Il paradigma positivistico 49 Capitolo IV IL PARADIGMA POSITIVISTICO 1 - La reazione positivista e i suoi fondamenti scientifici; 2 - Il positivismo sociologista e la devianza come problema statistico; 3 - Il positivismo biologista; 4 - Il neopositivismo di H. Eysenck; 5 - Il positivismo genetico (G. Trasler); 6 - Le teorie psicologiche, psicodinamiche, psicopatologiche; 7 - I limiti del positivismo In rapporto alle dottrine classiche della criminologia illuministica, l’approccio positivista rappresenta un momento di rottura e una proposta alternativa: l’accento e l’attenzione vengono spostati sul crimine (non più sulla pena). Ma non è questo l’aspetto più significativo dei nuovi orientamenti di pensiero che si vanno affermando già fin dalla prima metà del sec. XIX. L’approccio positivista alla devianza si caratterizza piuttosto per un riferimento esplicito ad una ben diversa epistemologia scientifica: il positivismo come più recente manifestazione del pensiero e della tradizione empirista, si fonda su alcuni presupposti teorici carichi di conseguenze sia nel piano conoscitivo che su quello applicativo. Anzitutto la priorità logica e metodologica del “fatto” che si impone prima e al di là di ogni “significato” che gli si potrebbe attribuire; e poi, il determinismo causale, spesso portato agli estremi di un meccanismo cieco e incontrollabile; il tentativo di qualificare il fatto e di renderne conto obiettivamente in una sorta di neutralismo scientifico che esula da ogni valutazione; l’esclusione di qualsiasi conoscenza che esca dallo schema del più rigido empirismo. Di queste nuove tendenze è rappresentante tipica la “scuola criminologica italiana” (positivismo “biologista”), con il Lombroso. Ma essa ha avuto anche altri esponenti. 1. LA REAZIONE POSITIVISTA E I SUOI FONDAMENTI SCIENTIFICI Il positivismo non prende in considerazione la società e i processi da lei posti in opera che spiegano l’origine della devianza; ogni sistema sociale è dato per scontato, essendo giustificato e fondato dal consenso attuale della maggioranza. Suo scopo essenziale è quello di socializzare le singole persone mediante processi adattanti e conformizzanti da intendersi in senso piuttosto determinista. Il deviante è così definito come un non socializzato, che non va punito ma solo ricuperato mediante opportuna riconduzione al consenso. Anche la comprensione della devianza che rimane il centro dell’analisi positivista è portata avanti dalle varie correnti positiviste con ingenua fede scientista di venirne a capo facilmente e perciò di prescriverne le opportune contromisure. È per questo che l’establishment politico, la magistratura, la cultura del secolo XIX accettano volentieri le idee positiviste sulla devianza (pur essendo ancora su posizioni chiaramente classiciste o neoclassiciste per quanto riguarda la pena); il positivismo infatti scarica di responsabilità il sistema sociale per quanto attiene ai processi di produzione della devianza, attribuendone la ragione a determinismi sociali o individuali contro i quali è possibile solo un’azione correttiva e recuperativa. Allo stesso tempo riassicura i detentori del potere, affermando il carattere “eccezionale” della devianza e la possibilità di organizzare adeguate forme di pianificazione e di controllo sociale. 50 Il paradigma positivistico Da quanto abbiamo detto risulta anche che il deviante stesso è considerato dai positivisti (specialmente quelli della corrente biologista) come un “non responsabile” e perciò non punibile legalmente; al giudice si sostituisce l’esperto (sociologo, medico, biologo ecc.) che cerca di identificare i fattori che hanno provocato la devianza e di prescrivere la terapia. Di qui la particolare collocazione dello scienziato, che si colloca chiaramente dalla parte della maggioranza non deviante, di cui accetta implicitamente il sistema di valori e di cui diventa necessariamente organo di controllo sociale; nell’ottica particolare dello scientismo positivista questa situazione di effettivo servilismo viene però ampiamente giustificata dal ripetuto appello alla neutralità o avalutatività della scienza, incapace di giudicare dell’adeguatezza dei fini, ma chiamata a ristabilire o a creare il miglior rapporto possibile tra mezzi e fini. 2. IL POSITIVISMO SOCIOLOGISTA E LA DEVIANZA COME PROBLEMA STATISTICO Il superamento della teoria classicista viene operato in prima istanza dai tentativi di sottoporre la devianza ad analisi quantitativa. Quetelet1 (1835) matematico belga e Guerry2 (1863) avvocato francese, predisero una serie di osservazioni statistiche sulla criminalità in Inghilterra e in Francia fin dai primi decenni dell’Ottocento, traendone immediatamente l’impressione di sostanziale inadeguatezza dei dati a disposizione, ma intuendo la possibilità di stabilire una certa connessione tra condizioni sociali e comportamenti asociali. Su quest’ultimo punto va subito detto che i due ricercatori positivisti anticiparono, nel metodo e nella sostanza della ricerca, l’opera di E. Durkheim, fondata per altro su una più organica teoria sociologica. Le perplessità sulla utilizzazione dei dati statistici raccolti nasceva dal fatto che questi ultimi provenivano quasi esclusivamente da fonti ufficiali e che perciò erano inadatti ad esprimere correttamente non solo la quantità reale di devianza, ma anche la sua consistenza qualitativa, dal momento che rispecchiavano una definizione solo “legale” di devianza e rendevano conto solo della devianza caduta effettivamente sotto il controllo pubblico. Il dibattito che nasce dalla presa di coscienza di questa difficoltà provoca una certa divisione all’interno dello schieramento positivista. Una corrente “liberale” ritiene di poter utilizzare ugualmente le statistiche, a patto di apportare notevoli correzioni sia ai metodi di raccolta dei dati, sia alla loro interpretazione. Partendo dal presupposto che la codificazione legale è in certo senso un riflesso abbastanza fedele del consenso esistente sui valori della società, questi studiosi sono portati a riconoscere alle statistiche criminali un certo valore come indicatori di devianza; le variazioni da inserire nel lavoro di raccolta dei dati consistono soprattutto in verifiche sistematiche di affidare ad esperti, i quali dovrebbero controllare se effettivamente i crimini corrispondono a infrazioni del codice normativo ammesso da una maggioranza in una determinata società. Il problema è affrontato con maggiore incisività dalla corrente “radicale” che non si accontenta di parziali correzioni, ma tenta di costruire una propria fotografia statistica della devianza. Il proposito presuppone ovviamente un netto superamento della definizione “legale” di devianza e spinge alla ricerca di altri criteri definitori, nella prospettiva di approdare alla concezione di “crimine naturale”, di “devianza in sé”, di “devianza non legale”. Il positivismo sociologico ha fatto ricorso a diversi sistemi o criteri di catalogazione della devianza, riferendosi ad es. alla violazione di sentimenti umani fondamentali, alla violazione di un consenso più profondo di quello sociale, alla disfunzionalità della devianza rispetto ai bisogni reali o essenziali del sistema. L’operazione descritta sembra però cozzare contro gli stessi principi del positivismo, in quanto viene affermata almeno implicitamente una certa “natura” dell’uomo, delle sue tendenze, sentimenti o