cap 13 crisi - Università degli studi di Pavia

Capitolo 10. Le crisi finanziarie dagli anni novanta e il sistema finanziario
internazionale
1. Le crisi finanziarie degli anni novanta
Gli anni novanta hanno visto numerose crisi finanziarie di cui quella asiatica ha avuto
più risonanza di altre. Ricordiamole.
Settembre 1992
Svalutazione della lira, della sterlina e
della peseta
Dicembre 1994
Messico
Giugno-Novembre 1997
5 paesi dell’Asia Orientale
Luglio-Agosto 1998
Russia
Novembre1998-Febbraio 1999
Brasile
Dicembre 2001
Argentina
Salta a gli occhi che:
• solo la prima di queste crisi riguarda paesi ricchi del Nord del Mondo,
• le crisi si manifestano soprattutto come svalutazione della moneta nazionale
rispetto alla valuta internazionale di riferimento che tranne che nella prima casi è
ancora il dollaro US.
• Sembra esserci un’intensificazione delle crisi stesse, anche rispetto alle esperienze
dei decenni precedenti.
Che cos’è una crisi finanziaria?
L’aspetto più visibile della crisi è la rapida e forte svalutazione della moneta, ma
questo è l’effetto e non la causa della crisi, inoltre anche il mercato borsistico
solitamente subisce un crollo. La crisi porta anche con se difficoltà per il sistema
creditizio e finanziario del paese con possibili fallimenti. Le crisi hanno perciò diversi
aspetti a secondo di come sono interessati questi elementi.
La crisi europea
La prima crisi si differenzia dalle altre anche perché la svalutazione è stata
relativamente contenuta e gli effetti reali, cioè la riduzione del PIL nell’anno
successivo, 1993, anch’essi limitati; vi è stato un tasso di crescita negativo ma
dell’ordine di grandezza dell’1% del PIL.
Le altre 4 crisi riguardano non i paesi più poveri, ma paesi a medio reddito e che
fanno parte dei cosiddetti ‘mercati emergenti’, anche se la corea del Sud aveva al
momento della crisi un reddito pro capite da paese ‘ricco’ e assai più elevato di quello
di Indonesia e Messico.
Ci si può porre il problema delle possibili analogie fra le varie crisi, anche per ciò che
concerne le cause e gli effetti.
Va sottolineato che nel Novembre 2000 ci sono indicatori di possibili tensioni, se non
di crisi, in America Latina(Argentina?), in Sud Africa e ancora in Asia, in particolare
in Tailandia e Filippine.
La crisi Messicana
Il 20 Dicembre 1994 il pesos messicano crollò nei confronti del dollaro. Gli investitori
internazionali abbandonarono rapidamente i titoli di debito del Governo Messicano, i
Tesobonos, portando alla svalutazione del peso. La causa scatenante la crisi sembra
essere stato l'eccessivo deficit di parte corrente, che nel 1994 superò l'8% del PIL. Gli
investitori internazionali ritennero quel livello di deficit incoerente con il tasso di
cambio di poco più di 3 pesos per dollaro e si determinò una crisi di fiducia. Il pesos
si svalutò di circa il 100% in pochi mesi, e i tassi di interesse a breve sfiorarono
l'80%. Si parlo in quell'occasione di 'effetto Tequila', cioè della possibilità che la crisi
messicana coinvolgesse altri paesi che avevano seguito politiche di stabilizzazione
monetaria e del tasso di cambio simili, in primo luogo l'Argentina, che in effetti subì
un aumento di circa 150 punti base nel differenziale dei tassi di interesse dei propri
Brady Bonds, con un significativo aumento del costo del servizio del debito estero. Si
tratta di titoli di stato argentini garantiti da Treasury Bonds degli Stati Uniti, secondo
uno schema previsto dal Piano Brady a favore dei paesi indebitati. La preoccupazione
deriva anche dal fato che si tratta dello stesso paese che ha dato avvio alla crisi del
debito nel 1982(vedi lezione 18).
Gli effetti reali sull’economia furono notevoli; nel 1995 il PIL si è ridotto di quasi il
6%, ma già nel 1996 la crescita è ripresa ad un ritmo del 4%; la crisi era stata violenta
ma breve, anche se i salari reali non sono ancora oggi ritornati ai livelli del 1994. Nel
caso del Messico l’intervento internazionale di 50 miliardi di dollari si era dimostrato
sufficiente a tamponare le falle e soprattutto a convincere i mercati che la comunità
internazionale, ma in particolare gli Stati Uniti, avrebbero sostenuto il paese in crisi.
Inoltre il NAFTA ha assicurato un rapido effetto positivo della svalutazione del pesos
sui conti con l’estero.
In sostanza nel caso del Messico si sono verificate alcune circostanze favorevoli:
l’esistenza del ‘grande fratello’ del Nord, che garantisce sotto l’aspetto finanziario e
che provvede un mercato di sbocco importante, anche grazie alla fase espansiva
attraversata in quegli anni dall’economia americana. Per quanto criticabile sotto molti
punti di vista il commitment complessivo, finanziario, economico e politico degli Stati
Uniti nei confronti del Messico che va sotto il nome di NAFTA, svolge un ruolo
fondamentale nel bloccare la crisi.
Nel caso del Messico si è ritenuto che il problema fondamentale sia stato che i mercati
hanno giudicato insostenibile un tasso di cambio fisso con il dollaro in presenza di un
deficit di parte corrente che ha raggiunto nel 1994 l’8% del PIL:
13. 2. Le crisi in Asia.
Nel Giugno del 1997 alcuni paesi del Sud Est Asiatico sono costretti a svalutare le
loro monete. In poche settimane il baht tailandese, il pesos filippino, il ringitt della
Malesia e la rupia indonesiana perdono il 50-80% del loro valore rispetto al dollaro.
