Scienze dell’educazione Matilde Callari Galli ANTROPOLOGIA PER INSEGNARE Editore Bruno Editore 1 Le discipline antropologiche e lo studio delle differenze Da tempo le discipline antropologiche hanno rivolto il loro interessi loro studi agli incontri che in tutto il mondo vedono gruppi umani a: e disomogenei, non solo venire a contatto diretto ma essere coinvolti trasformazioni sempre più profonde, a un tempo comuni e specifiche. Sempre più spesso in Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti Olanda, ma anche in Canada, nei paesi latino-americani, in quelli africani e asiatici, si parla di un' ”antropologia del sé", rivolta a esaminare le trasformazioni culturali che le nostre città e le "loro" stanno subendo seguito ai flussi migratori e alle comunicazioni che percorrono e invadono il pianeta 1. 1 G. Stocking, Razza, cultura e evoluzione, il Saggiatore, Milano, 1985. Su questa situazione si innestano nuovi interessi speculativi che, riprendendo voci e spunti presenti sin dal loro sorgere nelle discipline antropologiche, aprono nuovi livelli di ricerca, nuovi rapporti con le altre discipline, nuove possibilità di fornire materiali per analizzare processi di cambiamento e situazioni di conflitto. Nelle interpretazioni storiche, nelle speculazioni filosofiche, ma anche nei progetti educativi, nei piani economici, nelle programmazioni territoriali e urbanistiche, nelle valutazioni politiche, nelle decisioni giuridiche, nelle pianificazioni sanitarie, ci si rivolge sempre più spesso alle discipline antropologiche perché forniscano da un lato dati sulle tradizioni culturali dei gruppi coinvolti nei cambiamenti, dall'altro per avere schemi e ipotesi interpretative dei rapporti culturali, degli incontri/scontri che da millenni caratterizzano la vita della nostra specie 2. La situazione storica contemporanea sembra avere saldato i rapporti fra i tre settori in cui tradizionalmente si articola l'ambito degli studi antropologici: le società "tradizionali", del nostro paese e degli altri continenti, sono state trasformate e investite dal vento della modernità; allo stesso tempo, tuttavia, i processi di modernizzazione non hanno certo proceduto linearmente ma sempre hanno conservato entro di sé derive profonde, processi oscuri - perché mai sufficientemente indagati e perché sempre spiegati con logiche lineari e uniformi - legami tenaci con emozioni e bisogni, troppo superficialmente considerati primitivi e indistinti. E allora le ipotesi e i modelli teorici che interpretano le tradizioni e le culture popolari europee e di tutto il mondo occidentale, le "storie" di gruppi lontani, raccolte e ricostruite in decenni di ricerche, gli studi delle dinamiche che gli incontri tra culture e subculture diverse innestano e sviluppano, sono oggi tutti parimenti preziosi per noi 3. Oggi con sempre maggior chiarezza emerge che le discipline antropologiche assumono un loro "senso", acquistano una loro "specificità" quando, e se, riescono a "sfondare" la diversità delle esperienze e la diversità dei linguaggi: un testo antropologico non deve tanto avere l’obiettivo di descrivere la diversità, ma piuttosto di spingere i suoi fruitori a ri-conoscersi e quindi a ri-specchiarsi in quella diversità.4 2 U. Fabietti, I . Remoti, L'antropologia culturale: dalle certezze ottocentesche alle sfide del Inondo contemporaneo, in L. Geymonat (a c. di), Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti, Milano 1996, vol. IX, pp. 59-94. 3 D. Hymes (a c. di), Antropologia radicale, Bompiani, Milano 1979. 