Narrativa Aracne
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Giuseppe Luigi Serra
I Maleamati
ARACNE
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via Raffaele Garofalo, 133 A/B
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978–88–548–1413–4
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I edizione: novembre 2007
Alla memoria di Elda A. Vernara
che amò immensamente il Teatro e i
Teatranti tutti dagli Attori più famosi
ai “Maleamati”
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I MALEAMATI
L’idea di presentare in brevi racconti la passione, la bravura,
l’entusiasmo di teatranti bravi ma non famosi o celebrati mi
ronzava da un po’ di tempo nella testa. Ma fu Elda A. Vernara a
spingermi a mettere sulla carta, nero su bianco, quanto mi frullava nel cervello. “Tanto mi piace l’idea” mi disse “che faccio
uno strappo alla regola e te li pubblico io sul mio Théatron”.
“Théatron” era la sua vita. Elda A. Vernara, già professoressa, in pensione, riversava in quella sua rivista tutto l’Amore e
tutta la Passione che aveva per il Teatro. Per il Teatro tutto: da
quello dei grandi nomi della prosa e della rivista a quello studentesco, a quello filodrammatico, a quello dialettale, a quello
dei guitti e dei girovaghi (il più genuino, il più bello, quello che
ha portato con orgoglio e dignità la sua miseria economica, innalzandola “ad astra” con la nobiltà della sua Arte e la stima per
quell’Arte, ignorata dalla critica, ma amata, immensamente amata, dal pubblico).
Fu lei che coniò il titolo della rubrica I Maleamati, che,
rompendo una tradizione ultraventennale, sarebbe apparsa sulla
sua rivista, fatta di presentazioni di spettacoli, di libri, di recensioni in modo tale da costituire, unica nel suo genere, un preziosissimo “Archivio Teatrale” per studiosi, critici o semplici
appassionati della materia.
Mi balenò anche l’idea di non citare i nomi degli artisti, sostituendoli con pseudonimi, ma Fioretta Moriconi, attrice in
gioventù e mia compagna d’Arte nella compagnia del padre
Umberto e della madre Mila Nistri (discendente da una dinastia
teatrale antichissima, attiva ancor prima dell’avvento di Goldoni, e tramandatasi, purtroppo, per rami femminili, per cui è dif7
ficilissimo risalirne alle origini), mi dissuase dall’idea: “Non
vedo perché! C’è solo da essere orgogliosi degli spettacoli e
della vita che abbiamo fatto. Non c’è posto dove non ci ricordino con affetto. Il peccato è che compagnie così spariscano”.
Aveva ragione. Ed aveva ragione Elda A. Vernara. Era giusto ricordare quel mondo che, detto ancora per inciso, ha dato
illustri nomi al teatro maggiore (e al cinema e alla TV) anche se
spesso questi, una volta entrati nel giro che conta, hanno rinnegato le loro origini.
Onore in ciò a Lino Banfi che non lo ha fatto. D’altronde lui
è diventato famoso per gradi. Grande lo sarebbe stato comunque, anche senza quei riconoscimenti che la critica (spesso con
ritardo) tributa ad alcuni (Totò, Franchi e Ingrassia ecc.).
I Maleamati apparvero, a firma Gino Serra, su Théatron a
partire dal numero di dicembre del 1983, per tredici puntate. Elda A. Vernara, sin dalla nota introduttiva, spiegò che sarebbero
usciti in volume. Ci teneva moltissimo, perché, attraverso quei
“raccontini” tratti da vita reale, veniva fuori tutto un mondo teatrale sconosciuto ai più. Ma, un po’ i miei impegni, un po’ i
suoi, rimandarono la cosa e non se ne fece nulla.
Ora io ho pensato di rendere un doveroso omaggio alla “Signora Vernara” e ad un mondo del quale sono orgoglioso di aver fatto parte, completando e pubblicando questa raccolta di ritratti. Voi leggeteli così, come tutti i miei racconti, come tutte le
mie poesie, come tutti i miei spettacoli, semplicemente, da spettatori, senza cercare reconditi messaggi… non ve ne sono… ci
sono personaggi e fatti, sic et simpliciter.
Se poi qualcuno, come capita anche per spettacoli fatti oltre
quarant’anni fa, si accorgerà di aver passato qualche minuto in
un mondo che non conosceva, beh, per me sarà una grande soddisfazione.
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Presentazione
di ELDA A. VERNARA
Gino Serra, ottimo attore di teatro, cinema e televisione, che
nella prima giovinezza ha conosciuto l’avanspettacolo e le sale
teatrali di provincia di tutta Italia (fucine inesauribili di commedianti veraci), ormai divenuto quasi esclusivamente apprezzato
poeta e narratore, ha deciso di offrire un piccolo meritato riconoscimento ai suoi ex compagni d’arte – ai quali l’“ufficialità”
(organi di spettacolo e di stampa) non ha mai concesso la pur
minima menzione – in un volume di ritratti di prossima pubblicazione.
In un periodo in cui tutto il teatro – per lo meno italiano –
sembra accentrato, per l’imprenditoriato e in gran parte per la
stampa, intorno a non più di dieci grossi nomi di “mattatori” e
“mattatrici” quasi – e/o ultra–sessantenni, Gino Serra ed io, Elda Vernara, chiamiamo tali autentici eroi dell’umiltà scenica “I
maleamati”, cioè attori che sono amati – e tanto, incredibilmente tanto – da chi può ricambiarli con nient’altro che con non appariscente (ma infinitamente gratificante) amore.
Ringrazio quindi vivamente Gino Serra di dare a Théatron
(anch’esso, nel suo campo, un “maleamato”) la possibilità di
pubblicare in anteprima alcuni dei suoi “ritratti”; ed anche quella di dimostrare ancora la predilezione di Théatron per tutto ciò
che è “giovane” e “sconosciuto” (o “misconosciuto”): teatro,
autori, registi, attori, fruitori…
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1. LELIO SORDI
Non so se disegna ancora a mano le locandine per reclamizzare i suoi spettacoli come faceva negli anni cinquanta quando
l’ho conosciuto io, ma so per certo che calca ancora le scene,
anche se non sono più quelle dei teatri di varietà importanti come il Reale, ma solo quelle di teatrini di provincia o di sale di
circoli culturali o palchi di feste di paese. Ma l’entusiasmo è lo
stesso, la passione è la stessa, lui, Lelio Sordi, comico romano,
è lo stesso.
Chi sia lo sanno in molti; e molti attori, specialmente quelli
che facevano l’avanspettacolo, lo conoscono. Ma fanno finta di
nulla. In sessanta anni di teatro, uno più uno meno, di spettatori
ne ha avuti tantissimi e tutti, credo, se pure avranno dimenticato
il suo nome, ricorderanno la sua infinita struggente simpatia.
Chi lo ha sempre ignorato e lo ignora, senza peraltro che a lui
importi granché, è la critica, sono le cronache, in una parola:
l’ufficialità.
Mai un aiuto, mai un riconoscimento; ma lui ha sempre tirato dritto, con pazienza, con umiltà, con amore, accettando con
filosofica calma ogni contrattempo. Sempre pronto a ricominciare da zero, anzi da sottozero, con una fede incrollabile, con
una dedizione totale, degna della miglior causa.
Giovanissimo, ho fatto con lui qualche brevissima tournée.
Spesato e a percentuale… mai una lira, o quasi.Tanto entusiasmo! Prendeva la camera in albergo, o in pensione, ma quando
tutti andavamo a letto, lui non era ancora rientrato; e la mattina
dopo, quando ci alzavamo, lui non era nella sua stanza ed il letto era intatto. Lo trovavamo in teatro, dove aveva dormito su un
mucchietto di tende accatastate in palcoscenico o dietro le quin11
te. Dormiva? Forse sognava… No, Shakespeare non c’entra.
Probabilmente nemmeno di sogno si trattava: Lelletto, è questo
il suo nome di battaglia, nella quiete della notte, solo, su un piccolo palcoscenico che diventava immenso, davanti una saletta
dai muri stinti, vuota, che si trasformava in una platea sfarzosa,
circondata da palchi di porpora e oro, gremita da un pubblico
osannante e pagante, viveva la sua ora di gloria, protagonista
del più fantastico spettacolo del mondo. Poi riponeva tutto nello
scrigno dei ricordi e la mattina seguente era vispo, allegro, pimpante, pronto ad affrontare una nuova giornata e ad offrirsi, la
sera, ad un pubblico ben diverso, ma per lui ugualmente fascinoso.
Poco prima di andare in scena stilava il programma (i suoi
spettacoli, allora come ora, erano quelli che chiamavamo “ammucchiate” o “spedizioni punitive”): Sigla orchestra, Lelletto
presenta lo spettacolo, balletto (due girls), parodia comica con
Lelletto, cantante (donna), sketch con Lelletto, balletto, sottofinale con Lelletto, finale all’americana. Se poi c’era qualche intoppo o disguido, non c’era da preoccuparsi: sarebbe uscito Lelletto. E se durante lo spettacolo qualcuno distratto chiedeva: ―
chi c’è ora? ― immancabilmente un altro rispondeva: ― Esce
Lelletto!
L’amico Juzzo Muscuso, che recentemente ha preso parte ad
alcuni suoi spettacoli, dice che non è cambiato nulla. Negli anni
cinquanta era già nonno e faceva parti da innamorato. Negli anni ottanta recita ancora negli stessi ruoli. Con la stessa passione,
con la stessa simpatia, con la stessa mimica, con la stessa faccia
scavata e gli stessi occhi scintillanti d’un tempo. Non è cambiato. Ma io, che pure spesso lo incontro, non ho il coraggio di assistere ad un suo spettacolo. Ne conoscerei ogni parola… e credo che davanti alla porta del locale troverei, fatto a mano ma da
sembrar stampato, un manifesto: Stasera Lelio Sordi (il nome
piccolo piccolo, quasi invisibile sul cognome a carattere cubitale) in “Fantasies neufcentes” (sic!) con (tre o quattro nomi scritti in piccolo e a caratteri uguali), con il balletto (nome di fantasia appena più visibile dei nomi precedenti), e con (in fondo,
all’americana, grande quanto Sordi in alto) Lelletto.
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Per un istante ritroverei i miei vent’anni. Ma, non leggendo
il mio nome su quel manifesto, mi renderei conto che il tempo,
almeno per me, è passato.
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2. ALVARO DINI (FARFALLA)
Lo trovo nel suo bar alla Magliana dove mi fermo ogni volta
che capito in quella zona. È cambiato un bel po’! Il comico florido ed arzillo che incontravo in Galleria (Galleria Colonna, un
tempo ritrovo quotidiano di Artisti e Camerieri) e col quale ho
fatto alcuni spettacoli negli anni della mia prima giovinezza, ha
ceduto il posto ad un signore piuttosto grasso, rilassato, quasi
rassegnato al ruolo, per lui ingrato, di “barista”. È cambiato fisicamente, ma ha mantenuto intatte l’arguzia d’un tempo, la
battuta sempre pronta, la profondità dello sguardo; mentre il fare scanzonato di una volta si è trasformato in sorniona ironia.
Nel Teatro d’avanspettacolo ha rappresentato il più ribelle, il
più anticonformista, il più indipendente e quindi il più isolato
dei comici.
Farfalla!
Si chiamava così un tempo. Poi adottò il nome di Alvaro Dini, ricavandolo dall’anagrafico Alvaro Radini; ma tutti han sempre continuato a chiamarlo Farfalla. Lui stesso, del resto, quando si presentava, specificava:
― So’ Alvaro Dini, il comico Farfalla.
Arrivava in Galleria ogni giorno sul tardi, alle tredici e talvolta alle quattordici. Col suo passo svelto, corto e largo, col
cappello in testa, la cravatta a farfalla ed una eterna mezza sigaretta appiccicata ad un angolo della bocca. Si guardava intorno
con aria diffidente ed inquisitoria, individuava il gruppo dei
suoi amici e si avvicinava, quasi accodandosi, lentamente, dolcemente, senza dir parola, senza salutare… il suo saluto era la
sua presenza silenziosa per qualche secondo. Poi cominciava a
parlare dei suoi progetti, del teatro che aveva fissato per lo spet14
tacolo di sabato e domenica a Fiumicino, o a Pofi, o a… Faceva
un cenno ad una cantante o ad un fantasista che intendeva scritturare, ma poi finiva col portare sempre le stesse persone, artisti
da lui collaudati e con lui affiatati, che andavano volentieri, perché, se i teatri erano piccoli e modesti, la paga, per quanto modesta essa pure, era sicura. L’impresario Catenacci era famoso
per il suo detto:
― Catenacci paga poco, ma paga!
E Alvaro lo portava ad esempio, dicendo modestamente:
― Con me son pochi, maledetti e subito.
Ed aggiungeva con dignità:
― A me non m’avanza una lira nessuno!
S’inalberava facilmente ed era capace di venire alle mani per
difendere una sua idea o un suo amico. Stava un po’ in disparte,
ma il suo saluto era aperto e cordiale con tutti:
― Ciao, Jantaffi!… Caro Maggio… Ohé Ciro… Come va
Giglio…
Quando litigava con qualcuno era capace di non rivolgergli
la parola per anni. Diffidava di tutti, ma non interferiva nei fatti
degli altri, né era capace di fare una qualsiasi cosa o dire una
parola che potesse nuocere a qualcuno. Per i giovani aveva sempre pronto un posto in compagnia, magari a percentuale (cioè,
se pagati gli Artisti e tolte le spese restava qualcosa, una percentuale andava al giovane artista).
Per quel suo carattere, pochissimi gli erano amici; molti lo
evitavano. Anche perché non era un leccapiedi. Ed era onesto.
Tanto onesto da riconoscere pubblicamente il valore a chi lo aveva, ma anche altrettanto pronto a dire in faccia il fatto suo a
chi, secondo lui (e non sbagliava mai), rubava pane e lavoro a
chi lo meritava. Sapeva riconoscere a naso un Artista. Potrei indicare moltissimi personaggi, allora sconosciuti, dei quali diceva che avrebbero fatto carriera perché erano dei bravi comici,
dei bravi caratteristi o degli eccellenti brillanti… ed era di una
imparzialità incredibile.
Un giorno in Galleria fu avvicinato da un impresario che gli
chiese un giudizio su un collega, ignorando che Alvaro aveva
avuto con questo una discussione e che da mesi non gli rivolge15
va più la parola. Ebbene, dopo aver alzato le spalle e guardato,
quasi a sfuggire i volti degli astanti, oltre le colonne della Galleria, verso il cielo, rispose:
― Io ci ho litigato e non ci parliamo più da quasi un anno…
ma lei può stare tranquillo: se lo scrittura avrà un galantuomo
con sé ed un signor Artista in scena.
Quelli che udirono trasecolarono. Mai vista un’onestà così
adamantina. Gli altri, purtroppo, non erano con lui altrettanto
generosi. Forse non lo consideravano uno di loro; ed in effetti
era diverso: vestiva dimessamente e si arrangiava a fare qualsiasi lavoro, purché onesto, pur di non sottostare a quelle che chiamava “angherie” degli impresari.
Il sabato e la domenica partiva per fare il suo spettacolino in
questo o in quel paese, col suo gruppo improvvisato, sul palcoscenico di un teatrino, per tener fede all’impegno preso in via
dei Mille durante la settimana, direttamente col gestore. Andava
a percentuale e, quando andava bene, ci ricavava le spese; ma il
più delle volte ci rimetteva e qualche volta gli costava il lavoro
di tutta una settimana.
Il successo non gli mancava, perché, anche se la compagnia
era piccolissima e raffazzonata (Lui, un attore, due girls, una
cantante e un trio orchestrale), i suoi numeri, i suoi scketches, le
sue barzellette erano preparate alla perfezione, con grande professionalità:
― Il pubblico non si può tradire. Per un Artista è tutto!
Non era un autodidatta. Da giovane aveva studiato danza
moderna e mimica ed il maestro Lajos gli aveva montato un
numero mimato del quale era orgoglioso. Una volta me lo fece
provare per una settimana intera e, quando il sabato lo presentammo, lui si mostrò entusiasta, io ebbi invece la sensazione che
al pubblico non fosse piaciuto e glielo dissi. Ci rimase male, ma
decise che lo avremmo tolto dal programma. La domenica,
quando alla fine del primo spettacolo mancava quasi solo la
passerella da fare, mi raggiunse eccitato:
― Te possino!… Preparati che facciamo il numero. È venuto su il padrone del locale a chiederlo perché ieri è piaciuto a
tutti.
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Al termine, mentre ringraziavamo per gli applausi, il mio
sguardo incontrò il suo: due occhi azzurri vivi e scintillanti mi
guardavano raggianti quasi a dirmi “grazie… sei stato bravo…
ma il pubblico lo conosco meglio io”.
Gli stessi occhi mi guardano ora nel bar.
Sono ancora gli occhi vivi e penetranti di un comico, ma sono velati di una sottile malinconia. Oggi ha una bella famiglia,
una bella casa, un bar bene avviato, sta bene economicamente.
Ma ha tanta, tanta nostalgia per quel suo “lavoro” che non
gli dava da vivere, ma gli dava la vita.
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3. ANNA DE GIORGI
La prima volta che vidi Annarella, gli amici chiamano così
Anna De Giorgi, fui colpito dalla sua naturale eleganza, dai suoi
modi distinti, dalla sua semplicità, prima ancora che dalla sua
bellezza. E sì che bella lo era davvero!
Proveniva dal Teatro di prosa e faceva la soubrette–attrice
nella compagnia di varietà di Ciro Castiglia e Alberto Giglio, il
quale era anche suo marito.
La incontrai a Roma, non in Galleria, abituale ritrovo quotidiano degli Artisti intorno all’ora di pranzo, ma di sera, in via
Volturno, in un bar all’angolo con piazza dei Cinquecento. Mi
diede subito l’impressione di una donna riservata, schiva di
pubblicità, sincera: una signora autentica. Fu un incontro brevissimo: appena il tempo, dopo le presentazioni, di scambiare
poche parole, mentre il mio capocomico e suo marito parlavano
di un futuro lavoro.
Ci ritrovammo qualche mese dopo in uno spettacolo di prosa
romanesca e varietà. Truccata da vecchia faceva la madre ne
“Er Fijo bbono”, nel quale io ero il figlio buono, Alberto Giglio
il figlio cattivo, Ciro Castiglia il vecchio compare, Valerio Valeri il commissario di polizia e la giovanissima Ety Silva la ragazza sedotta.
Annarella caratterizzò stupendamente il personaggio, lavorando di fino, cesellando ogni gesto ed ogni parola, incantando
con la sua arte e facendosi amare per la sua simpatia.
Poi per anni ci siamo visti poco, ma eravamo diventati amici
e ci sentivamo spessissimo a telefono: un saluto a lei e ad Alberto era d’obbligo ad ogni mio passaggio a Roma, a Natale, a
Pasqua, per il compleanno di Alberto o per il suo. Anna ha
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sempre tenuto al suo compleanno e lo ha festeggiato ogni anno,
circondata dall’affetto dei suoi amici più cari. Gli anni non li ha
mai contati, ma sempre ricordati.
Una volta la invitai, insieme al marito e all’attore–cantautore
siciliano Juzzo Muscuso, a partecipare ad uno spettacolino degli
allievi della Scuola di Recitazione e danza “Metta Latini–
Macioti”, per arricchirlo con la loro presenza. Lo spettacolo era
Il Natale di Cirillino, era il mese di dicembre del 1972, credo. O
1971? Non ricordo.
Ricordo che nel presentare lo spettacolo al pubblico che
gremiva la sala del teatrino allestito in un antico palazzo di via
degli Scipioni, mi lamentai del fatto che i miei incontri artistici
con Annarella fossero ormai troppo rari:
― Quando Anna era nel pieno dell’attività, io ero troppo
giovane per essere al suo fianco. Ora che avrei l’età, lei ha diradato i suoi impegni.
