Anestetici del passato: “spongia soporifera”

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Quad. Bot. Amb. Appl., 21 (2010): 253-260.
Anestetici del passato: “spongia soporifera”
FRANCA LENTINI & FRANCESCA VENZA
Dipartimento di Scienze Botaniche dell’Università degli Studi di Palermo, via Archirafi 88 – 90123 Palermo
ABSTRACT. – Analgesic of the past: “spongia soporifera” – In order to improve the knowledge of plants used in the past as
analgesic and anaesthetic, the authors refer in the current contribute to results coming from a bibliographical research carried out on plants which constituted the ingredients of “spongia soporifera”, a preparation made of a see sponge together
with concentrated decoctions of medical plants. The authors analyse the species used for the preparation of “spongia
soporifera”, investigating them in historical, botanic, chemical, pharmacological and toxicological aspects.
Key words: history, analgesia, anaesthesia, medical plants.
INTRODUZIONE
In epoche diverse e presso differenti civiltà, per sedare
il paziente e renderlo insensibile al dolore prima di praticare interventi chirurgici, si ricorreva a metodi empirici praticati attraverso l’uso di piante medicinali con proprietà anestetiche, narcotiche ed analgesiche. Con esse si preparavano unguenti, pozioni, pillole, miscele da inalare e medicamenti vari; una delle preparazioni più utilizzate era la spongia soporifera.
In questo contributo, gli autori riferiscono notizie sulle
piante anestetiche e narcotiche del passato e si soffermano
in particolar modo su quelle utilizzate per la preparazione
della ricordata spongia soporifera.
METODO DI STUDIO
Lo studio è stato condotto attraverso una mirata indagine bibliografica attraverso cui è stato possibile reperire
informazioni sulle piante note e adoperate, in passato, per le
loro proprietà soporifere ed analgesiche. Le entità in oggetto sono state esaminate sotto il profilo storico, botanico,
chimico e farmaco-tossicologico. Per la nomenclatura e la
descrizione botanica, si è fatto riferimento, alla “Flora
d’Italia” di PIGNATTI (1982), tranne per qualche aggiornamento; per la distribuzione geografica alla “Nuova Flora
Analitica d’Italia” di FIORI (1969) e alla “Flora Europaea”
di TUTIN & al. (1964-1980). Per quanto riguarda tutte le
altre informazioni, si riportano, tra parentesi, nel testo, i
riferimenti bibliografici.
PIANTE ANESTETICHE ED ANALGESICHE DEL PASSATO
Tra i rimedi anestesiologici del passato, il più conosciuto ed utilizzato è la spongia soporifera, una spugna di mare
imbevuta di decotti concentrati di piante medicinali.
L’impiego di tale preparazione risale alla più remota antichità; già nel 3° secolo a.C. Ippocrate “per dare il sonno ai
malati” indicava l’uso di una spugna impregnata di oppio e
mandragora; Plinio consigliava “bibitur ante sectiones
punctionesque ne sentiantur” e cioè: per non sentire il dolore bere, prima di un intervento operatorio, una bevanda a
base di mandragora, oppio, infuso di papavero o di giusquiamo, somministrati puri o mescolati tra loro o con altre
sostanze (PENSO, 1985). Preparazioni analoghe venivano
utilizzate dai chirurghi medioevali; un rimedio soporifero
ad uso di chi doveva essere sottoposto ad un intervento chirurgico, si trova in un codice pergamenaceo di materia
medica “Anonymi varia excerta”. Si tratta dell’Ypnoticum
adiutorum, una singolare ricetta, trascritta, in lingua latina,
da un ignoto amanuense di Montecassino, la cui traduzione
così dice: “si prendano mezza oncia di oppio tebaico, 8 di
succo di mandragora (tratto dalle foglie spremute), mezza
oncia di succo della verde Matala e di succo verde di giusquiamo; raccogli così, per mezzo di una spugna essiccata,
un’unica pasta e diligentemente lascia asciugare; e quando
vorrai farne uso immergila, per un’ora, in acqua calda e
avvicinala alle narici del paziente che assorbendo quella
essenza dormirà a lungo e, quando lo vorrai risvegliare,
applicherai alle sue narici un’altra spugna imbevuta di aceto
caldo e potrai, così, scacciare il sonno” (BELLUCCI &
TIENGO, 2005). Nella prima metà del XII secolo, con l’avvento della Scuola Medica Salernitana, prima espressione
della rinascita medica in Italia, si distingue la figura di
Nicolò Salernitanus, erroneamente chiamato Praepositus
per equivoco con il più tardo Nicolò Prevost (1500 circa). Il
suo “Antidotarium” (1140 circa) è da considerarsi il più
importante trattato di farmacologia e terapia medica dell’epoca, un perfetto ricettario, per medici e farmacisti del
tempo, elevato da Federico II a Farmacopea Ufficiale in
tutta Europa. In esso troviamo la formula di una spongia
soporifera analoga a quella che compare nei codici cassinesi del IX secolo, ma con l’aggiunta di more acerbe, semi di
lattuga, cicuta, succo di papavero e di edera. Una preparazione analoga, ma semplificata, per l’anestesia inalatoria è
quella di Michele Scoto (1175-1223) che suggerisce di utilizzare oppio, mandragora e giusquiamo in parti uguali,
pestate nel mortaio e mescolate con acqua. Al momento
dell’ amputazione o dell’incisione, inzupparne uno straccio
e mettetelo sotto le narici del paziente. Un’altra formula è la
“Confectio soporis” di Gilberto Angelico (1180-1250) a
base di oppio, giusquiamo, papavero, mandragora, edera,
more di rovo, lattuga e cuscuta, di cui imbevere una spugna.
