1 I segreti del Jazz ...e del Sax 2 I segreti del Jazz...e del Sax Premessa Vorrei ringraziare i docenti Laura Strappa e Bruna Di Gabriele e gli studenti del Liceo Classico per l’originalità e la qualità di questo progetto che veicolato dalla musica, cioè da un tramite indispensabile per conoscere il mondo che ci circonda vi ha portato ad incontrare il jazz. Secondo la mia opinione, un po’ partigiana, non poteva essere diversamente perché il jazz è stato il genere più originale e significativa del XX secolo, che dagli Stati Uniti - su cui necessariamente ci posizioneremo - si è diffusa nel resto del Pianeta toccando, con la sua miscela di ritmi sincopati, con la sua ruvida energia, i cuori di persone appartenenti ad ogni ceto sociale. Signifying La cosa ancor più sorprendente è che questa storia ha avuto come principale protagonista un popolo sottoposto al più brutale dei crimini: la schiavitù legata e giustificata dal razzismo, in un susseguirsi drammatico di violenta oppressione e tentativi di uscirne. Riflettiamoci un attimo: i nativi indiani, l’avrete visto in tanti film, difesero per secoli quello che era il loro territorio. I neri africani, a partire dai primi del Seicento, erano stati invece strappati dalla loro terra e dalla loro cultura, costretti in una situazione in cui il retaggio della lingua, dei rapporti familiari, degli affetti, dell’abbigliamento, e di ogni altra loro tradizione veniva sistematicamente cancellato, annientato. Eppure, quella umanità dolorante e priva di ogni diritto era riuscita ad escogitare un’ efficace strategia per uscire nel tempo da questa terribile condizione. Aveva capito, per dirla molto sinteticamente, 4 I segreti del Jazz...e del Sax che laddove la tendenza ad operare una tale assimilazione ai valori dominanti era così forte e decisa come negli Stati Uniti d’America, non restava che impossessarsi di quello che offriva il convento, cambiandogli il significato. Questa è la prima nostra chiave per capire i segreti del jazz, quello che un grande musicologo, Samuel Floyd, ha denominato Signifying. “Signifying - sono sue parole - è un modo di dire una cosa ed intenderne un’altra, è reinterpretazione, una metafora per la revisione di testi e figure dati”. Tradotto in fermano ‘vor dì prendere pe li fondelli’. È appropriarsi del discorso del padrone per rovesciarne il potere: è dire ‘si badrone’ mentre si prepara la fuga. Sermone Facciamo un esempio. Partiamo da un famoso spiritual, Go Down Moses. “Va Mosé in terra d’Egitto / Di al vecchio Faraone / Lascia andar il mio popolo, dice il finale della prima strofa. Ed subito evidente che lo schiavo che la canta sta annunciando la propria liberazione. Ma badate, non sono solo le parole a cambiare di significato. È anche la forma musicale, quella che si chiama call and response, botta e risposta tra predicatore e fedeli che si trasforma nella ricerca di uno spazio per stare assieme, per comunicare, per liberarsi dalla routine quotidiana, dalle gerarchie imposte dalla schiavitù e dal razzismo. E dunque i fedeli - come verificheremo in questo speciale sermone tratto dal mitico The Blues Brothers - non si limitano ad ascoltare passivamente un determinato messaggio, ma vivono l’evento in sintonia con il predicatore contribuendo con il loro umore, le loro vibrazioni, a modificarne lo svolgimento e il clima. Certo, qui la fiction cinematografica ha un peso determinante ma, stando alle testimonianze, poteva accadere anche di peggio. My Favorite Things Dopo questa celebre scena, viene spontaneo riproporre la domanda, quel botta e risposta un po’ provocatorio. Ma voi l’avete vista la I segreti del Jazz...e del Sax 5 luce? A mio modesto avviso per raggiungere più facilmente questo risultato - vedere la luce - bisogna scrollarsi di dosso ogni sorta di pregiudizio, ad esempio la paura verso l’altro, il diverso, lo straniero; liberarsi di tutti i fondamentalismi di cui a volte siamo prigionieri anche senza saperlo. La musica, il più universale dei linguaggi, può aiutarci. Perché può farlo? Perché tutta la musica nasce, ha origini dallo scambio, dall’intreccio, dalla mescolanza di culture diverse. Come il jazz appunto. Ad esempio, un altro terreno ideale e fertile per l’opera di risignificazione è il repertorio preesistente di tutti i generi, dalla lirica, alla classica, alla canzone, alle musiche della tradizione popolare. Nel jazz lavorare su un materiale dato implica, direi obbligatoriamente, ripensarlo passando attraverso tutte le possibili sfumature. Tanto per capirci, si può stravolgere il senso di una canzone per farne materia del proprio discorso solistico, oppure inframezzarla di citazioni prese da altri brani che possono diventare, durante un’ esibizione in pubblico, un saluto ad un amico o uno sberleffo verso qualcuno che ti sta un po’ antipatico. E si potrebbe continuare a lungo. Meglio passare ad un esempio, ad una verifica sul campo in cui tra il prima e il dopo potete assistere ad un caso emblematico di risignificazione. Ho scelto My Favorite Things, le mie cose preferite, una canzone scritta da Richard Rodgers per il film Tutti insieme appassionatamente. È la dolcissima suora Maria che se ne serve per suggerire ai bambini - rattristati ed oppressi da un genitore particolarmente autoritario - come vincere la tristezza, facendo un elenco di cose piacevoli che si possono amare. Questo clima di sottile malinconia che volge verso la tranquillità e la gioia, nelle mani di John Coltrane, uno dei grandi della storia del jazz e del sax, si trasforma in qualcosa di completamente diverso. Per ragioni di tempo, l’intero brano dura circa mezz’ora, ascolteremo solo l’esposizione del tema. Sufficiente per accorgersi che Coltrane, pur trattando la melodia con relativa fedeltà e tenerezza, ogni tanto la abbandona passando a trilli, gorgheggi, voli pindarici che, nel finale, si trasformano in una vera e propria orgia, in una minacciosa danza tribale che ci riporta in Africa. 