano anch’essi parlare davanti alla loro
assemblea[...] e parlarono in questo modo: [, 1] [...] “ La nostra missione non ha avuto come scopo un dibattito
con i vostri alleati, ma le questioni per cui la vostra città ci ha inviati, ma poiché ci accorgiamo che non poche
grida di accusa sono state lanciate contro di noi, siamo venuti, non per replicare alle accuse delle città (poichè
non siete voi i giudici dinanzi ai quali sia i nostri sia i loro discorsi si potrebbero fare), ma affinché non siate
facilmente convinti dai vostri alleati e non prendiate una decisione meno buona; vogliamo anche mostrare, a
proposito dell’opinione complessiva che si è formata nei nostri riguardi, che non senza ragione possediamo ciò
che abbiamo ottenuto, e che la nostra città è degna di considerazione. [2] E degli avvenimenti molto antichi che
bisogno c'è di parlare, avvenimenti di cui sono testimoni i racconti uditi piuttosto che la vista di quelli che li
ascolterebbero? Ma delle guerre contro i Medi, e dei fatti che voi stessi conoscete, anche se sarà piuttosto
fastidioso che noi li presentiamo sempre, è necessario parlare. Infatti quando agivamo, si correva un rischio per
portare un beneficio, e del risultato concreto di questo voi aveste una parte: non ci dovrebbero essere del tutto
vietate le parole che ricordano il beneficio, se esse ci possono giovare. [3] II nostro discorso lo faremo, non tanto
per scusarci quanto per darvi una testimonianza e spiegarvi contro quale città entrerete in lotta se non delibererete bene. [4] Affermiamo che a Maratona fummo i soli ad affrontare il pericolo in prima linea contro il barbaro, e che quando egli venne per la seconda volta, dato che non eravamo in grado di difenderci sulla terra, ci
imbarcammo sulle navi con tutta la popolazione e prendemmo parte alla battaglia di Salamina: questo impedì al
barbaro di devastare il Peloponneso attaccando una alla volta le città, che non avrebbero avuto la possibilità di
venire in soccorso l'una dell'altra contro navi in gran numero. [5] E la prova più importante di questo la fornì lui
stesso: sconfitto con le navi, pensò che le sue forze non fossero più all'altezza di quelle nemiche, e si ritirò con il
grosso dell'esercito. [, 1] Ora, mentre i fatti si svolsero in questo modo, e fu mostrato chiaramente che la
salvezza dei Greci dipese dalle navi, a questo risultato contribuimmo i tre elementi più utili: il maggior numero di
navi, il generale più intelligente e l'ardore più pronto: per quanto riguarda le navi, su quattrocento poco meno dei
due terzi ; e Temistocle come comandante, il quale fu la causa principale del fatto che si combattè nello stretto
(cosa che nel modo più evidente salvò la situazione), e proprio per questo voi stessi lo onoraste più di qualsiasi
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altro straniero che sia venuto da voi; [2] e mostrammo l'ardore di gran lunga più audace: noi che, quando
nessuno veniva in nostro aiuto per via di terra, e le altre città fino a noi erano ormai schiave, ritenemmo
doveroso lasciare la città e abbandonare i nostri beni alla distruzione e, anche allora, non tradire la causa degli
alleati che rimanevano, né renderci inutili a loro disperdendoci, ma salire sulle navi e affrontare il pericolo senza
adirarci perché non ci avevate aiutati prima. [3] Così affermiamo di non aver dato meno vantaggi a voi di quanti
ne abbiamo ricevuti. Voi infatti veniste in nostro aiuto da città abitate e con lo scopo di continuare ad abitarle nel
futuro, quando aveste paura più per voi che per noi (in ogni caso, quando eravamo ancora incolumi, non veniste
ad aiutarci): noi invece partendo da una città che non esisteva più, e affrontando il pericolo per una città la cui
possibilità di esistenza si basava su una debole speranza, contribuimmo, per quanto potemmo, a salvare voi oltre
che a salvare noi stessi. [4] Ma se noi prima fossimo passati dalla parte del Medo, temendo, come fecero altri, per
la nostra terra, o se più tardi non avessimo osato salire sulle navi, considerandoci rovinati, sarebbe stato per voi
ormai completamente inutile combattere sul mare, dato che non avevate navi sufficienti, ma le cose si sarebbero
svolte tranquillamente come il Medo voleva. [, 1] Non meritiamo forse, Lacedemoni, sia per l'ardore di allora
sia per l'intelligenza della nostra decisione, di non essere così eccessivamente invidiati per l'impero che possediamo? [2] II fatto è che questo stesso impero non lo ottenemmo con la forza, ma perché voi non foste disposti
a perseverare nella guerra contro le forze rimanenti del barbaro, e perché da noi vennero gli alleati e ci chiesero di
propria iniziativa di metterci alla loro guida. [3] E da questo stesso fatto fummo costretti da principio a estenderlo fino a questo punto, soprattutto per la paura18, poi anche per l'onore, e più tardi anche per utilità. [4] E
ormai, quando eravamo odiati dai più, e alcuni dopo essersi ribellati erano ormai sottomessi, e voi non ci eravate
più amici come una volta, ma sospettati e in disaccordo con noi, non ci sembrava più sicuro correre rischi
allentando il nostro controllo (perché le rivolte sarebbero certamente state a vostro favore). [5] Non incorre
nell'odio di nessuno chiunque disponga bene i propri interessi quando corre i più grandi pericoli. > 1] Voi
certo, Lacedemoni, siete egemoni delle città del Peloponneso dopo averle sistemate secondo il vostro vantaggio:
e se allora restando in guerra fino alla fine foste stati odiati nell'esercizio dell'egemonia, come noi, sappiamo che
voi non sareste stati meno severi verso i vostri alleati e sareste stati costretti, o a dominare con la forza o ad
essere in pericolo voi stessi. [2] Così neanche noi abbiamo fatto niente di straordinario né alieno dalle abitudini
dell'uomo, se abbiamo accettato un impero quando ci veniva offerto e non l'abbiamo abbandonato, obbedendo
ai tre motivi più importanti: l'onore, la paura e l'utilità; né d'altra parte siamo stati i primi a comportarci in tale
modo, ma è sempre stata la norma che il più debole sia sottomesso al più forte; nello stesso tempo pensiamo di
essere degni dell'impero, e così sembrava a voi, finché calcolando il vostro interesse vi servite del pretesto della
giustizia, che nessuno, quando ha avuto l'occasione di ottenere qualcosa con la forza, ha mai preferito ad essa per
lasciarsi distogliere dall'aumentare i propri possedimenti. [3] E sono degni di lode coloro che, pur seguendo la
natura umana in modo da dominare sugli altri, dimostrano più giustizia di quanto non lo consentirebbe la
potenza che è a loro disposizione. [4] Ad ogni modo crediamo che altri, se ottenessero quello che abbiamo noi,
mostrerebbero molto bene quanto siamo moderati: ma a noi, come risultato della nostra stessa moderazione,
senza ragione è toccata cattiva fama più che lode. [, 1] Infatti noi che eravamo svantaggiati nei processi che si
svolgevano in base ad accordi coi nostri alleati, e che quindi abbiamo stabilito che questi processi si svolgessero
nella nostra città secondo leggi imparziali19, abbiamo la fama di gente che ama i processi. [2] E nessuno di loro si
domanda perché non fa questo rimprovero a coloro che hanno un impero da qualche altra parte e sono meno
moderati di noi verso i loro sudditi : coloro ai quali è possibile usare la violenza non hanno nessun bisogno di
servirsi di processi. [3] Loro invece, abituati ad avere rapporti con noi su un piede di parità, se subiscono qualche
svantaggio, per piccolo che sia, contrariamente alla loro convinzione che ciò non dovrebbe accadere, a causa di
una decisione o della forza che deriva dal nostro impero, non sono riconoscenti per non essere privati della
maggior parte di quello che hanno, ma sono più infastiditi per ciò che manca loro che se fin dal principio
avessimo messo da parte la legge e agito apertamente con prepotenza. In quel caso nemmeno loro si sarebbero
opposti dicendo che il più debole non deve cedere al più forte. [4] Quando subiscono ingiustizia, a quanto pare,
gli uomini si arrabbiano più di quando subiscono violenza: il primo caso sembra prepotenza in una situazione in
cui le due parti sono uguali, il secondo sembra costrizione quando una delle due è più forte. [5] Ad ogni modo
essi sopportavano un trattamento peggiore di questo da parte del Medo, mentre il nostro impero sembra essere
severo, e a ragione: il presente è sempre duro per i sudditi. [6] Voi, in ogni caso, se ci rovesciaste e otteneste un
impero, perdereste presto la simpatia che avete guadagnato a causa della paura che noi incutiamo, se è vero che
anche oggi avrete sentimenti uguali a quelli che lasciaste intravedere allora, quando per poco tempo fruiste
18
Si intende probabilmente la paura dei Persiani.
Non sappiamo moltissimo degli accordi che regolavano questo tipo di processi, salvo che permettevano ad un cittadino
che si trovasse in un’altra SROLV di ottenere giustizia.
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dell’egemonia contro il Medo20. Infatti le vostre usanze sono inconciliabili con quelle degli altri, e inoltre ognuno
di voi che esce dalla sua città non segue né queste usanze né quelle del resto della Grecia.
> 1] Prendete dunque la vostra decisione con lentezza su una questione che non è da considerarsi di poco
conto, e non lasciatevi persuadere dalle opinioni e dalle accuse altrui per assumervi una fatica che sarà vostra.
Considerate, prima di trovarvi in guerra, quanto è importante in essa il fattore dell'imprevedibile. [2]
Prolungandosi, infatti, la guerra tende per lo più a seguire il corso della sorte, dalla quale siamo, noi e voi,
egualmente lontani, e si corre il rischio ignorando in quale dei due modi la guerra finirà. [3] Quando gli uomini si
avviano nei conflitti, si dedicano prima alle azioni, cosa che si dovrebbe fare dopo, e solo quando sono afflitti
dalla sofferenza si rivolgono ai discorsi. [4] Ma noi non siamo ancora caduti in un tale errore, né vi vediamo
caduti voi, e vi diciamo, finché entrambi possono ancora scegliere spontaneamente di prendere una decisione
saggia, di non rompere il trattato e di non violare i giuramenti, ma di risolvere i disaccordi con l'arbitrato,
secondo il patto; se no, rendendo testimoni gli dèi protettori dei giuramenti, cercheremo di respingere quelli che
cominceranno la guerra, ovunque voi ci indicherete la via”. [, 1] In tale modo parlarono gli Ateniesi. Quando i
Lacedemoni ebbero ascoltato le lagnanze degli alleati contro gli Ateniesi e ciò che questi ultimi avevano detto,
fecero andare via tutti e deliberarono tra di loro sulla situazione. [2] Le opinioni della maggioranza erano le
stesse, cioè che gli Ateniesi fossero già colpevoli e che si doveva fare la guerra al più presto. Ma si fece avanti il
loro re Archidamo, un uomo considerato intelligente e saggio, e parlò in questo modo: [, 1] ”Io stesso ho già
avuto esperienza di molte guerre, Lacedemoni, e tra di voi vedo che l'hanno quelli della mia età21e così nessuno
può desiderare la guerra per inesperienza, come potrebbe succedere alla maggioranza, né perché la consideri una
cosa buona e sicura. [2] E trovereste che questa, su cui state ora discutendo, non sarebbe di pochissima
importanza, se uno la esaminasse con prudenza. [3] Contro i Peloponnesiaci e i nostri vicini le nostre forze
militari sono pressoché uguali, e si può rapidamente attaccare ciascun obiettivo: ma contro uomini il cui territorio
è lontano, e che inoltre hanno una grandissima esperienza del mare e sono ottimamente forniti di tutte le altre
cose: ricchezza privata e pubblica, navi, cavalli, armi e una quantità di uomini che non si trova in nessun altro
singolo territorio greco; e che per di più hanno anche molti alleati soggetti a tributo — come si può cominciare
una guerra a cuor leggero contro questi uomini, e su che cosa si potrà fare affidamento per affrettarsi senza
preparazione? [4] Sulle navi? Ma siamo inferiori; e se ci eserciteremo e ci prepareremo contro di loro, ci vorrà
tempo. Allora sul denaro? Ma in questo siamo molto inferiori ancora, e non ne abbiamo nel tesoro pubblico, né
possiamo contribuirne facilmente dai nostri fondi privati.
[O, 1] Forse qualcuno potrebbe essere fiducioso perché li superiamo nelle armi e nella quantità di truppe, così da
poter fare incursioni nella loro terra e devastarla. [2] Ma loro hanno molta altra terra sotto il loro dominio, e
importeranno per mare le cose di cui hanno bisogno. [3] Se d'altra parte tenteremo di provocare la ribellione dei
loro alleati, anche questi bisognerà aiutarli con navi, poiché per la maggior parte sono isolani. [4] Che guerra
allora sarà la nostra? Se non diventeremo superiori a loro con le navi, o se non sottrarremo loro le entrate con cui
mantengono la flotta, subiremo danni nella maggior parte dei casi. [5] E in questa situazione neanche il fare la
pace sarà più onorevole, soprattutto se sembrerà che siamo stati noi maggiormente responsabili dell'inizio
dell'ostilità. [6] Non lasciamoci esaltare da quella speranza, la speranza che la guerra terminerà presto se
devasteremo la loro terra. Temo piuttosto che la lasceremo ai nostri figli: talmente probabile è che gli Ateniesi,
con il loro orgoglio, non saranno schiavi della loro terra né si lasceranno terrorizzare dalla guerra come se ne
fossero inesperti. [,1] Non già che io voglia chiedervi di essere insensibili e di lasciare che essi facciano del male
ai nostri alleati, e di non smascherare i loro disegni: vi chiedo invece di non muovere ancora le armi, ma di inviare
ambascerie ed esprimere le nostre lagnanze, senza rivelare né troppo apertamente intenzioni di guerra, né che li
lasceremo agire indisturbati, e nel frattempo di fare anche i nostri propri preparativi, procurandoci alleati, sia
Greci sia barbari, dovunque potremo ottenere un incremento di potenza in fatto di navi o di denaro (e non ci
sarà un rimprovero per quanti, come noi, sono minacciati dagli Ateniesi, se si salveranno per essersi procurati
l'aiuto, non solo di Greci, ma anche di barbari) ; e nello stesso tempo approntiamo i nostri propri mezzi. [2] E se
presteranno ascolto alle nostre ambascerie, questa sarà la cosa migliore; altrimenti, dopo un intervallo di due o tre
anni, li attaccheremo, se ci parrà opportuno, meglio protetti allora. [3] E forse allora, quando vedranno i nostri
20 Si fa riferimento al comportamento medizzante e tirannico di Pausania negli anni 478/ 77, quando, dopo avere conquistato
Bisanzio con una flotta, a causa del suo atteggiamento arrogante e dispotico vide l’ammutinamento dei suoi sottoposti e fu
accusato di tradimento (avrebbe offerto al Gran Re la propria fedeltà in cambio del matrimonio con una principessa
persiana). Tornato a Sparta per subire il processo, evitò la condanna e si recò nuovamente a Bisanzio dove instaurò un
dominio personale sinché nel 475 non venne scacciato da Cimone. Dopo una breve parentesi a Colone in Troade nel 470
era nuovamente a Sparta, dove fu assolto dalle accuse di filomedismo, ma sospettato di suscitare l’insurrezione degli Iloti si
rifugiò come supplice presso il tempio della Atena Calcieca dove fu fatto morire di fame.
21 Archidamo era succeduto al nonno Leotichida nel 470, ossia 38 anni prima del discorso quivi tenuto (siamo nel 432), era
dunque anziano.
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preparativi, e le nostre parole che indicheranno intenzioni corrispondenti ad essi, potrebbero cedere più facilmente, se avranno la terra ancora intatta e delibereranno su beni presenti e non ancora distrutti. [4] Infatti non
dovete pensare che la loro terra sia per voi altro che un ostaggio, e tanto più quanto essa è meglio coltivata:
bisogna risparmiarla il più a lungo possibile, e non spingerli alla disperazione e renderli così più difficili da
conquistare. [5] Infatti se impreparati e trascinati dalle lagnanze dei nostri alleati devasteremo la loro terra, badate
che non facciamo sì che le cose si svolgano per il Peloponneso in modo più vergognoso e più difficile. [6] Le
lagnanze, e delle città e degli individui, si possono placare: ma quando per interessi individuali si comincia tutti
insieme una guerra, che non c'è modo di sapere come procederà, non è facile porre fine ad essa in modo
onorevole. [, 1] E che a nessuno sembri viltà il fatto che molti non attacchino rapidamente una sola città. [2]
Anche loro hanno alleati in numero non inferiore, i quali contribuiscono denaro, e la guerra non è tanto
questione di armi quanto di denaro speso, grazie al quale le armi sono utili, specialmente per continentali che
affrontano gente di mare. [3] Per prima cosa, dunque, procuriamocelo, e non lasciamoci prima incitare dai
discorsi dei nostri alleati; e dato che noi avremo la maggior parte della responsabilità dell'esito, sia esso in un
senso, sia nell'altro, siamo anche noi che dobbiamo tranquillamente provvedervi un po'. [, 1] E della lentezza e
dell'esitazione, che essi più ci rimproverano, non vergognatevi. Affrettandovi finireste più lentamente, per il fatto
di aver iniziato la guerra impreparati; e inoltre abitiamo da sempre una città libera e famosissima. E questa qualità
equivale soprattutto a una saggezza consapevole di sé stessa. [2] Grazie ad essa siamo i soli a non diventare
superbi nel successo e a cedere meno degli altri nelle disgrazie; e non ci lasciamo esaltare dal piacere che ci danno
quelli che ci spingono con la lode verso i pericoli contro il nostro parere, e se qualcuno ci provoca con l'accusa,
pur infastiditi non siamo per niente più propensi a lasciarci persuadere. [3] Siamo abili nella guerra e prudenti a
causa del nostro senso dell'ordine: abbiamo la prima qualità, perché il senso dell'onore è la componente maggiore
della saggezza, e nella vergogna del disonore ha gran parte il coraggio; e siamo prudenti perché educati con
troppo poca cultura per disprezzare le leggi, e con una severità che ci rende troppo saggi per disobbedire ad esse;
la nostra educazione fa sì che, non essendo troppo intelligenti in cose inutili, non critichiamo con belle parole i
preparativi del nemico per poi nei fatti agire in modo non corrispondente: pensiamo invece che i piani degli altri
siano pressoché equivalenti ai nostri, e che i casi che capitano non possono essere determinati con le parole. [4]
Ci prepariamo sempre contro gli avversari nell'azione supponendo che essi facciano bene i loro piani; e non
bisogna basare le nostre speranze sull'opinione che loro commetteranno errori, ma sulla convinzione che noi
stessi provvediamo con sicurezza; e non bisogna pensare che un uomo sia molto diverso da un altro, ma che è
più forte chi è educato con i sistemi più rigidi. [, 1] Non abbandoniamo dunque queste usanze che ci hanno
tramandato i nostri padri, e dalle quali abbiamo sempre avuto vantaggi, e non affrettiamoci a prendere, nella
breve frazione di un giorno, una decisione che riguarderà molte persone, molto denaro, molte città e molta fama,
ma prendiamola con calma. Questo è possibile a noi più che ad altri, grazie alla nostra forza. [2] E inviate agli
Ateniesi un'ambasceria per la questione di Potidea, inviatene per le questioni in cui i nostri alleati dicono di aver
subito ingiustizie, tanto più che gli Ateniesi sono pronti a sottoporsi a un giudizio: contro chi vi si sottopone non
è lecito avanzare prima del tempo, come se fosse colpevole. Nello stesso tempo preparatevi per la guerra.
Prenderete così la decisione migliore, e la più temibile per i nostri avversari”.
[3] Archidamo parlò in questo modo. Si fece avanti per ultimo Stenelaida, che era allora uno degli efori, e parlò ai
Lacedemoni così: [, 1] “I lunghi discorsi degli Ateniesi non li capisco: hanno lodato molto sé stessi, ma non
hanno in nessun punto replicato di non aver commesso ingiustizie contro i nostri alleati e contro il Peloponneso.
Eppure, se si sono comportati bene contro i Medi allora, e male verso di noi ora, si meritano un doppio castigo,
perché da buoni sono diventati cattivi. [2] Noi siamo gli stessi adesso come allora, e non tollereremo, se siamo
saggi, che i nostri alleati siano vittime di ingiustizia, né tarderemo a difenderli: loro non tardano più a essere
maltrattati. [3] Altri hanno molto denaro, molte navi e molti cavalli, ma noi abbiamo buoni alleati, che non
bisogna abbandonare agli Ateniesi, né si devono decidere le questioni con giudizi e con parole, quando anche noi
stessi non siamo danneggiati con la parola, ma bisogna aiutarli presto e con tutte le nostre forze. [4] E nessuno ci
insegni che conviene riflettere quando abbiamo subito ingiustizie: conviene piuttosto a quelli che stanno per
commettere ingiustizie riflettere per molto tempo. [5] Votate dunque, Lacedemoni, per la guerra, in modo degno
di Sparta ; non lasciate che gli Ateniesi diventino più potenti, e non tradiamo gli alleati, ma con l'aiuto degli dèi
avanziamo contro quelli che sono colpevoli “.
[, 1] Dopo aver parlato in questo modo, egli stesso, in qualità di eforo, sottopose la questione al voto nell'assemblea dei Lacedemoni. [2] Poi (è da notare che essi votano per acclamazione, e non con il sassolino) disse che
non sapeva decidere quale delle due acclamazioni fosse la più forte; ma volendo che essi mostrassero
apertamente la loro opinione, per incitarli maggiormente a fare la guerra, disse : “ Chi di voi, Lacedemoni, pensa
che il trattato sia stato violato e che gli Ateniesi siano nel torto, si alzi e vada da quella parte”, e indicò loro un
luogo, “e chi non la pensa così vada dall'altra parte”. [3] Essi si alzarono e si divisero, e furono molto di più quelli
che pensavano che il trattato fosse stato violato. [4] Poi chiamarono gli alleati e dissero che la loro opinione era
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che gli Ateniesi fossero colpevoli, ma che volevano convocare gli alleati tutti insieme e sottoporre al voto la
questione, affinchè facessero la guerra, se così si decidesse, dopo una delibera comune. [5] Gli alleati tornarono in
patria dopo aver ottenuto questo risultato, e così fecero gli ambasciatori degli Ateniesi quando ebbero svolto gli
affari per i quali erano venuti. [6] Questa decisione dell'assemblea circa il fatto che la tregua era stata violata
avvenne nel quattordicesimo anno dall'inizio della tregua di trent'anni conclusa dopo i fatti dell'Eubea22. [] I
Lacedemoni votarono che il trattato era stato violato e che si doveva fare la guerra, non tanto perché persuasi dai
discorsi dei loro alleati, quanto perché temevano che gli Ateniesi avessero aumentato la loro potenza, poiché
vedevano la maggior parte della Grecia già sottomessa a loro.
7XFLGLGH
, I, 128-134
[432-431 a. C.]
Gli Ateniesi dunque scacciarono questi sacrileghi23, e li scacciò più tardi anche il lacedemone Cleomene,
collaborando con una fazione degli Ateniesi che erano in lotta: esiliarono i vivi e dissotterrarono le ossa dei morti
e le gettarono fuori della città. Ciononostante più tardi essi fecero ritorno, e la loro stirpe è tuttora nella città.
[, 1] Era questo il sacrilegio di cui i Lacedemoni intimavano agli Ateniesi di liberarsi: per prima cosa, secondo
le apparenze, volevano difendere gli dèi, ma sapevano che Pericle, figlio di Santippe, era implicato nel sacrilegio
da parte di sua madre24, e pensavano che una volta esiliato lui, avrebbero più facilmente ottenuto ciò che
volevano dagli Ateniesi. [2] Tuttavia, più che sperare che egli subisse questa sorte, speravano di provocare nella
città l'accusa che la guerra sarebbe avvenuta in parte anche a causa della sua sventura. [3] Era infatti l'uomo più
potente dei suoi tempi e guidava lo stato; si opponeva in tutto ai Lacedemoni ed esortava gli Ateniesi a non
cedere, ma li incitava alla guerra.
[1] Anche gli Ateniesi, a loro volta, intimarono ai Lacedemoni di eliminare il sacrilegio del Tenaro. I Lacedemoni una volta avevano fatto andare via dal tempio di Posidone al Tenaro alcuni supplici iloti, e dopo averli
condotti via li avevano uccisi: loro stessi credono che proprio per questo sia capitato loro il grande terremoto a
Sparta. [2] Intimarono loro anche di liberarsi del sacrilegio di Atena Calcieca. Era avvenuto in questo modo. [3]
Dopo che il lacedemone Pausania era stato richiamato dagli Spartiati per la prima volta dal suo comando
nell'Ellesponto e, sottoposto a giudizio da loro, era stato assolto dall'accusa di aver commesso ingiustizie, egli
non fu più inviato fuori della città con un incarico pubblico, ma lui stesso per conto proprio prese una trireme di
Ermione senza l'autorizzazione dei Lacedemoni e arrivò nell'Ellesponto. A suo dire, era venuto per fare la guerra
in collaborazione con i Greci, ma in realtà per svolgere le sue trame con il re, come aveva cominciato a fare
prima, desiderando il dominio sulla Grecia. [4] II beneficio per cui si era reso creditore di riconoscenza da parte
del re, e con cui aveva dato inizio a tutta la faccenda, fu questo. [5] Aveva catturato Bisanzio la prima volta che vi
era stato, dopo la ritirata da Cipro (la occupavano i Medi con alcuni congiunti e parenti di sangue del re, che
furono fatti prigionieri nella città in quell'occasione) : inviò al re queste persone che aveva catturato, di nascosto
dagli altri alleati: secondo la sua versione gli erano scappati. [6] Faceva queste cose con l'aiuto di Gongilo di
Eretria, al quale aveva affidato Bisanzio e i prigionieri. Inoltre inviò Gongilo dal re con una lettera : il messaggio
che conteneva era questo (come si scoprì più tardi): [7] “Pausania, capo di Sparta, volendo farti un favore ti
rimanda questi uomini che ha catturato in guerra: e mi propongo, se anche tu sei d'accordo, di sposare una tua
figlia e di rendere soggetta a te Sparta e il resto della Grecia. Credo di essere in grado di fare queste cose
consultandomi con te. Se dunque qualcuna di queste proposte è di tuo gradimento, invia alla costa un uomo di
fiducia, tramite il quale condurremo le nostre trattative nel futuro”. Lo scritto conteneva solo queste indicazioni.
[, 1] Serse fu contento della lettera: inviò alla costa Artabazo, figlio di Farnace, con l'ordine di prendere
possesso della satrapia Dascilite25 e di allontanare Megabate, che ne era il capo precedente ; gli consegnò anche
una lettera in risposta, dicendogli di trasmetterla a Pausania, a Bisanzio, il più rapidamente possibile e di
mostrargli il sigillo; e se Pausania gli avesse dato istruzioni riguardanti gli affari del re, doveva eseguirle come
meglio potesse e il più fedelmente possibile. [2] Quello, quando fu arrivato, fece tutto come gli era stato ordinato
e trasmise la lettera. [3] La risposta che essa portava era la seguente : “Così dice il re Serse a Pausania: per gli
uomini che mi hai mandato sani e salvi da Bisanzio attraverso il mare, il tuo beneficio rimarrà registrato nella
nostra casa per sempre, e sono contento delle tue proposte. Né la notte né il giorno ti trattengano in modo che
tu trascuri di effettuare qualcuna delle cose che mi prometti. Che esse non siano impedite né da spese di oro o
argento né dal numero di truppe, se da qualche parte la loro presenza sarà necessaria ; ma insieme ad Artabazo,
uomo nobile, che ti ho mandato, tratta senza paura i miei e i tuoi affari nel modo che sarà il più bello e il migliore
22
Dopo la ribellione ad Atene dell’Eubea, nel 446, Ateniesi e Spartani stipularono, nel 445 a. C., una tregua trentennale.
