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Nocchiero
SEMPER IN ITINERE
Dispense di storia navale a cura del Prof. Natalino Usai
INDICE DEGLI ARGOMENTI
· L’assetto territoriale dell’adriatico prima del 1915
· Dal patto di Londra al trattato di Rapallo
· Operazioni navali nell’adriatico (1914/1918)
· La beffa di Buccari
· La Canzone del Quarnaro
· Gabriele d’Annunzio
· Il Comandante Costanzo Ciano
· L’Ammiraglio Luigi Rizzo
· L’impresa di Premuda
· Il MAS 96
· L’istituto Tecnico Nautico “Buccari”
NOTA INTRODUTTIVA
Questo primo quaderno di storia navale curato dal prof. Natalino Usai vuole essere un contributo
informativo per la conoscenza delle origini storiche e della denominazione del nostro Istituto.
Contributo tanto più utile da quando l’Istituto Tecnico Nautico “Buccari” di Cagliari, così denominato dal
suo Collegio dei docenti nel 1926, per successivi mutamenti ordinamentali e provvedimenti di
ridimensionamento della rete scolastica, ha subito progressive variazioni nel suo profilo istituzionale
originario.
Così nel tempo, da Istituti Tecnico Nautico (ITN) è divenuto, con l’inserimento dell’articolazione “Logistica”,
Istituto Tecnico Trasporti e Logistica (ITTL), per poi diventare nel 2013 Istituto d’Istruzione Superiore (IIS)
con il suo accorpamento all’Istituto Tecnico Industriale “Marconi” di Cagliari.
In realtà, come viene illustrato nell’ultima parte di questo quaderno, la storia dell’istruzione nautica a
Cagliari e in Sardegna prende origine quasi due secoli prima. Più esattamente nel 1816, come riportato nel
Lunario del 1818, edito a Genova dalla Stamperia Regina e soci, per volontà del Re di Sardegna con una
specifica “patente”.
Dunque, questo quaderno, nel contestualizzare storicamente l’origine dell’ Intitolazione del nostro Istituto
alla più nota “Beffa di Buccari” a cento anni dalla fine della I Guerra Mondiale, non entra nell’analisi di
quegli eventi tragici che costarono un contributo elevatissimo di vite umane, bensì intende semplicemente
riassumere i fatti e le storie personali dei partecipanti a quell’impresa, per una maggiore conoscenza dei
nostri allievi ed allieve. Per questo apporto ringrazio il prof. Natalino Usai.
Il Dirigente scolastico
Prof. Giancarlo Della Corte
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L’ASSETTO TERRITORIALE DELL’ADRIATICO PRIMA DEL 1915
L’ultimo scontro del secolo XIX tra gli eserciti del regno d’Italia e dell’impero d’Austria,
conosciuto in Itala come terza guerra d’indipendenza, si esaurisce fra giugno ed agosto
del 1866, condizionato da evoluzioni politiche e militari determinate dalla affermazione
del regno di Prussia e dal ruolo della Francia.
La pace di Vienna del 3 ottobre 1866 stabilisce come linea di demarcazione di frontiera
fra il regno d’Italia e l’impero Austriaco, una linea di confine che riprende il vecchio
confine fra la repubblica di Venezia e l’Austria. Nella parte orientale e nella pianura
segna il limite amministrativo delle province austriache del litorale e del Veneto,
tagliando la Valle del Natisone e seguendo i corsi d’acqua dello Judrio e dell’Ausa.
Tale confine divide in due stati distinti il Friuli, un territorio unito dall’uso linguistico e
dalla tradizione culturale, apparentemente dal 1797 alla monarchia Asburgica.
La delusione del 1866, l’avvio della politica ufficiale Italiana verso un’intesa con gli
imperi centrali, la sua conclusione con la triplice alleanza del1882 tolsero la speranza di
una rapida risoluzione del problema giuliano. La richiesta ufficiale di alleanza con
l’Austria Ungheria e con la Germania fu avanzata dall’Italia verso la fine del 1881 e
riuscì a portare ad un risultato concreto: la stipulazione del trattato “segreto” del 20
maggio 1882. Per l’Austria Ungheria si formò la convinzione di avere acquisito una
neutralizzazione dell’Italia senza concezione di contropartite: questo avrebbe fatto
cadere il pericolo d’iniziative ufficiali a sostegno dell’irredentismo. L’Austria Ungheria
sperava inoltre che dalla stipulazione della Triplice Alleanza derivasse per lo meno una
marcata riduzione se non addirittura un esaurimento dell’irredentismo italiano.
Con l’introdursi del principio di nazionalità, formatosi grazie alle idee della Rivoluzione
Francese del 1789, nel litorale Adriatico la convivenza fra le due etnie, quella slava e
quella italiana, diventa sempre più difficile.
Si viene a collegare la nazionalità all’ideologia: irredentista per gli Italiani, filo-austriaca
per gli Jugoslavi; sorge il pericolo della questione sociale; si montano i miti delle
superiorità dei padroni e degli operai italiani rispetto a quelli slavi;
Si raccolgono intorno all’irredentismo liberi pensatori, atei, ebrei, in un clima di attrito
con l’Italia, ritenuta da questi servile alla volontà austro-ungarica, e di pesante
differenza nei confronti degli Slavi colpevoli di essere filo austriaci. Gli Italiani perdono
un po’ l’egemonia culturale ed economica a favore delle popolazioni jugoslave.
La vita culturale degli italiani d’Austria guardava con vivo interesse verso l’Italia non
solo per una futura unificazione al Regno, ma anche per spirito di rinascita culturale di
fronte alla politica repressiva ed anti-italiana degli Asburgo. La ipotetica istituzione di
scuole ed università italiane sul suolo austriaco avrebbe fatto da deterrente al
diffondersi dell’ideologia irredentista. Lo scontento degli studenti italiani d’Austria
avrebbe potuto essere mitigato in caso di tale concessione; la miopia del Governo
asburgico e soprattutto le loro evidenti tendenze nazionaliste impedirono un
riavvicinamento.
2
A Trieste, come nell’Istria e nella Dalmazia, dopo il 1890 gli Jugoslavi conquistarono parecchie
leve di comando nel campo economico; proseguì rapida anche la creazione di scuole croateslovene e di associazioni culturali sportivo propagandistiche. In questo clima politico etnico
arroventato, nel 1910 l’Austria effettuò il censimento nel Venezia Giulia. Si dice che il territorio
della Monarchia austro ungarica sia stato un mosaico etnico perché comprende aree
omogenee abitate da una sola nazionalità, ed aree eterogenee come il litorale austriaco
(Goriziano, Trieste ed Istria) dove abitano prevalentemente Italiani, Tedeschi, Sloveni e Croati.
L’analisi della consistenza numerica di un’etnia veniva allora determinata usufruendo dei
cosiddetti censimenti etnici. Le rilevazioni statistiche sulla popolazione dell’Impero vennero
effettuate sulla lingua d’uso, in relazione al Congresso Internazionale di Statistica del 1873 che
raccomandò d’inserire una domanda sulla lingua parlata in tutti i censimenti. Gli ufficiali
comunali che si occuparono del censimento riscontrarono a Trieste la presenza di 38.505
cittadini di lingua d’uso slava e di 171.552 di lingua italiana. In tutta la Venezia Giulia, gli
Italiani, compresi i regnicoli, erano 424.893 e 446.691 i croati sloveni. L’Austria pur essendo la
materiale autrice del censimento impugno questi risultati, ed escluse i regnicoli dal computo. I
risultati definitivi stabilirono che su una popolazione totale della Venezia Giulia di 978385
abitanti, 421444 erano Italiani, 152500 i Serbi ed i Croati, 237230 Sloveni, 167211 altri (fra i
quali i regnicoli). La situazione della Dalmazia era senz’altro più complessa rispetto quella
della Venezia Giulia. Innanzitutto gli Italiani in Dalmazia, tolta la peculiarità della città di Zara,
erano in netta minoranza. Il censimento austriaco definì la percentuale di abitanti jugoslavi in
schiacciante maggioranza (97,13%, con 610669 abitanti) e gli Italiani pari al 2,87% (18028).
La caratteristica di Zara stava nel fatto di essere l’unica città della Dalmazia in cui l’elemento
italiano fosse prevalente rispetto ai serbi e croati. Nel 1910, gli zaratini italiani erano 11.469,
mentre gli salvi (croati e serbi) si fermavano alla cifra di 5.705. A Spalato, altro principale centro
della Dalmazia, l’elemento italiano era minoritario: nel 1880 gli italiani spalatini erano 5.280,
cifra che nei censimenti dei decenni successivi sarebbe scesa a 1969 (nel 1890) e a 1049 (nel
1900).
3
DAL PATTO DI LONDRA AL TRATTATO DI RAPALLO
La crisi austro serba, che culminava con lo scoppio della prima guerra mondiale, mette in
moto il meccanismo delle alleanze e delle mobilitazioni. L’Italia viene a trovarsi in una
situazione piuttosto imbarazzante, in quanto, benchè alleata con Germania ed Austria, è in
ottimi rapporti con Francia e Gran Bretagna. L’Italia si fa inizialmente promotrice, tramite il
ministro degli esteri San Giuliano, di una politica alquanto ambigua, rifacendosi all’art. 7
della Triplice, che prevedeva l’obbligo di precisi compensi. Persegue così quella che fu
ricordata come la politica del doppio binario: da un lato appoggia le aspirazioni delle
nazionalità balcaniche, dall’altro non escludeva la possibilità di nuovi accordi con l’Austria,
con l’obiettivo, tipicamente giolittiano, di barattare la nostra neutralità con la volontà di
ottenere quanto meno Trento. Un accordo con le potenze dell’Impero centrale era sempre più
difficile, mentre stava incontrando un sempre crescendo successo la propaganda dell’Intesa
e specialmente della Francia. Per i responsabili della politica italiana iniziava a porsi il
problema di una scelta limitata alle due ipotesi: di neutralità assoluta o di guerra all’Austria
Ungheria. Le principali pretese italiane si riferivano principalmente al possesso del porto di
Valona, alla Dalmazia, a Trieste, ed al Trentino.
Mentre a Vienna ci si stava orientando lentamente verso l’offerta del Trentino, il Governo
italiano il 4 marzo 1915 avviò segretamente a Londra i primi contatti che comprendevano
anche le nostre rivendicazioni, in funzione di un intervento dell’Italia a fianco delle potenze
dell’Intesa.
Dopo lunghe trattative, rigettando le eccessive pretese italiane, Vienna ci propose il
Trentino fino a Salorno, una rettifica del confine dell’Isonzo e il porto di Valona.
Vienna però si mosse in ritardo, non riuscì a scongiurare l’accordo fra l’Italia e le Potenze
dell’Intesa che conclusero segretamente le trattative a Londra il 26 aprile 1915: un
memorandum italiano accettato dalle potenze dell’Intesa.
In conformità a tali trattative l’Italia avrebbe dovuto ottenere il Trentino, il “Tirolo
Meridionale”(fino al Brennero), Trieste e i suoi dintorni, la contea di Gorizia e Gradisca,
l’Istria fino al Quarnaro, parte della Dalmazia(Zara, Sebenico, Dernis, Tenin e gran parte
delle isole). Ancora all’Italia, in Albania, sarebbe stato riconosciuto “in pieno dominio”
Valona, l’isola di Seseno e un “territorio di estensione sufficiente da assicurarla contro
pericoli di natura militare”. Subito dopo la stipulazione del Patto di Londra, però , si fecero
vivi i primi risentimenti. Si dubitava circa il futuro della città di Fiume e di quelle zone della
Dalmazia non inserite nel memorandum
La prima guerra mondiale costò all’Italia molti sacrifici, in particolare sul fronte della
Venezia Giulia. Gorizia venne letteralmente rasa al suolo, lo scoppio della guerra creò un
clima di terrore.
