Cartella stampa Dante di Godard

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CARTELLA STAMPA
Il Palazzetto Bru Zane presenta
DANTE
DI BENJAMIN GODARD
DOMENICA 31 GENNAIO 2016 - ORE 19
PRINZREGENTHEATER
MONACO DI BAVIERA (GERMANIA)
Gustave Doré - Dante -Minosse, giudice infernale
MARTEDÌ 2 FEBBRAIO 2016 - ORE 20
OPÉRA ROYAL DE VERSAILLES (FRANCIA)
UFFICIO STAMPA
StudioBegnini
Roberto Begnini e
Flaminia Persichetti
+ 39 349 55 12 059
[email protected]
SOMMARIO
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Presentazione dell’opera
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Dante di Benjamin Godard
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Sinossi
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Biografia di Benjamin Godard
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Dante e la musica nel XIXe secolo
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“Dal nulla al tutto”: Dante nelle arti figurative del XIX secolo
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Attualità su Benjamin Godard nella stagione 2015-2016
Gustave Doré - Dante - Caronte spinge le anime nella barca
PRESENTAZIONE DELL’OPERA
Opera in quattro atti, su libretto di Édouard Blau, rappresentata per la prima volta
all’Opéra-Comique a Parigi il 7 maggio 1890.
Dante Alighieri, nato a Firenze nel 1265, non fu soltanto un poeta ma anche un uomo politico di rilievo, che si impegnò
attivamente per mantenere l’autonomia della sua città contro le ambizioni del potere papale; resta però famoso
soprattutto per la sua monumentale Divina Commedia, in cui racconta, in un lungo periplo poetico, il proprio viaggio
nei tre regni dell’oltretomba. L’opera di Godard, composta nel 1890, accosta abilmente eventi politici – scene di folla a
Firenze e lotta tra Guelfi e Ghibellini – all’espressione dell’amor cortese del Medioevo. Nell’opera, Gemma, una
giovane donna sposata dal protagonista per dovere e poi abbandonata, diventa la confidente della donna amata, Beatrice,
di cui è anche la segreta rivale. Tuttavia, l’aspetto più notevole dell’opera è l’inserimento di una «Visione» una sorta di
sintesi della Divina Commedia messa in musica. L’atto III si snoda quindi tra un Inferno e un Paradiso immaginari, in cui
si succedono Apparizione di Virgilio, Coro dei dannati, Vortice infernale, Luce divina e Apoteosi di Beatrice. Qui Godard
appare al vertice della propria ispirazione melodica e mostra una perfetta padronanza compositiva, in uno stile che
oscilla tra Gounod e Massenet. Il quintetto vocale qui impegnato dà pieno risalto al potenziale eroico ed espressivo di
cantanti che in alcuni casi conobbero Wagner e Verdi.
Il Palazzetto Bru Zane ripropone Dante in forma di concerto, valorizzandone così la suddivisione in quadri fortemente
contrastati e la progressione drammatica che a tratti ricorda il genere dell’oratorio. Per l’occasione, l’équipe del Centre
de musique romantique française ha realizzato la prima edizione moderna della partitura orchestrale dell’opera, sulla
base del manoscritto autografo di Godard.
DOMENICA 31 GENNAIO – ORE 19
Prinzregentheater
Monaco di Baviera (Germania)
MARTEDÌ 2 FEBBRAIO – ORE 20
Opéra royal de Versailles (Francia)
Versione da concerto
MÜNCHNER RUNDFUNKORCHESTER
CHOR DES BAYERISCHEN RUNDFUNKS
Ulf Schirmer direzione
Dante Edgaras Montvidas
Béatrice Véronique Gens
Gemma Rachel Frenkel
Bardi Jean-François Lapointe
L’Ombre de Virgile Andrew
Foster-Williams
L’Écolier Sarah Laulan
La Voix du Hérault Topi Lethi Meyer
Ary Scheffer, Le ombre di Francesca da Rimini e Paolo Malatesta
appaiono a Dante e Virgilio (1855)
Produzione Palazzetto Bru Zane
Registrazione per il Palazzetto Bru Zane
Collana «Opéra français»
In collaborazione con Münchner Rundfunkorchester
Prima edizione moderna della partitura realizzata a partire dal manoscritto autografo
Il concertodel 31 gennaio 2016 sarà trasmesso in diretta dalla radio tedesca BR-Klassik
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DANTE DI GODARD
Gérard Condé
Nato a Parigi nel 1849 in una famiglia di agiati commercianti, Benjamin Godard si esercitò anzitutto a suonare il violino e iniziò a scrivere musica assai prima di intraprendere solidi studi di composizione al Conservatorio, nella classe di
Napoléon-Henri Reber. Benché dotato di talento eccezionale, fallì due volte al concorso del prix de Rome; poi, dato che i
rovesci di fortuna del padre lo obbligarono a guadagnarsi da vivere con la sua musica, la sua produzione assunse ritmi
sempre più frenetici, dando ai contemporanei l’immagine di un musicista di talento che dilapidava le proprie risorse
assecondando una prolificità compiacente ed eccessiva. Il fascino immediato delle sue opere contrasta con il ritratto
che ne tracciò Alfred Bruneau il giorno dopo la sua morte prematura, e che descrive un artista ai margini della corrente
dominante:
Questa specie di esilio volontario, questo rifiuto di partecipare a qualunque comunione intellettuale lo avevano
reso terribilmente malinconico. Di grande statura, sempre vestito di una lunga e triste palandrana nera, passava per la strada tutto rigido, a testa alta, fissando lo sguardo davanti a sé come certi giovani preti angosciati,
tormentati. La sua andatura da automa, i movimenti bruschi, la magrezza, il volto ossuto e devastato, ombreggiato da una barba rada, e la folta capigliatura che sfuggiva da sotto il cappello facevano voltare i passanti, al
tempo stesso incuriositi e turbati da quello strano e funereo personaggio. («Gil Blas», 11 gennaio 1895)
Benjamin Godard si vantava di non avere mai aperto una partitura di «quel bravo signor Wagner» (ce bon monsieur
Wagner), secondo le sue stesse parole, riferite da Alfred Bruneau. I suoi maestri erano Beethoven, Schumann e Mendelssohn; altri non ne voleva. Nell’ultimo ventennio del secolo XIX, quando il wagnerismo infiammava l’élite intellettuale
parigina, l’orientamento estetico di Godard appariva scandalosamente reazionario.
Alla sua fecondità, e dunque facilità di lavoro (tutta da dimostrare) si attribuiva la mancanza di un’esigenza artistica
elevata, quale almeno la concepivano i discepoli di Wagner o di César Franck: perché fare le cose semplici quando si
possono fare complicate? Ma la principale caratteristica della musica di Benjamin Godard, nelle sue numerose pagine
vocali, negli Studi per pianoforte, nei concerti, nelle sinfonie e nella musica da camera, è proprio quella di presentare agli
ascoltatori melodie accattivanti, dai ritmi ben definiti, armonizzate senza eccessiva ricercatezza (ma con più finezza di
quanto non si pensi), nell’ambito di strutture formali facilmente comprensibili e generalmente prevedibili senza però
esserlo del tutto. In fondo si trattava di un ideale mozartiano, come lo predicava allora Gounod nel deserto costituito
dai salotti wagneriani. Godard è un musicista dalla «linea limpida», come Massenet che, nei suoi Souvenirs, non teme di
evocare quel «caro, grande musicista, che fu un grande poeta sin dall’infanzia, sin dalle prime battute che scrisse! Chi
non ricorda quel capolavoro che è Le Tasse?». Quella sinfonia drammatica aveva ottenuto il Prix de la ville de Paris ed
era valsa a Godard il suo primo riconoscimento ufficiale, nel 1878. Il revival di tale opera, ritenuta la migliore che egli
abbia mai scritto, è ancora da programmare, ma ora sarà possibile grazie alla recente riscoperta negli Stati Uniti della
partitura per orchestra, che era stata a lungo data per persa. Non è questo il caso di Dante, un’opera in quattro atti ispirata alla vita del grande poeta fiorentino, andata in scena per la prima volta all’Opéra-Comique (che allora si trovava in
place du Châtelet) il 13 maggio 1890.
