L’ambiente naturale della Val Codera
Per avere un’idea della ricchezza naturalistica della valle vi proponiamo di seguire passo
passo la mulattiera di accesso e gli altri sentieri, dallo sbocco di valle fino alle vette, soffermandovi
di volta in volta sugli ambienti attraversati. Approfitteremo di questo per richiamare l’attenzione sul
paesaggio, sulle rocce, sulla vegetazione e sulla fauna.
Prima di cominciare la nostra “escursione”, andremo a ripercorrere l’affascinante storia della
nascita e formazione della valle, risalendo fino alle più antiche ere geologiche. Da questo punto di
vista salire in Val Codera (come peraltro in tutte le Alpi) non è solo un'escursione di alcune ore di
salita, ma anche un viaggio nel tempo, dalle rocce più antiche delle Alpi ai più recenti fenomeni
idrogeologici. Tutto questo è frutto della complessità degli eventi che hanno caratterizzato questo
settore delle Alpi.
Storia geologica della Valle
L'aspetto attuale delle Alpi - la forma dei pendii e del fondovalle, l’aspetto delle rocce, la
distribuzione della vegetazione, fino ai modi con cui l'uomo l'ha popolata e modificata - è stato
determinato da una catena di eventi che sono avvenuti nel corso dei tempi. Noi in realtà osserviamo
una sorta d’istantanea di un processo in divenire, lento per la nostra percezione (milioni di anni
contro alcuni millenni di memoria storica e alcune decine d’anni nella vita di un uomo), ma non per
i tempi dell’evoluzione della Terra.
Proviamo a ripercorrere questa particolare “storia”.
Secondo la teoria della tettonica a zolle, la crosta terrestre è suddivisa in diverse zolle o
placche: alcune di queste sono costituite solo dal fondo degli oceani, altre sia da crosta oceanica sia
da continenti. Le placche si muovono l’una rispetto all’altra, e quando due placche si scontrano,
solitamente accade che una delle due s’immerge sotto l’altra. Se lo scontro tra due placche
coinvolge un continente, o due continenti, la conseguenza è la formazione di una catena montuosa.
Milioni e milioni di anni fa… dove ora sono le montagne una volta c’era il mare: anche se questa
frase non può essere presa alla lettera, la consideriamo generalmente veritiera. Nelle Alpi è successo
proprio così, e non una volta sola.
Se andiamo indietro nel tempo, fino a 500 milioni di anni fa e ancora prima, gli studi
geologici ci dicono che i continenti avevano forma e posizione ben differente dall’attuale. Poi, 250
milioni di anni fa, essi si avvicinarono tra loro fino a fondersi in un unico grande supercontinente
denominato Pangea. Successivamente la Pangea si spezzò in due parti, due continenti chiamati
Laurasia (a nord) e Gondwana (a sud).
Tra i due nuovi continenti si aprì un oceano detto Tetide, più o meno proprio nella fascia dove
oggi si trovano la catena delle Alpi e, a est, l’Himalaya. Circa 130 milioni di anni fa (siamo circa
all’epoca dei dinosauri) si cominciarono a formare i continenti come li conosciamo oggi. Si aprì
l’Oceano Atlantico da sud a nord, cosicché l’Africa si staccò dall’America Meridionale, come
anche dall’India, dall’Australia e dall’Antartide, e si avvicinò a quella che stava per diventare
l’Europa. Ciò fece sì che la Tetide si andò a ridurre e pian piano si chiuse.
Nel periodo che è chiamato Terziario (da 65 a 2 milioni di anni fa) i due continenti (Europa e
Africa) si scontrarono formando l’ossatura principale della catena delle Alpi, con quel fenomeno
chiamato orogenesi alpina: quello che noi osserviamo sulle nostre montagne è un accatastamento
abbastanza caotico di rocce europee, africane e dell’antico oceano, di età e aspetto diverso,
spezzate, spostate, deformate e innalzate in seguito allo scontro tra i continenti;
contemporaneamente, o quasi, si formarono le catene montuose dell’Asia centrale, come
l’Himalaya.
