Relazione introduttiva Tenuta dal Prof. Baldi come introduzione a

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Relazione introduttiva
Tenuta dal Prof. Baldi come introduzione a Dante e al Paradiso , affrontanti nella
conferenza seminario del 12/02/2016
Con il passar del tempo, bisogna chiedersi spesso, come penso che succede a tutti quelli che nel
corso del tempo che ci separa dalla nascita, dalla morte e dal tempo di Dante, come i nostri gusti e
i nostri interessi di lettori dell’opera del poeta siano andati incontro a ripensamenti.
Quando uno li affronta da ragazzo, ovviamente il centro rimane la Commedia. Le domande che
uno si pone erano: com’era nato quel sistema onnivoro, fagocitante mai visto prima? Come si era
formato quell’insostituibile certificato di esistenza geografica, linguistica e anche emozionale e
sentimentale del paese dove siamo nati?
Ognuno si sceglie bene o male piccoli spazi anche in quelle opere dette a torto “minori”: le Rime,
la Vita Nuova, il Convivio che invece hanno un posto non meno centrale della Commedia, anzi, la
anticipano, la integrano, la rendono più comprensibile in una maniera abbastanza incisiva.
Ovviamente, con la Commedia uno mantiene legami strettissimi che si accentuano quando
bisogna divulgarli bene o male nella scuola, ma lì si pongono altri problemi, altri interrogativi, altri
linguaggi e soprattutto come suscitare interesse in un’epoca come questa con un monumento così
sovrastante, ingombrante e forse soggetto ad abitudini e stereotipi che lo allontanano in maniera
sempre più considerevole dalle nuove generazioni di lettori.
Bisogna trovare nuove capacità di approccio, forse ci possono aiutare le stesse figure che lo stesso
Dante mette copiose nella Commedia partendo si dall’Inferno ma forse anticipandole nelle sue
esperienze, nel suo vissuto biografico e nell’Italia nel suo tempo.
Il fatto è che quando ci si sorprende a pensare oggi alla Commedia, bisogna quasi sempre
immaginare il Dante profeta o meglio le sue profezie –rivelazioni concentrate in tempi brevissimi
di quello che in realtà si dipana lungo una vita, occupando tranche di storia anche profana- come
un edificio monumentale costruito e dedicato soprattutto alla capacità che ha Dante di portare
rancore e diciamo solo senza freni, anche di odiare.
Questa capacità nasce in Dante dall’enorme cumulo di sconfitte e anche di delusioni o più
semplicemente, dalla condanna a trascorrere una vita lontano dal suo ambiente e soprattutto per
come era o immaginiamo Dante, a parlare inascoltato.
Però questa frustrazione diventa qualcosa di talmente sublime che è impossibile, tra bufere e
immediate schiarite trascendenti, riconoscere il tratto più creativo e più oscuro della personalità di
Dante, la radice della sua esperienza.
Il rancore non è presente solo nell’Inferno, nel Purgatorio è abbastanza visibile, nel Paradiso si
nasconde ma c’è. Difatti nutrite di risentimento sono anche quelle fantasie che provengono da
quelle che Dante ha fatto della sua sconfitta, qualcosa di superbo, di autoironico, ma intimamente
trionfale e di questo siamo sicuri: estremamente gratificante.
Nessuno come Dante, tagliato fuori dal terrificante e delittuoso conflitto e andirivieni tra Guelfi e
Ghibellini, Bianchi e Neri, e dagli innumerevoli negoziati, compromessi, trattative laceranti d’epoca
tra Papi, banchieri, imperatori, mercanti , monarchi e cardinali ha saputo costruirsi e
probabilmente anche godere di un piacere interiore o meglio, di una immaginazione onnipotente
che è nata vendicandosi artisticamente attraverso la fantasia dei propri nemici vincitori ,
seviziandoli e dilaniandoli , nonostante essi si fossero insediati dove si decidono i destini del
mondo.
Dante ha influenzato intere generazioni dall’Unità d’Italia e senza saperlo la sua lingua ci ha
cresciuto e ci ha resi solidali con la sua durezza e ferocia pacificamente ideologicizzata.
Siamo stati solidali con una sorta di cattiveria neutralizzata da valori morali, promossa e
legittimata da giudizi trascendenti, ma siccome era un’opera di fantasia capricciosa ecc. ecc. e
quindi inattendibile non ha fatto altro che procurarci degli atteggiamenti di meraviglia.
In questo modo Dante si è eretto nelle scuole a coscienza religiosa, morale, politica del Medioevo
al tramonto e alla fin fine, la sua capacità la sua capacità di odiare si è data un segno diverso grazie
al fatto che essa è stata risucchiata in cielo e si è sublimata.
In breve, il paradosso del poema di Dante consiste nel trattare come reale il prodotto della nostra
immaginazione e delle nostre tendenze all’apocalittica e potremmo osare di dire di più.
Forse il paradosso della Commedia risiede nel dare forma a tutto l’Universo o, se vogliamo essere
più incisivi, nel rappresentare tutta la realtà a eccezione di quella profana, ma prendendo a
modello di rappresentazione proprio quello che è profano.
In breve le vicende storiche che ci rendono così crudeli e feroci, verranno di volta in volta inserite e
scalate su una sorta di piano superiore, in un già scritto della sterminata profondità della
prescienza divina.
La teologia in questo modo dovrebbe sconfiggere la politica. Ancora di più, uccidere la stessa
storia: le vicende umane passano e muoiono; i popoli e gli imperi sono cose effimere e volubili; e
Dio che fa e disfa la storia. Per Dante tutto in breve, sta nel trovare la casella dove va a
nascondersi il libero arbitrio e Dante la trova.
Dante e Cavalcanti
Nell’ultimo decennio del ‘200; Dante già poeta un po’ trasognato della Vita Nuova inciampa in una
serie di vicende. Primo scopre la filosofia, conseguenzialmente le ambizioni politiche, gli incarichi
pubblici, la seduzione esercitata soprattutto dal primo dei suoi amici, grande poeta e filosofo
epicureo che non fa mistero di ateismo. Ciò lo distoglie dalla beata Beatrice.
Azzecca una serie di errori: il priorato, l’amicizia intellettuale e soprattutto scontrarsi con Bonifacio
VIII e infine si accoda ad armati forestieri per rientrare a Firenze. Gli andrà tutto male.
A questo punto fa rientrare la filosofia nei ranghi. Beatrice, con l’aiuto delle più influenti delle
donne del cielo e di Virgilio, precocemente cristianizzato, lo salva in extremis e viene preso prima
di essere sommerso da quei gorghi che si formano nella foce dei fiumi in piena, fuori di metafora,
era in pericolo di vita fisica e interiore.
A questo punto devo dire a uso degli studenti, che non è possibile non fare simultanei riferimenti
nella Commedia a Dante in carne ed ossa e a Dante personaggio della commedia, al Dante
narratore e al Dante narrato. Il narratore e il narrato si fondono e, sempre nella Commedia, si
risucchiano uno nell’altro – ciascuno in funzione dell’altro -. In questo modo Dante diventa una
cosa, il suo stile diventa lingua, quella che noi italiani parliamo da quando è stata scritta la
Commedia ma sempre nella Commedia questa identità tra personaggio che dice Io e il narratore
che lo racconta non emerge subito.
È una conquista che chiede tempo. Soltanto nel momento in cui Dante smette di diventare il
portatore di un genere umano in disfacimento e dichiara la sua identità, diventa il Dante che noi
diciamo dimenticandosi di essere Dante Alighieri. Però per fare ciò deve superare due grossi e
pericolosi scogli, figure incombenti: una emerge in piena luce, anche se illuminata da bagliori di
fiamme, Farinata; l’altra più incisiva con una rimozione stratificata e consegnata poi al nulla, quella
di Guido Cavalcanti, l’amico abbandonato e rimosso quasi metaforicamente sul ciglio della strada
che porta al Paradiso.
Nell’Inferno come ogni lettore attento capisce, ci sono due diversi inizi del poema: il primo è
quello classico, il secondo dalle porte della città di Dite. Noi ignoriamo, oppure fantastichiamo su
quale sogno colpevole abbia trascinato Dante nella selva, e per quale ragione egli già poeta
benemerito nella Vita Nuova si è perso.
Da quali forze avverse è combattuto, Dante e lo dice lui stesso, è colpevole di superbia
intellettuale che tradotta in termini moderni è una libido di intelligenza e conoscenza estranea e
differente ai misteri e ai divieti di Dio (Ulisse) che vuole spiegare il mondo attraverso le cause
naturali con le sue sole forze –l’ebbrezza della ragione – (leggi Guido Cavalcanti).
Dante ha chiesto come spesso sottolineato da critici soprattutto di marca anglosassone, troppo
alla filosofia. Ciò ci viene raccontato nella Commedia in due momenti: nel proemio dell’Inferno e
nel Paradiso terrestre attraverso i rimproveri di Beatrice, non a caso l’inizio è l’epilogo
momentaneo sulla cima del Purgatorio.