4 'T. Tentori, Antropologia culturale, Studium, Roma 1989 (1960); M. Callari Galli, Antropologia culturale e processi educativi, La Nuova Italia, Firenze 1993. Campi di applicazione Le trasformazioni avvenute nella nostra società mettono al centro degli interessi scientifici e dell'operatività pratica il contatto fra culture e dislivelli culturali diversi; ed è un contatto dinamico che muta, nei protagonisti e nelle modalità, con tempi sempre più ravvicinati. E se in anni relativamente recenti il contatto con la diversità sconfinava sovente nella ricerca dell'esotico e la sua conoscenza era privilegio o esperienza di pochi, oggi ci investe nelle nostre città, 2 penetra nelle nostre case con i messaggi televisivi, è incontro/scontro nei luoghi di lavoro, nelle strade, nelle scuole, nel tempo libero. Da un lato aspiriamo tutti a condividere, vendere, esportare linguaggi e ben, a scambiarli e a farli circolare; ma allo stesso tempo siamo spinti dalla loro limitatezza e dalla loro articolazione gerarchica, a difenderli, a circoscriverli, a renderli esclusivi per il gruppo ristretto con cui intendiamo identificarci. Ed è essenziale conoscere i meccanismi culturali che presiedono a questo equilibrio precario tra globalismo e localismo, individuare quanti suoi elementi siano collegati alle situazioni reali e quanti siano frutto di invenzioni spontanee, di reminiscenze antiche, di manipolazioni massmediologiche e/o politiche. L'incontro con la diversità non va subìto, o tollerato, o respinto: deve essere accettato come strumento di sopravvivenza in un mondo che non voglia ridursi a una fortezza assediata dagli affamati, dagli analfabeti, dai sottoistruiti, in un mondo che non si rassegni alle "pulizie etniche", alle deportazioni, all'imposizione della "ragione" con la violenza delle armi più estreme e cieche nella loro "intelligenza"; con la convinzione e la consapevolezza che il nostro sistema culturale, economico e sociale, può sopravvivere solo se saremo in grado di rendere "produttivi" gli innumerevoli incontri, le continue differenziazioni che lo caratterizzano. Si deve tentare di creare un ambiente in cui il rapporto sociale non si riduca a una pura e semplice fruizione di forza lavoro, per lo più sottoutilizzata nelle sue potenzialità, né sia teso solo a formare nuovi acquirenti delle nostre merci, ma abbia la capacità di coinvolgere a livello sociale, culturale e politico tutti i protagonisti della vita sociale. E questa ci appare l'unica strada per fondare la speranza di sopravvivenza al nostro sistema, senza ricorrere a un modello che si fondi sulla costrizione e sulla violenza. Del resto il bisogno di "operatori" che abbiano competenze specifiche nella gestione sempre più complessa dei rapporti tra culture diverse, è in continua crescita; e non solo per i flussi migratori che accorrono nel nostro paese ma anche per una serie di altre rilevanti motivazioni: è sempre più urgente individuare ipotesi scientifiche sul funzionamento dei meccanismi che stanno alla base dell'etnicità, sui processi della formazione, tra mille identificazioni, delle identità culturali e collettive; è sempre più urgente individuare la geografia dei multiculturalismi e il loro coniugarsi con i rapporti di classe e le divisioni di genere; è sempre più necessario proporsi di seguire la dinamica degli scambi, dei prestiti e delle "rapine" culturali. E assai diffusa è la consapevolezza che in un mondo sempre più caratterizzato da rapporti di interdipendenza fra culture anche opposte e nemiche, sia necessario stabilire collegamenti, relazioni e mediazioni fra i diversi stili di vita, tra le diverse proposte di soluzioni economiche, politiche e sociali. Molti sono i campi in cui la gestione delle differenze occupa oggi un posto di grande rilievo: per citarne solo alcuni, ricordo l'ambito educativo, che comprende gli insegnanti di tutti gli ordini e gradi delle nostre scuole ma anche tutti coloro che si occupano della trasmissione culturale, nel suoi aspetti formali e informali; quello della conservazione e dello studio dei "beni culturali"; quello dell'informazione, da quella scritta a quella visiva, così rilevante per la diffusione di modelli culturali e di comportamento e invece cosi spesso carente di informazioni circostanziate e corrette, sovente preda di superficiali stereotipi e di radicati pregiudizi; quello sanitario, in cui lo scontro tra le culture spesso assume toni drammatici di fronte al male, al dolore, alla speranza, alla morte; quello dell'intervento sociale e delle decisioni normative, in cui l'emergenza dei bisogni mette in evidenza le difficoltà e l'inadeguatezza delle nostre interpretazioni, così spesso dettate da etnocentrismi inconfessati, ma proprio per questo pieni di rischi e di pericoli; quello della cooperazione internazionale, i cui vistosi insuccessi richiederebbero maggiore attenzione tanto alle culture, che sul cambiamento si confrontano, quanto alle nuove dinamiche culturali che esso innesta. 