La nostra valle si trova proprio quasi nel mezzo dello scontro dei due continenti: infatti, le
rocce di cui è formata appartengono in parte alla zolla europea. Perché solo in parte? Perché in un
intervallo fra le spinte compressive (più di 30 milioni di anni fa, sempre durante il Terziario),
un’enorme massa di roccia fusa risucchiata dal profondo riempì gli spazi esistenti fra roccia e
roccia. E' quello che i geologi chiamano un’intrusione. Il magma si solidificò formando così il
granito del massiccio "intrusivo" Masino-Bregaglia fra le rocce della placca europea, i resti del
fondo della Tetide e le rocce di quella africana. Infine, 25 milioni di anni fa, avvenne un ulteriore
fenomeno, ancora discusso, simile al precedente del Masino-Bregaglia, che portò alla formazione di
quel settore granitico su cui insiste la parte bassa della valle, quello detto sanfedelino.
Negli ultimi 2 milioni di anni il fenomeno che più ha inciso sulla catena alpina fu il succedersi
di diversi periodi glaciali: almeno 5 secondo i geologi. Le tracce più evidenti sono quelle
dell’ultima glaciazione che terminò 12.000 anni fa circa. A quell'epoca la Val Codera era un grande
ghiacciaio, dal quale emergevano solo le creste oltre i duemila metri; il fiume di ghiaccio confluiva
poi nella grande colata del Mera. Per avere un’idea dell’estensione dei ghiacciai, basti pensare che
nella zona di Colico il ghiaccio aveva uno spessore di diverse centinaia di metri e che le lingue di
ghiaccio si spingevano fino alla Brianza. Poi, gradualmente, i ghiacci si ritirarono lasciando le
tipiche vallate profilate a U. Le valli laterali, come nel nostro caso, erano state scavate meno
profondamente della valle principale, poiché il loro ghiacciaio era più ridotto del grande ghiacciaio
in cui si gettavano: così l’antico fondovalle della Val Codera, dove oggi sorgono l’Avedée e San
Giorgio, si trovò con un dislivello di qualche centinaio di metri sul piano sottostante. In alcuni casi
allo sbocco delle valli laterali si sono formate spettacolari cascate, mentre in altre situazioni, come
in Val Codera, l’azione del torrente fu tale da incidere forre profondissime, come lo sbocco della
Val Codera e dei valloni di Revelàs e Ladrogno, mentre gigantesche frane cadevano ovunque dalle
pareti rocciose non più contenute dai ghiacci. Le morene e i detriti delle frane furono erosi,
trasportati e ridepositati dai corsi d’acqua, soprattutto nel periodo del disgelo e durante le ripetute e
costanti alluvioni, formando terrazzi e scarpate e livellando il fondovalle fino a darci il panorama
attuale, come nella parte della valle da Saline al Brasca: questo incessante lavoro di
rimaneggiamento continua ad operare anche oggi. Infine, su scala temporale molto diversa, un altro
fattore si aggiunse a modificare il paesaggio: l'uomo.
Escursione in Val Codera
Il territorio della valle presenta per vari motivi una grande varietà del paesaggio. Da un lato ci
sono importanti fattori naturali, come il notevole dislivello tra lo sbocco della valle e le cime
spartiacque (oltre tremila metri), che comprende praticamente tutti gli orizzonti vegetazionali, il tipo
di substrato roccioso, l’esposizione e l’insolazione dei versanti, i microambienti (le rocce, i torrenti,
i pascoli, ecc.) costituiscono ambienti che ospitano un notevole numero di specie vegetali. Molto
meno significativa è la presenza della fauna selvatica. La presenza e l’intervento dell’uomo hanno
contribuito ad introdurre ed espandere specie a lui utili (ma ha introdotto a volte delle infestanti),
oppure ha modificato radicalmente alcuni ambienti, per esempio disboscando ed aprendo campi e
pascoli, o contribuendo attivamente (con la caccia) alla rarefazione o alla scomparsa di diverse
specie animali. Abbiamo quindi la dominanza delle colture delle basse altitudini nella "fascia dei
paesi" (prevalente fino a 30 anni fa ed ora visibile specie d'inverno, quando la lettura del territorio è
resa possibile dallo spogliarsi delle latifoglie), il settore di media valle, brullo e privo di parte
forestale (ma ricco di pascolo), i versanti dove la presenza dell'uomo è meno intensa e quindi
coperti in maggior misura dai boschi, pur potendo riconoscere, scrutando attentamente, gli effetti
delle attività umane (a queste altitudini furono distrutti i cespuglieti ed estese zone boschive per
ottenere superfici da pascolo). Lo sguardo tocca poi le praterie oltre le piante d'alto fusto, che sono
in parte naturali e in parte ottenute dall’eliminazione della vegetazione esistente (è così per i
territori di Ladrogno, Arnasca, Averta, Alpìgia, Sivìgia). L'arrestarsi della prateria naturale fornisce
un'indicazione d'inasprimento climatico ed infine vi è l'ultima fascia, quella delle specie che
sopravvivono alle rigide temperature invernali (riparandosi nelle spaccature della roccia) e dei
muschi e licheni incrostati sulle creste più alte.