L’impero Austro Ungarico definì una serie di provvedimenti d’urgenza restrittivi e
pregiudizievoli nei confronti della popolazione civile italiana, la situazione, al contrario, fu
ben diversa per gli Jugoslavi. Essi godevano della stima austriaca in quanto loro obbedienti
e fedeli. L’idea di uno stato unitario jugoslavo trova il consenso nella diplomazia dominante
francese ed inglese, la quale vedeva di buon occhio tale iniziativa sia per frenare le mire
espansionistiche italiane, sia per sostituire nei Balcani la monarchia asburgica.
Il programma jugoslavo si manifestò in tutta la sua portata il 16 maggio del 1915, quando
Trumbic, Presidente del Comitato Jugoslavo di Londra, presentò al Governo francese il
“Programme Jugoslave” contenente una cartina geografica che raffigurava le aspirazioni
slave sino al Tagliamento. Trumbic diede il via alla questione legata alla difficile
delimitazione del confine nord-orientale della Venezia Giulia.
L’ingresso in guerra degli Usa favorì la causa jugoslava che si avvantaggiò dei propositi e
dell’appoggio del Presidente Wilson, il quale rifiutando la politica dei patti segreti,
sosteneva che le frontiere dovessero correre lungo le linee di nazionalità chiaramente
riconoscibili
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Il 10 luglio 1917, venne firmata dal Presidente del Consiglio serbo Pasic e dal croato
Trumbic la cosiddetta “Dichiarazione di Corfù”, considerata l’atto di nascita del Regno dei
Serbi, Croati e Sloveni, sotto la dinastia dei Karageorgevic. Durante i ventidue anni della
sua esistenza, il Regno dei Karageorgevic divenne ben presto uno Stato autoritario. In
esso venivano riconosciuti i soli Serbi, l’oligarchia serba acquisiva ufficialmente il potere. Si
trattava di un gruppo di persone composto da politici gravitanti intorno alla corte, dall’alto
clero della Chiesa ortodossa e dall’alta borghesia belgradese. Ruolo centrale, in questa
vera e propria lobbie, era giocato dagli ufficiali dell’Esercito, legati al sovrano da un patto di
vera e propria omertà. Questa classe dirigente costituì l’elemento dominante del nuovo
Stato sorto in data 1 dicembre 1918 sotto gli auspici delle Grandi Potenze. Il SHS si basava
sulla centralità della componente serba e vedeva croati, sloveni, macedoni e albanesi in
uno stato di evidente sottomissione. Con la fine della prima guerra mondiale e la sconfitta
delle Potenze dell’Europa centrale e delle loro alleate, si profila il problema delle frontiere
italo-slave. I famosi quattordici punti di Wilson contrastavano con il patto segreto di Londra
e alla Conferenza della Pace di Parigi il presidente americano si trovò in una posizione di
forza, portando una rivoluzione nell’ambito della politica internazionale: l’inefficacia dei
patti segreti fra gli stati, e la centralità dei principi di autodeterminazione e di etnicità. La
situazione per la nostra diplomazia, in un tale contesto, si fece difficile . Dal momento
dell’armistizio (novembre del 1918) l’Italia ottenne a stento di potere occupare con le
proprie truppe le zone stabilite nel patto di Londra. Rivendicammo potere su Fiume,
ritenendo che il patto di Londra non prevedeva la dissoluzione asburgica.
Sorse un contrasto fra il Presidente del Consiglio Orlando e il Presidente Americano Wilson.
Orlando abbandonò la Conferenza della Pace di Parigi, in Italia si creò il mito della “vittoria
mutilata”. D’Annunzio, il 10 settembre 1919, due giorni dopo la firma del Trattato di Pace
di Saint-Germain-en-Laye con l’Austria, con un gruppo di volontari, occupò Fiume, creando
prima uno stato indipendente, costituendovi poi la Reggenza Italiana del Carnaro che
comprendeva anche territori dalmati.
Nel tentativo di dare legittimità alla richiesta di annessione di Fiume all’Italia, il “Consiglio
Nazionale” ,che gestiva il potere a Fiume insieme a D’Annunzio, indisse le elezioni per il
rinnovo del Consiglio Comunale. Alle elezioni, il 26 ottobre 1920, su 10444 iscritti e 7154
votanti, 6688 votarono per l’Unione Nazionale che si batteva per l’annessione. Il partito
autonomista aveva invitato i suoi elettori all’astensione.
Il problema dei confini con lo Stato dei Serbi-Sloveni-Croati venne risolto con la firma del
trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 che assegnò all’Italia tutta l’Istria, e nella
Dalmazia: Zara con le isole di Cherso, Lussino e Pelagosa ed inoltre il pieno
riconoscimento dello Stato libero di Fiume. Gli Jugoslavi considerarono il trattato un diktat
inaccettabile ,tanto che non venne mai ratificato dal parlamento.
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Un piccolo cenno va all’attività delle truppe dei legionari dannunziani. Il 14 novembre 1919
occuparono Zara, con il consenso dell’Autorità militare italiana. Il 13 novembre 1920
occuparono le isole di Veglia e di Arbe (già controllata da truppe di regolari italiani).L’1
dicembre 1920 le truppe regolari attuarono un blocco effettivo intorno al territorio
dannunziano. Il 26 dicembre 1920 un intervento risoluto dell’esercito del Regno d’Italia
pose fine all’occupazione legionaria di Zara. Il 31 dicembre , i dannunziani, cedettero
anche l’isola di Veglia.
Trasformazioni del confine tra Italia e Iugoslavia: Con il Trattato di Rapallo l'Italia ricevette
l'intero Litorale Austriaco, parte della Carinzia, parte della Carniola e la città di Zara
7
LE OPERAZIONI NAVALI NELL’ADRIATICO
Nonostante l'appartenenza alla Triplice Alleanza, l'Italia allo scoppio del conflitto si
mantenne neutrale, mettendo in crisi le strategie nel Mediterraneo di Austria-Ungheria e
Germania. Sul campo la Germania non avrebbe potuto contare sulle truppe italiane e sul
mare gli austriaci non avrebbero potuto fronteggiare la flotta francese. Con la marina
tedesca impegnata a nord, all'entrata in guerra dell'Italia a fianco dell'Intesa, la flotta austroungarica si trovò improvvisamente sola contro le forze navali Alleate, e decise quindi di
chiudersi all'interno dei suoi porti riducendo il fronte marittimo alla sola fascia costiera
orientale dell'Adriatico e al suo sbocco nel canale d’Otranto
La flotta austriaca allo scoppio delle ostilità era quantitativamente inferiore rispetto alla
Regia Marina, ma poteva avvalersi di un notevole vantaggio strategico derivante dalla
diversa conformazione delle coste adriatiche nei due versanti.
Le scelte strategiche del comandante della flotta austro-ungarica si basarono interamente
su questo fattore di potenza, che per l'Italia costituiva viceversa una grave condizione di
vulnerabilità, anche per l'inadeguatezza delle difese costiere.
Una delle prime operazioni che la Regia Marina dovette affrontare fu il salvataggio
dell'esercito serbo dopo la sua rotta a causa delle truppe austro-ungariche che
avevano invaso la Serbia. Durante le operazioni vennero trasportati circa 155.000 uomini
dalla costa albanese e greca (in particolare da Corfù) a quella italiana, in massima parte
soldati, con una buona quantità di armi, e grazie a questa operazione le truppe serbe
vennero poi impiegate sul fronte di Salonicco. Nessuna interferenza venne portata dalla
flotta austro-ungarica all'operazione, vista la netta inferiorità di forze.
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L'11 luglio 1915 fu anche deciso di inviare delle forze da sbarco sotto il comando dell'allora
tenente di vascello Alberto da Zara, con il compito di occupare l'isolotto adriatico di Pelagosa.
Obiettivo dell'azione era quello di impiantare sull'isola una stazione di avvistamento per
controllare il traffico nemico. Lo sbarco avvenne l'11 luglio 1915. Passata l'iniziale sorpresa
la marina austriaca iniziò una serie di azioni navali con l'intento di sloggiare il piccolo reparto.
L'isola venne bombardata a più riprese, sia dal mare, sia dall'aria. Su Pelagosa ruotarono
tutte le operazioni navali adriatiche di quel periodo.
Italiani e francesi mantenevano un sommergibile sempre in agguato nei pressi dell'isola. Il
reparto sull'isola resistette con determinazione a tutti gli attacchi. Particolarmente violento fu
l'attacco navale del 28 luglio. Ai primi di agosto vennero inviati rinforzi ma un ultimo attacco
austriaco, il 17 agosto, indusse lo Stato Maggiore a reimbarcare il piccolo reparto dopo poco
più di un mese di occupazione.
Le operazioni nell'Adriatico ebbero gli episodi salienti nei tentativi da parte austro-ungarica di
forzare il blocco del canale d’Otranto creato dagli Alleati dopo l'entrata in guerra dell'Italia.
Nel marzo 1915 i tedeschi decisero di inviare agli austriaci un'aliquota di sommergibili, che
dal canto loro offrirono le basi di Pola e Cataro. Uno di questi sommergibili, l'U26 (l'U14
tedesco battente bandiera austriaca), affondò l'incrociatore italiano Amalfi dopo lo scoppio
delle ostilità tra Italia ed Austria-Ungheria ma prima della dichiarazione di guerra tra Italia e
Germania.
La marina imperiale era più debole in quanto a navi da battaglia, ma poteva contare sulle
quattro moderne navi della classe Tegetthoff che si sarebbero contrapposte alle due italiane
della classe Caio Duilio e alle tre della classe Conte di Cavour.
La flotta austriaca non aveva speranza di vincere in un confronto diretto, vista anche la
sproporzione negli incrociatori e nelle unità di scorta, ma effettuò comunque varie azioni di
interdizione contro la costa italiana, come il bombardamento di Ancona, e due tentativi di
forzamento dello sbarramento di Otranto.
La corazzata italiana
«Dante Aligheri»
9
Ai tentativi di forzamento del Canale gli Alleati risposero con la pronta reazione delle forze
navali dislocate a Brindisi e Valona. L'Italia aveva stabilito una base navale sull'isola
di Saseno, ed una forza navale di incrociatori britannici e cacciatorpediniere francesi era di
base a Brindisi. Nell'alto Adriatico inizialmente la Regia Marina mantenne una presenza di
unità pesanti, come l'incrociatore corazzato Amalfi e varie siluranti, ma dopo l'affondamento
dello stesso Amalfi nelle fasi iniziali della guerra la presenza venne ridotta a MAS e
sommergibili, concentrando tutte le unità di squadra tra Brindisi e Taranto. La guerra fu
condotta anche attraverso sabotaggi, e come tale venne classificato l'affondamento
della Leonardo da Vinci avvenuto nel porto di Taranto il 2 agosto 1916[; sono stati però
avanzati dubbi su questa ipotesi, mai provata. Gli italiani ricorsero a mezzi d'assalto speciali
per tentare di forzare i porti avversari; i primi tentativi avvennero contro la base di Pola. Nel
1917 venne presentato un progetto di motoscafo atto a superare ostruzioni simili a quelle del
canale di Fasana tramite due catene Galles cui erano applicati ganci, che aggrappandosi alle
ostruzioni, lo spingevano in avanti consentendone il superamento. I mezzi furono
soprannominati «barchino saltatore», ne furono costruiti quattro dall‘Arsenale di Venezia,
chiamati Cavalletta, Pulce, Grillo e Locusta, ma durante diverse azioni tra aprile e maggio
1918 non ebbero successo.