Ci sono importanti differenze, oltre che alcune analogie, fra i paesi dell’ASEAN,
Indonesia, Malesia, Filippine Tailandia. La crisi finanziaria e valutaria del 1997-98
mette in luce forse più le differenze che le analogie fra i vari paesi dell’Asia Orientale.
Ancora una volta sarebbe pericoloso leggere la crisi come un fatto omogeneo, e ciò
nonostante la quasi contemporaneità del crollo delle valute e delle borse di quei paesi.
Si è trattato sicuramente di un ‘effetto domino’, o di una forma di ‘contagio’, come si
usa dire ora. Resta il fatto che anche l’Asia Orientale del boom economico e non solo
la travagliata America Latina è soggetta a gravi crisi.
La fine di una storia di successo economico?
Fra il 1965 e il 1996 l’Asia Orientale ha avuto un tasso medio annuo di crescita del
prodotto pro capite che ha sfiorato il 6%, a fronte di poco più del 2% per i paesi
sviluppati e dell’Asia Meridionale, l’1% dell’America Latina e tassi negativi per
Medio Oriente e Africa. I tassi medi annui di crescita del PIL sono stati del 7.2% dal
1965 al 1980, del 7.6% negli anni ottanta e del 10.3% dal 1990 al 1995(cfr. World
Development Report 1989, p. 167 e 1997 p. 235; cfr. anche World Bank 1994, p. 7).
Questa crescita impressionante ha portato alcuni paesi, ad esempio la Corea ad
aumentare di dieci volte il Prodotto Pro Capite fra il 1965 e il 1995 e a raddoppiarlo
negli ultimi dieci.
Come ha riconosciuto Joseph Stiglitz, allora Vice Presidente della Banca Mondiale è
stato proprio il successo delle economie dell’Asia Orientale che ha portato
quell’istituzione a riconsiderare alcune delle ricette e dei suggerimenti di politica
economica che vengono spesso indicati con il termine di Washington Consensus(cfr.
Stiglitz 1998. Lasciare spazio al mercato, liberalizzazioni, assenza di sussidi a imprese
e settori industriali e così via. Il paese che più colpiva gli economisti era la Corea del
Sud per la quale già dieci anni fa non era difficile prevedere un avvenire economico
da gigante, con un modello in cui lo stato ha giocato un ruolo importante
nell’orientare il credito, nel favorire l’investimento in particolare nei settori
manifatturieri, nell’incentivare e sostenere le esportazioni(vedi lezione 15).
I tempi della crisi
La Figura 1 descrive l’andamento dei cambi e dei corsi azionari nel 1996 e nei mesi
della crisi.
La crisi delle valute inizia nella seconda metà di Giugno del 1997 con forti attacchi
speculativi da parte di fondi di investimento internazionali al bath Tailandese che nel
corso delle due ultime settimane di Giugno perde il 15% del suo valore rispetto al
dollaro, dal 2 Luglio vi è una fluttuazione controllata, ma verso la fine di Luglio perde
già il 30%. Nella caso della Tailandia vi erano tre elementi che si potevano
considerare indicatori della possibilità che vi fosse una crisi valutaria.
Primo, un deficit di parte corrente pari a circa l’8% del PIL, all’incirca lo stesso del
Messico due anni e mezzo prima.
Secondo, un tasso di cambio sostanzialmente ancorato al dollaro che aveva portato ad
un apprezzamento del tasso di cambio reale(che tiene conto del tasso di inflazione
relativo dei vari paesi) del 17% fra il 1995 e il Giugno 1997, con conseguente perdita
di competitività e conseguenti rischi di peggioramento del deficit di parte corrente.
Terzo, un elevato debito estero e soprattutto un rapporto fra riserve valutarie e debiti
esteri a breve assai elevato, fra il 1990 e 1996 il 46% dei flussi privati di capitali erano
costituiti da prestiti a breve.
Il pacchetto di salvataggio per la Tailandia si aggirava sui 17 miliardi di dollari, meno
della metà di quello messicano e la svalutazione del bath era comunque assai più
contenuta di quella del pesos. Inoltre fra la metà di Luglio e la fine di Agosto il bath
si era stabilizzato attorno ai 32 bath per dollaro. Sembrava una crisi largamente
contenibile, anche se l’effetto ‘contagio’ verso le altre valute era già iniziato.
Il ‘contagio’
Il ‘contagio’ o effetto domino descrive la situazione in cui un’economia subisce uno
shock esterno-svalutazione, crollo della borsa- in seguito ad una crisi analoga in un
altro paese. Sui meccanismi di trasmissione del ‘virus’ vi sono varie interpretazioni
che si possono racchiudere in due grandi campi. Primo si ha il contagio perchè gli
operatori economici, soprattutto gli investitori sui mercati finanziari vedono
somiglianze significative fra due economie, soprattutto ‘patologie’ simili, ad esempio
dei deficit di conto corrente elevati, dopo la crisi messicana del 1994 si riteneva che
deficit superiori al 3% fossero difficilmente sostenibili.
Come si prende il contagio?
Già dopo la crisi messicano del Dicembre 1994 sono stati indicati vari fattori che
possono portare alla costruzione di un indice delle crisi dovute a squilibri
macroeconomici.
Alcuni sostengono vi sono dei fattori di rischio che indicano in anticipo la possibilità
di una crisi valutaria: l’apprezzamento del tasso di cambio, un’espansione veloce del
credito e un basso rapporto fra riserve valutarie e quantità di moneta.
Un secondo meccanismo di trasmissione riguarda invece i rapporti commerciali, per
cui un’economia viene ‘infettata’ perchè un partner commerciale importante subisce
una crisi valutaria e quindi entra in una fase recessiva.