Gli Alcmeonidi, che nella persona di Megacle, allora arconte eponimo, furono ritenuti responsabili dell’empio eccidio dei
Ciloniani rifugiatisi nel tempio di Atena sull’Acropoli (all’incirca nella metà del VI a.C.).
24 Agariste madre di Clistene aveva infatti come zio, per parte di padre, Megacle.
25 Satrapia posta intorno alla città di Daskylion, lungo Ellesponto e Propontide.
23
15
per tutti e due“. [,1] Dopo aver ricevuto questa lettera, Pausania, che già prima godeva di molta
considerazione presso i Greci grazie al suo comando delle truppe a Platea, si inorgoglì allora molto di più; e non
poteva più vivere nel modo consueto, ma usciva da Bisanzio portando vesti persiane; mentre viaggiava attraverso
la Tracia lo scortavano Medi ed Egizi; si faceva preparare la tavola secondo l'usanza persiana; e non era capace di
controllare le sue intenzioni, ma attraverso fatti di poco conto dava indicazioni di ciò che in cuor suo intendeva
fare, nel futuro, in maggior misura. [2] Era difficile avvicinarlo, ed egli era di umore così cattivo con tutti
ugualmente, che nessuno gli si poteva accostare. Fu soprattutto per questo che gli alleati passarono dalla parte
degli Ateniesi.
[, 1] I Lacedemoni, quando erano venuti a saperlo, lo avevano richiamato la prima volta proprio per queste
ragioni; e dopo che fu partito la seconda volta con la nave di Ermione, senza che essi glielo ordinassero, e lo si
vedeva comportarsi in questo modo, e dopo che fu assediato e scacciato con la forza da Bisanzio per opera degli
Ateniesi26, e non fece ritorno a Sparta, ma si stabilì a Colone, nella Troade, e ai Lacedemoni arrivò la notizia che
stava trattando con i barbari e che lo scopo del suo soggiorno non era buono, allora non esitarono più: gli efori
inviarono un araldo con la scitala27 ordinando a Pausania di non staccarsi da lui; in caso contrario, gli Spartiati gli
avrebbero dichiarato guerra. [2] Pausania, che voleva essere sospettato il meno possibile ed era sicuro che si
sarebbe liberato dell'accusa con il denaro ritornò per la seconda volta a Sparta. E prima viene gettato in prigione
dagli efori (è lecito agli efori fare ciò al re); poi, più tardi, dopo essersi adoperato con successo, ne uscì e si offrì di
essere giudicato davanti a chiunque volesse esaminarlo su quei fatti. [ 1] Gli Spartiati non avevano nessuna
prova evidente contro di lui - né l'avevano i suoi nemici né la città nel suo insieme - fidandosi della quale con
certezza potessero punire un uomo della famiglia reale, e che in quel momento ricopriva una carica (era infatti
tutore di Plistarco, figlio di Leonida, che era ancora giovane, e di cui era cugino): [2] ma con il suo comportamento contrario alle usanze e con la sua imitazione dei barbari faceva nascere molti sospetti che non volesse
conformarsi alla situazione attuale; e gli Spartiati prendevano in esame le altre sue azioni, per vedere se nel suo
modo di vita in qualche caso si fosse allontanato dalle usanze stabilite, e in particolare notarono che una volta
aveva voluto far incidere, lui solo, per conto proprio, questo distico elegiaco sul tripode di Delfi, che i Greci
avevano dedicato come primizia del bottino preso ai Medi:
'RSRFKHHEEHGLVWUXWWRO
HVHUFLWRGHL0HGLLOFRPDQGDQWHGHL*UHFL3DXVDQLDD)HERRIIUuTXHVWRULFRUGR.
[3] A quell'epoca i Lacedemoni avevano subito cancellato dal tripode questo distico e inciso i nomi di tutte le
città che, dopo aver insieme sconfitto il barbaro, avevano dedicato l’offerta; ma anche allora questa era stata
considerata un’offesa da parte di Pausania, e poiché ora egli si trovava in tale situazione, divenne molto più
evidente che il fatto fosse conforme alle sue attuali intenzioni.[4] E venivano informati che tramava anche
intrighi con gli Iloti, ed era proprio così: prometteva loro la liberazione e i diritti di cittadinanza se avessero fatto
un insurrezione insieme a lui lo avessero aiutato a mettere in atto tutto il suo piano. [5] Ma nemmeno allora, non
credendo nemmeno ad alcuni Iloti delatori, ritennero di dover fare qualcosa di grave nei suoi riguardi: seguivano
il metodo al quale erano abituati nei loro rapporti con i concittadini, cioè non avevano fretta di decidere un
provvedimento gravissimo nei confronti di uno Spartiata senza prove indisputabili; finché, come si racconta,
colui che avrebbe dovuto portare ad Artabazo l'ultima lettera per il re, un uomo di Argilio che una volta era stato
un favorito di Pausania, e nel quale egli riponeva la massima fiducia, lo denuncia: gli era venuta paura in seguito
alla riflessione che nessuno dei messaggeri precedenti era mai tornato indietro; contraffece il sigillo, affinchè, se si
fosse sbagliato nella sua supposizione, o anche se Pausania chiedesse di fare qualche modifica, questi non se ne
accorgesse, e aprì la lettera, in cui aveva sospettato che vi fosse aggiunta qualche istruzione di questo genere: e
infatti trovò scritto che lo si doveva uccidere. [] Allora, quando egli ebbe mostrato loro lo scritto, gli efori
divennero più sicuri: ma volevano ancora con le proprie orecchie sentire parlare Pausania stesso ; e così, secondo
un piano preordinato, l'uomo andò al Tenaro come supplice e si costruì una capanna divisa in due parti con una
parete. Dentro di essa nascose alcuni degli efori, e quando Pausania andò da lui e gli chiese la ragione per cui era
venuto come supplice, udirono tutto chiaramente: l'uomo si lamentava di ciò che era stato scritto da Pausania su
di lui, e dichiarava tutte le altre cose, una per una: come non lo aveva mai in nessun modo esposto al pericolo nel
corso delle sue missioni presso il re, e tuttavia riceveva l’onore speciale di essere ucciso nello stesso modo della
maggior parte dei suoi servi: l'altro ammetteva queste stesse cose e lo pregava di non arrabbiarsi per la situazione
presente, ma gli dava la garanzia di poter lasciare il tempio, e lo invitava a mettersi in viaggio al più presto e a non
ostacolare le trattative. [, 1] Quando ebbero udito tutto accuratamente, gli efori se ne andarono, per il
26
Guidati da Cimone, tra il 476 ed il 470.
Bastone utilizzato dagli efori per inviare messaggi crittografici ai comandanti, il termine passa ad indicare anche il
messaggio stesso. Prima di compiere spedizioni in terre lontane, il re o il navarco veniva dotato di un bastone identico a
quello in possesso degli efori. Avvolgendo su di esso una striscia di cuoio gli efori potevano poi scrivervi ordini per il
comandante lontano, affidando poi al latore del messaggio la sola striscia, che risultava pertanto incomprensibile a chiunque
fosse sprovvisto del bastone.
27
16
momento, conoscendo ormai con certezza la situazione, si accinsero ad arrestarlo nella città. Si dice che mentre
stava per essere arrestato per la strada, appena vide la faccia di uno degli efori che si avvicinava, capì per quale
scopo veniva ; e quando un altro gli fece di nascosto un cenno con la testa, dandogli per benevolenza questa
indicazione, egli andò di corsa al santuario della Calcieca e vi si rifugiò prima che potessero prenderlo. Il recinto
sacro infatti era vicino. Entrò in una camera non grande che faceva parte del santuario, per non trovarsi a disagio
all'aria aperta, e rimase lì fermo. [2] Gli efori per il momento erano rimasti indietro nell'inseguimento ; ma dopo
levarono il tetto della camera, e quando si furono assicurati che egli era nell'interno e lo ebbero bloccato dentro,
murarono le porte, lo assediarono, ed ebbero ragione di lui con la fame. [3] Quando stava per spirare così come
era, nella camera, essi se ne accorsero e lo portarono fuori dal santuario mentre respirava ancora28: e portato
fuori morì immediatamente. [4] Avevano intenzione di gettarlo nel Ceada, dove gettano i criminali: poi
decisero di seppellirlo lì vicino. Ma il dio di Delfi più tardi dichiarò ai Lacedemoni tramite l'oracolo che
bisognava trasferire la tomba al luogo dove era morto (e ora giace all'entrata del recinto sacro, come indicano le
stele con un'iscrizione), e poiché ciò che avevano fatto era un sacrilegio, bisognava restituire alla Calcieca due
corpi al posto di uno. Allora essi fecero fare due statue di bronzo e le dedicarono al posto di Pausania.
IV, 125-126.
[Brasida nel 423, durante la lunga spedizione in area tracia e calcidica, compie con Perdicca una spedizione
contro Arrabeo signore di Lincestide, per sdebitarsi dell’aiuto ricevuto nella conquista di Anfipoli.]
[,1] A questo punto, mentre i due erano in disaccordo, fu annunciato che per giunta gli Illiri erano passati
dalla parte di Arrabeo, dopo aver tradito Perdicca: così ormai entrambi erano dell'opinione che ci si dovesse
ritirare, a causa del loro timore di quegli uomini, che erano bellicosi; ma non fu deciso nulla su quando
bisognasse partire, a causa del loro disaccordo, ed essendo sopraggiunta la notte, i Macedoni e la massa dei
barbari furono improvvisamente colti dalla paura, come succede di solito ai grossi eserciti, cioè di essere presi dal
panico per ragioni oscure; e credendo che stessero avanzando contro di loro truppe molte volte più numerose di
quelle che erano venute, e che fossero praticamente già arrivate, si misero improvvisamente in fuga e si avviarono
per tornare in patria; e quando Perdicca, che dapprima non se n'era accorto, capì ciò che stava accadendo, lo
costrinsero ad andarsene prima ancora di vedere Brasida. (I due eserciti erano accampati a una gran distanza
l'uno dall'altro). [2] All'alba, quando Brasida vide che i Macedoni erano partiti e che gli Illiri e Arrabeo stavano
per attaccare, aveva intenzione anche lui di ritirarsi, dopo che ebbe riunito gli opliti in una formazione quadrata e
posto in mezzo la massa di truppe leggere. [3] Schierò i più giovani perché facessero sortite nei punti in cui il
nemico avesse attaccato le sue truppe, e lui stesso, con trecento uomini scelti, aveva intenzione di marciare in
coda all'esercito, di opporsi ai primi tra gli avversari che lo avessero incalzato e di respingerli. [4] E prima che il
nemico si avvicinasse, rivolse ai soldati, come poteva nella fretta, un'esortazione di questo genere: > 1] “Se
non sospettassi, Peloponnesiaci, che per il fatto di essere stati abbandonati e che quelli che vi attaccano sono
barbari e numerosi, voi siate colti dallo sbigottimento, non vi offrirei, come faccio ora, parole d'istruzione
insieme alla mia esortazione: ma ora, di fronte all'abbandono da parte dei nostri alleati e al gran numero degli
avversari, con un breve cenno di ricordo e con una breve esortazione cercherò di persuadervi delle cose più
importanti. [2] Vi si addice esser valorosi nelle azioni della guerra, non per la presenza di alleati in ogni occasione,
ma a causa del vostro proprio valore; e non dovete aver paura di nessuna massa di altri uomini, poiché le
costituzioni degli stati dai quali provenite non sono di questo genere: da voi si verifica che molti comandino a
pochi, ma invece è una minoranza che comanda alla maggioranza, e non avete ottenuto il vostro potere con
nessun altro mezzo che la superiorità nel combattere. [3] Quanto ai barbari che ora temete per inesperienza,
dovete sapere, in base alle lotte che avete sostenuto in precedenza con quelli di loro che sono Macedoni, e in
base alle mie congetture e a quel che so per esserne stato informato, che non saranno terribili. [4] Infatti quando
nelle forze nemiche ci sono elementi che, pur essendo in realtà deboli, danno l'impressione di potenza, se
vengono impartite informazioni veritiere al riguardo, esse ispirano maggior fiducia a coloro che si difendono:
mentre invece se le truppe sono dotate di un vantaggio sicuro, chi non lo sapesse in precedenza le affronterebbe
con maggior audacia. [5] Costoro fanno credere a quanti non li conoscono, che saranno terribili: sono spaventosi
per il gran numero che si presenta agli occhi e irresistibili per il fragore delle loro grida, e il loro vano agitare delle
armi dà qualche indicazione di minaccia. Ma non sono egualmente abili nell’affrontare in battaglia coloro che
resistono a questi terrori. Non hanno uno schieramento regolare, e non si vergognerebbero quindi di
abbandonare una posizione costretti dalla pressione nemica; e poiché la fuga e l'attacco comportano per loro
un'eguale reputazione di condotta onorevole, esse impediscono anche che si metta alla prova il loro coraggio (e
una battaglia in cui ciascuno agisce in modo indipendente è quella che più d'ogni altra può fornire a un
combattente anche il pretesto per salvarsi con onore); ed essi considerano che dia maggior affidamento lo
7XFLGLGH
28
Al fine di scongiurare la profanazione del luogo sacro.
17
spaventarsi senza correre pericoli che non il venire alle mani: se non fosse così, si servirebbero del secondo
metodo invece del primo. [6] Vedete chiaramente che il terrore che essi suscitano già prima della battaglia è in
realtà di poco conto, ma v'incalza nella vista e nell'udito. Voi resisterete all'assalto di questo terrore e, quando
sarà il momento, riprenderete la ritirata con ordine e mantenendo il vostro schieramento, e arriverete così più in
fretta in un luogo sicuro; e nel futuro saprete che le masse di questo genere, contro quelli che sostengono il loro
primo attacco sfoggiano il coraggio da lontano, con le minacce ed esitando a venir alle mani, mentre invece
contro quelli che cedono a loro mostrano l'ardimento inseguendoli da vicino, pieni d'alacrità quando sono ormai
al sicuro ».
&UL]LD
(traduzioni di M. Timpanaro Cardini)
&267,78=,21,,19(56,
Costituzione dei Lacedemoni
6 [2 B., 4 D.]. ATHEN . x 432 D .
Fare il brindisi come usiamo noi nei nostri conviti non era costume degli Spartani, né bere alla salute l'uno
dell'altro. Lo dice Crizia nelle (OHJLH
ËFRVWXPHGL6SDUWDHWUDGL]LRQDOHRVVHUYDQ]D
EHUHRJQXQRLOVXRFDOLFHFROPRGLYLQR
HQRQFKLDPDQGRXQRDQRPHEHUHLQVXRRQRUHHSDVVDUJOLLOFDOLFH
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ODPDQROLGLDGLRULJLQHDVLDWLFDLQYHQWzLERFFDOL
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3RLSHUWDOLOLEDJLRQLVLDEEDQGRQDODOLQJXD
DWXUSLGHWWLHSLODQJXLGRLOFRUSRGLYHQWD
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/
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GHOOHGHHODSLJUDGLWDDLPRUWDOL
HGDQFKHDOOD7HPSHUDQ]DFRPSDJQDGHOOD5HOLJLRQH
Poi continua:
9XRWDULFDOLFLROWUHPLVXUDDOPRPHQWR
SXzUDOOHJUDUHPDGRSRDIIOLJJHSHUWXWWDODYLWD
,QYHFHJOL6SDUWDQLKDQQRXQUHJRODWRUHJLPHGLYLWD
PRGHUDWLQHOPDQJLDUHHQHOEHUHTXDQWREDVWD
DUHJJHUHDOSHQVLHURHDOODIDWLFDQpYLqULVHUEDWR
XQJLRUQRSHUDYYLQD]]DUHLOFRUSRFRQEHYDQGHHFFHVVLYH
7 [36 B., 5 D.]. SCHOL. EURIP. +LSS264.
È di uno dei sette sapienti la sentenza del « niente di troppo », che alcuni, come Crizia, attribuiscono a Chilone.
DIOG. LAERT. 1, 41 >VHQ]DLOQRPHGHOO
DXWRUH@
Fu il saggio Chilone spartano che disse: niente di troppo : tutto, al punto giusto, è bello.
8 [5 B., 6 D.]. PLUTARCH . &LP10.
Crizia, che fu uno dei Trenta, nelle Elegie si augura:
ODULFFKH]]DGHJOL6FRSDGLODPDJQDQLPLWjGL&LPRQHOHYLWWRULHGL$UFHVLODRORVSDUWDQR
29
per la probabile integrazione cfr. B33
18
9 [6B., 7D.]. STOB. )ORUiii, 29, 11.
Di Crizia:
&UHDSLXRPLQLG
LQJHJQRORVWXGLRFKHODQDWXUD
)5$00(17,,13526$
&267,78=,21('(*/,63$57$1,30
32 [23 Bach, 1 Müller )+*n 68]. CLEM. ALEX. 6WURPvi 9 [ii, 428, 12]. Avendo a sua volta Euripide detto che “
da un padre e una madre che facciano una vita disagiata nascono figli migliori “ [fr. 525,4-5], Crizia scrive:
&RPLQFLRSURSULRGDOODQDVFLWDGHOO
XRPRDFKHFRQGL]LRQHHJOLSXzQDVFHUHRWWLPDPHQWHFRVWLWXLWRHUREXVWRGLFRUSR"VHFKLORJHQHUD
IDGHOODJLQQDVWLFDPDQJLDFLELVRVWDQ]LRVLHVLVRWWRSRQHDGXUHIDWLFKHHVHODPDGUHGHOQDVFLWXURULQYLJRULVFHLOFRUSRHORHVHUFLWD
FRQODJLQQDVWLFD
33 [24 B., 2 M.]. ATHEN . xi 463 E . Ogni città ha la sua particolare usanza riguardo al bere, come mostra Crizia
nella &RVWLWX]LRQHGHJOL6SDUWDQLcon queste parole:
/
XRPRGL&KLRHGL7DVREHYHLQJUDQGLELFFKLHULSDVVDQGRDOYLFLQRGLGHVWUDO
DWWLFRLQELFFKLHULSLFFROLDQFK
HJOLYHUVRGHVWUDLO
WHVVDORLQJUDQGLWD]]HSDVVDQGRDFKLYXROH3UHVVRJOL6SDUWDQLRJQXQREHYHQHOVXRSURSULRELFFKLHUHHLOFRSSLHUHJOLYHUVDTXDQWR
SXzEHUH
34 [25 B., 3 M.]. ATHEN . xi 483 B. Crizia nella &RVWLWX]LRQHGHJOL6SDUWDQLscrive così:
2OWUHDFLzIUXJDOLVVLPRLOUHJLPHRWWLPHOHFDO]DWXUHODFRQLFKHHFRPRGLVVLPHHDGDWWLVVLPHDOO
XVROHYHVWLLOFRWKRQWD]]DODFRQLFD
q OD SL DGDWWD LQ JXHUUD HVL SRUWD EHQLVVLPR QHOOR ]DLQR H SHUFKp VLD FRVu FRPRGD OR VSLHJR VXELWR VSHVVR LOVROGDWR q QHOOD
QHFHVVLWjGLEHUHDFTXDQRQSXUDRUDDQ]LWXWWRLQHVVDQRQDSSDUHWURSSRFKLDUDODTXDOLWjGHOODEHYDQGDLQVHFRQGROXRJRVLFFRPH
LOFRWKRQKDGHOOHVFDQQHOODWXUHQHOIRQGRTXHOFKHYLqG
LPSXURYLUHVWDGHQWUR
PLUTARCH .
/\F
9, 7 [26 B.].
3HUFLz DQFKH GHL PRELOL SL LQ XVR H QHFHVVDUL FRPH SROWURQH H VHGLH H WDYROH F
HUDQR SUHVVR JOL
6SDUWDQLRWWLPHIDEEULFKHHVRSUDWWXWWRSUHJLDWRLQJXHUUDHUDLOFRWKRQODFRQLFRFRPHDWWHVWD&UL]LDSHUFKpGRYHQGRVLDOOHYROWHEHUH
XQ
DFTXD ULSXJQDQWH DOOD YLVWD LO FRORUH GHOOD WD]]D OD GLVVLPXODYD H LQVLHPH FDFFLDQGRVL QHOOH VFDQQHOODWXUH GHO IRQGR OD SDUWH
OLPDFFLRVDHUHVWDQGRYLDGHUHQWHSLSXUDODEHYDQGDVLDFFRVWDYDDOODERFFD
POLL. vi 97. &RWKRQFRSSDODFRQLFD
35 [28 B., 5 M.]. ATHEN . xi 486 E .
Crizia nella &RVWLWX]LRQHGHJOL6SDUWDQL
/HWWRPLOHVLXUJRHVHGLDPLOHVLXUJDOHWWRFKLXUJRHWDYRODUHQHLXUJD
HARPOCR. VY/XFLXUJKL sembra
ignorare il grammatico che questa formazione aggettivale non si trova da nomi
propri di persona, ma invece da nomi di città e di popoli ; « letto milesiurgo » dice Crizia nella &RVWLWX]LRQH GHJOL
6SDUWDQL
36 [29 B., 6 M.]. EUSTATH. LQ2Gvii 376 p. 1601, 25.
Era antico costume divertirsi così, e il gioco a palla, dicono, era originario di Sparta... nota poi ancora che era
anche una specie di GDQ]D quel tale gioco a palla, detto ' thermaustris ' >WHQDJOLH@ come spiega chi ha scritto: il
thermaustris, danza ritmica a piè pari. Dice infatti Crizia:
6SLFFDWR XQ VDOWR LQ DOWR SULPD GL ULFDGHUH D WHUUD IDFHYDQR UDSLGL PRYLPHQWL ODWHUDOL FRQ OH JDPEH LO FKH HUD FKLDPDWR
WKHUPDXVWUL]]DUH
.
37. LIBAN . RU25, 63 n 567.
Gli Spartani si credevano in diritto di uccidere gli iloti, e di essi dice Crizia che in Sparta sono del tutto schiavi
anche i liberi. Vale a dire, come spiega lo stesso Crizia, che per diffidenza verso questi iloti,
OR VSDUWLDWD LQ WHPSR GL SDFH WRJOLH >ORUR@ O
LPEUDFFLDWXUD GHOOR VFXGR $O FDPSR SRL QRQ KD PRGR GL IDUOR SHUFKp VSHVVR RFFRUUH
VYHOWH]]D H DOORUD V
DJJLUD VHPSUH DUPDWR GL ODQFLD SHU HVVHUH DOPHQR LQ TXHVWRVXSHULRUH DOO
LORWD VH PDL HJOL WHQWL XQD ULYROWD FRO
VROR VFXGR )DEEULFDQR DQFKH GHOOH VHUUDWXUH FKH HVVL ULWHQJRQR SL SRWHQWL GHOOH LQVLGLH FKH WHPRQR GD SDUWH GL TXHOO
i
$
>FIU
RISTOPH. 7KHVP421].
30 Cfr. fr. 6-7. Quanto all’ammirazione di Crizia per lo Stato spartano cfr. XENOPH . +HOO II, 3, 34, dove Crizia dice a
Teramene: «ottima invero appare la costituzione degli Spartani ». Lo stesso sentimento si rivela nei frammenti seguenti.
19
Questa sarebbe la vita di quei che convivono con la paura e che non hanno il tempo di respirare per i terrori
creati dai loro sospetti. Questa gente che la paura degli schiavi fa correre alle armi mentre banchetta o riposa o
muove a qualche faccenda, come vuoi, o figlio di Callescro, che possa godere della vera libertà! Contro di essi
insorsero gli schiavi con l'aiuto di Nettuno31, e dettero la prova che in circostanze simili avrebbero fatto
altrettanto. Come dunque i loro re non erano affatto liberi, essendo dato agli efori di imprigionare il re e
mandarlo a morte, così tutti quanti gli Spartiati, condividendo l'odio degli schiavi, hanno distrutto la libertà.
6HQRIRQWH /DFRVWLWX]LRQHGHJOL6SDUWDQL
,
(traduzione di G.F. Gianotti)
I. Riflettendo un giorno sul fatto che Sparta, sebbene sia da annoverare tra le città più povere di popolazione, sia
risultata prima in Grecia per potenza e per fama, mi chiedevo con meraviglia a quali condizioni si fosse prodotta
tale situazione; ma la mia meraviglia cessò dopo che ebbi preso in esame i modi di comportamento degli
Spartiati. Continuo però a provare ammirazione verso Licurgo, vale a dire verso l'autore delle leggi il cui rispetto
è stato per gli Spartiati garanzia di prosperità, e nello stesso tempo lo giudico un saggio ai limiti della perfezione.
Egli infatti è riuscito ad assicurare un primato di prospera felicità alla propria patria, non solo evitando di imitare
le istituzioni delle altre città, ma addirittura adottando un sistema opposto a quello in vigore nella maggior parte
di esse. Per procedere con ordine dall'inizio, cominciamo subito con le norme riguardanti la generazione dei figli.
Altrove le giovani, che sono destinate a divenire madri e che ricevono, a quanto pare, l'educazione migliore, sono
tenute ad un regime alimentare quant'è più possibile misurato e parco: quanto al vino, ad esempio, si prescrive
loro di astenersene completamente oppure di berlo solo se diluito con acqua. Insomma, come la maggior parte
degli artigiani vive una vita sedentaria, così secondo gli altri Greci le giovanette se ne devono stare tranquille in
disparte a lavorare la lana. Ma se le si alleva in questa maniera, come è poi possibile aspettarsi che mettano al
mondo bimbi sani e grossi? Dal canto suo, Licurgo ritenne che confezionare vesti era lavoro cui potevano attendere anche delle schiave, mentre era convinto che compito primo, delle donne libere fosse la procreazione di
prole: così prescrisse in primo luogo esercizi fisici alle femmine non meno che ai maschi. In seguito istituì
competizioni di corsa e di lotta per le donne, alla stessa stregua che per gli uomini, certo che da genitori entrambi
robusti sarebbe nata prole ancor più vigorosa. Visto poi che altrove, una volta celebrata l'unione di una donna
con un uomo, almeno per i primi tempi di solito i mariti non conoscevano misura nei rapporti con le proprie
mogli, anche a questo comportamento ne contrappose uno opposto: stabilì infatti che fosse motivo di vergogna
per il maschio essere scorto nell'atto di entrare nella stanza della sposa o nell'atto di uscirne. Con tale restrizione è
inevitabile che aumenti il desiderio reciproco dei coniugi e che la prole, se concepita in questo modo, risulti più
robusta che se i genitori fossero estenuati da reciproca sazietà. Inoltre Licurgo fece cessare l'abitudine di prender
moglie in tempi lasciati alla discrezione dei singoli e prescrisse di contrarre matrimonio nell'età del pieno vigore
fisico, in quanto riteneva anche questo aspetto utile ai fini della fecondità. Poteva comunque accadere che un
uomo anziano avesse una sposa giovane: anche in questo caso Licurgo, visto che i mariti di tale età sono soliti
custodire con eccesso di gelosia le proprie mogli, introdusse un comportamento antitetico: dispose infatti che il
vecchio marito potesse ammettere nell’intimità della propria casa un uomo di cui ammirasse le doti fisiche e
morali, allo scopo di ottenere figli per mezzo suo. Di contro, nel caso di un uomo che non intendesse avere
ulteriori rapporti con la propria moglie ma che tuttavia provasse il desiderio di avere una bella prole, lo autorizzò
a metter gli occhi su di una donna prolifica e nobile e a renderla madre dei propri figli, a patto di aver ottenuto il
consenso del marito legittimo. Licurgo sancì molte concessioni di tal genere. Alle donne spartane infatti piace
avere due case da dirigere, mentre gli uomini vogliono guadagnare ai propri figli nuovi fratelli, che siano partecipi
della vita e della potenza della famiglia ma che non rivendichino diritti sulle sostanze familiari. Così dunque le
norme di Licurgo a proposito della generazione dei figli sono nettamente opposte a quelle adottate dalle altre
città: se così operando abbia reso gli uomini di Sparta superiori agli altri per statura e per forza, lo giudichi da sé
chiunque non voglia sottrarsi a questo interrogativo.