Altre importanti azioni vennero messe a segno dai MAS che affondarono le due navi da
battaglia »Wien», il 9 dicembre 1917, e Szent Istvan in quella che è nota come Impresa di
Premuda. Nel primo episodio il MAS 9 pilotato da Luigi Rizzo penetrò nel vallone
di Muggua lanciando una salva di siluri che affondarono la Wien e mancarono di poco la
gemella Budapest colpendo la banchina. Nel secondo durante una missione di
perlustrazione e dragaggio in alto Adriatico, i MAS 15 e 21, comandati dal Capitano di
corvetta Luigi Rizzo e dal guardiamarina Giuseppe Aonzo, si imbatterono in una forza navale
austriaca costituita dalle corazzate Szent István e Tegetthoff, scortate da alcuni
cacciatorpediniere. I due MAS si lanciarono al centro della formazione austro-ungarica
puntando le due corazzate e lanciando le due coppie di siluri a loro disposizione. I due siluri
del MAS 21 colpirono la Tegetthoff ma non esplosero, mentre i siluri del comandante Rizzo
colpirono la Szent István che si capovolse per poi affondare.
La corazzata Santo Stefano
affonda colpita dal Mas
di Rizzo
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LA BEFFA DI BUCCARI
E' arrivato l'ordine, finalmente, stasera 9 Febbraio 1918. L'azione è per domani. Alla Giudecca,
base di comando della flottiglia, la tensione a lungo soffocata si scioglie nell'animazione febbrile
che precede ogni missione di guerra. Negli uffici dei comando le luci tardano a morire. Venezia si
contorna d'una tenera bellezza brumosa. Il nocchiere Benedetto Beltramin non trova sonno. Pensa
a domani. Gran bel tipo di marinaio, il « Detto »; saprebbe condurre ad occhi bendati un Mas
dovunque gli comandano. Per anni ha governato una di quelle robuste navi da carico a due vele e
un fiocco; dell'Adriatico Beltramin conosce calette, scogli e ogni più segreta corrente. A Buccari
andava a caricare legna per gli artigiani veneti. Buccari, a un passo da Fiume, ora che c'è la
guerra è una gola stretta di mare difesa dalle batterie austriache di Porto Re. Proprio là aveva una
ragazza... Come è buffa la guerra: ti cambia tutto, anche l'amore. Ma domani si parte. Già, ma per
dove? A far che? Beltramin non lo sa; lo ignorano anche il Menotti, il Giuseppe Volpi, l'Achille
Martinelli e l' Edmondo Turciche sono i suoi compagni d'equipaggio dei Mas 94. Il Corti che
viene da Ponza e fa l'attendente al comandante Costanzo Ciano potrebbe saperlo. Ma se lo sa non
lo dice. E quando si butta sulla brandina bofonchia solo uno stanco buonanotte e si addormenta.
Quartiere della flottiglia la stanza del comandante Ciano ha l'aria viziata per il troppo fumo. Sul
tavolo la carta nautica dell'Adriatico è segnata da note, righe, sagome strane.
Un frego rosso cerchia la Baia di Buccari. La faccia quadrata di Luigi Rizzo, tirata dalla
stanchezza, si apre al sorriso: « E' una pazzia, ma oramai è deciso ». Gabriele D'Annunzio depone
il monocolo e guarda quel bell'uomo coi suoi gradi di capitano di corvetta: « L'audacia è dei forti
», dice quasi declamando, « e dei forti è la fortuna. Brindiamo. Domani la storia canterà la nostra
follia che si è cinta l'alloro della gloria". Rizzo e Ciano guardano il poeta con un misto di
ammirazione e di benevolenza. E’ piombato alla Giudecca due mesi fa chiedendo di imbarcarsi.
L’equipaggio del MAS 96 :
da sinistra Luigi Rizzo, Gabriele
D’Annunzio e Costanzo Ciano
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Si portava addosso l'emozione di imprese certamente eroiche, ma forse poco militari. Abbandonati
gli ozi amorosi di Francia, dove ormai un'epoca, chiamata « belle » intristisce, D'Annunzio ha
cercato sensazioni inebrianti sui fronti di battaglia: ha guidato incursioni su Trieste, poi su Pola.
Nell' Ottobre scorso su Cattaro. E' andato alla conquista dei Velikie dei Faiti con i fanti della
brigata « Lupi di Toscana ». Gli austriaci lo temono al punto d'aver posto una taglia di ventimila
corone d'oro sulla sua testa, una fortuna. Non ha ucciso un solo soldato nemico, ma ha
ridicolizzato l' arroganza di tutto l'imperial esercito austroungarico. Sul piano psicologico lesue
sfide impunite aprono nel fronte avverso crepe paurose. Quando ha domandato di imbarcarsi,
D'Annunzio ha spiegato a Rizzo e a Ciano stupiti: «Abbiamo un conto da saldare con quelli là.
Lissa ». Rizzo a quel nome ha sentito una fitta al cuore; suo zio era morto proprio a Lissa. Poteva
salvarsi, s'era aggrappato ad un legno, ma gli austriaci gli rovesciarono addosso pece bollente.
Rizzo ha tirato fuori la carta dell'Adriatico e l'ha distesa davanti al poeta. « Dove andiamo?».
D'Annunzio non ha indugiato: il suo dito ha sorvolato su Pola, poi su Fiume; ha indicato Buccari.«
Dove è impossibile entrare e ancor più impossibile uscire ». Sono seguite molte discussioni. A
Ciano l'impresa piaceva, ma occorreva perfezionarla. Come comandante della flottiglia non poteva
rischiare tre mezzi e il loro equipaggio senza un margine di successo. Rizzo era il più indeciso.
Non per il rischio: la settimana prima col suo Mas era entrato da solo a Trieste e vi aveva colato a
picco la corazzata «Wien ». Lo avevano promosso capitano di corvetta e da Roma stava arrivando
la medaglia d'oro. Anche a lui piaceva l'azzardo, purché ci fosse qualcosa da affondare.
D'Annunzio non ha nascosto l'impazienza. Per lui l'impresa, prima ancora che riesca, ha già il
sapore della beffa.
La rotta finale del MAS 96
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Cita in latino: «Ti si oscurano le corna mentre si illuminano a noi le armi ». Ciano interpella gli
alti comandi della Marina e ne riceve un consenso entusiasta. Al ministero della Guerra si respira
aria pesante; Caporetto è una ferita che sanguina. Cadorna, Porro e Capello sono stati tolti di
mezzo. Nel Paese s'ingrossano le vene del disfattismo. Occorre un'impresa che tiri su il morale e
dia un'iniezione di entusiasmo alle nostre truppe sul Carso. L'impresa di Buccari comincia a
prender forma. Vengono scelti tre Mas ,il 94, il 95, e il 96.
la baia di Buccari; c'è anche il favore della luna in quei giorni oscurata; ma le condizioni dei mare
sono proibitive. Comincia l'attesa. L'impresa più ardua è tenere calmo il Poeta che ogni mattina si
presenta eccitato al comando e chiede di salpare. Anche gli equipaggi scalpitano; da un mese sono
in preallarme. Sanno che li attende una missione, senza aggettivi. Né pericolosa, né facile, né
dove, né quando, ma sono pronti ad agire. Stasera è arrivato finalmente l'ordine. E' per domani, 10
febbraio 1918. Ciano, Rizzo e D'Annunzio ripassano il piano con i tre comandanti dei' Mas. Il 94 è
assegnato ad Andrea Ferrarini detto « Mantova »: era con Rizzo a Trieste ed è stato appena
promosso sottotenente di vascello. Sempre pronto alla burla, ha un controllo di nervi eccezionale.
Il 95 tocca al tenente di vascello Profeta de Santis, con capotimoniere un modenese già decorato
sei volte, Gino Montipò; e poi ci sono il silurista Arturo Martini, un altro di quelli che con Rizzo
ha affondato la « Wien », Calzolari Onilio, Furlani Galliano, Genitivo Salvatore, Esposito
Raffaele, Macaluso Antonio, Gaddoni Virgilio, Gaggeri Vincenzo. Sul 96 si imbarcheranno Ciano,
Rizzo e D'Annunzio. Nella stanza è sceso improvvisamente il silenzio. Ogni cosa è stata prevista e
organizzata nei minimi particolari: partenza all'alba in formazione, trainati dai cacciatorpediniere
per risparmiare carburante; passaggio allo Stretto della Farasina, accostata alla punta della Veglia,
poi Porto Re e quindi dentro il budello di Buccari. « Domande, signori? », ha chiesto Ciano. Un
silenzio teso. Le parole sono finite, ora l'azione: tre Mas e trenta uomini per un viaggio forse senza
ritorno. Nella stanza, impalpabile, incombe una presenza arcana. D'Annunzio pensa alla canzone
che scriverà: « Siamo trenta d'una sorte e trentuno con la morte »? Gli occhi bruciati dalla febbre
fissano l'orologio. Ma il tempo non passa mai. L'alba è la liberazione. Allineato sulla banchina
l'equipaggio ascolta il poeta in un lungo discorso per muovere il coraggio che è già impaziente di
misurarsi col pericolo ignoto.
Da sinistra: Luigi Rizzo e Gabriele
D'Annunzio
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La nostra impresa è tanto audace che già questa partenza è una vittoria sopra la sorte. Ciascuno
deve dare non tutto sé ma più che tutto sé. Lo giurate? Compagni rispondetemi! ».
Partono alle 9, rimorchiati dai caccia « Audace », «Animoso » e « Abba » con rotta Sud verso la
boa di Punta Maestra. Otto ore di navigazione tranquilla sotto un cielo nebbioso, nessun
avvistamento, nessuna mina vagante. D'Annunzio sul Mas 96 si addormenta coricato sopra una
bomba di profondità; il nocchiere Beltramin gli passa un salvagente per guanciale. Quando si desta
ha fame. L'attendente sistema due assicelle stende una tovaglia tutta ricami e da un cestone di
vimini pesca bicchieri di cristallo, posate d'argento, piatti dì porcellana. Imperturbabile al rollio dei
l'imbarcazione D'Annunzio mangia galantina di pollo, preparatagli dalla cuoca personale. Vengono
sturati vini francesi; si stappa lo champagne. Rizzo e Ciano brindano col poeta. Alle 19 è avvistata
l'isola di Unie; ai punto prefíssato la formazione incrocia tre torpediniere giunte da Ancona, che
prendono il posto dei caccia. La foschia si infittisce, non si scorgono le coste di Cherso e
dell'Istria. Non si scorge neppure il nemico, per fortuna. Si imbocca il Quarnaro: da qui in avanti il
mare si restringe. Ciano e gli altri comandanti informano l'equipaggio della destinazione.
L'annuncio solleva grida di gioia. E’ calata la notte: da dodici ore la formazione naviga a tutta
velocità; è stato superato il canale della Galiola, dove mesi prima si è incagliato il sommergibile di
Nazario Sauro. Da quattro ore i Mas navigano in acque nemiche; allo stretto della Farasina i caccia
si staccano. I trenta ora sono soli: accendono i motori a scoppio, che nonostante gli scarichi
sott'acqua e l'imbottitura di materassi squarciano con rumore assordante il silenzio della notte. Si
passa sotto il naso delle batterie austriache di Prestenizza: D'Annunzio scorge le bocche di fuoco.