bisogni, in flagrante violazione delle convinzioni empiriste della scuola stessa. Solo molto più tardi sarà possibile affermare che la devianza è bensì violazione di una norma non necessariamente legata ad una codificazione legale ma che allo stesso tempo 1 cf. Adolphe QUETELET, Letters addressed to H.R.H. the Grand Duke of Saxe Coburg and Gotha, on the theory of probabilities, as applied to the moral and political sciences, London, C. & E. Layton, 1849, xvi + 309 p. 2 cf. A. M. GUERRY, Statistique morale de l’Angleterre comparée avec la statistique morale de la France, 1864. Il paradigma positivistico 51 essa non è infrazione di leggi metafisiche o naturali ma solo di codificazioni sostenute da un consenso sociale mutevole nel tempo e nello spazio. Di qui una evidente necessità di relativizzare la norma e di abbandonare, di conseguenza, il concetto di crimine o devianza “naturale”. Per quanto inconsistente, il tentativo di stabilire una definizione di statistica della devianza su basi non legali ha contribuito a demitizzare la devianza stessa, togliendole il carattere di immoralità che le derivava dall’essere considerata soprattutto infrazione di una legge fondata su un consenso morale indiscutibile. Inoltre la statistica applicata alla criminologia ha il merito di avere stabilito una serie di correlazioni micro e macrosociologiche che v’errano utilizzate in seguito in modo sempre più sistematico e significativo; al momento il tentativo viene però accantonato rapidamente per il sopravvenire di una nuova sensibilità all’interno della scuola positivista, che sposta l’accento sui fattori biologici che sembrano spiegare la devianza. 3. IL POSITIVISMO BIOLOGISTA La svolta verso una nuova impostazione del problema è stata dall’avvento del darwinismo, che apre un’epoca di grande sviluppo delle scienze mediche e biologiche nell’ambito del positivismo; alla nuova spiegazione della devianza si affideranno pienamente politici e magistrati, ancor più rassicurati circa il carattere non sociale ma individuale (e sempre in chiave deterministica) della devianza. 3.1 La scuola criminologica italiana Un gruppo di studiosi italiani, i cui esponenti più significativi sono Lombroso (1896), Garofalo (1885), Ferri (1900), assegna alla devianza alcune precise basi antropologiche. Il deviante sarebbe caratterizzato da alcune tendenze verso il delitto che sono inscritte nelle caratteristiche somatiche del soggetto. In altre parole i criminali sarebbero ‘criminali nati’, che portano nel loro “soma” alcune “stigmate” o anomalie visibili, che a loro volta sarebbero sintomi di atavismo e di degenerazione. Celebre è, in questa prospettiva, lo studio delle forme epilettiche come sintomo di degenerazione criminale. É C. Lombroso, studioso italiano di stretta osservanza darwiniana, che pone per la prima volta le premesse di una lettura medico-biologica del crimine. Partito da una base statistica approssimativa e dal presupposto assiomatico che il deviante sia dotato di una personalità “tipica” (1864), Lombroso afferma l’esistenza di un rapporto pressoché deterministico tra la tendenza a delinquere e ataviche condizioni di arretratezza biologica non superate e trasmesse di generazione in generazione3 (1876). Egli ne vede i sintomi o le “stigmate” in alcune anomalie fisiche (dentizione anomala, asimmetria facciale, difetti oculari o auricolari, deficit sessuali, insensibilità al dolore ecc.) ed è perciò propenso a considerare il carattere atavico della delinquenza come un caso di degenerazione dell’individuo. In ogni modo la devianza rimane espressione di un preciso determinismo biologico, anche quando Lombroso4 (1893, 1898) sotto l’influsso di E. Ferri, tende a specificare maggiormente la tipologia criminale (il tipo atavico, epilettico, pazzo, occasionale) e ad accettare il concomitante impatto di fattori ambientali. La teoria del “criminale nato”, termine con cui si designa il deviante studiato da Lombroso, non è però facilmente sostenibile: la base statistica su cui si fonda è del tutto inadeguata (vedi le inconsistenti quantificazioni delle “stigmate” in campioni di criminali e di “anarchici”), la teoria dell’atavismo è dal punto di vista biologico pressoché risibile, i sintomi di degenerazione sono spesso spiegabili con condizionamenti ambientali o con malattie non ataviche. Gli stessi sostenitori delle teorie lombrosiane si sono presto affrettati ad ampliare l’elenco dei fattori incidenti (sempre deterministicamente) 3 cf. Cesare LOMBROSO, L'uomo delinquente in rapporto all'antropologia, Torino, Fratelli Bocca, 1884, xxxv + 610 p. (1ª ed. 1876). 4 cf. Cesare LOMBROSO, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, Milano, Bocca 1915 (9C-1285). Il paradigma positivistico 52 sul comportamento deviante. E. Ferri, a diverse riprese5 (1881, 1883, 1878, 1925) ha sottolineato l’importanza delle cause fisiche (clima, natura del suolo, orografia, ecc.) distinguendo tra le cause antropologiche care alla tradizione lombrosiana non solo quelle risalenti alla costituzione organica o psichica ma anche i caratteri personali (sesso, età, ecc.). È di Ferri la proposta di costituire un nuovo “sistema di scienze criminologiche” di stampo positivista da denominare comtianamente “sociologia criminale” (1881); proposta avversata dagli idealisti crociani e gentiliani fieramente ma anche inutilmente, se si pensa che l’influsso di questo autore durò a lungo nella prassi penale italiana, fino agli anni ‘306. Il determinismo positivista di E. Ferri è ribadito dalla sua convinzione circa la non responsabilità morale e individuale del deviante unita alla ferma denuncia di responsabilità sociale e perciò di necessaria sanzione sociale, a cui vanno aggiunti in funzione preventiva i “sostituti penali” del crimine (cioè i rimedi atti a eliminare le cause). 3.2 Delinquenza come variabile dipendente da fattori biologici Alla corrente positivista possono esser ascritte tutta una serie di interpretazioni biologiche della delinquenza, che sono apparse in tempi diversi, ma in modo ricorrente, a dimostrazione del perdurante influsso positivista nell’affrontare il tema della delinquenza e devianza. a. La delinquenza come “fatto ereditario”. Gia presente in nella scuola criminologica italiana, successivamente vennero introdotti altri elementi di osservazione significativi : • secondo alcuni la predisposizione ereditaria è manifesta attraverso le caratteristiche fisiche dei soggetti (Glueck e Glueck, 1956; Sheldon, 1949; Bandura e Walters, 1963; Gibens, 1963). • secondo altri non ci sono evidenti correlazioni tra delinquenza. ed ereditarietà (Healy, 1934; Burt, 1925). • uno studio sui gemelli delinquenti sembra dimostrare che nella maggioranza dei casi essi lo sono ambedue, anche se esposti a processi di socializzazione differenziati (e dunque si avrebbe un indizio a favore dell’incidenza dell’ereditarietà; cfr.Lange, 1931). • nella maggior parte degli studi recenti (cfr. Scott, 1971) si tende a dire che la correlazione causa-effetto non è provata; in genere risulta facile esagerare l’influsso dei fattori biologici quando la delinquenza è già in atto, cioè a posteriori, ma non è possibile stabilire scientificamente una correlazione che possa valere come “previsione” del comportamento “a priori”. b. La delinquenza come effetto di uno “sviluppo anticipato” o “ritardato”. Difendono la prima delle due ipotesi alcuni studiosi come Healey e Bronner (1936), Mc Farlane, Allen e Honzik (1954). Difende la seconda Neumeyer (1949). Oggi la categoria “sviluppo” è intesa maggiormente in senso psicologico e non solo bio-fisiologico; d’altra parte si dà meno importanza alla pubertà come fattore di sconvolgimento del comportamento adolescenziale e se ne sottolineano di più gli aspetti derivati di tipo psicologico e sociale. c. La delinquenza come “effetto di anomalie cerebrali” Si sono fatte a questo proposito diversi studi su problemi specifici : 5 cf. Enrico FERRI, Sociologia criminale, (note a cura di Arturo Santoro), Torino, Unione TipograficoEditrice Torinese 1929 (9-C-838). Altre opere dell’autore: Socialismo e criminalità, Torino 1883; La teoria dell’imputabilità e la negazione del libero arbitrio, Firenze 1878; L’omicidio-suicidio, Torino 1925. 