II Ora, terminata la rassegna delle norme relative alla procreazione, è mia intenzione esporre anche il sistema
educativo, chiarendo le differenze tra quello spartano e quello praticato altrove. Nel resto della Grecia coloro che
hanno la pretesa di impartire l'educazione migliore ai propri figli, non appena questi siano in grado di
comprendere il senso delle parole, subito impongono loro come pedagoghi degli schiavi e subito dopo li
mandano a scuola perché vi imparino le lettere, la musica e le arti della palestra. E come se non bastasse,
infiacchiscono i piedi dei fanciulli con l'uso di calzari e ne rendono effeminato il corpo con cambi frequenti
d'abito; per il cibo usano come unità di misura la capacità del loro ventre. Di contro Licurgo, invece di
permettere che ciascuno in privato ai figli imponga degli schiavi come pedagoghi, affidò il compito di controllare
i ragazzi ad un cittadino tra quanti ricoprono le cariche più alte, col titolo di SDLGRQyPRV ossia “prefetto dei
31
Il riferimento è al terremoto spartano avvenuto nel 468 circa, cfr. Th. I, 100.
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fanciulli” a questo personaggio conferì l'autorità di tenere adunati i fanciulli, di sorvegliarli e di impartire severe
punizioni in caso di cattiva condotta. Gli assegnò anche dei giovani armati di frusta per infliggere i castighi che si
rendessero necessari, col risultato che a Sparta il tasso di rispetto e di obbedienza è molto alto. Invece di
infiacchire i piedi con calzari, Licurgo prescrisse che li irrobustissero abituandosi ad andare scalzi: riteneva infatti
che con questo allenamento avrebbero superato più agevolmente le salite e affrontato con maggior sicurezza
discese ripide; pensava inoltre che nello slancio, nel salto e nella corsa sarebbe stato più veloce un giovanetto
scalzo, a patto di aver i piedi opportunamente esercitati, di un giovanetto fornito di calzari. E in luogo di
permettere che i loro corpi perdessero vigore per l'effeminatezza dell'abbigliamento, dispose che si abituassero ad
un'unica veste per tutto l'anno, convinto che in tal modo sarebbero stati meglio preparati a far fronte sia al
freddo sia al caldo. Quanto al cibo, prescrisse che ogni capodrappello per il pasto comune del suo gruppo ne
disponesse in quantità tale da non provocare in nessuno appesantimento per sazietà, anzi da abituare tutti a
razioni ridotte. Riteneva infatti che giovani così addestrati sarebbero stati in grado di affrontare meglio fatiche a
stomaco vuoto in caso di bisogno, avrebbero saputo resistere più a lungo con la stessa razione, qualora ne
avessero ricevuto ordine, e sentito meno la mancanza di cibi delicati, accettando dunque di buon grado ogni tipo
di nutrimento: il tutto in prospettiva di una vita più sana; inoltre Licurgo era anche convinto che alla statura desse
maggior incremento una dieta che mantenesse snelli i corpi rispetto ad una dieta che li appesantisse di cibo.
Tuttavia, perché i giovani non sentissero troppo i morsi della fame, fece una concessione: non il permesso di
prendere senza problemi ciò di cui si avvertisse la mancanza, ma la possibilità di rubare quanto basta per alleviare
la fame. Nessuno ignora, credo, che la ragione per cui permise loro di procacciarsi il cibo con il furto non fu
dettata dalla difficoltà di provvedere al loro sostentamento; anzi, è chiaro che chi si appresta al furto deve vegliare
la notte e trascorrere il giorno tra astuzie e agguati, e inoltre deve sapersi assicurare un servizio di spie, se davvero
ha l'intenzione di rubare qualcosa. Ed è altrettanto chiaro che se Licurgo ha proposto un simile programma
educativo, l'ha fatto al fine di rendere i giovani più abili a procurarsi il necessario e più pronti alla lotta. Ma allora
qualcuno potrebbe chiedere: perché mai, se considerava il furto una cosa positiva, volle che non si risparmiassero
le nerbate per chi veniva colto sul fatto? La mia risposta è che in ogni prassi di insegnamento i maestri puniscono
i cattivi discepoli; e pertanto gli Spartani castigano i giovani sorpresi sul fatto in quanto maldestri nel furto. Di
più: Licurgo, dopo aver proposto come punto d'onore per i giovanetti il fatto di sottrarre il maggior numero di
formaggi possibile dall'altare di Artemide Orthia, diede ordine che dei compagni prendessero a frustate i
responsabili: la sua intenzione era di mostrare in tal modo che si può godere di fama duratura sopportando una
sofferenza di breve durata32; col che si dimostra anche che nei casi in cui si richieda rapidità di esecuzione, a chi è
indolente spetta il minimo di vantaggio e il massimo di disagio. Inoltre, perché i fanciulli non restassero privi di
guida in caso di assenza del SDLGRQyPRV Licurgo concesse ad ogni cittadino che di volta in volta si trovasse
presente l'autorità di ordinare loro quanto ritenesse positivo e di punirli qualora commettessero qualche sbaglio.
In tal modo ottenne anche il risultato di rendere i fanciulli più rispettosi: in effetti, a Sparta, non v'è nulla che sia i
fanciulli sia gli adulti rispettino tanto quanto i propri capi. Infine, perché i fanciulli non rimanessero senza guida
neppure nel caso in cui nessun adulto fosse presente, stabilì che ogni schiera fosse sottoposta al comando del più
pronto e attivo dei capidrappello: così a Sparta non v'è occasione in cui i fanciulli siano privi di qualcuno che li
controlli. A questo punto credo di dover dire qualcosa anche a proposito dei rapporti amorosi con i fanciulli,
perché anche questo argomento riguarda il sistema educativo. Ora, presso gli altri Greci può avvenire, come ad
esempio in Beozia, che un adulto e un fanciullo convivano alla stregua di coppia fissa oppure, come in Elide, che
si goda della giovinezza altrui mediante favori; di contro, ci sono città in cui è assolutamente vietato agli
spasimanti di intrattenersi, anche solo a parole, con i fanciulli. Dal canto suo Licurgo impartì direttive opposte a
tutti questi comportamenti: se un adulto, a condizione d'essere egli stesso uomo come si deve, veniva preso
d'amore per l'animo di un fanciullo e si sforzava di stare in sua compagnia comportandosi da amico
irreprensibile, in tal caso il legislatore dava la sua approvazione e considerava la relazione come una delle forme
migliori di educazione; se invece risultava evidente che l'interesse per il fanciullo era di natura fìsica, lo considerò
come la peggiore delle infamie, col risultato che a Sparta gli amanti si astengano da rapporti sessuali coi fanciulli
amati non meno di quanto accade tra genitori e figli o tra fratelli e fratelli. Non mi meraviglio affatto che
qualcuno non presti fede a queste mie parole, perché in molte città le leggi non si oppongono alle voglie sessuali
indirizzate verso i fanciulli.
32 Il passo sembrava far riferimento, secondo alcuni studiosi, al rito della flagellazione dei giovinetti presso l’altare di
Artemide Orthia, rito che sappiamo appartenere ad epoche più recenti e non agli usi attestati per l’età classica. Per questa
ragione alcuni studiosi hanno pensato che il passo fosse da ritenere lacunoso o interpolato. Nilsson in un suo importante
scritto del 1906 dedicato alle feste religiose greche ha invece interpretato il passaggio come un’allusione ad un aspro gioco
condotto da due gruppi di fanciulli.
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Questa è dunque la descrizione dell'educazione spartana e di quella adottata nelle altre città della Grecia: quale dei
due sistemi produca uomini più obbedienti, rispettosi e capaci di controllo, è giudizio ancora una volta
demandato a chi voglia affrontare questi problemi.
III. Quando i fanciulli diventano adolescenti, gli altri Greci cessano di sottoporli al controllo di pedagoghi e di
maestri: nessuno esercita più nei loro confronti funzione di guida, ma si permette che si regolino da soli in forma
autonoma. Anche in questa materia Licurgo introdusse invece comportamenti del tutto diversi. Consapevole
infatti che a quell'età l'arroganza non conosce limiti, l'insolenza raggiunge il suo massimo e il desiderio dei piaceri
si fa sentire con eccessiva insistenza, agli adolescenti impose un gran numero di occupazioni e fatiche, negando
loro ogni possibilità di tempo libero. Stabilendo come castigo per chi si sottraesse a tali incombenze la privazione
di ogni futuro privilegio, ottenne che non solo i rappresentanti dello stato ma anche parenti e amici si
preoccupassero dei singoli onde evitare che, venendo meno ai propri doveri, gli adolescenti finissero per diventare del tutto indegni della città. Inoltre, volendo rafforzare in loro il senso di rispetto, prescrisse che per
strada tenessero le mani sotto il mantello, camminassero in silenzio e non volgessero lo sguardo in giro, ma lo
tenessero fermo al suolo davanti ai loro passi. In forza di tali prescrizioni è risultato evidente che anche in merito
di comportamenti riservati il sesso maschile è più forte del sesso femminile. Piuttosto della loro voce ti sarebbe
più facile sentire la voce di immagini di pietra, piuttosto che il loro sguardo ti sarebbe più agevole far volgere lo
sguardo di statue di bronzo: a vederli, li potresti giudicare anche più riservati delle stesse pupille dei loro occhi.
Quando poi prendano parte al pasto in comune, ci si deve accontentare di udire da loro soltanto le risposte alle
domande degli adulti. Questo è dunque il tenore dei provvedimenti che provano la preoccupazione di Licurgo
nei confronti degli adolescenti.
IV. È però nei confronti dei giovani che Licurgo ha dimostrato il più alto grado di sollecitudine, convinto che il
bene della città dipendesse soprattutto da loro, a patto che diventassero persone come si deve secondo le sue
direttive. Vedendo dunque che i popoli presso cui si è sviluppato al massimo lo spirito di emulazione sanno
esibire i cori più degni di essere ascoltati e le gare atletiche più degne di essere ammirate, maturò la certezza che,
se fosse riuscito ad indurre i giovani a competere in valore, essi avrebbero potuto raggiungere i più alti livelli di
virtù. Ecco: voglio ora esporre come Licurgo sia riuscito ad introdurre le competizioni tra i giovani. Tra i giovani
gli Efori ne scelgono tre nel pieno del vigore della loro età: a costoro compete il titolo di KLSSDJUpWDL cioè
“comandanti dei cavalieri” . Ciascuno di questi sceglie cento giovani, rendendo palesi le ragioni in base alle quali
ne preferisce alcuni e ne scarta altri. La conseguenza è che gli esclusi da tale onore e privilegio si sentano in
guerra sia con chi li ha scartati sia con chi è stato scelto al posto loro e si impegnino in un controllo serrato per
scoprire ogni trasgressione di quanto considerano codice d'onore.
Si stabilisce così il tipo di contesa più caro agli dèi e più utile alla città: grazie ad essa si fissano le norme di
condotta del cittadino valoroso e ciascuna delle schiere di giovani, separatamente, si sforza di fare sempre il
proprio meglio, in modo che ognuno sia in grado di difendere con tutte le proprie forze la città in caso di
bisogno. Pertanto i giovani sono costretti anche a tenere alto il proprio vigore fisico, in quanto lo spirito di
rivalità li spinge a scontri di pugilato in tutti i luoghi dove vengano a contatto tra loro; comunque ogni cittadino
che si trovi ad assistere alla scena ha l'autorità di separare i contendenti. Se qualcuno rifiuta di obbedire all'ordine
di separazione, il SDLGRQyPRVlo conduce alla presenza degli Efori: costoro gli infliggono una punizione severa allo
scopo di ribadire che mai un impulso passionale deve avere il sopravvento sull'obbedienza alle leggi.
Per quanto concerne poi coloro che sono usciti dall'età della giovinezza e che ormai possono ricoprire le più alte
cariche pubbliche, gli altri Greci, sebbene li esentino dall'obbligo di continuare a mantenersi fisicamente in
forma, tuttavia richiedono che essi continuino a prestare il servizio militare. Dal canto suo, invece, Licurgo stabilì
il principio che per uomini di tale età la caccia fosse la migliore delle occupazioni, a meno che non l’impedisse
qualche affare pubblico, in modo che fossero in grado di sopportare le fatiche militari alla stessa stregua dei
giovani.
Terminata qui la rassegna pressoché completa delle norme che la legislazione di Licurgo ha fissato per ogni classe
di età, mi propongo ora di descrivere quale genere di vita fosse previsto per tutti i cittadini. Trovatesi di fronte al
fatto che gli Spartani, analogamente agli altri Greci, conducevano vita privata all'interno delle proprie dimore e
giunto alla conclusione che tale abitudine offriva troppe occasioni di rilassatezza morale, Licurgo introdusse la
norma dei pasti in comune sotto gli occhi di tutti, pensando così di ridurre al minimo le possibilità di trasgredire
le prescrizioni. Egli prescrisse anche una quantità di cibo che non fosse né eccessiva né troppo scarsa per le
esigenze dei commensali. Spesso però si aggiungono supplementi straordinari ricavati dalle prede della caccia e
talora accade che al loro posto compaia anche del pane di frumento offerto dal contributo dei ricchi, col risultato
che la mensa non è mai sprovvista di alimenti, fino al momento di alzarsi da tavola, senza d'altronde essere ricca
di cibi stravaganti e raffinati. Quanto alle bevande, Licurgo abolì l'usanza delle bevute obbligatorie a turno che
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fanno vacillare il corpo e offuscano la mente, ma concesse a ciascuno di bere secondo la misura della propria
sete, giudicando che questo fosse il modo di bere più inoffensivo e insieme più gradito. Com'è possibile dunque
che durante tali pasti in comune qualcuno abbia l'occasione di rovinare se stesso o la propria famiglia per ghiottoneria oppure per ubriachezza? Infatti, mentre nelle altre città per lo più ci si raduna tra coetanei e si concede assai
poco spazio a comportamenti di modestia, a Sparta Licurgo volle la mescolanza delle classi di età, in modo che
l'esperienza dei più anziani contribuisse per molti aspetti all'educazione dei più giovani. Sta di fatto che per
consuetudine durante i pasti in comune si discorre di qualche bella impresa compiuta dai cittadini, con la
conseguenza di non lasciare spazio all'insolenza e agli eccessi del vino, ai comportamenti indecenti e al
turpiloquio. Il pasto fuori casa produce inoltre quest'altro effetto positivo: i commensali sono costretti a
compiere il tragitto di ritorno alla propria dimora e pertanto devono badare a non barcollare sotto l'azione del
vino, ben sapendo che non rimarranno nel luogo dove erano seduti a mensa e che dovranno sapersi dirigere nelle
tenebre come in pieno giorno: infatti fino a quando si è tenuti agli obblighi militari non si ha il diritto di
camminare a lume di torcia. Constatato poi che il cibo rende di colorito sano, bene in carne e vigoroso chi si
applica negli esercizi fisici, mentre fa apparire i pigri gonfi, laidi e deboli, Licurgo non trascurò questi effetti; anzi,
notando che appare in buone condizioni fisiche l'individuo disposto spontaneamente e di buon grado ad
affrontare le fatiche, prescrisse che il più anziano che si trovasse di volta in volta nel ginnasio avesse il compito di
sorvegliare che gli esercizi richiesti a ciascuno fossero proporzionati alla quantità di cibo somministrato. A mio
giudizio Licurgo non ha commesso errori neppure in queste prescrizioni. Non sarebbe dunque facile trovare
uomini più sani e meglio dotati fisicamente degli Spartiati, in quanto i loro esercizi ginnici sviluppano allo stesso
modo gambe, braccia e collo.
VI Anche nelle misure di cui si parlerà ora ritorna l'opposizione tra il modello istituito da Licurgo e le istituzioni
di solito adottate altrove. Nelle altre città, infatti, ciascuno si limita al controllo dei propri figli, dei propri servi e
dei propri beni; di contro Licurgo, intenzionato a dare vita ad un sistema che garantisse ai cittadini reciproci
benefici senza la possibilità di danni, stabilì che ogni cittadino avesse eguale autorità sui propri figli e su quelli
altrui. Visto che tutti hanno l'autorità che compete ai padri nei confronti dei figli, è inevitabile che si eserciti sui
fanciulli soggetti alla propria guida controllo pari a quello che si vorrebbe vedere esercitato sui propri figli. E
qualora un figlio riferisca al proprio genitore di esser stato percosso da un altro cittadino, sarebbe sconveniente
se il padre non impartisse un'altra scarica di percosse al figlio: tale è la fiducia reciproca degli Spartiati che
nessuno possa impartire ordini sbagliati ai fanciulli. Licurgo ha inoltre consentito che in caso di bisogno si
potesse ricorrere all'impiego di servi altrui. Dispose anche l'impiego comune dei cani da caccia secondo queste
modalità: chi ne ha bisogno manda inviti per la partita di caccia e chi per impegni non può prendervi parte è ben
lieto di inviare i cani. Analogo è l'uso dei cavalli: se qualcuno è in cattive condizioni di salute o ha bisogno di un
mezzo di trasporto oppure vuole recarsi rapidamente in qualche luogo, prende il primo cavallo che trova e dopo
essersene servito con ogni attenzione lo riporta dove l'ha trovato. Ecco ora un'altra usanza introdotta da Licurgo
che non ha riscontro altrove: nel caso in cui ritardatari per la caccia fossero sprovvisti del vitto necessario perché
non c'erano stati preparativi, prescrisse che chi ne aveva in abbondanza lasciasse a disposizione l'eccesso del
proprio contributo di viveri e che i ritardatari, una volta rotti i sigilli e servitisi del necessario, lasciassero il resto
nuovamente sotto sigillo. Grazie dunque a questo reciproco scambio di beni anche i proprietari di sostanze
modeste godono di tutte le risorse del paese in caso di qualche necessità.
VII Altre norme Licurgo introdusse a Sparta, anch'esse contrarie al comportamento del resto dei Greci. Si sa che
nelle altre città tutti fanno a gara per arricchirsi quanto più è possibile: c'è chi si fa agricoltore e chi armatore di
navi, c'è chi si fa mercante né mancano altri che vivono dei proventi di arti e mestieri. A Sparta invece Licurgo ha
proibito agli uomini liberi di dedicarsi a qualsiasi occupazione che persegua fini di lucro e ha prescritto loro di
considerare uniche attività degne del loro rango quelle che assicurano la libertà alle città. D'altra parte, perché mai
si dovrebbe correre dietro alla ricchezza nella città dove Licurgo, fissando per tutti eguali contribuzioni all'insieme dei mezzi di sussistenza ed eguale forma di vita, ha demotivato chi aspirasse a farsi ricco in vista dei
piaceri che ne derivano? E infatti neppure le necessità dell'abbigliamento costituiscono un buon motivo per cui ci
si debba arricchire, in quanto per gli Spartani il miglior ornamento consiste nell'eccellenza fisica e non nel pregio
degli abiti. Ancor meno è necessario accumulare sostanze per avere la possibilità di spenderle in favore di
commilitoni e commensali, dal momento che le prescrizioni di Licurgo hanno assegnato titolo di maggior onore
all'aiuto prestato ai compagni da parte di chi affronta fatiche fisiche rispetto ai vantaggi offerti da chi spende
danaro, dimostrando che il primo è opera dell'animo, i secondi della ricchezza. Si aggiunga che Licurgo impedì
l'acquisizione di ricchezze in forme illecite ricorrendo ai seguenti provvedimenti. In primo luogo fece coniare
monete di tali dimensioni che neppure una somma di dieci mine sarebbe potuta entrare in una casa all'insaputa
del padrone e dei servi: infatti una somma del genere avrebbe richiesto molto spazio per essere riposta e un carro
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per il trasporto. Inoltre, oro e argento sono oggetto di requisizione e chi ne sia trovato in possesso viene punito.
Perché dunque ci si dovrebbe affannare dietro alla ricchezza in una città dove i guai procurati dal suo possesso
sono maggiori dei piaceri derivanti dal suo uso?
VIII Ma procediamo oltre! Che a Sparta l’obbedienza riservata ai magistrati e alle leggi raggiunga livelli
d'
eccezione, è cosa che tutti noi ben conosciamo. Quanto a me, sono del parere che Licurgo non abbia posto
mano al progetto di un ordinamento così ben disciplinato senza essersi assicurato in precedenza il consenso dei
personaggi più influenti della città. La mia convinzione si fonda su questi fatti: mentre nelle altre città i cittadini
più potenti non vogliono dare l'
impressione di temere i magistrati considerando tale atteggiamento come indegno
di uomini liberi, a Sparta invece i cittadini più importanti mostrano il massimo rispetto nei confronti dei
magistrati: ascrivono a motivo di gloria la propria sottomissione, così come sono orgogliosi di obbedire di corsa,
e non semplicemente al passo, in caso di appello, in quanto ritengono che, se sono i primi a dare l'
esempio di
un'
obbedienza assoluta, anche gli altri si comporteranno allo stesso modo; ed è appunto questo il risultato che si
è ottenuto. È altresì probabile che questi stessi personaggi abbiano contribuito a stabilire il potere degli Efori,
perché giunti alla conclusione che l’obbedienza è il bene più prezioso nella città, nell'
esercito e in casa: devono
infatti essersi convinti che quanto più grande era il potere attribuito a tale carica, tanto più drastica anche sarebbe
stata la sua azione sui cittadini, incutendo il timore che genera obbedienza. Gli Efori hanno dunque il potere di
infliggere ammende a chiunque e di esigerne immediata soddisfazione; hanno inoltre l'
autorità necessaria per deporre i magistrati in carica, imprigionarli e intentare loro processi capitali. Forti di poteri così estesi, non
permettono a chi è stato scelto per ricoprire una carica pubblica di esercitare a suo piacimento il mandato
annuale, come succede nelle altre città; anzi, alla stessa stregua dei tiranni e dei giudici delle gare atletiche,
infliggono punizioni immediate a chi venga sorpreso a commettere qualche trasgressione. Tra i numerosi e
opportuni accorgimenti escogitati da Licurgo per rafforzare nei cittadini la volontà di obbedire alle leggi, uno dei
migliori mi pare il seguente: prima di rendere palese l'
insieme delle sue leggi al popolo, in compagnia dei
personaggi più importanti della città si recò all'
oracolo di Delfi e chiese al dio se per Sparta era meglio e più
auspicabile obbedire al sistema di leggi che egli aveva concepito. Poiché il dio rispose che era la cosa migliore
sotto tutti gli aspetti, allora Licurgo promulgò le sue leggi, col risultato di rendere non soltanto illegale ma anche
sacrilega la disobbedienza a norme confermate dall'
oracolo pitico.
IX Anche quest'
altro effetto ottenuto da Licurgo è degno di ammirazione: aver inculcato nei cittadini la
persuasione che la morte gloriosa sia preferibile ad una vita di infamia; e a ben vedere, si troverebbe che tra gli
Spartani il numero di morti in battaglia è minore che tra quanti preferiscono evitare i pericoli. A dire il vero, in
generale la salvezza tiene dietro al coraggio e non alla codardia, perché il coraggio è la dote più spontanea,
gradita, ricca di risorse e sicura. Non v'
è dubbio inoltre che al coraggio si accompagni anche la gloria: e infatti
tutti vogliono combattere a fianco dei valorosi. A questo punto è giusto non passare sotto silenzio in qual modo
Licurgo sia riuscito ad ottenere tali risultati. Il fatto sta nell'
aver chiarito una volta per tutte che ai valorosi era
assicurata felicità e ai vili miseria. Nelle altre città, in effetti, qualora un individuo abbia dato prova di viltà, ha
come unica conseguenza la reputazione di essere un codardo, ma in piazza il codardo sta accanto all'
uomo
valoroso, si può sedere al suo fianco e nei ginnasi, se vuole, si può unire a lui nell'
allenamento; a Sparta, invece,
ogni cittadino proverebbe vergogna ad avere un codardo come compagno di mensa o di palestra. Spesso un
individuo del genere, quando i giocatori di palla si dividono in schiere contrapposte, non trova assegnazione da
nessuna parte; in occasione dei cori viene relegato nei posti peggiori; per strada deve cedere il passo agli altri, così
come deve cedere il posto a sedere anche ai più giovani; deve mantenere in casa le giovanette della sua famiglia
cui è tenuto a dar ragione della propria viltà e del loro mancato matrimonio; deve rassegnarsi a vedere il proprio
focolare privo di sposa e a pagare la conseguente ammenda per il celibato; gli è fatto, divieto di andarsene in giro
tutto lustro di unguenti, così come gli è proibito imitare i comportamenti delle persone irreprensibili, pena una
scarica di percosse da parte di chi gli è superiore per valore e prestigio. Se sui codardi incombe il peso di tale
disonore, non mi stupisce affatto che a Sparta si preferisca la morte ad un'
esistenza tanto spregevole e ignobile.
X Mi pare che Licurgo abbia svolto opera di buon legislatore anche in merito alla prescrizione di estendere fino
agli anni della vecchiaia l'
esercizio della virtù. Spostando infatti verso il limite estremo dell'
esistenza il giudizio di
ammissione alla Gerusia (Consiglio degli anziani), ha ottenuto il risultato che neppure in età avanzata gli Spartiati
trascurino i principi di una vita retta e onorata. Degne di ammirazione sono anche le garanzie che Licurgo ha
assicurato alla vecchiaia di uomini dalla vita virtuosa: infatti, affidando ai membri della Gerusia la competenza dei
giudizi capitali, ha reso la vecchiaia più onorata dell'
età del pieno vigore fisico. Ed è naturale che tra tutte le
competizioni umane quella per diventare membri della Gerusia susciti il massimo di interesse e di impegno.
Certo: belle sono anche le gare atletiche, ma riguardano unicamente la forza fisica; la gara per la Gerusia permette
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invece di giudicare l’eccellenza dell'animo. E quanto l'animo è superiore al corpo, tanto più degne di essere
affrontate sono le competizioni di carattere spirituale rispetto a quelle di natura fisica. Inoltre, non è forse degno
di grande ammirazione anche quest'altro provvedimento di Licurgo? Resosi conto che là dove la pratica della
virtù è lasciata all'iniziativa dei singoli, questa non basta a promuovere il bene della patria, egli a Sparta impose
come dovere pubblico l'esercizio collettivo di ogni forma di virtù. Pertanto, come tra i cittadini privati i virtuosi
sono superiori a chi è indolente e pusillanime, così a buon diritto Sparta è superiore per virtù a tutte le altre città,
in quanto è l'unica a mettere in pratica collettivamente il modello di una condotta nobile e virtuosa. E non è
altrettanto positivo il fatto che Licurgo, mentre le altre città puniscono un individuo solo quando sia responsabile
di danni ad altri, abbia posto pene non meno severe nel caso di un cittadino che apertamente trascuri di
comportarsi nel miglior modo possibile? Pensava infatti, a quanto pare, che il danno arrecato da chi riduce in
schiavitù oppure da chi pratica la sottrazione fraudolenta o il furto rimanga circoscritto alle vittime di tali crimini,
ma che invece il comportamento dei malvagi e dei codardi costituisca un tradimento dell'intera comunità dei
cittadini; mi pare pertanto che a buona ragione per costoro abbia previsto le pene più severe. Agli Spartiati
Licurgo ha inoltre esteso l'obbligo inderogabile di praticare la virtù civica nel suo complesso. Infatti, a tutti coloro
che applicano le disposizioni delle leggi ha riconosciuto diritti eguali nell'organizzazione della vita della città,
senza tenere in nessun conto inferiorità di ordine fisico o di sostanze; se invece qualcuno per viltà veniva meno ai
doveri previsti dalle norme, ne ha prescritto l'espulsione dal numero degli Eguali. Ora, che le leggi di Licurgo
siano antichissime è cosa certa: si dice infatti che il personaggio sia vissuto al tempo degli Eraclidi; eppure, a dispetto della loro antichità, per gli altri Greci conservano ancora tutti gli aspetti di una novità; e a suscitare
sorpresa ancor maggiore sta il fatto che tutti tessono l'elogio di tali istituzioni, ma che nessuna città intenda
imitarle.