Iniziamo il percorso dal parcheggio dove termina la strada carrozzabile. Si risalgono
faticosamente le prime pendici tra le pareti di Granito di San Fedelino, visibile sulle sponde del
lago di Mezzòla e sui versanti della bassa Val Codera, e che si estende tra la Motta dei Corvi e la
Val de Munt, incuneandosi in valle. La roccia ha un aspetto chiaro con piccole macchie nere e
tipiche scagliette lucenti che permettono di distinguerlo dalle altre rocce; è costituita quindi in
prevalenza da una parte chiara (dal punto di vista mineralogico quarzo con feldspato di potassio),
dalle scaglie lucenti (la cosiddetta "mica bianca", cioè muscovite) e dalle macchioline scure (la
"mica nera”, la biotite). Esso si presenta, nella zona meridionale degli affioramenti, sotto forma di
filoni granitici entro rocce grigiastre; sul versante sud-occidentale, dal fondovalle del torrente
Codera alla vetta del Mut de l'Avedée, esso appare, invece, frammisto ad elementi di altro granito
come il serizzo e a rocce più scure. Gli affioramenti di sanfedelino sono più continui nella parte
bassa, dove costituiscono un unico corpo intrusivo. Con i suoi 25 milioni d'anni è una roccia
giovanissima e costituisce il risultato dell'ultimo rilevante evento geologico delle Alpi Centrali.
In quest’ambiente osserviamo una vegetazione particolare. Infatti l'esposizione a sud e sudovest, l'elevata insolazione (anche nei mesi invernali), la presenza di estesi affioramenti rocciosi
(che si scaldano prima e trattengono più a lungo il calore) e non ultima l'influenza del Lago di
Mezzòla e del Lario, fanno sì che quest’ambiente goda i benefici di un clima mite e secco con una
vegetazione di tipo quasi mediterraneo, quale si può osservare ad esempio sui litorali rocciosi
tirrenici. Tra le specie più significative troviamo brugo, erica arborea, ginestra, biancospino e
persino cisto (Cistus Salvifolius, unico sito in provincia di Sondrio). Inframmezzati a questi,
compaiono il bagolaro o spaccasassi (Celtis australis), una pianta con la corteccia di un colore
grigio uniforme e le foglie lanceolate e seghettate, che conosciamo bene perché utilizzata spesso nei
viali cittadini, nonché i primi alberi di castagno e rovere; l’erba cipollina, il garofano selvatico, il
lilioasfodelo ed il geranio sanguineo completano il quadro, con fioriture ben visibili sin da marzo.
Molto diffusa anche la Robinia, una pianta esotica (viene dall’America) ormai presente in Europa
da qualche secolo, e che tende spesso ad essere piuttosto invasiva ed infestante. Nella gola del
fiume si possono notare con l’aiuto di un binocolo dei sempreverdi come il tasso e l'agrifoglio oltre
ai tigli selvatici (anche questi ben presenti nei nostri viali con le tipiche foglie a forma di cuore).
Nei luoghi più impervi, sospeso ai rami sopra gli strapiombi, pende il vischio parassita. Tra gli
animali, importante la presenza del gufo reale, capace di predare mammiferi fino alla grandezza di
un piccolo capriolo, rarissimo in tutte le alpi ed stato avvistato nella gola del torrente Codera.