5 5 A.M. Cirese, Oggetti segni musei. Sulle tradizioni contadine, Einaudi, Torino 1977; L. Lombardi Satriani, Il silenzio, la memoria e lo sguardo, Palumbo, Palermo 1979, P. Clemente ei al, L'antropologia italiana, un secolo di storia, Laterza, Bari 1985; F. Sabelli, Ricerca antropologica e sviluppo, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994, S. Gandolfi, Le radici dimenticate, EMI, Bologna 1995; M. Mezzini, C. Rossi, Gli specchi rubati, Meltemi, Roma 1997. 3 L'invasione della cultura Questa generale visione delle possibilità che hanno le discipline antropologiche nella costruzione di un processo di conoscenza dei rapporti interculturali, attribuisce loro nuove responsabilità, soprattutto a quella parte di esse che da decenni ha posto al centro dei suoi interessi scientifici l'analisi culturale. Per anni quelli di noi che hanno compiuto questa scelta hanno subito ironie e critiche - per la verità non solo "esterne” alla disciplina - che accusavano i loro studi di irrilevanza e/o di impraticabilità; oggi, al contrario, siamo invasi dalla cultura: guerre, conquiste, insuccessi economici, genocidi e migrazioni sono interpretati, tutti ed esclusivamente, in termini culturali. 6 Quasi paradossalmente ritengo che questo dilagare della dimensione culturale nelle scienze sociali, nelle interpretazioni di giornalisti e di commentatori politici, nei mass media, imponga, a noi antropologi, di fare chiarezza, rivendicando la nostra lunga esperienza in questo ambito di studi. Davanti alla celebrazione, spesso frettolosa e superficiale, di elementi culturali molto vagamente ricostruiti o di relativismi cosi assoluti da rischiare l'incomunicabilità, è doveroso ricordare che l'insegnamento più valido delle discipline antropologiche risiede nel collegamento tra analisi minute che mettono in luce il particolarismo estremo di questo o di quel gruppo, e schemi interpretativi generali, che riconducano questo o quel particolarismo a un livello di significato e di rilevanza che appartenga all'umanità intera. Davanti a un panorama scientifico costretto dalla situazione del mondo contemporaneo a comprendere entro di sé fenomeni globali e situazioni locali, l'antropologia si carica di molte aspettative sicuramente troppe e destinate a essere almeno in parte deluse - per il suo essere cosi vasta e generale ma al tempo stesso particolare ed eterogenea, «stranamente ossessiva per la puntualità con cui insegue i tratti culturali più minuti e apparentemente insignificanti», finché non sono rappresentati e interpretati. 6 T. Tentori, Antropologia culturale, cit.; C. Geertz, Oltre i f atti, il Mulino, Bologna 1995. Sino a qualche anno fa l'intero quadro dello sviluppo delle discipline umane è stato definito da una separazione teorica tra una cultura generale (che spesso si identificava con l'idea di civiltà) da un lato e una moltitudine di culture dall'altro. Questo modello, che d'altra parte corrispondeva all'assetto politico ed economico del nostro pianeta, permetteva di separare nettamente la parte "alta" della produzione culturale umana, in gran parte appannaggio dell'Occidente, da tutte le altre forme culturali disseminate in un tempo e in uno spazio per definizione "altro da noi". Esso consentiva altresì di collegare tra loro le diverse culture in un rapporto a dinamica limitata, in cui esse erano considerate mondi isolati, chiusi e pressoché immobili, finché la nostra attenzione non vi si soffermava e iniziava a descriverne i movimenti, gli scambi, gli scontri, le vittorie e le sconfitte. Con questo modello teorico, corrispondente a pervasive azioni di carattere politico ed economico e ancora imperante nella maggior parte delle scienze sociali, fu possibile, fin dall'inizio del Novecento, parlare di «una cultura associabile a un popolo, a un territorio, a una nazione, a una tribù». 