Lo stesso consiglia, ma solo per uso orale: papavero, lattuga ed oppio (BELLUCCI,1983). SANTONI RUGIU & SYKES
(2007), nel capitolo 6 “Some Notes on Anaesthesia“ della
loro opera “A Hystory of Plastic Surgery”, fanno riferimento a una spongia soporifera preparata ed usata da Ugo dei
Borgognoni e riportata nella “Cyrurgia” (1270) del figlio
Teodorico, monaco domenicano, abile ed innovatore chirurgo. La ricetta di Teodorico viene considerata da BELLUCCI
(1983), una riesumazione di quella di Montecassino o di
quella di Nicolò Salernitanus ma con l’aggiunta di succo di
coconidio e di semi di lapazio.
La ricetta così recita: «prendi oppio, succo di more acerbe, giusquiamo, succo di coconidio, succo di foglie di mandragora, succo di edera, succo di mora silvestre, semi di lattuga, semi di lapazio che ha delle bacche dure e ritonde e
cicuta nella quantità di un oncia per ciascuno dei suddetti.
Porre a rinvenire per un’ora sui vapori dell’acqua bollente e
quindi applicarla sulle vie respiratorie del paziente che ne
aspira gli effluvi [et ipso abdormentato faciunt operationem]. Al fine di ottenere il risveglio viene usata un’altra
spugna imbevuta di aceto o direttamente si applica sulle
narici aceto o succo di finocchio o di ruta».
Arnhaldo da Villanova, alchimista del XIII secolo, suggeriva di tritare e poi mescolare con acqua, oppio, radici di
mandragora e giusquiamo in parti uguali, imbibire un panno
di questo liquido e applicarlo su naso e fronte del paziente
da amputare. Henry de Mandelville (1260-1320), per sedare dolori intollerabili adoperava questo stesso miscuglio.
Nella seconda metà del’ 500 Gian Battista della Porta ideò
alcune varianti della spongia soporifera che trasforma in
“pomum somnificum”, miscela di vari medicamenti, aromatizzati con muschio, e posti in “bussolette”, scatolette di
piombo cribrate, da aprire e far fiutare al paziente. Giovanni
Andrea della Croce nel suo trattato sulla chirurgia del 1573,
afferma che solo se il dolore “…sarà insopportabile…bisogna usare i Narcotici, li quali o rendono il senno
stupido o del tutto lo levano”. Egli attribuisce ad un preparato: “l’olio rosato al calomelano”, la proprietà di lenire
ogni dolore. Un metodo empirico, ma rischioso e praticato
nelle marinerie dell’epoca, era quello di introdurre nel retto
un grosso sigaro da cui derivava uno shock nicotinico di
violenza tale da consentire di operare in stato di assoluta
insensibilità. Paracelso (1493-1541), prescriveva liberamente l’oppio; altri illustri medici a lui contemporanei suggerivano di aggiungere mandragora e giusquiamo per
indurre un sonno profondo simile alla morte (BELLUCCI &
TIENGO, 2005).
L’uso di queste piante come ingredienti di preparazioni
anestetiche-analgesiche continua anche nei secoli successi254
vi, alternato con un’analgesia da freddo ottenuta da applicazioni perineali di ghiaccio o di neve. Successivamente, la
scoperta del protossido d’azoto (1828), del cloroformio
(1831), dell’etere (1864), apre la strada all’anestesia inalatoria e l’introduzione in terapia dell’ aspirina (1894), dei
barbiturici (1903) e di altri medicamenti, modificano radicalmente l’approccio al dolore sia chirurgico che medico.
INGREDIENTI DELLA SPONGIA SOPORIFERA.
Ingredienti della spongia soporifera sono l’oppio, il
giusquiamo, la mandragora e talvolta anche la cicuta e/o l’edera, la lattuga, il lapazio, il coconidio, la cuscuta, l’erba
verde di Matala e le more. L’oppio è il latice disseccato che
sgorga dal frutto ancora immaturo del Papaver somniferum
L.
Come’è noto, questa è una specie la cui tassonomia
risulta alquanto complessa; MOWAT & WALTERS, in TUTIN.
& al. (1964), descrivono per P. somniferum L., tre sottospecie: P. somniferum subsp. somniferum, P. somniferum
subsp. songaricum Basil. e P. somniferum subsp. setigerum
(DC) Corb. PIGNATTI (1982), non riporta alcuna sottospecie
per P.somniferum e descrive P. setigerum DC. come specie
a se stante. Si tratta di piante coltivate dall’uomo, da tempo
immemorabile, per cui, si registrano numerose varietà e cultivar. Per P. somniferum, infatti, vengono indicate due o più
varietà: P. somniferum var. album, coltivata in India, con
fiori e semi bianchi e capsule prive di pori di deiscenza; P.
somniferum var. nigrum, coltivata in Europa, di dimensioni
minori della varietà album (5-8 dm) ma con maggiore quantità di rami, di frutti e di fiori, con semi grigi e capsula più
globosa che nella varietà album; infine P. somniferum var.
glabrum, coltivata in Asia minore, con fiori rossi, semi neri
e capsule molto grosse (MAUGINI & al., 2006).
PAPAVERO
Questo nome nella “spongia soporifera” va riferito sia a
Papaver somniferum L. sia a P. setigerum DC.
Papaver somniferum L. (Papaveraceae).
Nomi volgari italiani: Papavero domestico, Papavero bianco o Papavero da oppio
Pianta erbacea annuale a fusto eretto, di 3-12 dm, subgabro. Ha
foglie cauline ovate o lanceolate, lunghe 7-12 dm, alla base alterne, oblunghe amplessicauli; le inferiori pennatosette, le superiori
dentate cordato-auricolate. I fiori, solitari, grandi, hanno calice con
due sepali caduchi, corolla a quattro petali bianchi o roseo-violacei, a seconda della cultivar, stami numerosi, ovario supero sormontato dallo stimma appiattito, sessile; frutto, una capsula poricida. Fiorisce in primavera-estate.