6 I segreti del Jazz...e del Sax Louis Armstrong & Billie Holiday I segreti del Jazz...e del Sax 7 Oralità Dopo quanto detto, e soprattutto ascoltato, a mio avviso abbiamo già sufficienti elementi per dare una sintetica definizione di cosa sia il jazz. Qualcuno di voi vuole farlo? Sentite questa: “il jazz è quel genere musicale che può assorbire un sacco di cose ed essere ancora jazz”. Parola di Sonny Rollins, altro storico gigante del sax, ancora in azione. “Il jazz – tradurrei – è una musica con tante musiche dentro che acquistano sempre nuovi significati e che, proprio per questo, riesce continuamente a rinnovarsi senza smarrire le proprie radici, quella in sostanza di essere una musica di tradizione orale, sia nel processo creativo che in quello comunicativo”. Fine and Mellow Per avere un’idea di cosa significhi musica di tradizione orale, vi basterà ascoltare attentamente il prossimo straordinario video dove la protagonista, Billie Holiday - un mito - interpreta un blues, argomento che già avete esplorato vedendo il film di Martin Scorsese, Dal Mali al Mississippi, il genere musicale più rappresentativo della nostra epoca, secondo Alan Lomax. Quello di Billie parla di un amore difficile, problematico ma anche languido e bello. “Il mio uomo non mi ama, mi tratta così male, attacca Billie circondata da un stuolo di musicisti. Terminata la prima strofa, intervengono due paradigmatici protagonisti della storia del sax: nell’ordine Ben Webster e Lester Young. Quello che vi colpirà è la sostanziale diversità della grana timbrica, del sound, prodotto, badate sempre dallo stesso strumento, il sax tenore. Ben si esprime con una sonorità possente, densa, turgida, calda; tutto l’opposto di Lester: un distillato di poche note espresse con una voce limpida, luminosa, levigata. E si potrebbe continuare a descrivervi le particolari angolazioni timbriche di tutti gli altri. Perché avviene questo? Perché laddove domina l’ oralità, lo sforzo del musicista - cantante o strumentista che sia - per essere originale, convincente, riconoscibile - è innanzitutto quello di personalizzare il suono, esplorando tutte le potenzialità vocali e strumentali, dal sussurro al grido. Il resto è su Marzo è Donna. 8 I segreti del Jazz...e del Sax I segreti del Jazz...e del Sax 9 Improvvisazione Quando veniva portato a termine un concerto in pubblico, o una seduta in uno studio discografico o televisivo , era poi abitudine dei musicisti ritrovarsi in un luogo più appartato per il piacere di continuare a suonare fino alle ore piccole senza particolari preoccupazioni formali e con il massimo di libertà creativa. Faceva così ad esempio, un prestigioso leader che si faceva chiamare il Duca. Il Conservatorio di Fermo, nel 1999, ha celebrato il Centenario della nascita. Sto parlando di Duke Ellington che chiamava i suoi solisti a cimentarsi nella cosiddetta Jam Session, dove a farla da protagonista è la nostra terza chiave d’ingresso ai segreti del jazz: l’improvvisazione. Anche qui, qualche sintetica considerazione soprattutto per sfatare alcuni luoghi comuni: in primis quello di concepire tale compito creativo come un miracolo di spontaneità privo di memoria e retroterra culturale. È vero il contrario: niente è più impegnativo dell’improvvisazione: una prassi che richiede tempo, dedizione, applicazione, disciplina, studio, tecnica. Sapete perché? Perché “per decider cosa vuoi dire in 15 secondi; quando improvvisi hai solo 15 secondi”, spiega più dettagliatamente Steve Lacy nel capitolo a lui dedicato. Questa natura irreversibile dell’improvvisazione rende necessaria una fornita cassetta degli attrezzi a cui attingere frasi, figure, progressioni, citazioni e così via; dall’altra uno sforzo enorme per dimenticare ad evitare di ripetersi. C’è da considerate poi quei tratti intermusicali ed exstramusicali che condizionano la sostanza del linguaggio improvvisato. Il primo riguarda quello che in gergo si chiama interplay, vale a dire lo spazio entro cui, per esaltare la propria creatività e individualità, si deve attivare un confronto-scontro con gli altri musicisti, basato sul reciproco ascolto, confronto-scontro che può cambiare, anche sostanzialmente, la direzione dell’eloquio di ciascun partecipante . Il secondo riguarda invece il rapporto con il pubblico, il quale definisce non solo lo spazio entro cui avviene la performance, ma condizione e devia la direzione dell’improvvisazione magari con ripetuti battiti di mani o, magari, con una folata di fischi. Insomma forma e contenuti nel jazz sono sempre strettamente legati assieme. 