7 Con la velocità delle comunicazioni e l'accelerazione degli spostamenti reali e virtuali, questo duplice ancoraggio viene meno: le comunità divengono più mobili di quanto non lo fossero in passato, le contaminazioni, i prestiti, gli scontri, si moltiplicano, accelerano le loro dinamiche. Applicando i continui sforzi che le nostre discipline hanno sempre fatto sia per spostare i limiti dell'etnocentrismo, ampliando costantemente l'operazione di "decentramento del sé", sia per denunciare i limiti di un relativismo culturale assoluto e paralizzante, forse dobbiamo cominciare a discutere l'idea -- profondamente radicata nel pensiero e nel vissuto dell'Occidente contemporaneo - che considera i modelli di comunità e di localismo quali entità naturali e innate, forse dobbiamo ricondurli alla loro culturalità, considerandoli risultati di pratiche politiche e sociali che formano le identità. Se accettiamo di sfuggire alla ''metafisica della sedentarietà" (del resto così contraria a tutta l'impostazione degli studi antropologici sino a comprendere quelli che riguardano lo studio dell'evoluzione della nostra specie e la paleoetnologia), se non consideriamo come ovvi e inevitabili il radicamento e l'attaccamento alla comunità, se rifiutiamo di accettare acriticamente che le potenzialità affettive e i principi identitari scaturiscano automaticamente dalle esperienze sensoriali, legate di luoghi in cui si vive, e dalle relazioni quotidiane degli incontri "faccia a faccia", vedremo con chiarezza che l'esperienza apparentemente immediata e diretta della vita comunitaria, in realtà è costituita da un ben più ampio apparato di relazioni sociali e 4 spaziali. Se si accetta questo schema che vede le contaminazioni e i meticciati percorrere senza sosta l'intero pianeta, appaiono ingenui, se non mistificanti, i modelli che descrivono tipi di identità non localistiche o superlocalistiche, quali le immigrazioni, i flussi dei rifugiati, le diaspore, come estensioni spaziali e temporali di una identità precedente, naturale, radicata in una località e in una comunità. 7 H. Bhabha (a c. di), Nazione e narrazione, Meltemi, Roma 1997. All'analisi del rapporto tra una cultura che eleva l'altro alla dignità del sé o che abbassa il sé alla dignità dell'altro, si sostituisce un'analisi della cultura vista come luogo di differenziazione e di contaminazione, con un dilagare delle differenze e delle omologazioni che raggiunge ritmi mai sperimentati sinora; ed è legittimo chiedersi quanto ciò cambi, o dovrebbe cambiare, tutte le discipline "inter" e "trans" che sono fiorite in questi ultimi anni e che, tranne rari casi, hanno avuto con le discipline antropologiche incontri sporadici e superficiali, quando non hanno preferito compiere vere e proprie illegittime scorribande nei loro dati. A questo proposito è anche sorprendente quanto stentato sia ancora, nel nostro paese, il cammino delle nostre discipline per affermare la loro centralità nello studio delle differenze culturali; ciò oltre a rendere faticosi gli svolgimenti delle nostre "carriere", rende difficile proprio il contributo scientifico e metodologico che le nostre discipline, insieme alle altre scienze sociali, sono in grado di dare alla formazione di una diffusa consapevolezza dei temi interculturali e alla preparazione di operatori che a molti livelli e in molti ambiti sappiano tradurre professionalmente questa consapevolezza. La cultura: le molte interpretazioni dell'antropologia Circa mezzo secolo fa due antropologi statunitensi, all'epoca assai noti per teorizzazioni e ricerche accurate e originali, si dedicarono alla raccolta delle definizioni di cultura che la disciplina aveva elaborato sino allora. 