Nell’Eden il processo alla superbia intellettuale di Dante si svolge attraverso un robusto
razionalismo mascherato da simboli e cerimonie.
La paura è passata ma apparentemente, perché nei canti che fungono da proemio alla Commedia
si tace la natura della colpa mentre viene messa sotto gli occhi del lettore lo smarrimento e la
paura in atto.
La paura di abbandonare le certezze del mondo tangibile. È strano che la Commedia, un poema
dedicato tutto all’aldilà dia forti brividi di sovrannaturale solo all’inizio dove è visitato dal
sovrannaturale, angosciato da incubi, fantasmi, belve che vengono dal nulla e vi ritornano afflitto
da mali e malinconie che lo rendono quasi irriconoscibile. Poi dopo vari passaggi, incontri, rapporti
con vecchie conoscenze del repertorio mitologico provenienti in gran parte dall’Ade di Virgilio,
Dante forza i toni e la Commedia diventa quasi un romanzo popolare, appuntate con uno sfondo
comunale-municipale, Firenze e i Guelfi.
Però Dante quando si troverà di fronte alla città di Dite e alle sue mura incomincia a diventare
altro, incomincia a trasportare come mai nessuno aveva fatto nella Commedia, la vita reale.
Man mano che si scende giù nella pianura senza confine disseminata da tombe, i luoghi e gli
elementi che emergono sono molto reali e prima dell’Inferno e poi più avanti nel Purgatorio
emerge l’idrografia dei paesaggi del nostro paese, e delle zone percorse da Dante. (Lo scenario del
Paradiso non è un luogo reale ma una sorta di coreografia, luci, stelle e virtualità).
Nella Commedia Dante aprirà sulla natura un sacco di finestre, emergeranno spettacoli dolci ma
fugaci, immagini che durano un attimo e si perdono nel niente, spazi, il mare, il giorno che muore,
un vero immutabile e irrappresentabile che è il paragone della vita, il castigo o il perdono di Dio.
Mi sto accorgendo che quanto più si parla di Dante, più ci si perde in parentesi e progressioni,
torniamo alla città di Dite, dopo il sentiero che costeggia le mura si entra in un punto dove sono
sepolti coloro che negano che l’anima sia immortale. Emerge Farinata, capoparte ghibellino, nato
con il comando e le armi nel sangue. Vicinio a lui striscia l’ombra di un altro fiorentino, il ricco
guelfo Cavalcante Cavalcanti, è il padre dell’amico e fraterno modello poetico di Dante,
dell’intellettuale filosofo ispirato dall’amore che è solo una turba dei sensi, e dal sospetto che Dio
non esiste. Come il figlio, anche il Dante era turbato da questa mentalità –professava l’incredulitàqui ci sono due miti: Farinata condottiero invincibile e indirettamente quel poeta, ricco, bello,
tenebroso, splenetico, malinconico, snob; tutto ciò che a Dante non è stato dato.
A questo punto dobbiamo crederci: che ne è di Guido Cavalcanti? Vivo? Morto? Dannato?
La morte dell’amico, esiliato da Dante dopo la zuffa di San Giovanni nell’agosto del 1300 permette
al nostro poeta di “giocare” sopra un equilibrio: nella finzione della Commedia, il viaggio
dell’oltretomba si colloca nella primavera dello stesso anno e alle ansiose domande del padre sul
destino del figlio, e alla sua sorpresa nel vedere che i due amici non sono insieme, Dante risponde
usando un verbo al passato.
Guido non è con lui perché ebbe forse a disdegno la fede. Ebbe? Dante risponde in maniera vaga
ma la forma di cui sono afflitti i dannati che possono leggere solo nel futuro, insinua in Cavalcanti il
sospetto anzi la certezza che il figlio è morto. Che ne consegue? Ne consegue oggettivamente che
Cavalcanti nella Commedia non c’è. Nominare, evocare e cancellare un personaggio così corposo
nella vita di Dante e farlo poi sparire nel nulla può essere uno stratagemma che nasconde grosse
prese di posizione. Il grande amico non si trova ne in terra ne in cielo, né all’Inferno e né al
Purgatorio, non è vivo ne morto, in breve non c’è.
Dante può finalmente scendere nell’Inferno, scalare il monte del Purgatorio e regolare nell’Eden i
conti con la donna simbolo del poema cavalcanti ano e si può far festeggiare nel Paradiso.
Inoltre ha ridimensionato la filosofia, l’ha inserita nell’alveo della teologia, ha rinunciato a
speculare su proposizioni inebrianti e sacrileghe, si lascerà in breve ingoiare dalla sua opera e
trasmetterà i suoi combattimenti frustrati e le sue sconfitte in un poema sacro trasformandole
nell’ossatura principale.
Il viaggio di Dante verso il Paradiso esigeva preliminarmente due leggende intime – un sacrificio
che lui ha compiuto -, in breve l’edificio della Commedia si forma per gran parte sulla rimozione
del più gran poeta italiano prima di lui, il suo vecchio amico Cavalcanti.
Note su Dante profeta
Quando oggi una persona si sorprende di pensare alla Commedia, non può non concentrare la sua
attenzione sul senso di profezia che emana in essa.
Le profezie di Dante sono le immagini come le rivelazioni concentrate in tempi brevissimi di quello
che è in realtà si è snocciolato lungo una vita occupando un bel pezzo di storia, in breve possiamo
dire che la Commedia è come un monumento innalzato e dedicato e proseguito in gran parte per
supportare la capacità che ha Dante di provare rancore. La capacità di provare rancore nasce in
Dante da frustrazione politica, o, più semplicemente dalla condanna di parlare in eterno
inascoltato.
Ma ciò lui è riuscito talmente a sublimarlo che tra le tante bufere e le improvvise schiarite
trascendenti, è difficile riconoscerlo perché esso è nucleo forse centrale ma anche creativo della
sua personalità e della radice della sua esperienza artistica.
Il rancore che è materiale e strumento d’arte privilegiato, Dante non lo impiega solo nell’Inferno,
esso è visibile nel purgatorio, si nasconde nel Paradiso ma c’è anche là.
Questo rancore emerge indubbiamente dal fatto che Dante era un misto di passione politica fusa
sempre a volontà di sapere, e volontà di sapere sempre sul punto di trasfigurarsi in mistica ascesa,
egli non era a casa in nessun luogo se non nei propri grandiosi, nostalgici, ma soprattutto
irrealizzabili disegni, e ai ferri corti col suo tempo e con i suoi idoli.
Dante aveva comunque la certezza del proprio valore “Lo grandi sia – dell’eccellenze” e questo
non lo sopisce certamente in Paradiso , Dante inoltre nel suo pensiero evidenzia per tanto una
forte carica di opposizione, anzi di ribellione, questo emerge soprattutto nella sua dimensione
religiosa che diventa una critica feroce alle sconcertanti manifestazioni del temporalismo
ecclesiastico della sua età, e spesso suoi esegeti hanno pensato che quella opposizione potesse, in
qualche modo, colorarsi di eresia.
Dobbiamo aggiungere però che Dante non fu un eretico, almeno nell’accezione teologica
canonistica del termine, che sconcerta come vedremo, e non fu neanche tanto favorevole ai
movimenti ereticali specifici.
Possiamo , piuttosto, pensare che la religiosità di Dante e la sua aderenza profonda alle
espressioni della tradizione cristiana fossero per così dire venate da quelle esigenze evangeliche
ed escatologioche che ispirarono le istanze di fondo e che queste istanze, riscattate dal
francescanesimo in seno all’ortodossia, prendessero corpo negli ideali ispiratori che messaggi
religiosi presenti nella divina commedia venivano lasciati alle generazioni future, quasi messaggi
dell’età medievale al suo tramonto.
Tutto inizia con l’elogio di Francesco d’Assisi, esso campeggia in un intreccio di canti, in cui un
inimitabile ed unico gioco di simmetrie, similitudini, comparazioni, da vita ad una grande sinfonia,
che non ha eguali a parer nostro neppure nei canti conclusivi della Commedia.
In questi canti (dal X al XIV circa), Dante tratteggia la summa della sua idea di cattolicità, come
concordia di opposti, come comunità di destino, non di provenienza, come una difficile armonia
tra parti distinte nel carisma, ma per questa distinzione unite nel fine ultimo.
In perfetta sintonia con l’idea dell’Impero che vale solo se formato da ex-Nazioni, il contrario, cioè,
di un’imposizione autoritaria, in questo modo il coro dei sapienti cattolici che parte da Alberto
Magno e finisce a Tommaso d’Aquino e ad altri esprime quella grande polifonia che è la musica
che percorre tutto il Paradiso, che trionfa sui rumori infernali, ma anche sulle nostalgiche note
trovadoriche rievocate da Casella sulla spiaggia del Purgatorio.
Inserita, nella formidabile costruzione teologica-filosofica-storica del cielo e del sole, dimora degli
spiriti sapienti, troviamo quella che classicamente viene definita l’Apoteosi di Francesco D’Assisi.