Coltivata fin dall’antichità nella maggior parte d’Europa, ad
eccezione dell’estremo nord, la specie è diffusa nella regione
mediterranea. dove si è spesso naturalizzata.
Papaver setigerum DC. (Papaveraceae)
Nome volgare italiano: Papavero setoloso
Pianta erbacea annuale, molto simile a Papaver somniferum
ma notevolmente più gracile. Fiori, foglie e peduncoli con setole
allungate; foglie minori con la lamina più stretta e lobi acuti, terminanti con una setola; disco stimmatico con 5-8 raggi; capsula 45 cm. Fiorisce in primavera-estate.
L’areale della specie comprende la regione mediterranea. In
Italia è comune lungo le coste occidentali dalla Liguria alla
Calabria, in Sardegna e in Sicilia.
Come risulta da antichi reperti di 4000 anni fa, l’uso del
papavero come antidolorifico e sonnifero risale alla preistoria. Gli Assiri facevano ogni giorno uso del papavero e lo
chiamavano pianta della gioia; Egizi e Greci lo utilizzavano
sia a scopo curativo che voluttuario. Il fiore del papavero era
sacro a Demetra, ad Afrodite, al dio della morte Thanatos e
al dio del sonno Hypnos o Morpheus che viene raffigurato
sempre con lo stelo o le teste di papavero in mano; anche la
dea Cerere in molte raffigurazioni è attorniata da teste di
papavero che pare abbia utilizzato per alleviare il dolore
provocatole dal rapimento della figlia Proserpina. Del papavero si utilizzava soprattutto l’oppio. Dioscoride descrive,
in un testo del 1° secolo dopo Cristo, il modo con cui l’oppio doveva esser preparato per essere poi consumato durante riti magici e religiosi; l’oppio non veniva mai assunto
puro ma sempre mescolato con altre sostanze per attenuare
gli spiacevoli effetti secondari, soprattutto la costipazione.
Anche Omero fa riferimento a questo succo che entra nella
composizione del “nepente” una bevanda a base di polvere
di foglie e fiori di canapa, oppio, noce di areca, spezie e zucchero, bevuto dagli eroi dell’Iliade prima della presa di
Troia, per rafforzare il coraggio. Tale miscela veniva usata
e prescritta anche per sconfiggere il cattivo umore e gli stati
ipocondriaci, oltre che per provocare estasi afrodisiache, per
tranquillizzare e per disinibire. Nella prima metà del XIX
secolo venne introdotta in Europa una formulazione nota
come pillole della felicità o nepente, così chiamata con riferimento alla bevanda dell’oblio del periodo omerico
(LEWIN, 1993).
Il papavero sonnifero fu conosciuto in Cina a partire dal
VIII° secolo ed utilizzato sotto forma di decotto contro i
dolori addominali e l’insonnia; l’oppio veniva fumato a
scopo voluttuario prima di una avventura erotica allo scopo
di intensificare la sensualità e le percezioni sensoriali. In
Turchia vi era grande passione per l’oppio e se ne faceva
largo uso sia in tempo di pace, a scopo voluttuario, che in
tempo di guerra, per generare il coraggio e per affrontare
meglio il dolore delle ferite (LEWIN,1993).
In Europa, nei secoli XVIII e XIX, per curare l’isteria i
medici somministravano alle giovinette il laudano, una preparazione farmaceutica consistente nella macerazione in
acqua ed alcool di una miscela di polvere di oppio, zafferano, cannella e chiodi di garofano. Esso risulta contenere l’1
% di morfina da cui derivano principalmente le proprietà
antispastiche per le quali era considerato una vera panacea.
L’oppio ebbe ed ha influenze enormi nella vita dei popoli. Un esempio importante è la guerra scoppiata in Cina nel
1839 e conclusasi nel 1842 e che proprio dall’oppio prende
il nome.
L’oppio si presenta come un impasto gommoso di colore grigiastro o nerastro scuro a seconda del metodo di raccolta e del processo di essiccazione. Contiene circa 40 alcaloidi; inoltre flavonoidi (kaempferolo), antocianidine (pelargonidina), acidi aromatici (caffeico, ferulico, ecc.), tannini,
sali minerali, resine, gomme, enzimi (catalasi, perossidasi,
ecc.). Gli alcaloidi variano nella quantità del 10-20%; a
seconda dell’origine dell’oppio; i più importanti sono: morfina, il suo principale ed abbondante costituente (4-21%,
generalmente il 12%), codeina, tebaina, papaverina, narceina, narcotina. L’oppio possiede proprietà analgesiche narcotiche come la morfina, Responsabile dell’analgesia è la
morfina le cui dosi terapeutiche variano secondo le indica-
zioni, che vanno dalla medicazione preanestetica alla sedazione del dolore acuto (postoperatorio, anginoso, da trauma)
o cronico da affezioni incurabili. Segni tossici possono già
comparire per dosi terapeutiche sotto forma di nausea, anoressia, costipazione difficoltà alla minzione, talora eccitamento, confusione e vomito. Dosi di poco superiori a quelle terapeutiche danno il quadro caratteristico di un atteggiamento psichico di indifferenza e distacco dalla realtà
ambientale, con bradipnea e miosi puntiforme. Per dosi elevate compare sonnolenza con possibile agitazione, che evolve in coma profondo con depressione respiratoria e rallentamento del ritmo cardiaco. L’intossicazione se non trattata
porta alla morte per paralisi del centro della respirazione
(MARRUBINI BOZZA & al., 1989). Del papavero da oppio si
utilizzano anche i semi sia per aromatizzare il pane sia in
pasticceria che per la produzione di olio commestibile.
MANDRAGORA.
Con questo nome vengono indicate due specie e precisamente:
Mandragora autumnalis Bertol. (Solanaceae).
Nome volgare italiano: Mandragora autunnale.
Mandragora officinarum L. (Solanaceae).
Nome volgare italiano: Mandragora primaverile.