XI Le istituzioni passate sin qui in rassegna costituiscono dunque vantaggi comuni sia in tempo di pace sia in
tempo di guerra. Ma se qualcuno desidera conoscere gli aspetti per cui anche il dispositivo militare organizzato da
Licurgo era superiore a quelli altrui, può trovare le informazioni desiderate in quanto segue. In primo luogo,
spetta agli Efori il compito di indicare pubblicamente le classi di età che devono prestare il servizio militare,
segnatamente per il contingente dei cavalieri, degli opliti e infine degli artieri. Il risultato è che di tutto quanto è
utile ai cittadini nella vita civile i Lacedemoni sono ben provvisti anche nella vita militare; per quanto concerne
tutti i materiali di cui l'esercito può aver bisogno collettivamente, l'ordine è di tenere pronte le forniture
necessarie, parte sui carri e parte sugli animali da soma: in tal modo non può sfuggire se manca qualcosa. Per
affrontare la prova delle armi questo è l'equipaggiamento individuale ideato da Licurgo: una veste lunga color
rosso porpora, perché a suo giudizio è l'indumento più lontano dalla foggia degli abiti femminei e il più adatto
alle esigenze della guerra, e uno scudo di bronzo, perché brilla subito e c'impiega moltissimo a sporcarsi. Ha
inoltre accordato a quanti fossero ormai oltre l'età giovanile il permesso di lasciarsi crescere i capelli, convinto
che così sarebbero apparsi di taglia maggiore e di aspetto più nobile e terribile. Equipaggiati in tal modo i
combattenti, Licurgo li suddivise in sei reggimenti di cavalieri e di opliti. Ogni reggimento di fanteria oplitica
comprende un polemarco, quattro comandanti di ORFKRL o compagnie, otto ufficiali responsabili ciascuno di
cinquanta uomini, sedici ufficiali alla testa di altrettante HQRPRWLDL ossia plotoni di soldati legati da reciproco
giuramento. All'interno di questi reggimenti, in base a parole d'ordine convenute, i plotoni si dispongono talora
su di una linea,talora su tre oppure su sei. È opinione largamente diffusa che la disposizione tattica dell'esercito
spartano sia molto complicata, ma si tratta di opinione del tutto opposta alla realtà: infatti, nello schieramento
laconico i capifila trasmettono gli ordini e ogni fila ha disposizioni esatte su ciò che deve eseguire. È così facile
comprendere l'assetto di tale schieramento che chiunque abbia conoscenza della natura degli uomini non avrebbe
possibilità di sbagliare: infatti c'è chi ha l'ordine di stare in testa e chi di seguire. Gli ordini di movimento e di
evoluzione sono impartiti dal comandante di plotone con voce chiara a guisa di araldo e le falangi si dispongono
ora in linea ora in colonna: in questi movimenti non c'è nulla che sia difficile da imparare. Certo: combattere
egualmente a fianco di chiunque capiti, qualora lo schieramento sia stato sconvolto, è questa la tecnica difficile da
imparare, eccezion fatta per i soldati educati alla scuola delle leggi di Licurgo. I Lacedemoni compiono con
estrema disinvoltura anche quelle manovre che sembrano particolarmente disagevoli per la fanteria pesante:
infatti, quando si muovono in colonna, i plotoni marciano in fila uno dietro l'altro; qualora però una falange
nemica compaia loro di fronte mentre procedono incolonnati, ai comandanti di plotone si trasmette l'ordine di
assumere lo schieramento frontale, disponendosi fianco a fianco da sinistra, e così si abbandona via via la
formazione in colonna fino a schierarsi completamente in linea di battaglia di fronte al nemico. Se poi, una volta
schierati in linea, il nemico faccia la sua comparsa alle spalle, allora ogni fila compie un'inversione di marcia allo
scopo di tenere sempre i combattenti più validi schierati faccia a faccia al nemico. Il fatto che il posto riservato al
comandante si trovi sulla sinistra dello schieramento non viene considerato uno svantaggio; in qualche caso, anzi,
si rivela positivo. Se infatti i nemici tentassero una manovra aggirante, la minaccia di accerchiamento verrebbe dal
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fianco protetto dallo scudo e non da quello lasciato senza protezione. Se invece per qualche ragione sembri talora
più utile che il comandante si trovi all'ala destra, fatti ruotare di fianco i soldati si da ordine allo schieramento di
compiere un'inversione di marcia, finché il comandante non si venga a trovare a destra e il resto
49dell'unità a sinistra. Se poi il nemico compaia in ordine di battaglia sul fianco destro mentre marciano in colonna, non fanno altro che ordinare ad ogni compagnia di girarsi fronte ad esso come una trireme che punti la
prua sull'avversario; e in tal caso la compagnia di coda viene a trovarsi sulla destra dello schieramento. Qualora
invece il nemico porti il suo attacco sul fianco sinistro, per contrastarlo non devono fare altro che ordinare alle
compagnie una conversione a sinistra in modo da far fronte ai combattenti avversati; e questa volta la compagnia
di coda si viene a trovare schierata sulla sinistra del fronte.
XII Voglio ora parlare anche del tipo di accampamento prescritto da Licurgo. Dato che gli angoli di un
quadrilatero sono militarmente inutili, egli ha stabilito che l'accampamento avesse forma circolare, a meno che
non sorgesse al sicuro sopra un'altura oppure ci fosse un muro o un fiume a proteggere le spalle. Ha altresì
stabilito che durante il giorno stazionassero presso le armi delle sentinelle con la consegna di tenere d'occhio
l'interno del campo: il loro compito, infatti, è di sorvegliare gli amici e non i nemici; a sorvegliare i nemici
provvede un corpo di guardia di cavalieri, distribuiti in postazioni da cui si può vedere il più lontano possibile
chiunque si avvicini. Durante la notte, invece, Licurgo prescrisse l'impiego degli Sciriti per i turni di guardia negli
avamposti: oggi questo compito è sostenuto dai mercenari, qualora ce ne sia qualche contingente inquadrato
nell'esercito. Quanto all'abitudine degli Spartiati di circolare sempre lancia alla mano, si deve sapere che è dettata
dalle stesse ragioni per cui tengono lontani gli schiavi dalle armi; né ci si deve stupire che chi si apparta per necessità fisiche non si allontani né dalle armi né dai compagni che il minimo indispensabile per non recarsi fastidio
reciproco: tutte queste precauzioni, infatti, sono dettate da motivi di sicurezza. I campi sono spostati
frequentemente di luogo, col duplice proposito di recare molestie ai nemici e vantaggi agli amici. Inoltre la legge
prescrive a tutti i Lacedemoni la pratica regolare di esercizi ginnici per tutta la durata del servizio militare: grazie a
tali esercizi essi acquistano maggiore consapevolezza della propria eccellenza e rivelano in modo più evidente
degli altri un aspetto degno di uomini liberi. Ma né gli esercizi di marcia né la corsa devono superare i limiti dello
spazio assegnato al reggimento, in modo che nessuno si venga a trovare troppo lontano dalle armi. Dopo gli
esercizi il polemarco più anziano per mezzo degli araldi dà l'ordine di prendere posto a sedere - il che equivale ad
una forma di ispezione -, poi di consumare il pasto e di dare subito il cambio alle sentinelle; e passano il
successivo tempo libero tra conversazioni e riposo fino alla ripresa degli esercizi al tramonto. Al termine di tali
esercizi gli araldi danno l'ordine del pasto serale; successivamente, dopo aver cantato le lodi degli dèi a cui hanno
offerto sacrifici secondo il rito, ricevono l'ordine di riposare a fianco delle armi. Non ci si deve stupire che la mia
esposizione sia così lunga e dettagliata, perché sarebbe assai difficile scoprire che i Lacedemoni abbiano
trascurato in materia militare un solo particolare che sia degno di attenzione.
XIII Intendo ora passare all'esame del potere e degli onori che Licurgo ha riservato al re in campo militare. In
primo luogo, durante le campagne militari, è la città che provvede al mantenimento del re e del suo stato
maggiore: sono compagni di tenda e di mensa del re i polemarchi, in modo che la costante presenza favorisca le
migliori decisioni comuni in caso di necessità; compagni del re sono anche tre altri rappresentanti degli Eguali,
incaricati di fornire tutti i servizi necessari allo scopo di liberare re e polemarchi da qualsiasi contrattempo che li
distolga dalle operazioni di guerra. Ma per ricapitolare dall'inizio, voglio spiegare secondo quali procedure il re
muova dalla città con l'esercito. Per prima cosa, ancora a Sparta, offre un sacrificio a Zeus Condottiero e alle
divinità che gli sono associate; qualora i presagi di questo sacrificio siano favorevoli, il sacerdote « portatore di
fuoco » prende il fuoco sacro dall'altare e apre la marcia fino ai confini della regione: qui il re celebra un altro
sacrificio in onore di Zeus e di Atena. Solo quando da entrambe queste divinità giungano segni favorevoli il re
oltrepassa la frontiera: guida la marcia il fuoco rituale sempre acceso che proviene da questi sacrifici, seguono
animali d'ogni genere destinati a far da vittime sacrificali. Tutte le volte che celebra un sacrificio, il re da inizio al
rito prima dell'alba con l'intenzione di assicurarsi la benevolenza divina in anticipo rispetto ai nemici. Al sacrificio
presenziano i polemarchi, i comandanti di compagnia e gli ufficiali responsabili delle squadre di cinquanta
uomini, i comandanti dei contingenti stranieri e quelli delle salmerie, infine chiunque lo desideri tra gli strateghi
delle città alleate. Sono presenti anche due Efori, i quali non interferiscono assolutamente, a meno di una
richiesta precisa del re: osservano però la condotta di ognuno e ottengono che tutti si comportino nel modo più
decoroso e adeguato alle circostanze. Terminato il rito sacro, il re chiama tutti a rapporto e impartisce gli ordini:
davanti ad un tale spettacolo saresti portato a credere che tutti gli altri siano solo degli improvvisatori in materia
militare e che i Lacedemoni, invece, siano gli unici ad essere dei veri professionisti dell'arte della guerra. Quando
il re conduce l'esercito in marcia, se il nemico non è in vista, nessuno marcia davanti a lui ad eccezione degli
Sciriti e degli esploratori a cavallo; quando invece si ritiene imminente la battaglia, il re prende la testa del primo
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reggimento e fa una conversione a destra, fino a trovarsi tra due reggimenti e due polemarchi. Le truppe che
devono prendere posizione subito dopo sono al comando del più anziano tra i membri dello stato maggiore:
questo è composto dagli Eguali che condividono tenda e pasti col re, da indovini e medici e suonatori di aulo, dai
comandanti dell'esercito e, talvolta, da alcuni volontari. Non esiste dunque problema in merito a tutte le
operazioni necessarie, perché nulla è stato lasciato al caso. Assai utili ed efficaci come stimolo ad affrontare la
prova delle armi sono a mio giudizio anche queste altre prescrizioni escogitate da Licurgo. Quando ormai in vista
del nemico si compie il sacrificio di una capretta, vuole l'usanza che tutti i suonatori di aulo presenti diano fiato
agli strumenti e che nessuno dei guerrieri spartani sia a capo scoperto senza corona; in precedenza si è dato
l'ordine che tutte le armi devono essere brillanti. È inoltre privilegio concesso ai giovani di scendere in campo
tutti unti d'olio, sì da segnalarsi per aspetto splendente e aspirazione di gloria. Istruzioni ed esortazioni sono
trasmesse dal comandante di plotone, perché ogni plotone non riesce a sentire completamente che gli ordini
provenienti dal proprio comandante: spetta al polemarco il compito di controllare che tutto proceda a dovere.
Quando sembra giunto il tempo di accamparsi, la decisione spetta al re, come pure l'indicazione del posto in cui
dovrà sorgere l'accampamento; tra le prerogative del re non rientra invece l'invio di ambasciatori né in paesi
alleati né in paesi ostili. Ogni iniziativa è sottoposta in prima istanza all'autorità del re. Se qualcuno si presenta per
chiedere giustizia, il re lo indirizza al tribunale degli Ellanodici; se invece avanza richieste di danaro, lo indirizza ai
tesorieri; infine, se si tratta della consegna di una preda, lo indirizza agli ufficiali addetti al bottino di guerra.
Secondo questa prassi al re in guerra non spetta che questa duplice funzione: di sacerdote per quanto concerne
gli dèi e di capo militare per quanto concerne gli uomini.
XIV Alla domanda se a mio giudizio le leggi di Licurgo rimangano a tutt'oggi inalterate, non me la sentirei di dare
risposta affermativa con assoluta sicurezza! Io so bene, infatti, che in passato i Lacedemoni preferivano starsene
tra loro in patria accontentandosi di moderate sostanze, piuttosto che esporsi al rischio di corruzione come
governatori di città assoggettate e come vittime di ingannevoli lusinghe. E ancora so che in passato gli Spartiati
temevano di essere trovati in possesso di oro anche in quantità minima, mentre adesso c'è chi addirittura mena
vanto di possederlo. So inoltre che in passato si espellevano gli stranieri e si vietava il soggiorno all'estero, allo
scopo specifico di impedire che a contatto con gli stranieri i cittadini subissero l'influsso di esempi di condotta
negativi; ora invece mi risulta che i personaggi all'apparenza più importanti di Sparta si sono dati un gran daffare
per ambizione di aver sempre l'incarico di governatori in terra straniera. E ci fu un tempo in cui la
preoccupazione maggiore era di essere degni del comando; adesso invece sono molto di più affaccendati ad
esercitare l'egemonia che a mostrarsene degni. Accade pertanto che, mentre un tempo i Greci si rivolgevano a
Sparta chiedendole di capeggiare le loro lotte contro chi ritenevano colpevole di qualche offesa, oggi molti si
esortino a mutua alleanza per impedire il rinnovarsi della supremazia spartana. Non ci si deve dunque
meravigliare che la loro condotta susciti questo coro di condanne, in quanto risulta evidente che non
obbediscono più né al dio né alle leggi di Licurgo.
XV Voglio però ancora descrivere la natura dei patti stabiliti da Licurgo tra il re e la città, perché la carica regia è
l'unica ad aver conservato inalterate le prerogative originarie; quanto alle altre istituzioni, si può vedere che hanno
subito alterazioni e che il processo di cambiamento è ancora oggi in corso. Licurgo ha stabilito che il re debba
celebrare in nome della città tutti i sacrifici pubblici, nella sua qualità di discendente dalla divinità, e che debba
guidare l'esercito dovunque la città lo destini. Al re ha accordato anche il diritto di prelievo di parte delle carni
degli animali sacrificati, così come il diritto di scegliere in numerose città dei Perieci porzioni di terra che gli
consentano di non essere privo di rendite convenienti pur senza eccedere in ricchezze. Allo scopo di estendere
anche ai re i modi della vita comunitaria, Licurgo assegnò loro a spese pubbliche una tenda per i pasti in comune
e concesse il privilegio di una duplice razione per pasto, non perché dovessero mangiare il doppio ma perché, se
volevano rendere onore a qualcuno, avessero a disposizione di che farlo immediatamente. Ha inoltre concesso
loro il diritto di scegliersi due compagni di mensa che ricevono l'appellativo di Pizii. Infine ha accordato loro il
privilegio di prelevare da ogni figliata di scrofa un porcellino, in modo che un re non sia mai sprovvisto di vittime
sacre qualora abbia bisogno di rivolgersi agli dèi per cercare consiglio. Nei pressi della loro dimora un laghetto
fornisce acqua in abbondanza; che anche uno specchio d'acqua torni utile per più aspetti, ben sanno soprattutto
coloro che non ne hanno a disposizione. Quando un re fa la sua comparsa tutti si alzano dai seggi, ad eccezione
degli Efori che restano seduti sui loro scranni ufficiali. Ogni mese si rinnova sotto giuramento un patto reciproco
tra gli Efori a nome della città e il re a titolo personale. Il re giura di regnare in modo conforme alle leggi stabilite
della città, la quale a sua volta giura di mantenere inalterato il potere regale a patto che il re resti fedele ai propri
giuramenti. Questi sono dunque gli onori che a Sparta si accordano al re in vita: essi non sono di molto superiori
a quelli riservati ai privati cittadini, perché Licurgo non volle far nascere nei re atteggiamenti mentali da tiranni né
generare nei cittadini invidia e odio verso il potere. Quanto agli onori riservati ad un re dopo la morte,
27
l'intenzione delle leggi di Licurgo è di mostrare con essi che i re spartani ricevono onori eccezionali non come
uomini ma come eroi.
3ODWRQH /HJJL
,
I, 629-635 (trad. A. Zadro).
qualche modo questo tuo discorso sia stato detto bene, e sono meravigliato che >D@
nelle nostre istituzioni e in quelle spartane queste cose non siano state curate attentamente. ATENIESE Può anche
essere. Ma noi non dobbiamo affatto ora polemizzare duramente contro di loro, Cretesi e Spartani, noi
dobbiamo proporre serenamente le domande, riconoscendo pienamente, sia a loro che a noi, il più caldo
impegno in queste cose. Ora state attenti a quello ch'io vi dico: facciamo come se fosse qui davanti a noi Tirteo,
quel Tirteo che è ateniese di sangue, ma è divenuto concittadino dei compatrioti di Megillo; egli più di tutti gli
altri uomini forse ha avuto in cuore queste cose e diceva: ”Non vorrei >E@ricordare, non potrei tener conto di un
uomo (fr. 9,1 Diehl), nemmeno se di tutti gli uomini fosse il più ricco”, è Tirteo che parla, “nemmeno se
possedesse molti beni”, e Tirteo li enumera quasi tutti qui, “ma in guerra non fosse sempre il migliore”. Questi
versi in qualche luogo anche tu, Clinia, li avrai sentiti; perché questo qui credo sia già sazio di loro. MEGILLO Ma
sì. CLIN. E anche da noi sono arrivati e li portarono da Sparta. ATEN . Bene, ora possiamo interrogarlo questo
poeta, in qualche modo così, tutti insieme: “Tirteo, divino >F@ poeta; tu sei per noi sapiente e bravo, tu che hai
voluto lodare, in modo distinto fra tutti, coloro che si distinguono in guerra — vedi che ormai io e questo e
Clinia di Cnosso che è qui, tutti noi siamo in ciò tutti con te, almeno secondo le nostre intenzioni. Ma vogliamo
con chiarezza sapere se stiamo o no parlando, tu e noi, delle stesse persone. Dicci allora: credi anche tu, come
noi crediamo, con certezza, che ci siano due specie di guerra? O come credi?”>G@ Io penso che anche qualcuno
molto inferiore a Tirteo risponderebbe con verità a questa domanda, e cioè che sono due le specie della guerra:
una che tutti chiamiamo ' guerra civile ', la più dura di tutte le guerre, e lo abbiamo detto poco fa; l'altra diversa
specie tutti credo la riconosceremo in quella lotta che noi facciamo contro i nemici esterni e stranieri, ed è molto
meno dura della prima. CLIN . Chi non direbbe così ? ATEN . “E allora tu dicci quale dei due gruppi sono questi
uomini e per quale delle due specie di guerra lodandoli tu li hai tanto esaltati, mentre gli altri hai umiliato col tuo
biasimo. Pare che tu parli di coloro che hanno combattuto i nemici esterni; infatti hai detto nei tuoi versi che non
ti sentivi assolutamente di sopportare >H@coloro che non osano guardare con occhi fermi «la strage insanguinata, e
non amano incalzare da vicino i nemici»”. Così noi dopo di ciò potremmo dire: “Pare che tu dia la tua lode,
Tirteo, proprio a quelli che meritano gloria nella guerra esterna contro lo straniero”.
>D@ Converrebbe nel dir ciò anche lui ? CLIN . E perché no ? ATEN . Ma noi diciamo allora che, anche se questi
sono uomini di valore, migliori e di molto migliori sono quelli che nella guerra più difficile si manifestano
luminosamente come i più valorosi. E non ci manca testimone un poeta, Teognide, cittadino di Megara Sicula,
che dice: «Un uomo fedele vale ricchezze d'oro e d'argento, Cirno, nel giorno grave della rivolta». Questo,
diciamo noi, è di molto migliore di quell'altro, in una guerra più difficile, e di tanto direi che lo >E@è, di quanto la
giustizia, la saggia temperanza e l'intelligenza, tutte insieme queste virtù riunite in uno con il coraggio, sono
migliori del solo coraggio preso per sé. Quando si accende la rivolta egli non potrebbe mai conservare la sua
fedeltà e rimanere immune dal male senza essere partecipe della pienezza della virtù; ma fra i mercenari sono
moltissimi quelli che, in quell'altra guerra di cui parla Tirteo, valorosamente resistendo e combattendo sanno
voler morire, e di questi i più divengono insolenti ed ingiusti e prepotenti e quasi i più insensati di tutti gli uomini,
pochissimi esclusi. Quale è la conclusione ora di questo >H@nostro discorso e che cosa esso si è proposto di dimostrare nel dire quello che ha detto ? È ormai chiaro che è questo: ogni legislatore, chiunque esso sia, anche se sia
poco il suo valore, ma più di ogni altro questo di qui che a noi procede da Zeus, dovrà sempre dare le sue leggi a
nient'altro mai guardando se non alla più alta virtù, che è (dice Teognide) proprio l'unione fedele nei momenti
più difficili e che si potrebbe chiamare anche la perfezione del giusto. E quella che tanto celebrò Tirteo, è virtù
bella e di opportuna lode onorata dal poeta, eppure non può essere>G@ esattamente classificata che al quarto posto
nel numero e nel valore. CLIN . Così, ospite, noi respingiamo il nostro legislatore cretese fra quelli che sono più
lontani dal giusto. ATEN . No, non noi lui, mio caro, ma noi noi stessi se crediamo che Licurgo e Minosse abbiano
create tutte le istituzioni di Sparta e quelle qui di Creta a nient'altro mirando più che alla guerra. CLIN. E che
dovevamo dirne allora ? ATEN. Dovevate dire, credo, quello che è vero e giusto dire >H@ quando si parla di uno
stato fatto da un dio, che cioè il dio tracciò le sue leggi e non guardò ad un solo aspetto della virtù e proprio al
meno nobile; della virtù aveva come sua meta il dio l'attuazione piena ed unitaria e dovevate analizzare le leggi di
quelli secondo ciascuno degli aspetti della legge e non quegli aspetti che prepongono alle loro ricerche di legge i
legislatori degli uomini d'ora. Ora ciascuno prepone e ricerca quella disposizione di legge di cui gli accade d'aver
bisogno, questa soltanto, e cosi uno si interessa dell'eredità e degli eredi, un altro delle offese ricevute e gli altri
analogamente per altre innumerevoli simili cose. Noi diciamo invece che la ricerca delle leggi propria >D@di coloro
che la sanno fare è come quella che noi ora abbiamo iniziato. E sono pienamente soddisfatto di come tu ne hai
cominciato a trattare interpretandole: è giusto cominciare dalla virtù e dire che in sua funzione il legislatore ha
CLINIA Mi pare, ospite, che in
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legiferato, ma quando tu hai detto ch’egli ha operato ordinando tutte le cose ad uno solo degli aspetti di quella, e
proprio al meno importante; allora tu non mi hai più dato prova di ragionare bene e il successivo mio discorso
ora l'ho fatto per questo. Vuoi ora che io ti dica come desideravo che tu facessi la tua analisi ? Come >E@
desideravo sentirti parlare ?
CLIN . Non aspetto che questo.
ATEN. “Ospite”, dovevi dire tu, “le leggi dei
Cretesi non sono senza ragione ritenute fra le migliori di tutti i Greci. Esse sono giuste e rendono felici quelli che
vivono in loro. Esse sanno dare ogni bene, e i beni sono di due specie: quelli umani e quelli divini. Dai divini
dipendono gli umani, >H@ e se uno stato possiede quelli, che sono maggiori, anche questi, i minori, possiede, e se
no, né quelli né questi. Fra i beni umani vien prima la salute e poi la bellezza e terza la forza di correre e di fare
tutti gli altri movimenti del corpo, e quarto l'essere ricchi d'una ricchezza non cieca, ma di vista acuta, quando
cioè si accompagni all'intelligenza. Dei beni divini invece il primo, e la guida, è l'intelligenza, e poi, secondo, la
saggia e temperante condizione dell'anima, che si accompagni all'intelletto; procedente da questi fusi insieme con
il coraggio, terza è la giustizia,>G@quarto il coraggio. Tutte queste cose divine sono state già ordinate e preposte ai
beni mortali nella natura delle cose. Il legislatore deve far osservare quest'ordine nella stessa misura. E dopo di
ciò ogni altra norma ch'egli impartirà ai suoi cittadini dovrà annunciarla in funzione di questi valori, e dire che,
ovunque, i valori umani si ordinano ai divini e questi all'intelletto, che tutti lì governa: su questa base egli dovrà
aver cura nella sua legislazione delle nozze in cui fra loro si uniscono quei cittadini e quindi della >H@generazione e
dell'educazione dei figli, dei maschi e delle femmine, quando sono giovani via via verso l'età sempre più matura
fino alla vecchiaia, premiandoli mediante onori e ricompense e punendoli con giustizia. E per ognuna delle altre
loro relazioni egli dovrà sorvegliarli e studiarli, nel dolore e nel piacere e nel desiderio, nelle cure di tutti i >D@ loro
amori, e rimproverarli con giustizia e dar loro lode ed incitamento con lo stesso mezzo della legge. Nell'ira così
come nella paura, per quanti sono i turbamenti che sconvolgono l'anima nella sfortuna, e per quante volte se ne
può sfuggire nella buona ventura, per quante sono le passioni che investono gli uomini nelle malattie e nelle
guerre, nella miseria ed anche nella salute, nella pace e nella ricchezza, in tutte queste circostanze bisogna insegnare e definire nell'atteggiamento di ognuno ciò che è>E@ buono e ciò che non lo è. Ancora è necessario che il
legislatore sorvegli i modi del comprare e dello spendere da parte dei cittadini e osservi le società e le rescissioni
che tutti essi faranno fra loro volontariamente o no, e il modo secondo cui agiscono in ciascuno di questi
rapporti, e dove con giustizia e dove no, e attribuirà onorevoli ricompense per chi è docile alle leggi e stabilirà
punizioni ben definite per chi è indocile a loro, finché, giunto al >H@ componimento di tutta la costituzione, veda
anche per i morti quale debba essere la sepoltura conveniente a ciascuno e quali onori gli si debbano rendere.
Visto ciò dovrà il legislatore porre custodi a tutte queste disposizioni, alcuni agenti per forza d'intelletto, altri per
opinione vera, affinchè sia l'intelletto a coordinare tutto ciò e a mostrarlo dipendente dalla saggia temperanza e
dalla giustizia, non dalla ricchezza e dall'amor degli onori”. Così, ospiti, io >G@avrei desiderato, e ancora desidero,
che voi, una per una enumerandole, diceste come proprio tutte queste cose ineriscano alla legislazione che si
racconta mandata da Zeus e a quella di Apollo Pitico, legislazioni che Minosse e Licurgo hanno stabilite, e come
in quella struttura che hanno ottenuto, tali cose si rivelano a chi delle leggi è perito per arte approfondita o per
costume acquisito e a noi altri non si fanno vedere.