10 Fats Waller I segreti del Jazz...e del Sax I segreti del Jazz...e del Sax 11 La linea del colore Credo che le chiavi di lettura su cui ci siamo sinteticamente soffermati e soprattutto i brani che abbiamo visto ed ascoltato, siano sufficienti a darci una precisa idea dell’originalità e, perché no, della grandezza del jazz. “Ritengo che la musica che abbiamo inventato - ha scritto Max Roach, altro grande che abbiamo ospitato sia a Fermo che a Porto San Giorgio - sia la sola democrazia fondata su una comunità di musicisti e su un progetto collettivo, in un mondo in cui non conosco vere democrazie”. Insomma, ripeto, un potente veicolo di emancipazione che spiega perché il presidente degli Stati Uniti sia un signore molto abbronzato. Se immaginiamo una ipotetica linea del colore - altra fondamentale chiave di lettura - che separa e mescola in continuazione bianco e nero, questo storico evento lo potremmo definire come tendente ad annullare le differenze in nome dell’uguaglianza. Ma non è stato sempre così. Negli anni Venti – quando il jazz già si era spostato nella grandi città – era precluso ai bianchi di suonare assieme a musicisti di colore, tant’è che alcuni di loro, come Eddie Lang, ovvero Salvatore Massaro, origine abruzzese e chitarrista di gran classe - si cambiavano i connotati, si tingevano la faccia e le mani in modo da poter passare per un nero e suonare con loro in pubblico. Honeysuckle Rose Negli anni Trenta molte cose cambiano, nascono i primi gruppi formati da bianchi e neri, come il quartetto di Benny Goodman, ma quel confine segnato dal pregiudizio razziale non scomparirà mai del tutto. “Quando sei sul palco - è l’amara considerazione di Roy Eldridge, il travolgente trombettista che abbiamo ascoltato con Billie - sei grande, ma appena scendi sei nulla. E di questo non ti compensa né la gloria, né il denaro, né altro”. Un caso emblematico della condizione dell’artista afroamericano allo scadere degli anni ’30 è quello di Thomas Waller, detto Fats, il 12 I segreti del Jazz...e del Sax grassone, compositore tra i più prolifici, virtuoso di organo oltre che pianista di qualità sopraffine. Eppure, come altri musicisti di colore, egli fu tentato di assumere verso i bianchi che lo ascoltavano un atteggiamento compiacente che venne definito con disprezzo ziotomismo. Voce sorniona e scansonata, occhi che roteano ammiccanti verso le ballerine che lo circondano come vedremo nel prossimo video dove interpreta una delle sue gemme più preziose: Honeysuckle Rose. You Rascal You Attenzione però. Come dice lo storico Lawrence Levine “nessun altro meccanismo nella cultura espressiva afroamericana è stato più efficace dell’umorismo nell’esporre l’assurdità del sistema razziale...” Il caso più emblematico e straordinario è quello inscenato da Louis Armstrong, quando visto in prima fila ad ascoltarlo un odioso capo della polizia, gli dedica You Rascal You. Non è difficile immaginarsi quel bianco che sghignazza dalle risa nel vedere quel “buffone negro” che rotea gli occhi sul palco, alla maniera di Fats, e non capisce che le parole di una giocosa canzone “Sarò contento quando sarai morto, farabutto”, sono rivolte proprio a lui. Nel nostro filmato il contesto cambia completamente, dato che a farla da protagonista c’è la ragazzina sexy Betty Bop, impegnata in intriganti peripezie nella giungla africana, tallonata dall’immagine e dalla musica di Armstrong. Si tratta di uno dei più celebri cartoni della storia del cinema, che appartiene alla tipologia dei corti, ossia a quella vastissima quantità di opere che consistono in una serie di brevi interventi di solisti, cantanti, orchestre, a cui si sovrappongono ballerini, attori e cartoni, come nel nostro caso, così da far meglio emergere i contenuti espressivi. I segreti del Jazz...e del Sax 13 Thelonious Monk 14 I segreti del Jazz...e del Sax Blue Monk La linea del colore muta profondamente negli anni Quaranta, quando le avanguardie di quello stile che verrà chiamato bebop smisero di leggersi con gli occhi altrui. Nasce una consapevolezza, in particolare con la seconda guerra mondiale, del ruolo sempre più rilevante assunto nella società americana dalle minoranze di colore che le spinge ad andare controcorrente, in direzione ostinata e contraria, direbbe il nostro De André. Un elemento molto indicativo di tale alterità è il diffondersi di atteggiamenti e mode che coinvolgevano sia i musicisti che i loro sostenitori: gli hipsters, com’erano chiamati, gente non conformista, aggiornatissima, a dentro alle segrete cose. Assieme ad un gergo bizzarro di frasi idiomatiche, la più vistosa delle mode riguardava l’aspetto esteriore: il bopper, o l’hipster di stretta osservanza aveva costantemente un’espressione impassibile, un berretto in testa da cui non si separava neppure quando suonava e un paio di occhiali neri che avevano un significato preciso: vedere, scrutare quanto accadeva intorno senza permettere agli estranei, ai non iniziati, di violare la propria intima sfera. Proprio questa è la forgia del protagonista del prossimo video (e della precedente foto): Thelonious Monk, ‘un genio americano’ lo definisce una recente e molto approfondita biografia. Al primo impatto si ha una sensazione