Si tratta di due piante erbacee perenni, la prima alta 1-3 dm con
radici ramificate antropomorfe, scure, fusto snello brevissimo,
foglie glabre o quasi, oblanceolate- spatolate, fiori a corolla violacea inseriti al centro della rosetta su peduncoli pubescenti e frutto
a bacca ellissoidale gialla o aranciata; la seconda 1-2 dm di altezza con radice chiara molto simile alla precedente, foglie ispide
generalmente sinuate, calice non accrescente, corolla bianco-verdognola, con lobi strettamente triangolari; bacca sferica gialla assai
più lunga del calice. La fioritura avviene in autunno per M. autumnalis e in primavera per M.officinarum. Quest’ultima è presente
nella ex Jugoslavia e in Italia; la sua distribuzione è limitata però
al Nord della Penisola dove è piuttosto rara. M. autumnalis, è
molto diffusa tra le coste del Mediterraneo ed è presente anche nel
Portogallo centro meridionale; in Italia, è rara e si trova nel
Meridione e in Sardegna; è comune, invece, in Sicilia.
Entrambe le specie di mandragora sono state vittime
della fantasia popolare che su di esse si è sbizzarrita attribuendo loro magiche e segrete virtù ammaliatrici nonché
poteri sovrannaturali.
Gli Egizi, come pure gli abitanti della Mesopotamia e gli
ebrei le usavano come voluttuario ed afrodisiaco; tracce che
testimoniano il loro uso sono presenti anche nella Bibbia.
Gli arabi ne impiegavano il succo per sfruttarne le attività
sedative e soporifere e per indurre un certo grado di anestesia prima degli interventi chirurgici. Era usanza dei carnefici meno crudeli somministrare decotti di radice di mandragora dall’azione sedativo-analgesica ai condannati a morte
per crocifissione (PENSO,1986). Platearius riferisce che “le
virtù della mandragora erba sono presenti soprattutto nella
scorza della sua radice, nei piccoli frutti e nelle foglie. La
scorza della radice si conserva per 4 anni dal momento in
cui la si raccoglie. Essa possiede la virtù di raffreddare,
astringere e di conciliare il sonno. Per favorire il sonno di un
febbricitante si consiglia di mescolare la scorza della radice
con il latte di donna e bianco dell’uovo ed applicare sulla
fronte e sulle tempie; contro il mal di testa provocato dal
calore triturare le foglie ed appoggiarle sulle tempie; per
togliere ogni dolore e conciliare il sonno ungere la testa con
olio di mandragora” (AA.VV., 1990).
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Per la forma antropomorfa delle sue radici è stata da
sempre considerata adatta a fortificare l’uomo ed a favorire
la riproduzione oltre che ad essere afrodisiaca. Secondo la
leggenda esistono due tipi di mandragora che possiedono
attività differenti: la mandragora maschio e la mandragora
femmina. La prima veniva utilizzata per la sua azione sedativa, narcotica e medicinale, la seconda, invece, essendo
femmina era indicata per stimolare la lussuria, potenziare le
virtù amatorie dell’uomo e della donna e garantire la fecondità. La monaca erborista santa Ildegarda la considerava
erba malefica dai poteri demoniaci, fonte di vizio e di corruzione. Tetri racconti popolari raccontavano che il luogo
dove la pianta nasceva era stato teatro di un omicidio o di
una esecuzione (PENSO, 1986).
La mandragora era conosciuta nel Magreb oltre che
come spongia soporifera anche come tintura ottima contro
convulsioni, stati spasmodici, nevralgie, dolori generali,
muscolatura contratta, come anti-ansia, antiepilettico e forte
ipnotico (LE FLOCH, 1982).
Le radici contengono gli alcaloidi josciamina, joscina e
atropina fortemente tossici capaci di provocare euforia, stordimento, allucinazioni e narcosi (SCHULTES & HOFFMANN,
1983). La joscina si usa per la pre-medicazione, prima degli
interventi chirurgici per sedare il paziente, ridurre le secrezioni bronchiali ed anche la nausea post operatoria
(ROVERSI, 1977). La sua tossicità si manifesta con ipersensibilità sensoriale, depressione del SNC, prostrazione generale, coma e morte (WOODWARD,1985).
GIUSQUIAMO
Hyoscyamus niger L. (Solanaceae)
Nome volgare italiano: Giusquiamo nero
Pianta erbacea annuale o bienne di 3-8 dm, densamente villosa per peli brevi e peli patenti di 3 mm. Ha odore fortemente fetido molto penetrante; fusto robusto e foglie tutte con picciolo di 25(-10) cm; lamina ovata (6-8)cm nelle foglie inferiori, 1,5 x 2 cm
nelle superiori, lobata. Fiori in spighe fogliose unilaterali; calice
campanulato, corolla internamente con fondo bianco giallastro
venato di violetto; calice fruttifero con denti mucronati e più o
meno pungenti. Fiorisce in primavera-estate.
E’ presente dappertutto in Europa, eccezionalmente all’estremo nord.
Il giusquiamo è stato da sempre utilizzato come narcotico. Già nella Roma del 1° secolo dopo Cristo, la pianta era
nota perché capace di produrre delirio, alienazione, visioni
fantastiche ed ebbrezza, seguiti da profonda narcosi ed
insensibilità al dolore (LEWIN,1993). Celso, Plinio e Galeno
indicavano il succo di questa pianta come un rimedio ottimo
per combattere il dolore, le nevriti ed il mal di denti (LO
MAGNO,1994). Gli antichi Galli, conoscevano il giusquiamo
come pianta altamente tossica nei cui estratti intingere le
punte delle frecce: si narra addirittura che, a scopo di vendetta durante una disputa tra Cesare e Pompeo, fosse stata
avvelenata l’acqua delle milizie di Cesare con alte quantità
di succo di giusquiamo. Anche per santa Ildegarda la pianta
era un potente veleno e secondo Alberto Magno del XII
secolo molte delle azioni magiche indotte da maghi e negromanti erano da attribuire non tanto alla evocazione del diavolo, ma all’azione tossica della pianta che è capace di
generare confusione, alienazione, narcosi. Si ritiene infatti
che associata alla datura (Datura stramonium L.) sia stata
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usata come uno degli ingredienti attivi nelle pozioni delle
streghe e di altri preparati tossici. (LEWIN,1993).