Ma in questa fase non è il povero che si esalta in sapiente, ma il sapiente che riconosce come vera,
la rivalsa sapienza, la cosiddetta follia di Francesco d’Assisi.
Tommaso d’Aquino si inchina a ciò ridando voce alle diffidenze profonde - all’interno ancora
dell’ordine francescano – nei confronti di ogni forma di brama e di cupidigia di scienza.
Ma Dante va ancora oltre, cerca di dimostrare il possibile passaggio che il discorso più arduo,
quello teologico può fare, rivelando la propria natura senza tradirsi.
E questa è la vicenda essenziale – ma non solo -, o meglio ancora l’architrave dei canti X – XIV.
Un gioco di specchi mai tentato prima da un intellettuale fine medioevo tra Tommaso e
Bonaventura, tra la dottrina teologico-giuridica dei domenicani e la caritas francescana, certo nel
suo elogio di Domenico, che cavallerescamente risponde a quello che San Tommaso aveva
tributato a Francesco, scambio che rappresenta il venir meno –almeno Dante così sperava- ad
antiche e profondissime contese.
A sua volta Bonaventura vuole mostrare, che nessuna contraddizione esiste tra la sete ardente e la
sete di sapere. Questo primato è reso evidente dal fatto che sia Tommaso a fare le lodi, Tommaso
è il primo tra le due guide delle corone dei beati, che come donne in festa danzanti salutano
Dante.
Egli apre e chiude il grandioso episodio. E sarà lui a rispondere alle domande di Dante. Ed è la
corona che egli guida la più eccellente; basterebbe a dimostrare che all’interno di esse c’è l’anima
di Salomone ma nonostante Tommaso – Dante – gli dedica ben 44 versi, anche se è breve c’è
un’apparizione assai densa: quella di Gioacchino da Fiore.
Prima di riprendere la questione della presenza di Gioacchino da Fiore nella rosa dei beati bisogna
fare una piccola premessa, Dante e la sua visione poetica, hanno delle radici nel suo animo
abbastanza stratificate, la parola profezia nell’anima di Dante si intreccia con la parola riforma :
questa parola usata di solito a proposito di movimenti religiosi ora eretici ora ai margini delle
eresie , sempre da guardare con sospetto è stata detta spesso per indicare un atteggiamento di
benevolenza da parte di Dante verso quelle sette riformatrici medievali che hanno precorso il
protestantesimo. Questo ha suscitato un vespaio di polemiche sull’ortodossia o la non ortodossia
di Dante, sull’infallibilità papale e sulla sua fedeltà alle dottrine tomistiche. Però penso che il
pensiero di Dante va cercato oltre queste preoccupazioni di schieramento.
La Necessità di un’età nuova era stata predicata non solo dai catari, dai patarini, dagli albigesi,
dagli apostolici, ma anche dai gioachimiti e dai suoi seguaci dell’Evangelo Eterno, dagli spirituali e
dai fraticelli presenti nell’ordine francescano all’inizio, questi movimenti non hanno mai
direttamente sfociato nelle eresie.
Nel convento di Santa Croce a Firenze fra il 1287 e il 1289, prima che Dante toccasse la soglia della
“gioventù”, aveva insegnato il capo degli spirituali Pietro Giovanni Olivo che vi aveva avuto
discepolo Ubertino da Casale. Non sappiamo se Dante conobbe le postille del primo sull’Apocalisse
e l’Arbor Vitae del secondo, è interessante cercare di capire se lo spirito e le influenze gioachimite
dei due, molto diffuse tra i francescani, impregnassero la Commedia, e concetti, espressioni
d’immagini, frequenti nelle opere dei due frati ricorrono pure nelle parole e negli scritti di Dante.
Una cosa è evidente che, dagli ambienti gioachimiti francescani deriva a lui l’idea che, dopo la
donazione di Costantino, la chiesa, fu dominata dall’ingordigia dei beni terreni e dalla simonia
trasformandosi poi nel mostro dell’Apocalisse, sul quale siede la famosa grande meretrice che
tresca con i potenti della Terra.
La decadenza della Chiesa era anche per Dante la causa forse principale dei disordini dell’umanità,
“la Cagion che l’mondo ha fatto reo” sicchè “Tutto diserto d’ogni vertute … e di malizia gravido e
coverto “. I pastori della chiesa, erano presi da un’ingordigia di beni materiali, questa ingordigia
porta anche alla degenerazione degli ordini monastici e persino i due ordini mendicanti che la
Provvidenza aveva suscitato a sostegno della Chiesa portandola a una china pericolosa.
Così secondo Dante “Il Pastor che procede” si dice che sia San Francesco e dovrebbe con la parola
per esempio insegnare la separazione dai beni terreni, portare a distinguere quel che va tenuto
distinto, separare la spiritualità da condotta, cattivi esempi.
Una cosa è certa, Dante e Ubertino da Casale hanno in comune l’odio per Bonifacio VIII, il principe
dei nuovi farisei, colui che aveva scatenato la bestia dell’Apocalisse che della Chiesa aveva fatto
sangue e fetore.
Infine comune a Dante, a Ubertino da Casale e all’Olivo, è la certezza probabilmente del prossimo
avvento d’un messo di Dio che ricondurrà la Chiesa alla povertà evangelica.
Siccome questa aspettativa era , bene o male, collegata alle dottrine e alle previsione di
Gioacchino da Fiore , a Dante come ad altri, il calabrese Abate apparirà dotato di spirito profetico
mentre nel Cielo del Sole gli verrà indicato tra i grandi spiriti che con la luce della loro sapienza –
cristiana- illuminarono il mondo, dal francescano Bonaventura che in terra aveva giudicato
Gioacchino da Fiore “un povero ignorante” e condannato e aveva combattuto e perseguitato il
diffondersi delle dottrine gioachimite negli ordini minori con intelligenza e con implacabile
coerenza.
Però l’idea che Dante accarezzava di un rinnovamento sia dell’umanità e la funzione che egli
attribuiva a colui che mandato da Dio ebbe venuto a sistemare le cose erano anche diverse da
quelle dei gioachimiti. Questi, predicando il ritorno alla povertà evangelica, e rinunciando alle cose
mondane, preannunziavano un ritorno a un comunismo monastico e riducevano la vita sulla Terra
semplicemente a un’attesa dell’imminente fine del mondo.
Dante però aveva studiato troppo Aristotele e Virgilio per svalutare fino in fondo la vita terra.
Aveva lottato, aveva amato, aveva sofferto per dimenticare totalmente anche nella luce dei cieli
“L’aiuola che ci fa tanto feroci” – Firenze.
L’uomo – diceva Dante – è creato per vivere nell’Empireo.
Ma all’Empireo nessuno può salire se non dopo aver fatto la sua carovana sulla Terra nello spazio
di tempo che Dio ha dato, è chiaro che la vita sulla Terra implica il rapporto tra gli uomini di
cercare di soddisfare bisogni personali e collettivi – prima attraverso l’organizzazione familiare, poi
conservare la specie e poi si passa alla politica distinguendo tra mansioni, uffici, capacità diverse e
diverse attitudini secondo il “Fondamento che Natura pone”. E siccome nell’uomo la cupidigia la
fa da padrona, ci devono essere leggi che la contengano ma soprattutto un potere politico che le
faccia e punisca chi le violi.
Dunque per evitare che l’avidità e cupidigia divampano violente tra città e città, tra regni e regni,
spezzando la civilità umana, bisogna far si che la tra i popoli ci sia una collaborazione feconda.
Prima per Dante bisogna che ci sia la monarchia del popolo romano, posta da Dio come rimedio e
come preparazione all’avvento del Cristo – scrive Dante nel convivio.
Per Dante probabilmente, non bastava a rimettere il mondo sulla buona strada semplicemente
una riforma della Chiesa nel senso indicato da Ubertino da Casale e probabilmente in generale da
Gioacchino da Fiori; occorreva restaurare l’autorità imperiale che teneva a freno le città e i regni,
doveva guidare l’umanità a quella beatitudine in questa vita di cui sempre Dante parla nella
Monarchia.
Questo ideale di restaurazione politica ai gioachimiti e agli spirituali era estraneo. La riforma
annunciata da Dante è allo stesso tempo politica e religiosa, tutti i mali di cui soffriva l’umanità,
traggono per Dante origine nella donazione di Costantino spesso presente nei suoi libri, nei suoi
scritti e nelle sue invettive di tipo profetico.
Questo elemento nel Paradiso è molto presente: la donazione di Costantino, il quale volse l’aquila
“contro al corso del ciel” ha nociuto all’Impero e alla Chiesa, ed è la causa di tutti i mali che
affliggono la terra, e “dell’esser la pianta edenica dirubata una seconda volta”.
In breve per Dante la coscienza ha una missione affidatagli per l’instaurazione del nuovo ordine di
cose, perché senza la coscienza di una missione in favore del mondo che vive nel male, non solo
non avrebbero senso le esortazioni di Beatrice, di San Pietro, di Cacciaguida a rivelare tutto quello
che Dante ha visto ma la visione stessa resterebbe incomprensibile.