strana, come dimostrano anche le faccie divertite e perplesse degli illustri ascoltatori che lo attorniano, da Count Basie a Coleman Hawkins. Perché il suo modo di suonare – altro requisito dell’oralità – è certamente singolare: dita piatte e tese, il contrario di quanto prescritto dalle nostre buone regole. Eppure, come per Billie Holiday, quello che sembra un impaccio e un limite viene piegato a funzione espressiva e diventa un tratto distintivo del suo stile, che risponde ad una logica molto rigorosa. “Monk è profondo”, parola di Dizzy Gillespie. “Saltare un accordo di un pezzo di Monk – ha aggiunto John Coltrane – è come fare un passo nel condotto dell’ascensore quando è vuoto”. I segreti del Jazz...e del Sax 15 Moanin’ L’altra decisiva svolta avviene negli anni Cinquanta e Sessanta quando la linea del colore segna il passaggio dalla richiesta di uguaglianza alla sottolineatura deIl’identità e della differenza. Protagonista, lo voglio rammentare, visto che siamo all’indomani dell’otto marzo, è una donna, non una star del jazz, ma una più modesta e tranquilla signora di Montgomery, nell’Alabama: Rosa Park è il suo nome. Il gesto di Rosa non è eclatante, clamoroso: semplicemente rifiutò di alzarsi in piedi per cedere il suo posto sull’autobus ad un passeggero bianco come gli aveva ordinato di fare il conducente. Si era sempre fatto così, ma Rosa pensò che era venuto il momento di dire basta. Quello che sorprese non fu tanto il suo arresto, ma la reazione della comunità di colore che guidata dal reverendo Martin Luther King adottò un boicottaggio degli autobus che durò 382 giorni. Fu come un’onda lunga di energia creativa che produsse conseguenze in ogni campo e sollecitò una rinnovata ricerca delle proprie radici. “L’idea di avere delle radici e che queste radici sono un patrimonio di valore, anziché una fonte di vergogna è forse il mutamento più profondo nella coscienza nera dall’inizio del secolo”, ha scritto Leroj Jones, l’autore de Il Popolo del Blues. E allora fate caso come inizia il prossimo brano di un gruppo che si faceva chiamare The Jazz Messenger’s, i messaggeri del jazz. Di cosa si tratta? Di un botta e risposta, come negli spirituals, nei gospel, nel blues, rivisitato con grande modernità. Un botta e risposta per un diverso futuro. 16 I segreti del Jazz...e del Sax Adolphe Sax (Dinant 1814 - Parigi 1894) I segreti del Jazz...e del Sax 17 Introduzione al Sax Da quanto siamo venuti dicendo fin dall’ainizio, è evidente che quel processo di risignificazione ha riguardato non solo il repertorio preesistente ma anche l’apparato strumentale. Un esempio emblematico riguarda il saxofono, il più utilizzato, oggi, nel jazz ed anche nelle iniziative dell’Audioteca. Il suo geniale inventore, Adolphe Sax, laveva ideato attorno alla metà dell’Ottocento. Sax era un uomo di larghe vedute, aperto alle più ardite soluzioni e infatti aveva concepito la sua creatura con un’amplissima e inconsueta versatilità timbrica e un altrettanto vasto spettro dinamico. Ma quei suoni così concitati, striduli, lancinanti avrebbero spaventato anche il più spregiudicato degli sperimentatori. Appartengono veramente ad un altro mondo, impossibile da immaginare e sognare un secolo prima. Più realisticamente Sax, vivendo in un contesto come quello francese, confidava che il suo nuovo strumento si affermasse soprattutto in ambito sinfonico per colmare uno squilibrio, più evidente nelle esecuzioni all’aperto, tra gli ottoni e i legni. E bisogna dire che all’inizio aveva ottenuto consensi vasti e qualificati. Valga per tutti il giudizio profetico, altamente poetico, espresso nell’aprile 1849, da Hector Berlioz, non a caso il più grande orchestratore del suo tempo: “Il suo pregio principale risiede nella bellezza variegata della sua voce, ora grave e calma, ora appassionata, sognante e malinconica, o vaga come l’eco affievolita di un’eco, come i lamenti indistinti della brezza nei boschi e, meglio ancora, come le vibrazioni misteriose di una campana molto dopo che è stata percossa. Nessun altro strumento musicale possiede questa curiosa sonorità, posta al limite del silenzio”. Eppure quella voce così cangiante e flessuosa avrebbe rischiato di estinguersi, sopraffatta da incomprensioni e pregiudizi, se ad un certo punto della sua storia – gli inzi del Novecento – non fosse sbarcata in America per poi entrare stabilmente nell’orecchio del Pianeta a simboleggiare un’epoca nuova dell’arte dei suoni e della cultura del nostro tempo. 