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Dai Longobardi ai Carolingi
ABSTRACT
iò che comunemente si sa dei Longobardi è il prodotto di una traC
dizione che risale, nei tratti più distintivi, all’Ottocento. La ricerca
degli ultimi anni ha invece mutato di molto le conoscenze sul tema,
anche se non sempre tali nuove acquisizioni sono filtrate nella didattica e nei manuali. Attraverso un percorso che muove dai ritrovamenti
nella Crypta Balbi a Roma, e passando soprattutto attraverso l’attività
legislativa di Rotari e dei suoi successori, si mostra come l’immagine
e la realtà del regno dei Longobardi siano state ridisegnate e come infine abbia giocato un ruolo importante, in questo processo conoscitivo, l’esatta valutazione delle fonti papali e carolinge dell’VIII secolo.
Scavi archeologici, lettura raffinata delle fonti scritte, analisi paleografiche sono gli strumenti che hanno, da diversi fronti disciplinari, permesso di ripensare a quei due secoli cruciali della storia d’Italia.
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Germana Gandino
Università del Piemonte Orientale
“Amedeo Avogadro”
1. La pigrizia di uno stereotipo
e la complessità della ricerca
Se si chiede a una persona di media età e cultura che cosa sa dei Longobardi, è molto probabile che la risposta sia una sequenza canonica, nella
quale confluiscono e interferiscono ricordi scolastici, storici e letterari: la
brutalità dell’invasione dell’Italia, l’insediamento “a macchia di leopardo” e
una situazione di perenne conflitto con i Bizantini e con Roma; l’Editto di
Rotari, una legislazione arretrata e barbara che tuttavia poneva limiti alla
logica dell’“occhio per occhio, dente per dente”; il regime di rigida separazione tra Longobardi e Romani, questi ultimi ridotti all’asservimento dai
conquistatori (il “volgo disperso” oppresso dalla “rea progenie” dell’Adelchi
manzoniano); l’opposizione religiosa tra cattolici romani e ariani longobardi; il ruolo del papato nel chiedere aiuto ai Franchi; la conquista da parte
di Carlo Magno e la sparizione dei Longobardi dal regno italico, mentre in
questa fase nasceva lo Stato della Chiesa. Si tratta in fondo di una grande
narrazione che risale all’Ottocento e che si è perpetuata per forza d’inerzia
nei manuali fino a tempi molto vicini: grandi colpe dei Longobardi erano
state la rottura della secolare coesione territoriale della penisola e il trattamento riservato ai Romani. Per questo, una volta superato il trauma della
frammentazione politica dell’Italia, i due secoli di regno longobardo sono
stati a lungo e per lo più risolti in una sorta di appiattimento senza altra
evoluzione che non fosse il procedere verso il tempo di Carlo Magno e dei
suoi successori: verso cioè quel secolare “feudalesimo” cui sarebbe seguita
– finalmente! – l’età dei comuni. Non è un caso perciò che il movimento
politico della Lega nord attinga astoricamente e antistoricamente a impossibili sostrati celtici e a falsi miti comunali, mentre non sa che farsene dei
Longobardi, che pure hanno dato il nome alla regione dove la Lega ha il
suo maggiore radicamento.
Per capire quanto distante sia tale fotogramma fisso dei Longobardi da
quanto oggi si sa di loro – ma la ricerca, occorre dirlo, è davvero in costante
divenire –, incominciamo allora a raccontare della Crypta Balbi. Nel 13 a.C.,
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Fig. 1 Giuliano da Sangallo, disegno della
Crypta Balbi a Roma, XVI secolo.
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Fig. 2 Una teca del Museo della Crypta Balbi
a Roma.
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dopo una vittoria in Africa, Lucio
Cornelio Balbo fece costruire a Roma un grande complesso che comprendeva un teatro nel cui porticato
monumentale si apriva una esedra;
gli scavi condotti negli ultimi decenni hanno mostrato che questa esedra ebbe una ininterrotta continuità
d’uso dall’età antica all’età moderna. Ciò che qui interessa è la presenza di un immondezzaio databile
alla seconda metà del VII secolo ma
con un’enorme quantità di oggetti
di età di poco precedente, tra i quali
spiccano centinaia di manufatti in
metallo del tutto simili a quelli trovati nelle necropoli longobarde di
Nocera Umbra e Castel Trosino e interpretati a lungo come tipicamente germanici. Non solo: tra tutti questi reperti numerose sono le matrici in piombo e gli oggetti per armamento e
per ornamento incompleti o non ancora rifiniti o rotti durante la lavorazione. A Roma dunque, nella prima metà del VII secolo, esisteva una grande
officina, quasi un’industria, impegnata a produrre ad esempio gli scramasax, arnesi longobardi da taglio, o punte di frecce del tipo “àvaro”: ed è evidente che, se si costruivano tali pezzi di corredo, era perché c’era un mercato, e un mercato precocemente rivolto all’esterno del ducato romano, verso i territori di dominazione longobarda.