Questo emerge dal X canto in poi fino al XIII ma non solo. Quando Tommaso d’Aquino tesse le lodi
dei francescani risponde alle domande di Dante, nella sua corona c’è ad esempio l’anima di
Salomone e lì appare anche Gioacchino da Fiori.
Il canto X si apre oltre al reiterato appello al lettore porta poi al cielo, quello del sole, assegnato
agli spiriti sapienti dove i viaggiatori vengono circondati da una corona di luce che ruota intorno a
loro e il primo che inizia a parlare è Tommaso d’Aquino, caposcuola della filosofia scolastica e in
chiave cristiana il più illustre rappresentante dell’aristotelismo moderato.
Egli tra l’altro tesse le lodi di Francesco D’Assisi, egli apre e chiude l’episodio e inizia a rispondere
alle domande di Dante.
Tommaso d’Aquino presenta la corona di spiriti sapienti di cui è il capostipite, fino all’apparizione
di Gioacchino da Fiori dove subentra poi Bonaventura.
Vedremo come, all’elogio di San Francesco, quello di San Domenico fa seguito in termini tali da
indicare puntualmente le eccellenze del primo.
Non vi è bisogno di salire all’Empireo dove San Francesco viene esaltato insieme a San Benedetto e
a Sant’Agostino per comprendere quando l’autentica novità della spiritualità per Dante sia
rappresentata dall’Homo Novus che è San Francesco e da quello che il suo ordine sembrava
almeno promettere, lo dimostrano le stesse parole di San Tommaso.
La vicenda della regola francescana aveva destato numerose preoccupazioni all’interno della
gerarchia della Chiesa, preoccupazioni che l’ordine domenicano aveva suscitato.
Della regola francescana, parla Dante, con grande precisione storica mentre dedica un cenno
fugace ai domenicani.
In breve come ci hanno insegnato a vede generazioni di medievalisti, la spiritualità francescana è
anima della commedia. Ma è un francescanesimo che non si confonde con l’anelito gioachinita
verso l’“Ecclesia Spiritualis” ne si separa dall’altra forma della predicazione, quella domenicana,
Ma il Francescanesimo è ancora influenzato dall’escatologia dell’abate Calabrese però il poeta non
mette in evidenza gli allegorismi e i simbolismi che conteneva.
Il Dante profeta o meglio ancora le sue profezie si muovono da una realistica denuncia dei mali del
tempo, dalla comprensione delle cause lontane e dalla speranza di rimedio storicamentepoliticamente possibile pur se realizzabili solo provvidenzialmente.
Così la stessa predicazione di San Francesco appare refrattaria ad ogni utopicità e saldamente
radicata nella esemplarità della vita di Cristo.
In questo bisogna vedere l’influenza di san Bonaventura, generale dell’ordine che capeggia la
seconda corona degli spiriti sapienti dal canto XI in poi.
Lo spirito profetico doveva essere accolto e Francesco esaltato come la sua massima espressione.
E’ questo che i domenicani per voce di San Tommaso che devono riconoscere, poiché anche alla
figura di Domenico ha un suo rilievo; così l’aveva interpretata Ubertino da Casale, che Dante, per
bocca di Bonaventura, critica come rappresentante degli spirituali.
E la storia non narra forse che proprio San Domenico volesse fare un ordine solo dei due greggi?
Per lo spirito delle cantiche, ogni inimicizia deve cessare tra spirito profetico e sapienza teologica.
Ma come il francescanesimo più puro accoglie ora in se quest’ultima, così essa dovrà riconoscere
la verità del sillogismo, saper discernere, cioè, i mezzi logici del ragionamento che sono sempre
necessari, dal loro uso improprio consistente nel rivolgerlo contro la Rivelazione o addirittura
negarla. Questo spiega la presenza di Sigieri.
Quest’ultimo, grande professore all’Università di Parigi Dante sottolinea l’eroismo intellettuale con
cui ricercò la verità per strade rischiose che gli suscitarono contro inimicizie (“Silogizzò invidiosi
veri”), andando così a fondo in questa ricerca da desiderare prossima la morte per scoprire
finalmente l’unica verità “’N pensieri-gravi a morir li parve venir tardo”.
Quanto mai significativo questo riconoscimento, perché Dante lo affida alla voce di San Tommaso,
in Terra avversario implacabile di Sigieri e della sua teoria della “Doppia verità”, quella della
scienza e quella della fede.
Tanto più importante, ora, questo onore delle armi reso al seguace delle teorie di Averroè, grande
filosofo arabo che è alle origine della interpretazioni meno ortodosse della filosofia aristotelica.
Tommaso a conclusione della prima corona lo illustra a Bonaventura con parole al quando
enigmatiche, Bonaventura a sua volta era ancora più strenuamente nemico di Sigieri.
Tommaso sembra ri-pensare il razionalismo di Sigieri e prega Bonaventura di riconoscerlo in
questa veste.
Bonaventura dal canto suo fa altrettanto con Gioacchino da Fiori le cui opere per Tommaso erano
segno di grande vanità e era nota la durezza della lotta di Bonaventura contro le correnti
gioachimite che proliferavano nell’ordine francescano.
E. Gilson interpreta in questo senso la presenza di Sigieri nel Paradiso: la sua, dice, è una filosofia
lontana da ogni preoccupazione di accordo con la teologia e perciò non sua nemica. Ma resta
straordinario e inquietante come Dante abbia accolto in Paradiso questa filosofia, che non è
comunque la sua, e ancora più come la faccia accogliere da Bonaventura.
Però Dante rimette insieme nel quadro di un’escatologica pace cattolica.
Tommaso e Bonaventura insieme, operano un’operazione e una fusione delle rispettive tradizioni
senza escludere nessuno dei loro momenti più audaci e pericolosi ma rivedendoli in nome di un
inizio nuovo. Dante quasi profeticamente e arbitrariamente costringe i due pezzi da 90 del
pensiero cattolico medievale a una sorta di duplice conversione (Qualcosa di infinitamente più
arduo e intrecciato e complesso del ricordare ai domenicani il loro essere mendicanti, e ai
francescani il loro essere predicatori).
Essi devono accogliere nelle proprie file colui che era stato il nemico “interno” senza dubbio più
insidioso e, farne un ospite di spiccato rilievo, anello ultimo della mano sinistra della Corona e,
ricnoscere il valore del nemico esterno, riconoscerlo come fatto essenziale di quello che per Dante
era il grande disegno della Provvidenza e dell’economia salvifica.
Dante ha l’audacia intellettuale mascherata da grane creazione poetica di far fare al
francescanesimo una torsione vera e propria che va ben oltre lo stesso insegnamento di
Bonaventura, è chiaro questo che è una creazione dantesca, ma la stessa cosa vale per l’altra
dottrina di Dante: la sua visione del Tomismo.
Anche in questa fase, quello che conta è la prospettiva in base alla quale avviene l’incontro, mette
al centro il cuore che ascolta, che non giudica ma accoglie, centralizza la predicazione che non è
orgoglio ma una capacità inesauribile di perdono.
È, un riferimento a quella regola, non costituita altro che dalla vita e dalle parole di San Francesco
secondo la forma del Santo Vangelo, come era scritto nel Testamento, che Tommaso accede.
La presenza dominante di San Tommaso nell’incontro sotto il segno del Sole, incontro composto
dal primato di San Francesco significa che sono essenziali lo studio di tutte le Regine del Convivio:
arti, filosofia, teologia con le quali la regola mistica di Assisi si deve confrontare se non vuole
essere separata astrattamente dal mondo e in questo Dante centralizza quell’elemento legato al
concetto di lavoro che Francesco raccomanda con forza come cura dell’ozio e dell’accidia , ma
cosa straordinaria che diventa anche lavoro quel sillogizzare nel Vico degli Strani quella fatica,
quella della filosofia come indagine puramente razionale, perchè anche tramite lei si può giungere
a dare “Luce e terna”.
Note aggiuntive sul Paradiso e sul X canto
All’interno della Commedia si è sempre profilato un cammino drammatico e coerente, dalla selva
del peccato all’” orologio divino” del Paradiso, nel cui ingranaggio Dante si muove armonicamente
come una semplice “rota”.
Dal buio dell’Inferno alla luce del Paradiso, sembra quasi un percorso iniziato e che in altri tempi
ha indotto a interpretazioni fascinose, suggestive, però fuorvianti forse di Dante e della
Commedia. Basti pensare a Pascoli, a Rossetti, a Renè Guenon e giù giù fino a Dan Brown.
Non è solo un itinerario penitenziale, né un’ascesi con purificazione del peccatore. Il Paradiso è
gremito di santi ma Dante per quanto li senta vicini mantiene sempre un atteggiamento di lucidità
razionale senza cadere mai in abbandoni mistici totali.