L’accoglienza alquanto favorevole del pubblico contrasta con la severità quasi unanime della stampa; sarà quindi opportuno relativizzare quei giudizi. Arthur Pougin, nel «Ménestel» del 18 maggio, scrive che la tessitura di Beatrice era un po’
troppo alta per Cécile Simonnet (splendida prima interprete del Roi d’Ys), spesso sovrastata dai «furori di un’orchestra
disordinata», e che la tendenza a urlare invece che ad articolare del tenore Étienne Gilbert, peraltro capace di possenti
acuti, e quella del baritono Paul Lhérie a impersonare «i traditori da melodramma agitandosi, roteando gli occhi e gesticolando in modo enfatico» non erano nulla rispetto alla ridicolaggine della messinscena…
La dedica della partitura «al M° Ambroise Thomas» è un deferente omaggio a Françoise de Rimini, ultima produzione
drammatica dell’autore di Mignon, che nell’aprile 1882 aveva ricevuto un’accoglienza tiepida. Mentre il libretto del suo
illustre predecessore mostrava, sotto forma di flash-back, l’episodio più commovente della Divina Commmedia introdotto da un prologo infernale (in cui Dante e Virgilio incontrano gli amanti) e seguito da un epilogo in cui Beatrice reca la
promessa del perdono divino, quello di Dante è composto da episodi romanzati della vita del poeta presi da Boccaccio
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e dalla Vita nova. L’allusione alla Divina Commedia (ridotta a due cantiche: l’Inferno e il Paradiso) si limita al «Sogno di
Dante», che occupa l’ultima parte del III atto. Camille Bellaigue, nella «Revue des deux mondes», non ha lesinato le
critiche a un’opera la cui musica – nonostante l’abuso di arpe, flauti «falsamente angelici» e percussioni, secondo lui
– sarebbe stata più adatta a titoli quali Ernest et Joséphine o Jenny, l’ouvrière, ma che, con Dante e la Commedia come
soggetto, mancava incredibilmente di grandezza: «Un’opera inutile e imprudente; un’opera scritta alla leggera e troppo
in fretta, ma soprattutto indecorosa, e indegna dell’importante nome che porta».
Questo processo erroneo deriva da un’idea riduttiva dell’opera e della personalità del poeta, quale viene riassunta
nell’usurato aggettivo «dantesco». La Divina Commedia, ricca com’è di dettagli familiari, con la sua insondabile profondità di pensiero e la vertiginosa concezione d’insieme, resta un capolavoro assoluto. L’orgoglio dell’autore, scelto per
attraversare l’Inferno in cui nessuno era sceso dopo Cristo e poi designato a salire per primo il monte del Purgatorio fino
alla vetta del Paradiso, ove lascerà il lettore ai margini in una visione ineffabile, sarebbe insopportabile se nella finzione
letteraria non trovassero posto anche un’ingenuità dichiarata assai toccante e una simpatica connivenza ludica. Certo,
il libretto scritto da Édouard Blau (con l’aiuto della sua collaboratrice abituale Simone Arnaud) si prende delle libertà
con la realtà, ma l’esempio viene dall’alto e se ne può benissimo apprezzare la legittimità unicamente dal punto di vista
della pertinenza drammatico-musicale.
Gustave Doré - Dante - Paolo e Francesca all’Inferno (1861)
Considerazioni sulla partitura
Introdotto da una breve progressione cromatica, il coro iniziale «di andamento assai schietto, molto movimentato e
piacevolmente dialogato» (secondo Reyer), «molto baldanzoso, pieno di movimento e di calore» (Pougin), «pieno d’energia e d’accento» (Joncières), immerge l’ascoltatore nel cuore delle lotte tra guelfi e ghibellini a Firenze, anche se, per
Bellaigue, «tale disputa non ha alcuna importanza». Ispirata dal Boccaccio, la narrazione che segna l’arrivo di Dante fa
riferimento anche ai conflitti che dividevano la Francia dal 1870 («La Patrie est en deuil»): «Tra la vita pubblica a Firenze
nel Medioevo e la nostra vi sono sorprendenti analogie», nota il critico del «Figaro», alludendo al generale Boulanger. Il
discorso che il poeta rivolge ai propri concittadini («Le ciel est si bleu sur Florence») sotto forma di una cantilena in 9/8
accompagnata dall’arpa, il cui carattere sereno e radioso contrasta con quanto lo precede, improvvisamente s’infiamma
e poi ritrova la calma, come avviene spesso nella Commedia. Si immagina qui una voce di tenore leggero, piuttosto incisiva e, a ben riflettere, più consona al personaggio di quella, più ovvia, del dotto baritono che sarebbe piaciuto a Joncières:
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Se gli si dà un aspetto diverso da quello che siamo abitauti a vedere nei quadri, con la fisionomia austera,
il volto glabro e il cappuccio, non è più Dante.
Rimasto solo, Dante dà libero sfogo alla sua disperazione. A 23 anni, che cosa importa la futura gloria, rispetto all’abbandono? L’aria è in due parti: la prima è introversa, ossessiva, e continua a girare intorno al la ostinato del basso, che «non
manca di pateticità, né d’ampiezza » (Bellaigue), la seconda è agitata e caratterizzata da una vocalità più appassionata,
in cui il poeta esprime la decisione di riconquistare la sua bella. Ci si chiede perché Pougin annoveri quest’aria tra i pezzi
«mancati» dell’opera: è tutto il contrario. Appena uscito Dante, Beatrice e la sua confidente Gemma (futura moglie del
poeta) escono dalla cappella. Il colore pastorale («L’accompagnamento è delizioso, con quel ritmo sincopato che pare il
battere d’ali di due colombe», scrive Joncières) e l’ispirazione musicale ingenua danno allo scambio tra le due donne un
tono che Bellaigue definirà «prezioso, da operetta sentimentale»: Beatrice confessa che vorrebbe varcare nuovamente
quella soglia avvolta in un sudario, giacché deve rinunciare a Dante, il dolce complice dei giochi della sua infanzia. Tutto
ciò non ha molto a che fare con il ritratto di Beatrice che Dante ci ha lasciato, però, visto e considerato che in vita di lei
le rivolse a malapena la parola, non si è forse preso una libertà maggiore beatificandola nella sua opera e dialogando a
suo piacimento con la sua protettrice? Qui non basta invocare le regole dell’amor cortese.
Il coup de théâtre che conclude il primo atto va ancora più in là: Dante, eletto dai suoi concittadini senza essersi candidato, fa appello alla propria natura di sognatore per tentare di declinare l’incarico – lo attestano le ali della sua linea
vocale – e le suppliche sempre più veementi della folla, cui si unisce il monito patriottico di Bardi («Pour être grand, fais
ton devoir!»), servono solo a fargli reiterare la propria debolezza. Tuttavia, la comparsa di Beatrice e i suoi argomenti,
che vanno da un’avvolgente dolcezza a un’ardente fermezza («Pour être aimé, fais ton devoir!»), lo inducono a decidersi,
aprendo gli occhi – come nel Werther – a Gemma-Sophie e a Bardi-Albert, i quali esclamano «L’ama ancora!». Peraltro,
questa scena immaginaria trova una certa giustificazione nel ruolo di iniziatrice (ovvero di dispensatrice di lezioni) che
Dante attribuirà a Beatrice nell’aldilà. «Non c’è nulla di più volgare del canto patriottico di Dante nel momento in cui
accetta il potere», deplora Bellaigue, e non ha torto. I fiorentini, buon pubblico, giurano «di riunirsi per sempre in un
abbraccio fraterno», il che fa scrivere a Reyer: «Così finisce il primo atto, con l’accompagnamento vigorosamente ritmato
di trombe, piatti e tamburo», creando un effetto di cui più oltre loderà «la ricca sonorità creata dall’accompagnamento
orchestrale e vocale»… Tali giudizi paradossali sembrano fatti apposta per acuire la curiosità contemporanea.
Quando si alza il sipario sul secondo atto, il cupo motivo di Bardi (che ha dato materia al Preludio) ha già creato un’atmosfera sinistra: «Come si è oscurato il cielo sopra di noi!», esclama Simeone, prima di ammettere: «Non è soltanto sopra
di noi che tutto è nero. Ah! è dentro di me!». Il falso amico conta sull’arrivo di Carlo di Valois a Firenze per scacciare
Dante dalla città, ma non sa che cosa pensare di Beatrice, di cui ricorda, nota per nota, il canto («Va sans regret», etc.)
e che ormai lo ossessiona. Un semplice recitativo non avrebbe avuto l’impatto necessario a far capire fino a che punto
questa scena contenga tutti gli elementi del futuro dramma. Pertanto, un elemento ricorrente («Qu’on ouvre à l’étranger
les portes de Florence») che rimanga più impresso giustifica l’indicazione «Aria» sulla partitura. L’allusione di Bellaigue
a un coro di cospiratori da operetta (tra il Preludio e l’aria) fa pensare che questo sia stato tagliato. Se ne ritroverà menzione più avanti.