Nel caso della crisi valutaria asiatica il contagio si manifesta abbastanza rapidamente,
su altre tre valute: il ringitt della Malesia, il pesos delle Filippine e la rupia
indonesiana. Fin qui la crisi è preoccupante, ma non in modo eccessivo ne si può dire
che anche l’effetto contagio’ su Filippine, Malesia e Indonesia fosse del tutto inatteso.
Gli investitori internazionali e i grandi centri finanziari consideravano l’Asia
Orientale un’area comunque promettente grazie agli elevati saggi di crescita del PIL e
forse soprattutto alla prolungata fase di crescita economica. Sembrava che crisi del
tipo di quelle che colpivano abbastanza regolarmente l’America Latina non potessero
avvenire in Asia Orientale.
Nell’estate del 1997 la crisi sembra ancora limitati ai quattro paesi dell’ASEAN e
anche le sue dimensioni sembrano inferiori a quelle della crisi messicana.
Figura 13.1. Alcune Economie Asiatiche: Tassi di Cambio Bilaterali con il
Dollaro e Corsi Azionari.
(In dollari per unità di valuta, scala logaritmica, 5 Gennaio 1996=100)
Fonte: IMF. 1.Ancorato al dollaro USA. 2. La valuta indonesiana ha raggiunto un
livello di cambio più basso pari a 14.750 rupie per dollaro(corrispondente ad un
valore di 15.5 nell’indice qui utilizzato) durante la settimana terminata il 23 Gennaio
1998 e ha recuperato fino a 8.150(28.1 in termini dell’indice) nella settimana
terminata il 10 Aprile 1998.
Il ‘secondo contagio’ e le dimensioni delle crisi
Nell’autunno del 1997 si succedono due eventi che danno la misura di un
cambiamento sia nelle dimensioni della crisi che nella sua natura
In primo luogo, vi è il collasso economico dell’Indonesia seguito nella primavera
dall’acuirsi della crisi politica che sfocia in Maggio nelle dimissioni di Suharto
e la sua sostituzione con Habibie. Crolla la rupia che a fine Gennaio arriva ad
una svalutazione del’85% rispetto al dollaro. Dei quattro paesi dell’ASEAN
toccati dalla crisi valutaria l’Indonesia è quello che pone più problemi e che
presentava la situazione politica e economica più delicata. Un paese di 200
milioni di abitanti, dotato di ricchezze enormi, ma anche caratterizzato da una
distribuzione del reddito e della ricchezza estremamente sperequata, elementi
che rendono l’Indonesia simile ad un paese Latino Americano, più che a un
paese asiatico. Come i paesi Latino Americani l’Indonesia si trascina da
decenni in forte debito estero che già prima della crisi del 1997 ammontava a
più di 100 miliardi di dollari. A ciò si aggiungano le tensioni interetniche,
soprattutto l’ostilità nei confronti della dinamica comunità cinese; gli enormi
squilibri regionali. Il trentennale dominio di Suharto è stato accompagnato da
una forte crescita, ma fra i Second-Tier NIES l’Indonesia è quello che ha
iniziato il processo di crescita con ritmi ‘asiatici’ più di recente. Ancora alla
metà degli anni ottanta l’Indonesia aveva un reddito pro-capite di poco
superiore a quello dell’India e della Cina e solo nel 1994 era stata classificata
da paese povero a paese a reddito medio.
Il secondo elemento che segna la gravità della crisi e che determina l’intervento
massiccio del Fondo Monetario Internazionale riguarda la Corea del Sud e
quindi una delle ‘prime tigri’. Il caso Coreano merita attenzione perchè è con
l’inclusione della Corea che la crisi sfonda una ‘seconda diga’, assume
dimensioni non più solo regionali, e può creare seri problemi sia ai mercati
finanziari che al sistema monetario internazionale. Negli ultimi mesi del 1997
il won Coreano si svaluta del 50% rispetto al cambio con il dollaro dell’inizio
dell’estate, anch’esso si riprende un poco nella primavera del 1998, ma
rispetto al 1996 la svalutazione si colloca comunque fra il 40 e il 50%.
Il caso coreano mette in luce un aspetto della crisi: non si tratta più di una crisi
valutaria, ma di una vera e propria crisi finanziaria e bancaria. Le crisi bancarie
sono caratterizzate dall’insolvenza di grandi banche nazionali e internazionali
sostanzialmente a causa dell’elevata proporzione di crediti che divengono inesigibili,
fino a determinare il fallimento potenziale delle banche stesse. E’ vero che in
Tailandia 58 società finanziarie sono state sospese fin nei primi mesi della crisi, ma il
caso Coreano è diverso per caratteristiche e dimensioni.
La Corea del Sud dal 1995 è classificata come paese ad alto reddito dalla Banca
Mondiale con un reddito pro capite di 9700 dollari. E’ il più importante dei NIEs
della prima generazione e con un PIL di oltre 430 milioni di dollari si colloca
all’undicesimo posto fra le nazioni economicamente più grandi, dopo Spagna,
Canada, Brasile e Cina, ma prima di Australia e India.
- Anche nel caso Coreano qualche segnale premonitore c’era. Se si osserva la Figura 1
si vede che nel caso della Tailandia la crisi borsistica inizia prima di quella valutaria;
già nel 1996 e soprattutto nei primi mesi del 1997 si assiste ad un continuo
deterioramento dei corsi azionari che porta ad un perdita di quasi il 50% dell’indice
della borsa di Bangkok fra la primavera del 1996 e quella del 1997. Nello stesso
periodo anche l’indice della borsa di Seul perde circa il 40% del proprio valore ed è
l’unica delle borse asiatiche, oltre a quella di Bangkok, a conoscere questa precoce
caduta dell’indice; solo nella seconda metà del 1997 si ha il crollo di tutte le principali
borse asiatiche. Come vedremo meglio nella sezione IV la crisi valutaria sembra
essere più un prodotto della caduta dei corsi azionari che la causa di quest’ultima
circostanza.