6 Ferri, in qualità di presidente della Commissione, diede un contributo significativo alla riforma del diritto penale italiano del 1921. Il paradigma positivistico 53 • La delinquenza viene da alcuni correlata con anomalie dell’attività elettrica del cervello (in particolare con fenomeni di epilessia o episodi epilettoidi: Hill e Watterson, 1942; Grey,1953; Michard, 1978). (Si parla anche di cerebropatia). • La delinquenza è correlata con anomalie della struttura del sistema nervoso centrale (SNC), direttamente (East, 1942; Levy, 1959 ; Mc Cord e Mc Cord, 1959, Pygott e Street, 1960; Prechtl, 1961) o indirettamente sotto l’impatto di fattori psichici, ambientali, ecc. (Bender, 1953; Grunberg e Pond, 1957; Harrington e Letemendia, 1958 ; Pond, 1961). • Elliott (1988) ha tentato una sintesi partendo dallo studio dell’instabilità psicomotoria, così ricorrente in molti ragazzi di oggi e ritenuta così spesso responsabile dell’insuccesso scolastico. L’obiettivo era di trovare una sorta di costellazione di fattori neurologici, che nel percorso evolutivo portava quasi necessariamente i soggetti verso carriere devianti. “Questi fattori neurologici vengono considerati determinanti nella spiegazione di alcune sindromi come il discontrollo episodico, il danno minimo cerebrale (DMC) e il disturbo della personalità antisociale, sindromi che sarebbero frequentemente associate a comportamenti violenti” (De Leo 1990, p. 26). La delinquenza come conseguenza della dominanza cerebrale Vi sono studi sui seguenti aspetti del problema: • sulla correlazione tra mancinismo e d.g. (Fitzugh, 1973; Andeew, 1978; Krynisky, 1978). • sulle carenze dell’emisfero sinistro (Gabrielli e Mednik, 1980) che dimostrano : a. che le carenze limitano l’abilità nell’uso delle capacità verbali, nel capire , o nel risolvere problemi. b. che le carenze sembrano importanti nello spiegare la delinquenza, ma il perché non è chiaro. La delinquenza come conseguenza dei traumi perinatali La correlazione resta altamente probabile in certi casi gravi, in cui la lesione cerebrale ha potuto influire sul corretto funzionamento delle attività psichiche di base, (cfr. Pasamanick, Rogers e Lilienfeld, 1956; Mc Cord, 1959; Brandon, 1960). La delinquenza come problema cromosomico Uno dei più recenti e sofisticati tentativi di interpretazione positivista-biologista del crimine (e per estensione della devianza) è quello che si rifà alla teoria cromosomica e più precisamente all’ipotesi del “cromosoma in più”. Si sa che il corredo cromosomico normale è indicato dalla formula XX per la donna e XY per l’uomo; ma molte ricerche hanno dimostrato la possibilità statistica di altri corredi cromosomici (in più e in meno di quelli “normali”). La combinazione XXY (tra i maschi) è stata trovata soprattutto tra soggetti di intelligenza bassa, colpiti da degenerazione dei testicoli durante l’adolescenza, e super-rappresentati tra i ricoverati in istituzioni per subnormali (sindrome di Klinefelter). Solo nel 1962 C. Brown7 ipotizzava una certa correlazione tra presenza di uno o più cromosomi Y e predisposizione alla delinquenza; Sheffield, Casey et alii (1966) trovarono che i soggetti aventi malattie mentali o sottoposti a misure carcerarie o sospetti di potenziale criminalità presentavano anormalità cromosomica (specialmente la costellazione XXYY) fino a due volte superiore a quella del campione con difetti normali e fino a 10 volte superiore a quella della popolazione normale. Inoltre essi avevano una statura superiore alla media. Anche gli studi di Price8 (1966, 1967) riguardanti la combinazione XYY sembravano isolare il cromosoma Y come fattore responsabile di una maggiore statura e, in più, dimostravano come i pazienti così caratterizzati tendevano ad avere sintomi di psico7 cf. Clinton C. BROWN - Charles SAVAGE (Edd.), The drug abuse controversy, Baltimore, Maryland, National Educational Consultants 1971 (Loc. 6-C-3266). 8 cf. Richard H. PRICE, Abnormal behavior, New York, Holt, Rinehart and Winston 1972 (Loc. 37-C-2556). 54 Il paradigma positivistico patie serie, ad essere incarcerati a più giovane età, a commettere crimini contro la proprietà più che contro la persona, a provenire da ambienti in cui non c’era chiara presenza di criminalità, non apparivano invece chiare correlazioni con la degenerazione genitale (in contrasto con la sindrome di Klinefelter) o con la debolezza mentale, o con la delinquenza in generale. In definitiva questi studi non hanno potuto stabilire una chiara correlazione tra corredo cromosomico abnorme e predisposizione alla criminalità se non in casi statisticamente quasi irrilevanti (ad es. nel caso di XXYY) e solo per i soggetti maschi; inoltre non hanno fornito spiegazioni soddisfacenti sui meccanismi che trasformano le differenze genetiche in differenze di comportamento. Si è anche osservato che i motivi per cui tra i carcerati si trovano soggetti XYY più numerosi che in una popolazione normale possono essere diversi; non ultima è che le caratteristiche fisiche e psichiche di questi soggetti li espongono ad un più intenso processo di etichettatura e stigmatizzazione e, quindi, alla esclusione o marginalità e al rischio di essere esposti maggiormente a comportamenti (o tentazioni) illegali o illegittime. In questo caso, come annotano Sarbin e Miller9 (1970), la stigmatizzazione dei soggetti XYY è causa formale della devianza che talora produce anche reale devianza o crimine (causa efficiente della devianza) e predispone, a causa degli aspetti esteriori dei soggetti, a maggior incriminazione da parte dell’autorità (causa formale del crimine). In altre parole «l’anormalità biologica è interpretata in modo tale che essa risalti nella persona stigmatizzata, che reagisce a chi è responsabile dell’interpretazione della sua normalità in modo deviante»10. Conclusioni Benché siano molto sfumate, le premesse del tipo biologico, somatologico, endocrinologico portano alla conclusione di una certa istintualità o ereditarietà del comportamento deviante, conclusione sulla quale sono state fatte molte riserve e precisazioni. • Va notato che non basta rilevare una correlazione statisticamente significativa tra due variabili per affermare senz’altro l’esistenza di un rapporto di causalità tra di loro; metodologicamente questa imprecisione è assai rilevante e si verifica anche in altri tipi di approccio, come si vedrà più avanti. • Inoltre la falsità del “post-hoc, ergo propter hoc”, è dimostrata empiricamente dall’emergere di larghe porzioni di popolazione aventi disturbi endocrini, malformazioni fisiche o strutture