Durante il Medioevo per conciliare il sonno di un malato affetto da febbre acuta, si consigliava di scaldargli i piedi
con un decotto di questa erba applicando contemporaneamente, sulla fronte e sulle tempie, un impiastro preparato
riducendo in polvere fine il seme, mescolarlo a bianco di
uovo, latte di donna e aceto. In caso, invece, di mal di denti,
triturare l’erba e porla in bocca, oppure cuocere la radice
con aceto riducendo il volume del decotto a 2/3; fare con
questo preparato un gargarismo. Per calmare ogni dolore su
qualunque parte del corpo applicare sulla zona malata una
pasta ottenuta macinando la pianta (AA.VV., 1990).
Il giusquiamo è conosciuto da tempi remotissimi anche in
Tunisia e nei territori arabi dove è ancora considerato ottimo
come calmante; si utilizzano a tal scopo il succo mescolato
con il burro o le sommità ed i fiori macerati in olio bollente
oppure l’infuso dei semi di H. albus L., “bizr el binj” o ancora le foglie, ”waraq el binj” e i fiori “zahr el binj” sotto forma
di unguento o ancora di cataplasma. H.niger, invece, considerato troppo tossico e per questo utilizzato soltanto per
fumigazioni anestetiche, sedative ed antispasmodiche. Il
giusquiamo entra nella composizione di una preparazione
analgesica nota come “olio di giusquiamo”costituita da tre
foglie di giusquiamo o 2 foglie di mandragora, lasciate
macerare in olio (LE FLOCH, 1982). Nel Beluchisthan e nel
Punjab lo chiamavano “kohl-bang” e lo fumavano come
l’haschish (Cannabis sativa L.) (LEWIN,1993).
Il giusquiamo venne usato per tutto l’800 come componente del “Balsamo tranquillo” dall’azione antalgica, antispastica e sedativa (LO MAGNO, 1994). Viene anche segnalato
l’uso del giusquiamo per eliminare i dolori al basso ventre. A
tale scopo si utilizzavano supposte a base di semi di questa
pianta, mentre con l’infuso degli stessi si preparava un pediluvio dalle spiccate proprietà narcotiche (DUKE, 1985).
La pianta contiene gli alcaloidi, iosciamina, atropina e
scopolamina; questa ultima rappresenta circa la metà degli
alcaloidi totali. Ha un uso analogo alla belladonna ma la
presenza di una notevole quantità di scopolamina accentua
le proprietà sedative della droga. Si usa in preparazioni
omeopatiche come antinevralgico (MAUGINI & al., 2006).
La tossicità del giusquiamo nero si manifesta con salivazione eccessiva, delirio, visione doppia, battito rapido, convulsioni, coma. La sintomatologia è molto simile a quella della
belladonna e quindi rossore al volto ed al collo, secchezza
della fauci, midriasi, tachicardia, allucinazioni, delirio, convulsioni, coma; possibile la morte (WOODWARD, 1985).
CICUTA
Conium maculatum L. ( Apiaceae)
Nome volgare italiano: Cicuta maggiore
E’ un’erba bienne, diffusa in terreni abbandonati e marginali di
tutta l’Europa, l’Africa e l’America settentrionale. Ha un fusto di
1-2 metri di altezza, leggermente scannellato, con macchie rossoviolacee alla base, foglie tripennatosette, a lembo triangolare, fiori
in ombrelle composte, frutti, diacheni ovoidali, grigiastri e amari.
Fiorisce da giugno a settembre.
Tutta la pianta, sfregata, emana odore sgradevole e ripugnante che ricorda quello dei topi. Per la sua elevata tossicità, più che come medicamento, veniva spesso utilizzata
come veleno per i condannati a morte; la sintomatologia
conseguente alla sua ingestione è perfettamente descritta da
Platone nella “Morte di Socrate”. Contiene alcaloidi a struttura piperidinica tra cui il più importante è la coniina, ad
azione nicotino- simile. Agisce sul parasimpatico che viene
inizialmente eccitato e poi depresso; ha anche un’azione
curarina intensa in quanto al pari del curaro ha un’azione
paralizzante delle giunzioni neuro-muscolari. Agisce principalmente sui centri nervosi simpatici, parasimpatici e in particolare sul vago procurando una paralisi ascendente e quindi un blocco respiratorio e cardiaco.
I sintomi di intossicazione più evidenti sono nausea,
vomito, diarrea, dolori addominali e malessere generale,
sensazione di freddo, spasmi muscolari convulsioni, midriasi, alterazione del ritmo cardiaco, ed infine morte per arresto della respirazione (MARRUBINI BOZZA & al.,1989).
EDERA
Hedera helix L. (Araliaceae)
Nome volgare italiano: Edera
E’ una pianta legnosa sempreverde il cui nome, dal greco “hellissein”= arrampicarsi, risalta il suo portamento rampicante. Ha
un’altezza variabile; le foglie, a lamina ovale, lanceolata o palmato lobata con base ottusa, tronca o cuoriforme e margine intero o
diviso in 5 lobi ottusi, sono provviste di un lungo picciolo, soprattutto nei fusti striscianti al suolo. Fiori, piccoli, verdi riuniti in
infiorescenze ad ombrella e frutto del tipo bacca ovoide di 4-6 mm
di diametro, a maturità di colore violaceo o nerastro. Fiorisce in
autunno e i suoi frutti completano la maturazione nella primavera
successiva. Il suo areale comprende l’Europa, l’Asia media, il
Giappone, l’Africa boreale e le Isole Canarie. In Italia è presente
in tutto il territorio; cresce comunemente sugli alberi, sui muri,
sulle rocce, nelle zone ombrose dal mare alla zona montana.