18 I segreti del Jazz...e del Sax Viene dunque spontaneo chiedersi: perché mai la prima ampia esplorazione delle enormi potenzialità del nuovo strumento avviene proprio nell’ambito di quel lontano universo afro-americano e segnatamente del suo più significativo prodotto: il jazz? E com’è possibile, è il caso di aggiungere, che nella rapida evoluzione di questo genere il sax, dapprima confinato in un ruolo del tutto marginale, si sia via via imposto come lo strumento dominante? Una quantità di ragioni, sociali, culturali, di costume, tecniche, produttive che – a mio modesto avviso – convergono verso quella originale sintesi di oralità e scrittura, risultato del mescolarsi dell’eredità africana in terra d’America. La risposta l’abbiamo già data parlando dei tratti distintivi dell’oralità a partire da quella ricerca di personalizzazione del suono che, in questo caso, si combina efficacemente – ecco il punto – con il ‘trasformismo’ del sax, cioè con la sua straordinaria possibilità di assumere significati sonori sempre diversi e cangianti, magari ottenuti anche attraverso la modifica dei suoi elementi costitutivi: dall’ancia al canneggio, dalla tamponatura ai materiali. Questa relazione virtuosa è così stringente proprio perché in un approccio orale lo strumento tende ad essere un prolungamento del corpo e della vocalità; viceversa la voce si dispone per essere – se mi si consente il termine – strumentalizzata con varie tecniche e modalità. E siccome questa è un po’ la chiave del discorso, ho pensato di abbinarla ad un immagine calzante, una sorta di logo che simboleggia questo abbraccio inestricabile, commentata da alcune efficaci battute dove voci e sax dialogano scambiandosi i propri ruoli. Body and Soul L’avvio di questo processo prende corpo, voce e suono nei “ruggenti anni venti”, l’età del jazz e del fordismo, cioè dell’affermarsi di uno spirito nuovo, financo di ribellione verso certe regole puritane ereditate dalla tradizione vittoriana. Musicalmente parlando, i fatti nuovi e periodizzanti sono sostanzialmente due: l’emergere del solista come artefice principale di un brano jazz con il conseguente dilatarsi dello spazio per l’improvvisazione che diventa il cuore della performance I segreti del Jazz...e del Sax 19 jazzistica; la messa a punto del jazz orchestrale, nell’ambito del quale acquista un ruolo crescente, appunto, la sezione dei saxofoni, prima inesistente o limitata sia nel suo numero che nel ruolo. Il laboratorio è l’orchestra di Fletcher Henderson dove, all’inizio del 1924, piomba come un marziano Louis Armstrong che spalanca nuovi impensabili eccitanti orizzonti, non solo all’orchestra nel suo insieme, ma anche ad un attento, creativo, geniale tenorsaxofonista, il quale si sforza di modellare il suo eloquio su quello immaginifico di Satchmo. Sto parlando di Coleman Hawkins. Si racconta che Benny Goodman, sentendo il suo nome, abbia esclamato: “... chi Hawkins? Ah, quello che ha inventato il saxofono!”. La battuta, badate, non è affatto peregrina, perché Hawkins, come dire, ha fissato i fondamentali dello strumento, dimostrando innanzitutto che gli si può conferire un suono di grande espressività. Non bisogna dimenticare che nella numerosissima famiglia dei saxofoni, il tenore aveva mantenuto a lungo un suono decisamente brutto: un suono grigio, smorto, quasi funereo. Hawkins lo trasforma in un suono vibrante, voluminoso, ricco di echi segreti. Par quasi di sentire un essere umano respirare dentro lo strumento. Ciò al servizio di un discorso solistico che si caratterizza per una gamma espressiva molto ampia che passa, attraverso mille sfumature trascoloranti, dalla tensione bruciante, viscerale al più sommesso respiro. Riascoltato oggi, abituati come siamo ai suoni più strani, par quasi di trovarsi di fronte all’eloquenza di un vecchio saggio che penetra misteriosamente le passioni umane, infiammandole o placandole a suo piacimento. Può perorare una causa con fermezza che non ammette repliche e un istante dopo confonderci con una storia più suadente ed intima. È in sostanza quello che fa in Body and Soul, il brano che più di ogni altro lo ha reso celebre e che ora ascolteremo accompagnato da qualche sua immagine, a mo’ di documentazione. 20 I segreti del Jazz...e del Sax Jammin’ the Blues Nello stesso periodo in cui Coleman Hawkins viene presentato al pubblico come “il corpo e l’anima” del saxofono, emerge sulla scena il suo alter-ego, ovvero Lester Young, il Presidente come affettuosamente lo aveva soprannominato Billie Holiday. Il primo elemento che balzerà subito evidente dal prossimo ascolto è la luminosità e la levigatezza timbrica: un suono traslucido che è tra i più singolari e originali di tutta la storia del jazz, forse il più vicino all’ideale classico. Ciò, ripeto, ha un preciso significato estetico: non è detto che il sax tenore debba essere solo uno strumento virile, intenso, dal suono pieno e maestoso come quello di Hawkins. Può avere, come la Luna, una faccia sconosciuta, un suono leggero e flessibile, ricco di chiroscuri tanto da sembrare centrato sul registro acuto. Come poi potrete verificare dal filmato, questa nuova grana timbrica si accompagna ad una gestualità improntata alla più completa relax, a dimostrazione che l’oralità suona non solo con un certo timbro personalizzato ma anche con una certa mimica, con una certa somatizzazione. Per dirla in altro modo, il corpo nell’universo afro-americano è davvero il produttore totale dell’opera, dal cervello ai muscoli ed è esso stesso ritmo, swing, una parola che con l’iniziale maiuscola designerà una vera e propria Era. Young, infatti, ci propone un modo di fare swing leggero, rilassato, che evita di marcare la pulsazione, la scansione, come era di moda in quel periodo, e preferisce danzarvi sopra con un volo soffice a metà strada tra cielo e terra. Questa levità timbrica e ritmica è funzionale ad una condotta dell’improvvisazione che privilegia il disegno melodico, orizzontale, diversamente da Hawkins che preferisce