corporee tipiche e non per questo caratterizzabili come persone devianti. • Ciò che si può ritenere con una certa sicurezza è che certe malattie o malformazioni fisiche pongono il soggetto in una situazione di disagio in rapporto al proprio gruppo o alla società globale, che può sfociare in un vero disadattamento: la deviazione può sorgere allora come tentativo di reazione al pericolo di emarginazione cui i soggetti sono sottoposti. Come nota Leonardi (1967,199) le “malformazioni e le malattie sviluppano un certo tipo di atteggiamento della persona verso se stessa e una determinata maniera di concepire l’atteggiamento degli altri nei suoi confronti. Ciò induce ad eligere modelli di comportamento deviante”. • Se di causazione si può parlare, si tratta di una incidenza assai indiretta; infatti, ai fini dell’emarginazione e perciò della devianza stessa, sembrano essere gli atteggiamenti assunti dalla collettività di fronte alla malattia, al difetto fisico, alla malformazione. • In sintesi, su tutto questo problema, si può dire: 9 cf. Theodore R.SARBIN, Studies in behavior pathology, New York, Holt, Rinehart and Winston 1962 (Loc. 37-C-2574). 10 Ian TAYLOR - Paul WALTON - Jock YOUNG, The new criminology: for a social theory of deviance, London, Routledge Kegan Paul 1973, 46. (Loc. 20-B-1505). Il paradigma positivistico 55 1. il fattore bio-fisiologico da solo e direttamente non offre molte spiegazioni plausibili della delinquenza o è plausibile solo in alcuni casi particolari (meno del 5%: epilessia, tumori cerebrali, disturbi endocrini gravi ...). 2. insieme a quelli psicologici e micro-sociali questo fattore può dare qualche utile contributo alla comprensione dell’origine della delinquenza giovanile in casi più numerosi (si vedano ad esempio i casi in cui la spiegazione psicologica o psico-patologica può avere un supporto bio-fisiologico). 3. Il fattore bio-fisiologico può influire indirettamente in molti altri casi: disturbando i processi di socializzazione, creando frustrazioni (ad esempio in rapporto ad un handicap), abbassando il livello di autocontrollo e di stabilità psichica del soggetto, provocando marginalità, o ritardi nello sviluppo, o provocando isolamento (cfr. Michard, 1978). L’anormalità biologica ha dunque a che fare con la criminalità solo in modo indiretto; ciò che rimane da analizzare ulteriormente è invece l’insieme dei processi per cui da ipotetiche predisposizioni genetiche per il comportamento asociale si passa ad un’effettiva devianza. Questo è lo scopo dei più recenti tentativi ispirati alla teoria positivista. 3.3 Le tipologie psicosomatiche Con elaborazione metodologica più originale che non in Lombroso e Ferri il positivismo biologico è approfondito dagli studi tipologici bio-psico-somatici11 di Kretschner12 (1921), Sheldon (1940), Conrad (1963) e Gornig (1913). Essi tentano di assegnare a determinate strutture somato-psichiche il ruolo determinante nella causazione della devianza. La tipologia più usata è quella di Sheldon secondo cui si possono classificare 3 somatotipi a cui corrispondono tre temperamenti: l’endomorfo (tranquillo, amante del conforto, estroverso), il mesomorfo (aggressivo e attivo), l’ectomorfo (controllato ed introverso). Mentre per Kretschmer la struttura corporea è soprattutto correlata ad alcune malattie mentali per Sheldon è possibile affermare la connessione tra il somatotipo mesomorfo e la tendenza alla criminalità. Va notato tuttavia che specialmente per l’ultimo autore la devianza non è solo funzione del somatotipo, ma deriva dall’interazione tra quest’ultimo, il temperamento, la cultura. Osservazioni analoghe sono fatte da coloro che attribuiscono la devianza a disfunzioni di carattere endocrino, a malattie, a malformazioni congenite. Ricerche di Glueck e Glueck13 (1950 e 1956) sembrano aver dimostrato che la più alta percentuale di delinquenti si ritrova tra i mesomorfi e la più bassa tra gli ectomorfi. Risultati analoghi sono stati raggiunti più recentemente da Conrad (1963) che ha cercato di riallacciare le correlazioni tra struttura corporea e comportamento asociale alla intuizione originale della scuola criminologica italiana. Conrad infatti, dopo aver constatato che i bambini sono generalmente più mesomorfi e gli adulti più ectomorfi, rovescia i termini del problema proponendo l’ipotesi che i mesomorfi adulti possano considerarsi (psicologicamente) dei bambini e viceversa degli ectomorfi preadulti possono essere ritenuti psicologicamente adulti. Conrad arriva così a ritenere i mesomorfi come individui collocati su bassi livelli di “sviluppo ontogenetico” rispetto agli ectomorfi. Il parallelismo tra il concetto di “basso sviluppo ontogenetico” e quello di “atavismo” è abbastanza evidente, come anche annoterà più tardi Eysenck14 (1965); e perciò le 11 cf. Henry James, Bernard Shaw, Joseph Conrad, Anton Chekhov, Luigi Pirandello, Marcel Proust, Willa Cather, Thomas Mann, James Joyce, Chicago, Encyclopaedia Britannica 1990 [Loc. SL-5-C-33(59)]. 12 cf. Ernst KRETSCHMER, Hombres geniales, Barcelona, Labor 1954 (Loc. 37-C-943); Ernst KRETSCHMER, The psychology of men of genius, College Park, Md., McGrath Pub. Co., 1970, xx + 256 13 cf. Sheldon GLUECK - Eleonor GLUECK, Unrevealing juvenile delinquency, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1950; Sheldon GLUECK - Eleonor GLUECK, Dal fanciullo al delinquente, Firenze, Editrice Universitaria, 1957 ( 37-B-1313 e 6-B-7364). 14 cf. Hans Jürgen EYSENCK, Smoking, health, and personality, New York, Basic Books 1965, 166 p.; EYSENCK Hans Jürgen, Crime and personality, London, Routledge Kegan Paul 1964 (37-B-1789). 56 Il paradigma positivistico stesse critiche che si possono fare all’analisi Lombrosiana vengono qui ripetute nonostante una migliore accuratezza dell’osservazione statistica di base. Le tipologie corporeo-temperamentali inoltre denotano un’ampia dimenticanza dell’impatto esercitato sulle strutture somatiche dei fattori ambientali e sembrano porre tra parentesi il pericolo di una certa circolarità dell’argomentazione15. Analoghe considerazioni meritano gli studi di Goring16 (1913) che per altro si limitano a parlare dell’esistenza di una “diatesi” criminale, cioè, di un più generico quadro ereditario di predisposizioni alla devianza criminale. 4. IL NEOPOSITIVISMO PSICOLOGISTA DI H. EYSENCK La forma più recente di positivismo applicata al problema della devianza si trova nell’opera di H. Eysenck17, il quale per altro ha sviluppato il proprio pensiero anche sulla scorta degli apporti behavioristi. I punti essenziali di questa raffinata interpretazione della devianza sono contenuti nella concezione dell’uomo e della società che derivano dalla tradizione empirista. Per Eysenck l’uomo è, da un punto di vista motivazionale, nient’altro che un fascio di desideri individuali, perciò pre-sociali, che consistono essenzialmente nella spinta a ricercare il piacere o ad evitare il dolore. L’attività psichica fondamentale consiste perciò, in definitiva, nei tentativi di soddisfare queste motivazioni radicali, cui si oppongono però in modo drastico le esigenze del sistema sociale che non può permettere sempre la soddisfazione di tutti i desideri individuali, pena la “guerra di tutti contro tutti”. In concreto l’attività psichica umana resta distribuita in modo variabile entro due modalità di comportamento: l’apprendimento e il condizionamento. Il primo è basato