L’edera, in Grecia, era considerata simbolo di fedeltà ma
anche di passione sfrenata e sensuale essendo stata consacrata al dio Dionisio. Di questa pianta si cingevano la testa
i seguaci del dio, le Menadi, durante le feste orgiastiche a lui
dedicate. Dioscoride usava i fiori macerati nel vino contro la
dissenteria e le foglie contro le malattie della milza. Durante
il Medio Evo si consigliavano le foglie contro l’idropsia, il
mal di testa e l’itterizia; la radice contro i disturbi della
vista, i frutti nelle ulcere del naso, il mal di testa e l’epilessia. Notizie sul suo uso, in passato, come narcotico ma prevalentemente come antalgico, sono riportate in DUKE
(1985). Nella medicina tradizionale sarda, era conosciuta
come sedativo-nervino e come antalgico (ATZEI, 2003).
Leclerc la considerava moderatrice della sensibilità dei
nervi periferici, efficace nella cura delle nevriti
(NEGRI,1971). Tutte le parti della pianta contengono saponosidi triterpenici come l’alfa e beta ederina; altri principi
attivi sono: sesquiterpeni (germacrene, beta elemene, elisene); flavonoidi (rutina e derivati del kaemferolo), polifenoli
(acido clorogenico, acido caffeico); poliacetileni e l’alcaloide emetina (BRUNI,1999). L’edera gode di proprietà antalgiche ed antispasmodiche, è vasoprotettrice ed antiedemigena.
Tutta la pianta è tossica ma soprattutto i frutti. La sua tossicità si manifesta con nausea, vomito, pallore, eccitamento e
poi depressione del sistema nervoso centrale, coma e
depressione respiratoria (MARRUBINI BOZZA & al., 1989).
LATTUGA
Lactuca virosa L. (Asteraceae)
Nome volgare italiano: Lattuga velenosa
E’ una pianta erbacea annuale e/o biennale con odore di papavero. Ha un fusto eretto, bianco osseo, glabro ma con isolate seto-
le subspinose, ramoso in alto. Foglie verde glauco fittamente dentellate-spinulose sui bordi; foglie superiori ridotte a squame; acheni con corpo liscio privo di setole. L’areale della specie comprende l’Europa media e meridionale; in Italia è rara spesso solo come
relitto di antiche colture e in via di scomparsa. Fiorisce da giugno
a settembre.
La lattuga virosa era conosciuta ed apprezzata dagli antichi che la distinguevano già dalle specie vicine perchè ritenuta di attività narcotica più spiccata. E’ la “Tridax Agria” di
Dioscoride. Nel Medio Evo se ne faceva largo uso soprattutto dei suoi frutti, indicati contro l’insonnia, la febbre e l’incontinenza. Santa Ildegarda la considerava un potente veleno. Nel 1700 fu quasi dimenticata ma ritornò come farmaco
alla fine di questo secolo con il “lactucarium”, preparato con
il latice estratto dalle foglie e dalla radice. Chiamato “oppio
di lattuga” era usato come anestetico e sedativo della tosse
ma anche per le sue proprietà narcotico e analgesiche, in
sostituzione dell’oppio. Contiene acidi organici, zuccheri, e
sostanze che deprimono il sistema nervoso centrale, lattucina e tracce di iosciamina (SENATORE, 2004).
LAPAZIO
Rumex crispus L.(Polygonaceae)
Nome volgare italiano: Romice crespo
Questo nome potrebbe essere riferito a Rumex crispus
(Polygonaceae) volgarmente noto anche come Lapazio. Si tratta di
una pianta erbacea perenne con fusto cilindrico ascendente-striato.
Foglie con picciolo amplessicaule di 2-4 cm ed ocrea cilindrica,
membranacea, avvolgente strettamente il fusto lunga fino a 3 cm;
Lamina lanceolata, ondulata sul margine. Valve triangolari, cuoriformi, intere e acute. Fiorisce da maggio a luglio. E’ presente nella
maggior parte dell’ Europa; è comune negli incolti, ruderi e coltivi dell’Italia continentale ed insulare, dalla costa fino al piano
montano.
La radice contiene ferro in combinazione organica, ossimetilantrachinone, emodina, etere emodinmonometilico,
acido crisofanico, acido lapatinico, resine, sostanze tanniche, olio etereo, ossalato di calcio. Se ne conosce l’uso,
nelle clorosi e cloroanemie tubercolari. La sua somministrazione ha dato risultati soddisfacenti, nell’aumentare le emazie e il tasso di emoglobina, il tutto constatato anche clinicamente. L’effetto costipante del ferro è corretto dall’azione leggermente purgativa esercitata dalle piccole quantità di
emodina e di acido crisofanico contenute nella droga
(NEGRI,1971). Nella spongia soporifera, però, non si fa riferimento alla radice bensì ai semi di Lapazio. Non è da escludere che anch’essi contengano gli stessi principi attivi la cui
presenza ne giustificherebbe l’uso negli interventi chirurgici durante i quali è inevitabile una perdita di sangue.
COCONIDIO
Daphne gnidium L. (Thymelaeaceae)
Nome volgare italiano: Dafne gnidio
Daphne gnidium L. è nota anche con il nome di cocco conidio
e quindi coconidio. Si tratta di un arbusto sempreverde con fusto
eretto ramoso e foglie coriacee lineari, lanceolate acute. Fiori in
cime contratte all’apice dei rami, frutto drupa subsferica rossa.
Fiorisce dal luglio a settembre.