2. L’Editto di Rotari e l’integrazione del VII secolo
L’importantissimo ritrovamento della Crypta Balbi ha perciò scompaginato
sul versante archeologico l’assioma della impermeabilità tra cultura romano-italica e cultura longobarda, che è del resto stato intaccato su altri versanti.
Prendiamo l’Editto di Rotari, a lungo interpretato come modello di legge, anche qui, tipicamente germanica che nulla o quasi doveva alla romanità se
non la vernice superficiale della lingua latina: in particolare, l’Editto sarebbe
una versione quasi pura di “legge pattizia”, vale a dire un pactum stretto tra
il re e il popolo-esercito dei Longobardi, la cui efficacia vincolante sarebbe
derivata appunto dall’approvazione dal basso, da parte dell’assemblea popolare. Studi recenti hanno invece mostrato che Rotari intendeva imperiosamente atteggiarsi a princeps e a princeps legislatore, nella tradizione che circa un secolo prima Giustiniano aveva rinnovato attraverso il Corpus iuris civilis: impegnato nella conquista della Liguria – come Giustiniano lo era stato
nella riconquista del Mediterraneo e dell’Italia – Rotari emanava un editto
che, almeno nella sua parte consistente di diritto penale, era per forza di cose
territoriale in quanto volto innanzitutto al mantenimento dell’ordine pubblico e alla protezione dei pauperes dalle violenze dei potenti. Tale riferimento
ai pauperes e a quanto soffrivano da parte di coloro che apparivano di maggior potere (ab his qui maiore virtute habentur) è contenuto nel prologo dell’Editto e sta a indicare che era già in atto, nel 643, una tendenza alla differenziazione sociale. Che poi questa non si risolvesse nell’opposizione Longobardi/Romani ma fosse interna a una società che andava amalgamandosi
al di là della denominazione “etnica”, può essere mostrato attraverso la raf-
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finata lettura che Stefano Gasparri ha dato dell’unica attestazione di una persona qualificata come Romana presente nell’Editto.
Ne riassumo i termini. In modo del tutto casuale, in una certa norma
Rotari differenzia quanto è da pagare nel caso si sia avuto un rapporto carnale con una serva: maggiore è la multa se si tratta di ancilla gentilis, minore se si tratta di ancilla Romana. La traduzione corrente, in linea con le
interpretazioni tradizionali, è quella di “serva di razza barbarica” e “serva
romana”, a riprova della condizione cui erano stati ridotti i vinti. Ma le leggi
dei Longobardi, che sono appunto un vero corpus, sono in continua evoluzione e nel 727 il re Liutprando, ricordando esplicitamente la disposizione di Rotari, paragona l’adulterio compiuto con una ancilla Dei a quello
con una ancilla gentilis, raddoppiando per la prima la composizione, dal
momento che una “serva di Dio”, cioè chi indossa l’abito religioso, è più
preziosa di una ancilla gentilis: la prima serve infatti un padrone ben più
importante di quello della seconda. Dunque se ancilla gentilis vuol dire,
come si ricava dal testo, non già “serva di razza barbarica” ma “serva di un
padrone di razza barbarica”, allora ancilla Romana può significare “serva
di un padrone romano”. Se è così, questo vuol dire che nel 643 vi erano
persone che, qualificate come “romane”, disponevano di una qualche ricchezza, tanto da avere servi e serve: altro non sappiamo, ma la possibilità
che il ceto dei possessori fosse articolato al suo interno e comprendesse
dei “romani” mina alle fondamenta l’idea di un apartheid su base etnica nei
confronti dei dominati. Vero è che ancora al tempo dei re Agilulfo e Teodolinda (590-616) spiccava al loro fianco un gruppo di intellettuali-collaboratori dai nomi latini (Paolo, Pietro, Stabliciano, Secondo), mentre pochi decenni dopo i nomi dei funzionari e consiglieri del re sono longobardi (tra
gli altri il notaio Ansoaldo, che stende e certifica l’Editto): ma questo può
significare, nota ancora Gasparri, non la sparizione per annientamento
dell’antica classe dirigente, che pure era stata falcidiata al momento dell’invasione, bensì l’emersione di un gruppo di uomini nuovi anche acculturati
che sceglieva, “indipendentemente dalle sue origini biologiche, di essere
longobardo a cominciare dal nome” (Gasparri, 2006, p. 10).