sulla diretta ricerca del piacere attraverso un meccanismo di tentativi ed errori governato dalla “legge dell’effetto”, secondo cui il successo si trasforma necessariamente in un “rinforzo positivo”, e l’insuccesso in un “rinforzo negativo”. A questo meccanismo è legato il sistema nervoso centrale che ne sottolinea così non tanto l’automaticità quanto l’intenzionalità. Inoltre si deve aggiungere che nella concezione di Eysenck il sistema dei rinforzi è condizionato dalla maggiore o minore vicinanza delle ricompense o delle punizioni; in altre parole il rinforzo positivo o negativo si provoca quanto più immediatamente viene applicato il premio o il castigo e viceversa. D’altra parte bisogna tener conto dell’apprendimento che avviene per via di condizionamento; il caso si verifica quando ad un’attività piacevole viene associata un’esperienza spiacevole cioè una punizione. A lungo andare la ripetizione di questa associazione produce un riflesso, cioè, lo stimolo o segnale dell’ipotetica attività piacevole produce automaticamente, per contiguità, una sensazione spiacevole che funziona da meccanismo di controllo o come dice lo stesso Eysenck, da “poliziotto interiore”. Questo processo risiede nel sistema nervoso autonomo ed è perciò automatico nella sua origine e nel suo sviluppo. Il modello or ora esposto merita qualche ulteriore considerazione esplicativa. Per Eysenck l’attività volontaria e razionale dell’uomo riguarda unicamente la soddisfazione dei desideri; essere razionali significa riconoscere la natura biologica delle pulsioni, non formulate dall’uomo né da lui elaborabili. «La ragione è la sede dell’impulso al piacere, come una specie di marchingegno che tende a massimizzare le soddisfazioni immediate e a minimizzare il dolore»18. Al contrario la “coscienza” riveste i caratteri di 15 In realtà lo studio della correlazione mesomorfismo-devianza è stato condotto, a posteriori, solo su soggetti istituzionalizzati-carcerati e simili e non su ampie basi statistiche. 16 cf. Charles Buckman GORING, The English convict. A statistical study, Montclair, N.J., Patterson Smith, 1972, xx + 528 p. 17 cf. Hans Jürgen EYSENCK, Crime and personality, London, Routledge Kegan Paul 1964 (37-B-1789); Hans Jürgen EYSENCK, Smoking, health, and personality, New York, Basic Books 1965, p. 166. 18 Ian TAYLOR - Paul WALTON - Jock YOUNG, The new criminology: for a social theory of deviance, London, Routledge Kegan Paul 1973, p. 49 (Loc. 20-B-1505). Il paradigma positivistico 57 un riflesso passivo che si limita a registrare e a controllare gli impulsi edonistici per mezzo di sensazioni spiacevoli automatiche. Si tratta, ovviamente, di un modello di chiara derivazione darwiniana che lascia aperti molti interrogativi, non ultimi quelli riguardanti l’origine e la legittimazione delle restrizioni che stanno alla base della coscienza (e che giustificano il condizionamento). Su questi problemi aperti torneremo in seguito, per ora ci limitiamo a dire che essi pregiudicano direttamente il significato del concetto di devianza che ne deriva. Per Eysenck la devianza si verifica sostanzialmente per mancanza di adeguato condizionamento: il deviante è un asociale che non ha interiorizzato un sufficiente controllo sulle proprie motivazioni edonistiche. E ciò sembra dipendere in definitiva da due variabili: da una maggiore o minore sensibilità del sistema nervoso autonomo e dalla qualità del condizionamento ricevuto in famiglia dal soggetto nella prima età. È sulla prima variabile che Eysenck ha fornito una serie di studi collocabili soprattutto nel campo della psicologia sociale; la sensibilità in soggetto è per Eysenck una dimensione temperamentale e perciò innata, che si può misurare mediante la bipolarità estroversione-introversione. Gli introversi si caratterizzano infatti come soggetti dai riflessi facili a formarsi e difficili a estinguersi, mentre gli estroversi al contrario difficilmente si lasciano condizionare e facilmente estinguono i riflessi già formati. Stabilita così la correlazione tra estroversione e propensione alla asocialità, il problema delle origini della devianza viene riportato alle sue dimensioni positiviste: la devianza ha una sua radice biologica, temperamentale, sia pure non direttamente automatica in quanto la correlazione è mediata dal condizionamento familiare. La spiegazione della devianza data da Eysenck lascia insoluti aspetti del problema; e non è neppure immune da notevoli contraddizioni. Una prima considerazione va fatta obbligatoriamente sul significato delle restrizioni sociali che costituiscono in qualche modo la “norma” del comportamento umano: ci si chiede chi e perché decide che un comportamento umano debba essere perseguito (o rinforzato positivamente) oppure respinto (o rinforzato negativamente). Una prima risposta di Eysenck tende a modificare il tradizionale impianto positivista che vedeva nella devianza una violazione di imperativi biologici, di necessità ataviche della specie. È invece la necessità di sopravvivenza della società che dà origine alle restrizioni; e si tratta di un imperativo non legato al determinismo biologico, ma relativo alle variabili spazio-temporali. Per Eysenck i bisogni “reali” della società vanno identificati all’interno delle condizioni attuali di funzionamento di una società complessa e contraddittoria come la nostra; in definitiva gli imperativi sono prescritti dalle stesse esigenze della scienza e della tecnica. Ma a questo punto l’approccio positivista si imbatte in una difficoltà insuperabile; le restrizioni o le norme sono considerate infatti come un riflesso speculare di ciò che la società “è”; la realtà di fatto è trasformata in principio deontologico. L’identità tra essere e dover essere vanifica però la possibilità di ogni cambio sociale (che viceversa è ostensibilmente in atto). Allo stesso tempo non si riesce più a spiegare la devianza stessa che è un evidente tentativo di innovazione rispetto ai valori esistenti. Infatti la devianza sembra suggerire che il comportamento umano non obbedisca solo e sempre alle regole ferree dell’apprendimento e del condizionamento, cioè, all’esigenza di ridurre la tensione, ricercare la soddisfazione, evitare la frustrazione, ma anche ad altre motivazioni che esprimono bisogni creativi, esplorativi, innovativi. L’analisi degli imperativi funzionali della società (almeno così come è immaginata da Eysenck) non è in grado di mettere in evidenza il “nuovo” possibile; né la teoria del rinforzo è in grado di dirci come e perché possano essere remunerate positivamente azioni che tendono a violare, superandolo, l’ordine già esistente. Per Eysenck in definitiva l’interazione tra potenziale biologico e stimoli sociali che potrebbe spiegare la devianza si riduce a ben poco: l’interazione è un fatto puramente aggiuntivo in quanto la spiegazione della devianza è tutta ancora racchiusa nella struttura biopsicologica dell’individuo. Al limite essa si presenta come sociologicamente incomprensibile; è patologia di un individuo isolato, sottratto al consenso monolitico del sistema a causa di scarsa socializzazione o condizionamento. Anche quest’ultima annotazione appare pe- 58 Il paradigma positivistico rò contraddittoria; da una parte Eysenck sembra affermare che il deviante è caratterizzato dalla assenza di valori sociali, dall’altra le caratteristiche dell’estroverso (potenziale deviante) indicano una