Il difficile equilibrio fra pena e vendetta

Quaderni Jura Gentium - Feltrinelli
IL DIFFICILE EQUILIBRIO FRA PENA E
VENDETTA (*)
Eva Cantarella
Non è inutile ripercorrere la storia della morte come pena a partire dal
momento in cui, in questa parte del mondo, essa ha preso il posto della
morte come vendetta. Non è inutile, perché - come ha osservato uno
degli studiosi più acuti del diritto criminale antico, Louis Gernet l'esecuzione capitale non è la soluzione puramente materiale al problema
della responsabilità, né solamente "la manifestazione brutale di una
passione quasi istintiva". Se così fosse, ripercorrere la storia della pena di
morte e dei modi della sua esecuzione sarebbe solo una macabra
curiosità". Ma non è così: seguire questa storia aiuta a capire le ragioni
che, per giustificarla, le vengono attribuite oggi, a distanza di oltre
duemilacinquecento anni dal momento della sua nascita.
La pena di morte, infatti, ha un luogo e una data di nascita precisi: Atene,
621-620 a.C. In quell'anno, il primo legislatore della città, Draconte, vietò
ai parenti della vittima di un omicidio di usare la forza per vendicarsi. Se
un membro del loro gruppo familiare era stato ucciso - stabilì la legge - i
parenti avevano il diritto (e il dovere) di denunciare l'uccisione.
Dopodiché, il compito di accertare se l'accusato era o meno colpevole
spettava ai tribunali appositamente istituiti dalla polis, che secondo i
risultati dell'istruttoria irrogavano la pena stabilita dalla legge: morte per
l'omicidio volontario, esilio per quello involontario.
La rottura con le consuetudini secolari secondo le quali a un male inflitto
si rispondeva con la vendetta privata non poteva essere più netta. Nella
cultura omerica (a cavallo tra la fine della civiltà micenea e la nascita della
polis) ogni oltraggio subìto diminuiva la time, vale a dire la considerazione
sociale della vittima e del suo gruppo. Solo attuando una vendetta
proporzionata all'offesa, chi aveva subito un torto dimostrava di essere
più forte e più valoroso dell'offensore. Questa era l'etica che i poemi
incessantemente ribadivano, e alla quale gli eroi dovevano ispirarsi, se
volevano essere tali.
Ma la vendetta chiamava vendetta, alimentava faide tra famiglie, creava
nella comunità uno stato di belligeranza permanente: nella società
documentata dai poemi omerici si sentiva già il bisogno di limitare l'uso
della forza privata in funzione vendicativa, e di questa funzione vennero
incaricati i gerontes, gli anziani della comunità, dinanzi ai quali si svolge il
primo processo documentato dalla letteratura occidentale. Nell'Iliade,
infatti, sullo scudo di Achille (commissionato da sua madre Teti a Efesto,
quando il figlio, ritiratosi dalla guerra dopo la morte di Patroclo, decide
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finalmente di tornare a combattere) sono scolpite scene di vita in due
città: una in pace, una in guerra. E tra le scene di vita della città in pace
c'è una scena processuale. (1)
Un uomo, oggetto di una rappresaglia, chiede aiuto a un tribunale (nel
quale siedono, come giudici, gli anziani della comunità) sostenendo che la
vendetta che sta subendo è ingiusta. Per l'omicidio da lui commesso (e
per il quale uno dei parenti dell'ucciso cerca di ucciderlo) è stato pagato
un riscatto (in greco poinè, termine dal quale derivano il latino poena e poi
l'italiano "pena"). Evidentemente, il pagamento del riscatto era
considerato alternativo alla vendetta: chi lo accettava rinunziava a
vendicarsi. Quel che i giudici dovevano decidere, dunque, nella scena
dello scudo, era se il riscatto era stato effettivamente pagato. Se il
verdetto era positivo, la pronunzia degli anziani conteneva un implicito
invito ai parenti del morto a non usare la forza, e la implicita
dichiarazione che, se usata, questa forza era arbitraria, e come tale
autorizzava una controvendetta. Se il verdetto era negativo, invece, il
tribunale riconosceva implicitamente la legittimità della vendetta in corso.
A questo punto, la forza fisica di cui gli anziani autorizzavano
implicitamente la prosecuzione non era più un fatto privato, era un uso
della forza "legittimo", esercitato, anziché dalla comunità (che si sarebbe
assunta solo più tardi questo compito), da un "agente socialmente
autorizzato", rappresentato dai membri del gruppo della parte lesa.