- La Corea del Sud si è anche trovata di fronte ad una crisi di liquidità con caduta
delle riserve e rischio di crollo del sistema bancario. Per la prima volta dopo oltre
vent’anni la Corea del Sud si è trovata a dover contrattare con i creditori esteri un
riscadenzamento del debito. Fin dai primi anni ottanta la Corea era un paese
indebitato, ma fino ai primi mesi del 1998 non aveva mai dovuto chiedere una
modificazione dei termini di pagamento del debito estero e degli interessi, anzi era
l’unico paese ad aver sempre onorato i propri debiti. La Corea del Sud aveva così
evitato il rescheduling che ha contraddistinto le economie latino americane, ma anche
alcune dell’Asia, e che per quindici anni ha costituito il principale strumento con cui
affrontare la crisi del debito degli anni ottanta. Insomma si è infranto il mito del
debitore modello: indebitato ma con un’economia che cresce moltissimo e che
consente di ripagare puntualmente i debiti.
13.3. Gli interventi del Fondo Monetario Internazionale e gli effetti della crisi
Le dimensioni del salvataggio organizzato dal Fondo Monetario, con il concorso
della Banca Mondiale e del G7, nel caso coreano sono impressionanti, oltre 58
miliardi di dollari, ben più del Messico 1994 e superiore anche ai pacchetti di
salvataggio congiunti di Tailandia e Indonesia. Inoltre degli oltre 20 miliardi di dollari
direttamente impegnati dal Fondo Monetario al 10 di Aprile 1998 ben 15 erano già
stati concessi, un chiaro segno della gravità della crisi di liquidità in cui la Corea si è
venuta a trovare.
Il Fondo Monetario Internazionale
Fin dall’Agosto 1998 il Fondo Monetario interviene organizzando vari pacchetti di
intervento(vedi Tavola 1), nonchè i programmi di riforme che devono rimettere in
sesto quelle economie. L’obiettivo dichiarato del Fondo è stato fin dall’inizio quello
di mantenere attivi i canali finanziari fra le economie in crisi e i mercati
internazionali, in modo che esse mantenessero l’acceso a questi mercati. In sostanza si
trattava di impedire che si determinasse un blocco dei flussi.
Tavola 13.1. Impegni della Comunità Internazionale e Versamenti del Fondo
Monetario Internazionale in Risposta alla Crisi Asiatica
(miliardi di dollari statunitensi)
Impegni
Versamenti del IMF
Paese
IMF
Multilaterali Bilaterali Totale
al 10 Aprile 1998
Indonesia
9.9
8.0
18.7
36.6
3.0
Corea
20.9
14.0
23.3
58.2
15.1
Tailandia
3.9
2.7
10.5
17.1
2.7
Totale
34.7
24.7
52.5
111.9
20.8
Le misure di risanamento dettate il Fondo Monetario non si discostano
sostanzialmente da quelle tradizionali dei programmi di aggiustamento strutturale
degli anni ottanta, seppur con alcune precisazioni e cautele che vengono via
rinforzandosi nel corso dell’evolversi della crisi. Vengono fatte alcune
raccomandazioni principali:
• le società finanziarie sull’orlo del fallimento devono esser chiuse;
• si raccomandano restrizioni fiscali, soprattutto tagli alle spese correnti, per far
fronte ai costi derivanti dalla ristrutturazione del settore finanziario e creditizio,
anche se si accenna alla protezione della spesa sociale;
• all’Indonesia viene anche chiesto di ridurre o eliminare i sussidi su alcuni beni,
soprattutto prodotti energetici come la benzina e il kerosene, anche se ci si rende
conto dell’impatto che questo può avere sulle condizioni di vita della popolazione;
• La politica monetaria deve essere temporaneamente restrittiva, con l’innalzamento
dei tassi di interesse, per contenere l’inflazione e le pressioni sulla bilancia dei
pagamenti.
• I tassi di cambio devono essere flessibili;
• non sempre viene esplicitata ma è chiara la richiesta di maggior flessibilità nel
mercato del lavoro per favorire licenziamenti e assunzioni onde poter riallocare
rapidamente la mano d’opera in eccesso nei settori in crisi;
• E assai importante in questo contesto la richiesta di liberalizzazione dell’accesso
di capitali stranieri soprattutto nel settore finanziario e creditizio.
Queste misure non solo possono avere pesanti effetti sociali, ma addirittura possono
portare ad ulteriori situazioni di insolvenza di istituzioni finanziarie e di banche,
soprattutto in seguito all’innalzamento dei tassi di interesse e alla caduta dei valori
azionari e obbligazionari.
La critica alle misure dettate al FMI è corretta, ma va notato che la crisi asiatica
mostra anche alcune novità positive: in particolare il Fondo rivede in tempi rapidi le
proprie richieste di stretta fiscale e in particolare l’indicazione di conseguire in tempi
rapidi un surplus di bilancio. Il programma di aggiustamento per la Tailandia
dell’Agosto 1997 viene modificato una prima volta alla fine di Novembre e
successivamente alla fine di Febbraio 1998. Dalla richiesta iniziale di avere un surplus
di bilancio pari all’1% del PIL il Fondo passa ad accettare un deficit del 2%. Anche
per l’Indonesia dall’indicazione di conseguire un surplus dell’1% del PIL in
Novembre si passa alla considerazione in Gennaio che un deficit dell’1% può essere
accettabile vista la riduzione della crescita economica. Queste continue revisioni nelle
previsioni testimoniano le difficoltà con cui anche il Fondo segue gli sviluppi della
crisi. Anche le previsioni circa l’impatto reale della crisi, e soprattutto gli effetti sui
tassi di crescita, vengono continuamente riviste al ribasso. Nel corso dell’autunno
1997 e dell’inverno 1998 diviene evidente che si tratta di una crisi sicuramente
diversa e più grave di quella del Messico del 1994.