notevole capacità di elaborare valori o modelli alternativi; ciò risulta chiaramente dalla somiglianza esistente tra i comportamenti della dimensione bipolare estroverso / introverso e i valori “sotterranei e formali” di cui parlano Matza e Sykes19 (1961). In realtà il deviante non è sempre un asociale in senso stretto; ma piuttosto è un individuo socializzato a valori diversi o minoritari; il problema sarà molto più adeguatamente affrontato dalle teorie dell’anomia e della subcultura, che però hanno abbandonato le premesse del positivismo bio-psicologico a cui si aggancia il pensiero di Eysenck. Le critiche, spesso radicali, a cui è stato sottoposto questo approccio non riguardano solo la contestazione di qualche “fatto” che non risulta tale (cfr. Hoghughi e Forrest, 1970; o Little, 1963), ma si riferiscono più specificamente al metodo di ricerca adottato (Cfr. Christie 1956), al riduzionismo psicologico e fisiologico, alla incapacità di costruire una vera scienza sociale a causa del fattualismo positivista che non ricerca i “significati” dei comportamenti20 (Cfr. Taylor, et alii, 1973, 60-61). In fondo si può dire che a grandi linee il pensiero di Eysenck riproduce, a più di un secolo di distanza, le metodologie e gli assiomi della “fisica sociale” comtiana e perciò è sottoponibile alla stessa critica di cui quella è stata oggetto. 5. IL POSITIVISMO GENETICO DI G. TRASLER In un periodo più recente le idee di H. Eysenck sono state riprese e anche in parte elaborate da G. Trasler21, che è apparso a molti come un opportuno correttore dell’eccessivo biologismo di Eysenck stesso. In realtà la maggior novità di G. Trasler consiste in una rivalutazione esplicita del ruolo determinante svolto dalle tecniche di allevamento ed educazione dei bambini nel processo di condizionamento - socializzazione. Al pari di Eysenck distingue tra abilità differenziale a essere condizionati (misurabile in termini di estra-introversione e ricevuta per eredità genetica) e abilità differenziale a condizionare (misurabile dall’efficienza delle pratiche di socializzazione). A queste due variabili egli ne aggiunge una terza, che chiama in questione la classe sociale di appartenenza; le tecniche di socializzazione si differenziano infatti sulla base della diversa collocazione delle famiglie nel sistema di stratificazione. Secondo Trasler le classe medie sono in grado di esercitare un condizionamento qualitativamente più efficace, perché ricorrono a tecniche di socializzazione che fanno uso della “negazione dell’amore” come deterrente nei riguardi dei bambini e in più fondano le regole disciplinari su principi chiari e ben definiti. Al contrario le classi inferiori si affidano a pratiche più permissive, disorganiche, punitive, immotivate e di qui nasce una maggior concentrazione di criminalità o devianza in esse. Stabilendo infine che il livello di estroversione è statisticamente simile o uguale nelle diverse classi sociali, Trasler ne trae la conseguenza che i devianti sono presumibilmente da cercarsi (o da prevedersi) tra gli estroversi di classe sociale inferiore. Le affermazioni di G. Trasler rappresentano certamente uno sviluppo innovativo del pensiero positivista; in opposizione alla precedente convinzione circa la possibilità di far interiorizzare singole restrizioni per condizionamento, egli suggerisce l’importanza e l’efficacia di un apprendimento complessivo di principi morali generali. Inoltre fornisce ancora una volta una legittimazione “scientifica” a quanti credono nell’importanza di un’azione preventiva della devianza (specie del crimine), sulla base 19 cf. David MATZA - G. M. SYKES, Juvenile Delinquency and subterranean values, in "American Sociological Review", n. 5, 26 (1961) 712-719 (Loc. SL-II-867). 20 cf. Ian TAYLOR - Paul WALTON - Jock YOUNG, The new criminology...,op. cit., p. 60-61. 21 cf. Gordon TRASLER, The shaping of social behavioour: an inaugural lecture, delivered at the University on 6th December 1966, Southampton, Southampton University, 1967, 22 p.; Gordon TRASLER, The Formative years. How children become members of their society (a cura di David Edge), New York, Schocken Books [1970, c1968)], p. 72. Il paradigma positivistico 59 di condizionamenti precoci che consistono soprattutto in una manipolazione dell’affettività infantile, contravvenendo alle convinzioni di larghi strati di educatori ed esperti che praticano una socializzazione più permissiva, libera e stimolante. In più egli ribadisce, con argomentazione in parte originale e in parte ripetitiva, l’importanza della famiglia come agenzia di socializzazione preventiva in funzione anti-devianza. Fin qui l’esposizione succinta del pensiero di G. Trasler. Gli appunti critici che gli si possono fare riproducono in parte quelli già fatti a H. Eysenck: primo fra tutti l’impossibilità di salvare il difficile equilibrio tra potenziale biologico e qualità del condizionamento, se è vero che per Trasler stesso il livello di condizionabilità ereditato e fissato entro il sistema nervoso autonomo è costante, non modificabile da successivi stimoli all’apprendimento (il che sembra contrastare con altri dati della psicologia fisiologica; cfr. Hebb22). Più in generale poi si chiede a Trasler di chiarire l’origine e il significato dei differenti stili o principi morali che presiedono alle diverse forme di socializzazione infantile nelle singole classi sociali, dati per scontati e non interpretati alla luce di più ampi riferimenti strutturali e culturali. La differenza di stili non è infatti solo questione di modalità ma anche di contenuti, se è vero (come annotano alcuni critici che anticipano le teorie della subcultura deviante23; cfr. Mas, Kerr, Jephcott, Carter, Morris) che la socializzazione delle classi lavoratrici è centrata attorno a valori diversi, alternativi. In altre parole l’eventuale concentrazione di devianza criminale nelle classi lavoratrici non sarebbe da attribuirsi ad una minor capacità di condizionamento dei suoi processi di socializzazione (come vorrebbe Trasler), ma al fatto che tali classi inculcano ai propri membri un quadro di valori considerato deviante dalle classi medie. In fondo come annota Trasler, (o.c., 64)( la distinzione tra diversi stili di socializzazione non è che un mezzo per giustificare sottilmente lo status quo e la superiorità morale della classe media. 6. LE TEORIE PSICOLOGICHE, PSICODINAMICHE, PSICO-PATOLOGICHE A questo capitolo associamo anche alcune delle principali teorie che fanno riferimento ai criteri interpretativi propri della psicologia. Nei primi nove punti vengono riportate le teorie di tipo psico-dinamico, mentre nei successivi vengono descritte due teorie comportamentiste. 6.1 Il delinquente per “senso di colpa” A questa teoria si rifanno soprattutto Freud (1916), Reik (1925), ed altri minori. Secondo Freud, il “senso di colpa” è antecedente e non conseguente al reato ; il “senso di colpa” viene originato nel quadro del “Complesso di Edipo”, che produce o risveglia due tendenze inconsce criminose nel bambino: quella di uccidere il padre e quella di avere rapporti incestuosi con la madre. Il reato attuale avrebbe la funzione di alleviare il senso di colpa connesso ai due crimini commessi (anche solo intenzionalmente e simbolicamente: per la psicoanalisi a livello inconscio la differenza tra realtà e fantasia non è molto marcata e significativa). Si hanno riscontri della teoria nei comportamenti dei bambini (di certi bambini) che diventano cattivi per provocare la punizione e poi tranquillizzarsi; ma anche negli adulti vi sono comportamenti analoghi (il bisogno di trasgredire per liberarsi dal peso di una colpa psicologica inconscia). 