Il duetto tra Bardi e Gemma (venuta a persuaderlo di rendere a Beatrice la libertà di scegliere, così come lei stessa accetta
di rinunciare a Dante) «la prima sera fu accolto favorevolmente», nota Pougin, che attribuisce tale successo unicamente
al talento del mezzosoprano, Jeanne-Eugénie Nardi. Reyer, per contro, cerca di scusare Godard: «Non vedo qui una di
quelle situazioni capaci di stimolare l’immaginazione di un compositore». Questo duetto, assai sviluppato e con accenti
di bella intensità, presenta peraltro una progressione ben riuscita, fino alla paradossale embricazione dei protagonisti,
che restano entrambi arroccati sulla rispettiva posizione, ma hanno la felice idea di uscire per lasciar comparire Beatrice,
la quale ha sentito tutto… e, disperata, cerca conforto in una romanza. Una romanza nel 1890 (o, se vogliamo, nel 1288)?
Si tratta di una scelta più sottile di quanto sembra, fatta perché l’ascoltatore colga un legame tra l’ispirazione vocale
retrospettiva e la nostalgica evocazione di ciò che avrebbe dovuto essere e non sarà mai. Si noti che, al di fuori dell’andamento fluido e del ritmo in 6/8, «Comme un doux nid», il brano, caratterizzato da delicate raffinatezze espressive, non
ha nulla del prototipo della romanza non modulante con couplets identici, conclusi con il classico «singhiozzo». Reyer
segnala che Mademoiselle Simonnet ha preferito cantare un’altra pagina (scritta da Godard per il baritono Faure) «ben
lontana dal [possedere…] la grazia e il bel sentimento» di quella della partitura.
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«Il movimento languido, ma assai appassionato del duetto» (Reyer) in cui Beatrice cede senza farsi troppo pregare agli
argomenti egocentrici di Dante («C’est me prendre mon génie que me ravir ton amour!»), dapprima senza infamia e senza
lode, s’innalza poi in una convulsa, lirica perorazione di cui Pougin e Bellaigue sottolineeranno il valore. Ciò non fa che
accentuare il contrasto con l’inizio del Finale, che Joncières ritiene «completamente mancato», mentre Reyer ne apprezza
«la fine atmosfera da commedia e i particolari orchestrali». È vero che con l’arrivo di Bardi, sempre accompagnato dal suo
motivo, e le cui parole sono sottolineate (come già nel duetto con Gemma) da rumorose figure di bassi (ritmi puntati e trioli
in ottave), le cose si guastano. Ma è soprattutto l’ensemble in 6/8 («C’en est fait»), che sospende l’azione, ad avere l’aria di
qualcosa di già sentito; Godard lo avrebbe accorciato dopo la generale. Il soprassalto di Dante, la ripresa delle canzonature,
l’annuncio dell’esilio, il vano tentativo di sottrarre Beatrice alla promessa che le è stata strappata movimentano
un po’ l’azione prima che cali il sipario. Per finire, se ben eseguita, questa pagina non sarebbe affatto deludente.
Palesemente, la focosa Tarantella danzata che apre il terzo atto («ben modulata e piacevolmente orchestrata»,
concede il terribile Adolphe Jullien nel «Moniteur universel» del 19 maggio, e in cui Reyer crede di individuare un
richiamo all’inizio dei Troyens) ha lo scopo di «compensare» lo spettatore, distogliendolo dal dramma cui ha assistito
per poterlo immergere meglio in un altro dramma. Il nobile canto del Vecchio introduce l’accento patriarcale che
prepara l’arrivo degli scolari venuti a onorare la tomba di Virgilio al suono di flauti e arpe (una pagina graziosa che
fu tagliata dopo la prova generale). Mentre lo stile musicale si eleva gradatamente, gli ammiratori del poeta latino
lasciano il posto a una figura più illustre di loro: Dante, «vestito del suo storico costume», rivolge al suo maestro
una fervente preghiera, affinché gli infonda l’ispirazione per realizzare il capolavoro di cui sogna. L’Invocazione,
che «non manca, tutt’altro, di slancio né di potenza» (Bellaigue), «né di slancio né di ampiezza» (Pougin) non è
particolarmente notevole dal punto di vista vocale; sono piuttosto la sobrietà della declamazione, il colore orchestrale
e armonico e ancora di più, forse, l’aspra bellezza del cupo recitativo a spiegarne l’impatto. Così l’aveva voluta Godard.
Poi, come Rinaldo nei giardini di Armida, Dante si addormenta e vede in sogno ciò che ha tanto vagheggiato
da rimanerne spossato. La musica si semplifica, si incupisce e poi cresce fino al triplo forte: Virgilio esce
allora dalla tomba – il che, con le luci giuste, dovrebbe confermare allo spettatore che le convenzioni più
trite dell’opera lirica non sono le meno efficaci. In compenso, era difficile far parlare «chi per lungo silenzio
parea fioco» (Inferno I, 63); Godard ha scelto la patriarcale regolarità di un lento valzer, che Bellaigue trovava
«uggioso», un’impressione forse dovuta unicamente al talento «decoroso» del baritono Émile-Alexandre Taskin.
Ciò che segue provocò una stroncatura unanime, anche perché, mancando i mezzi tecnici, le scene infernali, ampiamente
mutilate eliminando episodi che forse avrebbero riposato le orecchie, vennero eseguite a sipario abbassato. La lettura
della riduzione per pianoforte non basta a farsi un’idea dell’effetto, ma lascia intravedere grandi ambizioni. A dar
retta a Joncières, «nel mezzo del fragore dell’orchestra, più dissonante che spaventevole, si odono le urla dei dannati.
Devo confessare che tutte quelle scale cromatiche, quegli accordi di settima diminuita, le aspre dissonanze, le sonorità
assordanti degli ottoni e delle percussioni, più che commuovermi, mi hanno stancato». Reyer parla di una «sinfonia
folgorante, dagli accordi stridenti e penetranti, con scale cromatiche cupe, che danno un’impressione spaventosa e
terribile dei tormenti dell’inferno». Il «Monsieur de l’Orchestre» del «Figaro», più sintetico, si lamenta: «Oh! La mia
testa, la mia povera testa!». Ugolino, cannibale affamato, e gli sfortunati amanti Paolo e Francesca suscitano musiche
appropriate, poi il Cielo s’illumina. Qui l’ordine deve essere così perfetto che un’annotazione ingiunge ai direttori
d’orchestra e del canto di impedire agli esecutori di serrare le semicrome che seguono i trioli, in una figura ritmica
immutabile di crescendo/diminuendo. Bella idea, ma «il persistere del ritmo un po’ pesante che accompagna il coro
celeste, interrotto dalla visione di Beatrice, conferisce al brano un carattere assai più strano che religioso» (Reyer),
e infatti, secondo Bellaigue, «questi accordi schiacciati e schiaccianti, dal ritmo affannoso» appaiono « in totale
contrasto con qualsiasi illusione di beatitudine e serenità». Molto probabilmente, però, il problema deriva da esecutori
non troppo sottili, piuttosto che dalla musica, ben concepita. Ancora Joncières: «Beatrice appare tra le nuvole
mormorando una melodia indefinita, accompagnata da una nota del violino cui il signor Godard attribuisce non so
quale significato, giacché essa ricomparirà con strana insistenza al momento della morte della fanciulla, nel quarto
atto. Questa nota glissata sul cantino del violino è come una specie di lamentoso miagolio, di effetto non molto felice».