invece soffermarsi su ogni accordo esplorandolo. Insomma, due modi diversi di coniugare timbro e lessico e, in ultima analisi, Africa ed Europa. Mi è costato veramente molto ridimensionare il filmato che vi accingete a vedere perché si tratta di un capolavoro nella storia dei rapporti tra cinema e musica afro-americana. Il suo fascino vive e si alimenta sul contrasto tra la spontaneità dell’esecuzione e la elaboratissima, sofisticata, per certi versi cerebrale costruzione delle immagini. Protagonista è la fotografia che organizza l’intero impianto I segreti del Jazz...e del Sax 21 scenografico con un bianco e nero rigoroso: primi piani, sfondi, volti, corpi e strumenti. Tutta l’operazione ha anche un notevole significato culturale, anticipando una nozione che di lì a poco – siamo nel 1943 – si annuncerà in tutta la sua carica esplosiva. Ci ritorneremo tra un attimo. Things Ain’t What They Used To Be Le opposte poetiche di Coleman Hawkins e Lester Young hanno permeato tutta la storia del saxofono jazz, prima e dopo il grande spartiacque rappresentato dalla Seconda guerra mondiale. Volendo si potrebbe individuare anche una terza via che però ha fatto storia a sé. I presupposti da cui nasceva e su cui si fondava non consentivano, infatti, facili trasposizioni o imitazioni fuori dal proprio contesto: l’orchestra di Duke Ellington. “La mia musica è una musica in gran parte scritta. È scritta perché costituisce una base per i cambiamenti. Non vi è alcun sistema fisso. Talvolta scrivo una traccia e con la band si collabora insieme per l’arrangiamento. Qualcuno può avere un’idea nuova e la suona sul suo strumento. Qualcuno può farci un’aggiunta o utilizzarla altrimenti. Ci può essere una differenza di opinioni sul genere di sordina da impiegare. La sezione dei sax può volerci mettere una macchia supplementare...”. E via discutendo e collaborando alla creazione di una musica sempre variabile nel tempo perché è il frutto di un lavoro collettivo. Se cambia la formazione cambia la musica. E infatti la scrittura ingloba le idee e i suggerimenti spesso sostanziali degli ‘esecutori’ e il leader non è il creatore solitario della nostra tradizione classica; è piuttosto un coordinatore che, attraverso un procedimento di comunicazione orale, da ordine e coerenza ai singoli contributi, in modo tale che l’originalità di ciascuno venga esaltata al massimo e l’insieme porti un marchio inconfondibile, compreso quello della sezione dei saxofoni. Facciamo una breve verifica ascoltando l’inizio di quella che era la sigla dell’orchestra in quel periodo: siamo nel 1940 al culmine della sua stagione più creativa. Avremo modo di fare la conoscenza 22 I segreti del Jazz...e del Sax di altri due membri della numerosa famiglia dei sax: il baritono di Harry Carney, vale a dire l’equivalente di Coleman Hawkins per il suo più ingombrante strumento al quale aveva assicurato una sonorità profonda e pastosa. Particolare interessante, Ellington scriveva le parti del sax baritono contravvenendo le regole canoniche, affidando ad esso non solo il registro grave, come vuole l’ortodossia, ma anche e soprattutto il registro acuto e forti dissonanze che ne esaltassero il colore e la capacità coagulante della sezione dei sax, guidata proprio da Carney, che vedrete in primo piano. A dargli brillantezza era poi l’altro membro della famiglia: il sax contralto di Johnny Hodges qui anche in veste di solista. Hodges vanta il primato di aver coniato un timbro così originale ed efficace da fare storia. Qual era il problema? Il contralto è uno strumento eminentemente lirico che rischia però facilmente di diventare piagnucoloso. Hodges dimostrò che si poteva essere lirici, esprimere malinconia e sensualità, senza fare il piagnisteo. Lo fece conferendo allo strumento una sonorità tersa, inimitabile per la pastosità, la delicatezza e l’intonazione, così da riuscire ad ottenere contemporaneamente purezza timbrica ed intensità sonora: in questo probabilmente mai nessuno è riuscito ad eguagliarlo. Hot House Quando si parla di sax contralto il pensiero corre subito a Charlie Parker, il protagonista, lo ripeto, di una svolta epocale sia nella storia del jazz che in quella del sax. Le premesse c’erano già e non solo da un punto di vista musicale. Il film con Lester Young, fa proprio un concetto che cambierà radicalmente il modo di intendere e di praticare questa musica: il jazz, tanto per capirci, non è più mero divertimento, intrattenimento da consumare in una grande sala da ballo o bisbocciando con gli amici, ma una musica d’arte, una prova d’autore da gustare, rispettare, valorizzare. È la risposta ad una contraddizione nuova, ad una forte tensione esistenziale che si apre all’indomani del conflitto mondiale, e che nasceva dalla divaricazione tra la forte consapevolezza di sé, maturata anche in virtù della diretta partecipazione I segreti del Jazz...e del Sax 23 degli afro-americani a quell’evento periodizzante, e la vita di tutti i giorni caratterizzata spesso da un aumento del degrado sociale e dal permanere delle discriminazione razziale. La risposta di Parker e soci – i boppers – non fu quella di uniformarsi leggendosi, ancora una volta, con gli occhi altrui, come nel celebre romanzo di Ralph Ellison, L’uomo