Proseguendo il cammino oltre l’Avedée noteremo un cambio d'orizzonte arboreo. Compaiono
in nuclei più consistenti gruppi di betulle, inconfondibili per la loro corteccia chiara. Non manca
anche qualche esemplare di faggio. La caratteristica principale è data da boschi via via più estesi di
castagno da frutto. Queste colture arboree di varietà migliorate di castagno sono sistemate su prato
falciato e pascolato, oppure su pendii con sottobosco incolto e coperto da felce aquilina. Anche se
si tratta di una coltura in regressione, è da ricordare per la plurivalenza dimostrata nei periodi
economicamente più difficili mediante l'utilizzo del frutto in vari usi culinari, e del legno nei
manufatti, molto resistente agli agenti atmosferici, poiché ricco di tannino. Altre piante da frutto
spontanee (oltre al castagno), sono il nocciolo, il ciliegio. Da notare qua e là, ma non molto
numerosi, i gigli di S. Giovanni, che fiorisce con il suo grande fiore di colore arancio nel mese di
giugno, mentre nei pochi prati dell’Avedée si vedono, all’inizio dell’estate, gigli bianchi e piccole
orchidee con fiore di colore blu-viola. Non da trascurare è la presenza del rododendro a queste
quote (800 m., molto bassa per questa specie) che forma sottobosco nei castagneti di Cii, Avedée e
Codera. Un’altra specie importante, almeno per i botanici, è una rara felce chiamata Osmunda
regalis, che si ritrova lungo il sentiero, nei tratti sotto le tettoie in cemento. Una componente non
certo secondaria della vegetazione è data dai funghi che hanno una funzione molto importante,
quella cioè di trasformare il materiale organico.
Nelle notti autunnali più umide è facile fare conoscenza con la salamandra, dalla vivace
livrea giallonera, specie lungo il sentiero di accesso a Codera. Segnalata pure la varietà nera.
A Codera ci accolgono i maestosi platani che ombreggiano il prato della chiesa, mentre
notiamo qua e à qualche noce, quest'ultimo spesso coltivato sia per il frutto sia per il pregiato legno.
Tra le case del villaggio ci sono piccoli orti e qualche minuscolo campo di granoturco. E’ pure
presente la vite che raggiunge il limite massimo a Codera pur non dando garanzia di raccolto.
Tra gli animali sono presenti qui ma anche più oltre volpe, faina, donnola, martora, lepre
comune, scoiattolo (pure nella varietà grigia) e il ghiro; il tasso si riscontra solo a quote basse.
Inconfondibile nel suo volo "spezzato", l'upupa dalla cresta gialla.
Tra i Rettili e gli Anfibi sono da annoverare varie specie fra cui la vipera comune ed il
marasso, entrambe oggetto di cattura negli anni ‘70 in quanto pagate allora dagli istituti
sieroterapici. Anche lucertole, ramarri, rane e rospi sono presenti in valle.
Proseguendo oltre Codera, lungo il fondovalle possiamo osservare le rocce presenti salendo
sul lato sinistro: gli scisti cristallini. Sono rocce generalmente di colore grigiastro o grigio scuro,
che nella parte mediana della Valle spesso presentano una direzione comune prevalente (si dice che
hanno una struttura orientata), oppure più in alto si presentano in massicce bancate di rocce a
struttura cristallina. La maggior parte della Val Codera è scavata entro queste formazioni metamorfiche (che hanno cioè subito trasformazioni a causa del calore e della pressione cui sono stati
sottoposti), denominate complesso del Grùf. Sono rocce antichissime (più di un miliardo di anni) ed
appartengono a strutture precedenti non solo la formazione delle Alpi, ma anche alla Pangea e alla
Tetide di cui si è parlato nella prima parte. E’ stata l’orogenesi alpina del Terziario che ha, per così
dire, inglobato queste formazioni rocciose preesistenti e le ha spinte in alto, senza provocarne in
questo caso una modificazione tale da renderle molto diverse da com’erano in origine. In pratica
gran parte del settore dal Pizzo di Prata ai Pizzi dei Vanni e della sponda sinistra idrografica sono
costituite da scisti. All’interno di queste rocce, che ad un occhio non allenato possono apparire
monotone e tutte uguali, appaiono a volte lenti e vene di dimensioni variabili, costituite da rocce di
colore verdastro (per lo più anfiboliti, della cui lavorazione sono costituiti alcuni manufatti nella
chiesa di Codera), da marmi e da calcefiri (rocce di colore giallo-bruno con aspetto granulare), con
un affioramento ben conosciuto nei pressi di S.Giorgio.