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Fig. 3 L’Editto di Rotari
Una pagina dell’Editto di Rotari contenuto,
insieme alle leggi dei re Grimoaldo e
Liutprando, nel Codex Vercellensis 188
(prima metà dell’VIII secolo).
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Il medioevo
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Ciò che sembra insomma delinearsi nel corso del VII secolo è un processo di integrazione abbastanza rapido che, sia nelle città sia nelle campagne, si svolse attraverso una serie di elementi: la vicinanza fisica e di abitazione tra la minoranza longobarda e la maggioranza autoctona; l’influenza della cultura e della tradizione peculiari dell’Italia; la possibilità di matrimoni misti (contrariamente a quanto si legge nei manuali, assolutamente
non vietati dalla legislazione longobarda) e infine, dalla seconda metà del
VII secolo, il superamento delle residue discriminanti religiose tra cristianesimo ariano e cattolico oltre all’adozione di un mediolatino comune.
3. Langobardi christiani et catholici
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Fig. 4 Longobardi meridionali
In questa charta dell’XI secolo, conservata a
Bari, sono raffigurati due sposi nell’atto della
consegna del morgengabe, il dono che il
marito faceva alla moglie il mattino seguente
alle nozze se questa era risultata vergine.
Questo rito, di tradizione evidentemente
germanica, venne importato in Italia, dove le
abitudini matrimoniali erano improntate
all’abituale rispetto del diritto romano.
Il panorama che offre il regno longobardo nell’VIII secolo è infatti quello di
uno Stato il cui sovrano si designa nelle leggi attraverso formule del tipo
christianus ac catholicus princeps o rex Deo dilectae et catholicae gentis
Langobardorum e che al tempo del re Astolfo, impegnato nel 750 in un’offensiva bellica che culminerà nella conquista di Ravenna e dell’Esarcato, vede il popolo dei Romani, vale a dire gli abitanti di zone bizantine, come provvidenzialmente affidato da Dio al re longobardo (traditum nobis a Domino
populum Romanorum). Le importantissime norme che seguono a tale dichiarazione sono tutte di ordine militare e regolano l’armamento in tre tipologie di maggiore, medio e basso costo a seconda delle terre possedute, mentre i mercanti, che hanno denaro e non terre, sono assegnati a una delle tre
categorie: ormai è la ricchezza, al di là di ogni ascendenza longobarda o romana, a fare la differenza in tema di visibilità sociale. Che le cose si fossero
complicate – o meglio, che appaiano a noi complicate – lo si può comprendere anche dalle attestazioni in carte private di persone dal nome latino che
agiscono secondo la legge longobarda mentre ancora una volta abbiamo soltanto una attestazione di una donna, questa volta di alto livello sociale, qualificata espressamente come Romana mulier in un atto di vendita del 758:
ma il nome, Gunderada, è longobardo mentre il marito dal bel nome romano
Domninus dà il suo consenso, ma secondo l’uso longobardo.
Romani nell’VIII secolo sono per lo più, come si è accennato sopra, coloro che abitano nella parte d’Italia rimasta bizantina e in particolare Esarcato, Pentapoli, ducato romano: anche l’unica testimonianza tradizionalmente ritenuta probante per le letture di asservimento di lunga durata dei Romani
da parte dei Longobardi ha riservato di recente, grazie ad Antonella Ghignoli,
un colpo di scena. Quei contadini che, in una carta pistoiese del 757, sono
chiamati Romani in un luogo e massarii in un altro erano invece massarii
in tutti e due i casi: è stato il notaio di inizio XII secolo che, facendo una copia
del documento (l’unica che a noi rimane), per incertezza grafica inserì quel
Romani che non esisteva nell’originale ma che ha sostenuto fino ai nostri
giorni l’idea dei “solchi bagnati di servo [cioè romano] sudor”.