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Gustave Doré - Dante - Ugolino che addenta l’arcivescovo Ruggieri (1861)
Il preludio del quarto atto riprende il motivo associato a Beatrice, eseguito dal violino solista. Il primo quadro, che ci
presenta il risveglio di Dante, l’arrivo di Bardi in preda ai rimorsi e deciso a rendergli la donna amata (!) e la decisione
dei due di correre a Napoli a cercarla nel convento in cui si è ritirata, non manca di freschezza (all’inizio) né di forza
(in seguito), ma all’Opéra-Comique venne tagliato per mostrare senza por tempo in mezzo «la povera reclusa in abito
bianco scollato, con le braccia nude e i capelli sciolti, come conviene a un’eroina da melodramma sul punto di morire»
(Joncières). Prima però dobbiamo assistere alla processione delle monache al suono di una lieve marcia a tre tempi e
ascoltare il commovente racconto di Gemma in veste di romanza («Au milieu de vous, dans ce monastère»), che Jullien
ritiene «scritto evidentemente in vista dell’esecuzione nei salotti», e che adotta piuttosto il tono degli antichi lamenti,
in cui la semplicità della linea vocale dà risalto, per contrasto, alla pateticità del soggetto. Poi le due donne cantano
insieme un aereo duetto, da cui traspare la tenera complicità che le unisce, e la cui tensione monta progressivamente.
L’aria di Beatrice, rimasta sola, è così attesa, così convenzionale nella sua espressione che il compositore ha fatto del suo
meglio per valorizzare le capacità della cantante, il che, nell’ultimo decennio del XIX secolo, era contrario alle nuove
convinzioni. In ogni caso Godard ci riesce, regalandoci una pagina oggi più apprezzabile di quanto non fosse allora. In
compenso, concede Adolphe Jullien, «ci sono dettagli di una certa finezza nella scena in cui Gemma annuncia l’arrivo di
due stranieri». Il quartetto che riunisce i protagonisti ha valore per il carattere religioso dell’espressione. Rimasti soli,
i due amanti si lanciano in un duetto che venne bissato, il che dimostra che è ben collocato. Nell’ultima scena, in cui
Beatrice muore, ritorna il motivo di tre note, con un rimando all’accompagnamento del Coro celeste.
Questa rapida revisione della partitura fa pensare che l’atteggiamento quasi unanime – o, comunque, spesso paradossale – di rifiuto da parte della critica fosse dovuto non tanto alla mancanza di qualità dell’opera, quanto al contesto,
rispetto al quale tali qualità si manifestavano con difficoltà. Eugène de Solenière (Notules et impressions musicales, 1902)
ne dà una lettura sicuramente corretta:
Innanzitutto, Godard non apparteneva alla sua epoca […]. Era un sognatore, un romantico in ritardo sui
tempi, un emotivo introverso con alcune ingenuità espressive e, per così dire, pudori di scrittura; pur nelle
sue inquietudini di uomo nervoso e pessimista, aveva la sincerità dei sentimenti semplici, la franchezza di un
pensiero limpido.
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SINOSSI
ATTO I
Una pubblica piazza a Firenze.
La città è dilaniata dalle lotte tra guelfi e ghibellini. Mentre l’assemblea del popolo si appresta a nominare un priore perché
appiani le tensioni, Simeone Bardi rivela all’amico Dante, appena rientrato in città, che presto sposerà la fanciulla che amava
in segreto: la bella Beatrice. A queste parole, il poeta, che ne è innamorato lui pure, reprime la propria emozione. Usciti i due
uomini, entra Beatrice, seguita dalla sua confidente Gemma, alla quale confessa il proprio amore per Dante, che peraltro teme
di non rivedere mai più. Il popolo esce dal palazzo, e si viene a sapere che l’assemblea ha nominato Dante capo supremo della
città; udendo questo nome, Beatrice trasale. Dante sopraggiunge, intenzionato a rifiutare tale onore. La fanciulla allora si fa
avanti e gli ridà fiducia in se stesso: «Per essere amato, fai il tuo dovere». L’ambigua affermazione inquieta Bardi, mentre il
popolo acclama il suo eroe.
ATTO II
Una sala di Palazzo Vecchio a Firenze.
Bardi, furioso, scaglia invettive contro Dante. A questo punto Gemma viene a chiedergli di rinunciare alla mano di Beatrice.
Quando Simeone fa per scacciarla, accusandola di non sapere che cosa sia la gelosia, la giovane gli confessa che essa pure si
strugge per un amore non corrisposto: è infatti innamorata dello stesso Dante, che ama invece Beatrice. I due si allontanano
ed ecco comparire Beatrice, la quale ha ascoltato tutto, nascosta dietro un tendaggio; le parole d’odio dell’uno e la confessione
d’amore dell’altra la convincono a rinunciare a Dante, il quale entra proprio in quel momento e manifesta tutta la sua passione
alla fanciulla, che lo respinge. Travolta dall’emozione, Beatrice finisce per cedere. Giunge allora un gruppo di guelfi e ghibellini,
seguiti da Bardi: Carlo di Valois è entrato a Firenze e ha decretato l’esilio di Dante, mentre Bardi condanna Beatrice a finire i
suoi giorni in un convento.
ATTO III
Il Monte Posillipo. A sinistra, una tomba scavata nella roccia, ombreggiata da oleandri.
Mentre alcuni gruppi di contadini danzano al suono di strumenti campestri, un vecchio indica la tomba di Virgilio a una
comitiva di scolari venuti dalla città, i quali l’adornano di rami di palma e di corone, cantando un inno in sua gloria. Tutti
si allontanano, mentre il giorno cala lentamente. Appare Dante, il quale raggiunge a fatica la sommità del monte, esausto e
con la morte nel cuore. Il poeta supplica Virgilio di dargli l’ispirazione necessaria a ritrovare la gloria, suggerendogli il poema
ideale: in questo modo potrà recuperare la stima di Beatrice. Gli occhi gli si chiudono per la stanchezza; mentre si addormenta,
la tomba si apre lentamente e ne esce Virgilio, incoronato d’alloro. In una visione al contempo sublime e terribile, egli mostra
a Dante l’Inferno – ove si trovano, tra le anime cadute, quelle di Ugolino e di Paolo e Francesca – e il Paradiso. In un’ultima
visione celeste, Beatrice appare tra gli angeli e gli promette di riunirsi a lui se Dante porterà a compimento la sua opera.
ATTO IV
Primo quadro
Stessa scena dell’atto precedente
Dante è ridestato da canti di pastori. Inebriato dal suo sogno, è deciso a ritrovare Beatrice. Giunge Bardi, seguendo le indicazioni
di Gemma, e gli confessa il proprio pentimento: alla gelosia si è sostituito il rimorso. Egli si offre di condurre Dante al convento
napoletano ove è rinchiusa Beatrice, e il poeta perdona colui che gli rende la felicità. I due partono.
Secondo quadro
A Napoli. Il giardino di un convento.
Beatrice passa tra le monache, pallida, reggendosi in piedi a stento. Essa confida a Gemma, venuta a trovarla, che la sua morte
è ormai imminente; tuttavia, si riprende allorché le viene annunciata la visita di due uomini, sperando di rivedere Dante. Ed è
proprio lui che entra, seguito da Bardi. I due giovani s’inebriano delle stesse parole d’amore che avevano scambiato a Firenze.
Ma la sofferenza ha minato la salute di Beatrice, che improvvisamente viene meno. Benché Gemma e Dante si affrettino a
soccorrerla, i suoi occhi si chiudono per sempre, dopo essersi rivolti al cielo. Essa spira, ripetendo la dolce promessa che Dante
aveva udito in sogno. Il poeta, disperato, ascolta le parole di conforto di Gemma e si rialza, come folgorato: «Sì! Devo vivere
ancora, per lei devo cantare! Dio l’ha fatta mortale, io la voglio immortalare!»