Dal pubblico una voce, che seppi poi essere quella della nota
attrice Lorella Da Luca, la cui figlia Federica Tessari, meravigliosa bambina che ricordo con grande affetto insieme alla altrettanto meravigliosa sorella, era tra le allieve interpreti, mi fece notare che non avevo certo fatto un complimento ad Annarella, alla quale praticamente avevo dato del “vecchia”. E mentre
io, colto alla sprovvista, cercavo le parole per spiegare il perché
e il per come avessi detto quello che avevo detto, Annarella, che
era sul palcoscenico insieme agli altri Artisti ospiti, intervenne:
― È la verità! Si parla di quasi quindici anni fa ed io allora
avevo quindici anni di meno. Ma ero io allora come sono io ora.
L’età è quella che si dimostra in scena, mentre per andare in giro come una volta non sempre riesco a trovare il tempo, perché
mi dedico un po’ di più alla famiglia.
In effetti un attore sulla scena ha sempre l’età del personaggio che interpreta. E Anna De Giorgi, l’ancor giovane Annarella, ha l’età che di volta in volta la parte le assegna. E recita ancora, anche se raramente, anche se non si allontana per molto
tempo da Roma. Ed è sempre un successo: non clamoroso (non
è nel suo stile) ma discreto, delicato, preciso, umile e prezioso,
come la sua recitazione, come lei stessa.
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― Ginè, quando mi vieni a trovare? ― Mi chiede ogni volta
che le telefono.
― Presto, Annarè! ― Rispondo. E presto vuol dire spesso
mesi. Per lavoro, per mancanza di tempo. Ma appena posso vado, come vanno tutti gli amici. È una donna intelligente, la sua
compagnia è piacevole, il tempo che si passa con lei è prezioso… arricchisce… ha il profumo del buon Teatro di una volta…
ha il sapore del ricordo di giorni felici e di Alberto Giglio, un
grande indimenticabile amico che non c’è più.
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4. DINO VALDI
In una trasmissione televisiva di qualche anno fa, appariva
su una nuvoletta il comico più amato e forse più grande che
l’Italia abbia mai avuto: Totò.
Poiché il personaggio che il Totò della nuvoletta interpretava
era Totò da morto, e poiché Totò era morto realmente già da
qualche anno, a molti veniva spontaneo chiedersi chi fosse quel
Totò così vero che faceva Totò.
Se avessero letto attentamente i titoli dello spettacolo avrebbero scoperto che l’attore che interpretava quel ruolo era
il bravissimo Dino Valdi. Ma forse non sarebbe stato giusto
perché Dino Valdi è anche Totò. Non a caso ne è stato per anni la controfigura; una controfigura che, specialmente negli
ultimi tempi, era molto di più di una controfigura: era il personaggio. E del resto Dino Valdi ha sempre portato il personaggio Totò su tutti i palcoscenici dei teatri di Rivista e Varietà
d’Italia.
Sin da quando aveva cominciato a recitare aveva deciso di
sfruttare la sua straordinaria somiglianza con S.A. Imperiale il
Principe Antonio De Curtis Comneno… ecc. ecc., possessore di
tanti nomi e tanti titoli che ci vorrebbe un foglio intero per elencarli tutti, ma che si era affermato usando, per contrasto, uno dei
tanti bizzarri contrasti di un Artista Umorista e Poeta grandissimo, il brevissimo pseudonimo di “Totò”. Valdi lo aveva fatto
per farsi conoscere, per cominciare, poi sarebbe stato Dino Valdi e basta. Ma l’uomo propone e Dio dispone. Così divenne per
tutti “quello che assomiglia a Totò” o “quello che fa Totò”, e
come tale si affermò nell’avanspettacolo e come tale entrò nel
cinema come controfigura.
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Io l’ho conosciuto molti anni fa al bar del Teatro Jovinelli,
allora tempio consacrato dell’avanspattacolo. Abbiamo passeggiato insieme nel fresco di una serata estiva, fianco a fianco, io
giovane comico alle prime armi e lui comico affermato di una
bella compagnia di giro. Confesso che avevo un certo timore
revenziale verso questo Artista che mi trattava da pari a pari con
una modestia ed una umanità rarissime non solo nel mondo dello spettacolo, ma nell’universo intero. Mi parlò della sua rivista
“Totòtutto”, del successo che aveva avuto, di ciò che voleva fare l’anno successivo, con una semplicità ed un entusiasmo propri dei grandi.
Tornando a casa quella sera pensai che era un peccato che un
simile Artista, per sfruttare la somiglianza con Totò, non cercasse altre vie. Mi rendevo conto che l’uomo era interiormente
ricco: aveva un anima capace di esprimere cose che, forse, quel
suo dover essere Totò, gli impediva.
Solo a distanza di tanti anni capii che mi sbagliavo. Non nel
giudizio sull’Uomo o sull’Artista, che anzi una abbastanza recente occasione di lavoro mi ha confermato, ma sul fatto che
quella sua scelta di “essere Totò” lo limitava.
L’uomo è rimasto lo stesso: Dino Valdi, intelligente, schivo,
serio professionista. L’Artista non ha saputo liberarsi da quella
maschera che madre natura gli ha costruito addosso, dopo averla disegnata sul corpo di Totò.
Non ha saputo o non ha voluto?
Probabilmente né l’una cosa né l’altra. Probabilmente avrà
tentato altre vie, e senz’altro con successo, ma il suo grande affetto per Totò (genuino come pochi: lo ricordo piangente in TV
il giorno della morte del principe dei comici) ha finito per identificarsi in lui con l’amore per il mestiere di comico nella più
semplice e complessa delle equazioni: Totò uguale comico, Dino Valdi uguale Totò, quindi Dino Valdi uguale comico.
Non un annullarsi nel Maestro, ma un riconoscersi in lui.
I mezzi per diventare un attore di valore anche al di fuori del
personaggio che ha scelto, o che lo ha scelto, Dino Valdi li ha
tutti. Ma gli attori bravi sono tanti e finiscono nel gran calderone dello spettacolo dove diventano, al massimo, salvo rarissime
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eccezioni, un nome che la gente spesso finisce col confondere
con un altro e nella confusione dimentica del tutto. I personaggi
invece sono pochi e ben distinti: al massimo hanno dei sosia
anonimi. Chaplin, Keaton, Laurel, Hardy, Petrolini… sono unici. Come Totò. Ma con una differenza. Oltre che un sosia, Totò
ha un autentico alter ego. E Dino Valdi è, appunto, l’alter ego
del più grande comico italiano: un bravissimo attore, dotato di
nome e personalità propri, per cui il somigliare ad un altro diventa, paradossalmente, un segno di distinzione.
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5. MILA NISTRI UMBERTO MORICONI
Sono stato nella loro Compagnia per molti anni, come primo
attor comico, ma la sincera fraterna amicizia che mi ha legato
ad Umberto Moriconi fino alla sua prematura scomparsa, avvenuta nel 1975, e che tuttora mi lega a Mila Nistri, ha ben presto
mandato a farsi benedire ruoli, gradi e gerarchie. Poco tempo
dopo essere stato scritturato ero, infatti, uno della famiglia; e
tale sono rimasto.
Gli anni trascorsi in quella formazione, così piccola e così
carica di autentica Storia del Teatro, sono stati per me meravigliosi, affascinanti: avventurosi e romantici, spensierati ed istruttivi al tempo stesso.
Lei, Mila Nistri, figlia di Arturo Nistri e di Pina Cresseri, discendente di un’antichissima famiglia di comici attivi in Teatro
ancor prima dell’avvento di Goldoni, attrice comica ineguagliabile, spigliata, professionista esemplare; Lui, Umberto Moriconi, attore drammatico formatosi fin da adolescente nella Compagnia di Uberto Palmarini, grandissimo attore scomparso troppo presto dalle scene dei maggiori Teatri e poco dopo da quelle
della vita; erano moglie e marito.
Da poco avevano messo su Compagnia per conto proprio,
staccandosi, come altri, dal nucleo centrale della Famiglia che
per secoli aveva formato una Compagnia unica e che, grande
com’era, era diventata ormai troppo costosa per reggere la concorrenza della invadente televisione, mostro fagocitatore di
pubblico, dai mille tentacoli che si stendevano e si abbarbicavano dovunque, raggiungendo persino i più piccoli e sperduti borghi sulle più alte ed aspre montagne e nelle più desolate pianure, penetrando nelle case ed ivi istallandosi sotto forma di elet24
trodomestico, surrogato del cinema e discendente perfezionato
della radio.
Io avevo fatto solo avanspettacolo minore, avevo appena compiuto 23 anni e non avevo alcuna esperienza di Teatro “serio”.
― Non ti preoccupare! Farai solo la farsa finale.
Mi aveva rassicurato Moriconi a Roma. Io non sapevo nulla
di commedie e drammi e le farse le avevo sempre chiamate
“Sketch”, ma il bisogno di lavorare (a quei tempi si passava più
tempo in Galleria che in tournée) e soprattutto la fiducia e la sicurezza che Umberto Moriconi ispirava, mi fecero accettare la
proposta.
Li raggiunsi a Carnia l’otto novembre 1961. Alle dieci e
trenta di una gelida notte, erano tutti ad attendermi alla stazione.
In macchina, caricata la mia enorme valigia nuova con dentro
un pigiama, una camicia, un cappello, la cravatta a farfalla, un
paio di capi di biancheria intima e due paia di pedalini, raggiungemmo Ovaro. Lì, dopo aver preso un caffè al bar ed aver mangiato in albergo, mi diedero un copione: La Morte Civile di Paolo Giacometti.
― Leggi la parte di Monsignore… domani alle undici la
prova, si debutta a Rigolato… poi faremo la farsa “Punto a capo”, che già conosci.
Andai a letto a mezzanotte passata, in un albergo (della Posta) ammantato di neve come tutto il paesaggio circostante,
chiedendomi se il tutto fosse una favola o realtà.
Il cielo era punteggiato di stelle lucentissime.
Imparai la parte, provai e debuttai tra bravissimi attori, cavandomela alla meno peggio; poi, alla farsa, ebbi un bel successo. Ma ero contento soprattutto perché avevo sostenuto un ruolo
serio, il primo della mia vita. Con tali maestri avrei presto imparato il mestiere.
Umberto Moriconi era un grande attore: bell’uomo, aspetto
sereno, sorriso gioviale, sensibilissimo, si immedesimava nella
parte e dava tutta l’anima ai personaggi che interpretava; dotato
di una bella voce e di una tecnica eccellente, nei momenti più
salienti riusciva ad inchiodare gli spettatori sulle sedie, tenendoli col fiato sospeso fino alla fine della scena che veniva salutata
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sempre con un uragano improvviso di applausi. Sapeva essere
Roberto ne La Nemica, malgrado avesse più di quarant’anni, e
lo scienziato uxoricida nel “Dopo” di Augusto Novelli; Corrado ne La Morte Civile di Paolo Giacometti e Bepi ne L’Avvocato difensore di Mario Morais, e poi Giuda, Jochanan, Amleto… ed era stato, mi fu detto, un Romeo convincente in
un’edizione in cui l’avvenente Giulietta era un’attrice dotata
di mezzi espressivi non comuni ma anche di un marito gelosissimo che trovava sempre troppo ardite le scene d’amore tra i
due e che una sera venne apostrofato dalla signora Cresseri con
un ben azzeccato:
― Cretino! Amico mio, siete un perfetto cretino!
Era il primattore indiscusso nelle commedie e nei drammi
che la Compagnia metteva in scena, e sarebbe stato anche un
ottimo attore di spalla solo che lo avesse voluto, ma lui, finito il
“Lavoro”, se proprio non era necessario, usciva di scena lasciando agli altri il compito di farmi da spalla nella farsa.
Mila Nistri, invece, adorava la farsa. Professionista inappuntabile e attrice sensibile, recitava con attenzione e con classe nel
dramma o nella commedia, ma esplodeva nella farsa.
Non è mai stata la mia spalla, è stata la comica della coppia:
io ero il comico. Due comici. E da lei ho imparato tanto senza
nemmeno rendermene conto. Era, pur nella massima spontaneità, la perfezione fatta attrice. Sui suoi ritmi si poteva regolare un
cronometro svizzero di precisione. Era infallibile: ci trovavamo
anche ad occhi chiusi. Lavorare con lei era veramente una gioia,
un divertimento. E come si divertiva il pubblico!… Eravamo
richiesti un po’ dovunque, ma Mila poneva il suo “veto” quando
si trattava di recitare nei grandi centri. E non riuscivamo a capire il perché di quel suo rifiuto.
― In quei posti sanno tutto loro… si sentono padreterni.
Non mi vanno…
Da mezze frasi e da frammenti di racconto di questo o
quell’artista che la conoscevano da tempo, credo di essere risalito a quel perché.
Moltissimi anni prima, quando era poco più di una bambina,
se non addirittura una bambina, arrivata in una grande città (Mi26
lano?) con una grande Compagnia (Zacconi?), fu presa in giro
da alcuni coetanei:
― L’attrice… l’attrice…
La cosa la indispettì e la sera, in scena, ebbe un moto di silenziosa ribellione: per protesta stette zitta, sicché si dovette calare il sipario. E a quelli che, accorsi preoccupati, le chiedevano
se stesse poco bene o se avesse dimenticato la parte, rispose
candidamente:
― Sto bene e so la parte; solo che non mi va di recitare
qua.
E per convincerli sciorinò una dopo l’altra tutte le battute
che avrebbe dovuto dire, tra lo sbalordimento dei compagni
d’Arte che cominciavano a sperare di poter riprendere la recita
là dove era stata interrotta. Ma Mila aveva detto no e fu no. Per
sempre. Almeno per la prosa che in varietà qualche volta, in recite straordinarie, accettò di recitare anche in grandi città… ed
ottenne sempre un grande successo personale, che però non bastò a farle cambiare idea. Peccato.
Oggi Mila è una tranquilla pensionata dell’Enpals. Vive con
la figlia Fioretta, a suo tempo giovane attrice di brillante avvenire ma con interessi diversi, e fa la nonna di Monja… un ruolo
che adora.
Vive serena tra mille ricordi e senza rimpianti. Forse con un
po’ di nostalgia, ma quella credo che sia inevitabile anche per i
protagonisti delle fiabe più belle.
Ecco! A pensarci bene, ad Ovaro, a mezzanotte dell’otto novembre 1961, io cominciavo a vivere una realtà da favola.
27
6. MARIO GRIMALDI
Siamo amici da moltissimo tempo, io e Mario Grimaldi. Ci
vedevamo in Galleria quando io ero un ragazzetto non ancora
ventenne e lui era un comico di estrazione, scuola e classe partenopea. Ogni tanto mi chiamava a fargli da spalla in qualche
suo spettacolo minore, nel quale anche un ragazzetto ancora
acerbo poteva essere utile. Di lui mi piacque la caparbia puntigliosità con la quale preparava lo spettacolo: non improvvisava, non concedeva nulla alla platea che non fosse preparato a
puntino. E così ti costringeva, ogni volta, ad imparare a memoria tutto uno sketch ed almeno due passaggi comici. Il che,
per uno spettacolo destinato ad una sola rappresentazione, era
davvero un po’ esagerato. Ma lui era fatto così. Forse perché,
malgrado da anni facesse varietà e si fosse specializzato in
macchiette, proveniva dal teatro di prosa napoletano nel quale
aveva debuttato giovanissimo. O, forse, soprattutto per il
grande amore che nutriva per quel suo mestiere che ha sempre
considerato, e tuttora considera, il più bello del mondo. Di
questo suo Amore mi resi conto una sera al Teatro Oriente di
Roma, tanti anni fa, in quello che fu il mio debutto come comico assoluto in uno spettacolo di varietà: infatti sostituii proprio Mario Grimaldi che per un improrogabile e più importante impegno non potè essere presente. Debuttai con una bella
formazione della quale facevano parte: Alberto Giglio, Anna
De Giorgi, Lucia Guzzardi, Ety Silva, Il balletto della signora
Milano, la cantante Alba Mila Chantal, il cantante Ugo Brunelli, a quell’epoca popolarissimo a Roma (ricordo i fasci di
fiori che immancabilmente uno o più ammiratori gli facevano
recapitare sul palcoscenico al termine della sua esibizione, e
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ricordo la sua commozione sincera per quei fiori che gradiva
più di ogni altra cosa e per i quali, in segno di gratitudine, dedicava ai donatori ed al pubblico, fuori programma, una eccezionale interpretazione di “Grazie dei fiori”); completava
l’organico un complessino di cinque elementi. Lo spettacolo,
che si avvaleva dei testi di Carlo Jantaffi, ebbe successo. E
all’ultima recita dell’ultimo giorno intervenne proprio Mario
Grimaldi, il quale, dietro invito di Alberto Giglio, presentò ’O
Zappatore di Raffaele Viviani. Ebbene, al termine dell’esibizione, prima ancora che il pubblico gli tributasse il meritato
applauso, egli soggiunse, quasi come frase facente parte del
testo recitato:
― Raffaele Viviani è grande e finché ci sarà il Teatro sarà
sempre ricordato!
Dedicando così all’illustre Attore–Autore gli applausi e i
consensi del pubblico.
Molti anni più tardi ci ritrovammo insieme a Roma in uno
spettacolo all’aperto in Piazza Santa Maria alle Fornaci, nei
pressi di San Pietro, e volle recitare in omaggio a Totò la famosa poesia “A livella”. La interpretò mirabilmente, con tutto il
sentimento e la dedizione di cui era capace, tanto che alla fine,
mentre ancora non si spegnevano gli applausi del pubblico, sentii il bisogno di complimentarmi con lui. Mi strinse la mano e
mi abbracciò con l’affetto di sempre, ma, più che ringraziarmi
per i complimenti, mi fece una domanda che conteneva un consiglio ed un rimprovero insieme:
― Perché non scrivi niente su Tòtò? Hai scritto su Viviani,
su De Filippo, no?… Ho il libro…
Avrei dovuto e voluto rispondergli che in quel periodo tutti
scrivevano su Totò e che non è mia abitudine cavalcare le mode
del momento, che forse un giorno lo avrei fatto. Ma non mi avrebbe capito. Per lui il Teatro è Amore, Amore senza vergogna, Amore verso i grandi della scena, autori e attori, testi e
musiche: Amore da manifestare sempre e comunque, sia che si
gridi in coro con una moltitudine plaudente, sia che la voce si
levi solitaria nel silenzio e nel disinteresse generale.
Amore che non è esibizionismo, ma dedizione assoluta:
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― Ohè, ma vulimmu pazzià?… Nu principe, nu rre… a
fronte a nuie nun so’ niente… dessero chissà cché ppe fa’ ‘o
mestiere nuostu (Oh, ma scherziamo? Un principe, un re, di
fronte e noi non sono niente: darebbero chissà cosa pur di fare il
nostro mestiere).
E lo dice convinto.
Io allora lo vedo con la cravatta a farfalla, il cappelletto in
testa, il fazzoletto nel taschino… e mi sorride col suo sorriso
franco, pulito, un po’ dolce e un po’ malinconico, come fa
quando sta per entrare in scena.
Felice.
Come può esserlo un uomo che va incontro all’Amore più
grande, che dura da una vita e che lo accompagnerà per il resto
della vita. Per la gioia sua e del suo pubblico.
In bocca al lupo, Mario, per mille anni ancora…
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7. ROSETTA, GIGLIOLA, MARUSKA,
FIORETTA
C’era sempre, nei paesi che si toccavano con le Compagnie
girovaghe, qualcuno che si ricordava di Rosetta: con affetto,
con stima, con rimpianto.
Io non l’ho mai conosciuta la Rosetta di cui tanti parlavano;
e per anni l’ho considerata una specie di alter ego del mio Nicolino. Rosetta e Nicolino: che bella coppia sarebbe stata! Lui così
benvoluto, lei tanto amata.
Poi, con l’andare del tempo, mi son reso conto che Rosetta,
nella mia mente, acquistava sempre più una fisionomia ben precisa ed assumeva, per quanto sfumati, i contorni a me più noti di
Gigliola o di Maruska, che io ho conosciuto, o quelli familiari e
a me cari di Fioretta. Attrici che erano dirette eredi delle attrici
del passato, interpreti di personaggi nei quali si fondevano e con
i quali la gente nel ricordo le confondeva. Da secoli.