Basterebbe una mitragliata per colare a picco i gusci leggeri dei Mas. D'Annunzio si avvicina alla
ruota dei timone e sulla tavoletta dove sta scritto Mas 96 fa aggiungere « Memento Audere Semper
», ricordati di osare sempre. Quindicesima ora di navigazione. La formazione accosta sulla dritta, a
velocità ridotta, Si sono spenti i motori a scoppio e innestati quelli elettrici, con autonomia
limitata. Ma il ronzio soffocato suona come una fanfara nel silenzio. Il budello di Buccari viene
imboccato per primo dal Mas 96 che è guidato dal motonauta di prima classe Angelo Procaccini.
Oggi, é l'unico ancora in vita di quei trenta ardimentosi.
La baia di Buccari
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Sfila il 94, quello di Ferrarini; i suoi uomini sono tesi a scrutare la costa tanto vicina da poterla
toccare. Si chiamano Lazzarini il capotimoniere, Davide il nocchiere e poi i marinai Piccirilio,
Papa, Dagnino, Biancamano, Rittore, Badiali, Allegretti. Sfilano in formazione ravvicinata,
superando Porto Re, tenendosi a pochi metri dalla costa di ponente per evitare l'essere rischiarati
dalle luci della baia. E’ passata la mezzanotte; da un'ora sono dentro la gola di Buccari, ma non si
riesce a vedere alcuna nave nemica. Ciano si volge brusco a Rizzo: « Dove sono le navi da guerra
avvistate dal nostro ricognitore? ». Rizzo lancia una maledizione. D'Annunzio a poppa e intento
ad infilare in tre bottiglie, ornate di un nastro tricolore, un foglio di carta. E’ il suo messaggio:
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Procaccini dà l'allarme: « Eccole laggiù ». Ma è solo un momento di allegrezza.
Ad un esame più attento le navi svelano la loro piccolezza: sono soltanto tre piroscafi da carico e
uno per passeggeri. Lo scoramento e sul volto di tutti. Tanti pericoli, tanta audacia per una preda
insignificante. Vale la pena di tornarsene a casa, in silenzio, come si è arrivati, e salvare almeno la
pelle. Che serve colare a picco tre navicelle? D'Annunzio a poppa è l'unico sorridente. L'impresa per
lui e riuscita perché doveva essere ed è una beffa al nemico dei « marinai d'Italia che si ridono di
ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre a osare l' inosabile. E un buon compagno, ben noto, il
nemico capitale, tra tutti i nemici il nemicissinno, quello di Pola e di Cattaro. E’ venuto con loro a
beffarsi della taglia ». Chiude le bottiglie e le lancia in mare. Rizzo e Ciano si scambiano
un'occhiata d'intesa. Alla voce passano gli ordini all'equipaggio degli altri Mas, La delusione e
scomparsa, cosi come la prudenza. Si fanno sotto alle navi. Partono i siluri: due dal 94, due dal 95,
uno dal 96, con il caratteristico ronzare, Purtroppo non esplodono. Forse sono stati bloccati dalle reti
di sbarramento stese a protezione intorno alle navi. Ciano dà un ordine secco che sembra una
schioppettata: « Fuori di nuovo ». Partono due siluri dal 96 e uno dal 95. Pochi secondi e poi il
boato. La rada si illumina a giorno. Ciano ordina i motori a tutta forza, Con il nemico in allarme è
inutile ogni precauzione. I tre Mas corrono verso l'uscita. Dalla costa di Fiume decine di proiettori
frugano la notte alla ricerca del nemico.
I Mas ripassano sotto le batterie di Presterizze, che sorvegliano lo stretto della Farasina: e una
pioggia di colpi sparati con rabbia alla cieca. « Fioi, ghe sémo », dice allarmato Benedetto
Beltramin. Invece il suo 96 passa e sfila anche il 95. Procedono a tutto motore, ma D'Annunzio urla
di fermarsi: « Tutti o nessuno ». Ciano si volge indietro. Manca il 94, quello di Andrea Ferrarini,
bloccato da un guasto. L'impresa di Buccari a questo punto si trasforma in puro eroismo. Ciano
ordina di tornare indietro alla ricerca dei compagni. Sul Mas 94 Ferrarini intanto sta lavorando al
motore che si e piantato. Riparata l'avaria, riprende la corsa. Ciano lo sente arrivare e comanda di
puntare nuovamente la prua verso casa. Per la quarta volta i tre Mas ripassano sotto il naso delle
batterie nemiche.
Da Fiume gli austriaci hanno lanciato all'inseguimento tre caccia, che muovono verso Venezia. E’ la
mossa più prevedibile, meno fantasiosa Invece Ciano aveva deciso di riparare altrove, ad Ancona.
Alle 7 di mattina dell'11 febbraio 1918 tre Mas e trenta uomini sono in vista, nella foschia, di
Ancona.
Alla stessa ora al comando della marina austroungarica di Fiume un marinaio porta una strana
bottiglia raccolta nella baia di Buccari. Ha un nastrino tricolore.
Il moto che d’Annunzio coniò
In occasione dell’impresa di Buccari
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Dal punto di vista tattico-operativo, l'azione fece emergere la totale mancanza di coordinamento
nel sistema di vigilanza costiero austriaco e le numerose lacune difensive presenti, che resero
possibile questa audace azione dei marinai italiani. D'altro canto però le navi, protette dalle reti,
non riportarono alcun danno materiale. L'impresa costrinse il nemico ad un maggiore impegno di
energie in nuovi adattamenti difensivi e di vigilanza e comunque ebbe una pesante influenza
negativa sul morale austriaco.
Ma l'impresa di Buccari ebbe una grande risonanza in Italia, in una fase della guerra in cui gli
aspetti psicologici stavano acquistando un'incredibile importanza. D'Annunzio ebbe un ruolo
principale in questo, il messaggio lasciato nelle tre bottiglie ebbe grande diffusione e contribuì a
risollevare il morale dell'esercito impegnato sul Piave.
Per l'Italia, che si stava riorganizzando dopo il disastro di Caporetto, l'eco della riuscita
nell'impresa fu notevole e rinvigorì lo spirito dei soldati e della popolazione. L'entusiasmo
avrebbe raggiunto il culmine pochi mesi dopo con il famoso Volo su Vienna. Dell'avventura della
Baia di Buccari resta un libriccino edito nel 1918 consueti editori dannunziani, i Fratelli Treves,
dal titolo: La Beffa di Buccari - con aggiunti La Canzone del Quarnaro, Il catalogo dei Trenta di
Buccari, Il Cartello Manoscritto e Due Carte Marine. Il testo è completato dalle strofe de La
Canzone del Quarnaro, al tempo, ebbe notevole fama (successivamente il testo fu musicato da
Luigi Dalla piccola1930).
Una sessione di MAS in azione
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LA CANZONE DEL QUARNARO
Siamo trenta d'una sorte,
e trentuno con la morte.
Siamo trenta su tre gusci,
su tre tavole di ponte:
secco fegato, cuor duro,
cuoia dure, dura fronte,
mani macchine armi pronte,
e la morte a paro a paro.
Con un'ostia
ognun s'è comunicato.
Come piaga incrudelita
coce il rosso nel costato,
ed il verde disperato
rinforzisce il fiele amaro.
Tutti tornano, o nessuno.
Se non torna uno dei trenta
torna quella del trentuno,
quella che non ci spaventa,
con in pugno la sementa
da gittar nel solco avaro.
Quella torna, con in pugno
il buon seme della schiatta,
la fedel seminatrice,
dov'è merce la disfatta,
dove un Zanche la baratta
e la dà per un denaro.
Il profumo dell'Italia
è tra Unie e Promontore.
Da Lussin, da Val d'Augusto
vien l'odore di cuore.
Improvviso nasce un fiore
su dal bronzo e nell'acciaro.
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Ecco l'isole di sasso
che l'ulivo fa d'argento.
Ecco l'irte groppe, gli ossi
delle schiene, sottovento.
Dolce è ogni albero stento,
ogni sasso arido è caro.
Il lentisco il lauro il mirto
fanno incenso alla Levrera.
Monta su per i valloni
la fumea di primavera,
copre tutta la costiera,
senza luna e senza faro.
Dentro i covi degli Uscocchi
sta la bora e ci dà posa.
Abbiam Cherso per mezzana,
abbiam Veglia per isposa,
e la parentela ossosa
tutta a nozze di corsaro.
Festa. Albona rugge
ritta in piè su la collina
Il ruggito della belva
scrolla tutta la Farasina.
Contro sfida leonina
ecco il ragghio il somaro.
Fiume fa le luminarie
nuziali. In tutto l'arco
della notte fuochi e stelle.
Sul suo scoglio erto è San Marco.
E da ostro segna il varco
alla prua che vede chiaro.
Dove son gli impiccatori
degli eroi? Tra le lenzuola?
Doveportali
che millantano da Pola?
A covar la gloriola
cinquantenne entro il riparo?
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Dove sono gli ammiragli
d'arzanà? Su la ciambella?
Santabarbara è sapone,
è capestro ogni cordella
nella voto navicella
dedicata a san Nazaro.
Da Lussin alla Merlera,
da Calluda ad Abazia,
per il largo e per il lungo
siam signori in signoria.
Padre Dante, e con la scia
facciam "tutto il loco varo".
Siamo trenta su tre gusci,
su tre tavole di ponte:
secco fegato, cuor duro,
cuoia dure, dura fronte,
mani macchine armi pronte,
e la morte a paro a paro.
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GLI AUTORI DELL’IMPRESA DI BUCCARI
ON. GABRIELE
D’ANNUNZIO
Parlamento del Regno d’Italia
Camera del Regno D’Italia
Gabriele D'Annunzio, principe di Montenevoso, a volte scritto d'Annunzio, come usava
firmarsi (Pescara, 12 marzo1863–Gardone Riviera, 1º marzo1938), è stato uno scrittore,
poeta, drammaturgo militare, politico, giornalista italiano, simbolo del Decadentismo,
del quale fu il più illustre rappresentante assieme a Giovanni Pascoli, ed eroe di guerra.
Soprannominato il Vate "il profeta", occupò una posizione preminente nella letteratura
italiana dal 1889 al 1910 e nella vita politica dal 1914 al 1924. Come letterato fu
«eccezionale e ultimo interprete della più duratura tradizione poetica italiana » come
politico lasciò un segno sulla sua epoca e una influenza sugli eventi che gli sarebbero
succeduti.
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LA FAMIGLIA E GLI ANNI DELLA FORMAZIONE
Gabriele D'Annunzio nacque a Pescara il 12 marzo 1863 da famiglia borghese benestante. Terzo
di cinque figli, visse un'infanzia felice, distinguendosi per intelligenza e vivacità. Dalla madre,
Luisa de Benedictis (1839-1917), erediterà la fine sensibilità; dal padre, Francesco Paolo
Rapagnetta (1831-1893) (il quale acquisì anche il cognome D'Annunzio da un ricco parente che
lo adottò, lo zio Antonio D'Annunzio), il temperamento sanguigno, la passione per le donne e la
disinvoltura nel contrarre debiti, che portarono la famiglia da una condizione agiata a una
difficile situazione economica. Reminiscenze della condotta paterna, la cui figura è ricordata
nelle Faville del maglio e accennata nel Poema paradisiaco, sono presenti nel romanzo Trionfo
della morte. Ebbe tre sorelle, cui fu molto legato per tutta la vita, e un fratello minore:
Anna (Pescara, 27 luglio 1859 - Pescara, 9 agosto 1914)
Elvira (Pescara, 3 novembre 1861 - Pescara, 1942)
Ernestina (Pescara, 10 luglio 1865 - Pescara, 1938)
Antonio (Pescara, 1867 - New York, 1945), direttore d'orchestra, si trasferì negli Stati Uniti
d'America, dove perse tutto nella crisi economica del 1929; D'Annunzio lo aiutò
finanziariamente con cospicui prestiti, ma le continue richieste di denaro spinsero Gabriele a
rompere i rapporti e a rifiutare di incontrarlo al Vittoriale.