8 L'attenzione a questo concetto non è solo testimoniata dalle centinaia di definizioni che i due antropologi furono in grado di raccogliere ed elencare, ma anche dalle innumerevoli riflessioni e ricerche, focalizzate su di esso e attorno a esso, che prima e dopo la pubblicazione della loro antologia hanno continuato ad affollare i nostri corsi e i nostri testi. Del resto l'antropologia, quale riflessione scientifica e consapevole sulle differenze culturali, nasce nel 1871, con la pubblicazione, da parte di Edward B. Tylor, di Primitive Culture; in essa era contenuta quella formula che, dopo una lunga elaborazione filosofica svolta soprattutto in Francia e in Germania nei secoli precedenti, 9 fonda i confini epistemologici dello studio antropologico: «La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume, e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società».10 8 C. Kluckhohn, A. Kroeber, Il concetto di cultura nelle scienze sociali, il Mulino, Bologna 1972 (1952). 9 E Remotti, Cultura, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Istituto Enciclopedia Italiana, Roma 1992. 10 E.B. Tylor, Alle origini della cultura, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1985-1988 (1871), p. 9. Come mi sembra evidente, questa formulazione estende a ogni gruppo umano, dotato di una sequenza di storia collettiva individuabile e definibile, la capacità di produrre e vivere la cultura; al tempo stesso essa apre lo studio antropologico alla conoscenza delle innumerevoli culture che popolano il pianeta. Questa raccolta di dati, questa immersione sempre più diretta e coinvolgente degli antropologi nelle differenze culturali, doveva ben presto dimostrare quanto la concezione della cultura, propria della società occidentale del XIX secolo, fosse contraddittoria rispetto all'aspirazione più originale che essa aveva faticosamente e non unitariamente espresso nei secoli precedenti: il riconoscere a ogni gruppo umano la capacità di elaborare forme culturali tutte dotate di pari dignità, fra le quali è assai difficile stabilire gerarchie di valori. 5 Ritenere, come a lungo si è fatto e come forse ancora, più o meno esplicitamente, si continua a fare, che la cultura occidentale fosse in grado di dominare qualunque situazione, sociale e sinanco naturale, di affermare e diffondere se stessa, comunque e dovunque, ha da un lato giustificato l'eliminazione di altre culture ritenute inferiori e arretrate rispetto alla nostra, dall'altro ha alimentato visioni quasi forsennate di un progresso senza limiti, con una cultura in grado di trovare sempre nuove forme di energia per una umanità sempre più numerosa e longeva. Lo studio della cultura umana, intrapreso più di cento anni fa dall'antropologia, nella sua tendenza generale si è sforzato di dimostrare la pericolosità connessa con questo schema affascinante nella sua brutale semplificazione. Da un lato la nostra specie si dimostra profondamente radicata nel mondo naturale, ed è indispensabile, per la sopravvivenza di ogni gruppo, che si elabori, a livello simbolico e a livello di modello di comportamento, la coscienza dei limiti che la natura comunque impone a ogni cultura; ed è ugualmente indispensabile acquisire la consapevolezza di quanto sia inutile disperdersi nella dicotomia tra comportamento appreso e comportamento istintuale. Tra i due comportamenti esistono infinite gradazioni: casi numerose c variegate che sarebbe corretto dire che nella realtà esistono solo le gradazioni intermedie, non essendo oggi possibile isolare né un comportamento totalmente appreso, né un comportamento totalmente istintuale. E viene alla mente l'esperimento, forse leggendario, di Federico II che, desiderando scoprire quale fosse la lingua naturale del genere umano, fece allevare da eunuchi muti un gruppo di infanti, trovandosi, però, nel giro di qualche mese a dover constatare solo una serie di decessi. Dall'altro lato lo sforzo sistematico per fondare un'antropologia generale e scientifica nasce nel XIX secolo, quando i nostri interessi economici e politici - nostri nel senso di "occidentali" - ci imposero di conglobare nel nostro sistema tutte le diversità, sfruttandole e degradandole, ma non più a distanza, come era avvenuto sino ad allora, bensì entrando direttamente in contatto con esse. Lo sfruttamento sistematico e violento