Ciò lo intuì bene Pirandello, che in una serie di corsi che tenne al Magistero di Roma, così postillò
riguardo al Paradiso: “Qui bisogna seguire e interpretare passo-passo i mezzi espressivi del
poeta, perché per intendere ci mancano i termini di paragone. Non così nell’Inferno e nel
Purgatorio … “
Non sarà inutile ricordare cominciando dallo sviluppo ascensionale dell’opposizione tra buio e luce
partendo dall’Inferno.
Nell’Inferno le immagini di luce sono rare, a volte evocate per mitigare la violenza drammatica del
paesaggio.
Nel Purgatorio la situazione cambia e entra in gioco un passaggio di tipo terrestre dominato da
registri di luminosità tenui, già dal I Canto per esempio “dolce color d’oriental zaffiro – rider
l’oriente – l’alba vinceva l’ora mattutina – “.
Invece nel Paradiso accanto a supreme geometrie, emerge nella terza cantica una visione assoluta
ricca di elementi metamorfici dove la luce e le sue conseguenze la fanno da padrona.
In breve il Paradiso è l’approdo di una ricerca che ha occupato l’intera vita di Dante ed è una
verifica, una conquista, una conferma, un appagamento delle sue lotte e speranze e delle sue
conquiste più sperate che effettivamente realizzate.
Pensiamo con gli occhi dell’immaginazione che la quiete dell’ultimo soggiorno a Ravenna abbia
comportato non poco a questa capacità di creare un consuntivo finale, Ravenna come porto
ultimo, contrapposta a Bologna più tempestosa cui voleva chiamarlo Giovanni del Virgilio per
l’incoronazione poetica.
Ma era il Paradiso stesso la sua consacrazione definitiva, purtroppo di questa fase abbiamo avuto
solo testimoni silenziosi, figli e amici della cerchia romagnola.
Trattando il Paradiso si è consapevoli di andare contro a una tradizione critica molto compatta,
come De Sanctis e anche scolastica che predilige l’Inferno e in certi limiti anche il Purgatorio, a
questa portata di numerose disgressioni dottrinarie, poi la quasi assenza di paesaggi di tipo
terrestre e schemi narrativi poco memorizzabili e la mancanza di incontri a volte antagonistici tra il
protagonista e i vari personaggi.
In effetti, ho sempre pensato che l’unica occasione mancata sia stata quella di un possibile
colloquio con Federico II di Svevia.
Nel Paradiso, invece, le occasioni sarebbero tante: persino San Francesco non compare come
personaggio diretto ma all’interno di un insieme di canti epici e drammatici ma che non ne fanno
un panegirico.
Probabilmente Dante non ha voluto impostare la cantica sullo schema precedente di sconti, solo
Cacciaguida è l’eccezione che conferma la regola.
Nel Paradiso abbonda una forte ridondanza di scrittura. Per dirla alla Contini, una via di mezzo tra
il concetto fisico e quello informativo ovvero delle visioni sublimi da spiegare con un senso
opprimente del limite.
Dante man mano che si muove nelle tre cantiche assume dei termini un poco diversi, ad esempio
nell’Inferno Caronte è un “semplice vecchio “, nel Purgatorio Catone è un “semplice veglio
provenzaleggiante “, San Bernardo nel Paradiso diventa il “sene”.
Per non parlare delle immagini dell’Empireo che culminano nel “miro gulgeo” e negli “umbriferi
prefazi”.
O, se consideriamo nel XXXIII Canto, l’icona della Trinità: “legato con amore in volume, - ciò che
per Universo si squaderna: - sustanze e accidenti e lor costumi – quasi conflati insieme … “
Con questo “conflati “, il topos di Dio come libro si sviluppa in una dimensione conoscitiva come
suprema metafora della creazione, soffio o alito che fonde insieme in maniera unica tutti gli
elementi dell’Universo, sono sommarie queste ragioni ma sono poche delle moltissime per le quali
non si dovrebbe rinunciare a leggere il Paradiso, anche nella scuola.
Rispetto alle cantiche che lo hanno preceduto, Dante cresce nello stile, nella sintassi ecc. ecc. e nel
Paradiso diventa un artefice e un poeta di grande caratura, e io sarei per ridimensionare tutta la
vecchia lettura romantica che privilegia, con grande onestà, la drammaticità dell’Inferno.
Inoltre Dante nel paradiso ha un rapporto con gli autori molto autonomo, basti vedere al caso di
San Francesco dove si sostituisce alla cosiddetta esegesi secolare che parte da Bonaventura e
finisce a Tommaso da Celano, dove San Francesco è sottratto alla umiltà delle fonti francescane
per essere inserito in un elemento di regalità : non sarà più un caso che Dante rappresenti la Verna
, il mondo dove Francesco ricevette le stigmate , come crudo sasso tra Tevere e Arno; mentre le
fonti francescane parlano di luogo ameno , quasi un Eden.
Sono piccoli ritocchi ma in questo modo Dante, trasforma il personaggio in un autentico soggetto
da epos cavalleresco, ne fa in breve un eroe, dal santo della povertà lo converte in magnanimo,
non più un umile frate ma un nobile paladino.
Dante nella terza cantica padroneggia in maniera molto più alta la letteratura latina e il suo
linguaggio e penso alla frequentazione di Seneca e ai Fermenti Segreti di Boezio.
Se uno si ferma a riflettere al cammino fatto da Dante che partendo da figure indubbiamente
affascinanti ma costruite in maniera libresca, ad esempio la Processione Sacra dell’Eden per
arrivare a certi scorci mitologici nel Paradiso, si ha la misura di una maturazione e di un progresso
radicale.
Ad esempio: “quale ne’pleniluni sereni – trivia ride tra le ninfee etterne “; o “così al vento ne le
foglie levi – si perdea la sentenza di Sibilla “oppure quando leggiamo “un punto solo m’è maggior
letargo – che i venticinque secoli all’impresa che fè nettuno a mirar l’ombra dardo “.
Siamo ai vertici di una dimensione di scrittura e di testo che padroneggia eventuali fonti in una
maniera inimitabile, diceva un grande poeta russo Mandelstan che:” Il Paradiso era un grande
cristallo dove ogni elemento corrisponde agli altri, tutti i soggetti a prodigiose ma esattissime
leggi matematica: un cristallo percorso da una misteriosa energia cui egli non sapeva dare un
nome.”
Modestamente per me, quest’energia si identifica col mito che sta dietro all’invenzione stesso
della commedia, quello della suprema metamorfosi del Cosmo e dell’Uomo che si fondono
insieme e con questo ritorniamo sempre all’elemento centrale, secondo me, presente in Dante: al
Paradiso come compimento di figure precedenti. L’opera di Dante in breve è un supremo “work in
progress” costruito per successive approssimazioni fino all’approdo onnicomprensivo del Paradiso.
È un tratto ormai acquisito, anche nei manuali più moderni, ad esempio la linea ascendente die
canti politici, i sesti: da Ciacco fino a Sordello e fino a Giustiniano per l’Impero con una potenza
anche nella struttura.
Nel Paradiso dominato dalla voce di Giustiniano, celebra attraverso l’imperatore la sacralità
dell’Impero e del Papato, della loro autonomia e deplora sia la strumentalizzazione, sia i contrasti
rispetto “al sacrosanto segno dell’aquila”.
È una sequenza questa neanche paragonabile alla profezia di Ciacco e nemmeno quella invettiva
all’Italia posta dall’autore , questo significa che il vero protagonista è quell’epos romano che il
segno dell’aquila che in un disegno di lunga durata passa da un punto all’altro per dimostrare il
governo tutto della provvidenza divina oppure in finis possiamo menzionare un altro itinerario
parallelo ,questa volta più autobiografico, che unisce addirittura i canti XVI : ma la sanzione contro
Firenze pronunciata dal protagonista riconcerto con i tre notabili sodomiti : Guido Guerra , Aldo
Brandi e Rusticucci per passare poi alla requisitoria di Marco Lombardo , uomo di corte e alter-ego
di Dante contro la corruzione d’Italia e della Chiesa al compimento del canto di Cacciaguida nel
Paradiso , il quale da voce alla malinconia dell’autore nel parlare , partendo dalla decadenza di
Firenze e dell’Italia fino a una sorta di cosmica tragedia sulla lenta morte delle genti e delle città :
“Se tu riguardi Luni e Orbisaglia – come son ite e come se ne vanno – di retro ad esse Chiusi e
Sinigaglia , - udir come le schiatte si disfanno non ti parrà nova cosa ne forte- posce che le città
di termine hanno .”.
Dunque tutti i presagi della Commedia si completano nella terza cantica , in breve Dante anticipa
quello che Goethe definirà lo “streben” dell’uomo , quel suo tendere irriducibile verso l’alto , a
superare se stesso oppure l’elevazione dell’uomo dal piano bestiale a quello divino che passa
attraverso l’età prima del canto di Ulisse , “ fatti non foste a viver come bruti ecc. ecc. “ , al
discorso di Marco Lombardo sulla fragilità dell’anima umana nel Purgatorio e sempre nel
Purgatorio le riflessioni di Stazio sulla generazione dell’uomo con un approdo finale accanto a
Beatrice nel Paradiso.