Il giovane D'Annunzio non tardò a manifestare un carattere ambizioso e privo di complessi e
inibizioni, portato al confronto competitivo con la realtà. Ne è testimonianza la lettera che,
ancora sedicenne nel 1879, scrive a Giosuè Carducci, il poeta più stimato nell'Italia umbertina,
mentre frequenta il liceo al prestigioso istituto Convitto Cicognini di Prato. Nel1879 il padre
finanziò la pubblicazione della prima opera del giovane studente, Primo vere, una raccolta di
poesie che ebbe presto successo. Accompagnato da un'entusiastica recensione critica sulla rivista
romana Il Fanfulla della Domenica, il libro venne pubblicizzato dallo stesso D'Annunzio con un
espediente: fece diffondere la falsa notizia della propria morte per una caduta da cavallo. La
notizia ebbe l'effetto di richiamare l'attenzione del pubblico romano sul romantico studente
abruzzese, facendone un personaggio molto discusso. Lo stesso D'Annunzio poi smentì la falsa
notizia. Dopo aver concluso gli studi liceali accompagnato da una notorietà in continua ascesa,
giunse a Roma, dove si iscrisse alla Facoltà di Lettere anche se non avrebbe mai condotto a
termine gli studi.
La casa natale a Pescara
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IL PERIODO ROMANO
Gli anni 1881-1891 furono decisivi per la formazione di D'Annunzio, e nel rapporto con il
particolare ambiente culturale e mondano di Roma cominciò a forgiarsi il suo stile raffinato e
comunicativo, la sua visione del mondo e il nucleo centrale della sua poetica.
La buona accoglienza che trovò in città fu favorita dalla presenza in essa di un folto gruppo di
scrittori, artisti, musicisti, giornalisti di origine abruzzese, parte dei quali conosciuti dal poeta
a Francavilla al Mare, in un Convento di proprietà del corregionale e amico Francesco Paolo
Michetti, (fra cui Scarfoglio, Tosti,Masciantonio e Barbella) che fece parlare in seguito di una
"Roma bizantina".
La cultura provinciale e vitalistica di cui il gruppo si faceva portatore appariva al pubblico
romano, chiuso in un ambiente ristretto e soffocante — ancora molto lontano dall'effervescenza
intellettuale che animava le altre capitali europee — una novità "barbarica", eccitante e
trasgressiva; D'Annunzio seppe condensare perfettamente, con uno stile giornalistico esuberante,
raffinato e virtuosistico, gli stimoli che questa opposizione "centro-periferia", "natura-cultura"
offriva alle attese di lettori desiderosi di novità.
D'Annunzio si era dovuto adattare al lavoro giornalistico soprattutto per esigenze economiche,
ma attratto alla frequentazione della Roma "bene" dal suo gusto per l'esibizione della bellezza e
del lusso, nel 1883 sposò, con un matrimonio "di riparazione" (lei era già incinta del figlio
Mario), nella cappella di Palazzo Altemps a Roma, Maria Hardouin duchessa di Gallese, da cui
ebbe tre figli (Mario, deputato al parlamento, Gabriele Maria, attore, e Ugo Veniero). Il
matrimonio finì in una separazione legale dopo pochi anni (anche se il poeta e la moglie rimasero
in buoni rapporti), per le numerose relazioni extraconiugali di D'Annunzio, tra cui quella con
Maria Gravina, da cui ebbe la figlia Renata.
Tuttavia, le esperienze per lui decisive furono quelle trasfigurate negli eleganti e ricercati
resoconti giornalistici. In questo rito di iniziazione letteraria egli mise rapidamente a fuoco i
propri riferimenti culturali, nei quali si immedesimò fino a trasfondervi tutte le sue energie
creative ed emotive.
Il piacere nel 1889. Tale romanzo, incentrato sulla figura dell'esteta decadente, inaugura una
nuova prosa introspettiva e psicologica che rompe con i canoni estetici del naturalismo e del
positivismo allora imperanti.
Accanto a lettori ed estimatori più attenti e colti, venne presto a crearsi attorno alla figura di
D'Annunzio un vasto pubblico condizionato non tanto dai contenuti, quanto dalle forme e dai
risvolti divistici delle sue opere e della sua persona, un vero e proprio star system ante litteram,
che lo stesso scrittore contribuì a costruire deliberatamente. Egli inventò uno stile immaginoso e
appariscente di vita da "grande divo", con cui nutrì il bisogno di sogni, di misteri, di "vivere
un'altra vita", di oggetti e comportamenti-culto.
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IL PERIODO NAPOLETANO
Tra il 1891 e il 1893 D'Annunzio visse a Napoli, dove compose Giovanni Episcopo e L'innocente,
seguiti da Il trionfo della morte (scritto in Abruzzo, fra Francavilla al Mare e San Vito Chietino) e
dalle liriche del Poema paradisiaco. Sempre di questo periodo è il suo primo approccio agli scritti
di Friedrich Nietzsche. Le suggestioni nietzschiane, liberamente filtrate dalla sensibilità del Vate si
ritroveranno anche ne Le vergini delle rocce (1895), poema in prosa di squisita fattura dove l'arte
«...si presenta come strumento di una diversa aristocrazia, elemento costitutivo del vivere
inimitabile, suprema affermazione dell'individuo e criterio fondamentale di ogni atto».
IL PERIODO FIORENTINO
Sempre nel 1892 cominciò una relazione epistolare con la celebre attrice Eleonora Duse, con la
quale ebbe inizio la stagione centrale della sua vita. Si conobbero personalmente nel 1894 e subito
scattò l'amore. Per vivere accanto alla sua nuova compagna, D'Annunzio si trasferì a Firenze, nella
zona di Settignano, dove affittò la villa La Capponcina (vicinissima alla villa
Porziuncoladell'attrice), trasformandola in un monumento del gusto estetico decadente, definita da
lui "la vita del signore rinascimentale". Frequentò anche il Chianti e conobbe una nobile di San
Casciano in Val di Pesa, passò un breve periodo presso il Fedino una nota villa del luogo. Sono in
questi anni che si situa gran parte della drammaturgia dannunziana che è piuttosto innovativa
rispetto ai canoni del dramma borghese o del teatro dominanti in Italia e che non di rado ha come
punto di riferimento la figura attoriale della Duse, nonché le sue migliori opere poetiche, la gran
parte delleLaudi, e, tra queste, il vertice e capolavoro della poesia dannunziana, l' Alcyone. La
relazione dell'artista con Eleonora Duse è stata celebrata a Firenze in un modo molto originale. Alla
nascita del quartiere fiorentino diCoverciano (sorto proprio ai piedi della villa dannunziana di
Settignano), due importanti arterie stradali della zona vennero inaugurate in memoria dei famosi
amanti, prevedendo inoltre un incrocio tra queste vie. Tra il 1893 e il1897 D'Annunzio condusse
un'esistenza movimentata che lo portò dapprima nella sua terra d'origine e poi in Grecia, che visitò
nel corso di un lungo viaggio.
Nel 1897 volle provare l'esperienza politica, vivendo anch'essa, come tutto il resto, in un modo
bizzarro e clamoroso: eletto deputato della destra, passò quasi subito nelle file della sinistra,
giustificandosi con la celebre affermazione «vado verso la vita», per protesta contro Luigi Pelloux e
le "leggi liberticide"; espresse anche vivaci proteste per la sanguinosa repressione dei moti di
Milano da parte del generale Fiorenzo Bava Beccaris.
IL TRASFERIMENTO IN FRANCIA
La relazione con Eleonora Duse si incrinò nel1904, dopo il tradimento con Alessandra di Rudiní e
la pubblicazione del romanzo fuoco, in cui il poeta aveva descritto impietosamente la loro
relazione. In quell'epoca la vita dispendiosa condotta dal Vate lo portò a sperperare le cospicue
somme percepite per le proprie pubblicazioni, che divennero comunque insufficienti a coprire le
spese prodottesi. Nel 1910 d’Annunzio si trasferì in Francia: già da tempo aveva accumulato una
serie di debiti e per evitare i creditori aveva preferito allontanarsi dal proprio Paese.
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L'arredamento della villa fu messo all'asta e D'Annunzio per cinque anni non rientrò in Italia.
Risale a questo periodo la relazione con l'americana Romaine Beatrice Brooks.
A Parigi era un personaggio noto, era stato tradotto da Georges Hérelle e il dibattito tra
decadentisti e naturalisti aveva a suo tempo suscitato un grosso interesse già con Huysmans. Ciò
gli permise di mantenere inalterato il suo dissipato stile di vita fatto di debiti e frequentazioni
mondane, tra cui quelle con Filippo Tommaso Marinetti e Claude Debussy. Pur lontano dall'Italia
collaborò al dibattito politico prebellico, pubblicando versi in celebrazione della guerra italo-turca,
inclusi poi in Merope o editoriali per diversi giornali nazionali (in particolare per il Corriere) che a
loro volta gli concedevano altri prestiti.
Nel 1910 Corradini aveva organizzato il progetto dell'Associazione Nazionalista Italiana, al quale
D'Annunzio aderì inneggiando a una nazione dominata dalla volontà di potenza e opponendosi
all'«Italietta meschina e pacifista».
Nel 1914 Gabriele D'Annunzio rifiutò di diventare Accademico della Crusca, poiché era nemico
degli onori letterari, ma anche delle Università, infatti ai bolognesi che gli offrivano una cattedra
scrisse “amo più le aperte spiagge che le chiuse scuole dalle quali vi auguro di liberarvi”.
Dopo il periodo parigino si ritirò ad Arcachon, sulla costa Atlantica, dove si dedicò all'attività
letteraria in collaborazione con musicisti di successo (Mascagni, Debussy,...), compose libretti
d'opera, soggetti per film (Cabiria).
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PARTECIPAZIONE ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE
D’Annunzio con la divisa da Ufficiale
dei Lancieri di Novara
Nel 1915 ritornò in Italia, dove rifiutò la cattedra di letteratura italiana che era stata di Pascoli;
condusse immediatamente un'intensa propaganda interventista, inneggiando al mito di Roma e
del Risorgimento e richiamandosi alla figura di Giuseppe Garibaldi. Il discorso celebrativo
che D'Annunzio pronunciò a Quarto il 4 maggio 1915 (in occasione della sagra dei Mille)
suscitò entusiastiche manifestazioni interventiste, così come l'arringa tenuta a Roma il 13
maggio 1915. Con l'entrata in Guerra dell'Italia, il 24 maggio 1915 (durante le cosiddette
"radiose giornate di maggio"), D'Annunzio si arruolò volontario nei Lancieri di Novara,
nonostante avesse già 52 anni, partecipando subito ad alcune azioni dimostrative navali e
aeree. Per un periodo risiedette a Cervignano del Friuli perché così poteva essere vicino al
Comando della III Armata, a capo della quale era Emanuele Filiberto di Savoia, Duca d'Aosta,
suo amico ed estimatore.