22 cf. Donald Olding HEB, A textbook of psychology, 3d ed., Philadelphia, Saunders 1972, xiv + 326. 23 cf. John Barron MAYS (Ed.), The social treatment of young offenders, London, Longman 1975 (Loc. 20B-1516); Robert S. BARON - Norbert L. KERR - Norman MILLER, Group process, group decision, group action, Pacific Grove, California Brooks-Cole 1992 (Loc. 37-C-5073); Pearl JEPHCOTT, Some young people, London, Allen and Unwin 1954 (Loc. 6-C-3006); Morris ROSENBERG - Ralph H. TURNER Carl W. BACKMAN, Social psychology, New York, Basic Books 1981 (Loc. 37-C-1750). 60 Il paradigma positivistico Reik aggiunge che lo stimolo a trasgredire è dato dal bisogno di una pena che abbia funzione di tipo abreante (abbassamento dello stress accumulato per l’eccesso di problematiche rimosse). Inoltre egli nota che vi sono molti soggetti che sentono forti impulsi a “farsi scoprire”, anche attraverso “lapsus” apparentemente involontari; il lasciare tracce o prove del reato equivale infatti a manifestare chiaramente il bisogno di subire una punizione. Sul piano operativo si deve sottolineare con Reik che per certe persone la previsione della pena non funziona affatto da “deterrente” ma al contrario funziona da attrazione convincente a commettere reati. Ciò vale soprattutto per chi ha forti sensi di colpa inconsci. 6.2 Il delinquente per “eccessiva severità del superego” E’ soprattutto M. 1927,1932,1933,1935). Klein che ha sviluppato questa teoria (Klein, Non è la mancanza di interiorizzazione della norma che può provocare effetti delinquenziali nel bambino e poi nell’adolescente, è invece l’interiorizzazione di un superego eccessivamente severo. Il vissuto fantasmatico del bambino secondo la Klein rivela due tendenze “criminali” : la percezione dei propri genitori come aggressivi nei suoi riguardi e l’impulso a essere aggressivo nei riguardi loro, anche se ne teme le reazioni. Si instaura così uno schema circolare che tende a rinforzare gli atteggiamenti delinquenziali. Il bambino aspettandosi di essere aggredito si sente costretto a essere attivo e a farsi punire (convincendosi così che il superego parentale è effettivamente cattivo). Ciò funziona soprattutto quando egli ha dei riscontri esterni che confermano le sue fantasie (quando cioè i genitori sono realmente severi). Da questa struttura infantile, relazionata alle immagini parentali, si originerebbero le altre reazioni sintomatiche di tipo delinquenziale ogni volta che il soggetto viene a contatto con esperienze che gli confermano la severità del superego (a livello micro e macro-sociale). 6.3 Il delinquente per “lacune del superego” Questo aspetto del problema è stato sviluppato soprattutto da Johnson e Szurek (1949 e 1952) e da Greenacre (1945). E’ una teoria che si applica solo ad alcune forme di d.g. in cui si nota l’incapacità di frenare l’impulso aggressivo e di rinviare l’azione o la gratificazione. Non si tratta per altro di “carenze generalizzate” del superego, ma di “lacune”, cioè di aree particolari del superego in cui la strutturazione è insufficiente. In genere sono lacune presenti già in uno o in entrambi i genitori, nella forma di impulsi antisociali, non integrati nel loro personale superego. I genitori, in questi casi, spingerebbero i propri figli a realizzare comportamenti che in modo sostitutivo o vicario soddisfano le attese non realizzate dei genitori. In altre parole tali genitori spingono i figli a fare ciò che essi non sono stati capaci o non hanno voluto realizzare, perché socialmente inaccettabile. I modi con cui l’atteggiamento dei genitori si manifesta sarebbero soprattutto due : la permissività, e, allo stesso tempo, l’assenza di controllo nei riguardi del figlio (gli dimostrano chiaramente di non avere stima di lui e di aspettarsi da lui ogni sorta di comportamento negativo ; proiettano su di lui l’immagine o la parte cattiva di sé, desiderando che essa si manifesti anche esteriormente). Il paradigma positivistico 61 6.4 Il delinquente per “superego carente, non sviluppato” La teoria è stata sviluppata soprattutto da Friedlander (1945, 1947, 1949). La sindrome di questo tipo di comportamento è data dal dominio persistente del principio del piacere e contemporaneamente dalla presenza di un Superego non sufficientemente sviluppato e/o interiorizzato. Il soggetto pertanto non è in grado di sospendere o rinviare la soddisfazione degli impulsi o a canalizzarli e/o sublimarli. La causa di tutto ciò va ricercata nell’incoerenza dei genitori nei riguardi delle tendenze impulsive del bambino : disciplina carente, eccesso di indulgenza, ecc., alternati a frustrazioni , cioè a punizioni eccessive. La teoria di Friedlander si incontra su molti punti con quella di Bettelheim e Sylvester (1950) che hanno sottolineato a loro volta l’inversione dei ruoli tra genitori come causa di interiorizzazione di un superego carente. 6.5 Il delinquente per “superego criminale” A differenza delle teorie precedenti questa interpretazione si avvicina notevolmente alle interpretazioni fornite dalla scuola sociologica di Chicago (nei suoi ultimi rappresentanti : Sutherland, Shaw Mc Kay, Kobrin, ecc.). Alexander e Staub (1948, t. it.) che ne sono i rappresentanti più conosciuti, affermano che i delinquenti hanno assorbito un superego delinquente in un quadro socio-culturale in cui è presente (e vincente) una subcultura criminale o deviante. Pertanto non è importante la modalità di formazione del superego, che per gli autori non presenterebbe nessuna anomalia psicologica, ma il contenuto del superego ; i delinquenti non sarebbero pertanto né dei nevrotici, né degli psicotici, ma semplicemente dei “normali”, con un contenuto diverso del superego interiorizzato. 6.6 Il delinquente per superego “diviso” Difendono questa posizione soprattutto Betlheim e Sylvester (1950). Gli autori affermano che certi bambini imparano dai genitori codici morali contraddittori. Ciò avviene sotto due fattispecie : • si afferma in linea di principio una morale molto esigente e si accetta il compromesso in linea di fatto. • la madre sostiene una morale rigida e allo stesso tempo appare come incapace di gestire le funzioni espressive all’interno della famiglia, è meno gratificante a livello emozionale e affettivo di quanto lo sia il padre; il quale, a sua volta, appare più permissivo in morale e più capace di offrire gratificazioni emotivo-affettive. Si instaura così un’alleanza tra padre e figlio contro la madre: si crea cioè un’omertà che porta a fingere un atteggiamento esigente, mentre nascostamente si agisce in modo incoerente e lassista. In altre parole il minore interiorizza un superego conflittuale e sceglie il modello più debole e più facile. Si notano inoltre grosse difficoltà di identificazione con le figure parentali, proprio a causa dell’inversione dei ruoli affettivo-emotivi nei genitori. 6.7 Il delinquente per uso di “meccanismi di difesa” Ne sono stati studiati alcuni, i più rilevanti: A) Rose (1960) ha analizzato l’acting-out, che consiste in un conflitto psichico mediante un’azione concreta, invece di verbalizzarlo a livello reale o simbolico. All’origine di questa problematica vi sono traumi di diversa natura, rimossi o in qualche modo irrisolti. 