La situazione, al momento della caduta del regno per mano franca, era
dunque molto vicina a quella descritta da Niccolò Machiavelli nelle Istorie
fiorentine: “erano stati i Longobardi dugento trentadue anni in Italia, e di già
non ritenevano di forestieri altro che il nome”. Forestieri erano invece i Franchi. Convertiti al cristianesimo cattolico al tempo di Clodoveo, essi avevano
dispiegato nella prima metà del VI secolo una tendenza all’espansionismo
violento ai danni dei regni vicini che tuttavia risultava allora ideologicamente
giustificato da due elementi: occupare province e assoggettare genti era rendere un servizio al lontano imperatore dei Romani (vale a dire dei Bizantini)
e dilatare insieme l’ortodossia per maggior gloria della Chiesa. Cambiata la
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dinastia regnante con il colpo di stato del 751, riprendeva anche vigore quella
tendenza all’espansionismo ma in forma ideologicamente diversa: non più
al servizio del basileus ma in proprio, essendo la gens Francorum popolo eletto da Dio; e non più per dilatare l’ortodossia cattolica in un mondo ancora
largamente ariano ma per imporre con le armi il cristianesimo ai pagani (soprattutto a Sassoni e Danesi) e per difendere i Romani d’Italia, e in primo
luogo la Chiesa di Roma, dai nefandissimi Longobardi.
4. L’Italia: uno choc per i conquistatori
Fig. 5 Arte longobarda
Il “Tempietto longobardo” di Cividale del
Friuli: realizzato verso la metà dell’VIII secolo,
era probabilmente una cappella palatina. In
particolare, le figure in stucco delle sante
testimoniano la maturità dell’arte
longobarda, capace di reinterpretare e fare
propri modelli classici e bizantini.
Ma a questo punto occorre richiamare brevemente un dato. Ci è voluto molto tempo per comprendere appieno che sia le fonti papali sia le fonti carolinge dell’VIII secolo hanno un carattere fortemente costruito: ciò che si riteneva in modo ingenuo essere racconto obiettivo dei passaggi cruciali di quel periodo ha invece a che fare con le idee di legittimazione, di
occultamento degli altri e delle loro ragioni, di
riduzione delle istanze sconfitte entro i parametri concettuali dei vincitori, e in sintesi con
l’idea di uso pubblico della storia. Così, alcune
vite dei papi che compongono il Liber Pontificalis, e in particolare quelle dei papi che più avevano motivi di tensione con i Longobardi, adoperano nei loro confronti il lessico “demonizzante” che era stato inaugurato al momento
del loro ingresso in Italia: in tal modo i cattolici
longobardi, maturi per ridare coesione territoriale alla penisola, ridiventavano empi e nefandissimi, epiteti che hanno a che fare con l’amQuello che la lingua racconta
bito religioso. E non è un caso che a tutt’oggi
Nella lingua italiana restano ancora tracce del rapporto fra i Romani e i
non si conosca il nome di una sola delle quatLongobardi: ne sono testimonianza alcune parole di stampo militare, come
tro figlie di Desiderio, la donna sposata e poi
“faida”, “manigoldo” e “sgherro”, e altre legate all’ambientazione domestica
ripudiata da Carlo Magno: da entrambi i fronti,
e all’uso comune:
quello franco e quello papale, è stata compiuta
una vera e propria damnatio memoriae intorParola longobarda
Significato
In italiano
no al fatto, imbarazzante per Carlo e inaccettaBanka
Banco
Panca
bile per il pontefice, di un equilibrio di breve
durata tra le due dinastie.
Bara
Lettiga
Bara
Né le cose si chiariscono all’indomani della
Pala
Palla
Palla
caduta del regno dei Longobardi nel 774 perché rimaneva il contenzioso a proposito delle
Rost
Graticola
Arrosto
“restituzioni” territoriali che Carlo avrebbe doSkaf
Armadio
Scaffale
vuto fare alla “santa chiesa di Dio dell’impero
dei Romani”, come ambiguamente le fonti paSkena
Schiena
Schiena
pali definiscono la nascente realtà istituzionaSkranna
Sedile
Scranno
le. La tendenza è anzi, negli anni immediatamente seguenti la conquista, a una condivisa
Spahhan
Fendere
Spaccare
reticenza documentaria nei confronti dell’assetto effettivo dell’Italia, riflesso di un contatto
Spalt
Fessura, spacco
Spalto, balcone
non semplice tra imperialismo franco e aspiraStral
Freccia
Strale, freccia
zioni papali a costruire intorno a Roma un’area
di rispetto il più ampia possibile.