L'interventismo del Vate si concretizzerà più in gesta di significato simbolico che in veri e
propri scontri militari. Ottimo aviatore, nel settembre 1915partecipò a un'incursione aerea
su Trento e nei mesi successivi, sul fronte carsico, a un attacco lanciato sul monte San
Michele nel quadro delle battaglie dell'Isonzo. Il 16 gennaio del 1916, a seguito di un
atterraggio d'emergenza, nell'urto contro la mitragliatrice dell'aereo riportò una lesione
all'altezza della tempia e dell'arcata sopraccigliare destra. La ferita non curata per un mese
provocò la perdita dell'occhio. Visse così un periodo di convalescenza, durante il quale fu
assistito dalla figlia Renata. In quei mesi compose il Notturno utilizzando delle sottili strisce
di carta che gli permettevano di scrivere nella più completa oscurità, necessaria per la
convalescenza dalla ferita che l'aveva temporaneamente accecato. L'opera venne pubblicata
nel 1921 e contiene una serie di ricordi e di osservazioni. Tuttavia, ben presto tornò a
combattere. Contro i consigli dei medici, continuò a partecipare ad azioni belliche aeree e di
terra: nel settembre 1916 a un'incursione su Parenzo e, nell'anno successivo (1917), con la III
Armata, alla conquista del Veliki e al cruento scontro presso le foci del Timavo nel corso
della decima battaglia dell'Isonzo.
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L’IMPRESA DI FIUME
« Trasformare il cardo bolscevico in rosa d'Italia, Rosa d'Amore. »
(Gabriele D'Annunzio)
Nel 1919 D'Annunzio organizzò un clamoroso colpo di mano paramilitare, guidando una
spedizione di "legionari", partiti da Ronchi di Monfalcone (ribattezzata, nel 1925, Ronchi dei
Legionari in ricordo della storica impresa), all'occupazione della città di Fiume, che le potenze
alleate vincitrici non avevano assegnato all'Italia. Con questo gesto D'Annunzio raggiunse
l'apice del processo di edificazione del proprio mito personale e politico. A Fiume, occupata
dalle truppe alleate, già nell'ottobre 1918 si era costituito un Consiglio nazionale che
propugnava l'annessione all'Italia, di cui fu nominato presidente Antonio Grossich.
D'Annunzio con una colonna di volontari (tra i quali vi era anche Silvio Montanarella, marito
della figlia Renata) occupò Fiume e vi instaurò il comando del "Quarnaro liberato". Il 5
ottobre 1920 aderì al Fascio di combattimento di Fiume.
D'Annunzio, che era anche comandante delle Forze Armate Fiumane, e il suo governo
vararono tra l'altro la Carta del Carnaro, una costituzione provvisoria incredibilmente avanzata
e moderna, scritta dal sindacalista rivoluzionario Alceste de Ambris e modificata in parte da
D'Annunzio stesso, che prevedeva, assieme alle varie leggi applicative e regolamenti varati,
numerosi diritti per i lavoratori, le pensioni di invalidità, l' habeas corpus, il suffragio
universale maschile e femminile, la libertà di opinione, di religione e di orientamento
sessuale, la depenalizzazione dell'omosessualità, del nudismo e dell'uso di droga, la funzione
sociale della proprietà privata, il corporativismo, le autonomie locali e il risarcimento degli
errori giudiziari, il tutto molto tempo prima di altre carte costituzionali dell'epoca.
Alle 9 corporazioni originarie ne aggiunse una decima, costituita dai cosiddetti "uomini
novissimi".
d'Annunzio in uniforme da Ardito.
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Una immagine di D’Annunzio con il francobollo
commemorativo dell’impresa di Fiume
Gli articoli XLIII e XLIV delineano la figura di un "Comandante" (lo stesso D'Annunzio),
eletto con voto palese, una sorta di dittatore romano, attivo per il tempo di guerra, che detiene
"la potestà suprema senza appellazione" e "assomma tutti i poteri politici e militari, legislativi
ed esecutivi. I partecipi del Potere esecutivo assumono presso di lui officio di segretari e
commissari."
Alcuni sostengono che D'Annunzio avesse usato mezzi repressivi per il governo di Fiume, i
quali precorsero quelli poi usati dai fascisti. È diffusa l'opinione che l'uso dell'olio di
ricino come strumento di tortura e punizione dei dissidenti sia stato introdotto proprio dai
legionari di D'Annunzio, poi fatto proprio e reso famoso dalle squadrismo fascista.. Altri
sostengono invece che l'esperienza non ebbe connotati solo nazionalistici, ma
anche liberali e libertari piuttosto netti, e che il poeta non avesse intenzione di costituire un
governo personale, ma solo un governo d'emergenza con possibilità di sperimentazioni di
diverse idee, aggregate in un programma politico unico grazie al suo carisma. Prima della fine
dell'esperienza fiumana, la Reggenza del Carnaro sarà il primo stato indipendente al mondo anche se non ufficiale e autoproclamato - a riconoscere nel 1920 la legittimità
della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa, che nel 1923, unendosi alle altre
repubbliche federali ad essa subordinate, sorte sulle ceneri dell'Impero russo durante
la rivoluzione d'ottobre, diverrà l'Unione sovietica; in cambio, i sovietici, guidati da Lenin,
furono gli unici al mondo a riconoscere l'indipendenza statale di Fiume dalla Jugoslavia. Per
un certo periodo guardò con simpatia ai bolscevichi, difatti il 27 e il 28 maggio 1922,
D'Annunzio ospiterà al Vittoriale Georgij Vasil'jevič Čičerin, commissario sovietico agli
affari esteri arrivato in Italia per la conferenza di Genova. Tuttavia nel 1926esprimerà invece
critiche contro il governo sovietico.
Il 12 novembre 1920 venne stipulato il trattato di Rapallo: Fiume divenne città
libera, Zara passò all'Italia; ma D'Annunzio non accettò l'accordo e il governo italiano
di Giovanni Giolitti il 26 dicembre 1920, fece sgomberare i legionari con la forza, causando
numerosi morti, nel cosiddetto "Natale di sangue". Ai tempi di Fiume D'Annunzio
soprannominò sprezzantemente Cagoja l'ex primo ministro Francesco Saverio Nitti, in
relazione appunto alla sua contrarietà verso l'annessione di Fiume. Nel 1924 lo Stato libero di
Fiume, fu infine annesso all'Italia, dove rimase fino al 1945.
28
Nel marzo 1918 con il grado di maggiore, assume il comando della Squadra aerea di San
Marco. Le imprese aeree contro il porto di Cattaro (1917) e il Volo su Vienna e la
partecipazione sui MAS alla Beffa di Buccari (1918) completarono il suo stato di servizio. Al
termine del conflitto «egli apparteneva di diritto alla generazione degli assi e dei
pluridecorati...» e il coraggio dimostrato, unitamente ad alcune celebri imprese di cui era stato
protagonista, ne consolidarono ulteriormente la popolarità. Si congedò con il grado di tenente
colonnello, inusuale, all'epoca, per un militare non di carriera; gli verrà poi anche concesso il
titolo onorario di generale di brigata aerea. Nell'immediato primo dopoguerra D'Annunzio si
fece portatore di un vasto malcontento, insistendo sul tema della "vittoria mutilata" e
chiedendo, in sintonia con una serie di voci della società e della politica italiana, il
rinnovamento della classe dirigente in Italia. La stessa onda di malcontento trovò ben presto
un sostenitore in Benito Mussolini, che di qui al 1922 avrebbe portato all'ascesa
del fascismo in Italia.
Durante il conflitto D'Annunzio conobbe il poeta giapponese Harukichi Shimoi, arruolatosi
negli Arditi dell'esercito italiano.
Dall'incontro dei due poeti-soldati nacque l'idea, promossa a partire dal marzo 1919, del raid
aereo Roma-Tokyo, a cui il Vate voleva inizialmente partecipare, e che fu portato a termine
dall'aviatore Arturo Ferrarin.
D’Annunzio sull’aereo con il quale
fece il volo su Vienna
Uno dei volantini lanciati su Vienna
29
L’ESILIO A GARDONE RIVIERA
Deluso dall'epilogo dell'esperienza di Fiume, nel febbraio 1921 si ritirò in un'esistenza
solitaria nella villa di Cargnacco (comune di Gardone Riviera) che pochi mesi più tardi
acquistò.
Ribattezzata il Vittoriale degli italiani fu ampliata e successivamente aperta al pubblico. Qui
lavorò e visse fino alla morte, curando con gusto teatrale un mausoleo di ricordi e di simboli
mitologici di cui la sua stessa persona costituiva il momento di attrazione centrale.
D'Annunzio si impegnò inoltre per la crescita e il miglioramento della zona: la costruzione
della strada litoranea Gargnano-Riva del Garda (1929-1931) fu fortemente voluta da lui che se
ne interessò personalmente, facendo valere il suo prestigio personale con le autorità.
La strada, progettata e realizzata dall'ing. Riccardo Cozzaglio, segnò il termine del secolare
isolamento di alcuni paesi del Lago di Garda e fu poi classificata di interesse nazionale con il
nome di Strada statale 45 bis Gardesana Occidentale.
Lo stesso D'Annunzio, presente all'inaugurazione della strada, la battezzò con il nome
di Meandro per via della sua tortuosità e dell'alternarsi delle buie gallerie e del lago azzurro.
La villa di D'Annunzio, nel complesso monumentale del "Vittoriale degli Italiani"
30
ON. COSTANZO CIANO
Presidente della camera
dei deputati
Costanzo Ciano, conte di Cortellazzo e di Buccari
(Livorno, 30 agostoo 1876 – Ponte a Moriano, Lucca, 26 giugno 1939),
è stato un militare e politico italiano, padre di Galeazzo Ciano.
Entra nell'Accademia Navale di Livorno all'età di 15 anni (1891), e consegue la nomina
a guardiamarina il 16 luglio 1896. Viene promosso sottotenente di vascello nel 1898 e
nel 1901ottiene il grado di tenente di vascello. Partecipa al conflitto italo-turco del 1911-1912.
Nel 1913 riceve un encomio solenne per aver compiuto missioni speciali di polizia coloniale al
comando del piroscafo Siracusa, requisito durante le azioni di guerra.
Ufficiale della Regia Marina nel 1915, allo scoppio della Prima guerra mondiale, il capitano di
corvetta Costanzo Ciano si trova destinato in Cirenaica, a Tobruch. Durante un'operazione di
antiguerriglia riesce a fare prigioniero il comandante delle forze senussite e il suo stato
maggiore. Rientrato in Italia opera nel conflitto prevalentemente al comando di unità siluranti di
superficie (M.A.S. e torpediniere), compiendo numerosissime e rischiose imprese, fra cui la
famosa Beffa di Buccari, per le quali fu insignito della medaglia d'oro al valore militare.
Fu promosso capitano di fregata il 16 giugno 1917 e capitano di vascello per merito di guerra il
1º aprile 1918, a fine guerra fu collocato nell'ausiliaria su doma
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I FATTI DI LIVORNO
Nell'estate del 1922 Livorno venne occupata da squadre armate di fascisti provenienti da tutta
la Toscana. Questi gruppi furono implicati nell'uccisione di alcuni consiglieri comunali,
devastarono negozi legati a personalità del mondo politico cittadino, le sedi di partiti di sinistra, i
circoli dei lavoratori e la Camera del Lavoro. Il 3 agosto un nutrito squadrone di fascisti, con alla
testa Costanzo Ciano e Dino Perrone Compagni, si diresse al Palazzo Comunale:
l'amministrazione socialista, guidata dal sindaco Uberto Mondolfi, fu costretta a dare le
dimissioni sotto la minaccia di ulteriori gravi ritorsioni.
LA CARRIERA POLITICA
Il 31 ottobre 1922 assunse la carica di Sottosegretario di Stato per la Regia Marina e di
Commissario per la Marina Mercantile ed il 9 novembre 1923 conseguì la promozione a
contrammiraglio nella Riserva Navale.
Sotto il fascismo fu Ministro delle Poste e delle comunicazioni, e Presidente della Camera dei
deputati del Regno d'Italia, poi Camera dei Fasci e delle Corporazioni, fino al 1939, anno della
morte, con la quale lasciò in eredità ai suoi congiunti un patrimonio stimato intorno ai 700 milioni
di euro attuali, accumulati in gran parte durante gli anni del ventennio.