delle culture "altre" non è certo un'invenzione dell'Ottocento né del colonialismo, senza ricostruire la sequela storica di imperi invasori e distruttori di ogni alterità che incontrassero, scelgo come metafora del cambiamento di rapporto instaurato dal colonialismo con il continente africano, l'immagine delle navi inglesi, francesi, portoghesi, spagnole per secoli ferme alla fonda nel golfo di Guinea, in attesa del carico di schiavi da trasportare e vendere nel continente americano. Per secoli il commercio più brutale che si possa immaginare, quello di uomini, di donne, strappati alle loro abitazioni, ai loro legami, alle loro lingue, alle loro tradizioni, privati della libertà e della dignità, dello stesso diritto alla vita, è stato attuato da razziatori africani che vendevano agli europei in attesa, al largo, la loro "merce". Con l'Ottocento il mercante di schiavi scende a terra, indossa il casco coloniale e governa nuovi territori, in nome della sua capacità di diffondere civiltà e cultura a popoli che continua a considerare arretrati e selvaggi. L'antropologia nasce radicata nello schema evolutivo proprio di quel secolo, che semplicisticamente, se non proditoriamente, proponeva una gerarchia delle culture basata sulla distanza che le separava dai livelli della civiltà occidentale che orgogliosamente e acriticamente era considerata la "misura" di tutte le altre. E compito dell'antropologia sarebbe stato quello di spiegare la meccanica dell'ascesa, de claritate in claritatem, dal mondo dei "selvaggi" al mondo dei "civili". Ben presto le indagini e le speculazioni dei suoi cultori mostrarono la debolezza e la falsità dello schema evoluzionista, sia da un punto di vista teorico che da un punto di vista pratico-politico e molti antropologi, sin dai palmi anni del XX secolo attaccarono, con le loro teorizzazioni e con le loro ricerche, quella baldanzosa sicurezza che aveva animato molti pensatori appartenenti a discipline e a impostazioni scientifiche diverse ma tutti in attesa, seguendo Voltaire, che «con il declino delle credenze religiose» si verificasse un concomitante «declino degli odi umani e dell'impulso di distruggere altri uomini, in quanto personificazioni del male e dell'errore». Attesa non solo vana, ma incauta. E bisogna essere grati a quanti, da versanti disciplinari diversi, hanno demolito con i loro scritti letterari o filosofici, con le loro ricerche antropologiche o psicoanalitiche, con le loro composizioni pittoriche o musicali, l'ottimismo dinamico che, a partire dal secolo dei Lumi, ha fatto lievitare in modo abnorme la volontà di progresso che è una delle caratteristiche più evidenti del pensiero occidentale, sin dai tempi dell'Atene di Pericle e di Platone. 6 Rispetto allo schema teorico evolutivo, fondato sull'idea dell'infinita perfettibilità dell'uomo e sull'inevitabilità del suo ruolo di dominatore senza limiti della natura, è possibile individuare, nell'antropologia del XX secolo, il nascere di una tendenza alternativa, e forse più reale, che ipotizza storie diverse dell'umanità, prive di destini finalistici, essendo la storia dell'Occidente storia dell'accumulazione e del dominio, ed essendo la storia dei popoli a tradizione orale storia della ripetizione e dell'adattamento. Anche in questo caso si tratta di un modello di analisi, ma le prospettive di una umanità divorata dal suo progresso danno al modello una realtà, nella prospettiva del futuro, che forse gli manca nella prospettiva del passato. Tornando al tema di una definizione del concetto di cultura utile per l'oggi, non intendo certo qui rivisitare le innumerevoli definizioni elaborate dagli antropologi e a cui ho accennato all'inizio di questo paragrafo: forse è più utile, ai nostri fini, cercare di individuare le connessioni e le implicazioni che questa elaborazione concettuale ha con i processi formativi. Va innanzitutto riconosciuto all'antropologia il merito di aver individuato in ogni elaborazione collettiva dell'ambiente, comprendendo in questo termine sia il livello naturale che il livello sociale, un'espressione