Nel canto X Dante entra per così dire nella zona alta del Paradiso dove le inclinazioni naturali
attribuite al Sole, a Marte, a Giove e a Saturno costruiscono la specie di santità che fu propria nella
vita dei beati che là si devono incontrare. Questi astri sono le quattro virtù cardinali: sapienza,
virtù guerriera per Marte, per Giove la Giustizia, per Saturno ascesi e contemplazione.
Nel cielo del Sole dove Dante entra rapidamente sono presenti gli spiriti sapienti che hanno
dedicato la loro vita allo studio e conseguenzialmente alla ricerca della verità nell’ambito delle
scienze divine ma anche di quelle umane (diritto, storia, logica, grammatica); si trovano qui
rappresentanti della sapienza “pratica” come il Re Salomone, due profeti ecc.
In questa parte del Paradiso si ripresenta, un insieme di spiriti grandi simili a quelli del Limbo.
Lì nel castello del Limbo attorno ad Aristotele, come si sa c’erano colo che cercarono la verità
senza il lume della fede solo con l’umana ragione “piccol fuoco”, invece nel Paradiso quelli che si
dedicarono alla stessa opera sono illuminati da una luce ben più alta, essi risplendono infatti più
del Sole stesso.
In questo cielo ci sono due corone di 12 spiriti ciascuna, dunque 24 e sembra essere quello di
comporre in armonia lassù nel Cielo le diversità e gli scontri laceranti di scuole di pensiero che
separarono quegli spiriti in Terra come apparirà nella scelta che egli fa, di tutte e due le ghirlande,
nell’ultimo spirito presentato con grande lode da colui che le guida, e che è dunque il primo,
spirito che in tutti e due casi fu dall’alto violentemente avversario nella vita storica.
Le due Ghirlande che risplendono in questo cielo per lo meno fino al canto XII sono le
rappresentanti di scuole di pensiero nelle quali confluiva tutta la sapienza teologica del tempo di
Dante, domenicana e francescana.
Di fatti i due spiriti che guidano le corone sono: Tommaso, domenicano che fa il panegirico di San
Francesco e Bonaventura che fa quello di San Domenico. Questo non è solo un gesto simbolico ma
nella luce e nell’amore divino deve fondere spesso acute e generatrici di dure polemiche posizioni
che erano inconciliabili nel presente di Dante.
Nelle due corone ci sono riuniti di fatti i nomi probabilmente della biblioteca ideale di Dante:
sistematori del sapere, enciclopedisti, giuristi, storici, grammatici, messi insieme e vicini ai grandi
mistici, teologi dogmatici e ad autori di libri che ogni convento o monastero che avesse una grande
biblioteca possedeva.
Nella corona presentata da Tommaso ci sono due anime di grandissimo rilievo, fondamentali per
interpretare e capire la storia intellettuale e la filosofia di Dante, i due spiriti nel Cielo del Sole
rappresentano in pochi versi (6) dedicati a ognuno momenti e indubbiamente aspetti
biograficamente essenziali di quella ricerca culturale che fu uno dei suoi più appassionati e alti
motivi della sua coscienza e della sua personalità, tesi verso fini grandiosi che solo lui poteva
concepire.
Il primo dei due è Boezio, quello che, come è scritto nel Convivio, lo introdusse allo studio e
all’amore per la filosofia. Boezio era un grande mediatore tra la cultura classica e quella cristiana,
egli dimostra nella sua opera principale come la filosofia possa consolare l’uomo colpito da
sventure per colpa dell’ingiustizia, infine insegna il distacco dei beni terreni che “Nulla promession
rendono in Tera”, tutte queste prerogative sono collegate alla vita privata e pubblica di Dante e ai
suoi travagli morali e politici. Da qui la commozione che lui prova, però dobbiamo dire che non
sono meno intense nemmeno drammatiche e nemmeno profonde intellettualmente quelle che a
conclusione di questa corona si presentano, l’altro spirito a cui Dante da singolare onore è quello
di Sigieri di Bramante.
“Questi onde me ritornano il tuo riguardo, è ‘lume di’ uno spirito che ‘in pensieri gravi a morir li
parve a venir tardo, essa è la luce etterna di Sigieri che, leggendo nel Vico de li Strani sillogizzò
insidiosi veri”.
Dopo Boezio nella luce della tragica figura di Sigieri c’è il maestro parigino che sostenne
l’autonomia della filosofia dalla teologia, e per questo viene contestato, destituito e forse per
questo ucciso. Costui, maestro alla facoltà delle arti di Parigi, era il fedele interprete di Aristotele
sulle basi del commento di Averroè; ritenendo il filosofo greco rappresentante dell’umana ragione
e dava le sue conclusioni come necessarie dal punto di vista della filosofia, cioè delle naturali
capacità dell’intelletto umano; dichiarando però che quando esse fossero in disaccordo con la fede
cristiana bisognava dare la precedenza alla fede.
Ma Sigieri e altri averroisti furono condannati , su altri punti ad esempio l’eternità del mondo (che
negava la creazione) , il determinismo astrale e l’unità dell’intelletto che nega l’immortalità
dell’anima individuale, tesi quest’ultima contro la quale Tommaso d’Aquino aveva aspramente
combattuto ma aldilà di questi problemi singoli il vero oggetto della discordia tra i maestri delle
arti filosofiche e quelli della teologia era proprio quello che riguardava la distinzione tra filosofia e
teologia, tra ciò che è razionalmente dimostrabile e ciò che non lo è , tesi sostenuta da Alberto
Magno.
Sigieri in Paradiso rappresenta la punta estrema di questa posizione, l’autonomia della filosofia e
della ragione, autonomia e libertà che Dante aveva difeso in ogni campo politico, etico e
speculativo. Per la stessa ragione scrisse E. Gilson per cui Bonifacio è all’Inferno e Sigieri è in
Paradiso. Dalla spiegazione di Gilson si può tentare di aggiungere qualosa in più del senso sulle
parole “insidiosi veri” ( verità perseguitate e avversate ) che Sigieri insegnava, verità che
certamente non sono le proposizioni condannate contro le quali Dante stesso si pronuncia
apertamente nel poema , prima nel Purgatorio nel XVI canto contro il determinismo astrale e
contro l’unità dell’intelletto , dove per alcuni interpreti come Bruno Nardi c’è forse un’allusione
allo stesso Sigieri per la creazione.
Dante infatti li dichiara veri al plurale quando la verità per i cristiani è singola. Ora questi veri,
ovvero le verità sull’uomo e sul mondo a cui si giungeva deducendole solo per via di ragione, come
aveva già fatto Aristotele e presi poi dalla teologia cristiana attraverso Tommaso d’Aquino, furono
avversati dai teologi perché il metodo seguito per raggiungerlo, partendo proprio da quei principi
della ragione, e non da quelli offerti dalla fede. Questo comportava infatti un’esaltazione della
mente umana nella quale operava lo stesso intelletto divino, come sosteneva la dottrina di Sigieri
sull’intelletto, in questo modo la persona veniva sottratta a qualsiasi autorità; e questo
spiegherebbe sia l’invidia e la persecuzione dei teologi sia la celebrazione che ne fa Dante, perché
a Dante importava la libertà su cui si fonda tutto il suo poema.
Inoltre Dante in nome di questa sua libertà, anche lui è legato a una separazione tra i due ordini,
raziona e di fede, naturale e soprannaturale e nessuno dei due può interferire nell’altro, ciò è
centrale nel pensiero di Dante come appare alla conclusione della Monarchia.
Questa distinzione è alla base di lui come concepisce la politica fondata su due guide, Papa e
Imperatore, autonomi l’una dall’altra e oltre infine di tutto l’agire dell’uomo nel mondo.
Questa concezione fu combattuta politicamente e filosoficamente perché le affermazioni dedotte
logicamente mettevano in discussione quelle di fede.
Quando Dante nelle due terzine dedicate a Sigieri fa anche come sempre ma forse di più,
autobiografia, emerge il suo lungo studiare e meditare sulla condizione della ragione umana.
Infatti per lui la grande onestà intellettuale di Sigieri che appassionato del sapere è riconosciuta e
simboleggiata dall’intenso splendore che lo irradia e scandito solennemente dal verso che porta in
fondo il suo nome (essa è la luce eterna di Sigieri), però Dante mette anche in evidenza la
sofferenza della sua mente perché non può che constatare il limite che la ragione ha in sé quando
in confronto a ciò che la fede insegna, egli la dice con poche parole:
“Che in pensieri-gravi a morir gli parve venir tardo”.
Il contrasto di Dante tra ragione e fede era vissuto da tutte le grandi menti del secolo da quando la
filosofia aristotelica penetra nell’occidente cristiano.
La distinzione dei due campi in cui la ragione era scissa, si diceva che la ragione non può dedurre
da se stessa le verità della fede che la trascendono.