13.4. Gli effetti reali e finanziari delle crisi
Il PIL
L’effetto più importante della crisi riguarda l’impatto sull’economia reale, cioè la
riduzione del PIL che è dovuto in primo luogo al fallimento di molte imprese, società
finanziarie e banche. La domanda interna in questi paesi potrebbe crollare anche del
10%, una cifra che ricorda quelle dei primi anni novanta in Russia e nei paesi dell’ex
Unione Sovietica all’inizio del processo di transizione verso l’economia di mercato.
In termini di dollari si hanno dati impressionanti; al tasso di cambio con il dollaro del
4 Febbraio 1998 le economie coreana e tailandese hanno quasi dimezzato il valore del
PIL rispetto al 1996, la Malesia e le Filippine perdono rispettivamente il 12% e 20% e
il PIL dell’Indonesia passa da 226 a 51 miliardi di dollari.
Queste cifre esprimono la misura della perdita di potere di acquisto di queste
economie sui mercati internazionali e quindi spiegano il crollo delle loro
importazioni, circa il 30% in meno nel primo trimestre 1998. Nello stesso periodo il
PIL indonesiano si è contrae dell’8.5%, quello della Malesia del 1.8% e anche Hong
Kong vede diminuire il PIL del 2% circa. E’ come se questi paesi stessero tornando
indietro di 5 o 10 anni.
Il commercio estero
Ovviamente il crollo delle importazioni comporta un rapido miglioramento nella
bilancia dei pagamenti e nei conti con l’estero, per cui già nel 1998 i quattro paesi
dell’ASEAN e il Sud Corea hanno un surplus nella bilancia commerciale, che da un
deficit di circa 50 miliardi di dollari nel 1996 passerà ad un surplus di uguali
dimensioni nel 1998. Questo miglioramento impressionante di 100 miliardi in un anno
è però ottenuto grazie alla contrazione drastica delle importazioni a causa della
caduta della domanda interna e non ancora al rilancio delle esportazioni in seguito
alla svalutazione del cambio. D’altra parte la svalutazione comporta un aumento dei
prezzi all’importazione e quindi una spinta all’inflazione.
I fallimenti a catena e il rinvio a tempi migliori dei progetti di investimento, anche in
infrastrutture che erano in cantiere comporterà sicuramente una forte crescita del tasso
di disoccupazione che nel caso dell’Indonesia arriva ben presto al 10%, ma non è
escluso che a tassi simili si collochino anche Corea e Tailandia. Va sottolineato che
questi paesi per il momento non hanno sistemi di protezione contro la disoccupazione,
il che può portare forti tensioni sociali.
Nel caso asiatico esistevano situazioni che potevano essere di grande vantaggio nel
caso la crisi si fosse limitata a pochi paesi, ma che invece sono diventate dei veri e
propri boomerang. L’integrazione regionale poteva rappresentare uno scudo efficace
nel caso di crisi isolate, ma è diventata un elemento negativo nel caso di crisi più
estese.
A ciò si aggiunga che il ’grande fratello’ più prossimo, il Giappone, è in una
situazione di stagnazione economica dal 1990, e in particolare dal 1992. A dire il vero
il Giappone si era offerto di predisporre un fondo di 100 miliardi di dollari per il
salvataggio delle economie dell’Asia Orientale, ma aveva trovato il rifiuto degli Stati
Uniti e del Fondo Monetario, che avevano di fatto imposto le procedure tradizionali
attraverso i programmi e i vincoli del Fondo Monetario.
Un altro effetto della crisi finanziaria asiatica riguarda gli spreads, le differenze, fra i
tassi di interesse sui titoli emessi sui mercati internazionali da alcuni paesi emergenti,
soprattutto in Asia e in America Latina, rispetto a quelli dei buoni del tesoro
americani. Questa differenza è un indice del ‘rischio paese’ e rappresenta il costo in
più che alcuni paesi devono pagare per collocare le loro obbligazioni; questi spreads
erano scesi fino a circa 3 punti percentuali nell’estate 1997, sono risaliti a quasi 7 nel
corso dell’autunno, per scendere a circa 4.5 punti percentuali nella primavera 1998.
Quindi tutti i paesi cosiddetti emergenti si sono trovati a pagare interessi più elevati
del previsto sul proprio debito estero. Questo è un onere sistematico in ogni
turbolenza finanziaria.
13.5. Le cause vicine e lontane della crisi asiatica e la finanza internazionale
La crisi asiatica ha due caratteristiche importanti.
• è stata dimensioni più rilevanti delle altre viste negli anni novanta,
• ha toccato i paesi della crescita economica ’miracolosa’ e quindi non i paesi latino
americani o africani, più o meno abituati alle crisi economiche e all’instabilità
politica.
La riflessione sulle crisi dell’Asia Orientale è quindi anche un modo per comprendere
la natura delle altre.
Eccesso di investimenti e sovrapproduzione
Gli anni novanta hanno portato alcune novità che si sono rivelate fra le cause
fondamentali della crisi. Se esaminiamo i tassi medi di investimento e di risparmio in
percentuale del PIL dei quattro paesi dell’ASEAN e della Corea fra il 1989 e il 1993
vediamo che i primi si collocano 32.2% i secondi 28.9%; anche con tassi di risparmio
sempre elevati vi è un eccesso di investimento di oltre 3 punti percentuali del PIL.