CLIN . E come, ospite, dobbiamo ora continuare ? ATEN. Occorre, mi pare, che noi riprendiamo da principio ad
esporre come abbiamo cominciato, dapprima le pratiche del coraggio, e poi se non vi spiacerà vedremo via via
un >H@altro aspetto della virtù e poi ancora un altro ; e il modo in cui avremo trattato la prima parte dell'indagine
sul coraggio proviamo a tenerlo come un modello e gli altri aspetti della virtù torniamo a trattarli su questo
schema e rendiamo questa conversazione un piacevole aiuto alla strada che dobbiamo percorrere ancora. Io vi
dico che così, dopo aver visto tutti gli aspetti della virtù, giungeremo a dimostrare, se piacerà al dio, che ciò che
ora abbiamo studiato, le leggi, hanno il loro proprio fine nell'attuazione >D@integrale della virtù. MEG. Dici bene, e
prova prima di tutto ad esaminare questo lodatore di Zeus che abbiamo qui con noi. ATEN. Mi proverò, e lo farò
insieme per te e per me stesso; è uno solo e comune il nostro discorso. Dunque dite: dobbiamo affermare che i
“pasti in comune” e i “ginnasi” sono stati trovati dal legislatore in vista della guerra ? MEG . Sì. ATEN . E dopo
queste due istituzioni quale aggiunse come terza e poi quale come quarta ? Così infatti bisognerà forse enumerare
anche quando parleremo delle altre parti della virtù, parti o come si devono comunque chiamare, purché si
indichi chiaramente ciò di cui si >E@parla. MEG. Terza fu inventata la caccia; io e qualsiasi Spartano lo potremmo
dire. ATEN. E poi quarto e quinto ? Se è possibile proviamo a dire anche questo. MEG. Proverò a dire anche ciò
che sta al quarto posto. È un importante esercizio questo che avviene da noi e riguarda il sopportare il dolore dei
corpi nei combattimenti dei lottatori fra loro, con le mani, e così pure quando si fanno certe scorrerie sempre a
prezzo di molte ferite. E c'è ancora la NU\SWqLD, così si chiama, che è straordinariamente>F@ ricca di prove pesanti al
fine di farci duri al dolore ed alla fatica; e ancora andare scalzi d'inverno e dormire sulla terra e provvedere a se
stessi senza bisogno di schiavi, vagando di giorno e di notte per tutta la nostra campagna. E ancora abbiamo
terribili esercizi di forza >G@durante le Gimnopedie, in cui facciamo ginnastica nudi lottando contro la sferza del
sole ed altri moltissimi ancora, quanti, direi, uno non potrebbe mai finire di enumerarli ogni volta che li passi in
29
rassegna. ATEN. Bene, ospite di Sparta, dici bene. E allora come definiremo il coraggio ? Diremo che è semplice
lotta soltanto alla paura e al dolore oppure anche resistenza ai desideri e ai piaceri e a quelle terribili carezze degli
adulatori che rendono come cera morbida il cuore di quelli anche che amano credersi santi ? MEG . Credo che sia
così, che sia appunto saper combattere tutto questo. ATEN . E se ben ricordiamo tutti i discorsi di prima, lui
diceva che qualche stato o individuo può cedere a se stesso: è così, vero, ospite di Cnosso ? CLIN. >H@ E così.
ATEN . E allora pensate voi che noi si debba dir vile solo chi cade sotto il dolore, o anche colui che cedeai piaceri
? MEG. Ma di più mi pare chi cede ai piaceri, e tutti comunque diciamo che chi è dominato dai piaceri cede a se
stesso più vergognosamente di quanto non faccia >D@ chi è sconfitto dall'angoscia che è nel suo cuore. ATEN . Ora
il legislatore di Zeus e quello di Apollo non hanno nelle loro leggi lasciato il coraggio come un essere monco,
capace solo di rivolgersi contro la sinistra violenza, ma impotente sotto la destra carezza dei piaceri e delle
adulazioni ; non è vero? Non l'hanno concepito integro in relazione ad ambedue questi aspetti? CLIN. Ad
ambedue, io ritengo. ATEN . Diciamo di nuovo allora quali sono nei vostri due stati le consuetudini che, facendovi
sperimentare i piaceri, non sfuggendoli, così come le altre non fuggivano i dolori ma invece vi conducevano in
mezzo ad essi, vi costringono e vi persuadono con onorevoli ricompense a dominarli ? >E@Nelle vostre leggi dove
è stato disposto nello stesso modo e allo stesso fine anche per quanto riguarda i piaceri ? Dite che cosa c'è da voi
che può rendere ugualmente forti nella pena e nel godimento gli stessi uomini, e vincitori di ciò che è giusto si sia
vincitori e mai inferiori ai nemici che vi stanno più vicini e sono i più temibili. MEG . Ebbene, ospite, come avevo
da dirvi molte nostre leggi che combattono i dolori, nello stesso modo non potrei fare facilmente altrettanto per
il piacere, non avrei grandi e chiare >F@ distinzioni da fare; forse mi sarebbe facile farlo per piccole cose. CLIN.
Nemmeno io potrei similmente indicarvi con chiarezza qualcosa di siffatto, nella legislazione cretese. ATEN.
Ospiti miei, non c'è niente di strano. Ora però, se qualcuno di noi farà qualche critica alle leggi patrie di ciascuno
degli altri per amore di vedere la verità e ciò che è il meglio, tolleriamolo serenamente l'uno dagli altri e senza
ostilità. CLIN . Hai parlato giustamente, ospite ateniese, e bisogna obbedire. ATEN . Credi, Clinia, a uomini >G@della
nostra età non conviene polemizzare. CLIN . No, di certo. ATEN . Se dunque la costituzione spartana o quella
cretese vengono biasimate giustamente o no, questo sarebbe proprio di un altro discorso; su ciò che dice il volgo
io potrei parlare forse più di voi due. E pur se da voi le leggi sono ben fatte, una delle leggi più belle è non permettere a nessuno dei giovani di cercare quali cose in queste leggi sono buone e quali no, anzi essi devono
affermare tutti >H@ insieme con una sola voce e una sola bocca che tutte sono buone perché le hanno date gli dèi
e, se qualcuno dice diversamente, non è loro permesso di ascoltarlo per nulla. Se invece chi è già anziano fra voi
ha qualcosa da proporre e da dire sulle vostre leggi, deve fare questi discorsi davanti ai magistrati e ai suoi
coetanei e nessuno dei giovani sia presente. CLIN . Tu dici perfettamente, >D@ ospite, e come un indovino, ormai
così lontano dal nostro legislatore e all'oscuro dei suoi pensieri di allora, ora, mi pare, tu hai ben congetturato ed
hai parlato in modo del tutto aderente al vero. ATEN. E allora se è così, ora godiamo dell'assenza dei giovani e
anzi per la nostra vecchiaia non ci è concesso dal legislatore di 'parlare da soli a soli su questi argomenti, senza
che nessun limite sia violato ? CLIN . È così, e dunque tu non tralasciare nulla che sia da biasimare, nelle nostre
costituzioni; non è disonore riconoscere che qualche cosa è stata fatta poco bene, anzi accade che ciò sia salutare
a chi accoglie i consigli con benevolenza >E@e non se ne adira. ATEN . Bene; non farò in nessun modo critiche alle
leggi prima di averle esaminate per quanto potrò attentamente: io piuttosto proporrò dei problemi. A voi soli dei
Greci e dei barbari, quelli almeno di cui ci è giunta notizia, a voi soli il legislatore ha prescritto di astenervi dai
piaceri più intensi e dalle feste, di non trame mai godimento, ma ritenne, l'abbiamo detto poco fa, che, se
qualcuno >H@fin da bambino fugge del tutto il timore e il dolore, quando lo prende poi la necessità del male e del
terrore e dell'angoscia, questi non può allora che cedere di fronte a quelli esercitati a reagire, e ne è fatto schiavo.
Bisognava, credo, che nello stesso modo quel legislatore pensasse anche per il piacere, confessando egli a se
stesso che nella sua patria, se fin da giovani i cittadini siano rimasti inesperti dei più intensi piaceri e non esercitati
a resistere loro e così a non lasciarsi costringere a nulla di turpe, essi dovranno subire >G@ per la dolce seduzione
del piacere la stessa sorte di chi soggiace alla paura; e che poi in altro modo e più vergognosamente essi saranno
schiavi di quelli che sanno sopportare quei piaceri e li hanno fatti cosa propria, uomini qualche volta
assolutamente disonesti, e così avranno la loro anima da una parte libera, ma da un'altra serva e non saranno mai
degni d’essere chiamati, senza riserva, liberi cittadini e coraggiosi.
, 3ROLWLFD II, 1270 a- 1271 b (Trad. R. Laurenti).
La materia porta ad affrontare un altro problema e una diversa ricerca: alcuni si chiedono se è dannoso o
giovevole a mutare le leggi tradizionali, quando ce ne siano altre migliori. Non è facile accogliere senz'altro
l'opinione menzionata, se proprio non giova mutarle, ed è possibile d'altronde che taluni pongano l'abrogazione
delle leggi o della costituzione nell'interesse comune. E siccome ne abbiamo fatto cenno, è meglio dilungarsi
sull'argomento con qualche altra piccola spiegazione. È, come abbiamo detto, una questione discussa, e
$ULVWRWHOH
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potrebbe sembrare preferibile il mutamento. Certo, in tutti gli altri campi del sapere questo ha portato dei
benefici, ad es. nella medicina, quando s'è mossa per una strada opposta a quella tradizionale, nella ginnastica e,
in generale, in tutte le altre arti e attività; di conseguenza, poiché si deve ritenere la politica una di queste, è
evidente che, anche nei suoi riguardi, si dovranno avere di necessità gli stessi risultati. Si potrebbe dire che se ne
ha un indizio nei fatti stessi, giacché le leggi antiche erano troppo semplici e incivili. Così gli Elleni si ricoprivano
di ferro e compravano le mogli l'uno dall'altro, e quante altre delle antiche prescrizioni sopravvivono in qualche
luogo sono proprio assurde, ad es. la legge relativa all'assassinio in Cuma, per la quale se chi accusa un altro di
assassinio produce un certo numero di testimoni tra i suoi parenti, l'accusato è ritenuto reo di assassinio.
D'altronde, in generale, tutti cercano non quel che è tradizionale, ma quel che è bene ed è naturale che i primi
uomini, siano essi nati dalla terra o scampati a qualche cataclisma, fossero simili a uomini qualunque, a insensati,
come si dice pure a proposito dei Figli della Terra, sicché sarebbe strano attenersi alle loro decisioni. Inoltre
neppure le leggi scritte è bene lasciare inalterate: in realtà, come riguardo alle altre arti, così anche riguardo alla
struttura d'uno stato è impossibile sia determinata minutamente in ogni dettaglio: è necessario determinarla in
generale, mentre le azioni si portano sempre al particolare. Da tali considerazioni risulta chiaro che bisogna
cambiare talune leggi e in determinate occasioni, ma per chi esamina la cosa da un altro punto di vista, il
cambiamento sembra richiedere molta cautela. Infatti, quando l’utile è minimo, siccome è male abituare gli
uomini ad abrogare le leggi alla leggera, è chiaro che bisogna tollerare qualche sbaglio e dei legislatori e dei
magistrati, perché l'utile apportato dal mutamento non pareggerà il danno recato dall'abitudine di disobbedire ai
magistrati. È falso pure l'esempio tratto dalle arti perché non è lo stesso cambiare un'arte e una legge: la legge
non ha altra forma per farsi obbedire che il costume e questo non si realizza se non in un lungo lasso di tempo,
sicché passare con leggerezza dalle leggi vigenti ad altre nuove leggi significa indebolire la forza della legge. Ma se
ci sono poi leggi da essere mutate, devono essere mutate tutte e in ogni costituzione o no ? E da uno qualunque
o da determinate persone ? Perché la differenza è grande. Quindi lasciamo per ora l'esame di tali problemi: li si
tratterà in altra occasione.
Intorno alla costituzione dei Lacedemoni e dei Cretesi, come più o meno intorno alle altre costituzioni, ci sono
due questioni da esaminare: la prima, se qualche disposizione sia buona o non buona in rapporto all'ordinamento
migliore, la seconda, se c'è qualche elemento realmente in opposizione con il principio fondamentale e l'indole
della costituzione, com'essi la presentano. Che lo stato bene amministrato debba possedere la libertà dalle
incombenze necessarie è concordemente ammesso: in che modo però debba possederla, non è facile intenderlo.
In Tessaglia i Penesti si ribellarono spesso ai Tessali e parimenti gli iloti ai Laconi (essi vivono come spiando il
momento della disgrazia dei loro padroni): ai Cretesi invece non è mai accaduto alcunché di simile. Il motivo è
forse che gli stati limitrofi, pur essendo in lotta tra loro, non si allearono coi ribelli, nessuno mai, giacché non ne
ricavavano utilità, avendo essi pure dei perieci, mentre ai Laconi, tutti i popoli limitrofi erano ostili, Argivi,
Messeni, Arcadi. E anche Tessali dapprincipio si rivoltarono perché erano sempre in lotta coi confinanti, Achei,
Perrebi, Magnesi. Ora, lasciando altre considerazioni, pare davvero un affare laborioso per la cura che richiede
cercare il modo di trattare uomini ridotti in tale condizione: se si lasciano un po' liberi diventano insolenti ed
esigono gli stessi diritti dei padroni: se vivono tra strettezze, complottano e odiano. È chiaro, quindi, che quelli
che stanno in tali rapporti cogli iloti, non hanno trovato la soluzione migliore. Inoltre la libertà concessa alle
donne è dannosa sia all'intento della costituzione sia alla felicità dello stato. Perché, come l'uomo e la donna sono
parte della famiglia, è chiaro che anche lo stato si deve ritenere diviso press'a poco in due gruppi separati, quello
degli uomini e quello delle donne: di conseguenza, in tutte le costituzioni nelle quali la posizione delle donne è
mal definita, bisogna credere che la metà dello stato sia senza leggi. Il che è accaduto precisamente a Sparta: il
legislatore, volendo che tutto lo stato fosse forte, perseguì apertamente le sue intenzioni in rapporto agli uomini,
le trascurò invece con le donne: per ciò esse vivono senza freno, rotte a ogni dissolutezza e in lussuria. È inevitabile, quindi, che in tale costituzione sia in onore il denaro, tanto più se gli uomini si trovano ad essere
dominati dalle donne, come succede nella maggior parte delle razze militari e guerriere, a eccezione dei Celti e di
quanti altri popoli hanno apertamente in onore le relazioni tra uomini. E non senza ragione pare che l'autore
primo dei miti abbia congiunto Ares ad Afrodite, perché si vede che tutti gli uomini di tal sorta sono attratti
dall'intimità cogli uomini o con le donne. Per questo il fenomeno si è verificato presso i Laconi e durante il
tempo della loro egemonia molti affari furono sbrigati dalle donne. Del resto che differenza c’è fra un governo di
donne o di magistrati succubi di donne ? Il risultato è lo stesso. E poiché l'arroganza non serve a nessuna delle
occupazioni quotidiane, ma, se mai, alla guerra, anche sotto questo aspettofurono quanto mai funeste. E lo
dimostrarono in occasione dell'invasione dei Tebani, perché non resero alcun servigio utile, come negli altri stati,
e causarono più confusione dei nemici. Ma c'erano fin dal principio buone ragioni per cui la licenza femminile
dovesse farsi strada tra i Laconi: essi rimanevano molto tempo fuori della patria per le loro spedizioni, impegnati
in guerra contro gli Argivi, e in seguito contro gli Arcadi e i Messeni: tornata la pace, si mettevano a disposizione
del legislatore, dato il loro tenore di vita militaresco (che comporta molte forme di virtù): quanto alle donne
31
dicono sì che Licurgo tentò di ridurle sotto le leggi, ma siccome riluttavano, desistette dal proposito. Son queste,
dunque, le cause di quel che è accaduto, e quindi evidentemente anche di questo difetto della costituzione. Ma
noi non cerchiamo ciò che deve essere scusato o che non lo deve, bensì ciò che è giusto e non giusto nella
costituzione. Gli errori commessi riguardo alla condizione delle donne, com'è stato già affermato, non solo par
che producano una certa disarmonia nella costituzione in se stessa, ma concorrano anche, in qualche modo, a
fomentare avidità di denaro. Oltre quel che s'è detto adesso, si potrebbero muovere delle critiche all’ineguale
distribuzione della proprietà: capita in effetti che alcuni di essi abbiano una fortuna eccessivamente grande, altri,
invece, estremamente piccola, per cui la terra è venuta in mano a pochi. E anche ciò è dovuto alle cattive
disposizioni di legge, perché il legislatore ha condannato come biasimevole comprare o vendere la terra
originaria, e ha fatto bene, ma ha concesso a chi lo voleva la facoltà di darla o di lasciarla: ora, in questa maniera o
in quella, il risultato è necessariamente lo stesso. E così appartengono alle donne quasi i due quinti di tutto il
territorio, perche è elevato il numero delle ereditiere, sia perché danno grandi doti. Invece, era meglio che le doti
fossero proibite o contenute entro limiti esigui e modesti: ora ognuno può dare la figlia ereditiera a chi vuole e se
muore intestato, colui che per sua volontà ne prende il posto, la dà a chi gli piace. Quindi, pur potendo la terra
nutrire 1500 cavalieri e 30.000 opliti, essi non raggiunsero il numero di mille. Risulta dunque chiaro, proprio dai
fatti, che le disposizioni in questa materia sono difettose; in realtà lo stato non ha resistito a una sola disfatta, ma
è andato distrutto per mancanza di uomini. Si dice che sotto i primi re concedevano la cittadinanza sicché non
c'era allora mancanza di uomini, pur essendo essi impegnati per molto tempo in guerra, e si afferma che allora gli
Spartiati arrivarono perfino a 10.000: comunque vero o no tutto questo, è meglio che lo stato abbia abbondanza
di uomini, grazie a una proprietà ben distribuita. Anche la legge sulla procreazione dei figli è contraria a
correggere tale ineguaglianza: in realtà, il legislatore, volendo accrescere il più possibile il numero degli Spartiati,
spinge i cittadini a mettere al mondo quanti più figli possano: infatti, hanno una legge per cui il padre di tre figli
è esente dal servizio militare, quello di quattro è dispensato da qualsiasi tassa. Eppure è chiaro che, se tanti
nascono e la terra resta divisa come s'è detto, molti di necessità cadranno in miseria. D'altra parte ci sono difetti
anche riguardo all’eforato. Questa magistratura ha assoluto controllo sui loro affari più importanti e gli efori sono
tratti esclusivamente dal popolo; per ciò spesso giungono alla carica uomini del tutto poveri, i quali, per le loro
ristrettezze, sono venali. E lo dimostrarono spesso, in passato, e adesso, nella faccenda di Andro, in cui taluni,
corrotti dal denaro, distrussero, per quanto poterono, lo stato intero. Inoltre, poiché la carica è molto alta e
uguale alla tirannide, i re stessi furono spinti a corteggiarli, sicché, anche da questo punto di vista, la costituzione
ne ebbe a soffrire, e da aristocratica che era diventò democratica. Questa carica, è vero, tiene unito il regime –e,
in realtà, il popolo sta quieto perché accede alla suprema magistratura, di modo che, sia opera del legislatore o
della sorte, l’eforato è d'utilità alla situazione. Infatti se un regime intende conservarsi, è necessario che tutte le
parti dello stato vogliano che esista e si mantenga nelle stesse condizioni: e di questa idea sono i re, per gli onori
che godono, gli «uomini dabbene» per l'ufficio di «anziano» (perché questa carica è premio della loro eccellenza) e
il popolo per l'eforato (giacché tutti vi possono accedere)- e tuttavia a tale magistratura dovrebbero sì essere eletti
tutti, ma non al modo di adesso (che è troppo puerile). Inoltre gli efori sono giudici assoluti di processi
importanti, pur essendo persone qualunque, sicché sarebbe meglio che non li decidessero a loro criterio ma
secondo la parola scritta e le leggi. Anche il tenore di vita degli efori non è conforme allo spirito dello stato,
perché è troppo rilassato, mentre quello degli altri cittadini eccede piuttosto in austerità, sicché non riescono a
sostenerlo ed eludendo di nascosto la legge, si danno ai piaceri dei sensi. Anche le prescrizioni riguardanti il
consiglio degli «anziani » non sono buone. Certo, se fossero persone ammodo ed educate convenientemente alle
virtù dell'uomo, si potrebbe dire che è un'istituzione utile allo stato, per quanto il fatto che essi siano arbitri per
tutta la vita di affari importanti lasci adito a qualche dubbio (perché come del fisico, c’è anche una vecchiaia
dell’intelletto), ma con l’educazione che hanno, tale che il legislatore stesso diffida di loro come di persone non
buone, allora è qualcosa di pericoloso. Come ben si sa, coloro che coprono questa carica, si lasciano corrompere
dai doni e trattano molti affari pubblici guidati dal favoritismo: per ciò sarebbe meglio che non fossero
irresponsabili, mentre adesso lo sono. Si potrebbe pensare che il corpo degli efori esiga il rendiconto da tutte le
magistrature: ma questa sarebbe una prerogativa davvero eccessiva per l’eforato, e, d’altra parte, non è questo il
modo in cui, a parer nostro, si deve render conto. Inoltre il procedimento seguito nell'elezione degli «anziani»,
per quanto riguarda la selezione, è puerile e non è giusto che ponga da sé la propria candidatura chi sarà ritenuto
degno della carica: piuttosto chi merita la carica deve esercitarla, lo voglia o no. E invece anche qui il legislatore
agisce manifestamente con lo stesso intento che in ogni altra parte della legislazione: volendo rendere i cittadini
ambiziosi si è servito di questo procedimento per l'elezione degli «anziani» e, in realtà, nessuno chiederebbe di
coprire una magistratura se non fosse ambizioso . Eppure la maggior parte dei delitti volontari gli uomini la commettono quasi sempre per ambizione o per cupidigia. Quanto al regno, se è meglio per gli stati averlo o non è
meglio, si rimandi ad altro discorso: comunque sarebbe meglio che ciascun re fosse designato non come si fa
adesso, ma tenendo conto della sua condotta. È chiaro che il legislatore ritenga di non potere, neppur lui, rendere
32
i re «persone dabbene»: in ogni caso ne diffida come se fossero uomini non sufficientemente degni e proprio per
questo gli Spartani avevano l'abitudine di mandare nelle ambascerie insieme ai re i loro rivali e di pensare che la
salvezza dello stato risiedesse nella rivalità dei re. E non è buona neppure la legislazione sui sissizi, i cosiddetti
fidizi, dovuta a chi per primo li ha istituiti: era opportuno piuttosto che i contributi fossero tolti dai fondi
comuni, come si fa a Creta: tra i Laconi, invece, ciascuno deve portare la sua parte, anche chi è estremamente
povero e non può sostenere tale spesa, sicché il risultato è proprio l'opposto dell'intento del legislatore. In realtà,
egli vuole che l'organizzazione dei sissizi sia democratica, mentre, regolata in tale maniera, diventa nient'affatto
democratica, perché per i molto poveri non è agevole prendervi parte, mentre, secondo loro, definizione
tradizionale della cittadinanza è che chi non può portare questo contributo non ne ha parte. Anche alla legge sui
navarchi già molti altri hanno mosso delle critiche, e critiche giuste, perché è fomite di ribellione: vicino ai re, che
sono comandanti militari a vita, la navarchia è quasi un altro potere regale. E così si potrebbe criticare il
principio fondamentale del legislatore, che anche Platone ha criticato nelle /HJJL: l'intero sistema delle leggi è
rivolto a una parte di virtù, la virtù militare, perché è utile a dominare. Perciò i Laconi si sono mantenuti finché
hanno combattuto, decaddero, invece, quando ebbero conquistato l'impero, giacché non sapevano vivere in ozio,
e non erano esercitati in nessun'altra disciplina superiore a quella militare. Ed ecco un altro errore non inferiore a
questo: credono che i beni siano quelli conquistati con la virtù più che con la malvagità, e in questo hanno
ragione, ma poi suppongono che tali beni siano superiori alla virtù, e in questo non hanno ragione. È in difetto
presso gli Spartiati anche l'ordinamento delle finanze pubbliche. Nel tesoro pubblico non c'è niente anche se
sono costretti a sostenere grandi guerre e i contributi sono mal regolati: in realtà, siccome la maggior parte della
terra appartiene agli Spartiati, essi non verificano i contributi l'uno dell'altro. E il legislatore ha ottenuto l'effetto
contrario all'interesse generale, perché ha fatto uno stato senza ricchezze e dei privati avidi di ricchezze. Intorno
alla costituzione dei Lacedemoni basti quel che s'è detto: sono queste le principali critiche che le si possono
rivolgere. La costituzione cretese s'avvicina a questa: in alcuni dettagli, non le è inferiore, ma nel complesso è
meno rifinita. Pare, e si dice anche, che la costituzione dei Laconi sia modellata in moltissime parti su quella
cretese, e certo moltissime disposizioni antiche sono meno elaborate di quelle più recenti.
, VI, fr. 10 (trad. C. Schick)
Per il momento faremo brevemente menzione della costituzione di Licurgo, argomento che non è estraneo al
piano della mia esposizione. Licurgo, resosi conto del naturale e necessario svolgimento delle costituzioni,
comprese che ogni forma di governo semplice, basato su un'unica autorità, è pericolosa perché facilmente si
trasforma nel corrispondente tipo corrotto: come infatti essendo la ruggine connaturata col ferro e i tarli e le
tignole col legno, questi materiali, anche se riescono a evitare danni esterni, vengono distrutti dall’interno, così
essendo connaturata a ogni forma di governo la relativa forma corrotta – e cioè al regno la tirannide,
all'aristocrazia l’oligarchia, alla democrazia la selvaggia violenza - ciascuna di esse col tempo, secondo il
ragionamento che abbiamo fatto, necessariamente si trasforma nel tipo corrotto corrispondente. In previsione di
tutto ciò Licurgo non istituì un governo semplice e uniforme, ma riunì nella sua costituzione i vantaggi delle
costituzioni migliori; egli impedì così che la forza al governo, acquistando un'autorità superiore al giusto, si
trasformasse e si corrompesse e fece in modo che, equilibrandosi reciprocamente le autorità, nessuna fosse
sopraffatta o acquistasse troppo potere, e lo stato, a guisa di nave che resiste alle correnti, fosse conservato a
lungo dal regolare equilibrio delle sue forze. L’autorità regia sarebbe stata infatti tenuta a freno dal timore del
popolo, al quale era stata attribuita una giusta parte nel governo; il popolo non avrebbe osato disprezzare
l'autorità regia per timore della gerusia i cui membri, eletti per la loro virtù, sempre si sarebbero attenuti alla
giustizia; insomma la parte divenuta più debole, conservando il costume tradizionale, avrebbe acquistato potere e
autorità con l'appoggio e il favore dei senatori. Mediante questa forma di governo, Licurgo concesse agli Spartani
di conservare la libertà più a lungo di tutti i popoli dei quali abbiamo notizia. Egli dunque considerando donde e
come nasca ogni forma politica, foggiò la costituzione di Sparta evitando ogni danno; i Romani hanno
organizzato in modo analogo il governo della loro patria, ma non per forza di ragionamento; con azioni e lotte
continue, sempre attenendosi attraverso la diretta esperienza al partito migliore, ottennero lo stesso risultato di
Licurgo, cioè istituirono migliore forma di governo che esista.
3ROLELR
XI, 50 (trad. I. Labriola) [anno 475]
Quando ad Atene era arconte Dromoclide, i Romani elessero consoli Marco Fabio e Gneo Manlio. Allora gli
Spartani che irragionevolmente avevano perso l'egemonia sul mare, mal tolleravano la perdita: in collera con i
Greci che avevano defezionato da loro, minacciavano di infliggere loro la punizione conveniente. Quando si
riunì la Gerusia, deliberarono sulla guerra contro gli Ateniesi per l'egemonia sul mare; analogamente quando si
riunì anche l'assemblea comune, i più giovani e la maggior parte degli altri avevano l'ambizione di riconquistare
l'egemonia, perché ritenevano che, se l’avessero ottenuta, avrebbero avuto in abbondanza molte ricchezze, e in
'LRGRUR
33
generale reso Sparta più grande e più potente, e le case dei privati avrebbero conseguito un grande incremento di
prosperità. Ricordavano anche l'antico vaticinio nel quale il dio comandava loro di fare attenzione a non avere
l’egemonia zoppicante, e l'oracolo, dicevano, a nient’altro si riferiva se non alla situazione attuale: il loro potere
era allora zoppicante, se, essendo due le egemonie, ne avevano perduta una. Quasi tutti i cittadini erano orientati
verso questo piano e quando la gerusia si riunì per deliberare su questo, nessuno pensava che qualcuno avrebbe
avuto il coraggio di consigliare qualche cosa di diverso. Ma un componente della gerusia, Etemarida, che era della
stirpe di Eracle e per il suo valore godeva di consenso presso i suoi concittadini, si mise a consigliare di lasciare
gli Ateniesi in possesso dell'egemonia: non era nell’interesse di Sparta contendere per il mare. Riuscì ad avanzare
argomenti adeguati alla sua inaspettata proposta e, contro ogni aspettativa persuase la gerusia e l'assemblea
popolare. Alla fine gli Spartani giudicarono che Etemarida dicesse cose convenienti e rinunziarono al loro
entusiasmo per la guerra contro gli Ateniesi. Gli Ateniesi, che prima si aspettavano di affrontare una grande
guerra contro gli Spartani per l'egemonia sul mare (stavano perciò preparando triremi in maggior numero,
raccoglievano una grande quantità di denaro e trattavano gli alleati con mitezza), quando appresero le decisioni
degli Spartani, si liberarono del timore per la guerra e si impegnarono a rendere più grande la loro città.