Gigliola Nevastri, quando l’ho incontrata io, era in procinto
di ritirarsi, benché ancora giovane, dalle scene: una delle prime
“figlie d’arte” che, sposatasi, a poco a poco abbandonava la vita
di girovaga e si sistemava in un comodo appartamento di città.
Era stata una meravigliosa Giulietta e, nella routine dei figli
d’arte, aveva fatto tutte le “amorose” del repertorio classico e di
quello popolare. Per me un po’ più della ignota e famosa Rosetta, ma pur sempre una figura i cui contorni artistici sparivano
nel vago di una “Storia del Teatro” fatta di ricordi altrui e di
leggenda, per lasciar posto, in concreto, ad una donna molto
bella, raffinata ed aristocratica. Tanto diversa da Maruska, sua
sorella, altrettando bella ma più istintiva; anche lei attrice, poi
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valente prestigiatrice e poi anche lei tranquilla signora, sposa e
madre, in quel di Milano prima ed in Toscana dopo.
Destino, quello di fermarsi, che cominciava ad accomunare
quasi tutti i figli d’arte di quella generazione. Destino al quale
non si sarebbe sottratta neanche la più giovane Fioretta.
Fioretta fa rima con Rosetta. E dalla fantastica figura di Rosetta, pian piano, attraverso Gigliola e Maruska, epigoni quasi
fantastici di fantastiche figure del passato, fra sogno e realtà,
Fioretta giunge come presenza per me concreta di donna e di
attrice. Bella, d’una bellezza particolare (“o tonto, ero bruttissima. Caso mai sono bella oggi…” scherza quando le dico che
era bella), recitava con la semplicità della bambina, senza le
moine ed i mottetti propri delle bambine. Ed affascinava e
commuoveva. Durante una recita in un carcere, fece piangere di
commozione la famosa Rina Fort, che in quella prigione era
rinchiusa per un pluriomicidio. Da piccolina, en travesti, era stata Balilla ne I Figli di nessuno e quello è stato per sua ammissione il personaggio che ha amato di più. Ma io allora non la
conoscevo ancora.
Ho cominciato ad apprezzarla brava attrice come Fiorenza
ne La Nemica, aristocratica, decisa, delicata; meravigliosa come
Maria Goretti in Piccolo Fiore di Campo, dolce contadinella
che difende il suo onore fino alla morte (celestiale nella scena
finale durante l’ascesa in Paradiso, con i lunghi capelli biondi
sciolti sulle spalle e vestita e circondata d’azzurro con un fascio
di bianchi gigli stretto al petto); convincente come figlia di un
padre uxoricida nel “Dopo” di Augusto Novelli, combattuta tra
due sentimenti uguali e contrari; tenera come Pina ne
L’Avvocato Difensore di Mario Morais; straziante come infelice
cieca ne Le due Orfanelle; e poi spigliata interprete di importanti ruoli ne Il Padrone delle Ferriere, ne Il Fornaretto di Venezia, nelle Due dozzine di Rose Scarlatte; e poi ancora protagonista nella Pia de’ Tolomei; ed ancora nella Ninna Nanna di Silver Scialla ed in moltissimi altri lavori… infine briosa attrice
giovane nelle mie farse.
Una carriera densa, normale per una “figlia d’Arte”, nobilitata in lei da un impegno artistico sempre notevole fino al gior32
no della decisione, improvvisa e irrevocabile, di lasciare le scene. Una scelta decisa, precisa, senza ripensamenti né rimpianti.
Probabilmente aveva esaurito la sua carica (calcava le scene
da sempre), oppure voleva semplicemente vivere una vita propria dopo aver fatto vivere tanti e tanti personaggi.
Per tutti oggi è la signora Fioretta, apprezzata funzionaria di
un Ente statale e madre felice di una bella signorinella di nome
Monja. Vive in una città dove ha recitato tante volte da attrice e
dove moltissimi la ricordano attrice, ma dove tutti la considerano e stimano donna. L’attrice appartiene al passato e il passato
non conta. Contano il presente e il futuro… ma quando il passato è un passato artistico del calibro di quello di Fioretta, io credo che “… hai voglia di dire, hai voglia di fare… non va più
via!”, come dice il personaggio da lei tante volte interpretato nel
“Dopo” di Augusto Novelli…
Vero, Fioretta Moriconi?
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8. SILVER SCIALLA
Il libretto della L.E.S. era intitolato Paternità, ma non fu il
titolo del lavoro teatrale, poiché della stampa di una commedia
si trattava, bensì il nome dell’autore a convincermi ad acquistarlo: Silvestro Scialla. Pensai subito a Silver Scialla, attore del
quale tanto avevo sentito parlare, ed alla sua commedia Ninna
Nanna. Pensai “Vuoi vedere che si tratta dello stesso autore e
dello stesso lavoro pubblicato sotto altro titolo?”
Ci avevo azzeccato solo a metà. Silvestro Scialla era il nome
anagrafico di Silver Scialla, ma il lavoro, Paternità, non era
Ninna Nanna, anche se il tema era lo stesso: il sentimento della
paternità, appunto, di cui così poco si parla e del quale quasi ci
si vergogna. Lo stesso tema, trattato con la medesima sensibilità, ma visto in due ottiche differenti. Grande, naturale amore e
assoluta dedizione di un padre legittimo in Paternità; eccezionale, sublime e quasi ribelle amore paterno di un sacerdote per
una bimba abbandonata appena nata dai genitori e a lui affidata e
da lui accolta ed allevata “contro tutto e tutti”, in Ninna Nanna.
Il tema ed il modo con cui è presentato nei due testi, specialmente nel secondo, evidenziano l’attenzione che l’occhio
dell’artista pone sulle cose del mondo, vere o possibili, e la capacità di farle sue fino ad infondere nei personaggi quei sentimenti che egli stesso prova, e nelle storie il pathos necessario
per renderle vive oltreché credibili. La notevole conoscenza
dell’arte dell’attore, una esemplare professionalità ed una padronanza assoluta della lingua italiana, fanno sì che le opere che
Scialla ci fornisce siano letterariamente validissime, basate su
dialoghi scorrevoli e comprensibili, teatralmente funzionanti,
senza mai cadere nella teatralità forzata o di maniera.
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Dotato di una vivida intelligenza (da notare che agiva in
tempi difficili e quasi sempre da girovago), seppe lasciare
un’impronta ben precisa come attore e come autore in quella
“Storia del Teatro” mai scritta, che i figli d’arte e i “comici” si
tramandano di generazione in generazione.
Una storia dai contorni sfumati, che, per chi vi entra, assume, fino al giorno precedente, il crisma della leggenda: una leggenda che lo sfiora, una leggenda che con lui, e per lui, si tramuta in realtà, ma non lo tocca; una leggenda della quale avverte il fragrante profumo dal quale il tempo lo allontana inesorabilmente. Ed allora subentra la nostalgia: una nostalgia apparentemente assurda per una vita non vissuta, fino a che i ricordi altrui e i propri si confondono, magicamente avvolti nella nebbia
del tempo e non si riesce più a capire quale sia la realtà e quale
la fantasia. E tutto appare Storia.
Io nella storia di Silver Scialla ci sono entrato per interposte
persone, ma la ho vissuta, non visto, dopo, negli stessi teatri,
dando vita al personaggio di Birillo, il sagrestano della “Ninna Nanna”; sdoppiandomi ed immaginandomi indietro nel
tempo, o meglio, fuori dal tempo, osservatore di quello spettacolo, interpretato da altri attori non più presenti, ed altro
attore io stesso.
Interpretato da Silver Scialla, Pina e Pia Cresseri, Manlio
Nevastri e, che so?… Vito Scialla, il figlio… forse mio coetaneo, mai conosciuto, se non per sentito dire.
E mi ci sono trovato bene in quella storia. Perché mi sembra
una storia pulita, bella. Una storia che ancor oggi, ogni volta
che monto su un palcoscenico, mi illudo di continuare. Una storia senza tempo.
Eppure forse oggi anche questa storia è alla fine. I figli
d’arte, quei figli tanto cari a Silver Scialla, stanno scomparendo.
Gli ultimi si sono fermati ed i loro discendenti, forse, non saliranno mai su un palcoscenico. E tutto un patrimonio culturale
andrà disperso. Finirà nel nulla dei ricordi che, non tramandati,
ciascuno si porterà nella tomba.
E Silver Scialla, un nome per me quasi mitico, farà la fine
dei ricordi.
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Ma forse, per uno di quegli strani disegni del destino, un
giorno qualcuno si ricorderà che il nonno, o il padre o uno zio,
un tempo gli ha parlato di un lavoro di Silver Scialla intitolato,
ma sì, Ninna Nanna… e ne parlerà a sua volta al nipotino, il
quale, tra uno sguardo alla televisione tridimensionale ed un
colpo al video game, batterà sulla tastiera del più moderno e sofisticato dei computer: Silver Scialla – Ninna Nanna…
E, per abitudine, memorizzerà la frase…
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9. EVY BOCCONE
Ha avuto una carriera dignitosa, finora, Evy Boccone, ma
nessuno le ha mai dato il giusto spazio e solo pochi hanno potuto ammirarla e apprezzarla nel suo giusto valore.
Spesso le sono state offerte parti di comprimaria: importanti,
importantissime, ma non esaltanti. Invece Evy ha bisogno di
personaggi eccezionali per esprimersi in pieno, per emanare
quel fascino particolare che è proprio delle grandi attrici:
quell’essere resistenti e fragilissime contemporaneamente, quel
darsi totalmente al personaggio fino alla sublimazione,
all’annientamento della propria personalità; quell’essere vestale,
sacerdotessa e vittima allo stesso tempo.
Io quel fascino in Evy Boccone l’ho avvertito subito. Dal
primo momento che l‘ho vista: così minuta, così dolce, così indifesa eppure così decisa, così appassionata, così consapevole,
così forte d’una convinzione al di sopra di ogni debolezza, al di
sopra di ogni più terrestre ragionamento… così presa dalla sua
missione da non ammettere repliche al suo “credo”.
Svilendo o, peggio, negando quel credo la si declassa ad attrice normale e lei in quei panni, che pure veste con la massima
serietà professionale, si sente quasi a disagio, sprecata. Ma datele un ruolo sinceramente umano, forte, che le faccia scorrere
con violenza il sangue nelle vene e la vedrete saltar fuori in tutto il suo splendore.
Attrice sensibile, vibrante, viva e passionale come poche,
illumina la scena con la sua Arte e coinvolge i colleghi fino a
trasmettere loro quel “sacro fuoco” in lei così autentico e del
quale neppure il più scettico degli spettatori può minimamente
dubitare.
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Primattrice nata, è una professionista esemplare, umile e
modesta: sempre la prima ad arrivare per le prove o per lo spettacolo, sempre l’ultima a lasciare il Teatro, serena, sorridente,
mai stanca, sempre tesa alla ricerca della perfezione.
Innamorata del suo lavoro.
Mi piacerebbe essere un impresario o un regista famoso
per poter mettere in scena dei drammi che la vedano protagonista: La figlia di Jorio o I fucili di madre Carrar o Madre
Coraggio. Mi piacerebbe che platee più vaste potessero godere della sua Arte e che altri colleghi provassero la gioia
che ho avuto io nel lavorare al suo fianco: la gioia di esser
toccati dallo stato di grazia. Vorrei che provassero quell’emozione con la consapevolezza di agire e vivere nella magia di un’atmosfera creata da un’Arte che li esalta ma che
non è loro. Vorrei che provassero l’indescrivibile ebbrezza di
volare, attori e spettatori, sulle ali di chi raggiunge, annientando la sua parte terrena, il sublime.
Invece, io, questa attrice ho potuto averla solo in qualche lavoro comico: F.F. Fame e Follia per esempio… faceva una
pazza, un ruolo brillante, una caratterizzazione più o meno accentuata, che però lei innalzava alla dignità di personaggio. E
poi in altre occasioni… sempre con la stessa professionalità,
con la massima disponibilità.
E gliene sono grato.
Oggi Evy fa pochissimo Teatro ed ha diradato anche le
sue apparizioni in circoli culturali per quei suoi tanto graditi recitals di poesie e per le sue garbate letture di brani
classici.
Vive appartata, dedicandosi alla famiglia, ai figli ormai
grandi, ai nipotini; con lo stesso trasporto e la stessa discrezione
con cui da sempre si è dedicata ai suoi soli grandi Amori; appunto: la Famiglia e il Teatro.
E al Teatro sicuramente pensa con la gioia per quello che è
stato e con la segreta speranza che quello che non è stato, almeno in parte, si realizzi. Ma non lo dice.
Intanto si preoccupa sempre e comunque di essere utile senza essere invadente. In famiglia come sulla scena.
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Invece, cara meravigliosa Evy, in questo mondo, soprattutto
nel nostro mondo dello spettacolo, qualche volta, forse, un po’
invadenti si dovrebbe essere…
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10. JUZZO MUSCUSO
Di tanto in tanto su qualche giornale appare un trafiletto piccolo piccolo che dà notizia di una qualche manifestazione artistica estemporanea tenuta in un circolo culturale o in un teatrino
minore o in una Associazione Regionale (tipo la meritoria “Famiglia Siciliana”). Spesso questi trafiletti terminano con una
brevissima nota: “Ha allietato la serata l’attore (o il cantante, o
il cantautore) Juzzo Muscuso”.
Un trafiletto come tanti e una notarella di cronaca in un angolo di un quotidiano, spesso importante, nella pagina cittadina
o nell’inserto sui quartieri; altre volte un articoletto un po’ più
lungo su qualche rivistina minore; il più delle volte nulla… per
un attore–cantante siciliano di estrazione popolare, autodidatta.
Juzzo Muscuso, Juzzo giovane, non troverebbe certo posto
in questa carrellata di ritratti di Maleamati, giacché la sua vita
di attore, se pur non su cime eccelse, lo ha portato abbastanza in
alto, tanto da poter respirare aria di palcoscenici importanti in
tutta Europa, con compagnie di primordine, e a sostenere in cinema ed in TV ruoli di fianco non disprezzabili, sia in prosa che
in rivista, sia da attore che da cantante folk. Cito a caso: Rinaldo
in Campo di Garinei e Giovannini, Petrosino in TV; Canzone
mia sempre in TV (protagonista di una puntata interamente dedicata a lui); svariati films a fianco di attori famosi ecc… una
carriera più che dignitosa per un professionista serio. Come
molti.
Ma ciò che lo avvicina ai Maleamati, e che lo rende degno
della massima stima, è l’attività che svolge oggi, con passione
da neofita, con umiltà, con entusiasmo giovanile nonostante la
non più verde età, con la gioia di chi sa di dare qualcosa. Silen40
ziosamente, caparbiamente, appassionatamente, svaria in tutti i
campi dell’Arte: dalla musica alla prosa, dalla poesia alla pittura, nella quale eccelle come un autentico maestro, sfoderando
uno stile personalissimo ed un filone che ne denuncia chiaramente le radici di attore e di cultore di Teatro, soprattutto siciliano.
L’ho avuto al mio fianco, Juzzo, quasi sempre nei miei più
recenti spettacoli e, quando posso, vado a dargli una mano nelle
sue serate, quasi tutte ormai di beneficenza. E sempre, dico
sempre, l’ho trovato professionista ineccepibile, compagno ideale, figura carismatica rassicurante, con alle spalle una vita intensamente vissuta, con esperienze artistiche singolari ed importantissime, e, soprattutto, con la massima disponibilità a trasmetterle, queste sue esperienze, come le sue nozioni, agli altri.
Ricordo di aver condotto una serata su Salvatore Quasimodo
nel Circolo Culturale di Marino Aranci, altro autentico personaggio che lotta, pur tra mille difficoltà ed incomprensioni, per
diffondere la “Cultura”, spesso trasformando la sua libreria in
via Silvio D’Amico (magica potenza d’un nome!) in Centro
d’Arte e punto d’incontro per scrittori, poeti, pittori, scultori
ecc.
Ricordo quella serata con Poeti e Professori, in una sala
gremita fino all’inverosimile di gente attentissima e, tra tante
voci dotte (cito per tutti il prof. Carlo Maria Picco, per
l’occasione anche validissimo dicitore), ricordo la fresca, spontanea, semplice ed entusiasmante testimonianza di Juzzo Muscuso sul grande Poeta, del quale fu amico, e il suo dono agli
astanti della recita di un inedito consegnatogli dal futuro “Premio Nobel” a Milano negli anni quaranta perché lo musicasse.
Ma… “Non ci si poteva mettere la musica: era poesia!”.
Disarmante!
Juzzo, poeta lui stesso, personaggio da fiaba quasi, con la
sua chitarra, la sua chioma candida, la sua espressione marcata e
simpatica, la sua inesauribile verve, la sua incondizionata dedizione all’Arte, a tutta l’Arte, continua la sua storia di attore e di
uomo di spettacolo, ricominciata là dove quella di attore di
compagnie di grido, di cinema e di televisione stava per finire.
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Una storia che lo rende personaggio degno di essere conosciuto
ed imitato: una storia che non ha fine perché viene da fuori del
tempo e fuori del tempo vive, ma che, appena nel tempo entra,
lascia un segno che non si cancella facilmente. Il segno di
un’Arte genuina, coltivata con amore e con amore offerta allo
spettatore, perché ne conservi intatta la fragranza anche quando
la voce e la figura dell’Artista, fagocitate, insieme a mille altre
cose, dal caos tumultuoso del mondo, saranno un semplice e
sbiadito, seppur gradevole, ricordo.
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11. MANLIO NEVASTRI
Silvio Spaccesi, validissimo Attore e Uomo di Teatro dotato
di una sensibilità e di una signorilità non comuni, conversando
con me nel “foyer” del Teatro Centrale a Roma, dove recitava e
dove mi ero recato per godere della sua Arte e per rendere omaggio alla sua bravura, a pochi giorni da un mio raro debutto
nella capitale, mi diede di Manlio Nevastri (spesso attivo come
Manlio Nistri) la più bella definizione.
― Ne ho un ricordo meraviglioso: un professionista esemplare, mai stanco, sempre disponibile, innamorato come pochi
del suo lavoro.
Il suo giudizio confermava quello di altri e collimava col
mio, che, se era il giudizio di uno che con Manlio non aveva
mai recitato, era pur sempre quello di uno che lo aveva conosciuto molto bene, sia direttamente, sia attraverso testimonianze
di altri colleghi.
Personalmente lo avevo incontrato agli inizi degli anni sessanta, sempre a Roma. Faceva parte della Compagnia di un giovanissimo Carmelo Bene. Recitavano in un teatrino, in Trastevere, così minuscolo da sconcertare fino alla meraviglia uno
come me che pure di teatri piccoli ne aveva fatto e ne faceva
tanti in provincia. E mi sorprese anche il fatto che quest’uomo,
che tutti mi avevano descritto come ligio, severo, irreprensibile,
teatralmente impeccabile, amante del teatro Classico, avesse la
certezza di lavorare con uno che sapeva fare il teatro, un teatro
particolare, mentre a molti, ai più, quel nome e quel modo di
fare spettacolo non dicevano assolutamente nulla, se non indignavano addirittura.
Il tempo avrebbe dato ragione a Manlio.
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Chiesi ad un signore alto e robusto, atleticamente prestante,
con un’ampia fronte e un sorriso aperto dove potessi trovare il
signor Nevastri e questi mi rispose:
― Lo ha davanti…
Era lui. Familiarizzammo e parlammo della nostra Compagnia, cioè della Compagnia della sua famiglia, della quale lui da
tempo non faceva più parte e della quale ora facevo parte io.