Tra i rapaci notturni sono presenti I’allocco, la civetta nana, la civetta capogrosso. Rapaci
diurni come l'albanella reale e la poiana calzata sono stati avvistati durante l'inverno. Comuni
sono gheppio e poiana, tranne che durante l'inverno. A quote non elevate sono comuni il nibbio
bruno ed il falco pecchiaiolo. Sono presenti pure l'astore e lo sparviere. Fino a pochi anni fa
veniva avvistato anche il biancone, mentre è stato segnalato di recente il falco pellegrino.
Un capitolo a parte merita l'aquila reale. L'ajgula fu cacciata da tempo immemorabile. La
caccia si eseguiva con tagliola ed esca, posta all'interno dei due semicerchi mobili. Questo fino agli
anni '40, quando sulla sua testa era posta una taglia. In questo modo durante l'inverno nella bassa
Val Codera venivano catturate più di 10 aquile per stagione. Il numero così elevato d’individui,
sembra sia dovuto a migrazione dalla vicina Svizzera, durante i periodi più freddi. Tutt'oggi il più
famoso rapace alpino è stabilmente presente in vallata con alcune coppie.
Al margine dei boschi di latifoglie e sulle dorsali dei coni di deiezione, la vegetazione
cespugliosa è formata dal crespino, un arbusto spinoso che presenta in autunno caratteristiche
bacche rosso-arancio di forma ovoidale allungata, rose selvatiche e sambuco nero. A volte in
questi intricati grovigli trova rifugio anche il mughetto. Fra gli alberi il frassino trova attualmente
nei prati e nei campi abbandonati le migliori condizioni per il suo sviluppo. Il suo limite superiore è
Piazzo, mentre l'acero trova a Stoppadura il suo confine naturale. Si ritrova ancora molto spesso la
betulla, che colonizza i pascoli abbandonati e le pietraie. La distesa nota ancora oggi con il nome di
Tiunèe in memoria di una foresta di pino silvestre che la ricopriva è allietata da numerose ginestre
(le più alte in tutta la provincia di Sondrio) e da alcune specie di artemisie. Il giglio di S. Giovanni
ha fatto ancora più volte la sua vivace comparsa.
Le rive dei corsi d'acqua sono occupate da gruppi di ontano bianco (vedi subito dopo Corte,
sulla destra idrografica, sotto Belénich e prima di giungere a Stoppadura, mentre una boscaglia
occupa interamente una fascia del Revelàs, con limite superiore poco sopra il Tracciolino). Il sorbo
degli uccellatori si riconosce per i grappolini di bacche arancioni anche da lontano in autunno, così
come il maggiociondolo in tarda primavera presenta i suoi tipici fiori gialli pendenti, mentre il
sorbo montano incontrato già nella gola della valle, ne arricchisce la sponda sinistra. La felce
maschio e la felce femmina sono legati ad ambienti umidi, ogni tanto quindi faranno la loro
comparsa a pochi metri dai sentieri. All'altezza di La Salina sul bordo del fiume Codera il larice
inizia a manifestarsi, ripopolando con vigore il greto giovane, provocato dalle esondazioni delle
valli e valloncelli laterali (Val de la Lumbra, Sülibiasca, ecc.). Continuando a salire, all'ingresso
della Val Grosina, Punt del Cirél, Val Deserta, troveremo il ginepro con esemplari alti anche 5-6
metri. Associati al ginepro possiamo osservare il garofano dei certosini, la stregona gialla, e la
cinquefoglia bianca.
In questa zona potremmo incontrare Il raro cervo che sale al limite delle conifere nel pieno
dell'estate, difficile da avvistare perché animale prettamente notturno, mentre il capriolo, pure
molto raro, è più sedentario del fratello maggiore cervo e si trova anche durante l'inverno nei
maggenghi attorno ai 500 - 1000 metri di quota; durante la stagione estiva si spinge fino a 1500
metri in prossimità degli alpeggi.