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BIOGRAFIA DI GODARD
Benjamin Godard (1849-1895)
Nato nel 1849, enfant prodige del violino, allievo di Richard Hammer e di Henri
Vieuxtemps, Benjamin Godard entra al Conservatorio parigino, ove studia composizione sotto la guida di Henri Reber. Viene respinto due volte al concorso del prix de
Rome, ma ciò nonostante svolge un ruolo attivo nella vita musicale francese dell’inizio
della Terza Repubblica: strumentista di vaglia, Godard suona in un quartetto, e i suoi
pezzi per pianoforte e le sue mélodies riscuotono un sicuro successo nei salotti. È anche
direttore d’orchestra; in questa veste, rivitalizza l’attività dei concerti Pasdeloup e fonda la Société des concerts modernes. Nel 1887 è chiamato a insegnare al Conservatorio
di Parigi, ove diviene titolare del corso di musica d’insieme. Il suo catalogo, comprendente circa 200 numeri d’opus, tocca tutti i generi, tranne la musica sacra: sei opere,
tra cui Jocelyn (1888) e La Vivandière (1895), rimasta incompiuta, che conobbe un grande
successo postumo; numerosi pezzi per orchestra, tra cui varie sinfonie a programma
Ritratto di Benjamin Godard (in particolare, la Symphonie légendaire con cori, e Le Tasse, sinfonia drammatica con
(1878) solisti e cori che gli valse il Prix de la Ville de Paris nel 1878); parecchi concerti e brani
di musica da camera, nonché un’abbondante produzione di mélodies e di musica per
pianoforte. Lo stile di Godard, alla maniera del classicismo romantico di Mendelssohn,
rimane tradizionale, pur traendo spunto da ispirazioni fortemente complementari (esotismo, regionalismo, musica antica rivisitata); peraltro, il compositore manifestò apertamente il proprio disinteresse per lo stile wagneriano. La sua carriera si interruppe prematuramente: di salute cagionevole, Godard è costretto a lasciare Parigi per trasferirsi
a Cannes, dove muore nel 1895 a soli 46 anni.
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DANTE E LA MUSICA DEL XIX SECOLO
di Hélène Cao
«Quando il poeta dipinge l’Inferno, ritrae la sua vita.»
(Victor Hugo, «Après une lecture de Dante», Les Voix intérieures, 1837)
Dopo essere stato messo in musica dai madrigalisti tardo-rinascimentali, Dante entrò in un purgatorio da cui uscì solo
all’inizio del XIX secolo. Nel 1805, il Canto XXXIII di Dante di Nicola Zingarelli inaugurò una lunga serie di composizioni
ispirate al poeta. Tuttavia, solo una parte dell’opera di Dante trovò rispondenza nella sensibilità romantica: i musicisti
scelsero quasi tutti di attingere alla Commedia, privilegiando, all’interno di tale opus magnum, l’Inferno, e in particolare
la tragica storia di Francesca da Rimini (canto V).
Dante, precursore del romanticismo
I compositori trascurarono l’esilio politico di Dante (il poeta dovette lasciare per sempre Firenze nel 1302, in seguito alla
presa del potere da parte dei guelfi neri), né si occuparono delle sue speculazioni filosofiche, che gli erano servite da
antidoto alla morte di Beatrice; l’amore rovinato dalla morte li turbava, ma lasciarono da parte anche la passione di un
sapere totale, che veniva associata piuttosto a Faust. Questa visione si riverberò anche sulla loro percezione della figura
di Beatrice. Nel 1837, Liszt scriveva a proposito della Divina Commedia:
In questo poema immenso, incomparabile, una cosa mi ha sempre particolarmente colpito, ed è che il poeta abbia concepito
Beatrice non come ideale dell’amore, ma come ideale della scienza. Non amo affatto trovare in quel bel corpo trasfigurato lo
spirito di una dotta teologa, che spiega il dogma, confuta l’eresia, discetta sui misteri. Non è per mezzo del ragionamento
e della dimostrazione che la donna regna sul cuore dell’uomo; a lei non spetta dimostrargli che Dio esiste, quanto piuttosto
fargliene intuire la presenza attraverso l’amore, e attirarlo verso le cose celesti dietro di sé. È nel sentimento, e non nel
sapere, che sta la sua forza. Una donna che ama è sublime; è lei l’autentico angelo custode dell’uomo. Sorella della Margherita goethiana, Beatrice diventa un’altra incarnazione dell’«eterno femminino».
La discesa di Dante agli inferi naturalmente avvince un secolo affascinato dal fantastico, avido di immagini spettacolari
che giustifichino innovazioni armoniche e orchestrali. Ma il gusto del pittoresco si accompagna all’interrogativo sul
destino del mondo e dell’uomo, all’angoscia di fronte all’ignoto e al futuro. Tale inquietudine esistenziale, che si affaccia
sulle scene dell’opera, è ancora più evidente nell’ambito del teatro. Non è un caso che Gustav Mahler intitoli il finale
della sua Sinfonia n. 1 (1888, rivista nel 1893-1896) «Dall’Inferno al Paradiso» e la descriva come «l’esplosione violenta
e disperata di un cuore profondamente straziato» (in un secondo momento, queste precisazioni furono eliminate dal
compositore). Del resto, il percorso dall’Inferno al Paradiso è assimilato alla ricerca dell’ideale, laddove Dante incarna
l’artista romantico, come attestano gli ultimi versi di Après une lecture de Dante di Victor Hugo:
Sì, è ben là la vita, o poeta ispirato!
E il suo cammino oscuro, d’ostacoli affollato.
Ma perché nulla manchi, in questa strada stretta,
voi ci mostrate sempre, ritto alla vostra destra,
il geniale poeta dagli occhi raggianti,
Virgilio che sereno ci dice: Andiamo avanti.
Quanto alla dimensione religiosa della Commedia (cui Boccaccio appose l’aggettivo «divina», che non c’era nel titolo
originale), essa risponde all’esigenza di una spiritualità a margine dei dogmi ufficiali, di cui si fanno eco il Magnificat
che conclude la Dante-Symphonie di Liszt (1856-1857) e le Laudi alla Vergine Maria sull’ultimo canto del Paradiso, terzo
dei Quattro pezzi sacri di Verdi (1889-1890).
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La Divina Commedia, inesauribile fonte di ispirazione
Tanto gentile e tanto onesta, brano per pianoforte di Liszt da un sonetto della Vita nova, è una delle rare partiture di
matrice dantesca non ispirate alla Commedia, di cui alcuni personaggi, in particolare, attirarono i musicisti: ci riferiamo
a Pia de’ Tolomei (Canto V de Purgatorio), fonte di quattro opere (una delle quali di Donizetti, composta nel 1837), a
Ugolino della Gherardesca (Canto XXXIII dell’Inferno) e naturalmente a Francesca da Rimini. La vicenda del tiranno
pisano Ugolino offriva l’orrore grondante sangue che tanto affascinava l’Ottocento, poiché si raccontava – a causa
dell’interpretazione erronea di un verso di Dante – che avesse mangiato i suoi figli. Questo sinistro personaggio ispirò
il Canto XXXIII di Dante per quattro soprani e trio d’archi di Niccolò Zingarelli, l’opera Ugolino, oder Der Hungerturm
di Ignaz Xaver Seyfried (1821), Il conte Ugolino di Donizetti (cantata per basso e pianoforte, 1828). Dante in persona
si ritrova, in particolare, nel Dante di Benjamin Godard, nell’opera di Alexandre Massa Le Dante (1868), nella mélodie di
William Chaumet Dante au tombeau de Béatrice (1877), e nel poema sinfonico di Max d’Ollone La Vision de Dante (1899).
Aggiungiamo Françoise de Rimini, opera di Ambroise Thomas in cui Dante e Virgilio, all’Inferno, assistono al dramma di
Paolo e Francesca (1882).
Tra il 1804 e il 1857 (anno in cui Liszt porta a termine la sua Dante-Symphonie), Francesca da Rimini ispirò più di venti
opere soltanto in Italia (Carlini nel 1825, Mercadante nel 1830-1831, Maglioni nel 1840, etc.). Poi varcò le frontiere della
penisola, adottata in Germania da Hermann Goetz (1877), in Francia da Marius Boullard (in un’operetta del 1876) e da
Ambroise Thomas. Benché l’esistenza di Francesca e la sua relazione con il cognato Paolo siano storicamente attestate,
la realtà dei fatti fu molto lontana dall’immagine dantesca di un amore assoluto. L’immagine è anche quella di un dolore
infinito, che si riassume nel lamento della giovane donna, tante volte messo in musica: «Nessun maggior dolore /
che
ricordarsi del tempo felice / ne la miseria». Significativamente, Rossini include questi versi nel terzo atto di Otello (1816),
ove sono cantati da un gondoliere; udendoli, Desdemona ha un presentimento del suo funesto destino.
Francesca, unica donna a prendere la parola nell’Inferno, attirò l’attenzione dei musicisti anche perché compare in un
episodio che possiede un notevole potenziale drammatico. Quando i romantici portarono la storia sulle scene della
lirica, la adattarono alle convenzioni dell’epoca (si può dire lo stesso delle opere su Pia de’ Tolomei o su Ugolino). La
partitura di Ambroise Thomas contiene arie, pezzi d’insieme e cori, nonché i dovuti «pezzi di genere» (musica militare,
preghiera, balletto). Eccezione che conferma la regola, Rossini fa riferimento a Dante proprio in un atto in cui s’allontana
dalle consuetudini del tempo con notevole audacia, abbandonando le strutture formali dell’opera seria a favore di un
discorso continuo.