Assisteva al nostro colloquio un giovanotto pressappoco della mia età, il quale mi rivolgeva ogni tanto, con dotta curiosità,
domande sui lavori che presentavamo e sui personaggi che interpretavo, palesando una conoscenza del nostro Teatro Popolare assolutamente insospettabile, per me, in uno che recitava testi
classici e impegnati, interpretandoli in un modo nuovo e personale. E per la prima volta la mia ignoranza di girovago proveniente dall’avanspettacolo, che recitava sempre in teatri pieni di
gente plaudente e che per questo motivo si sentiva autorizzato a
credersi bravo, mi si parò davanti in tutta la sua abissale immensità. Io di quel loro Teatro ignoravo tutto, proprio tutto, persino che potesse esistere.
Che esistesse Manlio lo sapevo e come!
In Compagnia me ne parlavano come di un attore perfetto e
di un uomo onesto… e mi narrarono di quando, gratificato di
una piccola somma come sovrappiù alla paga giornaliera, rispose: “E a che titolo?”… Oppure di quelle volte che andava a fare
commissioni o girava per fissare piazze dove recitare; portava i
conti al centesimo, magari segnando sotto la voce “Bar” la spesa per un caffè, aggiungendo il giustificativo: “l’uomo non è di
legno”.
E, quando mi volevano far notare che ero troppo serio e tutto
d’un pezzo, mi dicevano: “E che? Sei come Manlio”.
Non sapevano e non sapevo che mi facevano un complimento. Io me ne resi conto in seguito. Proprio a partire da quel primo incontro, così casuale (lessi in Galleria il suo nome su una
locandina e decisi di andarlo a trovare) nel Teatrino di Carmelo
Bene.
Manlio Nevastri: somigliargli?… No! di Manlio ce n’è stato
solo uno. Un Uomo diverso, che conosceva la vita come pochi
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attori, ma la conosceva dalla parte veramente giusta, che è poi
quella sbagliata per i più. Se il mondo fosse fatto di gente come
lui, sarebbe perfetto. Sapeva tutto questo e tirava dritto per quella sua strada così limpida, sicuro di essere nel giusto, perché
sempre a posto con la sua coscienza, così a posto da rischiare di
sfiorare il ridicolo, se non fosse stato degno della massima ammirazione.
Artista poliedrico: attore versatile, abile scrittore e delicato
pittore, teneva in pochissimo conto il successo appariscente. Gli
bastava far bene quello che faceva per essere contento. Sempre
nelle regole del saper vivere, sempre al di fuori di ogni compromesso, sempre al di sopra di ogni meschineria. Sempre sereno, in pace col suo mondo.
Ma aveva un suo rifugio, del quale era orgoglioso e che forse era la più bella gratifica alla sua esistenza di Uomo e di Artista: la Famiglia. Una moglie, già attrice al suo fianco, e due meravigliosi figli, che considerava, anche se non lo diceva, i capolavori della sua vita. Ed erano le sole cose che facevano brillare
d’orgoglio i suoi occhi, normalmente abituati a sorridere anche
quando severamente ammonivano.
Maria Assunta e Arturo sono miei amici. Sono i suoi figli.
Entrambi hanno lavorato con me, l’una prima di sposarsi, l’altro
prima di diventare Fra’ Arturo. Sanno che quello che scrivo è
vero, ma forse, degni figli di cotanto padre, vorrebbero che non
lo rendessi noto; e forse anche la signora Nucci vorrebbe che
non lo dicessi: per pudore, per riservatezza.
Ma l’amore di Manlio per loro era una cosa troppo grande e
troppo bella e sarebbe ingiusto se, ricordando un Attore ed un
Uomo come Lui, non si ricordasse il suo amore più grande: più
grande del Teatro, più grande della stessa vita, perché dell’uno e
dell’altra era il compendio.
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12. DERIO PINO E GRAZIA GORI
Giocherellando col telecomando in un noioso pomeriggio di
qualche tempo fa, mi è balenata davanti un’immagine di molti
anni addietro. E siccome il dito nella sua fregola pulsatrice era
già andato oltre, per un istante pensai che quell’immagine non
fosse realmente apparsa sul teleschermo, ma che si trattasse della proiezione di un mio inconscio desiderio di vedere qualcosa
di decente su quell’elettrodomestico popolato da figure straordinariamente insulse che presentavano insulsissimi spettacoli,
talvolta addirittura offensivi del più comune senso del buongusto. Rimartellai col polpastrello sui tasti ed ecco riapparire l’immagine d’un tempo. Beh, per la verità una volta quell’immagine la vedevo in Teatro, dove potevo gustarla in tutta la
sua interezza, ma anche qui, a mezzo busto o a piano americano, ripresa male tanto da nascondere quasi del tutto ogni effetto
mimico, l’immagine in movimento di quei due personaggi era
godibile.
Si trattava di due dei più attivi e validi comici degli ultimi
anni d’oro del varietà e dell’avanspettacolo: gli anni cinquanta.
Gli anni di Fanfulla, di Fredo Pistoni e Mimma Rizzo, di Antonio e Mario De Vico (fratelli del grande Pietro De Vico), di Cecè e Franco Doria, di Vici De Rol e Carmen Borini, di Enzo,
Dante e Beniamino Maggio, di Pia Velsi e Bertolini, di Romeo
D’Amico e Jole Pupetta, di Trottolino e Nino Formicola, di Derio Pino e Grazia Gori…
Già, Derio Pino e Grazia Gori.
Erano proprio loro i due attori che apparivano sul teleschermo. E tra una risata e un sospiro di nostalgia ho vissuto con loro
un meraviglioso e indescrivibile quarto d’ora fatto di presente e
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di passato: di cose che sono state e di altre che potevano essere
e non sono state.
In una strana alternanza di tempo e di spazio, mi sono trovato contemporaneamente in un glorioso piccolo cinema teatro
romano di avanspettacolo, l’Altieri, dove avevo visto per la
prima volta quella coppia recitare, ed il salotto di casa mia dove vedevo ancora quella coppia agire (a distanza di oltre
trent’anni) con la stessa bravura, la stessa professionalità, la
stessa signorilità.
Sì, credo proprio che la signorilità sia stata la qualità che più
di ogni altra ha contraddistinto Derio Pino e Grazia Gori. Quel
loro modo di essere, così gentile e discreto, così partecipe e
schivo, così umano e delicato, ne ha fatto due autentici signori
nella vita come sulle scene.
Ricordi ed emozioni, sensazioni strane, sapore di tempo perduto, sapore amaro di talenti autentici non riconosciuti nel loro
giusto valore, si accavallavano e riproponevano in me il mistero
dell’Arte, della fortuna nell’Arte: il mistero stesso della vita.
In quel lontano spettacolo all’Altieri Derio Pino proponeva
vari personaggi, con vari travestimenti, varie parrucche, in vari
scketches, con la sua recitazione sobria e misurata eppur così
efficace, ben coadiuvato dalla brava ed avvenente Grazia Gori,
molto distinta e applaudita (quale contrasto con tante bellezze
provocanti, e come il pubblico lo percepiva e l’apprezzava!). E
alla passerella finale, quando si presentavano nei loro panni, lei
la signora Gori, lui il signor Derio Pino, il pubblico mostrava
loro, con un caloroso e spontaneo applauso, tutto l’affetto e la
stima dovuti.
Ed ora là, sullo schermo TV, in un altro vecchio scketch, mi
divertivano ancora. Come se il tempo si fosse fermato. E il presente ed il passato, così straordinariamete vivi, si fondevano e si
proiettavano in un futuro, ahimè impossibile perché il tempo di
quel futuro era già passato, che li vedeva, che so?… su Raiuno,
o due, o su Canale 5 o che altro… protagonisti di un grande
show, di Canzonissime fantastiche, oppure in grandi teatri impegnati in commedie musicali… e con loro altri grandissimi e
dimenticati protagonisti di un’epoca irripetibile e meravigliosa,
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povera portatrice di sogni e di speranze, finita e dimenticata
come loro…
Mi svegliai come da un torpore. Sullo schermo ormai
c’era… chi si ricorda più?!
Giocherellai tre o quattro volte col telecomando, quasi senza
guardare, poi spensi…
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13. GIULIO MASSIMINI
Calca le scene dal 1944. E a quell’anno risale il suo primo
spettacolo importante: “Ma le rondini non sanno” di Michele
Galdieri, con Nino Taranto, Chiaretta Gelli… Teatro Savoia di
Roma!… Poi con Nuto Navarrini… Poi l’avanspettacolo…
Poi… ricordi di una vita di attore…
… E da una vita lo conosco io, anche se tra noi non c’è mai
stato un contatto diretto di lavoro, neanche quando, ironia della
sorte, abbiamo lavorato nello stesso film.
Ci incontravamo un tempo in Galleria Colonna, poi al bar
del Volturno, che in realtà non era il bar del cinema teatro Volturno, ma che, essendogli a fianco, veniva da noi così designato
per comodità.
Lui, Giulio Massimi, era un attore di spalla già affermato
nell’avanspettacolo e nella rivista, io ero un aspirante comico
che si adattava a fare la spalla, la domenica, nei cinema teatro di
paese, a comici “scavalcamontagne”, aspettando la “grande occasione” che si faceva sempre più improbabile in quel mondo
ed in quel campo, dato il progressivo e veloce avvicinarsi della
fine di quel genere di spettacolo, che pure è stato in Italia fucina
di attori e di comici grandissimi: da Totò a Lino Banfi.
Mi avrebbe fatto piacere, e comodo, avere con lui un rapporto di amicizia e anche di lavoro, ma non c’è stato mai altro che
una reciproca stima e un doveroso rispetto.
L’ho sempre ammirato per la sua squisita gentilezza e la sua
serietà di uomo e di artista, doti riscontrabili tutte insieme solo
in pochissime persone (e in quasi tutti i “Maleamati”), ma non
ho mai avuto occasione di chiedergli di fare qualcosa insieme…
E Dio sa se mi sarebbe piaciuto!
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Poi lui fece coppia con Denny, bravo comico mio coetaneo o
quasi e quasi sosia di Jerry Lewis, ed io passai alla prosa con la
compagnia di Umberto Moriconi e Mila Nistri, dove ebbi la fortuna immensa di poter recitare e vivere con gente che portava in
sé l’aria di secoli di Teatro, tramandata da padre (ma il più delle
volte da madre) in figlio (ma il più delle volte in figlia, cosa che
rende difficile risalire l’albero genealogico), sin dai tempi di
Goldoni, attraverso varie generazioni, fino ai Cresseri ed ai Nistri attivi ai nostri giorni. Un’aria che non siamo riusciti a trasmettere alle nuove generazioni (dedite ad altre attività) e che
cerchiamo di raccontare perché non se ne perda il profumo ed il
valore o che almeno di quel profumo e di quel valore resti memoria.
In quest’aria entrano tutti i Maleamati; ed in quest’aria entra
a pieno titolo Giulio Massimi. Pardon: Giulio Massimini.
Sì, Massimini, proprio così!
L’ho incontrato dopo tanti anni, tempo fa, al doppiaggio di
un film nel quale avevamo un ruolo ciascuno ma, come al solito, non avevamo scene in comune. Pur nella fretta e nel concitato entrare ed uscire dalla buia sala di doppiaggio, abbiamo avuto il tempo di scambiare qualche parola, di scambiarci i numeri
telefonici…
― Metti Massimini; è il mio vero nome. Ora uso quello.
Massimi ormai… l’ho usato anche troppo.
C’era nella sua voce la consapevolezza e la modestia di un
Artista che quasi abdicava, o meglio che entrava nella realtà di
un mondo nuovo. Giulio Massimi era un nome che apparteneva
a quell’aria gloriosa ma ormai solo storica, addirittura mitica,
ma ormai sparita; Giulio Massimini era un attore moderno che
viveva nel contesto dell’era attuale, dove il nome giusto è quello anagrafico, dove il palcoscenico e lo schermo son porzioni di
vita ma non la vita stessa come un tempo, dove la favola non ha
più posto e, comunque, non fa parte della vita.
Ma io sono sicuro che nel cuore di Giulio Massimini la favola di Giulio Massimi resterà per sempre bella, come bella resterà nel cuore degli spettatori che lo hanno ammirato e che tuttora
lo apprezzano, magari senza conoscerne il nome.
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Di quella favola Giulio Massimini porta nella realtà del cinema, del teatro e della TV di oggi, la serietà, la professionalità
e soprattutto la dignità che ha sempre contraddistinto i personaggi di quell’epoca sparita nel mito.
Come tutti i “Maleamati”, meravigliosi eroi che han dato tutto senza nulla chiedere e che han scritto in punta di matita le
pagine più belle, più vere e più amate, anche se meno celebrate,
della storia del Teatro.
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14. CESARE SARZI
Umberto Moriconi, come tutti i veri innamorati del proprio
mestiere, amava parlare ogni tanto di questo o di quell’attore o
attrice di cui io non avevo mai sentito neppure il nome e lo faceva con tale trasporto da fartelo sentire vicino, importante; te lo
faceva conoscere ammantato da un’aura quasi di mistero, o meglio di mitico, come qualcosa che apparteneva al mondo dello
spettacolo, ma non a quello dorato dei divi che all’epoca furoreggiavano, bensì a quello umile, autentico, vero, dei girovaghi, ultimi rappresentanti di quella stirpe di comici che affondava le sue
radici nel medioevo e che si era trascinata fino ai nostri giorni,
perdendo piano piano terreno, e che lentamente si spegneva o si
disperdeva o veniva fagocitata e relegata in ruoli spesso marginali dalla pletora degli attori osannati che uscivano dalle varie accademie, che occupavano i maggiori teatri o si affermavano nel cinema. Attori che non si portavano dentro secoli di storia come i
figli d’Arte, né avevano la passione pura di quelli che, in numero
sempre minore, in Arte entravano al fianco di costoro che io vedevo come figure arcane, sparite nel nulla di un mondo che esisteva da qualche parte, ma in una dimensione immaginaria di
luogo e di tempo, lontanissima dal presente seppur nel presente
ancora operante. Irraggiungibile. O inesistente?
Perciò quando a Cembra una sera dopo lo spettacolo Umberto ci annunziò che il giorno dopo avremmo avuto ospiti a pranzo Cesare Sarzi e la figlia Cesarina, io ebbi una fortissima emozione, come quando ero bambino ed attendevo l’arrivo di una
persona cara:
― Fanno uno spettacolo di marionette nella scuola di Lavis
alle dieci e poi ci raggiungono.
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Cesare Sarzi era uno dei personaggi che Umberto nominava
spesso, quindi era uno dei miti per me e finalmente lo avrei conosciuto; il fatto che fosse fratello di Otello Sarzi, burattinaio
apprezzato e famoso, me lo rendeva ancor più importante: quasi
un tramite fra quel mondo in via di sparizione nel quale ero da
poco entrato ed il mondo dorato del quale facevano parte i divi.
Pur sapendo che prima delle dodici non sarebbero arrivati, io
alle undici ero già pronto a riceverli facendo la spola tra il teatro, dove stavamo montando le scene per lo spettacolo serale, il
bar sulla statale ed il ristorante.
La macchina, non ricordo la marca ed il colore, arrivò poco
dopo mezzogiorno arrancando su per l’erta ed io la riconobbi
subito. Era stipata in ogni spazio con marionette, scenari, teloni
e quanto altro occorreva per lo spettacolo. Si fermò davanti al
bar, probabilmente per chiedere informazioni, ma io e Fioretta,
seguiti subito da Umberto, sbucato chissà come alle nostre spalle, fummo prontissimi ad accoglierli. Prima ancora che potessero scendere giunse anche Mila. Abbracci e baci, gli attori si abbracciano e si baciano spesso anche quando non si possono vedere, ma quelli furono genuine espressioni d’affetto.
Cesare Sarzi era già avanti negli anni, imponente, serio e
gioviale, aveva un sorriso aperto ed il cuore in mano.
― E tu devi essere Gino!
Mi disse stringendomi la mano, dopo aver dato un bacio a
Fioretta. Certo Umberto gli aveva parlato di me, ma il fatto che
ricordasse il mio nome mi inorgogliva.
Cesarina era una bella ragazza, semplice, la avresti detta una
ragazza di paese, una studentessa, invece era una bravissima artista ed una lavoratrice instancabile, sapeva far tutto. I due erano
molto uniti.
Trascorremmo una giornata indimenticabile. Cesare evidentemente mi trovava simpatico e mi elargì consigli e mi narrò episodi della sua vita di attore. Era un affabulatore nato ed io ne
rimasi conquistato. Umberto lo invitò a recitare come ospite a
Lavis dove avremmo agito due settimane dopo. L’invito era una
specie di consuetudine, ma fu graditissimo da Cesare. Che però
obiettò:
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― Ma alla mia età che posso fare?
― Corrado ne La Morte Civile.
Propose Umberto.
― Addirittura!
Fu l’esclamazione di Cesare. Si vedeva che il tornare a recitare in prosa, sia pur per una sera, lo rendeva felice.
― Vedrai, sarà un successo.
Umberto fu facile profeta. Cesare era un bravissimo attore
ed un serio professionista. Ed il successo infatti venne. E non fu
il solo. Perché finchè restammo in zona, tra Val di Fiemme, Val
di Cembra, Val di Fassa ecc., in ogni paese fu per una sera nostro attore ospite. Sempre con grande successo. Sempre gratuitamente.
― Recitare con voi mi ringiovanisce, mi porta indietro negli
anni.
Una sera ci telefonò a Grumes, chiedendo se potevo andare da loro a Trento l’indomani mattina presto. Ovviamente la
risposta fu positiva e la mattina successiva alle sei, con un
freddo che non ti dico, presi la corriera per Trento. Giunsi
prestissimo a casa loro. Cesarina era già alzata, Cesare si stava alzando. Io la casa la conoscevo, dato che in quel periodo,
ora per un motivo, ora per l’altro, andavamo spesso a trovarli, ma quella mattina mi parve bellissima e più accogliente
del solito. Feci colazione con loro e per la prima volta dopo
tanto tempo trascorso tra alberghi, case private, pensioni,
sentii l’antico “calor del focolare”, anche se il focolare, o
camino che dir si voglia, non c’era. Cesare mi fece sentire a
casa mia, Cesarina mi parlò del fratello laureato, poi facemmo quel lavoretto per il quale mi aveva chiamato, quindi sorbimmo un ottimo caffè. Una mattinata in famiglia. Avrebbero voluto che mi fermassi a pranzo, e sarei rimasto volentieri
se non ci fosse stato un debutto pomeridiano a Grauno a costringermi ad un veloce ritorno. Sulla corriera pensai alla serenità di quella casa, all’armonia di quella famiglia, ed ebbi
un attimo di nostalgia. Ma poi il pensiero dello spettacolo
pomeridiano a Grauno e di quello serale a Grumes mi assorbirono.
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Cesare recitò con noi un giorno alla settimana, quasi sempre
di sabato, nella Morte Civile, ed intanto continuava i suoi spettacoli mattutini con le marionette nelle scuole. Forse avrebbe
voluto fare anche altri spettacoli. Forse gli sarebbe piaciuto venire con noi. E a noi la cosa avrebbe fatto piacere. Tra il serio
ed il faceto ne abbiamo anche accennato talvolta.
― Sarebbe bello, ma ora sono vecchio, la mia vita è qui con
i miei figli, con i miei burattini. Qui è ormai la mia casa…
Già, quella casa così accogliente… come dargli torto? Ma
anche come resistere al richiamo della scena?
Credo che ci abbia pensato a lungo, pur sapendo che non
poteva decidere diversamente. Non lo disse mai, ma più di
una volta in quei giorni avrà sognato la vita del girovago
d’un tempo. Sognato soltanto. Però che bel sogno dev’essere
stato!
L’ultima recita con noi fu particolarmente sentita ma anche
triste. Umberto gli fece un bellissimo, e per le nostre finanze
costosissimo, regalo e lui si commosse:
― Non dovevate farlo… Vi ringrazio!… Ma soprattutto vi
ringrazio per questa meravigliosa occasione che mi avete dato:
tornare a recitare in teatro. Un miracolo.
Cenammo come sempre insieme e nel salutarlo Umberto
promise:
― Quando ripasseremo da queste parti sarai di nuovo nostro
attore ospite.
― Ah, certamente e ben volentieri!