Probabilmente l’invenzione che fa Dante per cui celebrare in maniera così alta Sigieri è lo stesso
Tommaso che in Terra lo combatteva è una delle non poche ardite posizioni di cui è intessuto il
Paradiso.
La salvezza, e l’eccellenza, del filosofo parigino morto e condannato in un confino forzato è legata
proprio alla sua ricerca. Ma il canto non si chiude semplicemente celebrando il maestro parigino, si
leva a un certo punto come a commento un canto armonioso che Dante dice “in tempra” cioè in
accordo di suoni diversi come il suono dell’orologio che risulta dal modo interdipendente e
sincrono di diverse ruote che deve risvegliare la Chiesa perché innalzi al suo sposo una canzone
d’amore. Questa concordia di voci diverse, esprime in tre terzine di rabbia il senso profondo della
scena.
Dante e le stelle: una fantasia interpretativa da aggiungere al Paradiso
Le opere di Dante sono trapunte di stelle partendo dalla Vita Nova e ancora di più nel Convivio.
A tale passione per esse che, paragona le scienze ai vari cieli e particolarmente la fisica e la
metafisica al cielo stellato. Sosteneva che “in ciascuna scienza la scrittura è stella piena di luce.”
Infine, con le stelle, fa iniziare e terminare la Commedia e ogni sua cantica.
Con le stelle ha inizio il cammino del poema quando il pellegrino vede il Sole salire in su “con
quelle stelle che eran con lui quando l’amor divino-mosse di prima quelle cose belle”: insomma
quando Dio crea il cosmo con la vista di Venere e dei pesci, nonché con le 4 stelle del Polo
Australe, si apre il Purgatorio, che si chiude con Dante purificato e disposto a salire alle stelle.
Il viaggio del Paradiso inizia con “la lucerna del Mondo”, il Sole, che sorge ai mortali in quel punto
nel quale quattro cerchi celesti (eclittica, coluro equinoziale, equatore e orizzonte) intersecandosi
sono uniti da tre croci cioè con l’equinozio di primavera e termina con l’” amor che move il sole e
le altre stelle”.
All’inizio del Purgatorio per esempio mostra l’orizzonte aprirsi come un sorriso alla comparsa della
stella del mattino Venere e nel XXVIII canto del Paradiso le stelle sono chiamate “bellezze”.
Pensiamo che Dante sia innamorato delle stelle e della loro bellezza perché probabilmente nelle
sue solitudini ne è stato un assiduo contemplatore. Nella Commedia la sua assorta, appassionata e
solitaria frequentazione del cielo notturno rivive quando nell’immaginazione del poeta emerge a
punteggiare alcuni dei momenti più significativi, ad esempio in un passaggio del poema, quello
dedicato a Ulisse, nonostante sia all’Inferno, Dante fonde la poesia delle stelle e il mito dell’eroe
omerico sostenendo che esse hanno qualcosa in comune.
Difatti come nell’Odissea, anche nell’Inferno c’è una rotta verso Occidente al di là delle Colonne
d’Ercole e il cielo è un punto di riferimento, “Tutte le stelle già dell’altro oro vedea la notte -e
l’nostro tanto
Basso che non surgea fuor dal marin suo”. La stella polare è scomparsa, le stelle dell’emisfero
meridionale sono visibili e Dante attraverso queste da un tempo a un racconto che non ha più
riferimento nello spazio: il mondo nel quale viaggia Ulisse è ora davvero lontano, è una
navigazione all’uomo metaforicamente nell’oscurità illuminata solo dalla luna e da altre stelle.
All’inizio del Purgatorio quando egli raggiunge artisticamente il luogo dove Ulisse è naufragatoegli vede, nel polo celeste australe le quattro stelle del Polo Antartico: esse allegorizzano le
quattro virtù cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza.
Queste quattro stelle sono probabilmente anche genuine astronomicamente perché
corrispondono alle quattro della Croce del Sud che comparivano anche se non come costellazione
nelle antiche carte stellari ed erano conosciute dagli astronomi e dai marinai e il passo di Dante
viene anche citato da Amerigo Vespucci nei suoi diari.
Nel Paradiso dove ciascuno dei cieli è una stella, la poesia di Dante giustamente siderea si
sparpaglia in una serie di immagini molto celebri, sono delle notazioni brevissime che danno una
luce improvvisa sulle similitudini che descrivono gli spiriti beati, dell’animo di Dante e delle
proposizioni medesime che gli vengono offerte.
Nel cielo del Sole, gli spiriti sapienti sono “ardenti soli” ruotano tre volte attorno a Dante e
Beatrice come “stelle vicine a fermi poli”.
Dal brillare delle anime allo splendere delle verità della fede , il Paradiso fonde con le stelle sia
l’Universo Esteriore che quello Interiore di Dante , ma è dal canto XIII al canto XV che le immagini
divengono di una straordinaria bellezza ma anche dense e complesse, Dante invita chi lo legge e
uno sforzo di immaginazione : se voglia davvero capire ciò che lui ha visto bisogna immaginare una
sequenza di vari fenomeni e poi ritenere le immagini ferme , bisogna prima immaginare le stelle ,
quelle indicate da Tolomeo che ravvivano i sole , quindi il carro dell’Orsa Maggiore che di notte e
di giorno percorre lo spazio del cielo settentrionale , poi le due ultime stelle dell’Orsa Minore ,
quelle che a forma di corno iniziano con la Stella Polare quasi in cima allo stelo , l’asse Celeste
attorno al quale gira il primo mobile, poi sarà necessario osservare come le prime 15 stelle alle
quasi si aggiungono quelle dell’Orsa Maggiore e dell’Orsa Minore formano due costellazioni simili
nella forma alla Corona , infine , si immagini che una della due costellazioni abbia i suoi raggi una
dentro l’altra e girino in direzioni opposte l’una all’altra.
Dante rende immagini astrali anche semplicemente quando descrive il chiarore che cresce intorno
alle due corone dei sapienti dopo che aveva parlato Salomone della resurrezione della carne
quando dice di un alone uniforme di luce che nasce sopra quello già presente come l’Orizzonte che
si affaccia chiaro all’alba “per guisa d’Orizzonte che rischiara”. Poi passa a descrivere il crepuscolo
e paragona il suo intravedere un nuovo cerchio di anime a nuove stelle “e si come al salir di prima
sera cominciano per lo ciel nuove parvenze, - si che la vista pare e non par vera, - parse le
novelle sussistenze cominciare a vedere, e fare un giro di fuor da l’altre due circonferenze”.
Inoltre quando, dal cielo dei Sapienti, Dante va a quello di Marte dove ci sono le anime di coloro
che hanno combattuto per la fede, egli le paragona alla Via Lattea, la striscia che si distende di luce
bianca tra i due poli celesti che lascia emergere stelle di luce più e meno intensa e che suscitava
dubbi in uomini di grande sapienza.
L’immagine poi alla fine da quasi un’impennata quando le anime formano una sorta di
costellazione in cui i loro raggi disegnano nella profondità del cielo di Marte il segno della croce.
Quello prodotto dalle linee che in un cerchio congiungono i suoi 4 quadranti:” come distinta da
minori e maggi – lumi biancheggia tra’ poli del mondo – galassia si che fa dubbiar ben saggi -; si
costellati facean nel profondo- Marte quei raggi il venerabil segno- che fan giunture di quadranti
in tondo.”
Sempre in questo cielo, quando arriverà una delle luci beati, che sarà quella di Cacciaguida viene
visto come il passare di una stella cadente per il cielo.
Dante fa una similitudine di grande serenità e purezza nella prima parte , nella seconda da prova di
precisione assoluta , quando dopo la prima impressione, che pensava fosse una stella che
cambiava la sua sede , segue la seconda ,più pensosa : nella parte in cui il fuoco della stella
cadente brucia d’improvvisa combustione , il cielo , si comprende che non manca di nessun astro e
si vede che esso è brevissimo , arde in un attimo , turba il sereno tranquillo e puro : immobilità e
imperturbabilità delle stelle vere nel cielo.
Dante descrive il fenomeno delle stelle cadenti attraverso gli occhi dell’osservatore come mai
nessuno prima di lui: “quale per li sereni tranquilli e puri discorre ad ora ad or subito foco,movendo gli occhi che stavano sicuri, e pare stelle che tramuti loco,- se non che ala parte onde
s’accentra nulla s’emperde, ed esso dura poco: - tale dal corno che n’destro si stende a piedi
quella croce corse un astro de la costellazione che lì resplende.”
L’ultimo panorama dell’universo fisico è contemplato da Dante durante l’ascesa al Cielo delle
Stelle Fisse, quando a lui che si volge su invito di Beatrice a guardare giù, gli appaiono le sette sfere
celesti, i loro movimenti, le loro posizione e alla fine la Terra. Da ora in poi, gli occhi di Dante si
concentrano sempre più verso quello che sarà la sommità e il vero centro del cosmo, Dio.