Il processo di limitazione e di controllo della vendetta, dunque, affonda
le sue radici in un'epoca antecedente alla nascita della polis. E portare a
compimento questo processo fu uno dei primi compiti che la polis si
prefisse, e che, come abbiamo detto, realizzò nel 621-620 a.C., con una
legge di Draconte. A soddisfare il bisogno di vendetta dei parenti della
vittima, a quel punto, restava (sino al momento in cui non vennero
istituiti gli organi competenti) la possibilità di eseguire la sentenza,
mettendo a morte il colpevole.
Ma questo era troppo poco per la grande maggioranza degli ateniesi, per
molti dei quali, nonostante il divieto, la vendetta continuava a essere
pratica nobile e necessaria. A dimostrarlo sta la decisione di Eschilo, nel
458 a.C., di mettere in scena ad Atene l'Orestea: come ben noto, è la
trilogia che celebra la fine dell'interminabile catena delle vendette grazie
alla nascita del diritto.
Nella prima tragedia della trilogia, Agamennone, il re di Micene, tornato in
patria al termine della guerra di Troia, viene ucciso dalla moglie
Clitennestra, che durante la sua assenza è diventata l'amante di Egisto,
cugino di Agamennone, e che asserisce di vendicare, uccidendolo, i torti
che il marito le ha inflitto. Prima di partire per la guerra, infatti,
Agamennone, per ottenere che gli dèi facessero spirare venti favorevoli
alla navigazione, aveva sacrificato Ifigenia, figlia sua e di Clitennestra.
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Tornando da Troia, inoltre, aveva condotto con sé Cassandra, figlia del re
Priamo, prigioniera di guerra che egli intendeva tenere come concubina.
Nella seconda tragedia, Coefore, Oreste (l'unico figlio maschio di
Agamennone e Clitennestra) rientra ad Argo dall'esilio ove era stato
mandato, e incontra delle fanciulle che vanno al sepolcro del padre. Tra
di loro c'è Elettra, sua sorella. Quando Elettra capisce che lo straniero
sopraggiunto è Oreste, i due fratelli decidono, insieme, di vendicare la
morte di Agamennone. E Oreste realizza il progetto, uccidendo sia
Clitennestra sia Egisto. Ma subito dopo è preso da orrore per il gesto
commesso, e fugge lontano (siamo con questo alla terza tragedia,
Eumenidi), tentando di sottrarsi alle Erinni, le antiche dee - come le
chiama Eschilo - che rappresentano la cultura dell'odio inestinguibile e
della vendetta. Perché egli sconti il matricidio commesso, le mostruose
creature lo inseguono sino ad Atene, ove la dea Atena gli chiede di
esporre il suo caso, e quindi, perché egli venga giudicato, istituisce
l'Areopago, il primo tribunale cittadino, che lo assolve.
Poco importa, ai nostri effetti, che la sentenza sia di assoluzione. Questo
non sta a significare che la vendetta è ammissibile. Oreste è assolto
perché ha ucciso la madre per vendicare il padre, e Apollo, in sua difesa,
ha ricordato ai giudici una regola nella quale i greci credevano
fermamente: il vero genitore è il padre, la madre ha un ruolo del tutto
secondario nella riproduzione. Nel momento del giudizio, dunque, alla
contrapposizione vendetta-diritto si sostituisce la contrapposizione
principio paterno - principio materno. Ma quel che a noi importa non è
la motivazione della sentenza. È il fatto che Oreste sia stato giudicato da
un tribunale dove siedono dei giudici che, come dice Atena,
giudicheranno con equità. Giudici - dunque - diversi dai parenti
vendicatori, persone totalmente estranee ai fatti e dunque imparziali
perché non animati da sentimenti di vendetta. A questo punto, le Erinni
smettono di perseguitare Oreste. Atena ha promesso loro i dovuti onori,
a condizione che si plachino, che rinunzino all'odio e accettino i valori
nuovi e diversi della polis. E le Erinni, convinte dalla pacata razionalità di
Atena, accettano la sua proposta, trasformandosi in Eumenidi, dee
pacificate e benevole, simbolo della giustizia cittadina e della regola di
diritto che ha sostituito la vendetta privata.
Note
*. Da P. Costa (a cura di), Il diritto di uccidere, Feltrinelli, Milano 2010, pp.
89-92.
1. Hom., Il., 18, 497-508.
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