Nella voce di Cesare, malgrado l’enfasi della battuta, c’era
un velo di malinconia. Ci abbracciò tutti ad uno ad uno e da
nessuno si sarebbe voluto staccare. Cesarina lo sollecitò:
― È tardi. Loro domattina debbono partire presto.
― Già. Devono partire… mannaggia.
Cesare montò in macchina con gli occhi lucidi, Cesarina
diede gas e la macchina partì.
Noi restammo immobili per qualche secondo, seguendo la
macchina con gli occhi immanenti di lacrime finché non scomparve. Poi Umberto si scosse:
― Andiamo a bere qualcosa.
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E si avviò verso il bar che stava ormai per chiudere. Mila, io,
Fioretta e Franco lo seguimmo senza parlare.
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15. ENZO MENDETTA
Eravamo a Gardolo, provincia di Trento, avevamo debuttato
la sera prima con La Morte Civile di Giacometti e la farsa Deponga, e stavamo allestendo il palcoscenico per La Nemica di
Niccodemi che sarebbe andata in scena la sera alle fatidiche ore
21, che col quarto d’ora accademico diventavano le 21,15 (e
talvolta, se la sala non era piena, le 21,30, orario oltre il quale
non si andava mai). Durante una “pausa bar”, che non ci facevamo mai mancare, Umberto Moriconi se ne uscì con un lontano ricordo di un attore che tanti anni prima si era fermato proprio da quelle parti:
― Enzo Mendetta… si sarà sposato… chissà dove sarà…
― Enzo, sì, mi piacerebbe vederlo.
disse Fioretta
― Anche a me. ―
fece eco Mila
E ciascuno di loro portò un ricordo affettuoso di questo personaggio che, noi che non lo avevamo conosciuto, potemmo
classificare come una bravissima persona, simpatico, non certo
un grande attore ma uno che si era trovato a fare l’attore, in una
compagnia nella quale era stato accolto come uomo di fatica,
per la defezione di un elemento, che le vicissitudini di una vita
difficile quale era quella del dopoguerra avevano momentaneamente allontanato dalle scene.
Tutto questo dedotto dalle poche frasi dette tra di loro da
Umberto, Mila e Fioretta nei pochi minuti di quella “pausa caffè” o “pausa bar”.
Malgrado il gelo dell’inverno e la neve ghiacciata ai lati delle strade, Gardolo era splendente sotto un sole luminosissimo.
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Molti dei pochi passanti ci salutavano o ci additavano, “segno
buono” come diceva Marino per un pienone in teatro.
E della possibilità di buoni incassi e di altro si parlò durante
il breve tragitto dal bar al teatro quando…
Tra tanti frettolosi passanti un signore piccoletto, dal sorriso
particolare, intabarrato nel suo cappotto grigio, stava fermo davanti all’ingresso del teatro, ma non leggeva i manifesti né
guardava le fotografie, solo sorrideva dolcemente sotto i baffi
che non aveva.
― Enzo!… Enzo Mendetta!
Urlò Umberto
― Oh, Madonna! Enzo…
Esclamò Fioretta
― Lupus in fabula
Rise Mila
L’uomo rimase un istante quasi incredulo, con un sorriso tra
lo stupito ed il meravigliato, poi si staccò di colpo dal teatro e si
precipitò ad abbracciarli urlando:
― Umberto, Mila, Fioretta… Sono mi…
Una scena veramente commovente quanto sincera e spontanea. Si abbracciavano con gli occhi lucidi, felici: dopo anni di
lontananza tornavano a vedersi.
E si tornò al bar!
E si parlò di ricordi e ci si informò di questo e di quello e si
parlò del più e del meno. Sapemmo che non si era sposato, che
era stato male, che aveva avuto anche una labirintite, che il teatro, che non era certo stato il suo sogno di bambino pugliese, gli
mancava, che ormai si considerava trentino e quando doveva
dire io diceva “mi”. Ma era certo rimasto il ragazzo di sempre.
Solo alle otto ci rendemmo conto che bisognava correre a teatro
a finire di montare le scene e a fare porta (cioè a far entrare la
gente). Ed Enzo ci aiutò con la perizia di sempre e durante lo
spettacolo manovrò le scene e tirò il sipario. E alla fine unì il
suo applauso a quello del pubblico, più che altro mimando il gesto, senza far rumore, quasi per non disturbare, restando in disparte, ma lo tirammo subito a noi e lo abbracciammo tutti. Al
successo di quella sera, si unì la commozione per un amico ri58
trovato per Umberto, Mila e Fioretta; e per Maria, Marino,
Franco e me la gioia di un amico acquisito.
A cena ci disse di tornare in albergo solo per pagare e prendere i bagagli, che ci avrebbe ospitato lui per tutta la settimana
di recite a Gardolo.
― Ho una casa grande, c’è posto per tutti e poi ci arrangeremo. I comici sanno sempre arrangiarsi.
Forse non si sentiva un attore, ma un “comico”, un girovago
sì; anche se si era fermato, se aveva una casa e un lavoro.
A casa sua andammo il giorno dopo.
E per una settimana la nostra fu una famiglia unita, ospite di
un parente lontano. Ci sentimmo a casa nostra al punto che talvolta sembrava che lui fosse ospitato da noi. E la cosa lo rendeva felice.
― Lo vedi che si sente uno dei nostri ― diceva Umberto.
― Perché una sera non lo facciamo recitare?
L’idea partì da me e da Franco e fu subito accolta da tutti.
Ma cosa fargli fare? Lo chiedemmo proprio a lui.
― No, è tanto tempo che non recito e poi “mi” facevo solo
piccole parti, qualche volta il comico…
― Allora farai il comico.
Esclamai io che ero il titolare di quel ruolo.
― E, no, tu sei troppo bravo eppoi la gente è abituata a te,
sarebbe un rischio, ma “mi” potrei fare una piccola parte: per
soddisfazione.
Gli trovammo un paio di battute nel Dopo di Augusto Novelli e un passaggio da caratterista nella farsa Sale in tavola.
Provammo giovedì (la sera recitammo Il postiglione di Alby di
Dennery) e venerdì (la sera recitammo Il Cardinale di Parker) e
sabato andammo in scena.
Per tutta la giornata Enzo si preoccupò che tutto fosse in ordine, che tutto andasse a meraviglia, che non potessero esserci
intoppi. Era emozionatissimo.
― Sta’ tranquillo, andrà tutto benissimo. Sei bravo…
Alle nostre frasi tranquillizanti rispondeva con un sorriso:
― Forse ho fatto male, io non sono all’altezza…
E invece andò benissimo, da attore consumato. E sulla farsa
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ebbe un successone. Tanto che decidemmo di fargli dire altre
due battute la domenica ne L’Avvocato difensore di Morais e
una piccola caratterizzazione sulla farsa.
― Ma no! Come faccio, cosi, senza prove… no, no, no… e
che dovrei fare?
Una risata e lo seppellimmo in un abbraccio: avrebbe provato forse tutto il giorno.
Ma non fu così.
Rotto il ghiaccio si sentiva sicuro, solo emozionato, ma perché era l’ultima recita.
Andò benissimo: fu un trionfo (ovviamente tutto lo spettacolo, ma per lui fu l’apoteosi).
Festeggiammo a cena nel solito ristorante e il giorno seguente a pranzo a casa sua. Saremmo partiti per la piazza successiva
nel pomeriggio. Ma era un addio e la bella favola di Enzo Mendetta era alla fine. Nel salutarci facemmo finta di non commuoverci e riuscimmo a celare il nostro stato d’animo finché la
macchina si mosse. Quando ci voltammo a salutare per l’ultima
volta, Enzo agitò la mano destra nella quale era un fazzoletto
bianco, che cominciò a sventolare. Era il suo addio a quel suo
mondo che si allontanava.
Marino ci si affiancò con la sua macchina:
― Come si chiama il paese dove andiamo?
― Grumes ― Gridammo in coro.
E ci soffiammo tutti il naso.
60
16. WALTER MARCHETTI
Lo vedevo spesso in Galleria Colonna a Roma. Ci veniva
come quasi tutti i comici quando non lavoravano. Ci venivano
gli attori di spalla, gli orchestrali, le attrazioni, i cantanti, le ballerine, tutti in cerca d’una scrittura; e qualche impresario in cerca di qualcuno da scritturare per lo spettacolino di fine settimana in qualche paese. Insomma tutto quel variopinto mondo che
era l’avanspettacolo. Si restava lì dalle undici all’una o alle due,
quando già la Galleria era invasa da un’altra categoria: quella
dei camerieri. Allora qualcuno cominciava a sfollare:
― Bah!… Io vado a mangiare.
E, se chi aveva parlato non era un attore di un certo nome,
immancabilmente qualcuno rispondeva:
― Se è vero, buon appetito.
Walter Marchetti era già un affermato comico di varietà:
il lavoro non gli mancava certo, ma appena poteva era lì insieme agli altri. Ci conoscevamo di nome. Un saluto e un
sorriso, qualche parola di circostanza. Poi io partii con la
Compagnia di prosa di Umberto Moriconi e cambiai ovviamente vita. Diventai un girovago: il modo più bello per vivere la vita dell’attore. Ciononostante, ogni volta che tornavo a
Roma, il che avveniva quasi sempre d’estate, andavo in Galleria Colonna dove spesso trovavo anche qualche scrittura
per feste di piazza o brevi tournées o per qualche “spedizione
punitiva”, come venivano chiamate le ammucchiate di vari
numeri per uno spettacolo teatrale da tenere per una o due sere al massimo. In questi spettacoli io ero il comico e mi facevano da spalla di volta in volta Dino Rosaspina, Roberto Berti (Garasi) e, soprattutto, Franco Valle, il quale spesso recita61
va anche nella compagnia di Moriconi e con il quale ero artisticamente affiatatissimo.
E fu proprio Franco Valle che un giorno mi propose di fare
una tournée estiva con un nostro spettacolo di varietà. Fare uno
spettacolo per noi era uno scherzo, in due eravamo capaci di
reggere ore di spettacolo, considerato il fatto che lui era anche
un ottimo cantante. Ma il balletto?
― Non ti preoccupare. Per le piazze c’è pronto un bel giro
estivo e ci potrebbe essere anche una stagione teatrale coi fiocchi. Per quel che riguarda il balletto… c’è!… fidati! ―
Franco non era certo la persona più affidabile, per dirla senza troppo ferire; diciamo che era fantasioso. Ma il fatto che il
giorno dopo mi si fossero avvicinati una cantante, un cantante e
un’attrice che erano da lui stati scritturati per la nostra compagnia, mi fece pensare che avesse detto il vero. Sì, ma il balletto?
Quando glielo chiesi mi rispose:
― Domani cominciamo le prove alla sala dei bersaglieri a
piazza Rondanini, sai dov’è. L’appuntamento è alle tre. Il balletto ce lo porta il marito di una ballerina dell’Altieri.
L’Altieri era a quei tempi un tempio dell’avanspettacolo,
normalmente una compagnia in quel teatro gestito dal comm.
Fabbrocino recitava per una settimana, quindi era una cosa seria, della quale ci si poteva fidare. Ed infatti alle tre del giorno
dopo trovai l’intera compagnia riunita nella sala dei bersaglieri:
Franco Valle, Angelo Angeli il cantante, non era venuta ma avrebbe fatto parte della compagnia Alba Chantal, la cantante,
c’era l’attrice e, guidate dal giovane marito di una ballerina, le
ragazze del balletto. Non avevo ancora le idee chiare su quello
che sarebbe stato lo spettacolo, ma, visti gli elementi a disposizione, la cosa non mi preoccupava. Tutto sarebbe andato liscio,
senonché…
Un ossesso urlando salì le scale che portavano alla sala prove.
― Maledette cretine, c’è lo spettacolo, fra pochi minuti siamo in scena. Quel disgraziato di tuo marito che si è messo in
testa? (rivolto ad una ballerina). Vi mando tutte in galera.
Walter Marchetti era fuori dalla grazia di Dio. Io in un angolo cascavo dalle nuvole, Franco Valle e il marito della ballerina
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cercavano di calmarlo, ma inutilmente. Come una furia Walter
spingeva le ballerine verso la porta e quelle saltellando e correndo spaventate guadagnavano meravigliate l’uscita per raggiungere al più presto il non lontano Teatro Altieri dove stava
per alzarsi il sipario sul primo spettacolo della giornata.
― Mi spiegate?
Chiesi, rivolto a Walter Marchetti, a Franco Valle e al marito
della ballerina che, da quel che avevo capito, aveva dirottato alla sala prove le ballerine (moglie compresa) già scritturate dalla
compagnia di Marchetti e impegnate all’Altieri. Una scorrettezza inaudita!
― Scusa, Walter ― balbettava Franco ― non sapevo che
fossero impegnate con te. Le ha portate lui (indicando il giovane sposo della ballerina) credevo che fossero libere.
― Ma quale libere e libere! Ritarderemo un po’ l’inizio dello spettacolo. Ma meno male che le ho trovate…
Walter si calmò quando io gli porsi la mano e gli spiegai
come fossi all’oscuro di tutto.
― Lo so. Non avresti mai fatto una cosa del genere. È quel
figlio di… Non ho capito perché ci voleva rovinare… Oh… Ti
saluto, ci vediamo… ci conto…
E scappò di corsa verso il Teatro. Lo spettacolo lo reclamava.
Il giorno dopo in Galleria ci incontrammo e questa volta non
ci limitammo ai saluti ed a poche parole: commentammo
l’episodio del giorno prima, ma poi cambiammo discorso e scoprimmo reciprocamente interessi e punti di vista in comune. Fu
l’inizio di una bellissima anche se, purtroppo, saltuaria amicizia. Quando ci incontravamo era una mezza festa. Si parlava di
spettacoli, lui era un appassionato del mestiere: si informava
delle commedie che recitavo, mi chiedeva se non sentissi nostalgia per il varietà, diceva che per un comico il posto più naturale è quello. Ottenne un notevole successo personale in una
famosa rassegna di compagnie di avanspettacolo e molto modestamente non me ne parlò quando ci incontrammo qualche giorno dopo l’evento, ma i complimenti sinceri che gli feci, allorché
un comune amico mi informò della cosa, gli fecero brillare gli
occhi. Si commosse come sanno commuoversi gli animi grandi
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di fronte alle cose vere. Fece tantissime tournées, moltissimi
spettacoli, ottenne successo sempre, ma non fu molto fortunato.
Ad un certo punto non l’ho incontrato più. Qualcuno un triste
giorno mi disse che era morto. Lacrime immanenti invasero i
miei occhi, ma poi rigettai l’idea. Un Artista sparisce, si rifugia
in qualche parte del mondo dove nessuno può disturbarlo, ma
non muore. Non muore mai!
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17. ENZO LA TORRE
Divenne noto all’improvviso nel giro dell’avanspettacolo per
un suo scketch nel quale dimostrava una bravura straordinaria:
L’imbianchino. Fu una folgorazione per tutti perché fino a quel
momento nessuno aveva sospettato in Enzo La Torre una così
grande carica di simpatia, una vis comica così travolgente, una
mimica così umana e divertente. Era nel giro da anni, e ormai
ne aveva circa quaranta, aveva sposato una figlia dell’impresario Salvatore Fabbrocino, e, malgrado non fosse più giovanissimo, aveva un viso da bravo ragazzo che suscitava in tutti
quasi tenerezza, con quel sorriso dolce e timido e quel rossore
sempre presente sul suo volto, non si sa bene se per timidezza o
se per naturale predisposizione della pelle, dato che nel fare, nel
gestire e nel parlare era disinvolto, elegante e sicuro come pochi. Fatto sta che quel suo exploit, così come aveva colpito tutti
nell’ambiente a lui familiare e che lo aveva portato nel giro di
poco tempo ad essere il comico di alcune delle migliori compagnie di varietà, non passò inosservato neppure negli ambienti
dello spettacolo che contano. Ed infatti in poco tempo raggiunse
una certa popolarità, preludio ad una carriera favolosa, quale la
sua bravura meritava, e per la quale si stavano creando gli spazi
data l’età ormai avanzata di quasi tutti i maggiori comici di rivista in Italia. Ormai era sulla cresta dell’onda, tanto che l’eco dei
suoi successi giunse alla nostra compagnia non solo per il normale tam–tam tra gente di teatro, ma anche perché capitava di
vederlo spesso in televisione, magari in qualche carosello che
veniva trasmesso prima del normale inizio dei nostri spettacoli.
A Roma, durante un mio breve ritorno nella capitale, incontrai don Luigi Fabbrocino, e con lui ci recammo a trovare in una
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sala prove dalle parti di via Panisperna il fratello, suocero di
Enzo. Seppi così che il lavoro lo aveva completamente assorbito, che addirittura era spesso costretto ad assentarsi per lunghi
periodi e che trascurava un bel po’ anche la famiglia. Pensai che
la cosa fosse normale, ma mi accorsi che il commendator Fabbrocino, benché teatrante di lungo corso, la trovava eccessiva.
Comunque per me era il prezzo che si pagava per il successo.
Prendere o lasciare. Cosicché quando, parlando con il grande
Fiorenzo Fiorentini, mi sentii dire che stava preparando uno
spettacolo di giovani (credo suoi allievi) e che gli sarebbe piaciuto avere me accanto ad Enzo La Torre per dare un certo peso
ed una certa “esperienza” allo spettacolo, ne fui entusiasta. Di
Fiorenzo Fiorentini ero un grande ammiratore, quando potevo
andavo a vedere i suoi spettacoli e mi intrattenevo con lui col
quale parlavo del più e del meno con grande semplicità. Una
curiosità: Fiorenzo Fiorentini, quando non recitava, era balbuziente. Ebbene, con me parlava speditamente, appena inciampando ogni tanto solo al telefono. In quel periodo lo andai a trovare a casa sua, parlammo del progetto e mi disse che attendeva
La Torre tra pochi giorni. Poi il progetto fu rimandato. Enzo
non venne mai. Sparì quasi nel nulla: in giro per l’Italia alternando i normali spettacoli di prosa con uno spettacolo di varietà
con me e Mila Nistri in ditta e con, di volta in volta, un cantante
o un’attrazione famosi, seppi che era morto. Senza essere riuscito a compiere quella che sarebbe stata certamente una carriera
favolosa.
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18. LUCA SPORTELLI
Quando, tramite l’amico Juzzo Muscuso, fui scritturato da
Guido Leontini per il ruolo del cavaliere Amore nella commedia L’Eredità dello zio Canonico, fui piacevolmente impressionato dal cast dello spettacolo: accanto a Guido, oltre al sottoscritto ed a Juzzo, c’erano la simpaticissima sua compagna Ele
Ganvioni, Maria Pia Orsini, Luca Sportelli, Teresa Bruni, Melo
Leontini, Pippo Tuminelli, Giorgio Mattioli, Anita Pizic ed il
piccolo Robertino Palleschi. Tutti appassionati e innamorati del
nostro lavoro.
Alla riunione di compagmia familiarizzammo, parlammo
scherzando su varie cose di teatro, quindi leggemmo il testo,
ognuno la propria parte. E andò tutto benissimo: ciascuno dette
involontariamente o volontariamente una sua parvenza di interpretazione alla parte che gli era stata assegnata, ed alla fine a
tutti sembrò che, come prima lettura, tutto fosse andato nel migliore dei modi, sicché abbandonammo la sala soddisfatti.
La sera successiva, Guido mi chiamò in disparte e mi fece
presente che, dovendo il personaggio interpretato da Luca Sportelli ad un certo punto fumare alcune boccate di sigaretta e non
sopportando Luca il fumo, avrei fatto al collega un grande piacere se avessi accettato di scambiare con lui la parte. I due ruoli
erano della stessa importanza, entrambi di soddisfazione, perciò
non ebbi difficoltà alcuna ad eccettare il cambio. Senonché…
Leggemmo la parte. Ma, mentre il primo giorno era filato
tutto liscio, questa seconda lettura fu un disastro. E alla fine
Guido era distrutto:
― Ero tanto felice, ieri, ma oggi…
Luca ed io, forse condizionati inconsciamente uno dall’altro,
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non eravamo entrati affatto in parte; certo entrambi avremmo
poi creato benissimo il personaggio, ma dato che la sera prima
era andato tutto benissimo, Luca rise di cuore:
― Vuol dire che mi sacrifico e fumo…
Ognuno riprese il suo ruolo; e Franco Lattanzi, il regista, poté montare lo spettacolo.