Già dal cielo VIII quella luce suprema immagine qui di Cristo, è visto come un Sole che accende di
luce tutte le stelle e il sole come una Luna che sorride nel Plenilunio circondata da stelle come
Diana accompagnata dalle sue ninfe: i cui seni riverberano da lontano le insenature sconfinate del
cielo stellato.
Tutto il passaggio iniziando da Cristo, Sole, Sole Fisico, Luna – Trivia gira intorno alla felicità della
Luna e allo sparpagliarsi delle stelle che dipingono tutte le parti del cielo: un grandissimo
splendore e un distendersi in un infinito appuntarsi di luce: “quale n’è pleniluni sereni – Trivia
ride tra le ninfee eterne che dipingono lo cielo per tutti i seni, - vidii sopra migliaia di lucerne –
un sol che tutte quante le accendeva, come fa il nostro le viste superbe”.
Il primo mobile dunque, lo real manto di tutti i volumi del mondo, non è ancora vicino e perciò non
visibile. Ma appena giunge a quel cielo, il IX, l’ultimo, Dante lo guarda finalmente: guarda quel
punto che irradia luce primigenea talmente abbagliante da far chiudere gli occhi. Al paragone di
chiara, qualunque stella che appaia piccola dalla terra sembrerebbe grande come una luna se la si
confronta a quel punto come si giustappone una stella a un’altra per misurarne la magnitudine.
In questo punto si rivela la natura metafisica dell’Universo perché da lì dipende il Cielo e tutta la
natura e attorno a lui ruota in maniera decrescente tutti i cerchi concentrici del cosmo.
L’Universo appare in quel momento come un cono rivoltato dall’esterno verso l’interno, al suo
centro non più la Terra ma Dio e in questa fase c’è un convergere di uno splendore assoluto e di
un’aurora che inizia.
Il primo splende subito appena Beatrice spiega il rapporto tra Dio e il mondo sensibile.
E Dante nella mente illuminata e purificata risponde a Beatrice descrivendo poi che non è solo la
Luna a sorridere ma tutto il cielo, con tutte le stelle in ogni suo punto. Stelle che ora Dante chiama
bellezze mentre nell’Inferno definiva “cose belle”, splendono ora nella mente innamorata di Dante
come la verità brilla come stelle nel Cielo. Attraverso queste immagini, Dante vede il dileguarsi
delle gerarchie angeliche e avviene l’ascesa all’Empireo, l’ingresso nel mondo divino. Con Dante
nella commedia si vede più di un crepuscolo, adesso è lo sparire di ogni stella che dall’aurora gli
interessa: perché con lo svanire degli angeli viene meno dall’ultima parte del Paradiso ogni traccia
di stella, le creature appaiono come un fiume di luce, uno sciame di api e in questo modo il
pellegrino fissa sempre più gli occhi in quella increata sostanza divina.
Lo sparire delle stelle segna un momento solenne della Comemdia, Dante le farà riemergere solo
nell’ultimo verso, oggetti come il Sole in moto dall’amore di Dio.
L’uso che fa Dante della stelle è variegato: è astronomico, metafisico, psicologico, descrittivo ecc. ecc.
E’ astronomico perché lui attraverso i movimenti degli astri e nella volta celeste può indicare date e ore con
precisione, metafisico perché le stelle come nel Convivio gli sono utili per indicare come equivalente della
metafisica e per descrivere la vera struttura dell’Universo.
Psicologiche perché utilizza le immagini sideree per fornire il corrispettivo dei suoi stati d’animo, descrittivo
perché le impiega attraverso la similitudine per far comprendere al lettore i movimenti, le danze degli spiriti
beati, di cui quelle sono mere ombre. In tutto questo si apre uno spazio esterno ovvero per il godimento
della bellezza delle stelle che Dante non a caso chiama quasi affettuosamente “bellezze” e “cose belle”.
La sua è una gioia tinta a stupore quasi infantile davanti alla bellezza dell’universo. Quello che descrive lo
esprime attraverso il sorriso della luna e le ninfee eterne.
Della volta stellata, quella che indica il godimento che il Cielo trova le fiammelle nel cielo australe, poi
bellezza sia di quella della Creazione ma anche della sua più piccola, di umana ma creazione poetica
assoluta quando la imita. Quando nell’apertura del canto X del Paradiso Dante invita il lettore a volgersi
insieme a lui verso le sfere celesti e in particolare in quel punto dove si incontrano i due soli movimenti,
afferma che l’ordine dato da Dio al cosmo è tale che “ch’esser non puote-sanza gustar di lui chi lo rimira”,
questo godimento è prettamente estetico ma Dio è visto anche come l’artefice, l’artista supremo , nel XVIII
è una sorta di pittore , nel XIX è un architetto e ciò che crea è distinto dall’amore costante che egli nutre
dentro di se.
Il lettore del Paradiso è invitato a guardare con amore e serenità l’opera Divina, e a riflettere su di essa se
vuole godere della sua bellezza: ma è della bellezza del poema che ha davanti, che di quell’argomento
tratta e ha appena sfiorato.
Postille finali: Dante di fronte a Dio
Nella Divina Commedia, Dante, nel XXXIII deve affrontare la visione di Dio. Nella marcia di avvicinamento a
Dio, Dante sceglie l’immagine del libro e le categorie universalizzanti dei filosofi per mostrarci il mistero di
Dio che contiene in se l’intero cosmo.
Usa prima l’immagine del cerchio, poi la potente impressione dello spirito di Dio, del suo alito che soffia in
sé i fogli sparsi dell’Universo “conflati” e che spira il suo amore come fuoco. Il cerchio diventa l’immagine
dominante del XXXIII canto del Paradiso e a un certo punto, Dante stesso diventa, nell’ultima metafora del
canto, un cerchio, una ruota mossa dal moto uniforme dell’amore che muove il sole e le altre stelle: “A
l’alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e l’velle – sì come rota ch’igualmente è mossa,
- l’amor che move l’sole e l’altre stelle “è alla fine della Commedia.
Una sorta di lotta finale ha preceduto il momento dell’appagamento, il geometra che ha costruito in
maniera precisa l’architettura del suo poema non riesce a fare la quadratura del cerchio dell’incarnazione.
La “vista nova” è impenetrabile. Dante che aveva ottenuto dalla Vergine le “ali” con cui far “volar sua
disianza” scopre che sono insufficienti per il suo ultimo volo, Dante a differenza di Ulisse, che aveva
trasformato i remi della nave in ali, in questa fase si rende conto che l’intelletto dell’uomo non può
penetrare il mistero, la penna umana era impossibilitata.
Però un ultimo guizzo, un lumen gloriae lo colpisce con questo bagliore che al tempo stesso il canto finisce,
qui la grande fantasia, il potere che fa si che l’intelletto rappresenti quello che vede, viene meno e il
desiderio e la volontà sono fatti girare come una ruota da Dio. L’amore è la parola centrale degli ultimi
versi, presente nel Purgatorio, che ha mosso l’Universo, gli esseri creati per il motore immobile ecc. ecc.
Quindi ora l’amore di Dante e quello di Dio si toccano entrambi nel desiderio e nella volontà del poeta.
E dunque, Dante stesso gira come una ruota nel moto uniforme come gli angeli, come il primo cielo, quel
moto circolare uniforme che come Dante aveva scritto esprime la concordia del volere umano col volere
divino. Con il venir meno della fantasia, la voce di Dante, quasi emette un respiro di sollievo ma la cosa non
finisce lì.
Lui, in maniera lenta e solenne, capovolge la frase mettendo oggetto all’inizio, soggetto alla fine e
similitudine al centro concludendo Paradiso e Poema con tre parole primordiali: amore, sole e stelle.
All’inizio del suo viaggio, Dante quando era stato ostacolato dalla lince aveva guardato verso il sole che era
sceso e aveva scritto “è l’sol montava l’su con quelle stelle- che eran con lui quando l’amor divino mosse
di prima quelle cose belle.”, qui all’inizio solo il Sole, le stelle ecc. sono mosse dall’amore divino; alla fine
anche Dante è mosso da amore. Il suo pellegrinaggio va nella fase iniziale a quella dell’isolamento – uomo
separato da Dio -, poi passa alla partecipazione, nel I canto dell’Inferno l’amore divino muoveva il cosmo (al
passato) nel momento magico della Creazione che Dante non aveva vissuto, ma alla fine del Paradiso
quando sempre l’amore divino muove Sole e stelle, egli è presente e partecipa all’eternità.
In breve, Dante è diventato una delle “cose belle”, Dante è diventato una stella e dunque la creazione
continua.
Però Dante anche di questo elemento finale pensiamo non abbandona la poetica della lotta perché il
poema non si ferma, gira come una ruota e ritorna sempre all’inizio, il I canto dell’Inferno. Non si può
compiere la quadratura del cerchio e il moto non può essere fermato.
Elliott che nel poema che per tema e altro più si avvicina alla Divina Commedia scrive: “Ciò che chiamiamo
il principio è spesso al fine – e finire è cominciare
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