, VIII, 5, 1-8(trad. A. M. Biraschi)
1. Dopo il golfo di Messenia viene dunque quello di Laconia, compreso fra il Tenaro e capo Malea, leggermente
inclinato da sud verso est; le Tiridi, formate da rocce esposte ai flutti, che si trovano sul golfo Messenico, distano
130 stadi dal Tenaro. Questa parte di costa è dominata dal Taigeto, che è una montagna elevata e ripida a poca
distanza dal mare e che con le sue parti più a settentrione è contigua alle falde delle montagne arcadi in modo tale
da lasciare in mezzo solo una vallata, laddove la Messenia confina con la Laconia. Ai piedi del Taigeto,
nell'entroterra, ci sono Sparta ed Amicle, dove c'è il tempio di Apollo e, inoltre, Fari33. Il suolo dove sorge la città
si trova in un luogo più basso34, sebbene comprenda in mezzo delle montagne; nessuna parte di esso è però
paludosa, mentre anticamente era paludosa la parte suburbana e la chiamavano perciò Limne35; il santuario di
Dioniso a Limne36 sorgeva su un terreno umido: ora invece le fondamenta poggiano su un suolo asciutto.
Nell'insenatura della costa c'è il promontorio del Tenaro, dove c'è il santuario di Posidone37, situato in un recinto
sacro; vicino ad esso c'è una caverna attraverso la quale raccontano che Cerbero fu da Eracle condotto via
dall'Ade. Da qui a capo Ficunte38, verso sud, in Cirenaica, c'è una traversata di 3000 stadi; ad occidente, fino a
capo Pachino, promontorio della Sicilia, ci sono 4600 stadi, mentre altri dicono che sono 4000; verso oriente
invece, fino a capo Malea, ci sono 670 stadi, comprese le sinuostà della costa; 520 stadi si misurano invece fino
ad Onugnato (‘Mascella d’Asino’)39, una penisola bassa, situata un po’ più all’interno rispetto a capo Malea.
Al largo di Onugnato, a 40 stadi, c’è Citera, un’isola provvista di buoni porti, che ha una città omonima, occupata
da Euricle, condottiero dei Lacedemoni ai nostri giorni, a titolo personale; intorno ci sono parecchie isolette,
alcune vicino, altre un po’ più lontano. Il tragitto marittimo più breve fino a Corico40, promontorio cretese, è di
700 stadi. Dopo Capo Tenaro, chi naviga in direziona di Onugnato e di Capo Malea incontra la città di
Psamatunte41, poi Asine e Giteo, il porto di Sparta, situato a una distanza di 240 stadi da quest'ultima: esso ha,
come dicono, il porto scavato artificialmente. Vengono poi le foci dell’Eurota fra Giteo ed Acrea42: fino a questo
punto il tragitto lungo costa è di circa 240 stadi. Viene poi un luogo paludoso e il villaggio di Elo43; una volta esso
era una città, come dice Omero: TXHOOLFKHDYHYDQR$PLFOHHG(ORERUJRVXOODULYDGHOPDre44. Si dice sia stato fondato
da Eleo, figlio di Perseo. C'è anche una pianura chiamata Leuce; poi una città, Ciparissia, che è situata su una
penisola e che possiede un porto. Si giunge poi a Onugnato che possiede un porto; poi alla città di Bea45, poi a
6WUDERQH 33
Probabilmente l’odierna Vaphiò, all’incirca a 10 Km da Sparta in direzione sud.
Omero scriveva “Lacedemone concava” (Od. VI, IV, 1).
35 “Paludi”.
36 Forse qui il Geografo si confondeva con il famoso santuario ateniese di Dioniso a Limne.
37 Tale santuario è ricordato anche in Th. I, 128 e 133 come luogo di asilo. Th. I, 128 (v. sopra): $QFKHJOL$WHQLHVLDORURYROWD
34
LQWLPDURQR DL /DFHGHPRQL GL HOLPLQDUH LO VDFULOHJLR GHO 7HQDUR *OL 6SDUWDQL LQIDWWL GRSR DYHU IDWWR DO]DUH DOFXQL LORWL VXSSOLFL GDO VDQWXDULR GL
3RVHLGRQHSUHVVRLO7HQDURSRUWDQGROLYLDOLXFFLVHURDFDXVDGLTXHVWRDWWRHVVLVWHVVLULWHQJRQRFKHDEELDDYXWROXRJRLOYLROHQWRWHUUHPRWRD6SDUWD
(circa 464-463).
Odierna Ra’s-al- Hamamah in Libia.
39 Oggi capo Elaphonisos.
40 Oggi capo Vouxa.
41 Oggi porto Kayo.
42 Forse nelle vicinanze dell’odierna Kokkinio.
43 Il termine significa ‘Palude’.
44 Hom. Il. II, 584.
45 Forse dove oggi è localizzata Neapolis.
38
34
Malea. Da Onugnato a Malea la distanza è 150 stadi. In Laconia c’è anche una città chiamata Asopo46. 3. Dicono
che fra le città nominate da Omero nel &DWDORJRnon ci sia da nessuna parte Messe; Messoa non sarebbe una parte
del territorio, ma di Sparta, come il Limneo, che si trova vicino al monte Tornace47. Alcuni considerano Messe
una forma di apocope per Messene: infatti, come ho già detto, anch'
essa faceva parte della Laconia.
----Delle altre città menzionate dal poeta, alcune sono state distrutte, di altre rimangono tracce, altre hanno cambiato
nome, per esempio Augea48 in Egea. Augea nella Locride, infatti, è completamente scomparsa. Quanto a Laa49 si
racconta che una volta i Dioscuri la presero con l'
assedio e da questo fatto ottennero l'
appellativo di ‘Lapersai’,
(‘Distruttori di Laa’). Dice Sofocle: *LXURSHUJOLGHL©/DSHUVDLªSHUO
(XURWDLQWHU]ROXRJRSHUJOLGHLGL$UJRHGL6SDUWD
4. Eforo racconta che gli Eraclidi che presero possesso della Laconia, Euristene e Procle, divisero la regione in
sei parti e vi fondarono delle città; una delle ripartizioni, Amicle, fu messa da parte e concessa a chi aveva loro
consegnato a tradimento la Laconia ed aveva convinto colui che ne era in possesso ad andarsene con gli Achei
nella Ionia, dopo aver accettato un accordo. Essi designarono Sparta come residenza reale per sé; nelle altre parti
inviarono dei re, autorizzandoli, per la scarsità di popolazione, ad accettare come abitanti gli stranieri che lo
desiderassero. Utilizzarono Laa come base navale per l'
eccellenza del suo porto e, come piazzaforte contro i
nemici, Egi, che confinava con tutti i popoli intorno; si servirono di Fari come deposito per il tesoro pubblico, in
quanto era sicura da pericoli interni ed esterni. Tutti gli abitanti del circondario, benché soggetti agli Spartiati,
godevano tuttavia di uguali diritti, partecipando alla vita politica e all'
esercizio del potere. Agide però, il figlio di
Euristene, li privò dell'
uguaglianza di diritti e ordinò loro di pagare un tributo a Sparta; tutti si assoggettarono a
questo stato di cose ad eccezione degli Elei, che abitavano Elo ed erano chiamati Iloti: essi si ribellarono, ma
furono debellati con la forza e condannati alla schiavitù a siffatte condizioni, che ai loro padroni non fosse
permesso di dar loro la libertà, né di venderli fuori dei confini del paese. Questa guerra fu chiamata guerra contro
gli Iloti. Si può quasi dire che l'
istituzione degli Iloti, sopravvissuta fino all'
occupazione romana, fu introdotta da
Agide e da quanti con lui amministravano il potere: in un certo senso i Lacedemoni consideravano costoro degli
schiavi pubblici, costretti ad una determinata residenza e a compiere particolari servigi. 5. Per quel che riguarda la
costituzione degli Spartani e le trasformazioni a cui essa fu soggetta, si potrebbe tralasciare la maggior parte delle
notizie, in quanto ben conosciute, ma ci sono alcuni fatti di cui è giusto far menzione. Raccontano, per esempio,
che gli Achei di Ftia, scesi con Pelope nel Peloponneso, si stabilirono in Laconia e si distinsero a tal punto per il
loro valore che il Peloponneso, chiamato già da molto tempo Argo, fu denominato Argo Achea e il nome fu dato
non solo al Peloponneso, ma anche, in modo particolare, alla Laconia; pertanto l'
espressione del poeta dove egli
dice: 'RYHHUD0HQHODR"1RQHUDLQ$UJRAchea50"alcuni la interpretano così: Non era in Laconia?
Al tempo del ritorno degli Eraclidi, quando Filonomo consegnò il paese ai Dori, gli Achei si trasferirono dalla
Laconia nel territorio degli Ioni che ancora oggi si chiama Acaia. Ne parleremo nella parte della descrizione
dedicata all’Acaia. Ora, coloro che avevano occupato la Laconia, già dall'
inizio diedero prova di moderazione,
ma, quando poi essi affidarono l'
organizzazione dello stato a Licurgo, risultarono talmente superiori agli altri che,
soli fra i Greci, estesero il loro dominio per terra e per mare e continuarono ad avere la preminenza fra i Greci
fino a quando furono privati della loro egemonia dai Tebani e, subito dopo, dai Macedoni. Tuttavia neppure a
questi ultimi essi si piegarono del tutto, ma, mantenendo la propria autonomia, lottarono ad ogni occasione per la
supremazia con gli altri Greci e con i re macedoni; dopo che la potenza macedone fu annientata dai Romani, essi
ebbero alcuni dissensi, per cose di poco conto, con i pretori inviati dai Romani, perché a quel tempo erano
soggetti ad un dominio tirannico ed erano mal governati51. Quando però si risollevarono da questo stato di cose,
furono tenuti in particolare onore e conservarono la loro libertà senza altri tributi all'
infuori di servigi
amichevoli52.
46
Forse ove oggi è posta Plitra.
Pausania nel libro III dedicato alla Laconia racconta che sulla collina si ergeva una statua di Apollo Pythaeus di forma
simile a quella dell’Apollo venerato ad Amicle (III, 10, 8), su cui ancora Pausania racconta (III, 19, 2): QRQ q VWDWD FUHDWD GD
47
%DWLFOHEHQVuqRSHUDDQWLFDHQRQ IDWWDFRQDUWHLQIDWWLDGHVFOXVLRQHGHOYROWRGHOOHSXQWHGHLSLHGLHGHOOH PDQL ODSDUWHUHVWDQWHGHOODVWDWXD q
IRJJLDWDFRPHXQDFRORQQDEURQ]HD 6XOODWHVWDSRUWDXQHOPRHWUDOHPDQLXQDODQFLDHGXQDUFR
.
Forse vicino a Palaiochora. Pausania la chiama Aigiai (III, 21, 5).
49 Probabilmente da localizzarsi ove oggLtorreggiano i resti del castello di Passava, a qualche chilometro da Giteo.
50 Hom. Od. 3, 249; 251.
51 Il riferimento è alla tirannide di Nabide, poi ucciso dagli Etoli nel 193 a. C.
52 Dopo il 146 a.C. con la conquista romana, Sparta fu riconosciuta libera da tributi ed amica dei Romani, i quali imposero
agli Achei di pagare a Sparta 200 talenti.
48
35
Tuttavia recentemente Euricle ha provocato discordie fra di loro, dando l'impressione di aver abusato al di là di
ogni misura dell'amicizia di Cesare per mantenere la sua autorità su di essi53; il disordine però ebbe presto a
cessare dopo la morte di Euricle ed essendo suo figlio del tutto alieno da tali ambizioni. Avvenne anche che gli
Eleuterolaconi ottennero un tipo particolare di costituzione, dopo che i Perieci per primi, e poi anche gli Iloti, nel
momento in cui Sparta era sotto un dominio tirannico, si accordarono con i Romani54. Ellanico afferma che
furono Euristene e Procle a stabilire la costituzione; Eforo, tuttavia, lo critica su questo punto, dicendo che
Ellanico non fa mai menzione di Licurgo e che attribuisce l'opera compiuta da quest'ultimo a persone che con
essa non hanno niente a che fare: solo a Licurgo, infatti, è stato eretto un tempio e si fanno sacrifici ogni anno,
mentre Euristene e Procle, sebbene fossero i fondatori, non ebbero neppure l’onore di trasmettere ai rispettivi
discendenti i nomi di Euristenidi e di Procleidi; essi si chiamano invece i primi Agiadi, da Agide figlio di
Euristene, i secondi Euripontidi, da Euriponte figlio di Procle perché mentre Agide ed Euriponte esercitarono il
potere in modo conforme a giustizia, Euristene e Procle invece, avendo accolto persone straniere, esercitavano il
potere con il loro apporto; ne consegue che ad essi non fu mai dato neppure il titolo di ‘archegheti’ che è invece
attribuito a tutti i fondatori. Pausania55, bandito per l'inimicizia dell'altra casa reale, quella degli Euripontidi,
durante l'esilio compose un trattato contro le leggi di Licurgo - il quale apparteneva alla famiglia che lo aveva
bandito - in cui cita anche gli oracoli che erano stati dati a Licurgo, per la maggior parte a suo elogio56.
6. Circa la natura dei luoghi, sia della Laconia che della Messenia, è da accettare quel che dice Euripide359. Quanto
alla Laconia egli dice infatti che essa ha:
PROWHWHUUHIHUWLOLPDQRQIDFLOLGDFROWLYDUHLQIDWWLqDYYDOODWDFLUFRQGDWDGDPRQWDJQHDVSUDGLIILFLOHGDLQYDGHUHSHULQHPLFL
e quanto alla Messenia:
UHJLRQH GDL EHL IUXWWL EDJQDWD GD LQQXPHUHYROL VRUJHQWL DVVDL ULFFD GL SDVFROL SHU EXRL H SHFRUHQp
WURSSRHVSRVWDDLULJRULLQYHUQDOLTXDQGRVRIILDQRLYHQWLG·LQYHUQRQqWURSSRULVFDOGDWDVRWWRLOFDUURGHOVROH
E un po’ sotto parla dei sorteggi della terra fatti dagli Eraclidi, dicendo che il primo fu fatto per divenire
VRYUDQR GHOOD WHUUD GL /DFRQLD GDO VXROR SRYHUR, il secondo per la Messenia, OD FXL IHUWLOLWj q PDJJLRUH GL TXDQWR VL SRVVD
HVSULPHUHDSDUROH
Anche Tirteo parla allo stesso modo. Invece non si può essere d’accordo con lo stesso Euripide quando afferma
che il confine fra Laconia e Messenia sarebbe LO 3DPLVR FKH FRUUH YHUVR LO PDUH, in quanto il Pamiso, che scorre
attraverso la parte centrale del territorio della Messenia, in nessun punto tocca l'attuale Laconia57. Non è nel
giusto neppure quando dice che la Messenia, che al pari della Laconia sta sul mare, sarebbe molto lontana per i
marinai. Non dà nemmeno il giusto confine per l'Elide: ORQWDQRGRSRFKHVLqDWWUDYHUVDWRLOILXPHVWDO
(OLGHYLFLQRDOOD
GLPRUD GL =HXV Se infatti vuole intendere l’odierna Elide, che confina con la Messenia, il Pamiso non ha nessun
punto di confine con essa, così come nessun punto della Laconia: ho detto infatti che esso scorre nella parte
centrale della Messenia; se invece vuole intendere l’antica Elide della Cava, si allontana ancor di più dalla verità:
infatti, attraversato il Pamiso, c’è ancora una larga parte del territorio della Messenia, poi c’è tutto il territorio dei
Cauconi e dei Macisti che chiamano Trifilia, poi la Pisatide e Olimpia, infine a 300 stadi c’è l’Elide. 7. Dal
momento che taluni scrivono Lacedemone NHWzHVVD ed altri NDLHWjHVVD58 si pone il problema di come interpretare
NHWzHVVD,se, cioè, derivi da NHWRV59 o se significhi ‘grande’, la qual cosa sembra più plausibile Quanto al termine
NDLHWjHVVD taluni interpretano come NDODPLQWKRGH 60 altri dicono invece che sono chiamati NDLHWzLicrepacci prodotti
dai terremoti e la parola NDLHWDV designerebbe fra i Lacedemoni la prigione vale a dire una sorta di caverna. Altri,
invece, dicono che siffatte cavità vengano piuttosto chiamate NRRL da cui anche l'espressione: FRQ L &HQWDXUL
RUHVFzRL61 La Laconia è soggetta a terremoti; taluni ricordano che certe sommità del Taigeto sono state smussate
via. Ci sono antiche cave di pietra pregiata detta del Tenaro sul Tenaro stesso e, recentemente, alcuni hanno
aperto un giacimento importante nel Taigeto, grazie alle risorse finanziarie concese dalla prodigalità dei Romani.
53 Caio Giulio Euricle, lacone, fedele ad Ottaviano e a capo di una nave spartana ad Azio c (31 a. C) contro Antonio, ebbe
da Ottaviano, in cambio della sua fedeltà la cittadinanza romana ed ampi poteri su Sparta.
54 Si fa qui riferimento alla creazione del koinon dei Lacedemoni dopo il 146 a. C..
55 Pausania II, re agiade di sparta e nipote del celebre omonimo vincitore a Platea, assunse il regno due volte: la prima, solo
nominalmente perché minorenne, tra il 445 ed il 426 – quando il padre Plistoanatte venne deposto-,la seconda tra il 408 ed
il 394 a. C. Sfuggì con l’esilio alla condanna capitale inflittagli in seguito alla morte di Lisandro, avvenuta sotto le mura di
Aliarto prima che Pausania potesse raggiungerlo ed unirsi a lui. Durante l’esilio a Tegea avrebbe composto il libello
menzionato da Strabone.
56 E’ probabile che il libello non fosse polemico nei confronti di Licurgo ma che problematizzasse l’origine licurghea del
sistema vigente, in particolare sostenendo la paternità non licurghea dell’eforato.
57 Il Pamiso valse a separare le due regioni solo all’epoca di Euripide ed in età augustea. Esso non poteva dunque valere da
confine al tempo degli Eraclidi.
58 Si tratta delle disquisizioni critiche rispetto ad aggettivi usati per connotare Lacedemone nei testi omerici.
59 ‘Mostro marino’.
60 ‘Ricco di menta’.
61 Il termine starebbe a significare: ‘che abitano negli antri dei monti’.
36
8. Omero mostra chiaramente che il termine Lacedemone designa sia il territorio che la città (quando dico
territorio includo in esso anche la Messenia). Quando infatti dice a proposito degli archi: GRQL EHOOL FKH XQ RVSLWH
WURYDWR D 6SDUWD JOL IHFH ,ILWR (XULWLGH e poi , GXH QHOOD 0HVVHQLD V
LQFRQWUDURQR LQVLHPHLQ FDVD G
2UWuORFR intende il
territorio, di cui fa parte anche la Messenia. Non c'era per lui differenza dire anche così: XQ RVSLWH WURYDWR D
6SDUWD, e aggiungere: L GXH QHOOD 0HVVHQLD V
LQFRQWUDURQR; perché è chiaro che Fere è la patria di Ortìloco: H JLXQVHUR D
)HUH D FDVD GL 'uRFOH ILJOLR G
2UWuORFR Telemaco e Pisistrato; Fere è appunto parte della Messenia. Quando poi
Omero dice che Telemaco ed i suoi compagni, partiti da Fere, tutto il giorno ‘scossero il giogo’ e aggiunge: HLOVROH
DQGzVRWWRHJLXQVHURD/DFHGHPRQHFRQFDYDDYYDOODWDHJXLGDURQRLOFRFFKLRDOSDOD]]RGL0HQHODRbisogna intendere la città;
altrimenti sembrerebbe dire che il viaggio avvenne da Lacedemone a Lacedemone. Inoltre non sarebbe credibile
che la residenza di Menelao non fosse a Sparta o che, se essa non era là, Telemaco dicesse: ,RYDGRD6SDUWDHD3LOR
Sembrerebbe in disaccordo con questa ipotesi il fatto che Omero usi gli epiteti del territorio a meno che, per uno
non voglia attribuirlo a licenza poetica: ciò significherebbe infatti che Messene non sarebbe città della Laconia, né
del regno di Nestore, né trattata a parte nel &DWDORJRe che non partecipò alla spedizione.
/LVDQGUR
[Navarco nel 408-7 fu il fautore della ripresa della flotta peloponnesiaca, e dell’amicizia e collaborazione con Ciro. Vinse a
Notion Alcibiade e poi la flotta ateniese ad egospotami nel 405. Dopo la capitolazione di Atene, sostenne l’instaurazione del
governo dei Trenta. Fu l’ispiratore dell’insediamento di decarchie nelle SROHLV alleate di Atene su cui Sparta estese la propria
influenza negli anni dell’egemonia. Dopo lo scoppio della guerra di Corinto, entrò in Beozia ma prima di essere raggiunto
dal re Pausania- che per questo fu condannato a morte e fuggì a Tegea- fu ucciso sotto le mura di Aliarto nel 395].
3OXWDUFR 9LWDGL/LVDQGUR
,
, 5-7 (trad. G. Pisani)
Perciò fin dal primo momento non videro con favore l’arrivo di Callicratida [a. 406], giunto a sostituire Lisandro
al comando della flotta, e nemmeno in seguito, quando questi dava chiara prova d’essere il migliore e il più giusto
degli uomini, ne apprezzavano lo stile di comando, caratterizzato da una semplicità e schiettezza tipicamente
doriche. Ammiravano la sua virtù come si fa con una statua che raffigura un eroe, ma rimpiangevano le premure
e la leale amicizia dell'
altro, e sentivano a tal punto la mancanza dei suoi servigi che, mentre la nave lasciava il
porto, erano accasciati e in lacrime. 6. Dal canto suo, egli faceva in modo di renderli ancor più ostili a Callicratida,
e a questo scopo rimandò a Sardi quanto era rimasto del denaro che Ciro gli aveva dato per la flotta, invitando
Callicratida, se voleva, ad andare di persona a chiederne dell'
altro e a pensare lui a come mantenere i soldati. Da
ultimo, ormai sul punto di salpare, lo chiamò a testimone del fatto che gli consegnava una flotta padrona del
mare. Callicratida allora, volendo smascherare la millanteria e l’inconsistenza di quell'
ambiziosa asserzione:
“Ebbene” gli disse “lasciando Samo a sinistra, girale attorno e portati a Mileto: le triremi me le consegnerai là!
Non dobbiamo certo aver paura di passare davanti ai nemici di stanza a Samo se è vero che siamo padroni del
mare”. Lisandro replicò che non era più lui a comandare la flotta, ma Callicratida, e subito dopo salpò alla volta
del Peloponneso, lasciando l’altro in serio imbarazzo, perché era giunto dalla patria senza portare denaro con sè e
non sopportava l’idea di dover costringere a forniglielo le città, che attraversavano momenti molto difficili. Non
gli restava dunque che andare a chiederlo alle porte dei generali del Gran Re, come aveva fatto Lisandro, ma in
questo era l’uomo in assoluto meno adatto per il suo spirito libero e fiero, e perché pensava che qualunque
sconfitta inflitta da Greci ad altri Greci fosse più onorevole dell’adulare e del frequentare le porte di uomini
barbari, che avevano sì molto oro, ma nessun altro pregio. Costretto comunque dalle ristrettezze finanziarie, salì
in Lidia e si presentava immediatamente alla residenza di Ciro, ordinando d’annunciargli che il navarco
Callicratida era giunto e desiderava incontrarsi con lui. Un ciambellano allora gli rispose: “ Straniero, Ciro adesso
non ha tempo, perché sta bevendo”, ma Callicratida, con grande semplicità, ribattè: «Non fa nulla” attenderò qui
fino a quando avrà finito di bere”. In quel momento diede ai barbari l'
impressione d'
essere uno zotico e presero a
deriderlo; lui allora s'
allontanò. Tornato una seconda volta a palazzo, non fu ricevuto; rientrò indispettito a
Efeso, scagliando grandi maledizioni contro quelli che per primi s'
erano lasciati traviare dal lusso dei barbari e
avevano loro insegnato a insolentirli dall'
alto della loro ricchezza, e giurò ai i presenti che, appena rimesso piede a
Sparta, avrebbe fatto di tutto per riconciliare i Greci, perché incutessero paura ai barbari e non ricorressero più ai
loro finanziamenti per scagliarsi gli uni contro gli altri. 7. Callicratida, che aveva nutrito sentimenti degni di Sparta
ed era sceso in gara con i più insigni tra i Greci per giustizia, magnanimità e coraggio, fu però sconfitto non
molto tempo dopo nella battaglia delle Arginuse e vi trovò la morte. Vedendo che la situazione volgeva al peggio,
gli alleati inviarono a Sparta un’ambasceria, chiedendo che Lisandro fosse reintegrato al comando della flotta e
garantendo che sotto la sua guida avrebbe ripreso la lotta con molto più ardore. Analoga richiesta fu avanzata
anche da Ciro. Esisteva però una legge che proibiva alla stessa persona di ricoprire due volte la carica di navarco;
decisi a compiacere gli alleati, gli spartani l’aggirarnono assegnando il titolo di navarco a un certo Araco ed
inviando Lisandro con il ruolo nominale di luogotenente ma conferendogli in realtà piena autorità su tutto.
37
3OXWDUFR, 9LWDGL/LVDQGUR 2, 2-6 (trad. G. Pisani)
Lisandro fu allevato in povertà e si mostrò come nessun altro rispettoso delle tradizioni, d’animo virile e
superiore a qualunque piacere, a eccezione di quello che le belle imprese assicurano a chi ne ricava onore e
successo. A Sparta non è certo una vergogna che i giovani si lascino vincere da un tale piacere, perché gli
Spartani pretendono che i figli siano sensibili alla reputazione subito, fin da piccoli, e che soffrano per i
rimproveri e vadano fieri degli elogi; chi invece è indifferente e refrattario a tutto questo, viene disprezzato come
inetto e privo di ambizioni per la virtù. L’ambizione e la voglia di prevalere furono dunque radicate in lui
dall’educazione laconica, e di questo non si deve incolpare troppo la sua natura; semmai, sembra essere stato per
natura ossequioso con i potenti più di quanto non s'
addica a uno Spartiata e aver sopportato di buon grado, per
proprio tornaconto, il peso dell'
autorità: in questo, comunque, alcuni individuano una componente non
trascurabile dell'
abilità politica. Nel passo in cui mostra che le nature grandi, come quella di Socrate, di Platone e
di Eracle, sono melanconiche, Aristotele riferisce che anche Lisandro, sia pure non subito, ma da vecchio, cadde
nella melanconia. Tutta sua fu invece la responsabilità d'
aver colmato la patria di ricchezze e di desiderio
d'
arricchirsi (proprio lui che sapeva sopportare bene la povertà e non s’era mai lasciato vincere o traviare dal
denaro), e d'
aver fatto sì che essa cessasse d'
essere ammirata perché non ammirava la ricchezza, facendovi
confluire grandi quantità d'
oro e d'
argento alla fine della guerra contro Atene, anche se per sé non teneva una
sola dracma.
3OXWDUFR 9LWDGL/LVDQGUR
,
24, 3-26; 30, 2-5 (trad. G. Pisani)[anno 396: Lisandro viene inviato nell’Ellesponto].
Ma (Lisandro) non fu più impiegato dal re in nessun'
altra missione di guerra, e allo scadere del mandato si
reimbarcò, ingloriosamente, per Sparta, pieno di rancore nei confronti di Agesilao e animato da un odio ancor
più profondo che in passato vergo l'
intero ordinamento costituzionale, fermamente deciso ormai a por mano,
senza ulteriori indugi, a quei cambiamenti e a quella rivoluzione che già da tempo sembrava meditare e tramare.