LA DINASTISA FAMIGLIARE
Era il fratello di due gerarchi minori dell'epoca fascista, Alessandro ed Arturo, ed il padre
di Galeazzo Ciano. Il casino di caccia allestito per il figlio, sulla via Appia Nuova alle porte di
Roma, fu - con il frontale circolo del golf dell' Acquasanta - il quartier generale della dinastia
nella capitale. Alla morte di Costanzo l'area campestre fu intestata in parte al fattore Caroni, in
parte alla famiglia Gerini[4], salvandosi dalle confische del patrimonio di famiglia dopo l'8
settembre 1943.Dal 1927 al 1939 fu disputata la competizione automobilistica Coppa Ciano,
corsa sul Circuito di Montenero, a Livorno. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1939, venne iniziata
la costruzione del Mausoleo di Ciano, un edificio monumentale in località Monteburrone nei
pressi di Montenero, e che avrebbe dovuto ospitale la sepoltura del gerarca e dei suoi familiari.
Sull'isola di Santo Stefano, nell'arcipelago della Maddalena in Sardegna, nelle cave di granito di
Villamarina, è ancora oggi visibile il busto di Costanzo Ciano, realizzato a mano, commissionato
quale coronamento del mausoleo. Costanzo Ciano è anche stato ritratto da un pregevole bronzo
di Francesco Messina (1940), attualmente collocato nel Museo Tecnico Navale della Spezia.
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CURIOSITA’
Ciano fu abile nel farsi intitolare, ancora in vita, diverse opere pubbliche di Livorno, senza apportare
realmente alcun contributo alla loro realizzazione: la terrazza sul lungomare di Livorno e l'ospedale
cittadino.
Sull'Isola Santo Stefano in Sardegna si trova incompiuto il suo busto di pietra. Ad oggi divisa in tre
tronconi, si tratta di una scultura colossale che lo ritrae in tenuta marinaresca, che avrebbe dovuto
essere alta più di 9 metri, ma che rimase incompiuta a seguito della caduta del regime fascista.
Doveva essere collocata sul mausoleo di famiglia a Livorno.
Carbonia - Lo Stadio "Costanzo Ciano" in via della Stazione, fu inaugurato il 21 maggio 1940 come
Campo Sportivo della Gioventù Italiana del Littorio.
Manfredonia - L'edificio scolastico costruito in epoca fascista era intitolato a Costanzo Ciano. Alla
caduta del regime fascista fu modificato in "Scuola Elementare Francesco De Sanctis"
ONOREFICIENZE
Cavaliere dell'Ordine Supremo della Santissima Annunziata
Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro
Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine della Corona d'Italia
Commendatore dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro
Commendatore dell'Ordine militare di Savoia
DECORAZIONI E RICONOSCIMENTI PER MERITI DI GUERRA:
Medaglia d'argento al valor militare (Alto Adriatico, aprile-maggio 1916)
Medaglia d'argento al valor militare (Alto Adriatico 1916)
Medaglia d'argento al valor militare (Alto Adriatico, novembre 1916)
Medaglia d'argento al valor militare (Venezia, 1917)
Medaglia di bronzo al valor militare (Alto Adriatico, 1917)
Medaglia d'oro al valor militare «Al comando di una squadriglia di MAS percorreva novanta miglia
entro mari nemici, spingendosi per angusti sinuosi canali, sorpassando strettoie sbarrate e difese da
artiglierie, raggiungendo lo scopo di lanciare i sei siluri delle sue tre unità contro le navi rifugiate
nella parte più profonda di un munito ancoraggio avversario. Rifaceva quindi lo stesso cammino
esponendosi alla reazione del nemico, la quale per mare, per terra, per aria si presentava
facilissima, naturale, sicura sulla via del ritorno. Buccari, 10-11 febbraio 1918.»
Medaglia commemorativa della guerra italo-austriaca 1915 – 18 (4 anni di campagna)
Medaglia commemorativa dell'Unità d'Italia
Medaglia commemorativa Italiana della Vittoria
Promozione a capitano di vascello (Buccari, 1918)
Distintivo per ferito di guerra.
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AMMIRAGLIO
LUIGI RIZZO
Soprannominato “l'Affondatore”
Nato a Milazzo 8 ottobre 1877
Morto a Roma 27 giugno 1951
Grado: Ammiraglio di divisione
Guerre: Prima guerra mondiale (1915-1918)
Impresa di Fiume (1918-1919)
Guerra d'Etiopia (1935-1936)
Seconda guerra mondiale( 1940-1941)
Battaglie :
Difesa di Grado
Affondamento della SMS Wien
Beffa di Buccari
Affondamento della SMS Santo Stefano
Innovazioni: Stratega di MAS
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Luigi Rizzo, soprannominato l'Affondatore, primo conte di Grado e di Premuda (Milazzo, 8
ottobre 1887 – Roma, 27 giugno 1951), è stato un ammiraglio italiano. Prestò servizio
nella Regia Marina durante la prima e la seconda guerra mondiale ricevendo numerose
decorazioni. Prese parte come volontario all'Impresa fiumana e alla guerra d'Etiopia.
Nacque a Milazzo l'8 ottobre 1887. Capitano di lungo corso della Marina mercantile, il 17
marzo 1912 fu nominato sottotenente di vascello di complemento della Riserva navale.
Nel primo conflitto mondiale, dal giugno 1915 alla fine del 1916 venne destinato alla difesa
marittima di Grado dove, agli ordini del capitano di corvetta Filippo Camperio prima e
del capitano di fregata Alfredo Dentice di Frasso poi, si distinse particolarmente, ottenendo
anche una medaglia d'argento al valor militare.
Successivamente fu trasferito nella neonata squadriglia dei MAS, prendendo parte a varie
missioni di guerra. Fra queste si ricordano: maggio 1917: cattura di due piloti
di idrovolante austriaco ammarato per avaria; per tale azione ottenne la seconda Medaglia
d'argento al valor militare;
dicembre 1917: affondamento della corazzata guardacoste austriaca Wien, avvenuto nella rada
di Trieste. Per questa azione Rizzo venne decorato con la medaglia d'oro al valore militare.
Nello stesso mese, per le missioni compiute nella difesa delle foci del Piave venne decorato di
una terza Medaglia d'argento al valor militare e venne promosso tenente di vascello per meriti
di guerra, ottenendo il passaggio in s.p.e. (servizio permanente effettivo);
febbraio 1918: con Gabriele D'Annunzio e Costanzo Ciano partecipò alla "Beffa di Buccari",
ottenendo una medaglia di bronzo al valor militare, commutata al termine della guerra in
argento al valor militare;
giugno 1918: il 10 giugno 1918 al largo di Premuda attaccò ed affondò la corazzata Szent
István. Per questa azione venne insignito della Croce di Cavaliere dell'Ordine Militare di
Savoia; infatti, in virtù del R.D. 25 maggio 1915 n. 753 che vietava di conferire alla stessa
persona più di tre medaglie al valore cumulativamente d'argento e d'oro, non fu fregiato della
seconda medaglia d'oro al valor militare . Tale limitazione fu abrogata con il R.D. 15
giugno 1922 n. 975 e quindi con R.D. 27 maggio 1923 gli fu revocata la nomina a cavaliere
dell'Ordine militare di Savoia e concessa la medaglia d'oro al valor militare per l'impresa di
Premuda.
Il MAS 15 di luigi Rizzo
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Volontario fiumano nel 1919, nel 1920 lasciò il servizio attivo con il grado di capitano di
fregata. Nel 1925 assunse la presidenza della Società di Navigazione Eolia di Messina, carica
che manterrà fino al 1948. L'anno successivo fondò a Genova la Calatimbar, società tra
armatori, esportatori e spedizionieri, che aveva lo scopo di imbarcare tutte le merci in
partenza da quel porto. Alla Calatimbar parteciparono anche privati quali la Fiat ed Enti
pubblici come il Consorzio del porto e le Ferrovie dello Stato. Negli anni successivi fu anche
nominato Presidente della Cassa Marittima e infortuni e malattie della Gente di Mare,
dell'Unione Italiana Sicurtà Marittima e della Società Anonima di navigazione Aerea.
Con regio decreto di concessione del 25 ottobre 1932, e rr.ll.pp. del 20 giugno 1935, fu
nominato Conte di Grado. Il predicato di Premuda fu aggiunto al titolo comitale di Grado
con r.d. motu proprio di concessione del 20 ottobre 1941. Nel 1936, volontario, partecipò
alla guerra d'Etiopia; il 18 giugno 1936 fu nominato ammiraglio di divisione della Riserva
Navale per meriti eccezionali.
Nel 1939 fu Consigliere nazionale della Camera dei Fasci e delle Corporazioni.
Il 10 giugno 1940, allo scoppio delle ostilità, chiese di rientrare in servizio e si occupò della
lotta antisommergibile nel Canale di Sicilia; fu dispensato dal servizio nel gennaio del1941,
assumendo la carica di Presidente del Lloyd Triestino. Il 20 febbraio 1942 fu nominato
Presidente dei Cantieri Riuniti dell'Adriatico; dopo l'8 settembre 1943 ordinò il sabotaggio
dei transatlantici e dei piroscafi affinché non cadessero in mano tedesca. Per questa sua
direttiva venne trasferito dalla Gestapo in Austria, prima nel carcere di Klagenfurt e
successivamente nel soggiorno obbligato a Hirschegg, dove fu raggiunto dalla figlia Maria
Guglielmina.
Rimpatriato al termine del conflitto, morì a Roma il 27 giugno 1951 due mesi dopo
un'operazione per un tumore al polmone. L'operazione fu effettuata dal professor Raffaele
Paolucci, suo grande amico, che durante la Grande Guerra era stato il protagonista con
il maggiore del genio navale Raffaele Rossetti dell'affondamento nel porto di Pola della
corazzata austriaca Viribus Unitis.
Monumento a Luigi Rizzo
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L’IMPRESA DI PREMUDA
Il 9 giugno erano partiti da Ancona per una missione nel medio Adriatico i MAS 15 (capitano
di corvetta Luigi Rizzo) e il MAS 21 (guardiamarina Giuseppe Aonzo). Fino alle 02:00
del giorno 10 i due MAS dovevano stazionare fra Guiza e Banco di Selve in prossimità
dell'isola di Premuda per accertare la presenza di sbarramenti di torpedini[disambiguare]; al
termine di questa fase dovevano rimanere in agguato fino all'alba per ricongiungersi alle
torpediniere d'appoggio 18 O.S. e 15 O.S.. Ma i ritardi accumulati dal gruppo austriaco
comportarono che, alle 03:15, le unità austriache attraversarono la zona di pattugliamento dei
due MAS, che a quell'ora stavano dirigendo da Lutorstrak al punto di riunione con le
torpediniere.
« Alle 03:15, essendo a circa 6,5 miglia da Lutorstrak avvisto, leggermente a poppavia del
traverso e sulla dritta, una grande nuvola di fumo. Decisi perciò di approfittare della luce
incerta per prevenire l'attacco e perciò invertivo, seguito dal MAS 21 la rotta dirigendo sulle
unità nemiche alla minima velocità. Avvicinando il nemico mi accorsi che si trattava di due
grosse navi scortate da 8 a 10 cacciatorpediniere »
(Rapporto del capitano di corvetta Luigi Rizzo.)