invisibile. Si provarono, invece, ad andare controcorrente, a sfidare il senso comune e la refrattarietà del pubblico, inventando un nuovo lessico, una musica aspra e capricciosa che recuperava l’originalità e la vitalità del jazz, esprimendo al tempo stesso contenuti apertamente dissacratori e trasgressivi. Basterebbe riflettere al significato degli unisoni tromba-sax che aprono solitamente un brano bop, come quello che ora ascolteremo: “La psicologia musicale lo sa bene – dice il Berendt – dovunque essi appaiono, dall’Ode alla gioia di Beethoven alla musica dei beduini del nord Africa e ai cori del mondo arabo, segnalano: ascolta, questo è ciò che noi vogliamo dire; siamo noi che parliamo; è a voi che stiamo parlando, voi siete diversi da noi, probabilmente contro di noi”. Da quell’essenziale, scarno, filiforme ma significativo trampolino, Parker si lanciava con l’intento di ampliare enormemente le potenzialità del linguaggio jazzistico esplorando quelle del saxofono che per la prima volta coniugava assieme velocità estrema e potenza di emissione. Per i suoi contemporanei è come se si fosse abbattuto un travolgente, impetuoso ciclone. Una mente abituata a Johnny Hodges non faceva proprio a tempo a seguirne ogni idea, ogni guizzo, ogni piega. Ma come argomentava Charlie Parker? Con tutte le tecniche e gli accorgimenti che rendono varia e interessante la comunicazione orale, potremmo rispondere in prima approssimazione. Una modalità utilizzata ad evitare la monotonia dell’eloquio è quella di variare l’intensità del suono, della voce del sax, a partire dall’attacco. Altrettanto efficace è l’uso dei contrasti dinamici cioè l’alternarsi di frasi turbinose ad altre più quiete e lineari. “In un attimo – ha scritto Leonard Feather – Parker trascorre dal grido al sussurro, dallo sprazzo accecante all’ombra discreta; si impenna e subito si acquieta, e quando la frase è li per aggrovigliarsi, eccola sciogliersi di colpo in una iridescente cascatella di note, che poi ritrovano un miracoloso equilibrio in un disegno di grande eleganza”. 24 I segreti del Jazz...e del Sax A conferire spessore e variabilità al discorso è poi l’uso delle pause, componente importante di tutto il jazz, perché senza una porzione adeguata di silenzio tra una frase e l’altra (o tra una nota e l’altra) non si crea né attesa, né tensione e senza di queste non c’è swing. Grazie all’uso delle pause la musica di Parker è più problematica, più aperta, più ricca di significati nascosti ed anche più drammatica. Parker’ Mood Se potessimo scomporre il suo periodare ci accorgeremmo di essere in presenza di un vocabolario di termini riconoscibili, di un corredo di citazioni e di onomatopee, di richiami come quello lanciato a Gillespie. Secondo il bassista Gene Ramey, Parker era l’uomo più ricettivo del mondo e inseriva tutti i suoni che lo circondavano, dall’auto che sfrecciava al brusio del vento tra le foglie. In scena era un mago nel trasmetterci messaggi in musica che spesso ci facevano sbellicare dalle risa. Per lui tutto aveva un significato musicale”. Il che sfata l’idea di un Parker perenne immusonito ed autolesionista come ce lo dipinge il film Bird di Clint Eastwood. Come ricordavo l’anno scorso, in occasione del cinquantesimo della morte, nella sua arte possiamo scorgere anche altro. Ad esempio la sua sorprendente ironia, rarefatta e surreale. O la sua tenerezza un poco giocherellona e incline ai ripiegamenti elegiaci. Ma anche, indubbiamente, la sua introspezione spietata, la sua capacità di sondare nel profondo della psiche ed esprimere il senso del tragico: quella disperazione esistenziale che esplora le lande della sconfitta inevitabile e necessaria in cui si inscrive il dramma della sua breve vita di tossicomane. Basta ascoltare un brano come Parker’s Mood, uno dei suoi massimi capolavori, per cogliere questo afflato. E al tempo stesso scoprire che è la voce stessa del ‘suo’ sax che risuona di vibrazioni angosciose, a conferma che senza la straordinaria versatilità dello strumento sarebbe impensabile tradurre in suoni quel prodigioso armamentario di idee e di passioni. I segreti del Jazz...e del Sax 25 Charlie Parker 26 I segreti del Jazz...e del Sax The Bridge L’influenza di Charlie Parker è così vasta ed estesa da risultare inafferrabile: egli vive anche oggi e possiamo udirlo, magari in una sola singola nota di ogni musicista contemporaneo. Nell’immediato, essa ha prodotto un oceano di musicisti che si sono sforzati di imitarne lo stile ed ha costretto anche i più originali a tener conto della sua lezione magari ibridandola con altri riferimenti della tradizione. Tra i moltissimi esempi che si potrebbero fare ho di nuovo scelto quello di Sonny Rollins – un altro dei giganti – il quale combina una grana timbrica che echeggia, come potenza ed ampiezza, quella di Coleman Hawkins, ad un linguaggio guizzante e contorto di chiara matrice parkeriana. Il breve frammento che ora ascolteremo, a mo’ di esemplificazione, si intitola The Bridge, il ponte, nella realtà quello di Williamsburg che collega Manatthan a Brooklin dove Rollins aveva trovato un luogo isolato per concentrarsi, rimettersi a studiare, trovare nuove idee ed energie per ampliare i propri confini tecnici ed espressivi. Riguardo