Da quella sera Luca ed io diventammo amici.
Lo accompagnavo dopo lo spettacolo alla stazione di Ostia
alla Piramide dove lui prendeva il treno che lo portava a casa.
Facemmo insieme anche qualche serata, poi ancora insieme
lavorammo per le scolaresche con lo spettacolo di Fabbretti e
Mazzoleni, C’è una volta Bertoldo. Lui, che era un noto caratterista del cinema e che in teatro era stato un’ottima spalla e un
eccellente caratterista in varietà e che per anni era stato al fianco di Macario, accettava umilmente di lavorare per i ragazzi.
Ma ovviamente la cosa era molto provvisoria. Infatti dopo poco
fu scritturato da Franco Enriquez per una memorabile messa in
scena di Il Gattopardo dove sostenne da par suo il ruolo che
nell’edizione cinematografica era stato di Burt Lancaster. Io
quell’edizione del capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa non potei vederla, impegnato com’ero al Teatro dei Satiri con
lo spettacolo Il diavolo ha gli occhi verdi, ma tutti quelli che lo
hanno visto mi hanno riferito che la sua interpretazione era magistrale, e non seconda a quella del famoso divo americano. Cosa che non mi meravigliò conoscendo la bravura e la serietà di
Luca. Tornammo a lavorare insieme in un nuovo spettacolo per
la scolaresche e fu durante una rappresentazione che lui si sentì
male e fummo costretti a sospendere le recite. Io tornai a fare
per qualche tempo varietà, o meglio “cabaret” con Lydia Raimondi, Giosjana Pizzarro, Paolo Procaccini e quindi teatro, un
po’ di cinema, serate… Ma con Luca non mi è più capitato di
lavorare, anche se una volta io e Laura Sestili fummo contattati
per entrare a far parte con lui di una compagnia di prosa comica
insieme ad Alfredo Rizzo, che sarebbe stato anche il regista, e
che aveva l’ambizione di riunire un gruppo di attori che avevano lavorato con Macario… Ma la cosa si arenò… come tantissime altre cose, lasciando il posto ad altri progetti, alcuni dei
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quali, come tanti altri progetti, andarono in porto. Ma in nessuno di questi progetti c’è mai più stato posto per entrambi.
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19. FANFULLA
Nei lunghi periodi invernali, durante la mia fanciullezza,
nell’uggia di giornate piovose e nelle quali l’unica cosa che potevo fare, e che non volevo fare, era studiare, spesso me ne andavo bighellonando qua e là senza una meta, per le strade della
mia città. Me ne andavo fantasticando tra la gente che non vedevo, che non sentivo e della quale non mi importava niente,
tutto compreso in un mondo tutto mio dal quale mi distraevano
soltando le edicole dei giornali e i manifesti dei cinema. Andare
al cinema mi piaceva, anche se tra tutti i ragazzi miei coetanei
ero forse l’unico al quale non interessava fare l’attore. Però,
quando arrivava a Cosenza qualche compagnia teatrale, per lo
più di varietà, ma talvolta anche di prosa, il mio interesse era
attratto da quelle particolari locandine e da quei grandi manifesti colorati con i nomi degli artisti scritti a caratteri cubitali che
le annunciavano. Non che sognassi il mio nome scritto in futuro
su uno di essi, dato che in realtà quello era per me un mondo
veramente sconosciuto, ma perché quel mondo, che dietro quei
manifesti si celava, stuzzicava la mia fantasia. Mi faceva sognare, come il mondo celato dietro le copertine dei giornaletti di
Tex, di Tom Bill o di Kansas Kid, o dietro le copertine dei romanzi esposti nelle vetrine delle librerie, o dietro i già citati
manifesti cinematografici. Ma mentre al cinema ci andavo, i
giornaletti li leggevo ed i romanzi pure, visto che a casa mia
non mancavano di certo nelle librerie insieme a libri di cultura,
di storia, di legge, del teatro avevo solamente sentito parlare da
mia madre e conoscevo solo alcune arie di opere liriche che mia
nonna soleva cantare la sera, forse nostalgicamente ricordando
la sua lontana gioventù. Dei tanti nomi che ogni anno appariva70
no sui muri, ne ricordo molti, ma quello che colpì la mia fantasia, chissà perché, fu solo uno: Fanfulla!
Anni dopo, fine anni cinquanta, inaspettatamente, Fanfulla
entrò nella mia vita. Peppino Roberti stava preparando una
compagnia della quale avrei dovuto essere il comico e Franco
Castiglione (attore, impresario, amministratore, uno dei padroni
del vapore dell’avanspettacolo) gli propose di mettere in scena
un testo di L.V. (Luigi Visconti). Chiesi chi fosse.
― Fanfulla! È il vero nome di Fanfulla.
Fu la lapidaria risposta di Roberti.
Fanfulla in Galleria, pur se non veniva quasi mai, qualche
volta lo avevo visto, ne avevo sentito parlare e certo non avevo
dimenticato il suo nome scritto sui vecchi manifesti che leggevo
nella mia fanciullezza. Era un mito, e non solo per me.
Attore di razza, comico raffinato, elegante, ha avuto una carriera a mezza via, come diceva qualcuno: troppo grande per essere uno dell’avanspettacolo, incompiuto per non essere riuscito
ad entrare definitivamente nel giro delle grandi compagnie di
rivista e commedie musicali. La leggenda vuole, ma in realtà è
storia, che, scritturato dalla compagnia di Wanda Osiris, quale
comico assoluto, non si sia messo d’accordo sul nome in ditta
che la Wandissima gli aveva proposto magnanimamente, affiancandolo al suo, all’epoca tanto grande da bastare da solo a
garantire ogni spettacolo. La compagnia sarebbe stata “Wanda
Osiris ― Fanfulla”. Ma lui si impuntò. In rivista il primo nome
spettava al comico e quindi la ditta doveva essere “Fanfulla ―
Wanda Osiris”. Risultato, la ditta fu “Wanda Osiris ― Macario”. Questo è quanto si diceva in galleria e questo è quanto mi
è stato confermato da Dino Rosaspina, saltuariamente mio attore di spalla in qualche “spedizione punitiva” e, all’epoca dei fatti, amministratore della compagnia della Wandissima.
E Fanfulla tornò alla testa della sua compagnia: la migliore
tra le compagnie della gloriosa “serie B della rivista”, famosa
sul finire degli anni quaranta.
Per me fu un autentico Maestro. Mi accolse con una vigorosa stretta di mano nella sua casa di via Faà Di Bruno, insieme
alla simpaticissima vecchia madre, la famosa Diavolina, in gio71
ventù valente Artista. Io avevo una certa soggezione, la avevano
un po’ tutti; il fatto che fosse in credito grandissimo con la fortuna, il fatto che non fosse riuscito a diventare come Rascel o
Macario o Dapporto, malgrado ne avesse le capacità, lo rendeva
simpatico, ma quel suo fare apparentemete distaccato, aristocratico, lo rendeva misterioso ed inavvicinabile. Quello spettacolo,
come tanti altri, non andò in porto ed io ci rimasi malissimo.
Sotto la sua regia avrei avuto la possibilità di apprendere tante
cose: i segreti del mestiere. E ci rimase malissimo anche lui.
Aveva la voglia di insegnare, di creare e, forse, aveva pensato di
creare anche me. A partire dal nome. Mi fece cambiare il nome
anagrafico (Giuseppe Luigi, ma lui sapeva solo Giuseppe) in
quello di Gino, lasciando inalterato il cognome Serra, che lui
riteneva teatrale. Il nuovo nome fece piacere a mia madre che
me lo aveva proposto quando avevo cominciato a recitare, e che
in una lettera (che ancora conservo) mi ricordò che era stata lei
la prima a sceglierlo. Leggendo il copione mi spiegava il perché
di certe intonazioni e l’effetto delle pause, l’importanza dei
tempi e soprattutto la fedeltà al testo.
― Tu sei in grado di svolazzare a destra e a manca e sei abbastanza intelligente da sapere quando ti devi fermare. Ma ricordati sempre che su mille persone che sono in sala, almeno
sessanta sono di un certo livello. Tu devi farli ridere tutti i mille,
ma per far ridere i novecentoquaranta non far mai in modo da
disgustare i sessanta. Sono loro quelli che qualificano il tuo
spettacolo.
Talvolta lo incontravo per strada, avevo paura di disturbarlo,
ma era lui stesso che mi chiamava, che mi parlava di teatro, che
mi dava consigli, sempre. Altro che inavvicinabile!
Alto, un po’ massiccio, fu sempre delicatissimo in scena,
spesso portando un teatro surreale che anche al giorno d’oggi
andrebbe valorizzato. “Sentivo una voce che diceva: ― Non
gioco più, non gioco più, non gioco più ― veniva dal bagno,
sono entrato con circospezione, indovinate chi era? Il lavandino
che perdeva” oppure “Stanotte mi ha svegliato un rumore di
passi nella stanza. Ho acceso la luce, non c’era nessuno, ma i
passi continuavano; ho teso l’orecchio, il rumore dei passi pro72
veniva dall’armadio, l’ho spalancato di colpo e… era un mio
vecchio abito che passava di moda”.
Negli ultimi anni era malato, ma non si arrendeva mai, sempre alla guida della sua compagnia, sempre con spettacoli degni
del suo nome e della sua classe. In uno degli ultimi faceva coppia con un altro grandissimo, Alberto Sorrentino; in una scenetta dove l’uno era un autore e l’altro un dirigente TV al quale
l’autore proponeva i suoi lavori, i due ricamavano un duetto che
a buon diritto si sarebbe potuto proporre come esempio di alta
comicità alle nuove generazioni di comici.
Fu poco attivo nel cinema, ma proprio il cinema ce lo ha
tramandato come attore drammatico di rara potenza. Nel film
Totò e Marcellino disegna il personaggio di un delinquentuccio
di borgata con accenti tragici, patetici e umani che classificano
Fanfulla Visconti (così appare nei titoli del film) come un grande attore completo.
Il giorno successivo alla sua morte, avvenuta in un albergo
di Bologna mentre era in attesa di recarsi a teatro per lo spettacolo, un giornale ne pubblicò un bel “ricordo”, terminando: resta il rammarico per “quel che poteva essere e non è stato”.
Per quel che non è stato riconosciuto, dico io, perché quel
che sarebbe potuto essere, almeno per chi lo ha conosciuto, Fanfulla è stato.
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20. ALBERTO GIGLIO
Era la “spalla” per antonomasia, Alberto Giglio, nei teatri
dell’avanspettacolo minore. Dopo essere stato attore e organizzatore per anni di spettacoli teatrali di ottimo livello ed aver
calcato le scene di teatri importanti, forse anche per desiderio
della moglie Anna De Giorgi, che voleva finalmente stare un
po’ vicino al figlio Massimo ormai quasi giovanotto, decise di
dedicarsi ad un genere che non lo costringesse a lunghe ed estenuanti tournées. Finì così per fare la spalla fissa a Ciro Castiglia
e, di volta in volta, quando se ne presentava l’occasione, ad altri
comici in spettacoli occasionali a Roma e dintorni.
Uomo colto e serio, ma anche dotato di una pungente ironia,
sapeva adattarsi perfettamente alle esigenze di qualsiasi comico,
inventandosi di volta in volta, quando la scena lo richiedesse,
anche interpretazioni caratteristiche di grandissimo successo,
che lui eseguiva quasi come un estemporaneo divertimento.
Prendeva in queste sue particolari evasioni risate e applausi a
scena aperta, tanto che qualcuno gli propose più di una volta di
fare il comico. Diceva non ho le physique du rôle e rifiutava. In
effetti era un bell’uomo, già di una certa età quando l’ho conosciuto io e non aveva l’aspetto di quello che tradizionalmente
era “il comico”. Ma in realtà aveva preparazione artistica e simpatia che gli avrebbero consentito di coprire quel ruolo con successo, solo che lui avesse voluto, ma non voleva. Una volta mi
confidò con una battuta delle sue:
― A fare il comico mi sentirei ridicolo…
Forse fu per questo motivo che, venuto a mancare per un
improrogabile impegno (probabilmente aveva trovato una scrittura meglio pagata) il comico Mario Grimaldi (al quale qualche
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volta avevo fatto da spalla anch’io), un giorno, mentre provavamo alla sala di Terziano in via Leccosa lo spettacolo Peter
Pan nel quale io avevo un ruolo da caratterista, mi chiamò in
disparte e mi disse:
― Tu sei molto bravo, te la senti di fare il comico in ditta
all’Oriente sabato e domenica?
Fare il comico era la mia ambizione, ma per lo spettacolo?
Chi mi avrebbe fatto da spalla? Quale sketch avremmo recitato?
Pensò a tutto lui. Provammo un paio di volte con Annarella,
Ety Silva e lui, e il sabato debuttammo. Fu un successo. Ricevetti i complimenti di tutti, anche di Ugo Brunelli, cantante romano in voga in quegli anni. Alberto mi disse:
― Bravo! Hai visto, ti ha fatto i complimenti anche Brunelli. Sei contento?
I complimenti me li fecero tutti: Anna De Giorgi, Ety Silva,
gli orchestrali e, la domenica sera, anche Mario Grimaldi arrivato in tempo per vedermi nell’ultimo spettacolo. Avevo poco più
di vent’anni, sapevano tutti che era la mia prima volta da comico assoluto, ero andato bene, e nessuno mi fece mancare il proprio plauso di incoraggiamento. Ero contento, sì! Ma il più contento di tutti era proprio Alberto Giglio. Generoso e spontaneo,
l’ho visto sempre godere del successo di ognuno, sempre tirandosi in disparte, sempre minimizzando il proprio operato. Grande meraviglioso amico e maestro. Non si contano gli artisti che
hanno cominciato con lui: comici, attori, cantanti, orchestrali…
Tutti a lui grati. I primi tempi, quando ha cominciato ad interessarsi di Teatro, ne ha fatto debuttare tantissimi nei maggiori teatri. Poi man mano che i costi d’una compagnia di giro diventavano insostenibili per chi non avesse una organizzazione apposita, aveva ristretto sempre più il suo giro d’azione, ma non aveva mai abbassato la qualità dei propri spettacoli, né aveva fatto esordire elementi che non fossero di sicuro valore artistico.
Mai aveva mandato alcuno allo sbaraglio. Era rigorosissimo
nella sua semplicità. Mai uno strillo, mai un rimbrotto, sempre
col sorriso sulle labbra, ma sempre esigente il massimo possibile da ognuno. “Non la luna, ma il massimo impegno e la massima serietà” diceva, spiegando dove si era sbagliato e facendo
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pausa caffè perché ognuno metabolizzasse quello che si era detto, prima di riprendere le prove. Non faceva pesare mai niente a
nessuno.
Poi si ammalò e dopo anni di doloroso calvario, curato amorevolmente dalla moglie Anna De Giorgi e dal figlio, mai abbandonato dai suoi amici che accoglieva sempre col suo solito
cordiale sorriso, un triste giorno si spense.
Al funerale incontrai tanti artisti, alcuni anche noti, tutti che
avevano cominciato con lui, o che con lui avevano lavorato: tutti a lui grati. Tornai verso casa proprio con Mario Grimaldi.
Andammo a prendere un caffè. Prima di bere, dinanzi a quelle
fumanti tazzine di caffè, Mario, con gli occhi ancora arrossati
dal pianto mi disse:
― Avimmu persu nu grand’amicu (abbiamo perso un grande
amico).
Poi mi mise una mano sulla spalla e mi strinse a sé in un fraterno abbraccio.
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21. DINO ROSASPINA
Carlo Rosaspina fu un ottimo attore teatrale, ma è ricordato
nella storia del teatro per essere stato primattore in una compagnia a soli diciassette anni e per aver tenuto a battesimo quale
primattrice, in quella compagnia e a quell’età, nientemeno che
Eleonora Duse, di pochi anni più giovane, destinata a diventare
la più grande attrice italiana della sua epoca e una delle più
grandi di sempre nel mondo.
Quando ho cominciato a recitare i Rosaspina in teatro erano
due: Cesare e Dino (Eduardo); erano i figli di Carlo. Cesare recitava, ebbi modo di conoscerlo, di vedergli fare la spalla all’Altieri, ma purtroppo poco tempo dopo seppi che era morto.
Dino, del quale ignoravo l’esistenza, lo conobbi in Galleria Colonna. Me lo presentarono come amministratore di compagnie
di giro importanti. Ma lui si schermì “Sì, ho fatto anche quello,
ma sono pure un attore”. La cosa finì lì. Ma Dino Rosaspina era
un personaggio incredibile, capace di mille trovate: stava per
cominciare una cosa e ne pensava altre cento e spesso non portava a termine quello che aveva cominciato a fare, perché già
stava pensando di imbarcarsi in una nuova impresa. Essendo però un super attivo, talvolta gli capitava di concludere l’impresa
appena pensata, per cui non poteva più lasciarla per intraprenderne una che certamente già gli bolliva nel cervello.
Un giorno in via dei Mille stava concludendo con un impresario uno spettacolo nel quale in ditta c’era il mio nome insieme
ad un “Dino Rosi” che poi mi confessò essere uno dei suoi nomi d’arte. Non andò in porto, perché, come mi spiegò dopo, gli
era venuta un’idea migliore che mi avrebbe comunicato a suo
tempo. Andammo infatti, a recitare vicino Terni, con una di77
screta formazione della quale facevano parte con me e lui,
Franco Valle, Umberto Moriconi, che conobbi in quell’occasione, Lucia Varrone, le sorelle Valentini ecc… Un teatrale,
cioè solo teatro, senza film. Fu un discreto spettacolo, ché la
qualità degli artisti era ottima pur se la preparazione inesistente.
Il pubblico accorse abbastanza numeroso, ma il paese era piccolo e gli incassi insoddisfacenti. Tornammo a Roma alla
spicciolata. Io tornai con Franco Valle e Lucia Varrone, miei
amici da sempre.
In Galleria, qualche giorno dopo, Dino diede la colpa al fatto
che il paese fosse piccolo, ma spiegò che alla prossima occasione ci saremmo rifatti. Intanto qualche volta andavamo a cena o
a pranzo insieme, con noi veniva pure Franco Valle; ma più che
parlare di lavoro, loro due parlavano di sport, calcio, ma talvolta
anche pugilato o ciclismo. Tempo trascorso piacevolmente, entrambi erano abili e simpatici conversatori, ma infruttuosamente. Raccontava spesso dei suoi trascorsi come amministratore di
grandi compagnie, ci parlava di Wanda Osiris e di Macario, dei
grandi teatri, ma non ci diceva mai perché avesse abbandonato
quel mondo al quale sembrava ancora tanto attaccato. Una sera,
passando per corso Vittorio verso le otto mi disse:
― Andiamo a mangiare due supplì: poi a teatro a vedere
Macario.
Macario era al Valle con Maria Fiore nella commedia La
bella Rosina, e a me sarebbe piaciuto tantissimo andarci, ma gli
feci presente che non avevo i soldi del biglietto. Sorrise:
― Vieni con me, ci mancherebbe altro, se ci sono i posti non
c’è problema.
I posti fortunatamente c’erano. Lui, ben accolto, salutò alcuni vecchi amici e mi presentò loro. Entrando in sala mi disse:
― Potevi metterti una camicia. Abbottonati almeno il colletto.