Rizzo, nel tentativo di colpire una delle due grosse navi dalla minima distanza possibile,
manovrò tra due caccia che fiancheggiavano la Szent István, aumentò la velocità a 12 nodi,
riuscendo a passare fra le siluranti e da una distanza non superiore di 300 metri lanciò
entrambi i siluri del MAS. I due siluri colpirono la nave sollevando alte colonne d'acqua e
fumo. La reazione della torpediniera 76 non si fece attendere, si lanciò all'inseguimento del
MAS di Rizzo aprendo il fuoco da una distanza di 100-150 metri.
Rappresentazione pittorica del MAS di Rizzo nella battaglia di Premuda
37
Rizzo decise allora di sganciare due bombe antisommergibile, una delle quali scoppiò
inducendo la torpediniera a desistere. Il MAS 21 di Aonzo lanciò i suoi siluri contro l'altra unità
maggiore, la Tegetthoff, da una distanza di 450-500 metri, ma solo uno dei siluri colpì la nave.
Anch'egli fu inseguito da una torpediniera che riuscì a distanziare per dirigere in sicurezza per
il rientro.
La Szent István evidenziò subito dei grossi danni provocati dai siluri del MAS 15; l'acqua
penetrò nei locali macchine di prora e di poppa così si dovettero fermare le macchine. Ogni
quarto d'ora circa lo sbandamento della corazzata cresceva di circa 1°, e la Tegetthoff provò più
volte a prendere a rimorchio la nave, ma solo alle 05:45 riuscirono a passare la prima gomena,
quando lo sbandamento aveva raggiunto i 18° circa. In quel momento l'inclinazione subì un
improvviso aumento e la cima dovette essere recisa; verso le 06:00 la nave iniziò a
capovolgersi, per poi affondare del tutto. Tra gli ufficiali vi furono 1 morto e tre dispersi, tra
l'equipaggio i morti furono 13, 72 i dispersi e 29 i feriti.
Alle 07:00 i due MAS raggiunsero Ancona, e immediatamente partirono due idrovolanti che
avvistarono alcune unità della classe Tatra in prossimità di isola Grossa e Promontore, con rotta
sud. Alle 9 altri velivoli si alzarono in volo e la ricognizione su Pola confermò l'assenza delle
quattro dreadnought. Gli austriaci, vanificato l'effetto sorpresa su cui era basata l'intera
operazione, dovettero rientrare alle loro basi. Il Tegetthoff rientrò a Pola all'alba dell'11, così
come il gruppo Viribus-Prinz Eugen che raggiunse il porto alle 19.
Per tale azione il comandante Rizzo e il guardiamarina Aonzo ricevettero la medaglia d'oro al
valor militare.
l contraccolpo psicologico dell’azione di Premuda ebbe grosse ripercussioni sul morale austroungarico, tanto che nel restante corso della guerra, la k.u.k. Kriegsmarine non compì più
nessuna operazione navale, asserragliando le proprie navi nei porti. I siluri di Rizzo, con
quest'azione, fecero svanire l'elemento sorpresa e troncarono la missione nemica sul nascere,
costringendo la flotta austriaca a rinunciare definitivamente all'ambizioso progetto. L'azione di
Premuda convinse inoltre definitivamente gli alleati a lasciar cadere la questione relativa
all'istituzione dei comandi navali in Mediterraneo lasciando il totale controllo dell'Adriatico
all'Italia.
A dimostrazione del grande risultato dell'azione dei MAS, il Comandante in Capo della Grand
Fleet, l'ammiraglio inglese David Beatty fece giungere all'ammiraglio Lorenzo Cusani,
comandante della flotta italiana, il seguente telegramma: "La Grand Fleet porge le più sentite
congratulazioni alla flotta italiana per la splendida impresa condotta con tanto valore e tanta
audacia contro il nemico austriaco".
A riconoscimento dell’eroismo dimostrato in azione, il capitano Luigi Rizzo venne insignito
della Croce di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia, ma in seguito al suo rifiuto per i suoi
ideali repubblicani, l’onorificenza fu commutata in una medaglia d’oro al valor militare.
Il 13 marzo 1939 la Marina Militare, allora Regia Marina, decise di celebrare la propria festa in
data 10 giugno, in ricordo dell'azione compiuta nel corso della prima guerra mondiale.
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IL MAS 96
Il MAS 96 è attualmente una nave museo al Vittoriale degli italiani a Gardone Riviera.
Fondamentalmente si tratta di un motoscafo di tipo Orlando da 12 tonnellate di
dislocamento, una serie che comprese i MAS dal 91 al 102, in legno con carena a spigolo e
27 nodi circa di velocità di punta; avevano una decina di uomini di equipaggio e armamento
costituito generalmente da 2 siluri e alcune bombe di profondità, oltre ad una mitragliatrice o
ad un cannoncino.
Questa unità partecipò, con a bordo l'allora capitano di fregata Costanzo Ciano, il
comandante Luigi Rizzo e il poeta Gabriele D'Annunzio, alla Beffa di Buccari insieme ai
MAS 94 e 95.
Oltre a questa è presente un'altro MAS molto simile (ma non uguale) risalente al primo
conflitto mondiale: il MAS 15 esposto al sacrario delle bandiere al vittoriano di Roma.
Oltre a queste due altri MAS sono conservate: Il MAS 472 a Marina di Ravenna e il MAS
473 al museo storico navale di Venezia assieme alla motozattera MZ 737 e al
sottomarino Enrico Dandolo.
Il MAS 96 esposto al Vittoriale.
Regia Marina
Italiana
Tipo : Motosilurante
Classe : Motoscafo Armato Silurante
Cantiere :Cantiere navale fratelli Orlando
Entrata in servizio : 1916
Destino finale : Nave museo
Descrizione generale
MAS 96
0
0
0
0
MAS 96
Siluri : 2
Bombe di profondità : 4
Mitragliatrice : 1
Cannoncino : 1
Armamento
Stazza lorda : 12 tls
Lunghezza : 16,15
Caratteristiche generali
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L’Istituto Tecnico Nautico
BUCCARI
Sino dai primi dell’ottocento non esistevano vere scuole di nautica. Le testimonianze
tramandate nelle famiglie liguri di tradizione marinara indicano che i ragazzi, intorno ai dieci
anni, dopo aver imparato a ‘’ leggere, scrivere e a far di conto ‘’ alla scuola del parroco, si
imbarcavano come mozzi agli ordini del padre o di qualche parente. Le prime esperienze di
navigazione avvenivano nel tirreno settentrionale, giungendo fino all’isola di Gorgona o
all’Elba, per poi partecipare a viaggi, o meglio «campagne» in Sicilia o in Spagna; le tappe
successive della formazione erano rapide e tra i dodici e i quattordici anni i ragazzi venivano
considerati tanto esperti da essere imbarcati come marinai per le rotte verso gli scali di
levante.
Se le cognizioni pratiche passavano così da padre il figlio, quelle teoriche indispensabili per
proseguire nella carriera di ufficiale, venivano insegnate in scuole apposite, in genere tenute
da religiosi e finanziate da armatori locali.
Bisogna arrivare al 1816 per avere il primo tentativo di scuola nautica istituita dallo stato.
Nella pubblicazione Genova e le due riviere di Giuseppe Banchiero viene riportato : «La
nautica fece sempre parte delle scienze universitarie» ( nel 1807 risulta, presso l’università
imperiale di Genova, un corso di Nautique e Hydrographie tenute dal prof. Bodano e
seguito da 9 alunni ) ; ma la Maestà del Re Vittorio Emanuele istituiva una Regia scuola il 16
gennaio 1816 qui a Genova»
Solo nell’ordinanza del Re di Sardegna del 9 Marzo 1816 per la prima volta vengono emanate
leggi dettagliate riguardanti la «Marina Commerciale» contenuta in 21 capitoli e circa 400
articoli.
Nel cap. VI si trova la suddivisione della gente di mare :
1. Capitani di prima e seconda classe
2. Marinai
3. Mozzi
4. Tutte le maestranze delle arti marittime
Nel cap. VII (scuole di nautica) viene annunciata l’apertura di una scuola nautica a Genova :
Art.77. In cadauna delle nostre città di Genova, Nizza e Cagliari sarà stabilita una scuola di
nautica, in cui si insegneranno le matematiche, e la teoria della navigazione.
Art.78. Vi sarà per ogni scuola un maestro, e due secondi maestri di nautica da Noi nominati
sulla proposizione, che ne farà il primo segretario di guerra e marina, il Presidente Capo del
Consiglio dell’Ammiragliato.
Art.79. Uno dei secondi maestri di nautica della scuola di Nizza sarà stabilito a Villafranca , e
i due maestri in secondo applicati alla scuola di Cagliari , risiederanno uno nell’isola di San
Pietro, e l’altro in quella della Maddalena; se in progresso di tempo venisse dimostrata
l’utilità di maggiormente estendere l’insegnamento delle scienze marittime, saranno i secondi
maestri della scuola di Genova destinati in altre principali città del Ducato, ed anche
potranno essere incaricati gli ufficiali dei porti e spiagge nel loro circondario, di tenere
scuola di nautica, secondo i regolamenti a tal riguardo veglianti.
Queste diramazioni dipenderanno dai rispettivi maestri di nautica, cui spetterà, dietro
all’ordine del Presidente Capo del Consiglio dell’Ammiragliato, di determinare il metodo di
istruzione da seguirsi per l’ammaestramento degli allievi.
41
Poche sono le notizie su queste scuole nautiche.
Numerose pubblicazioni dell’epoca testimoniano per la prima volta la scuola nautica di Genova
nel Lunario Genovese per l’anno 1818 compilato dal Sig. Regina e socj edito a Genova dalla
stamperia Pagano.
Nella sezione Amministrazione della Marina Mercantile è riportata a pag . 94 una scuola regia
di nautica il cui primo maestro era il Cavaliere Antonio Davico. Tale maestro insegno a
Genova anche negli anni successivi mentre Federco Federici fu maestro a Nizza nel 1821 e dal
1822 a Savona, su ordine della Regia Marina, per aprire in questa città una succursale della
sede principale di Genova.
Nel 1861, con la costituzione del Regno d’Italia, la Regia Scuola Nautica divenne statale.
A Cagliari prima di tale data la scuola nautica era ospitata presso i locali della caserma della
Regia Marina nella vecchia darsena e poi presso il convento di San Francesco di Paola.
Dopo il 1861 fu trasferito nel quartiere di Castello, presso il Collegio di San Giuseppe.
Nel 1868 fu aggregato, all’istituto tecnico commerciale «Pietro Martini».
Solo dopo i il 1923 divenne Istituto tecnico Nautico autonomo ; mancava ancora un nome.
Nell’anno 1926, a seguito di un’ intricata vicenda che vide protagonisti, da un lato i Docenti e
la Giunta di Vigilanza e dall’altro il governo centrale, il Collegio dei Docenti deliberò di
denominare l’Istituto con il nome di “Buccari”, a ricordo della famosa impresa condotta da
Gabriele D’Annunzio e dagli Ufficiali della Regia Marina C.F. Costanzo Ciano e dal C.C.
Luigi Rizzo, durante la Prima Guerra Mondiale, nota come Beffa di Buccari. Il MAS 96,
utilizzato per l’impresa da Gabriele D’Annunzio, è tuttora conservato all’interno del Vittoriale,
nella casa museo appartenuta al Poeta.
Alla fine degli anni 30 trovo ospitalità in un caseggiato del quartiere marina nella piazzetta
Savoia.
Nel 1936 finalmente arrivò in viale Diaz, vicino al mare, nell’edificio che oggi ospita il liceo
scientifico « L.B. Alberti»
Dalla fine degli anni 50 è situato nell’attuale edificio, in piazza dei centomila fra viale Diaz e
viale Colombo.
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