alla tecnica, Rollins era passato ad un sax tenore Conn modificato, il cui canneggio più largo gli ingrossava ulteriormente la voce, avvicinandola sempre più a quella umana. Ricavo queste informazioni da quel saggio di Maurizio Giammarco che abbiamo presentato la volta scorsa. Egli così prosegue: “Il suo approccio strumentale rivela un uso particolarmente sviluppato della laringe, un organo che i sassofonisti imparano col tempo ad impiegare come i cantanti. Il sax tenore, in breve, diventa per lui un diretto prolungamento della trachea, e in verità nessuno fa un uso di una simile tecnica come il Rollins di questi anni. E nessun saxofonista ha mai avuto un modo di suonare che si avvicini così tanto al linguaggio parlato: “Ho una teoria sull’estensione della voce - dichiara Rollins. Il tenore va bene perché è in quella giusta... Penso che l’estensione del linguaggio parlato raggiunga la gente... Io sono un musicista che parla”. L’assolo, veramente emblematico del nuovo Rollins, è un susseguirsi di brevi frasi staccate, saltellanti, afasiche che evidenziano – lo suggeriva Giancarlo Testoni – “quel lavorare di scavo sul frammento, quel rallentare o affrettare, quel rovesciare o imbrogliare il discorso a folate improvvise, quella ricerca a tratti di un sound aspro ma umanizzato, come se lo strumento fosse la gola (o il cuore) di un uomo”. I segreti del Jazz...e del Sax 27 Alabama Se l’eredità da Parker è così ingombrante e penetrante, non meno avvertita è l’esigenza di superare la logica stringente che aveva animato i boppers: disseminare di complicazioni armoniche il percorso dell’improvvisatore costringendolo a spostare all’istante la direzione del proprio pensiero musicale. Un percorso, oltretutto, che a forza di piantare ostacoli, era diventato labirintico o era stato esplorato in tutte le direzioni. Da tempo, pertanto, gli sforzi per rendere più affascinante l’improvvisazione si erano orientati verso una semplificazione della trama armonica: niente più asfissianti concatenazioni di accordi, e maggiore spazio e libertà di movimento melodico. John Coltrane, cioè l’altro grande del saxofono jazz con cui concludiamo questa prima parte è un po’ l’emblema di questo rovello che risolverà da par suo. Nel 1959 con l’album Giant Steps, passi da gigante, chiude i conti con gli accordi, come egli stesso dichiara. Lo fa esplorando tutte le possibilità combinatorie consentite ad uno strumento come il saxofono: arpeggi, multifonia, armonici e quei grappoli improvvisi di note che erano stati definiti “cortine di suono”. È in sostanza un magistrale addio al mondo del bebop per imboccare decisamente una via più congeniale con la sua concezione della musica e del mondo: quella della modalità, modalità che aveva concorso a definire nell’album manifesto Kind of Blue, inciso due settimane prima con il sestetto di Miles Davis. Un esempio illustre di che cosa significhi questa nuova logica per Coltrane lo troviamo nel brano che dà il titolo ad un altra pietra miliare nella storia del saxofono jazz di cui abbiamo già parlato: My Favorite Things. accordi cullanti. L’esplorazione di altri modi, di altri tipi di scale al di fuori del sistema tonale, non rappresenta per Coltrane una mera scelta tecnica ma un veicolo di ricerca delle proprie radici; per affermare una visione universalistica, della musica dall’altro. “Se ne suona molta di musica modale nel mondo”, dichiara. In Africa, per esempio, essa ha un rilievo straordinario, ma verso qualunque altro paese si indirizzi lo sguardo – alla Spagna, alla Scozia, dall’India alla Cina – è sempre questo tipo di musica che mi interessa, fungendo da guida e da traguardo”. La 28 John Coltrane I segreti del Jazz...e del Sax I segreti del Jazz...e del Sax 29 modalità – potremmo aggiungere – come unità nella diversità, come continuum della cultura nera in uno spazio globalizzato e in un tempo che rimanda alle origini dell’umanità”. Un atteggiamento che fa tutt’uno con la sua idea del sacro, un’idea universale di amore ed armonia di cui la musica è la raffigurazione. “La mia musica è l’espressione spirituale di quello che sono, la mia fede, la mia conoscenza, il mio essere”. Lo è sia che si esprima sotto il dominio del ritmo, in pagine rapide, incalzanti, dionisiache. Sia che si ispiri a precetti di calma, equilibrio, estasi. E il sax creatura multiforme e cangiante, gli consente di esplorare nuovi suoni estremamente penetranti e profondi, capaci di trascorrere dal ringhio al sibilo, ma anche in grado di un’emissione lirica, limpida. In questo modo Coltrane apre veramente un nuovo orizzonte che supera le contrapposizioni storiche e in atto tra i diversi stilisti. Per tutte queste ragioni Coltrane è diventato il simbolo di una stagione che, a partire dagli anni Sessanta, ha condotto il jazz ad assumere i caratteri di una musica senza confini. Una musica globale che non rinuncia, però, a quei tratti peculiari che ricordavo all’inizio. Così, quando Coltrane consegna alla storia l’adagio spettrale di Alabama per ricordare il massacro razzista in una chiesa di Birminghan, egli modella il suo periodare e la sua voce sulla struttura ritmica e sulla prosa, fedele alla tradizione dei sermoni, dell’orazione funebre del reverendo Martin Luther King.