Io, che ovviamente non pensavo minimamente di andare a
teatro quella sera, indossavo per fortuna sotto la giacca una magliettina bianca con colletto che, una volta allacciato dava l’impressione di una camicia, seppur senza cravatta. Lo spettacolo
mi entusiasmò, per la bravura degli interpreti, per i costumi, per
le scene. Poi andammo a mangiare una pizza. E in pizzeria Dino
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mi narrò di come una volta in un casinò, preso dal demone del
gioco, avesse buttato alle ortiche in una sola puntata l’intero incasso della compagnia. Procurò un danno enorme all’impresario
ma questi non lo denunciò. Con quel gesto però aveva dato
l’addio per sempre alla possibilità di tornare a fare l’amministratore di compagnia. Ora comunque aveva tanti progetti…
Pochi giorni dopo venne con un manifesto, già stampato, in
mano. C’era il mio nome in ditta e tanti altri nomi, alcuni veri,
altri di fantasia, e un titolo a caratteri cubitali che annunciava
uno strip–tease.
― Ti porto a Fiumicino con un signor spettacolo.
Mi disse.
Io a Fiumicino si può dire che fossi di casa. In due anni c’ero
stato tre o quattro volte con Alvaro Dini (gli facevo da spalla),
due volte con Roberto Berti che mi faceva da spalla, e questa
era la sesta o la settima volta. All’arrivo in paese, notai che i
nostri manifesti erano dovunque, però notai anche come il titolo
fosse coperto con uno striscione anonimo. In Teatro i fratelli
Romani, gestori del cinema teatro “Trionfo”, ci spiegarono che
avevano così deciso le autorità, trovando il titolo offensivo. Rosaspina fu contrariato e paventò che si facesse forno (fare forno,
in gergo teatrale, significa non avere pubblico). Contrariamente
alle sue pessimistiche previsioni andò invece tutto bene, incasso
compreso. Alla fine era entusiasta.
― Faremo grandi cose! Ho tante idee…
Poi ci perdemmo di vista perché partii in tournée. Lui si ritirò per un periodo di tempo in un paesetto vicino ad Amatrice.
L’estate successiva in galleria racimolò tantissimi artisti per una
eccezionale festa in piazza in quel paese: due comici, ben quattro attori di spalla, due orchestre, tanti cantanti, tre attrazioni.
Tutti in festa. Tanti soldi promessi, uno spettacolo da favola.
Io di favoloso ricordo il pranzo: ogni artista era ospite in
qualche locale. A me toccò una trattoria dove c’era un pranzo di
nozze. Quando credevo di aver pranzato anche abbondantemente, mi accorsi che il pranzo vero stava appena per cominciare.
Da quel momento in poi assaggiai soltanto i vari piatti, ciononostante alla fine ero groggy, né mi rimisero in sesto l’amaro
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finale e due caffè. Non so come avrei fatto a recitare. In qualche
modo ci sarei riuscito; ma ad un certo punto mi fu comunicato
che erano sorti dei problemi, che lo spettacolo non si sarebbe
potuto fare. Gli artisti andarono via alla spicciolata, chi con i
mezzi propri, chi in autostop su automobili fermate dalla polizia. Essendo già partiti il cantante e la cantante che mi avevano
accompagnato la mattina, con questo tipo di autostop autorizzato e garantito dalla polizia tornai a Roma anch’io. A bordo di
una bella automobile insieme ad una famigliola simpatica e felice che tornava a casa dopo aver trascorso una bella giornata al
lago.
Il giorno seguente il mio stomaco pagò le conseguenze di
quella memorabile abbuffata ed io non potei andare in galleria;
lui ci andò e mi lasciò detto che partiva per nuove piazze e che
ci saremmo rivisti al più presto. Aveva tanti progetti, ma da allora io non l’ho incontrato che poche volte, sempre indaffarato,
sempre con in mano un grosso affare da realizzare, sempre di
corsa:
― Grosse cose, vedrai.
E ogni volta spariva. E la sua assenza diventava sempre più
lunga. Poi io raggiunsi la Compagnia di Moriconi ed il capitolo
Dino Rosaspina per me si concluse così. Almeno per quel che
riguardava il teatro, perché un giorno mi chiamò per farmi fare
una comparsata in TV (allora la TV era solo Rai) ed io andai a
registrare, confuso tra vari figuranti, la sigla di uno spettacolo
allo stadio Olimpico. La sera mi chiamò per sapere se era andato tutto bene. Mi salutò promettendomi come sempre grandi cose. Pensai che in RAI si fosse in qualche modo sistemato. Seppi
invece che aveva solo avuto una scrittura come suggeritore e
che, per caso, aveva conosciuto una specie di capogruppo dei
figuranti, grazie al quale aveva ottenuto una scrittura di un giorno per me e per altri suoi due amici. Lo ringraziai per il pensiero. Certo era un amico, peccato che le grandi produzioni che
sognava non si siano mai realizzate. Sono sicuro che gli amici li
avrebbe fatti lavorare tutti. E sono sicuro che ancora sogna
grandi cose ed ancora crede che un giorno quelle grandi cose le
realizzerà.
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22. FRANCO VALLE
Genialità e pazzia credo che non si siano fuse mai così bene
in nessun essere umano come in Franco Valle.
Dotato di una mente fervida, artista immenso sulla scena,
sapeva recitare, cantare, ballare; era capace di scrivere una canzone in pochi minuti e di inventare un scenetta comica in un
lampo. Bohémien per vocazione, viveva alla giornata, bighellonando da un capo all’altro di Roma, o meglio del centro storico
di Roma, delimitato nella sua mente da ponte Vittorio, ponte
Garibaldi, piazza Argentina, piazza Venezia, via Nazionale,
Stazione Termini, Piazza Barberini, via Veneto, piazza di Spagna, piazza del Popolo, Corso Vittorio, e, occasionalmente, zone appena confinanti. Al centro c’era, ovviamente, piazza Colonna, dove quasi ogni giorno era possibile incontrarlo. E lì l’ho
conosciuto io.
Me lo presentò Alvaro Dini, dipingendomelo, come sempre
usava fare, in maniera perfetta.
― Un grandissimo Artista, ma anche inaffidabile matto.
A mie spese imparai che era proprio così. E non sono stato il
solo ad aver imparato a proprie spese quanto fosse grande come
artista e quanto fosse indicibilmente matto come uomo. Attori
famosi lo ammiravano e gli concedevano la loro amicizia, non
riuscendo a staccarsi da lui nemmeno quando ne scoprivano le
mille marachelle di uomo, affascinati come erano dalla sua genialità di Artista e imbambolati dalla sua incredibile capacità di
rigirare le frittate in modo tale che la ragione era sempre e solo
dalla sua parte. Una volta non si presentò ad un appuntamento
con cinque amici che lo attesero invano per una serata intera;
ebbene, il giorno dopo, in Galleria si mostrò adiratissimo per la
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“buca” che gli avevano dato e con argomentazioni varie e fantasiose, seppur non li convinse del fatto che loro non c’erano, riuscì a convincerli del fatto che lui c’era e che loro forse avevano
sbagliato luogo, magari di pochi metri.
Un giorno, uscendo di galleria, mi si accodò e mi seguì, consigliandomi, adulandomi, pronosticandomi un avvenire radioso,
e nello stesso tempo scroccandomi in una modesta trattoria un
più che modesto pranzo, durante il quale fece di tutto per mostrarmi quanto valesse per meglio conquistarsi la mia fiducia.
La cosa si ripetè per qualche tempo, finché, quasi senza accorgermene, ci trovammo a poco a poco a fare vari progetti, fino
a programmare uno spettacolo tutto nostro. Il suo valore era
indubbio, aveva tantissime conoscenze, la cosa mi sembrò
fattibile.
Per lunghe giornate camminammo per il centro di Roma, alternando sogni a progetti possibili, parlando del più e del meno,
inventando passaggi comici e sketches, quasi preparando un repertorio vastissimo e intercambiabile per spettacoli di tutti i tipi,
anche per due soli personaggi.
In tanti mi mettevano sull’avviso.
― Guarda che quando meno te lo aspetti ti pianta in asso
con tutta la compagnia, magari dopo avervi mandato in una
piazza dove dirà di aver programmato uno spettacolo, cosa che
non risulterà vera. L’ha già fatto con Sampieri.
La cosa mi sembrava strana, ma siccome Gianni Sampieri
era un mio amico, un bravo comico ed una persona seria, chiesi
a lui se fosse vero quanto mi avevano detto. E Gianni, ancora
sbalordito al ricordo dell’episodio, me ne confermò la veridicità. Ma Franco non fece mai nulla che potesse insospettirmi. E al
riguardo dell’episodio, quando gliene parlai, mi disse che era
vero, ma che loro avevano sbagliato paese, facendo fare a lui
una brutta figura col gestore del locale, col quale comunque aveva pensato a mettere a posto le cose, per cui anche noi saremmo andati a lavorare in quel teatro quanto prima. Tra le altre
cose avevamo pensato di mettere su un numero di attrazione
con Lucia Varrone, una ballerina nostra amica che aveva lavorato anche in grandi compagnie e che sarebbe stata ben felice di
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riesumare un vecchio numero nel quale lei faceva il pupazzo
chiuso in una valigia. Il numero, di grande effetto, era stato portato per anni nei circhi e nei teatri dal celebre “trio Amadori”,
del quale Lucia era una componente. Non so se Amadori avrebbe dato il benestare per riesumarlo, ma quel numero non lo
montammo mai. In compenso passammo a casa di Lucia e della
sua simpaticissima anziana madre serate meravigliose che terminavano sempre tardissimo con un caffè e un “ammazza caffè”. E prendemmo intanto parte ad alcuni spettacoli, noi come
coppia comica e lei come ballerina, in paesi nei dintorni di Roma o in Umbria. Soldi quasi niente, successo tantissimo. Franco
ed io certe sere dovevamo fermarci per qualche secondo perché
le risate del pubblico ci impedivano di continuare e, quando ci
fermavamo, le risate spesso aumentavano di intensità. Forse stavamo preparandoci a fare davvero qualcosa di buono. La coppia
era affiatata e gli sketches ed i Black–out funzionavano.
Franco, nella vita, per la verità qualche estrosità la palesava.
Scroccava il caffè a chi poteva, si presentava in casa di gente,
che aveva appena conosciuto, all’ora di pranzo e, all’immancabile “volete favorire”, rispondeva con un furbo sorriso:
― Non vorrei dar fastidio… Ma se è per farvi piacere… ma
sì, sarà un piacere per tutti… ma non state a preoccuparvi, mangeremo quel che c’è…
Qualche volta spariva, qualche volta mancava agli appuntamenti, qualche volta per sbaglio dimenticava di pagare al bar,
ma erano tutte mancanze alle quali trovava sempre una scusa
plausibile.
Fare rivista e varietà era il nostro sogno, ma quando io passai alla prosa con Umberto Moriconi, per un periodo venne anche lui a far parte della compagnia. Faceva i ruoli che di volta in
volta serviva ricoprire e lo faceva con grande bravura ma con
scarso entusiasmo, entusiasmo che metteva invece nella farsa
finale, dove mi faceva da spalla formando con la bravissima
Mila Nistri e con me un trio comico di sicuro effetto. Carattere
estroso, libero, irrequieto, sempre incapace di prendere una decisione definitiva, dopo qualche tempo se ne tornava a Roma in
cerca di non si sa che cosa, per poi inaspettatamente tornare in
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compagnia come se niente fosse. In estate spesso mi faceva da
spalla nelle feste di piazza, sempre con successo, ma talvolta mi
dava buca ed io ero costretto a farmi fare da spalla da questo o
quell’attore o dal presentatore, recitando scenette che loro conoscevano ed adattando a quelle la mia comicità. Una volta in un
teatro romano non si presentò ed io, privo di spalla e senza nessuno che sapesse recitare, fui salvato da Nino Villa che si offrì
di fare il comico se io gli avessi fatto da spalla. Da allora il nostro sodalizio, già traballante, si incrinò, ma l’anno successivo
un giorno mi propose di andare a Perugia in un istituto a fare
uno spettacolo in due. Per paura che mi desse una fregatura,
chiamai il direttore ed ebbi la conferma che lo spettacolo era in
programma. A Perugia, dopo avermi presentato al direttore, mi
pregò di andare in camerino dove mi avrebbe raggiunto poco
dopo. Infatti dieci minuti dopo arrivò eccitatissimo:
― Mi raccomando, dacci dentro. Dobbiamo fare un successone! Faremo così…
E giù il programma, con un entusiasmo che non aveva mai
avuto prima. La cosa ovviamente mi fece piacere. Entrambi
montati al punto giusto, ottenemmo un grandissimo successo,
lui anche come cantante, accompagnato dall’orchestra in scatola, cioè con la base registrata. Ma lui ogni tanto mi chiedeva:
― Mi pare che si divertono. È un buon successo?
Non lo avevo mai visto preoccuparsi tanto che lo spettacolo
piacesse al pubblico; anzi, fino allora, se qualche volta una gag
non otteneva il successo desiderato diceva che il pubblico non
aveva capito. Lo rassicuravo:
― Sì che va bene! Non senti gli applausi? Continuiamo a
darci dentro.
E avanti per quasi tre ore. Alla fine, stanchi, fummo gratificati da applausi numerosi e convinti.
― Meno male! Vado in direzione a prendere i soldi.
E si avviò, quasi preoccupato. Tornò raggiante poco dopo.
Mi abbracciò quasi urlando:
― Tutto bene. Bravo… Ci hanno dato tutti i soldi… trecentomila lire…
― Beh, scusa, perché non avrebbero dovuto darceli?
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Mi meravigliai. Poi più meravigliato ancora esclamai:
― Trecentomila lire… tante?
Mi guardò sorridendo felice ed emozionato:
― Già, tu non sai, non ti ho detto… ma se te lo avessi detto
non avresti recitato…
E mi spiegò che aveva contrattato quella cifra per la compagnia al completo, ma poiché questa non c’era, aveva trovato la
scusa che c’era stato un incidente nel quale erano rimasti coinvolti tutti i componenti la Compagnia tranne noi due e che lo
spattacolo lo avremmo fatto bene anche in due, ma che c’era
tutta la compagnia da pagare. Il direttore aveva detto che non se
ne faceva nulla, e che al massimo ci avrebbe dato trentamila lire
in due. A questo punto era stato Franco a dire che non se ne faceva nulla e così, tira e molla, si erano accordati che se lo spettacolo avesse fatto davvero successo ci avrebbe dato tutte le trecentomila lire, ma che, se non fosse piaciuto, non ci avrebbe dato neppure una lira.
― Per fortuna è stato un successone!
Concluse Franco, saltellando felice mentre io cominciavo
veramente a pensare che fosse matto, proponendomi di non fare
mai più spettacoli con lui. Ma poi ogni tanto tornavamo a far
coppia in scena. Finché…
Una sera, dopo avermi dato una serie di fregature, cercò di
imbambolarmi per l’ennesima volta. Ma la misura quella volta
era colma. Cercò di piantarmi in asso per non darmi una spiegazione, entrando in un portone e dicendomi di aspettarlo un minuto. Ma si era dimenticato che quel portone a doppia uscita lo
conoscevo pure io. E fu a quella seconda uscita che lo bloccai.
Divenne pallido e per la prima volta non cercò di inventare una
scusa. Io lo acchiappai per il colletto, lo spinsi contro il muro e
gli urlai:
― Non sei mio padre, non sei mio figlio, non sei mio fratello, non sei niente, quindi sparisci: non farti mai più vedere, perché, la prossima volta che ti vedo, prima ti ammazzo di botte e
poi parliamo.
Non disse una sola parola. Voltai le spalle e lo lasciai lì senza uno sguardo. Da allora non l’ho più visto. Qualche volta,
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mentre recitavo in qualche teatro a Roma, pensai che sarebbe
venuto a trovarmi con la faccia tosta di sempre. Invece no. Dovevo essere stato abbastanza convincente, quella sera, davanti a
quel portone.
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23. ROMEO D’AMICO E JOLE PUPETTA
Una coppia particolare nell’avanspettacolo degli anni cinquanta e sessanta era quella formata da Romeo D’Amico e Jole
Pupetta. Non ho avuto modo di conoscerli personalmente, ma
ricordo che ogni volta che il loro nome era in cartellone in qualche teatro di varietà, se potevo, andavo a vederli. Ciò vuol dire
che avevano qualcosa di particolare, di valido, di diverso. Gli
spettacoli di avanspettacolo avevano praticamente un canovaccio quasi uguale per tutti. C’era il comico con la spalla, c’era un
secondo attore, la soubrette, qualche volta un’attrice caratterista,
c’era il balletto ed un cantante (meglio donna se era una) o due
(maschio e femmina) e un’attrazione, un’orchestrina. Su questi
si costruiva lo spettacolo, di un’ora circa, che andava in scena
tra una proiezione e l’altra del film che era evidentemente lo
spettacolo principale per cui quell’intrattenimento teatrale veniva considerato e classificato come avanspettacolo. Il canovaccio
era il seguente: sigla musicale, presentazione (che spesso avveniva con due soubrettine, da sole o col balletto, che cantavano
versi di presentazione appunto), seguiva un passaggio comico,
quindi un cantante, poi il balletto, lo sketch centrale, il balletto,
l’altro cantante (o lo stesso se era uno), l’attrazione, un balletto,
il sottofinale con comico e spalla (o con comico solo, o con comico, soubrette e spalla) e finale con passerella, che in alcuni
teatri minori non c’era e veniva sostituita da un giro davanti alle
luci della ribalta, che ancora si usavano in tutti i teatri.
I comici, quasi tutti, si attenevano a questo cliché consolidato che il pubblico aveva ormai accettato e che si aspettava.
Cambiavano i testi, spesso scritti da umoristi di valore con
pseudonimi. Devo segnalare che i comici e gli attori e tutti i
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componenti le compagnie avevano un grande senso del dovere,
una grande dignità ed un grande rispetto del proprio lavoro e del
proprio pubblico. Quando sento dire, quasi con disprezzo, “roba
da avanspettacolo”, vorrei invitare quei signori ad andare indietro nel tempo e ad andare a conoscere un mondo che merita il
massimo rispetto. Purtroppo non c’è una macchina del tempo
che possa permettere questo. Peccato!
Romeo D’Amico e Jole Pupetta facevano avanspettacolo,
ma, come dicevo, si differenziavano, come altri del resto, vedi
Franco Nola per esempio…, da quello che era il classico comico di varietà, che basava la sua comicità sulla propria vis comica, sulla maschera personale o personalizzata, sulla situazione
comica delle scenette, sui lazzi improvvisati o preparati. Loro,
no. Basavano quasi tutto o per lo meno la parte migliore del loro repertorio sui duetti cantati, sui duetti brillanti, sulle parodie.
Avevano una signorilità che si palesava in ogni momento della
loro recitazione, anche quando i due nei ruoli di innamorati battibeccanti si insultavano. Nel loro litigare c’era già la gioia per
la pace che immancabilmente avrebbero fatto alla fine della
scenetta o del duetto. E anche nell’impostazione dei numeri dello spettacolo, spesso si differenziavano dal cliché tradizionale,
magari inserendo un duetto o un litigio inatteso. O, forse, erano
talmente imprevedibili nella loro linearità che facevano sembrare diverso l’andamento dello spettacolo che pure era uguale agli
altri. Fatto sta che ricordo che, se avevo tempo, quando in cartellone c’erano loro, io andavo a vederli. E non me ne son mai
pentito.
Sono spariti nel nulla. In galleria non li ho mai visti. Un
giorno Ciro Castiglia mi disse che aveva una bella scenetta comica che gli aveva dato Romeo D’Amico. Presi la palla al balzo
e gli domandai cosa facesse. Mi disse che si era impiegato, in
una banca mi pare… Certo il varietà aveva perso un personaggio importante.
Molti anni dopo, sul finire degli anni settanta, mentre giravamo a Palombara Sabina le prime scene del film Io zombo, tu
zombi, lei zomba, parlando durante una pausa con Ghigo Masino, all’epoca il maggior comico dialettale fiorentino, ma in pas88
sato noto comico di avanspettacolo col come di Rico Masi, a
proposito di un impresario, dissi:
― Deve essere abbastanza vecchio.