L’investimento va bene, ma la differenza fra risparmio interno e
investimenti deve essere finanziata dall’estero e appare come un deficit di
parte corrente. Vi è quindi il problema del come finanziare questo deficit,
sapendo che i crediti così ottenuti dovranno essere ripagati. Vi è quindi un
problema di finanza.
Contrariamente a quelli dell’America Latina negli anni ottanta, i deficit di bilancia dei
pagamenti degli anni novanta in Asia sono chiaramente causati da un eccesso di
investimenti privati. Si tratta di una tipica crisi da eccesso di debito estero privato in
cui anche i flussi di capitali che non creano debito, come l’acquisto di azioni e di
immobili da parte di stranieri, hanno contribuito ad alimentare la bolla speculativa
sui due mercati.
La sovrapproduzione
Gli elevati saggi di investimento hanno portato ad un forte processo di accumulazione
anche in settori che già nel corso degli anni novanta mostravano chiari segni di
eccesso di capacità produttiva, come per il settore degli autoveicoli. Altro settore in
cui molto si è investito in Asia Orientale è quello delle nuove tecnologie; soprattutto
nella produzione di semiconduttori e di strutture hardware. Per entrambe queste
produzioni la domanda mondiale non sembra in grado di tenere il passo con l’offerta
potenziale. Nel caso dei semiconduttori vi è stato un calo notevole dei prezzi, che ha
ulteriormente contribuito a ridurre il valore delle esportazioni.
Quindi per parecchi e importanti settori produttivi si può parlare di crisi da
sovrapproduzione, dovuta al fatto che nel corso degli ultimi vent’anni una nuova
regione, per la punto l’Asia delle ’tigri’ vecchie e nuove, si proposta come nuovo
produttore. Da qui nascono le difficoltà di far rendere in modo adeguato gli
investimenti effettuati, sostanzialmente attraverso la continua crescita delle
esportazioni.
Questi paesi pensavano di poter continuare comunque ad assorbire gli eventuali
shocks esterni o interni con gli alti tassi di crescita, per cui in qualche modo si è
guardato suolo al ‘lato buono’ dell’investimento e dell’accumulazione.
Inoltre i paesi della regione hanno vissuto appieno il fenomeno delle bolle speculative,
sia sul mercato borsistico che in quello immobiliare. I capitali che entravano non
erano tutti investiti in impianti e capacità produttiva, ma alimentavano anche il
mercato azionario e quello immobiliare. Così i valori crescenti dei titoli azionari e
degli immobili nascondevano i problemi di bilancio di molte società finanziarie e
industriali, grazie al continuo accesso di capitali, soprattutto di investimenti di
portafoglio a breve si producevano elevate quotazioni che a loro volta sembravano
giustificare ulteriori afflussi di fondi dall’estero.
13.6.La finanza internazionale
Se il problema della sovrapproduzione ha riguardato soprattutto l’Asia. Le
modificazioni intervenute sui mercati finanziari internazionali sono un elemento con
cui devono fare i conti tutti i PVS e non solo loro.
I mercati finanziari e monetari internazionali si sono profondamente modificati dopo
l’abbandono nel 1971 1973 del sistema di Bretton Woods che preveda cambi fissi e la
convertibilità del dollaro in oro. Il sistema dei
• cambi flessibili e la
• crescita dei mercati finanziari
soprattutto negli anni ottanta e novanta hanno determinato condizioni nuove per i
paesi emergenti e per tutti i PVS.
Nel caso dell’Asia, ma non solo, la crisi finanziaria nasce dal fatto che operatori
interni e internazionali sono stati presi dal meccanismo noto come moral hazard, per
cui essi ritengono che l’investimento non possa che andare a buon fine, miopia da
crescita continua, o che se ci fossero dei problemi di bilancio per società finanziarie
e/o banche private comunque il governo, o un finanziatore esterno, il Giappone?,
interverrebbero per impedirne il fallimento. In queste condizioni è facile vedere che
l’investitore sottovaluta i rischi.
I mercati finanziari internazionali sono facilmente soggetti a ondate di
ottimismo e di pessimismo che possono portare a bolle speculative o a eccessi
di ribasso, con forti effetti destabilizzanti. Questo avviene anche per il
cosiddetto herding, cioè il fenomeno per cui gli operatori tendono a seguire in
massa il mercato e quindi si buttano ad acquistare o a vendere seguendo come
un gregge gli operatori di punta e i gestori di fondi speculativi. In questo caso
spesso le profezie si autoconfermano, sia nelle ondate di pessimismo che in
quelle di ottimismo , con fenomeni di overshooting, cioè di eccesso di reazione
sia verso il basso che verso l’alto dei prezzi che vanno al di la dei valori che
possono essere ritenuti ragionevoli in base ai cosiddetti ‘fondamentali’
dell’economia.
Gli anni novanta
Gli errori di valutazione dei governi asiatici nella gestione dell’economia riflettono la
difficoltà ad interpretare i cambiamenti intervenuti nel quadro del sistema finanziario
internazionale negli anni novanta. I flussi di capitali, soprattutto di capitali a breve
termine, e gli scambi in valuta arrivano nel corso di pochi anni a livelli imprevedibili
solo dieci anni prima.