E’ comune in tutto il bacino del Mediterraneo. In Italia è comune dalla Liguria alla Calabria, Sicilia, Sardegna, e isole minori.
I suoi frutti erano usati dagli ippocratici come rimedio
evacuante. La corteccia fresca pestata con alcool e macera257
ta in olio, era ritenuta un forte vescicatorio. Tutta la pianta
contiene una sostanza glucosidica acre, la dafnina, una curarina e una resina tossica: la mezereina. Le proprietà medicinali attribuite a Dafne gnidio sono diaforetiche ed emocatartiche (NEGRI,1971). Nella tradizione popolare sarda il
suo uso è noto anche come diuretico, purgativo ma soprattutto come antalgico (ATZEI, 2003). Probabilmente per la
presenza di curarina, svolgeva anche un’azione curaro-simile e quindi agiva anche provocando una paralisi dei muscoli e quindi una più facile immobilizzazione del paziente.
MORE
Nella composizione di alcune spongie soporifere rientrano anche le more indicate come mora silvestre e more
acerbe. La prima va identificata come la mora del rovo selvatico; l’altra, invece, è da attribuire alla mora di gelso. In
un manoscritto medioevale (AA.VV., 1990), viene indicato
infatti come “mora selvatica” il frutto di Rubus fruticosus e
come “mora celsi” il frutto di Morus nigra.
Rubus fruticosus L. (Rosaceae)
Nome volgare italiano: Rovo
Si tratta di una pianta erbacea perenne cespugliosa con fusti
generalmente spinosi. Foglie con 3-5 segmenti palmati ; sui rami
fioriferi foglie con soli tre segmenti pagina superiore verde scuro,
coriacea, subglabra, e pagina inferiore bianco-tomentosa.
Infiorescenza generalmente a pannocchia piramidata con tre sepali angolari bianco-tomentosi, alla fruttificazione ripiegati verso il
basso, e petali ovati, rosei; stami e stili bianchi o rosei, circa eguali in lunghezza. Frutto nero, lucido (1cm).
Secondo quanto riferisce GASTALDO (1987), è un entità
smembrata in numerose specie (HESLOP-HARRISON in TUTIN
et al.,1968), tra le quali R. ulmifolius Schott, è la più comune in Italia.
I frutti sono ricchi di acidi organici quali ossalico, citrico, malico e tartarico; sono provvisti, inoltre, di tannini,
essenze e sostanze coloranti e godono di proprietà rinfrescanti e leggermente lassative (GASTALDO,1987).
Morus nigra L. (Moraceae)
Nome volgare italiano: Gelso nero
Comunemente chiamato Moro nero o gelso nero, una pianta
arborea di 4-8 (20) m. con rami giovani glabri con corteccia verdebruna e lenticelle longitudinali allungate (1mm).
Per i suoi frutti commestibili. La sua patria di origine pare sia
la parte meridionale del Caucaso o addirittura i monti del Nepal.
Introdotto nella regione mediterranea è coltivato come
pianta ornamentale per la sua chioma molto ombrosa e, per la
sua rusticità, come albero da frutta. Le more del gelso nero
contengono zuccheri, acidi organici, pectine, antociani e pure
una cianidina: la morina. Il termine “ more acerbe” va probabilmente riferito a Plinio secondo il quale portando addosso le
more, non ancora mature, si arrestavano le emorragie. In passato, inoltre, era opinione diffusa che le more combattessero
l’insonnia e la cefalea oltre a contrastare le malattie respiratorie, espellere i vermi e depurare l’organismo.
CUSCUTA
Cuscuta L. sp. (Convolvulaceae)
Nome volgare italiano: Cuscuta, Erba ragna
Il nome erba ragna, perchè cresce attorcigliandosi su altre
258
piante, si indicano alcune piante parassite annuali del genere
Cuscuta L., che si presentano con fusti filamentosi giallastri o rossastri formanti un denso intrico sulle piante ospiti. Hanno foglie
ridotte a squame poco evidenti e fiori molto piccoli. Fioriscono in
primavera-estate.
Secondo quanto riportato in un manoscritto medioevale
(AA.VV., 1990), la cuscuta, raccolta in fiore, può essere
conservata per due anni. Ha la proprietà di “purgare prima
tutto l’umore melanconico, quindi la flemma”. Tutte le parti
della pianta contengono un glucoside (cuscutina). Leclerc
(1870-1955), attribuiva alla cuscuta un’azione colagoga e
lassativa leggera, un effetto carminativo ed un miglioramento generale del tono dell’intestino (NEGRI,1971). Un
nome popolare della pianta è anche “capelli di strega” perché si riteneva che i suoi fusti lunghi fossero i capelli caduti alle streghe.
La presenza della cuscuta in preparati analgesico-narcotici forse è da correlare alla sua proprietà blandamente lassativa che potrebbe contrastare l’azione costipante dell’oppio e contribuire quindi a migliorare il tono muscolare dell’intestino.
ERBA VERDE DI MATALA
Il nome va riferito a piante erbacee presenti a Matala una
città della Grecia. Impossibile quindi risalire ad una specie
precisa.
ALTRE PIANTE PRESENTI IN PREPARATI ANESTETICI-ANALGESICI.
Narcotici e analgesici venivano preparati sotto le forme
più svariate, dalle pozioni da bere, alle miscele da inalare,
agli unguenti da massaggiare. Tra questi “l’unguento sedativo”, suggerito dai quattro maestri della Scuola Salernitana,
a base di sugna e di solano (Solanum nigrum L.), una solanacea che contiene in tutte le sue parti la solanina, un alcaloide che agisce come narcotico sul cervello e sul midollo
spinale paralizzando le terminazioni delle fibre sensitive e
motorie. Famoso era anche “l’unguento populeo” a base di
pioppo, (Populus L. sp.), belladonna (Atropa belladonna
L.), oppio, stramonio (Datura stramonium L.), mandragora,
giusquiamo e solano, usato anche come analgesico e sonnifero fino al XVI secolo (RAITANO, 1995-96). Secondo una
ricetta del 1376 per modificare lo stato di coscienza ed
indurre il torpore nel paziente da operare, si somministrava
una preparazione a base di polvere di giusquiamo, papavero
nero (Papaver rhoeas L.), radice di peonia (Paeonia officinalis L.) e zizzania (Lolium temulentum L.).