Ecco il suo progetto. Dopo che gli Eraclidi, unitisi ai Dori, ebbero fatto ritorno nel Peloponneso, avevano dato
vita a Sparta a una stirpe numerosa e illustre, ma la successione regale non era riservata a tutti i loro discendenti e
regnavano solo i membri di due casate, i cosiddetti Euripontidi e Agiadi; agli altri, invece, l'
origine nobile non
assicurava nessun maggiore privilegio costituzionale rispetto a un cittadino qualsiasi, e gli onori legati al merito
erano aperti a chiunque ne avesse le capacità. Lisandro era uno di questi e, poiché le sue imprese l'
avevano
innalzato a grande fama e aveva molti amici e potere, soffriva vedendo che la città era resa grande da lui, ma
continuava ad avere come re altri, che per nascita non gli erano in nulla migliori. Pensava dunque di togliere il
potere alle due casate e di restituirlo a tutti gli Eraclidi o, come sostengono alcuni, non agli Eraclidi, ma agli
Spartiati, perché questo privilegio non spettasse soltanto ai discendenti di Eracle, ma a tutti coloro che fossero
giudicati simili a Eracle per quella virtù che l'
aveva fatto assurgere a onori divini. Sperava che, se si fosse
assegnato il regno su queste basi, nessuno spartiata gli sarebbe stato anteposto. Per prima cosa dunque decise
che era venuto il momento d’agire e si preparò a convincere di persona i concittadini, mandando a memoria un
discorso appositamente scritto da Cleone di Alicarnasso, ma poi si rese conto che l’eccezionalità e la portata delle
sue innovazioni politiche richiedevano un aiuto più ardito, e allora, sollevando contro i concittadini una specie di
macchina tragica, si metteva a comporre e apprestare predizioni e oracoli pitici, convinto che l'
abilità di Cleone
non gli sarebbe stata di alcuna utilità se non avesse impressionato i cittadini con un qualche timor di dio e
superstizione, riuscendo così a soggiogarli e a far loro accettare il suo progetto. Eforo dice che tentò invano di
corrompere la Pizia e poi di convincere, con l'
aiuto di Ferecle, le sacerdotesse di Dodona; andò allora al tempio
di Ammone e parlò con gli interpreti del dio, offrendo loro molto oro, ma quelli, sdegnati, mandarono emissari a
Sparta per accusare Lisandro. Ne uscì assolto, ma gli Africani, nel congedarsi, dissero: “Noi però, Spartiati,
giudicheremo meglio, quando verrete in Africa ad abitare da noi”: secondo un antico oracolo, infatti, gli Spartani
erano destinati a stanziarsi in Africa. In ogni caso, per dimostrare che l'
intero complotto e i preparativi
dell'
intrigo non erano assolutamente una cosa trascurabile o avviata a caso, ma poggiavano su molte e solide basi
e procedevano alla conclusione, come in una dimostrazione matematica, attraverso proposizioni complesse e di
ardua soluzione, passeremo ora a esporre i fatti, basandoci sul racconto di un autore che è storico e filosofo
insieme.
[...] La povertà di Lisandro, messa in luce dopo la sua morte, ne aveva resa ancor più evidente la virtù: delle
molte ricchezze, della potenza e dei tanti omaggi che gli erano stati tributati dalle città e dal Gran Re, non aveva
approfittato neppure in piccola parte per ingrandire ed abbellire la sua casa, come attesta Teopompo, che è più
attendibile quando elogia di quando critica, perché prova più gusto a criticare che a lodare. Racconta Eforo che
tempo dopo scoppiò a Sparta una controversia con gli alleati e si ritenne necessaria la consultazione delle carte
che Lisandro aveva trattenuto presso di sè; Agesilao andò a casa sua, e rinvenne il fascicolo che conteneva il
discorso sulla costituzione, in cui si sosteneva che si dovesse togliere il regno agli Agiadi e agli Euripontidi e
renderlo accessibile a tutti, scegliendo tra i migliori. Il suo primo impulso fu di divulgare quel testo e mostrare a
38
tutti che razza di cittadino fosse, a loro insaputa, Lisandro; ma Lacratida, che era uomo intelligente e presiedeva
in quel momento gli efori, trattenne Agesilao e gli disse che, invece di disseppellire Lisandro, conveniva seppellire
con lui quel discorso così persuasivo e scellerato.
$JHVLODR
[Figlio di Archidamo, dopo la morte del fratellastro Agide II nel 399, divenne re di Sparta grazie all’appoggio dell’influente
Lisandro, dal cui ascendente tuttavia si svincolò presto. Fu a capo delle operazioni militari in Asia Minore tra il 396 ed il 394,
quando fu richiamato in patria e combattè a Coronea vincendo contro i Beoti ed i loro alleati. Dopo Leuttra organizzò la
difesa della città e militò come mercenario con l’esercito degli Spartiati in Asia Minore e in Egitto, allo scopo di acquisire
ricchezze per la città. Morì nel 360 di ritorno dalla campagna in Egitto.]
6HQRIRQWH (OOHQLFKH
III, 3, l-4 (trad. D.P. Orsi)
Agide giunto a Delfi, offrì la decima del bottino; ripreso il viaggio di ritorno, cadde malato ad Erea (era ormai
vecchio) e fu trasportato ancora vivo a Sparta; lì, dopo poco, morì. Ottenne onoranze funebri troppo sontuose
per un essere umano. Trascorsi i giorni riservati al lutto, bisognava designare un re; si contendevano il trono
Leotichide, che diceva di essere figlio di Agide, e il fratello Agesilao. Leotichide disse: Ma la legge, Agesilao,
ordina che regni non il fratello, ma il figlio del re. Se, per caso, non ci fosse un figlio, allora il fratello potrebbe
regnare.
(A.) - dovrei regnare io.
(L.) - come, se ci sono io ?
(A.) - perché quello che tu chiami padre, non disse che tu eri suo.
(L.) - ma mia madre, che lo sa molto meglio di lui, ancora ora lo afferma.
(A.) - Pure, ha chiaramente segnalato che tu menti Poseidone, quando ha scacciato con un terremoto dal talamo,
e portato alla vista di tutti, tuo padre. In questo gli è stato testimone anche il tempo, che è detto essere il più veritiero: tu sei nato nel decimo mese dopo che quello ti generò e fu visto nel talamo.
Essi questo dicevano. Diopeite, uomo molto esperto di oracoli, parlando a favore di Leotichide, disse che vi era
anche un oracolo di Apollo che consigliava di guardarsi dalla monarchia zoppa. Lisandro, in difesa di Agesilao,
ribattè a lui che, a suo avviso, il dio ordinava di guardarsi non da chi fosse zoppo perché aveva inciampato;
piuttosto, ordinava che non regnasse chi non appartenesse alla famiglia. “Giacché, la monarchia sarebbe
veramente zoppa, qualora non guidassero la città i discendenti di Eracle”. La città, dopo aver ascoltato tali
argomenti, portati da entrambi, scelse come re Agesilao.
6HQRIRQWH (OOHQLFEH
IV 1,1-15(trad. D.P. Orsi)
[Agesilao sbarca ad Efeso nel 396 e rimane in Asia Minore fino al 394. Qui Agesilao riesce, con l’aiuto di Lisandro, ad
accattivarsi l’amicizia e l’alleanza di Spitridate che era entrato in conflitto per ragioni personali con Farnabazo. Quest’ultimo
infatti (come racconta Senofonte nell’$JHVLODR) voleva prenderne la figlia come concubina nonostante la lealtà di Spitridate a
Farnabazo durante la spedizione dei Diecimila. Agesilao conduce quindi, con l’alleanza di Spitridate, una campagna contro la
Frigia].
Giunto in autunno nella Frigia di Farnabazo62, Agesilao bruciava e devastava il territorio, conquistava le città, le
une con la forza, le altre con il loro consenso. Dicendogli Spitridate che, se si fosse recato con lui in Paflagonia,
gli avrebbe portato a colloquio il re dei Paflagoni e ne avrebbe fatto un suo alleato, Agesilao si metteva in marcia
con entusiasmo, poiché da tempo desiderava questo: far ribellare qualche popolo al re. Agesilao giunse in
Paflagonia, Otis venne e strinse alleanza; giacché, convocato dal re, non si era recato a corte. Persuaso da Spitridate, Otis lasciò ad Agesilao mille cavalieri, duemila peltasti. Agesilao, essendo per questo grato a Spitridate, gli
disse:
- Dimmi, Spitridate, non daresti ad Otis tua figlia?
- Molto più volentieri - egli rispose - di quanto lui potrebbe essere disposto ad accettare la figlia di un esule, lui
che è re di ampia terra e di grande potenza.
In quella occasione, dunque, solo questo si disse sulle nozze. Otis stava per partire e venne da Agesilao per
salutarlo; Agesilao avviò il discorso alla presenza dei Trenta e dopo aver allontanato Spitridate.
Dimmi, Otis, - egli disse - a quale famiglia appartiene Spitridate ? Otis rispose che non era inferiore a nessuno dei
Persiani.
- hai visto suo figlio, - disse Agesilao - come è bello?
- come no? proprio ieri sera ho pranzato con lui.
-dicono che sua figlia sia più bella di lui.
62
Satrapo della Frigia ellespontica.
39
-Sì per Zeus- rispose Otis- è proprio bella.
-E io- disse Agesialo, poiché tu sei diventato nostro amico, ti consiglierei di prendere in moglie la ragazza, che è
bellissima; ed infatti che cosa potrebbe esserci di più dolce per un uomo?La ragazza ha un padre nobilissimo, di
così grande potenza che, pur ingiuriato da Farnabazo, si è vendicato di lui al punto di averlo costretto a fuggire
da tutte le sue terre, come vedi. Dunque sappi bene - disse Agesilao- che Spitridate, come è in grado di vendicarsi
di Farnabazo, che gli è nemico, così sarebbe anche in grado di fare del bene a chi gli sia amico. Considera che,
grazie a questo matrimonio, ti sarebbe parente non solo lui ma anche gli altri Lacedemoni e, dal momento che
noi siamo a capo dell’Ellade anche il resto della Grecia. E chi mai riuscirebbe a sposarsi con maggiore sfarzo di
te, se decidi di farlo? Quale sposa mai hanno scortato tanti cavalieri e peltasti e opliti, quanti accompagnerebbero
tua moglie a casa tua?
E Otis chiese: Secondo te, Agesilao, su questo è d’accordo anche Spitridate?
- Sì per gli dei,- disse Agesilao- lui non mi ha pregato di parlarne; io per quanto mi senta felicissimo quando mi
vendico di un nemico, mi rallegro molto di più quando riesco ad escogitare qualcosa di buono per gli amici
Perché allora - disse Otis – non cerchi di sapere se anche Spitridate è d'
accordo?
E Agesilao disse: Andate, Erippida, e convincetelo a volere ciò che vogliamo noi. Essi, levatisi, andavano a
convincerlo. Poiché indugiavano, Agesilao disse:
- Vuoi, Otis, che lo facciamo venire qui? Ritengo che egli potrebbe essere persuaso da te molto più facilmente
che da tutti gli altri. Allora Agesilao chiamava Spitridate e gli altri. Appena entrarono, subito Erippida disse: Perché, Agesilao, farla lunga su tutto ciò che si è detto? Per concludere, Spitridate dice che farebbe volentieri
tutto ciò che a te sembra opportuno.
- A me dunque, sembra opportuno - disse Agesilao-, che tu, Spitridate, dia, con buona fortuna, tua figlia in sposa
ad Otis e che tu, Otis, la prenda. Ma non potremmo portare via terra la fanciulla prima dell'
inizio della primavera.
Ma sì, per Zeus, - disse Otis - potrebbe essere subito trasportata via mare, se tu vuoi.
E allora, date e ricevute le destre, a queste condizioni facevano partire Otis. Agesilao, poiché aveva compreso che
Otis aveva fretta, fece subito allestire una trireme e ordinò al lacedemone Callia di trasportare la ragazza.
6HQRIRQWH (OOHQLFKH
,
IV 1,29-40 (trad. D.P. Orsi)
[Farnabazo, messo in grave difficoltà da Agesilao, chiede a quest’ultimo un incontro, circa 395-394]
Vi era un certo Apollofane di Cizico, per caso ospite da antica data di Farnabazo e che, in quel periodo, aveva
stretto legami di ospitalità con Agesilao. Costui, dunque, disse ad Agesilao che riteneva di potergli condurre a colloquio Farnabazo, per discutere di amicizia. Dopo averlo sentito, stipulata una tregua e ricevute garanzie, si
presentava con Farnabazo nel luogo convenuto, dove Agesilao, e i Trenta del suo seguito, li attendevano, distesi
a terra sull'erba. Farnabazo giunse indossando una veste del valore di molto oro. I suoi servi ponevano per lui, a
terra, tappeti, sui quali i Persiani si distendono mollemente, ma Farnabazo si vergognò delle sue abitudini
lussuose, vedendo la semplicità di Agesilao; si distese, dunque, anche lui, come capitò, a terra. E per prima cosa si
scambiarono i saluti; poi, tendendo Farnabazo la destra, anche Agesilao la tese per parte sua. Dopo ciò,
Farnabazo cominciò a parlare: era, infatti, più anziano. “Agesilao e tutti voi Lacedemoni presenti, io sono stato
vostro amico e alleato, quando eravate in guerra con gli Ateniesi e fornendovi danaro, rendevo forte la vostra
flotta; sulla terra io, in prima persona, combattendo da cavallo con voi, inseguivo fino al mare i nemici. E mai in
nulla mi si potrebbe accusare di aver pronunciato parole o compiuto azioni ambigue nei vostri confronti, come
Tissaferne. Pur essendomi così comportato, ora sono trattato da voi in modo tale che non riesco neppure a
procurarmi un pasto nella mia terra, a meno che non raccolga qualcosa che voi abbiate abbandonato, come le
fiere. Ciò che mio padre mi ha lasciato, belle case e paradisi, pieni di alberi e animali, dei quali mi rallegravo,
tutto questo vedo o distrutto o bruciato. Se, dunque, io non conosco né ciò che è sacro né ciò che è giusto,
spiegatemi voi come è possibile che queste azioni provengano da uomini che sanno essere riconoscenti”.
Egli pronunciò queste parole. Tutti i Trenta si vergognarono di fronte a lui e tacquero; Agesilao, dopo un po' di
tempo, disse: “Ma ritengo che tu, Farnabazo, sappia che anche nelle città greche gli uomini stringono fra loro
vincoli di ospitalità. Pure essi, quando le loro città diventano nemiche, combattono in difesa della patria anche
contro i loro ospiti e, se così capita, a volte si uccidono persino l'un l'altro. Perciò noi, che ora siamo in guerra
con il vostro re, siamo costretti a ritenere nemico tutto ciò che gli appartiene. D'altra parte, noi saremmo molto
interessati a diventare tuoi amici. E se per te si trattasse solo di cambiare padrone, passando dal re a noi, questo
io proprio non te lo consiglierei. Ora, invece, se ti schieri con noi, ti sarà possibile vivere senza dover ossequiare
nessuno e senza avere un padrone, godendoti i tuoi beni. Ed invero io ritengo che essere libero equivalga al
possesso di tutte le ricchezze. Né ti esortiamo a questo, ad essere sì libero ma povero; invece, utilizzando
l’alleanza stretta con noi, ti esortiamo ad accrescere il potere non del re ma tuo proprio, assoggettando quelli che
40
ora sono servi con te, sicché diventino tuoi sudditi. In verità, se tu, insieme, fossi libero e diventassi ricco, che
cosa ti mancherebbe per essere completamente felice?
E allora – disse Franabazo- vi devo dire schiettamente cosa intendo fare?
(A.)- Ti conviene
Io dunque- disse Farnabazo- se il re dovesse inviare un altro stratego e ordinarmi di essergli subordinato,
sceglierò di essere vostro amico e alleato; se, invece, mi affida il potere (di tale natura è, a quanto pare, la mia
ambizione), bisogna che sappiate bene che combatterò contro di voi nel modo migliore possibile. Sentito ciò,
Agesilao prese la sua mano e disse: “e allora, carissimo, tu, essendo di tale natura, possa diventare nostro amico.
Sappi una cosa - disse -: ora me ne parto il più velocemente possibile dalla tua terra; in futuro, anche se la guerra
continuerà, finché avremo da marciare contro un altro nemico, risparmieremo te e i tuoi beni”. Detto questo,
Agesilao sciolse la riunione. Farnabazo, salito a cavallo, si allontanava; suo figlio, nato da Parapita, che era ancora
bello, rimasto indietro si precipitò verso Agesilao e disse: “Agesilao, ti faccio mio ospite”. – “Io lo accetto”. –
“Ricordati, allora”. E subito dette ad Agesilao il giavellotto (ne aveva uno bello). Il re lo accettò, tolse la
bellissima gualdrappa, che il segretario Ideo aveva sul cavallo, e gliela diede in cambio. Allora il ragazzo, balzato a
cavallo, inseguiva il padre. Quando, durante 1’assenza di Farnabazo, uno dei fratelli privò del potere e costrinse
all'
esilio il figlio di Parapita, sia, in generale, Agesilao si prendeva cura di lui sia, quando egli si innamorò di un
ateniese, figlio di Evalce, pur di accontentarlo, Agesilao fece di tutto perché il ragazzo fosse giudicato idoneo a
partecipare alla corsa dello stadio ad Olimpia, pur essendo il più grande fra i fanciulli.
V 1,3-4 e 13-24 (trad. D.P. Orsi)
6HQRIRQWH(OOHQLFKH
[Teleutia, fratello di Agesilao, compie con la sua flotta, un attacco al Pireo a scopo di rapina, circa anno 388-7]
Inviato dai Lacedemoni, giunge come navarco Ierace e prende in consegna la flotta. Teleutia salpò alla volta di
Sparta sotto i più felici auspici; mentre scendeva verso il mare, diretto in patria, non ci fu nessuno dei suoi soldati
che non venisse a salutarlo: chi gli donò corone, chi gli donò bende; quelli che giunsero in ritardo, persino
mentre si allontanava, gettavano corone in mare e invocavano per lui ogni bene. So bene che, in questa
occasione, non descrivo né una elargizione né un pericolo né uno stratagemma degno di nota; eppure, per Zeus,
questo a me sembra essere degno di riflessione per un uomo: grazie a quali azioni Teleutia produsse tale
disposizione d'
animo nei soldati ai suoi ordini. Giacché, questa è impresa, compiuta da un uomo, quanto mai
degna di essere raccontata, più dell'
acquisizione di molte ricchezze e del superamento di molti pericoli[...]
I Lacedemoni inviano Teleutia ad assumere il comando di queste navi. Non appena videro che era giunto, i
marinai ne provarono gran gioia. Egli, dopo averli convocati, rivolse loro le seguenti parole: “Soldati, io sono
giunto senza portare danaro; se un dio lo vorrà e voi vi sforzerete insieme con me, cercherò di fornirvi i viveri,
quanti più possibile. Lo sapete bene: quando io sono il vostro comandante, prego per la vostra vita non meno
che per la mia; quanto ai viveri, potreste forse meravigliarvi se vi dicessi che vorrei ne aveste più voi di me; io,
per gli dei, preferirei, io proprio, stare due giorni senza cibo piuttosto che lasciare voi digiuni per uno solo; già
prima la mia porta era aperta per far entrare chi avesse bisogno di me, sarà aperta anche ora. Sicché, quando voi
avrete i viveri in gran quantità, allora vedrete anche me vivere in maggiore abbondanza. Se mi vedete sopportare
freddo, caldo e notti di veglia, aspettatevi di dover sopportare anche voi tutte queste cose. Io non vi ordino di
fare nulla di tutto ciò per darvi tormento ma perché, da questo, possiate ricevere un beneficio. E la nostra città,
soldati, - disse -che ha fama di essere felice, sapete bene che si è procurata ricchezza, e gloria perché non è pigra
ma pronta ad affrontare fatiche e pericoli, quando ce ne sia bisogno. Anche prima voi eravate, come io so,
uomini valorosi; bisogna, ora, tentare di diventare ancora migliori, affinchè con animo lieto affrontiamo insieme
le fatiche, con animo lieto godiamo insieme dei successi. Che cosa, infatti, potrebbe essere più gradevole del non
essere costretti ad adulare nessuno degli uomini, né greco né barbaro, per ottenere il salario, ma essere capaci di
procurare a se stessi i viveri, e, per di più, traendoli donde è più glorioso? L’abbondante bottino, sottratto in
guerra ai nemici, lo sapete bene, procura insieme nutrimento e gloria di fronte a tutti gli uomini”. Egli pronunciò
queste parole, tutti gridarono di ordinare ciò che fosse necessario, perché essi avrebbero ubbidito. Poiché aveva
già sacrificato, Teleutia disse: “Orsù, uomini, cenate, il che appunto stavate per fare; preparatemi in anticipo cibo
per un giorno. Poi, verrete velocissimi alle navi e ci dirigeremo là dove vuole un dio, per arrivare a momento
giusto”. Allorché giunsero, li fece salire sulle navi e navigava di notte verso il porto degli Ateniesi, a volte
concedendo una pausa ed esortando gli uomini a riposarsi, a volte avanzando con i remi. Se qualcuno ritiene che
egli, da stolto, navigasse con dodici triremi contro chi possedeva molte navi, rifletta sul suo ragionamento. Era,
infatti, convinto che gli Ateniesi si sarebbero preoccupati di meno della flotta nel porto, dal momento che
Gorgopa63 era perito; anche ammesso che lì vi fossero triremi ormeggiate, ritenne più sicuro navigare contro
63
Era il predecessore di Teleutia, armosta che aveva messo in difficoltà gli Ateniesi.
41
venti navi presenti ad Atene che contro dieci presenti altrove. Per quel che riguarda le navi fuori Atene, sapeva
che i marinai si sarebbero fermati ciascuno sulla propria nave; per quel riguarda le navi presenti ad Atene, sapeva
che i trierarchi avrebbero dormito a casa, i marinai si sarebbero fermati chi qua chi là. Navigava dopo aver fatto,
appunto, queste riflessioni; giunto alla distanza di cinque o sei stadi dal porto, si fermò e fece riposare gli uomini.
Come il giorno apparve, avanzò ed essi lo seguivano. E non permetteva né di affondare né di danneggiare alcuna
imbarcazione da trasporto con le sue navi; invece, se avessero visto da qualche parte una trireme ormeggiata,
potevano tentare di renderla inservibile, di condurre fuori dal porto, rimorchiandole, le navi da carico ricolme di
merci, di salire sulle imbarcazioni maggiori, dove potessero, e catturarne gli uomini. Vi furono alcuni marinai che,
balzati a terra e corsi al mercato, rapirono alcuni mercanti e proprietari di navi e li portarono sulle navi. Egli
aveva compiuto l'impresa. Quanto agli Ateniesi, gli uni, sentendo le grida, correvano fuori dalle loro case, per capire che cosa fosse quel frastuono, gli altri correvano dall'esterno all’interno delle loro case per prendere le armi,
gli altri correvano in città per annunciare l'accaduto. Tutti gli Ateniesi, allora, corsero in aiuto, opliti e cavalieri,
come se il Pireo fosse stato conquistato. Teleutia mandò le imbarcazioni commerciali ad Egina e ordinò che
fossero scortate da tre o quattro triremi; con le altre, costeggiando l'Attica, - navigava, ormai fuori dal portocatturò molte imbarcazioni, sia da pesca, sia traghetti pieni di uomini che giungevano dalle isole. Giunto al Sunio,
catturò anche imbarcazioni piene alcune di grano, altre anche di merci varie. Fatto ciò, ritornò ad Egina e,
venduto il bottino, anticipò ai soldati il salario di un mese. In seguito, navigando intorno all’isola, catturava ciò
che poteva. facendo ciò, manteneva le navi nell’abbondanza e rendeva i soldati ben disposti e pronti
all’obbedienza.
&LQDGRQH
[circa anno 399-398]
6HQRIRQWH (OOHQLFKH
,
III, 4-11.
Non era ancora passato un anno da quando Agesilao era re; mentre celebrava uno dei sacrifici previsti per la
salvezza della città, l'indovino disse che gli dei rivelavano una congiura delle più terribili. Agesilao compì un
secondo sacrificio; l'indovino disse che i presagi apparivano ancora più terribili. Dopo che il re ebbe sacrificato
per la terza volta, l'indovino disse: Agesilao, come se noi fossimo proprio in mezzo ai nemici, così a me giungono
i segni. Allora continuarono a sacrificare sia agli dei che allontanano i mali sia agli dei che salvano dai mali, e
smisero solo quando, con difficoltà, il sacrificio riuscì. Nel giro di cinque giorni dalla fine del sacrificio, un tale
denuncia agli efori una congiura e il promotore del fatto, Cinadone. 5.Costui era giovanile nell'aspetto e vigoroso
nell'animo; non, in verità, uno dei Pari. Gli efori chiesero come Cinadone gli aveva detto che la faccenda si
sarebbe svolta. Il denunciante disse che Cinadone, dopo averlo condotto all'estremità della piazza, gli aveva
ordinato di contare quanti Spartiati vi fossero nella piazza. E io - disse -, avendo contato un re e gli efori e gli
anziani e circa altri quaranta, chiesi: perché, Cinadone, mi hai ordinato di contarli? Cinadone rispose: considera
che questi ti sono nemici, tutti gli altri che si trovano nella piazza, più di quattromila, ti sono, invece, alleati. Disse
che Cinadone gli mostrava che, nelle strade, essi incontravano qui uno lì due nemici; invece, tutti gli altri, che
incontravano, erano loro alleati; e di quanti si trovavano nei possedimenti degli Spartiati, uno solo era loro
nemico, il padrone, molti i loro alleati in ciascuna proprietà.Gli efori chiesero quanti, secondo Cinadone, erano a
conoscenza del fatto; il delatore rispose che, a questo proposito, Cinadone diceva che non moltissimi uomini, ma
fidati, erano a conoscenza della cosa insieme con loro, i capi della congiura; essi, invero, affermavano di poter
contare sulla complicità di tutti, iloti, neodamodi, inferiori e perieci; quando, infatti, fra costoro cadeva il discorso
sugli Spartiati, nessuno poteva nascondere che se li sarebbe mangiati crudi proprio volentieri. 7. Gli efori
chiesero ancora: da dove dissero che avrebbero preso le armi ? Il delatore rispose che Cinadone avrebbe detto:
quelli di noi, che sono inquadrati nell'esercito, possiedono le proprie armi; quanto alla massa, disse che Cinadone,
avendolo condotto al mercato del ferro, gli aveva mostrato molti pugnali, molte spade, molti spiedi, molte scuri
ed asce, molte falci e aveva detto che erano armi anche tutti gli strumenti con cui gli uomini lavorano la terra, il
legno, la pietra e che la maggior parte delle altre arti posseggono arnesi che possono trasformarsi in armi
sufficienti soprattutto contro uomini disarmati. Di nuovo, alla domanda quando ciò sarebbe accaduto, il delatore
rispose che gli era stato ordinato di rimanere in città. 8. Dopo aver ascoltato ciò, gli efori ritennero che il
denunciante aveva descritto un piano ben preparato e se ne preoccuparono molto; senza aver nemmeno riunito
la così detta piccola assemblea, ma un eforo qui un eforo lì riunendo alcuni degli anziani, decisero di inviare
Cinadone ad Aulone con altri fra i più giovani e di ordinargli di ritornare con alcuni Auloniti e, degli iloti, quelli
indicati nella scitale. Gli ordinarono di condurre anche la donna, che aveva fama lì di essere bellissima e che
sembrava corrompere i Lacedemoni, anziani e giovani, che lì giungessero. 9. Cinadone aveva già svolto altri
incarichi simili per gli efori. Anche allora dettero a lui la scitale, nella quale stavano scritti i nomi di coloro che
dovevano essere arrestati. Chiedendo Cinadone quali giovani dovesse condurre con sé, gli efori risposero: “Va e
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ordina al più anziano degli ippagreti di far partire con te sei o sette di quelli per caso presenti.” Si erano già
preoccupati di far sapere all'ippagrete chi dovesse inviare e che i giovani inviati sapessero che bisognava arrestare
Cinadone. Dissero anche questo a Cinadone, che avrebbero inviato tre carri, affinchè non conducessero a piedi
gli arrestati, cercando di nascondere il più possibile che inviavano gli uomini contro uno solo, lui. 10. Non
vollero arrestarlo in città, non sapendo quanto fosse estesa la congiura e perché volevano sapere prima da
Cinadone chi fossero i complici, prima che essi si accorgessero di essere stati denunciati, per evitare che fuggissero. Gli uomini, incaricati di arrestarlo, avrebbero dovuto trattenerlo, informarsi sui complici, scriverne i
nomi e farli pervenire al più presto agli efori. I quali dettero tanta importanza alla faccenda da far partire persino
uno squadrone di cavalieri come rinforzo per gli uomini inviati ad Aulone. 11. Cinadone fu arrestato. Appena
giunse un cavaliere a portare i nomi di quelli che Cinadone aveva denunciato, gli efori facevano subito arrestare
l'indovino Tisameno e, degli altri, i più importanti. Cinadone fu riportato a Sparta e accusato: ammetteva tutto e
denunciava i complici; infine, gli chiesero a qual scopo lo avesse fatto. Egli rispose: per non essere inferiore a
nessuno a Sparta. Dopo, con le mani e il collo chiusi ormai nella gogna, mentre era flagellato e straziato,
Cinadone e i suoi complici furono portati in giro per la città. Ed essi ricevettero la punizione.