Due novità
Una massa enorme di soldi Nel 1973 sul mercato delle valute si scambiavano
fra i 10 e i 20 miliardi di dollari al giorno che hanno raggiunto gli 80 miliardi
nel 1980. Ma nel 1992 le transazioni in valuta erano pari a 880 miliardi al
giorno e nel 1995 erano salite a ben 1,260, secondo dati della Banca dei
Regolamenti Internazionali, e soprattutto erano di 50 volte superiori al valore
del commercio mondiale e 70 volte superiori al valore di tutte le riserve auree
e valutarie del mondo, e questo in un giorno di scambi medi e non nei giorni di
crisi valutarie.
Un tempo troppo breve. Inoltre la maggior parte di queste transazioni valutarie
ha vita brevissima; quasi il 40% sono contratti che s aprono e si chiudono
entro le 48 ore e più dell’80% di queste transazioni hanno durata inferiore alla
settimana.
Quest’analisi è sostanzialmente condivisa anche dal Fondo Monetario, che già nel
1996 a proposito del funzionamento del mercato valutario internazionale sottolineava
che si poneva il problema di “come ridurre il potenziale distorsivo nel mercato
internazionale delle valute. Questo mercato, che è al centro del sistema finanziario
internazionale, è il più grande, il più liquido, il più innovativo, e l’unico mercato
finanziario globale al mondo aperto 24 ore su 24. Gli scambi giornalieri su questo
mercato sono arrivati a 1,500 miliardi di dollari, e molti di essi sono concentrati in un
pugno di banche internazionali.
Nel 1992 la crisi valutaria del Nord. A questo punto vale la pena di ricordare
che nel Settembre 1992 anche la Banca d’Inghilterra e la Banca d’Italia furono
‘sorprese’ dalle dimensioni e dalla determinatezza della cosiddetta
‘speculazione’ internazionale. Entrambe queste prestigiose istituzioni
cercarono di difendere il cambio della valuta nazionale per un giorno e poco
più, bruciando quantità notevolissime di riserve. La crisi del Sistema
Monetario Europeo del 1992 è stato forse il primo segnale del nuovo contesto
che negli anni novanta si era determinato sul mercato delle valute.
Questo non giustifica gli errori di valutazione dei governi e degli operatori del sud est
asiatico, ma spiega che la lettura dei possibili impatti di questa nuova situazione non è
semplicissima o scontata. Queste economie hanno continuato ad indebitarsi, e
soprattutto con capitali a breve termine. In questi paesi sono esplosi soprattutto i
flussi bancari il che ha portato ad una struttura dell’indebitamento estero molto
squilibrata verso il breve periodo e quindi soggetta a crisi di liquidità.
Una misura della fragilità della struttura del debito estero è data dalla somma del
deficit di parte corrente e del debito a breve in rapporto alle riserve, che indica la
capacità dell’economia di far fronte ad una rapida uscita di capitali. La Tavola 5
mostra l’andamento in tre anni di questo rapporto per alcune economie dell’Asia
Orientale e lo confronta con quello di quattro paesi latino americani.
Tavola 13.2. Debito a breve più deficit di parte corrente(% delle riservea)
1994
1995
1996
Cina
42
40
35
Indonesia
139
169
138
Corea del Sud
125
164
251
Malesia
46
60
55
Tailandia
127
152
153
Filippine
212
203
149
Argentina
151
118
110
Brasile
101
124
121
Messico
900b
267
241
Cile
43
37
31
a
. Riserve internazionali meno l’oro alla fine del periodo; alla fine del Febbraio 1997
per Indonesia e Malesia. b. Stima delle riserve a metà Dicembre, appena prima della
crisi.
Fonte: UNCTAD 1997, pp. 32-33.
La Corea nel corso di due anni si indebita in modo inverosimile, è come se in un
periodo brevissimo l’economia avesse perso il controllo sui meccanismi creditizi e
finanziari, scommettendo implicitamente sulla possibilità di valorizzare questa massa
di dollari in tempi molto brevi e con rendimenti elevati, mettendo così a rischio un
processo trentennale di crescita.
La liberalizzazione dei mercati dei capitali
Gli investimenti di portafoglio, soprattutto quelli in titoli obbligazionari, sono di
fatto parte di quella hot money, investimenti tipicamente finanziari alla ricerca di
rendimenti elevati nel breve periodo, che hanno causato i forti deflussi di capitali dal
Messico dopo il Dicembre 1994 Le emissioni di obbligazioni da parte dei mercati
emergenti sono passate dai circa 40 miliardi di dollari del 1995 ai 108 del 1997, con
un picco di quasi 40 miliardi di dollari nel terzo trimestre di quell’anno. Indonesia e
Corea hanno continuato a ricevere prestiti fino all’Autunno 1997, il che ancora una
volta segnala la difficoltà a prevedere le crisi anche per gli investitori istituzionali.
La crisi dell’Asia Orientale non può essere spiegata solo dall’imponente massa di
capitali a breve che si muove giornalmente sui mercati internazionali, ma certamente
l’entità di questo fenomeno è un fatto nuovo, che porrà nuovi problemi nella fase di
aggiustamento delle economie in crisi. La liberalizzazione del mercato dei capitali
resta un fatto importante, soprattutto per garantire finanziamenti ai paesi in via di
sviluppo, ma alcune considerazioni di cautela appaiono necessarie, anche alla luce
della crisi asiatica del 1997-98.
Già dopo la crisi messicana del 1994 il Fondo Monetario stesso sosteneva che i paesi
che avevano fatto pochi progressi nel rafforzamento del mercato finanziario interno
avrebbero dovuto essere molto cauti nel rimuovere le barriere ai flussi di capitali
esteri, particolarmente per quelli a breve termine. Ovviamente dopo la crisi del Sud
Est Asiatico viene ripetuta la raccomandazione affinchè si proceda ad una apertura
graduale ai movimenti di capitali, con l’indicazione che ”i mercati emergenti devono
trovare modi di proteggere le loro economie contro gli aumenti indesiderati di flussi di
breve periodo”(IMF Survey 6 Aprile 1998).