Oltre alla presenza di solanacee e di oppio, dalle spiccate proprietà analgesiche e narcotiche, figurano in questi preparati anche il papavero nero, anch’esso soporifero, anche se
blando, la radice di peonia, pianta considerata magica e dalle
proprietà narcotiche, e la zizzania, nota infestante le colture
dei cereali. In Corsica, la pianta veniva somministrata in cibo
ai cavalli per tenerli tranquilli (ATZEI, 2003).
DISCUSSIONE E CONCLUSIONI
Da un confronto effettuato tra le piante che costituiscono
gli ingredienti della spongia soporifera emerge che il loro
effetto è correlato alla presenza di specifiche sostanze chimiche che esplicano spiccate attività biologiche a livello del
sistema nervoso centrale e autonomo determinando anche
azione analgesica ed anestetica. Il papavero sonnifero, anzi il
suo latice, l’oppio, infatti, deve la sua attività biologica alla
morfina, il principale alcaloide in esso contenuto; il giusquiamo e la mandragora, invece, agli alcaloidi tropanici; la
cicuta alla coniina, la lattuga alla lattucina e così via.
Attraverso l’applicazione sulle narici della spongia
soporifera, il paziente inalava, quindi, diverse sostanze che
svolgevano un ruolo fondamentale nel favorire l’anestesia e
combattere il dolore. L’effetto anestetico-analgesico che si
manifestava con l’inalazione di tali droghe, non era tuttavia
identico a quello prodotto dai principi attivi in esse contenuti; oppio e morfina infatti non hanno lo stesso comportamento, sia perché in esso sono presenti altri composti con
azioni che si sovrappongono ed interferiscono con quelle
della morfina, sia perché, nell’oppio, gli alcaloidi si trovano
sotto forma di sali poco solubili in quanto generalmente
salificati dall’acido meconico. Altrettanto si può dire per la
mandragora, il giusquiamo e per altre solanacee presenti
nella spongia; i loro principi attivi, interferendo con altre
sostanze contenute nelle diverse droghe, modificavano sicuramente la loro azione terapeutica potenziandone l’effetto
sedativo ed analgesico riducendo anche le secrezioni bronchiali e la nausea. Per quanto riguarda la presenza di altri
ingredienti più o meno ricorrenti nella spongia, sicuramente
ad ognuno di essi venivano attribuite proprietà medicinali
responsabili degli effetti anestesici ed analgesici. La cicuta,
ad esempio, per la sua azione curaro-simile, contribuiva all’
immobilizzazione del paziente, l’edera e il cocconidio a
combattere il dolore, la lattuga a sedarlo ulteriormente, la
cuscuta a migliorare il tono dell’intestino e il lapazio, forse,
ad evitare uno stato di anemia. Nulla si può invece dire sulla
verde erba di Matala, visto che non si capisce bene di quale
pianta si tratti. Per quanto riguarda invece le more, si può
supporre che esse, per il loro contenuto in zuccheri, entrassero nella composizione della spongia per correggere il
sapore sgradevole della pozione e per limitare, grazie alla
presenza di pectine e sali minerali ad azione lassativa, l’azione costipante delle altre droghe in essa presenti. Le more
acerbe di gelso, inoltre, secondo quanto tramandato dalla
medicina popolare medievale (AA.VV., 1990), pare contribuissero ad evitare il rilassamento dell’ugola. Nei pazienti
in posizione supina, infatti, subito dopo la perdita di
coscienza, la mandibola si rilascia e cede mentre la lingua
può creare un ostacolo al respiro (ROVERSI, 1977). E’ probabile quindi che la loro presenza, nella spongia, fosse
dovuta a tale proprietà.
Dallo studio effettuato emerge che i medici del passato,
basandosi soltanto su osservazioni empiriche si avvalevano
di droghe vegetali in grado di inibire i riflessi vagali, diminuire l’ansia e permettere una più facile e sicura anestesia
che rendeva il paziente sedato e sonnolento evitando alcuni
spiacevoli effetti collaterali. Solo successivamente, la ricerca scientifica ha dimostrato che giusquiamo e mandragora
ed altre solanacee contengono principi attivi ad azione sedativa ed anche anticolinergica capaci di inibire le secrezioni
salivare e bronchiale, ridurre gli effetti collaterali degli anestetici e stimolare il centro respiratorio. Ancora oggi, per
creare uno stato di narcosi si ricorre come anche in passato,
a sostanze anticolinergiche, come i principi attivi delle solanacee, ad un potente analgesico come la morfina e a sostanze capaci di diminuire l’attività motoria della muscolatura
scheletrica per determinare, nel paziente da sottoporre ad
intervento chirurgico, un rilassamento muscolare. Visto che
molti usi medicinali di un tempo hanno trovato conferma
nel presente si deduce che l’esperienza del passato è oggi
fondamentale per approfondire la ricerca fitochimica e farmacologica e che non esiste medicina del presente che non
abbia le radici nel passato.
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RIASSUNTO – Allo scopo di approfondire la conoscenza
delle piante utilizzate in passato come analgesiche
ed anestetiche, gli autori riferiscono in questo contributo i risultati di una indagine bibliografica condotta sulle piante che costituivano gli ingredienti
della spongia soporifera, una preparazione costituita da una spugna di mare e da decotti concentrati di
piante medicinali. Vengono analizzate le specie utilizzate per la sua realizzazione esaminandole sotto
il profilo storico, botanico, chimico, farmacologico
e tossicologico.
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