Oltre La Salina la valle piega verso est ed assume una fisionomia più tipicamente alpina:
osserviamo lungo tutto lo spartiacque orientale (Porcellizzo - Ligoncio - Sasso Manduino) le
formazioni di Ghiandone e Serizzo, che si ritroveranno anche alla testata di Sivigia (dall'Altare al
Porcellizzo). Il ghiandone appartiene alla famiglia dei graniti, più precisamente è una granodiorite,
e si riconosce per i caratteristici grandi cristalli biancastri che sono costituiti da feldspato potassico,
ben visibili ad occhio nudo. Questa roccia assume netta prevalenza nel settore centro-settentrionale
del massiccio; costituisce tutte le montagne del Màsino e la cresta dal Ligoncio al Badile ed è ben
visibile dal circo di Arnasca. L'età del ghiandone, già documentata geologicamente come terziaria,
è stata valutata con metodi radioattivi in 30 milioni di anni. Il serìzzo si osserva ai margini sud ed
est del massiccio intrusivo, accanto al prevalente ghiandone, e appare come una roccia grigio scura,
priva dei grandi cristalli bianchi di feldspato potassico, geologicamente definita una Quarzodiorite.
Esso forma una fascia ristretta alla periferia del ghiandone: i passaggi dal serizzo al ghiandone
avvengono per lo più gradualmente, talora però sono segnati da una sottile fascia di scaglie lucenti
(la mica bianca muscovite che abbiamo già visto nel sanfedelino) e da alternanze di bande dell'una e
dell'altra roccia. Spesso verso il contatto con gli scisti cristallini a sud s’incontrano in rapida
successione zone di serizzo e zone di ghiandone. Per quanto riguarda l'età del serizzo, si ritiene che
esso sia poco più antico del ghiandone (32 milioni di anni) e rappresenti la base del massiccio
Masino-Bregaglia.
Dopo il ricco lariceto sul conoide della Sülibiasca, il peccio (o Abete rosso) inizia a
Bresciàdiga e si spinge sino a Codera di Cech, nel fondovalle, per occupare tutta la fascia forestale
sul versante solatio. Tra le specie proprie dì quest’associazione si possono citare l'erba lucciola
maggiore e la veronica latifoglia. Con l’abete rosso ed il larice, allignano nel sottobosco il
mirtillo rosso, quello nero e l'uva ursina. L'ontano verde si trova addensato soprattutto al
margine della pecceta o negli impluvi ripidi dove la formazione del bosco è ostacolata dal passaggio
delle slavine. Infatti le masse di neve che si staccano dalle praterie superiori seguono percorsi
abbastanza regolari, e le conlfere cresciute su questi percorsi vengono spazzate via, mentre l'ontano
verde resiste per la sua ramificazione aperta e l'elasticità del suo legno. Qui rintracceremo la
stellaria dei boschi, l'aconito pannocchiuto a fiori gialli e il ribes (nelle varietà alpinum e uva
crispa). Dove esistono le condizioni (abbondanti precipitazioni e maggiore umidità) si noterà che
all'abete rosso si mischia in quantità molto variabile l'abete bianco (sul pianoro da Bresciàdiga a
Coéder e nell'accesso a Ladrogno) e a questa specie si accompagna spesso la lattuga montana, le
felci, il sorbo degli uccellatori, le due specie di mirtillo. La pecceta avrebbe dovuto occupare
anche buona parte dell'attuale pascolo della fascia che va dal Grialésc alla Grosina, con la presenza
di parecchi esemplari secolari, se la valle in passato non fosse stata deforestata (per ben due volte
nel corso di questo secolo) a raso da tutte le conifere (compresi quindi larice, abete bianco, pino
mugo e cembro).
Tra il fitto bosco di abeti ed ontani vive il gallo forcello, il tetraonide più grosso della vallata.