Molte voci si sono elevate a favore di una tassazione dei flussi di capitali a breve(cfr.
Eatwell 1997 e ul Haq., Kaul e Grunberg 1996). Anche all’interno del Fondo
Monetario vi sono studi che indicano come i flussi di capitali possano avere effetti
destabilizzanti; vengono considerati esempi di efficace controllo dei movimenti
speculativi in Cile e Colombia, ma anche in Corea e Tailandia negli anni ottanta.
4.3. I tassi di cambio
In presenza di forti movimenti di capitali sui mercati delle valute non e facile
individuare il regime di cambio migliore e la gestione del tasso di cambio può essere
problematica.
Per tutti i paesi in via di sviluppo è facile prevedere periodi di forti oscillazioni nel
tasso di cambio e nei corsi azionari, che potranno costituire shocks esterni capaci
avere un impatto fortemente negativo sull’economia reale e sull’occupazione.
Quest’ultimo problema è particolarmente serio poiché si tratta di paesi che non hanno
‘ammortizzatori sociale’, o un sistema di welfare capace di attutire gli effetti della
disoccupazione sulle condizioni di vita della popolazione. Del resto le politiche fiscali
restrittive che sono chiamati ad attuare rendono più difficile porre in atto interventi a
sostegno dei nuovi disoccupati, o sottoccupati.
Possiamo indicare 4 sistemi di cambio praticati nei PVS.
1. Proprio per evitare questi pericoli alcuni paesi, Panama, Equador parlano di
dollarizzare la propria economia, del resto è vero che spesso la maggior parte
degli scambi sono già condotti in dollari. Il cosiddetto Franco CFA dell’Africa
Occidentale e Centrale francofona era un meccanismo diverso ma con effetti
simili. Nei Balcani il marco tedesco poi l’EURO, è spesso la moneta di
riferimento.
2. Un altro sistema di cambio che prevede uno stretto legame con il dollaro è il
currency board. L’esperienza più nota di currency board è quella Argentina
dove nel il piano di Convertibilità di Domingo Cavallo è stabilito per legge un
rapporto uno a uno fra pesos e dollaro. Va notato che negli anni novanta in
Argentina l’inflazione è crollata, ma la disoccupazione e il deficit di parte
corrente sono sempre a livelli molto alti. Anche Hong Kong utilizza questo
sistema; l’Autorità monetaria non stampa moneta, vi sono tre banche
commerciali che lo fanno in sua vece, ma solo dopo aver versato l’esatto
equivalente di dollari all’Autorità stessa.
3. Moltissimi PVS pur non adottano uno dei due sistemi visti di fatto hanno tassi di
cambio in cui la valuta di riferimento è comunque il dollaro, come si dice sono
valute pegged al dollaro, e spesso il cambio stesso è relativamente fisso, anche
se non fissato per legge. Dopo la crisi messicana del Dicembre 1994 e quella
asiatica del 1997 il sistema di cambi fissi, legati al dollaro, viene considerato
estremamente pericoloso, anzi è ritenuto una delle cause o degli indicatori di
possibili crisi.
4. I cambi flessibili sono adottati da molti paesi anche se c’è sempre un qualche
riferimento a qualche valuta principale. In teoria con cambi flessibili si
dovrebbero evitare crisi valutarie, perchè semmai la svalutazione della moneta
nazionale avviene giorno per giorno e non di colpo. Però l’eccessiva
flessibilità può comportare problemi per gli scambi internazionali in cui i
contratti sono comunque in valuta forte, dollari. Inoltre i meccanismi di
aggiustamento della bilancia dei pagamenti che con cambi flessibili
dovrebbero ripianare automaticamente i deficit di parte corrente sono in realtà
abbastanza lenti ad operare.
E’ chiaro che i problemi per i PVS nascono dal sistema di cambi fra le valute forti sui
mercati internazionali e questo è il classico caso in cui i PVS subiscono le poilitiche
decisa dai paesi ricchi.
In conclusione
Le crisi finanziarie e valutarie sono frequenti soprattutto:
• con un sistema di cambi flessibili e
• liberalizzazioni dei movimenti di capitali
• in assenza di vincoli/controlli sui movimenti a breve e di natura speculative.
Ma nel caso dell’Asia, a differenza dell’America Latina e soprattutto dell’Africa,
questi paesi hanno già costruito
• una solida base industriale e in alcuni casi anche nel settore dei servizi,
• le loro esportazioni non sono concentrate su pochi beni primari, ma sono
fortemente diversificate,
• la qualità della forza lavoro, i livelli di istruzione primaria e secondaria fanno si
che vi sia un ‘capitale umano’ di qualità assai elevata,
• nonostante vi sia l’esigenza di ampliare e migliorare le infrastrutture queste
esistono e hanno contribuito ad ottenere importanti risultati nella lotta alla povertà.
In sostanza in Asia Orientale il processo di crescita economica degli ultimi trent’anni
è stato anche un processo di sviluppo umano, seppur con molte ombre.
Nonostante la crisi finanziaria iniziata nel 1997 questi paesi continueranno a costituire
un polo di crescita per il commercio e l’economia mondiale e un polo di attrazione per
gli investimenti diretti e di portafoglio. L’Asia Orientale resterà anche un concorrente
importante sui mercati internazionali per i paesi più industrializzati.
La crisi asiatica ci ha insegnato che nessuna economia è immune da possibili crisi
finanziarie, anche economie che crescono al 6-10%. Ma forse questa è una
caratteristica a cui dovremo adattarci nel corso delle fluttuazioni economiche del XXI
secolo.
BIBLIOGRAFIA
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