Dante e la musica strumentale
I compositori adattarono Dante, ma non misero quasi mai in musica i suoi versi, collocandoli, per di più, al centro della loro
riflessione sulla poetizzazione della musica. Nella seconda metà del XIX secolo, al momento dello sviluppo del genere del
poema sinfonico, Dante ispirò numerose opere strumentali, oggi quasi tutte cadute nell’oblio, nonostante alcuni innegabili
successi, come The Passing of Beatrice di William Wallace (1892). Čajkovskij e Liszt hanno resistito alla prova del tempo. Alcuni
anni dopo aver composto la «fantasia sinfonica» Francesca da Rimini (1876), Čajkovskij si convinse, tuttavia, di essere rimasto
alla superficie del soggetto. In effetti, la tempestosità dell’Inferno (nel primo e nell’ultimo movimento) e il lirismo della parte
centrale ricordano alquanto Roméo et Juliette, la sua «ouverture-fantaisie» del 1869. Diversi critici e compositori denunciarono
l’incongruità della presenza, nell’opera, di inflessioni troppo russe. Tuttavia, l’evocazione dell’Inferno (influenzata dalle
incisioni di Gustave Doré, che avevano molto impressionato Čajkovskij) impose una serie di dissonanze e una instabilità
armonica che il musicista forse non avrebbe concepito senza tale soggetto.
Dante fu uno dei fili conduttori della creatività di Liszt. «Se sento in me la vita e la forza necessarie, intraprenderò un’opera
sinfonica basata su Dante e poi un’altra su Faust», dichiarava il compositore sin dal 1839. Ricordiamo il vero titolo della DanteSymphonie: Eine Symphonie zu Dantes Divina Commedia («Una sinfonia sulla Divina Commedia di Dante»), che mette in evidenza
l’opera letteraria, non il nome del suo autore. A ognuna delle tre cantiche del poema (Inferno, Purgatorio, Paradiso) corrisponde
un movimento, laddove l’ultimo elude la parola di Dante a favore del Magnificat liturgico, cantato da un coro di voci femminili
(o bianche). Nel primo movimento, la voce di Dante risuona in absentia, giacché alcuni versi dell’Inferno sono scritti al di sopra
della linea melodica strumentale.
Nel 1861, Liszt terminò la composizione di Après une lecture du Dante, inserita nella Deuxième Année de Pèlerinage. Inizialmente
aveva pensato di intitolarla Paralipomènes à la Divina Commedia. Fantaisie symphonique, segno che considerava questo suo
pezzo pianistico come una sorta di «supplemento» all’opera di Dante e non come una semplice illustrazione, e che ambiva
a dargli un respiro orchestrale. Il sostrato letterario lo porta a elaborare una forma che si emancipa dagli schemi prestabiliti
(benché sussistano alcune tracce di forma sonata) e ad arditezze di linguaggio senza confronti all’epoca (si noti, in particolare,
l’importanza del tritono). Dante «troverà forse un giorno la sua espressione musicale nel Beethoven del futuro», supponeva
Liszt nel 1839 in una lettera a Berlioz. Nel corso dell’intero Ottocento, l’autore della Divina Commedia seppe così soddisfare
le esigenze di intrattenimento del pubblico borghese e alimentare aspirazioni metafisiche che invocavano un rinnovamento
dello stile e delle forme.
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DAL NULLA AL TUTTO:
DANTE NELLE ARTI FIGURATIVE NEL XIX SECOLO
di Pierre Sérié
Per quanto ciò possa sembrare sorprendente, fino agli anni Venti dell’Ottocento si leggeva Dante (faceva parte della
cultura classico-umanistica), ma non lo si dipingeva. Vedremo anche come l’idea di realizzare un quadro di grande
formato ispirato alla Divina Commedia sia venuta, non a caso, a un provocatore, per suscitare scandalo pur restando
entro limiti accettabili: fu nel 1822, il provocatore in questione si chiamava Eugène Delacroix e la tela era intitolata
Dante e Virgilio. Prima di quella data, che creò un precedente, ci si era accontentati di illustrare il testo di Dante per
mezzo di incisioni a stampa. Del resto, due inglesi tra loro coetanei gli devono la loro rispettiva fama: lo scultore John
Flaxman e l’artista e poeta William Blake.
Dal punto di vista della raffigurazione, dunque,
l’opera di Dante trovò riscontro solo molto
tardi, mentre sin dal Cinquecento essa occupò
una posizione privilegiata, se non di massimo
rilievo, nel pantheon culturale dell’Occidente.
Non a caso, al titolo stesso del suo capolavoro
fu aggiunto, a partire dell’edizione veneziana
del 1555, un epiteto che collocava l’opera al di
sopra di ogni altra, e da allora la Commedia fu
nota a tutti come la Divina Commedia. Quanto
al suo autore, Raffaello gli attribuisce tutti gli
onori nel suo affresco del Parnaso (1510-1511),
nelle Stanze Vaticane (fig. 1): è l’unico poeta
moderno che figuri tra gli antichi sulla vetta del
monte Parnaso, a sinistra del gruppo centrale
con Apollo circondato dalle Muse.
Dante vi è rappresentato di profilo mentre sale al Parnaso andando incontro a Omero (il poeta fondatore per eccellenza)
e a Virgilio; non è ancora esattamente sullo stesso piano dei suoi due grandi predecessori, ma quasi. La precisazione è
importante, perché non indica soltanto la precedenza di Dante su tutti i moderni (è pure in posizione migliore rispetto
a buona parte degli autori classici, perlopiù relegati ai piani inferiori), ma presuppone anche che gli spetti un ruolo
di particolare rilievo. L’ascesa quasi compiuta esprime la promessa di una nuova età dell’oro (il Rinascimento, di là da
venire intorno al 1300, ma già ampiamente in atto nel 1510) di cui Dante sarebbe stato l’iniziatore. Il divino fiorentino
avrebbe dunque fatto da intermediario tra gli antichi e i moderni, secondo una concezione ciclica della storia, basata su
un’alternanza tra fasi di progresso e periodi di declino. Pur appartenendo ancora a un’età oscura (il Medioevo), Dante
sarebbe stato il primo ad annunciare il ritorno dei tempi felici. Del resto, era lui stesso a intenderla così, dal momento che
si rivolge a Virgilio in questi termini, come se non dovesse nulla ai suoi contemporanei o ai suoi immediati predecessori:
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore.
(Inferno I, vv. 85-87)
Da Raffaello a Ingres, dal Cinquecento italiano all’Ottocento francese, la filiazione è diretta – «Raffaello è Dio sceso in
terra», diceva Ingres – e il tono non cambia di una virgola. L’Apothéose d’Homère (1827) conferisce a Dante lo stesso status
privilegiato nell’allegoria della storia delle arti e delle lettere. Lo ritroviamo sul lato sinistro della composizione, vicino
a Virgilio – che gli tiene una mano sulla spalla – e ritratto a mezza figura tra il registro inferiore, dedicato ai moderni,
che appaiono a mezzo busto a guisa di spettatori, e gli antichi, in piedi intorno a Omero. È l’unico a far parte al tempo
stesso degli antichi e dei moderni e a riunire gli uni e gli altri – fatta eccezione per Raffaello, che vediamo proprio sopra
di lui, condotto da Apelle e perfettamente integrato nel gruppo degli antichi: dunque ci sarebbe un moderno ancora
più progredito di Dante per quanto riguarda il ritorno all’antichità... Ma a parte la devozione personale che Ingres
nutre per Raffaello, l’importante è il consenso intorno alla figura di Dante, consacrato principe dei poeti dell’epoca
moderna: padre tutelare del Rinascimento, in un certo senso. Su questo punto, Ingres e Delacroix sono d’accordo, anche
se Delacroix lo dice a modo suo – ed è un modo che inevitabilmente stona: «Senza Dante, Giotto non conta» (Journal, 4
maggio 1853). Ovvero: io, pittore, riconosco che la mia arte deve tutto alla poesia.