Waid
Guado
Guado
Paolo Cammarosano ha sottolineato, alcuni
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Il medioevo
2 • Germana Gandino • Dai Longobardi ai Carolingi
anni fa, che l’ingresso in Italia dei Longobardi fu uno choc innanzitutto per
i Longobardi: possiamo pensare che uno choc in parte analogo dovettero
provarlo i Franchi. Non si spiegherebbe altrimenti il salto di qualità che le
fonti franche mostrano dall’ultimo decennio dell’VIII secolo: i modelli politico-culturali italici, spesso portati direttamente alla corte di Carlo da religiosi-intellettuali, contribuirono a dare al futuro impero dei Franchi soluzioni operative nuove, utili all’inquadramento e al disciplinamento delle
popolazioni. E questo avvenne in Italia nel segno della continuità: una continuità marcata ad esempio dal titolo assunto da Carlo, rex Francorum et
Langobardorum, ma anche dall’impaginazione, nei codici, dei capitolari
per l’Italia in coda alle leggi dei re longobardi. Soltanto dalla fine del IX secolo e fino al XII secolo proliferano in Italia le “dichiarazioni personali di
legge”, in base alle quali ci si dichiara vivere soprattutto secondo la legge
longobarda o secondo la legge romana. Contrariamente a quanto si è a lungo creduto, non si tratta di una persistenza dai tempi di Rotari o del riemergere della vera natura della legislazione longobarda: a venire prima era
stata la territorialità della legge, dei Longobardi e dei Carolingi, e soltanto
dopo comparve la personalità. La disgregazione dell’ordinamento pubblico
e il venir meno del regnum come garante della giustizia e della protezione
delle popolazioni determinarono – tra molte altre reazioni “dal basso” – anche il ripiegamento individuale o familiare dietro lo scudo rappresentato
dalle antiche e prestigiose tradizioni giuridiche dell’Italia.
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Riferimenti bibliografici
Uno studio fondamentale per le nuove acquisizioni sui Longobardi (compreso il discorso
sulla ancilla Romana) è S. Gasparri, Prima delle nazioni. Popoli, etnie e regni fra Antichità
e Medioevo, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1997, che si può integrare con il denso volume di P. Cammarosano, Nobili e re. L’Italia politica dell’alto Medioevo, Laterza, RomaBari 1998. Ancora di Gasparri segnalo che in rete si trovano altri contributi, in particolare
nel sito www.retimedievali.it; la citazione nel testo è tratta invece dal suo I Longobardi,
i Romani e l’identità nazionale italiana, in “Anales de historia antigua, medieval y moderna”, 39 (2006), pp. 27-39, disponibile all’indirizzo http://www.filo.uba.ar/contenidos/investigacion/institutos/historiaantiguaymedieval/indice39.htm. Chi fosse interessato ad approfondire il tema dei ritrovamenti del VII secolo nella Crypta Balbi può ricorrere a M. Ricci, Relazioni culturali e scambi commerciali nell’Italia centrale romano-longobarda alla luce della Crypta Balbi in Roma, in L’Italia centro-settentrionale in età longobarda, a cura di L. Paroli, All’insegna del Giglio, Firenze 1997: il volume si trova in biblioteche nazionali, civiche e universitarie. Stessa reperibilità per E. Cortese, Nostalgie
di romanità: leggi e legislatori nell’alto Medioevo barbarico, in Ideologie e pratiche del
reimpiego nell’alto Medioevo, Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto
Medioevo, XLVI, Spoleto 1999, pp. 485-510. Nata come saggio, la lettura della carta pistoiese del 757 è ora disponibile come esperimento ipertestuale: A. Ghignoli, I Romani
di CDL 206. Esercizio di diplomatica e storia su un documento longobardo, in
http://www.rm.unina.it/iper/romani2/default.htm. Infine, molto utile è G. Albertoni, L’Italia carolingia, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1997.