$ULVWRWHOH 3ROLWLFD
,
1306 b-1307 b.
Nelle aristocrazie le rivoluzioni scoppiano in taluni casi perché pochi partecipano agli onori e ciò, s'è detto, turba
pure le oligarchie, perché anche l'aristocrazia in certo senso è oligarchia (ed effettivamente in entrambe pochi
uomini stanno al governo, anche se non è per lo stesso motivo che sono pochi); comunque è per questo che
l'aristocrazia sembra un'oligarchia. La rivoluzione avviene di necessità soprattutto quando c'è una massa di
uomini altezzosi per la convinzione di essere uguali ai capi in virtù, come a Sparta i cosiddetti Parteni (in realtà
discendevano dai Pari) i quali, sorpresi a cospirare, furono mandati lontano a colonizzare Taranto; o quando
individui che pur sono grandi e a nessuno inferiori per virtù sono disprezzati da chi ha più alto ufficio, come
Lisandro dai re; oppure quando uno, pur essendo valoroso, non ha parte alcuna negli onori, come Cinadone che
sotto il regno di Agesilao ordì una congiura contro gli Spartiati; inoltre quando taluni sono troppo poveri e altri
troppo ricchi (questo capita soprattutto durante le guerre e successe pure a Sparta al tempo della guerra
messenica, come appare anche dal carme di Tirteo intitolato (XQRPLD , perché taluni ridotti dalla guerra a mal
partito esigevano una redistribuzione della terra); ancora se uno è grande e in grado di diventare ancora più
grande, per avere da solo il comando, come pare abbia fatto a Sparta Pausania che guidò l'esercito durante la
guerra persiana e a Cartagine Annone.
Me le politie e le aristocrazie si sfasciano soprattutto in seguito a deviazione da quello che è il giusto nella
costituzione stessa. Ne è inizio, nel caso della politia la non buona contemperanza di democrazia e di oligarchia,
nel caso dell'aristocrazia, di questi due elementi e della virtù, ma soprattutto di due, intendo cioè demo e
oligarchia: sono questi elementi che le politie e molte delle cosiddette aristocrazie tentano di contemperare. E in
questo effettivamente differiscono le aristocrazie dalle cosiddette politie ed è per questo che le une sono meno
stabili, le altre più stabili: le costituzioni che inclinano maggiormente verso l'oligarchia le chiamano aristocrazie,
quelle che inclinano verso la massa politie ed è per ciò che queste sono più sicure delle altre; in effetti il gruppo
più numeroso è più forte e sono piùcontenti gli uomini quando hanno sorte uguale, mentre quelli che si trovano
nel benessere, se la costituzione concede loro una superiorità, cercano di insolentire e di avere di più. In generale,
sia questa o quella la parte verso cui la costituzione inclina, trapassa in essa, se l'uno o l'altro gruppo rafforza la
propria consistenza, e così la politia si trasforma in democrazia e l'aristocrazia in oligarchia o negli opposti,
l'aristocrazia in democrazia (poiché i più indigenti, maltrattati, trascinano la costituzione in senso opposto) o le
politie in oligarchie (perché unico elemento di stabilità sono l'eguaglianza in rapporto al merito e l'avere ciascuno
quel che gli è dovuto). Quel che s'è detto è successo a Turi; siccome le cariche erano date in base a un censo
troppo alto, si passò a un censo più modesto e a un numero maggiore di uffici, ma poiché la terra era tutta
illegalmente in mano ai notabili (la costituzione, infatti, era troppo oligarchica sicché essi potevano possedere
sempre di più) il popolo esercitatosi in guerra sopraffece le guarnigioni, finché quelli che si trovavano ad avere
più del giusto rinunciarono alla terra. Inoltre, poiché tutte le costituzioni aristocratiche inclinano all'oligarchia, i
notabili accrescono di continuo le loro sostanze, per es. a Sparta i beni vanno in mano a pochi, quindi è lecito ai
notabili fare di preferenza quel che vogliono e imparentarsi con chi vogliono mediante matrimoni; e fu questa la
causa per cui la città di Locri cadde in rovina in seguito alla parentela contratta mediante matrimonio con Dionigi
- il che non sarebbe accaduto in una democrazia e neppure in un'aristocrazia bene temperata. Soprattutto le
aristocrazie si mutano inavvertitamente perché si dissolvono a poco a poco - e ciò è stato detto in precedenza in
maniera generale di tutte le costituzioni che anche una piccola cosa può essere causa di mutamento perché,
quando hanno gettato via uno degli elementi che appartiene alla costituzione, in seguito più facilmente ne sovvertono un altro un po' più grande, fino a sovvertire tutto il sistema. Anche questo accadde alla costituzione di Turi:
era legge che la carica di stratego si coprisse dopo un intervallo di cinque anni, ma alcuni giovani, diventati abili in
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guerra e acquistata grande reputazione presso il grosso delle guarnigioni, senza tenere conto alcuno delle autorità
e pensando di poter ottenere facilmente l'intento, misero mano dapprima a distruggere questa legge, in modo
che gli stessi uomini potessero coprire di continuo la carica di stratego, vedendo che il popolo avrebbe votato
con entusiasmo per la loro rielezione. I magistrati incaricati di questo, i cosiddetti «consiglieri», in un primo
tempo cercarono di opporsi, poi si lasciarono persuadere supponendo che quelli, modificata questa legge, non
avrebbero toccato il resto della costituzione; ma più tardi, volendo impedire altri mutamenti, non poterono far
più niente e tutto il sistema della costituzione si trasformò in un regime dinastico in mano ai rivoluzionari. Tutte
le costituzioni si sfasciano talora per una causa interna, talora per una causa esterna, quando nelle vicinanze c'è
uno stato con costituzione contraria oppure tale stato è lontano, ma potente. Il che successe agli Ateniesi e ai
Lacedemoni: infatti gli Ateniesi distrussero in ogni dove le oligarchie, i Laconi le democrazie. $JLGH
[Agide IV, della dinastia euripontide, salì al trono nel 244 a.C. e nell’arco di pochi anni, sostenuto dall’eforo Lisandro e dal
suo facoltoso zio Agesilao, riuscì a far approvare importanti riforme ispirate all’antica legislazione licurghea. Restò in carica
fino al 241 quando l’altro re, Leonida, acerrimo nemico delle sue riforme, e che Agide aveva fatto deporre e che era fuggito a
Tegea, riuscì a farlo condannare e giustiziare].
3OXWDUFR 9LWDGL$JLGH
,
, 3-7 (trad. C. Carena)
La moglie di Acrotato, che lasciò incinta quando morì, dette alla luce un bambino, il quale venne affidato in
tutela a Leonida, figlio di Cleomene. Ma l'erede morì in giovanissima età e il trono passò così a Leonida, per
quanto fosse assai malvisto dai cittadini. Sebbene infatti la corruzione della costituzione avesse portato a una
decadenza generale, la deviazione dai costumi dei padri era particolarmente evidente in Leonida. Egli era vissuto
a lungo nelle corti dei satrapi e al servizio di Seleuco; ora pretendeva di portare quello sfarzo, nelle pratiche
elleniche e in un governo costituzionale, dove erano fuori posto. 4. Agide invece, quanto a doti naturali e nobiltà
d'animo, sorpassava di molto non solo Leonida, ma forse tutti coloro che avevano regnato dopo il grande
Agesilao. Era cresciuto tra le ricchezze e le morbidezze di due donne, sua madre Agesistrata e sua nonna
Archidamia, che erano le più ricche proprietarie di Sparta. Eppure, non ancora ventenne, entrò in guerra contro i
piaceri. Si strappò di dosso quegli ornamenti che avrebbero dovuto, nell'opinione altrui, aggiunger grazia alla sua
persona; dimesso ogni sfarzo, si compiacque soltanto della sua mantellina spartana: seguendo anche nel cibo, nei
bagni, e in tutto il resto, l'antico costume laconico. Quanto poi al potere regio, diceva di desiderarlo solo nella
misura in cui gli avrebbe permesso di restaurare le leggi e i costumi della patria. 5. La corruzione e la malattia,
nella vita di Sparta, cominciarono poco dopo che, abbattuta la supremazia ateniese, la città si arricchì d'oro e
d'argento. Poiché tuttavia le proprietà continuavano a trasmettersi di padre in figlio, il numero delle famiglie
fissato da Licurgo restava immutato; e quest'ordine e parità, malgrado ogni altro errore, preservavano in qualche
modo lo Stato dalla rovina. Accadde però che divenisse eforo un certo Epitadeo, uomo potente, ostinato e
violento di carattere, che era entrato in discordia con suo figlio. Costui propose una legge per cui ciascuno poteva
donare mentre era vivo o lasciare dopo morto i propri beni di famiglia, mobili e immobili, a chi volesse. Questa
legge Epitadeo l'aveva introdotta per un risentimento personale; ma gli altri l'accettarono per cupidità, la
convalidarono, e distrussero così il migliore degli istituti civili. I più potenti tra i cittadini, ormai, potevano
acquistare senza più limiti, eliminando i legittimi eredi dalla successione; e infatti ben presto la ricchezza confluì
nelle mani di pochi. L'indigenza dominò allora la città, togliendo l'agio per attendere alle attività più nobili,
costringendo uomini liberi ad occupazioni indegne di loro, e suscitando animosa invidia verso gli abbienti. In
questo modo i discendenti delle antiche famiglie spartane si ridussero a non più di settecento, e di queste erano
forse un centinaio quelle che possedevano la terra e conservavano i diritti ad essa legati. Tutti gli altri, folla
diseredata e senza più cittadinanza, se ne stavano inerti, fiacchi e senza ardore nella difesa dai nemici esterni,
sempre spiando qualche occasione di mutare e sovvertire, le condizioni interne. 6. Agide stimò dunque che fosse
nobile compito, come infatti era, ricondurre all'originario stato di eguaglianza e integrità l'insieme dei cittadini, e
in questo senso volle saggiarne l'animo. I giovani gli dettero subito ascolto, al di là delle sue stesse speranze, e
seguendo il suo esempio si spogliarono in nome della virtù, deponendo per così dire, l'abito del lusso per quello
della libertà. Ma la maggior parte degli anziani, più avanzati nella corruzione, tremarono e inorridirono al nome di
Licurgo, come schiavi fuggitivi ricondotti al padrone. Si scagliarono perciò contro Agide, che deplorava quello
stato di cose e pretendeva di riportare Sparta all'antica dignità. Tuttavia Lisandro figlio di Libio, Mandroclida
figlio di Ecfane, come pure Agesilao, approvarono e sostennero l’onorevole intento del re. Lisandro era tenuto
nella massima stima dai suoi concittadini. Mandroclida, il più abile degli Elleni nel concertare un’impresa, era
dotato di sagace scaltrezza e d'audacia insieme. Agesilao, infine, zio del re da parte di madre, era un parlatore
formidabile, ma per il resto fiacco e dissipato; sicché, apparentemente, accettò di partecipare all'impresa in
seguito alle insistenze e all'incoraggiamento del figlio Ippomedonte, che s'era distinto come soldato in molte
guerre ed era molto potente per la simpatia che godeva tra i giovani; in realtà lo fece perché era carico di debiti e
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sperava di liberarsene grazie alla costituzione che sarebbe nata. Agide comunque, non appena ebbe lo zio dalla
sua, cercò attraverso di lui di persuadere la propria madre, che per la moltitudine dei suoi protetti, amici, debitori,
aveva grande influenza nella città e molta parte nei pubblici affari. 7. Agesistrata, udito il progetto, dapprima si
sgomentò, e cercò di dissuadere il giovane dal tentare cose che non le sembravano fattibili né profittevoli. Ma poi
Agesilao le dimostrò come l'impresa fosse perfettamente realizzabile e praticamente vantaggiosa. Lo stesso re,
allora, pregò la madre di porre i suoi beni a disposizione della sua ambizione e della sua gloria. Egli non poteva,
le disse, competere con gli altri re per ricchezza: ogni schiavo di satrapo, ogni servo dei soprintendenti di
Tolemeo e di Seleuco, possedeva più ricchezze da solo che non insieme i due re di Sparta; ma se sullo sfarzo di
quelli egli avesse potuto ottenere il vantaggio di una temperanza, di una semplicità, di una magnanimità, che
ristabilissero l'uguaglianza e l'unione tra i cittadini, allora avrebbe acquistato titolo e fama di re veramente grande.
&OHRPHQH
[Cleomene III, figlio dell’acerrimo nemico di Agide IV, Leonida, sposò per volontà del padre la vedova di Agide IV,
Agiatide, che contribuì ad influenzarne la politica. Fu re dal 235 al 219.Svolse una politica estera aggressiva, acquisendo a
Sparta diverse città del Pelopenneso e vincendo gli Achei in diverse battaglie. Dal 227 circa riprese i tentativi di riforma
‘licurghei’ di Agide rimettendo i debiti e mettendo in atto una redistribuzione delle terre. Dopo la sconfitta subita a Sellasia
nel 222 ad opera Antigono III Dosone su richiesta di Arato generale della Lega Achea]
3OXWDUFR 9LWDGL&OHRPHQH
,
7-13 (trad. C. Carena)
7. La nuova vittoria confermò Cleomene nei suoi alti disegni e nell'idea che, se avesse potuto ridurre nelle sue
mani tutti gli affari civili durante la guerra contro gli Achei, avrebbe potuto più facilmente imporre la propria
volontà. Cominciò dunque a persuadere il marito della madre, Megistonoo, che occorreva sbarazzarsi degli efori,
mettere in comune i beni dei cittadini, e risvegliare Sparta, incitandola, dopo averla così riportata all'uguaglianza,
a conquistare l’egemonia dell'Ellade. Megistonoo si convinse, e indusse a sua volta due o tre dei suoi amici ad
abbracciare la loro causa. Ora accadde che proprio in quei giorni uno degli efori, mentre dormiva nel tempio di
Pasifae, facesse uno strano sogno. Gli parve che nel luogo dove gli efori solevano deliberare, restasse un solo
seggio e gli altri quattro fossero stati portati via. Mentre guardava stupito, una voce uscì dal santuario e disse che
per Sparta era meglio così. Quando l'eforo gli raccontò questo sogno, Cleomene dapprima si turbò, credendo che
l'altro sospettasse qualcosa e volesse tentarlo; ma come si persuase che non mentiva, fu incoraggiato. Presi
dunque con sé quelli tra i cittadini che sospettava fossero i più avversi ai suoi disegni, occupò prima Erea e Alsea,
città arcadi che si erano schierate dalla parte degli Achei; poi entrò a Orcomeno, per rifornirla di viveri, e infine
pose il campo presso Mantinea. Di lì però intraprese una serie di lunghe marce su e giù, finché i Lacedemoni
furono esausti del tutto. Su loro stessa preghiera ne lasciò il grosso in Arcadia e con i soli mercenari prese la via
del ritorno. Lungo la strada, comunicò il suo piano a quelli che giudicava meglio disposti nei suoi riguardi, e
procedette lentamente, in modo da cogliere gli efori mentre erano a pranzo. 8. Come giunsero in vicinanza della
città, Cleomene mandò avanti Euriclida, affinchè si presentasse alla mensa degli efori dicendosi latore di un
messaggio che il re inviava dal fronte. Ma Tericione, Febide e due degli iloti che erano stati allevati insieme a
Cleomene (di quelli insomma che a Sparta chiamano "motaci"), seguirono di lì a poco con pochi soldati; e
mentre Euriclida era ancora lì a riferire il suo messaggio, si buttarono sugli efori con le daghe sguainate. Il primo
ad essere colpito, Agileo, appena trafitto, cadde subito a terra come morto. Ma più tardi, raccogliendo le forze, si
trascinò fuori della stanza e riuscì a infilarsi senza essere visto in un piccolo edificio, che era il santuario di 3KRERV.
Di solito questo era chiuso, ma capitò che proprio quella volta per caso fosse aperto; per cui Agileo, richiusasi
dietro la porticina, fu in salvo e al sicuro. I suoi quattro colleghi invece furono uccisi, e così anche coloro che
accorsero in aiuto, non più di dieci persone. Di quelli, però, che rimasero tranquilli non fu ucciso nessuno, né ad
alcuno che lo desiderasse fu impedito di lasciare la città. Lo stesso Agileo, quando il giorno dopo uscì dal
santuario, fu risparmiato. 9. I Lacedemoni hanno santuari non solo di 3KRERV (Paura) ma anche di 7KDQDWRV
(Morte), come pure di *HORV (Riso) e di altri sentimenti analoghi. 3KRERV, d'altra parte, non l'onorano come un
demone dannoso da tenere a bada, ma perché lo considerano essenziale al buon funzionamento dello stato. E
questa è anche la ragione di quell'usanza che riferisce Aristotele e per cui gli efori, entrando in carica, nell'invitare
i cittadini a rispettare le leggi per non incorrere nel loro rigore, ordinano a tutti di radersi i baffi: ciò fanno, io
penso, nell'intento di abituare i giovani ad ubbidire all'autorità anche nelle cose più minute. [...]
Cleomene, quando fu giorno, pubblicò una lista di ottanta cittadini che dovevano andare in esilio, e fece togliere i
seggi degli efori tranne uno, che riservò a se stesso. Convocata quindi l'assemblea, giustificò il suo operato
dinanzi al popolo. Licurgo, ricordò, aveva associato ai re il Consiglio degli Anziani, e per lungo tempo la città era
stata amministrata in questo modo senza bisogno di altra magistratura. Più tardi, però, per le proporzioni assunte
dalla guerra contro i Messeni, i re non ebbero più tempo che per le spedizioni militari, ed affidarono perciò
l'amministrazione della giustizia ad alcuni dei loro amici che scelsero e lasciarono in città al loro posto. Questi
vennero chiamati "efori", cioè "guardiani", e infatti da principio non erano che assistenti dei re. Ma a poco a
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poco, senza quasi che alcuno se ne accorgesse, trasferirono il potere a se stessi, finché stabilirono una loro
autorità personale. A prova di questo fatto Cleomene addusse l'usanza osservata dai re, quand'erano fatti
chiamare dagli efori, di non rispondere né alla prima né alla seconda chiamata, ma solo alla terza; e ricordò come
il primo individuo che aveva rafforzato ed esteso il potere degli efori, Asteropo, fosse vissuto molte generazioni
dopo Licurgo. Finché dunque gli efori s'erano mantenuti entro giusti limiti, disse, era stato meglio sopportarli; ma
ora che d'un potere usurpato s'erano valsi per sovvertire l'organizzazione tradizionale dello Stato, cacciar via
perfino dei re e ucciderli senza processo, minacciare quanti aspiravano a vedere restaurata in Sparta la sua
costituzione, che è la più bella e la più divina fra quante reggano una comunità umana, la cosa era divenuta
intollerabile. Magari poi, aggiunse, fosse stato possibile evitare ogni spargimento di sangue nel liberare Sparta
dalle infezioni che vi erano state introdotte dall'esterno: lusso, spreco, debiti, usura e, precorritori di tutti questi,
miseria e opulenza: si sarebbe stimato il più fortunato di tutti i re, se, come un bravo medico, avesse potuto
guarire la patria senza dolore. Ma la situazione era quella che era: per giustificarsi, nelle necessità in cui si trovava,
non poteva che richiamarsi all'esempio di Licurgo, il quale, allorché si mise a fare da re, lui che re non era e
neppure magistrato, ma un privato qualunque, irruppe in piazza con le armi, sì che, intimorito, il re Carillo andò a
rifugiarsi presso un altare. Vero è che quel re era un uomo onesto e un buon patriota, per cui accettò e anzi
assecondò le riforme di Licurgo; ma i provvedimenti che quest'ultimo aveva dovuto prendere dimostravano
egualmente quanto fosse difficile cambiar forma di governo senza ricorrere alla violenza e al terrore. Quanto a sé,
continuò Cleomene, egli aveva usato di questi mezzi con moderazione, limitandosi a togliere di mezzo quanti
s'opponevano alla salvezza della patria. Ciò che ora restava da fare era questo: mettere in comune tutte le terre
indistintamente; cancellare i debiti; procedere a un esame e a una scelta dei forestieri, tra i quali i più validi
sarebbero diventati cittadini di Sparta e avrebbero dato il loro contributo di soldati alla salvezza della città.
"Cesseremo cosi", concluse, "di vedere la Laconia fatta preda di Etoli e Illiri per mancanza di difensori."11.
Misero dunque in comune le proprietà, e il primo a farlo fu Cleomene, seguito dal patrigno Megistonoo, dai suoi
amici, e infine da tutti gli altri cittadini. La terra fu quindi divisa di nuovo tra tutti. Cleomene assegnò un lotto per
ciascuno, anche a coloro che lui stesso aveva mandato in esilio, promettendo che li avrebbe fatti rientrare quando
la situazione fosse tornata tranquilla. Quanto ai perieci più validi, coi quali era stato completato il numero dei
cittadini, ne fece quattromila opliti, e insegnò loro a usare invece dell'asta una picca da tenere con tutte e due le
mani, come pure a portare lo scudo con una cinghia invece che con la maniglia. Quindi si volse all'educazione dei
giovani e alla riorganizzazione dell'antica disciplina, la cosiddetta DJRJKp aiutato in ciò da Sfero64, che allora si
trovava a Sparta. In breve tempo venne restaurato l'appropriato ordinamento degli esercizi fisici e dei pasti in
comune; e tutti i cittadini, alcuni per forza, ma i più volentieri, si conformarono di nuovo al semplice e antico
regime spartano. Tuttavia Cleomene, per addolcire almeno nel nome ciò che di fatto era una monarchia, associò
al regno il proprio fratello Euclida; e fu questa la sola volta che capitò agli Spartani di avere due re della stessa
famiglia. 12. Nell'opinione di Arato e degli Achei tutte queste innovazioni avrebbero dovuto mettere in pericolo
la posizione di Cleomene a Sparta; per cui calcolavano che, finché il rivolgimento rendesse malferma la sua
posizione, non avrebbe abbandonato la città, tutta in subbuglio e in agitazione tanto grande. Come Cleomene lo
riseppe, pensò che sarebbe stato bello ed utile mostrare ai nemici l'entusiasmo del proprio esercito. Perciò invase
il territorio di Megalopoli, operando grandi saccheggi e devastazioni. Dopo di che, ingaggiata una compagnia di
attori e musicanti, che attraversavano il paese, provenienti da Messene, eresse un teatro in pieno territorio
nemico e indisse un concorso con quaranta mine di premio, a cui assistette in persona durante tutta una giornata.
Né certo lo fece perché sentisse il bisogno d'uno spettacolo, ma per schernire i nemici e mostrare loro, con tanto
disprezzo, come dominasse ampiamente la situazione. Tra tutti gli eserciti ellenici e macedoni, infatti, quello
spartano era il solo che non avesse normalmente al proprio seguito compagnie di mimi, giocolieri, danzatrici,
suonatrici d'arpa, e fosse insomma immune da ogni specie di oziosa buffoneria e licenza. La maggior parte del
tempo era invece occupata dall'istruzione militare, terminata la quale s'intrattenevano piacevolmente in scambi di
facezie spartane: divertimento quanto mai utile, di cui ho già scritto nella vita di Licurgo. 13. Per quanto riguarda
la continenza, del resto, lo stesso Cleomene era d'esempio e d'ammaestramento a tutti col suo modo di vivere
semplice, per niente diverso da quello della gente più modesta. E questo fatto l'avvantaggiava molto anche nei
rapporti con gli altri elleni che nei re non solevano tanto ammirare la sfarzosa opulenza, quanto piuttosto odiare
la sprezzante alterigia, l'astiosità e rudezza con cui trattavano chi si presentava a loro. Da Cleomene invece, che
pure era re non meno degli altri, la gente trovava un'accoglienza tutta diversa: non gli vedeva indosso manti di
porpora, né intorno un apparato di graziosi divani e lettighe; né era costretta a farsi strada a fatica attraverso una
64 Sfero di Boristene, filosofo stoico del III a.C. (nato intorno al 285 circa e vissuto almeno fino al 221), fu allievo di Zenone
di Cizio e poi di Cleante, autore poliedrico, scrisse opere su molti aspetti delle filosofia. E’ annoverato come amico e
consigliere di Cleomene III; cfr. Plu. Vita di Cleomene, 2: 6LGLFHG·DOWUDSDUWHFKH&OHRPHQHGDUDJD]]RIRVVHVWDWRDVFXRODGLILORVRILD
GD6IHURGL%RULVWHQH6IHURHUDXQRGHLSLQRWLGLVFHSROLGL=HQRQH&L]LHRHGHUDYHQXWRD6SDUWDLQWHUHVVDQGRVLPROWRGXUDQWHLOVRJJLRUQRGL
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folla di uscieri e segretari, o a presentare le sue richieste per iscritto. Lo vedeva invece arrivare vestito così come
si trovava, salutare affabilmente, e dedicare con liberalità il suo tempo a chi aveva bisogno di lui. Tutti perciò
restavano incantati, conquistati interamente, e sentenziavano che solo lui discendeva davvero da Eracle. Il suo
pasto quotidiano Cleomene lo prendeva in una sala a tre divani, ed era un pasto ristrettissimo, alla spartana. Se
tuttavia c'erano ambasciatori o altri ospiti forestieri, faceva aggiungere dagli inservienti un paio di divani e
arricchire un poco la tavola, non però di salse e manicaretti speciali, ma di cibo più abbondante e di vino più
generoso. Rimproverò anzi un suo amico che in un'occasione del genere aveva fatto servire il brodo nero e la
focaccia d'orzo, come s'usava nelle mense pubbliche: "Perché con i forestieri", disse, "non dobbiamo fare troppo
pedantemente, gli spartani, in queste cose". Levata via la tavola, veniva portato un tripode con un cratere di
bronzo, due tazze d'argento da due cotili, e qualche bicchiere pure d'argento: chi voleva, si serviva da sé, perché
nessuno porgeva il bicchiere a chi non ne aveva voglia. Musica non ce n'era, né se ne sentiva il bisogno, perché
era lo stesso Cleomene, con la sua conversazione, ad accompagnare sapientemente il simposio: ora interrogando,
ora narrando, ma sempre con una piacevole festevolezza, senza volgarità né gravosa pedanteria. Stimava infatti
che un re dovesse conquistarsi la gente con la familiarità del tratto, la franchezza e piacevolezza della
conversazione; e considerava disonesto e volgare quel modo che avevano gli altri di procurarsi gli amici,
adescandoli coi doni e corrompendoli col danaro, poiché gli amici, diceva, li si conquista col carattere, con la
conversazione: il danaro non serve che per gli adulatori, e qui sta la differenza tra gli uni e gli altri.
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