Nello stesso habitat troviamo anche il francolino di monte. Fino a vent'anni or sono si avvistava
ancora il gallo cedrone, presente con rari esemplari ormai solo in Val Bregaglia. Nelle conifere di
media valle vive il picchio nero, riconoscibile per il volo ondulato e per i richiami schiamazzanti;
sono comuni anche il picchio verde, il picchio rosso maggiore e il "torcicollo". Un discorso a
parte merita il picchio muraiolo, specie rupicola che è possibile vedere d'estate sulle pareti rocciose
fino a 2500 metri. Presenti i corvidi più comuni oltre all'imponente corvo imperiale, il più grosso
corvide europeo, riconoscibile per la forma del becco e la coda cuneiforme.
Nel tratto a monte di Bresciàdiga le Pegmatiti mostrano una discreta diffusione: sono Rocce
di varia origine, diffuse (con densità variabile) a margine dei settori granitici, nella media e alta Val
Codera e accolgono i minerali per cui la valle è famosa. Le pegmatiti sono rocce derivate da
materiale molto fluido e ricchi in elementi rari, che hanno favorito la formazione di minerali
rarissimi. Abbiamo così cristalli di berillo, presente nella preziosa varietà acquamarina, o il granato
varietà spessartìna i cui esemplari di valle sono per qualità e dimensioni i migliori d'Europa. La
"specialità" della valle è però la saffirite, un unicum (altrove solo in Groenlandia e Madagascar).
Altre rarità includono la tormalina varietà shörlite, titanite, zirconio e spinello. In Val Codera la
formazione delle pegmatiti è fatta risalire a periodi in successione, collegati agli ultimi stadi del
raffreddamento dell'intrusione Masino-Bregaglia ed alla messa in posto del sanfedelino.
A quote più alte, si affianca al larice, sempre molto frequente, il pino cembro. Quest'ultimo
fu utilizzato dai pastori per ricavarne recipienti vari per la lavorazione del latte, ma soprattutto
trasportato nei maggenghi e villaggi per costruire mobili (credenze, cassoni, tavoli, panche,
rivestimenti di locali invernali come la stüa). Questa pianta un tempo aveva una diffusione molto
più estesa, anche se, molto probabilmente, limitata ai versanti settentrionali. Negli alpeggi d’alta
quota, dove non troviamo più che qualche albero isolato e stentato, e poi solo pascolo e qualche
basso cespuglio, i prati si presentano come estensione di graminacee e, nei pressi delle baite,
romice, senecione, aconito napello, alchemilla. L'abbandono delle attività pastorali in quota
favorisce al margine degli alpeggi la formazione del ginepro nano e l’espansione del rododendro.
Salendo ancora più in altro, troviamo l’ambiente di vita del camoscio che è (con l'aquila)
l'animale per eccellenza della Val Codera. Le leggendarie cacce al camoscio risuonano tuttora nelle
orecchie dei cacciatori della valle. Attualmente è presente da 1000-1500 metri in su. Durante
l'inverno scende nei boschi di conifere, specialmente nelle zone dove vi sono i pini mughi, mentre
d'estate si alza nelle praterie alpine fino al limite delle nevi. L'imponente stambecco è ancora molto
raro da vedere e comunque rimane sempre sulle creste spartiacque, scegliendo quelle esposte al sole
in inverno. Purtroppo non comuni come altrove la marmotta, dall'inconfondibile fischio acuto che
emette come allarme in caso di pericolo, l'ermellino, la lepre variabile. Presenti nei pascoli ma in
consistente riduzione la coturnice, che, frequentando le zone battute e concimate dagli animali da
pascolo, quali capre e mucche, ha risentito dell'abbandono degli alpeggi, ed anche la pernice
bianca, ormai divenuta molto rara, anche per la caccia.
Al termine degli ultimi pascoli entriamo nel piano nivale, dove la copertura vegetale comincia
ad essere discontinua, dove vivono, libere da neve per pochi mesi l’anno, le specie più appariscenti
della flora alpina. Tra questi, vari tipi di sassifraga, cuscinetti fioriti di androsace e genziane,
ranuncoli, anemoni, oltre all'arnica e alla calendula. Incontriamo sui detriti morenici in
particolare l’erba iva (achillea nana) e il genepì (artemisia glacialis), che qui trovano la loro sede
ideale e hanno per molto tempo contribuito ad integrare il reddito dei pastori, che le raccoglievano
per venderle una volta essiccate e portate a valle.