62 Il paradigma positivistico Il soggetto si trova indifeso di fronte a episodi che gli richiamano i suoi traumi; vanno in crisi le sue difese nevrotiche. Reagisce mediante un “acting-out” per evitare il crollo delle sue fragili difese patologiche, che del resto sono le uniche di cui sia capace. Condividono questa analisi anche Ilg e Ames (1955) e Blos (1961). B) Alexander e Staub (1948) individuano presso delinquenti nevrotici i meccanismi della proiezione e della razionalizzazione . Il primo consiste sostanzialmente nell’attribuire ad altri colpe inesistenti per creare un alibi alla soddisfazione dei propri impulsi inaccettabili. Ad esempio il marito adultero incolpa la moglie per essere giustificato ad ucciderla, o lo stupratore che attribuisce alla donna violentata l’intenzione di “starci”, per legittimare la propria aggressione. Il secondo consiste nel tentare di spiegare le azioni delinquenziali con giustificazioni apparentemente logiche e morali (dovevo farlo, era una questione d’onore, era una giusta vendetta, ecc.). 6.8 Il delinquente per “scarso sviluppo dell’ego” E’ soprattutto Aichorn (1949 e 1955) che vi accenna. Il soggetto delinquente sarebbe incapace di integrare il principio della realtà a quello del piacere (posporre le gratificazioni, valutare adeguatamente gli effetti delle proprie azioni, ecc.). La mancanza di un ego sviluppato ne sarebbe la causa; come un superego troppo rigido sarebbe causa di un troppo marcato senso di colpa, un ego poco sviluppato causerebbe l’assenza del senso di colpa (del resto spiegabile, per altra via, anche in assenza di un superego strutturato). 6.9 La delinquenza per “difesa contro l’omosessualità” Ne parlano soprattutto Blos (1962), Aichorn (1949) e Schmideberg (1956). Sembra essere il caso della delinquenza femminile, soprattutto della prostituzione precoce in età adolescenziale. La delinquenza sarebbe in questo caso un acting-out contro le spinte regressive verso la madre pre-edipica (cioè contro i sintomi di tipo omosessuale che l’adolescente percepisce nel suo rapporto, simbolico generalmente, con la madre). Si tratta in genere di un rischio cui non corrisponde in realtà nessun comportamento omosessuale reale. Gli autori notano che per altro l’acting-out non ha il potere di risolvere il conflitto sottostante, che pertanto continua ad essere efficace anche se rimosso. 6.10 Il delinquente per “frustrazione” La teoria è inclusa nell’interpretazione - comportamentista - della frustrazione offerta da Dollard e coll. (1939). Il comportamento antisociale, deviante, aggressivo, ecc. è sempre risposta ad una frustrazione (e quindi tale comportamento è appreso, non “dato” come vuole in generale la psicoanalisi). Nel caso del comportamento delinquenziale, si devono verificare due condizioni perché si possa veramente parlare di comportamento deviante, o meglio : • che la frustrazione sia davvero insopportabile (si deve dimostrare dunque che il probabile delinquente è una persona particolarmente esposta alla frustrazione) • che la previsione della pena, cioè del deterrent , sia bassa (il probabile delinquente ha la percezione che la pena sia sopportabile o non sia sistematicamente applicata, o non sia sicura). Il paradigma positivistico 63 7. I LIMITI DEL POSITIVISMO L’approccio positivista è certamente da considerare come un sostanziale passo in avanti rispetto alle teorie classiche ispirate alla criminologia di origine illuminista. Gli autori che abbiamo presentato hanno dato un contributo essenziale al superamento di una definizione puramente legale della devianza, hanno criticato opportunamente la tendenza a considerare la devianza in termini moralistici, hanno respinto come indebita l’accentuazione posta dai classici sulla pena piuttosto che sul deviante stesso. Ciò non di meno essi si sono imbattuti in difficoltà e in limiti pressoché insuperabili, dovuti principalmente alle premesse di carattere epistemologico a cui il positivismo ha fatto ricorso. Riprendendo alcuni spunti critici già toccati in pagine precedenti possiamo sinteticamente indicare alcuni aspetti della problematica più soggetti a perplessità: a] La non problematicità del sistema sociale Il sistema sociale è dato per scontato e non sospettato come una delle fonti essenziali del comportamento deviante; per cui la dinamica del “becoming deviant” va ricercata nel soggetto stesso (la sua costituzione fisica, i suoi caratteri temperamentali, ecc.), isolato in modo artificioso dal suo contesto umano. b] La reificazione dei fatti sociali Essa porta alla deresponsabilizzazione del deviante (oggetto più che altro di determinismi incontrollabili) ma che implica anche un certo fatalismo pessimista: da cui la conclusione logica circa la inapplicabilità della punizione e inutilità della terapia. c] La non rilevanza della reazione sociali Sia nel provocare la devianza, sia nel contribuire alla ridefinizione del ruolo deviante; con conseguenze notevoli sul piano teoretico e pratico, perché con questa affermazione si respinge in modo affrettato l’importanza dell’autorità e del potere come pure dei processi di legittimazione implicati nel quadro globale della devianza. d] La staticità del concetto di devianza Presente in genere in tutto il modello, per cui non è possibile ravvisare in essa nessun significato innovatore, alcun sintomo di creatività o alcuna linea di rottura con l’establishment: la devianza risulta così facilmente controllabile, isolabile e neutralizzabile, dal momento che il biologicamente inferiore o l’asociale non costituiscono una vera minaccia al sistema. e] Il ruolo ambiguo dell’esperto Il biologo, il medico, il sociologo, lo psicologo, in un certo senso è immaginato superiore ed estraneo alla devianza, deresponsabilizzato nei suoi confronti, abilitato perciò ad obiettivarla, assumendo così l’aspetto e la funzione del “controllore sociale”, necessariamente subordinato alla logica di dominio o di sopravvivenza delle forze sociali dominanti. La maggior parte delle difficoltà del positivismo nascono proprio, come già si è detto, dalle premesse gnoseologiche della teoria stessa: la pretesa di restare fedele ai fatti non può non fare i conti con la necessità ricorrente di stabilire anche il loro significato ed i valori che essi esprimono, come pure la pretesa scientista di raggiungere una volta per tutte la verità e l’obiettività cozza contro l’esigenza di falsificabilità permanente che è una caratteristica della scienza moderna. In realtà oggigiorno la scienza è perfettamente consapevole che i fatti non parlano da soli, che non esiste una scienza “naturale”, che lo studioso opera necessariamente e continuamente delle scelte tra molti possibili universi di significato. I modi di “stabilire i fatti” e tanto più le loro spiegazioni dipendono da una serie di variabili estremamente complesse che solo una scienza deliberata dallo scientismo è in grado di scoprire e verificare in progressive approssimazioni. Per questi motivi l’approccio positivista, dopo un primo generale successo anche politico, è stato progressivamente abbandonato e superato, non senza aver lasciato una traccia importante nelle diverse scienze del comportamento umano deviante. In particolare si ritrovano tracce consistenti del positivismo sociologico nelle ricerche della cosiddetta prima Scuola di Chicago (1900 - 1930 ca.).