culturale: cultura, così, è la produzione scientifica e letteraria delle grandi civiltà dotate di scrittura, ma è cultura la cosmologia Dogòn, tramandata oralmente di generazione in generazione; è cultura l’Invenzione della Croce di Piero della Francesca, conservata, restaurata e ammirata per secoli, ma è cultura la pittura sulla sabbia che per un giorno, a volte solo per alcune ore, coagula l’esperienza estetica e religiosa degli abitatori dei deserti. Del resto proprio dopo le ricerche antropologiche, la dimensione estetica ha assunto, nelle nostre valutazioni, implicazioni assai generali, rimandando alle qualità costitutive del nostro essere homo sapiens: nei primi utensili, costruiti per rapinare, uccidere, scavare, gli antropologi ravvisano una ricerca, non strettamente funzionale, dell'equilibrio dei volumi e delle forme, una ricerca, appunto, estetica. Se cerco elementi unificanti della specie, è ancora la dimensione estetica a venirmi in aiuto: culture elementari, al limite della sopravvivenza, strappano il loro tempo e il loro impegno alla ricerca di beni utili per ornare un oggetto, una veste, un corpo. E il toro della grotta di Minateda dipinto migliaia di anni fa, unisce il suo autore, per il livello estetico raggiunto, per il coinvolgimento emotivo che è in grado ancora di evocare, ai grandi artisti contemporanei. Dopo aver indicato, sia pure sommariamente, come l'antropologia abbia dilatato il concetto di cultura sino a comprendere produzioni umane diversissime, avvenute in tempi e luoghi da noi remoti, mi interessa ora chiedermi quale definizione di cultura sia possibile proporre nell'attuale condizione della società contemporanea, dopo che i continui orrori della nostra cultura hanno dimostrato e continuano a dimostrare la sua prossimità sia con la barbarie più feroce sia con l'indifferenza più crudele di fronte al dolore e all'infelicità. Realisticamente non si può far ricorso a quella definizione che Eliot riteneva ancora di poter proporre nel 1948, richiamandosi a un ordine di ispirazione cristiana che avrebbe continuato i grandi miti laici del secolo precedente. I grandi miti laici, è vero, sono caduti tutti, ma l'ordine religioso si presenta anche con i caratteri assai inquietanti dell'integralismo del rifiorire di sette crudeli e di culti ossessivi. Forse è più opportuno ricorrere oggi a una definizione di cultura che riconduca a un livello di specie la sua elaborazione, che rompa i suoi confini cronologici sino ad abbracciare l'intera nostra storia evolutiva, che la riconnetta alla natura in un rapporto costante, ancora da indagare pienamente nella sua complessità ma indiscutibile nella sua dialettica e nella sua dinamicità; una definizione che richiami termini insieme opposti e contraddittori ma che forse dobbiamo abituarci a vedere coesistenti: la coscienza del limite, l'universalità dell'elaborazione culturale e allo stesso tempo la sua specificità e la sua radicale c continua differenziazione, la necessità di credere sia nell'azione collettiva che nell'inevitabile tensione con cui il desiderio individuale le si oppone.11 11 G. Bateson, Verso un'ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976; Id., Mente natura, Adelphi, Milano 1984. 7 Bibliografia I TESTI CONTRASSEGNATI DALL’ASTERISCO SONO QUELLI PARTICOLARMENTE CONSIGLIATI DALLA DOCENTE. ?? Aggarwal K., Il pensiero come riappropriazione della memoria, in "Afriche e Orienti", 1999, n. 1. ?? Amin S. (a c. di), Class and Nation: Historically and in the Current Crisis, Monthly Review Press, NewYork-London 1980. ?? Amselle J.L., Logiques métisses. Anthropologie de l'identité en Afrique et ailleurs, Payot, Paris 1990. ?? Id., Quelques réflexions sur la question des identités collectives en France aujourd'hai, in M. Fourier, G. Vermes (a c. di), Ethnicisation des rapports sociaux, L'Harmattan, Paris 1994. ?? Anderson B., Comunità immaginate, manifestolibri, Roma 1996 (1983). ?? Appadurai A., Global Ethnoscapes: Notes and Queries for a Transnational Anthropology, in Fox R. 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