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Resta il fatto che, da Raffaello a Ingres, Dante è, al contempo, in tutte le teste e in nessun museo, laddove non si parla
più di pantheon degli uomini illustri. Perché questa impossibilità di trarre ispirazione pittorica dall’opera di Dante
fino al famoso scoppio di tuono del 1822 e alla comparsa di quel «quadro di un giovane pittore che fu una rivoluzione»
(Baudelaire, Exposition universelle de 1855)? Evidentemente, il coraggio di tradurre la Divina Commedia in pittura poteva
averlo solo un Delacroix. Quel quadro, dunque, sarebbe il talismano dei moderni emancipati (i romantici) intenti a
scalzare l’edificio teorico classico? Odilon Redon lo dice chiaramente: se il Dante et Virgile di Delacroix ha fatto epoca,
è stato soprattutto per il suo soggetto. Questa tela «è moderna perché somiglia a Dante stesso, e perché quello spirito
elevato, il più sorprendente forse […], quel grande genio toscano, dico io, era tanto potente in sé da essere ancora
presente tra noi al giorno d’oggi» (À soi-même, 1878). Delacroix sarebbe debitore di tutto alla Divina Commedia.
Il capolavoro di Dante, in effetti, si attagliava piuttosto bene al progetto anti-classico di ibridazione dei generi
propugnato da Delacroix o da Victor Hugo (si veda la prefazione al Cromwell, 1827). In questo trittico, che porta il
lettore dal regno dei peccatori (Inferno) a quello del pentimento (Purgatorio) per accedere infine alla contemplazione
dell’eterna verità (Paradiso), Dante ricorre a tutti i registri – basso (elegiaco), medio (comico), alto (tragico) – e il sublime
si mescola continuamente con il grottesco. Da una parte, una visione grandiosa di demoni minacciosi finisce in un
grande caos («Per l’argine sinistro volta dienno;
/ ma prima avea ciascun la lingua stretta / coi denti, verso lor duca,
per cenno; / ed elli avea del cul fatto trombetta», Inferno XXI, vv. 136-139); dall’altro, una scena di terrore termina con
un gesto osceno. («Al fine de le sue parole il ladro
/ le mani alzò con amendue le fiche», Inferno XXV, vv. 1-2). Peraltro,
Delacroix ha spesso deplorato i «miglioramenti» apportati al testo dai traduttori, che non sopportavano la crudezza di
tale scrittura. «Bisogna ammettere – scrive l’artista – che i nostri autori moderni (parlo di Racine, di Voltaire) non hanno
conosciuto questo genere di sublime, questo sorprendente candore che trasforma in poesia i dettagli volgari e ne fa
dei quadri per la fantasia, affascinandola» (Journal, 3 settembre 1858). Per il gusto di un uomo perbene del 1820, Dante
non è «ragionevole», ed è appunto per questo che Delacroix, il quale «non ama affatto la pittura ragionevole» (Journal, 7
maggio 1824), gli dà tanto valore.
Trasporre in immagini la Divina Commedia è rischioso, sia perché il soggetto è nuovo, sia perché è immenso:
riunisce infatti tutto ciò che l’Occidente ha potuto immaginare (miti antichi, cosmogonia cristiana, storia greco-romanomedievale). In pratica la materia è inesauribile, l’orizzonte infinito. Quale contrasto con i classici (e soprattutto con i
classici moderni francesi del XVII e XVIII secolo), tutti rigore, logica, ordine e concisione (pensiamo, per esempio, alla
regola delle tre unità del teatro raciniano). Per un pittore, attingere alla Divina Commedia permette di emanciparsi dalle
abitudini ereditate dai maestri riconosciuti come tali dall’autorità legittima: l’Accademia, le scuole. Professarsi pittore
storicistico occupandosi di Dante significa postulare la possibilità di una pittura storicistica non-accademica. E poi
Dante stimolava la temerarietà degli artisti: ammettendo che si creda più facilmente a quanto si vede che a quanto si
legge, il poeta non faceva altro che affidarsi agli occhi dei suoi lettori. Come avrebbero potuto resistere i pittori a una
simile sfida?
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone.
(Inferno XIII, vv. 20-21)
[...] e vidi cosa ch’io avrei paura,
sanza più prova, di contarla solo
se non che coscïenza m’assicura [...]
(Inferno XXVIII, vv. 113-115)
O ancora, nell’ultimo canto dell’Inferno, per descrivere
l’effetto prodotto su di lui dalla città infernale di Lucifero:
Com’io divenni allor gelato e fioco,
nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo,
però ch’ogne parlar sarebbe poco.
(Inferno XXXIV, vv. 22-24)
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Il mondo fantastico descritto da Dante aveva evidentemente di che stimolare l’immaginazione dei pittori; ma soprattutto
c’era l’Io narrante, impiegato per la prima volta nella letteratura romanza, ovvero la messa in scena di se stesso da parte
del creatore. Quell’«io» di valore universale assegnava all’artista una missione quasi divina di esploratore, di spregiatore
del mondo presente e di profeta del futuro. Dante è l’eletto al quale è stato permesso di attraversare i tre regni (Inferno,
Purgatorio, Paradiso) da vivo, sotto forme terrestri. Egli reca dunque la testimonianza dei vivi ai morti e, per converso,
quella dei morti ai vivi. Non è forse questa l’immagine dell’artista che si plasma durante l’Ottocento, ossia quella del
grande iniziato fatalmente incompreso dai contemporanei, in anticipo su di loro, all’avanguardia della società? Dante
poeta impegnato, proscritto, affascina gli scrittori dei tempi moderni condannati a loro volta all’esilio. Madame de Staël
e Victor Hugo si identificarono con lui, mentre Balzac lo inserì nei suoi Proscrits (1831).
Immaginazione sfrenata e mito dell’artista maledetto: sono due tratti tipici della sensibilità romantica. Resta l’inversione
dei valori e la questione dell’anti-eroe; le due prime cantiche del trittico costituito dalla Divina Commedia (Inferno e
Purgatorio) corrispondevano a un anti-soggetto per un pittore storicista, chiamato per tradizione a illustrare esempi di
virtù. Tuttavia, nel XIX secolo il Paradiso non incontra il favore degli artisti, e anche il Purgatorio suscita scarso interesse:
che sia troppo poco mostruoso? È significativo il fatto che un allievo di Ingres (Hippolyte Flandrin), quando osa affrontare
la Divina Commedia, si accosti proprio al Purgatorio: era il male minore (contrariamente a quanto fa pensare il titolo del
quadro, Dante et Virgile aux Enfers, che illustra il canto XIII del… Purgatorio). D’altronde Flandrin, da bravo «classico»,
espunge dall’episodio in questione ogni elemento contrastante con il «bello ideale». E così lo spettatore non vedrà gli
occhi cuciti con il filo di ferro dei peccatori descritti da Dante («ché a tutti un fil di ferro i cigli / fora
e cusce sì come a
sparvier selvaggio /
si fa però che queto non dimora», Purgatorio XIII, vv. 70-72). Il pittore romantico, per parte sua, opta
per l’Inferno e lì, quanto a orrore o raccapriccio, ha solo l’imbarazzo della scelta: i dannati sono infatti puniti secondo il
principio della mimesis (come dice Dante, la legge del contrappasso), là ove hanno peccato (« La rigida giustizia che mi
fruga /
tragge cagion del loco ov’io peccai», Inferno XXX, vers 70-71). I supplizi sono dunque diversificati tanto quanto i
delitti… Un tale che ha provocato la ribellione di un figlio contro il padre è decapitato:
Perch’io parti’ così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch’è in questo troncone.
Così s’osserva in me lo contrapasso.
(Inferno XXVIII, vv. 139-142)
Altri, che si sono allontanati dalla vera fede, sono «accismati» (ossia tagliati a metà):
[…] Un diavolo è qua dietro che n’accisma
sì crudelmente, al taglio de la spada
rimettendo ciascun di questa risma,
quand’avem volta la dolente strada;
però che le ferite son richiuse
prima ch’altri dinanzi li rivada.
(Inferno XXVIII, vv. 37-42)
Se i passi succitati non sono stati dipinti – e del resto non si capisce come avrebbero potuto essere raffigurati
senza incorrere nel ridicolo –, i nostri artisti hanno finito per trovare anche di peggio: l’antropofagia (Gianni Schicchi,
Ugolino). Il trattamento plastico del soggetto assume forma di ossimoro con William Bouguereau (fig. 2), il quale associa
il colmo dell’orrore (un dannato sgozzato con un morso) alla perfezione formale dei corpi, rappresentati di profilo
in una composizione dal ritmo circolare molto astratto. Ma, al di là del sensazionalismo e delle immagini-choc che
scandalizzavano i visitatori dei Salons di pittura, la Divina Commedia possiede una dimensione assai più sovversiva,
dovuta al suo stesso narratore: Dante in persona. Che lo spettacolo sia terrificante, passi; ma che il grand’uomo possa
perdervi la sua dignità, e che trascini per procura il lettore nelle sue cattive passioni, non è ammissibile. In effetti, il
cammino del visitatore dell’Inferno si avvicina sotto molti aspetti a una caduta morale. Anzitutto c’è l’eccessiva curiosità
del narratore. Dante confessa a più riprese di essere divorato dalla voglia di vedere un po’ di più («La gente che per
li sepolcri giace
/ potrebbesi veder? Già son levati
/ tutt’i coperchi, e nessun guardia face», Inferno X, vv. 7-9). Peggio
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Allor lo presi per la cuticagna
e dissi: «El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui sù non ti rimagna»
[…]
Io avea già i capelli in mano avvolti,
e tratti glien’avea più d’una ciocca,
latrando lui con li occhi in giù raccolti,
(Inferno XXXII, vv. 97-99 e 103-105)
Eugène Delacroix - Dante e Virgilio (1822)
Il futuro riscatto (nel Paradiso) giustifica il fallimento morale di Dante nel testo dell’Inferno, ma dal momento che la
pittura rientra nelle arti dello spazio e non in quelle del tempo, il divino poeta vi resta per sempre compromesso.
Dante impersonerebbe qui la figura dell’antieroe? A questo punto della discussione, il nostro lettore avrà capito perché
la Divina Commedia non fu mai dipinta in grande formato prima di Delacroix – il quale colpisce duro, dal momento
che inserisce una scena di cannibalismo in un episodio (la traversata del lago che circonda la città infernale di Dite)
che non la prevedeva (fig. 3). Ciò che Géricault, pur essendovi autorizzato dalla stessa realtà dei fatti, aveva omesso
di mostrare nel Naufrage de la Méduse, presentato al precedente Salon (1819), Delacroix lo getta letteralmente in faccia
allo spettatore nel 1822: il personaggio che si autodivora, visibile nell’angolo inferiore destro del quadro, si colloca
esattamente all’altezza dello sguardo del pubblico. Tale particolare, di una violenza inaudita, è tanto più evidente in
quanto, in questa parte della composizione, la barca situata nel piano mediano sembra sul punto di girare su se stessa,
collocandosi leggermente fuori asse rispetto alla prospettiva e, di rimbalzo, staccando ulteriormente i due cannibali dal
resto del quadro. Isolate al margine inferiore destro della tela, le due teste finiscono quasi fuori campo. Grazie a una
voluta mancanza di pertinenza, Delacroix se ne serve per creare un nesso tra lo spazio virtuale dell’immagine dipinta
e lo spazio reale dello spettatore.
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Dunque, la scelta di Delacroix di prendere Dante come soggetto dell’unico quadro che inviò quell’anno al Salon fu
calcolata. In questo modo l’artista rischiava il tutto per tutto, come scrisse egli stesso («Tento un colpo di fortuna»).
L’Inferno si rivelava scandaloso per il contenuto e al contempo, in ragione del suo stesso status nell’ambito della cultura
classico-umanistica, fungeva da salvaguardia. Con la Divina Commedia, Delacroix sapeva esattamente fino a che punto
poteva spingersi con la provocazione.
L’opera di Dante costituirebbe allora il caposaldo di un’interpretazione rinnovata della tradizione, non più intesa come
un corpus di regole da rispettare come era stato fatto fino a quel momento, ma, viceversa, come qualcosa di simile
a una serie di deviazioni dalla norma. Era nata così la tradizione della rottura. 78 anni dopo, questa volta grazie alla
mano di Rodin, Dante (divenuto Le Penseur, «il pensatore») e la sua Divina Commedia avrebbero ispirato un altro dipinto
significativo della storia dell’arte: La Porte de l’Enfer, grande attrazione del padiglione del ponte dell’Alma, ai margini
dell’Esposizione Universale del 1900. Nel frattempo, il poeta fiorentino e la sua opera (fosse la Divina Commedia o la Vita
nova) erano ormai diventati pane quotidiano degli artisti, nel meglio e nel peggio.
Il meglio potrebbero essere i preraffaelliti inglesi e, in primo luogo, Dante Gabriel Rossetti, pittore e poeta (nonché
traduttore della Vita Nova). Sull’altra sponda della Manica non esisteva una solida tradizione nella prassi della pittura
storicistica, e fu piuttosto la vena sentimentale dell’opera dantesca a incontrare il favore degli artisti. Attraverso gli
amori infelici di Dante e Beatrice (o di Paolo e Francesca), Rossetti e i suoi seguaci riuscirono a coniugare pittura di genere
e poesie, realizzando un’ibridazione ignota in Francia. Il peggio sarebbero stati i quadri a effetto, quelli che attiravano
lo sguardo dello spettatore per la loro spettacolarità. Gustave Moreau era rimasto colpito dal successo ottenuto dalle
illustrazioni di Gustave Doré per la Divina Commedia: «Il Dante di Doré, capolavoro di un lampionaio della Porte SaintMartin o di un macchinista della Gaîté» (Écrits, 1862). Non sapeva come aveva parlato bene. Per forzare la sorte e parlare
a un pubblico non erudito, i pittori storicisti avrebbero abusato dei meccanismi teatrali come la botola, cui Doré era
ricorso per primo (fig. 4). Il pittore da Salon sfrutta con gusto particolare i soggetti estremi, quelli degli ultimi canti
dell’Inferno, in cui il crescendo dell’orrore raggiunge il culmine. E per illustrarlo, non v’è esempio migliore dell’enorme
dipinto Dante et Virgile dans le 9e cercle de l’Enfer, inviato da Doré al Salon del 1861:
[…] ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo a l’altro era cappello;
e come ’l pan per fame si manduca,
così ’l sovran li denti a l’altro pose
là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca.
(Inferno XXXII, vv. 125-129)
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A PROPOSITO DI GODARD
FESTIVAL BENJAMIN GODARD NEI SALOTTI PARIGINI
Venezia / 9 aprile – 15 maggio 2016
Questo ciclo di nove concerti, che si svolgerà nella primavera del 2016, proporrà un’ampia scelta di opere di Godard,
dando risalto ai suoi strumenti preferiti: il violino e il pianoforte, che padroneggiava con lo stesso virtuosismo. Le
quattro sonate che scrisse per il violino, in particolare, nonché le due per pianoforte, sono degne di attenzione, perché
sintetizzano l’arte dei salotti parigini dell’epoca: brani a tema o a programma, ispirazione tedesca nella scia di Beethoven,
linea melodica soffusa di vocalità. Del resto, non è un caso che l’altro genere in cui Godard si è distinto sia proprio la
mélodie alla francese, basata su poesie contemporanee o su sonetti del Rinascimento.
PUBBLICAZIONI DISCOGRAFICHE
Barcarolles, Scènes italiennes
et Vingt Pièces
Alessandro Deljavan pianoforte
PIANO CLASSICS (2014)
Les trois quatuors
Quatuor Élysée
TIMPANI (2015)
Sonate n° 2, Sonate fantastique,
Promenade en mer, Sur la mer,
Au matin, Conte de fées
Eliane Reyes pianoforte
GRAND PIANO (2015)
PROSSIME USCITE DISCOGRAFICHE
Intégrale des sonates pour violon et piano
Nicolas Dautricourt violino
Dana Ciocarlie pianoforte
APARTÉ (marzo 2016)
Rêve vécu op. 140, Nocturnes n.
1-4, 3 Morceaux op. 16, Fantaisie
op. 143, Renouveau op. 82,
Fragments Poétiques op. 13
Eliane Reyes pianoforte
GRAND PIANO (2015)
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Sélection de mélodies
Tassis Christoyannis baritono
Jeff Cohen pianoforte
APARTÉ (marzo 2016)
Symphonie n° 2, Trois Morceaux, Symphonie gothique
Orchestre de la Radio de Munich
David Reiland direzione
CPO
Palazzetto Bru Zane
Centre de musique
romantique française
San Polo 2368, 30125 Venezia
[email protected]
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