E lui mi corresse:
― È da tanto sulla breccia, ma ha cominciato presto. È un
errore che fanno moltissimi. Lo facevano anche con la moglie
di Romeo D’Amico, la Jole Pupetta. Credevano che avesse una
certa età perché lavorava da molto tempo, ma era ancora giovane. Solo aveva cominciato prestissimo a calcare le scene.
― E ancor giovane le ha lasciate.
Il grande Ghigo si fece serio, poggiò le mani aperte sulle ginocchia e sospirò:
― Già!
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24. CARLO JANTAFFI
Alto, imponente, intabarrato nel suo lungo cappotto nero,
con la sciarpa al collo ed in testa il cappello, tipo Borsalino, nero, Carlo Jantaffi si aggirava in galleria camminando a passi
molto lenti e osservando tutti e tutto con fare quasi sornione.
Tutti lo salutavano con deferenza. E lui rispondeva con una
cordialità ed una bonomia che contrastavano con l’aspetto austero e serio della persona. Era stato un comico popolarissimo
in avanspettacolo. In gioventù era molto magro e la sua magrezza, unita all’altezza e alla lunghezza delle braccia, che in
scena agitava e roteava con sapiente maestria comica, lo caratterizzavano fisicamente, mentre una abile recitazione gli consentiva di interpretare i vari personaggi secondo il suo stile, ma con
grande rispetto dell’autore del testo, che spesse volte era lui
stesso. Io, come tutti i giovani ed i giovanissimi attori, avevo
per lui una grande stima e moltissimo rispetto. Al mio timido
saluto rispondeva con un cenno del capo ed un accenno di sorriso. Mi sarebbe piaciuto molto essere suo amico ed ascoltare da
lui storie di un teatro che ormai non esisteva più e del quale non
sarebbero rimaste tracce se non nei ricordi dei vecchi che lo avevano conosciuto. Un mondo di ricordi destinato quindi a sparire nel giro di qualche lustro. Un mondo che doveva aver affascinato generazioni di spettatori e che, anche se io allora lo ignoravo, aveva incantato ed ispirato, per la sua poetica sensibilità, anche grandi personaggi come Alberto Sordi, che più di
una volta in televisione avrebbe, in anni futuri, ricordato e descritto Carlo Jantaffi, Gustavo Cacini ed altri, e che all’avanspettacolo avrebbe dedicato un film, Polvere di stelle, che ne
evidenzia miserie economiche e nobiltà di intenti.
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Sentivo che Carlo Jantaffi aveva dentro tutta un’epoca, e
sentivo anche che aveva la voglia di raccontarla, di immortalarla in qualche modo, e mi sarebbe piaciuto poterlo aiutare. Per
non far morire un tempo irripetibile che personaggi come lui,
come Cacini, come Campochiaro, come Bixio Ribechi custodivano nello scrigno dei ricordi, gelosamente, ma con la voglia di
raccontarlo. E, per una strana predisposizione del destino, al
quale sono e sarò sempre grato, in tempi successivi, io sono stato fortunato fruitore, almeno in parte, dei racconti di tali personaggi che mi hanno onorato delle loro confidenze e accordato la
loro fiducia.
Carlo Jantaffi me lo trovai improvvisamente di fronte nella
sala prove di Terziano Petri in via Leccosa 23 il giorno della
riunione della Compagnia organizzata da Valerio Valeri. Fui
piacevolmente sorpreso e, dal modo come mi accolse, mi parve
che lo fosse anche lui. Ci trovammo subito in sintonia. Mi prese
a benvolere e mi promosse quasi a suo aiutante. Pensai che lo
avesse fatto perché ero quello che più degli altri avrebbe eseguito i suoi ordini, perché il più giovane del gruppo. Certo avevo
molto da imparare da lui, ma se avessi avuto qualche obiezione
da fare, la avrei fatta, educatamente, ma la avrei fatta. Invece ci
trovammo in perfetta sintonia. In tutto. E sempre. Tranne quando arrivarono, stampate, le locandine. A me non stette bene come avevano messo il mio nome e protestai anche in modo violento, minacciando di andarmene. Jantaffi quel giorno non
c’era, ma all’indomani mi chiamò in disparte e mi disse:
― Fai conto che io non ho saputo niente di quello che hai
combinato ieri. Lo sai che per poco non hai mandato all’aria la
compagnia? Avevi ragione; del resto io avevo dato disposizioni per mettere i nomi come giustamente hai fatto notare tu, ma
dovevi avvisare me, senza far baccano. Io so ancora come fare
per sistemare le cose. L’anella so’ caduti ma le dita so’ rimaste…
Certo l’avevo combinata grossa, rischiare di mandare in malora la compagnia, con le difficoltà che ci sono sempre state in
teatro non era una cosa intelligente. Ma del resto era evidentemente destino che quella compagnia non andasse in porto. Si
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sciolse, infatti, dopo poche serate a Roma e dintorni. Fortunatamente non si sciolse il rapporto con Jantaffi. Poco tempo dopo
debuttai con Alberto Giglio in un fine settimana come comico
assoluto al cinema teatro Oriente e i testi erano di Carlo Jantaffi.
E poi con altri testi di Jantaffi recitammo in vari teatri del Lazio. E con Franco Valle, mentre preparavamo i nostri numeri,
fummo qualche volta ospiti a casa sua per avere consigli, per
ascoltare racconti di anni passati, per i quali ci diede lo spunto
la televisione nella quale apparve una sera Ettore Petrolini, in
un servizio giornalistico.
― Non avresti potuto essere più grande di quanto sei
stato!
Disse il commendator Jantaffi rivolgendosi spontaneamente
al personaggio sullo schermo, come se fosse presente di persona, tanto che io mi guardai intorno per vedere a chi avesse parlato. E lui, accorgendosi del mio disagio:
― Ettore Petrolini, lo vedi in televisione? Grande, grande,
grande…
Quanto grande fosse la sua ammirazione per l’autore di Gastone e dei Salamini, del resto era testimoniato dal nome che
aveva dato al figlio: Ettore. E, come avevo previsto, da allora
più volte narrò della sua epoca d’oro, ma non come di una cosa
importante, solo irripetibile.
― Non ci sarà mai e in nessun luogo un altro Ettore Petrolini.
Purtroppo il tempo della sua vita terrena era ormai al termine
e ad un ritorno a Roma da una tournée seppi che era morto. Andai a trovare il figlio Ettore e la figlia Maria per vedere se riuscivo a rintracciare una sua vecchia scenetta. La casa dei Jantaffi non era più quella a ridosso di piazza San Silvestro, il Carlo
Jantaffi che la abitava era il piccolo figlio di Ettore, la scenetta
non riuscimmo a trovarla.
Carlo Jantaffi, il comico, il commendatore, il custode dei ricordi di un’epoca lontana, non c’era più. Ma chi lo ha conosciuto lo ricorderà sempre, io, insieme a lui, ricorderò il suo mondo,
così come mi è arrivato attraverso i suoi racconti.
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25. GUSTAVO CACINI
Oggi a nessuno verrebbe in mente di dire a qualcuno che si
crede importante:
― Ma chi sei? Cacini?!
Eppure fino agli anni sessanta e oltre, la frase era ancora abbastanza usuale e i romani, e quanti a Roma vivevano, la conoscevano tutti. Anche se non tutti conoscevano Gustavo Cacini,
comico romano, famosissimo, un tempo, tra i frequentatori dei
teatri di varietà, ma noto solo per quella frase agli altri, che però
sapevano che era un comico.
Quando ho cominciato a frequentare l’ambiente del varietà, lui già da tempo si era ritirato dalle scene, ma era ancora
presente nei discorsi degli addetti ai lavori e, di persona, era
presente ogni mattina in via dei Mille, nella zona della stazione Termini, dove si incontravano i vari gestori di cinema e
cineteatri di Roma e dintorni, perché in quella via, o nelle
immediate vicinanze, c’erano le case che noleggiavano i
films. E poiché parecchi capocomici o comici o attori si recavano lì per incontrare i gestori e trattare con loro qualche
serata di varietà, Cacini in questo modo si teneva in contatto
con quello che per anni era stato il suo mondo. Non l’ho mai
visto in galleria.
Me lo presentò Alvaro Dini, il comico Farfalla, come dovette spiegare a Cacini per farsi riconoscere.
― Farfalla! E come no? Come stai?
Accennò ad alzarsi dal tavolo del bar dove ogni mattina si
sedeva, ma Alvaro lo fermò.
― Sta’ comodo.
Poi, rivolto verso di me.
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― Lui è Gustavo Cacini, Quello di “ma chi sei? Cacini?!” e
anche quello di “faccetta nera”… Lui prende i diritti d’autore
per “faccetta nera”…
Il vecchio comico, magro, con un occhio leggermente strabico, elegante nel suo abito scuro, sorrise:
― L’hai saputo, eh?
Prendemmo insieme un caffè e ci trattenemmo con lui per
qualche minuto, poi Alvaro vide e salutò il gestore di un cineteatro, questi gli fece cenno che desiderava parlargli, e la nostra
conversazione con Cacini finì là.
Io in via dei Mille andavo molto raramente, ma quando ci
andavo passavo sempre dal bar dove lui sedeva; e lui mi accoglieva di buon grado, forse perché aveva voglia di parlare ed io
ero uno che sapeva ascoltare. Ed ero giovane. Le persone anziane, i “vecchi”, ricordano e amano parlare. Soprattutto con i giovani. È il loro modo di sentirsi vivi, di far rivivere nei ricordi se
stessi e gli anni del loro vigore e della loro “età più bella”, trasferendoli idealmente in eredità a chi quell’età la vive adesso.
Quando sono abili affabulatori c’è nei loro discorsi tanta storia
vera quanta non è dato di trovare in nessun testo. E Cacini era
un simpatico narratore e una persona prodiga di consigli:
― La nostra generazione ha fatto ridere e piangere come ha
voluto, modestamente… Tu sei un bravo ragazzo, anche bravo
sulla scena, me lo ha detto più di uno… Non montarti mai la testa… E poi…
E giù consigli, ricordi, storie…
Ma sapeva anche ascoltare anche se, a causa dell’età, non
sentiva sempre bene, e proprio da questo suo difetto ho capito
che ascoltava davvero, non faceva finta, infatti, quando non capiva, ti chiedeva di ripetere. E quando riprendeva a parlare,
commentava, giudicava e ti dava consigli su ciò che aveva sentito. Ovvio che a parlare era quasi sempre lui. Ed io ascoltavo la
favola del teatro d’un tempo…
Seppi così che il detto “Ma chi sei? Cacini?!” era il titolo di
una sua rivista, e che per “Faccetta nera” prendeva i diritti
d’autore perché la famosa marcia, cara al popolo fascista, era il
plagio di una sua canzone. Lui aveva fatto causa e l’aveva vinta.
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Non per nulla era Cacini…
Tra i consigli che dava ce n’era uno particolarmente arguto.
― Se andate a trattare una piazza, e ve la vogliono dare a
percentuale, guardate se il teatro è grande: se l’hanno costruito
grande, vuol dire che la gente ci va, se no lo costruivano piccolo, no?
Il ragionamento non faceva una grinza, così io, molti anni
dopo, alla domanda di Umberto Moriconi se ci convenisse o
meno andare a recitare nel teatro al bivio di Ravi, vedendo che
il locale era grande, anche se oltre ad un bar, un distributore di
benzina ed un albergo non c’era altro segno di vita, memore dei
consigli di Cacini, dissi:
― È un bel locale, grande: vuol dire che la gente ci viene, se
no lo costruivano piccolo.
Umberto si convinse e la settimana successiva debuttammo
davanti ad un pubblico di una trentina di spettatori sperduti in
una immensa sala. Quasi un forno completo, che ci costrinse nei
giorni successivi a riparare nella più popolosa Gavorrano.
Personaggi come Cacini oggi non se ne trovano più, ma non
c’è più nemmeno quel tipo di teatro e neppure quell’aura di poesia povera di cui quel mondo era permeato.
A più riprese ho letto che a Cacini vogliono intitolare una
strada. Io non so se sia stato un grandissimo comico, né se abbia
portato spettacoli di alta cultura. Certamente è stato un personaggio, certamente ha divertito la gente, certamente quelli che,
come me, lo hanno conosciuto lo ricordano con simpatia. Allora
perché non dedicargliela questa strada a “Gustavo Cacini, Maschera Romana”?
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26. BIXIO RIBECHI
Di lui avevo sentito parlare un po’ da tutti i romani che conoscevo. Ne parlavano come si parla di un personaggio particolare, ma nessuno me lo aveva mai definito. La sola cosa che avevo capito era che scriveva sul giornale “Il Rugantino” pezzi
di colore su fatti e personaggi romani e romaneschi. Ma da come ne parlavano io, che cercavo di capire le cose senza avere il
coraggio puro e semplice di chiederle, avevo dedotto che era
qualcosa di più di un giornalista o di un cronista. Alvaro Dini
me ne aveva parlato qualche volta, descrivendolo come grande
artista, “quello che ha lanciato Claudio Villa”. Altri ne parlavano con deferenza, ma come se parlassero di uno del quale per
forza tutti dovevano sapere chi fosse. Io, pertanto, di Bixio Ribechi non sapevo che il nome. Poi un giorno…
Ero andato a fare uno spettacolo con Lelio Sordi in un paesino vicino Roma e, per una serie di piccoli contrattempi, rientrammo con due giorni di ritardo. Lelletto era preoccupatissimo
perché aveva assicurato a Bixio Ribechi, dal quale aveva preso
le scene per lo spettacolo, che gliele avrebbe portate il lunedì
successivo… invece era già mercoledì. Che scusa avrebbe potuto trovargli?
― Gli dici la verità. ― dissi io.
E lui:
― Ma non ci crede! Sai quanti prendono le scene per un
giorno o due e poi se le tengono una settimana? Trovano una
scusa…
― Ma questa volta non è una scusa.
― E tu vaglielo a dire… Anzi, che idea, fa’ ‘na cosa, portagliele tu. A te non ti può dire niente. Poi ci parlo io.
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Così, una mattina di tanti anni fa, io, con una valigia con
dentro un sipario e qualche tenda, mi recai a casa di Bixio
Ribechi.
Via Bixio, 1. Il nome della via lo ricordo benissimo, sul numero civico non ci giurerei, potrei confonderlo con quello
dell’interno, prima porta a sinistra entrando nell’androne. “Che
combinazione” pensai “Bixio Ribechi, via Bixio…”.
Suonai e mi venne ad aprire una signora dolcissima, con i
capelli bianchi ed un sereno sorriso vagamente indagatore.
Spiegai che mi mandava Lelio Sordi e che avevo portato le scene dello spettacolo della domenica precedente.
Una voce dall’interno chiese:
― Chi è?
― Un ragazzo che ha portato le scene di Lelio Sordi…
― Ah, Lelletto le ha mandate?! Bene, bene. Fallo entrare.
Il tono non lasciava trapelare l’umore. Come quando un regista stupido chiede ad un attore di ripetere una frase che lui gli
suggerisce senza enfasi. Entrai quindi senza sapere in che modo
mi avrebbe accolto.
Prima stanza a sinistra, porta aperta. Un signore di una certa età seduto ad una scrivania poggiata al muro sulla sinistra,
in fondo una grande finestra e sul tavolo una serie di libri, di
copioni, di giornali, di fogli, alcune riviste di enigmistica. Il
Re ed il suo Regno. Finalmente vedevo il grande Bixio Ribechi, Bizio Ribecchi, come dicevano tutti. Mi diede subito il
“tu”, d’altronde non avevo ancora vent’anni, forse ne dimostravo anche meno, e artisticamente ancora proprio non potevo
esistere. Ma a parte il “tu”, che seppi poi essere un suo modo
affettuoso di accogliere le persone a lui simpatiche, ma credo
che a lui le persone fossero simpatiche tutte, così come simpatico a tutti risultava lui, mi mise perfettamente a mio agio: si
informò gentilmente su chi ero, su quello che facevo, mi parlò
di quello che scriveva, mi disse cose che risultarono poi sempre esatte e che mi furono di grande aiuto nella vita e nell’arte.
Soprattutto nell’arte dello scrivere, cosa alla quale non avevo
mai pensato, anche se avevo già scritto, solo per diletto, qualche poesia.
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Mi parlò di Claudio Villa, di come e perché da Claudio Pica
lo aveva fatto diventare Claudio Villa.
― Gli avevano fatto diventare la P una F, cancellando un
pezzetto di lettera su alcuni manifesti. Allora, tu capisci, decidemmo di cambiar nome. Era il tempo del film Pancho Villa e
così pensai a quel nome, che unito alla sua bravura, gli ha portato fortuna.
Io lo ascoltavo incantato, ma avevo paura di restare troppo a
lungo e di disturbare. Lui chiamò anche la moglie, la dolcissima
signora Giovanna, e la rese in poche parole edotta di quanto avevamo detto, spiegando a lei chi ero e che cosa avrei potuto
fare, meglio di come avrei potuto spiegarglielo io stesso. La signora non fu da meno del marito. Entrambi erano persone aperte e sincere e parlammo del più e di meno. Poi al momento dei
saluti mi disse:
― Vieni a trovarmi qualche volta.
Fosse stato per me, sarei andato lì ogni giorno, ma ci andai
solo poche volte, tutte indimenticabili, sempre accolto festosamente. La signora Giovanna e lui mi volevano bene ed io li
ammiravo. Lui come artista e Maestro autentico, entrambi come
coppia e come persone. E quando dico Maestro, lo dico nel vero
senso della parola. Maestri miei io considero tutte le persone
dalle quali ho preso qualcosa. Lui qualcosa me la ha proprio data. Senza salire in cattedra.
― Vedi, ho le parole crociate, ma non per copiare le barzellette, come fanno tanti, ma per imparare. Anche per prendere
spunti, perché no? Nella vita bisogna imparare da tutti e da tutto, ma poi scrivere in proprio. Portare le proprie idee, il proprio
stile. Ed essere onesti. Il tuo giudice deve sempre essere la tua
coscienza.
Io, timidamente, gli confidavo i miei sogni, lui mi illuminava
con la sua saggezza. Devo dire che ammirandolo ho cominciato a
pensare di scrivere; forse è stato proprio lui a suggerirmelo quando mi fece capire che recitare è una parte esaltante della vita di
un artista, ma anche scrivere, se si sa scrivere, dà soddisfazioni.
A lui certo aveva dato popolarità e certo era soddisfatto
dell’affetto che tutti gli tributavano. E gli tributano ancora.
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Alcuni anni fa, Anita Pizic, attrice, moglie del compianto attore Mario Bartoli, a me ed a Luca Sportelli che, parlando di
lontani ricordi, avevamo nominato Bixio Ribechi, disse:
― Bixio Ribechi, che brava persona! È stato compare al mio
matrimonio. L’avete conosciuto, eh? E chi non l’ha conosciuto?!
E chi non gli ha voluto bene… a lui e alla signora Giovanna!
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27. ZURZIN
Eravamo con la compagnia in provincia di Rovigo, quando
ci invitarono per una serata a Ferrara. Uno spettacolo di arte varia. Umberto Moriconi sarebbe stato il presentatore, le sorelle
Zavaglia avrebbero presentato una carrellata sulla danza negli
ultimi cinquanta anni, un complessino ed alcuni cantanti locali
avrebbero garantito la parte musicale e io e Mila, con Fioretta e
lo stesso Umberto, avremmo sostenuto la parte comica con uno
Sketch e due “Black–outs” (passaggi comici così detti perché al
termine di ognuno si spegneva la luce, possibilmente su un accordo musicale, per riaccendersi qualche secondo dopo sul numero successivo). E ci sarebbe stata anche la partecipazione di
Zurzin, famosissimo comico ferrarese.
Devo dire che il fatto che avessero chiamato un altro comico
lasciava me e Mila un po’ perplessi. Ma tant’era! Noi avremmo
fatto il nostro solito spettacolo e senz’altro la nostra bella figura. Ma Zurzin?
Di lui non sapevamo nulla, né come fosse fisicamente, né
che tipo di persona fosse, né che tipo di comico fosse. Certo per
essere così popolare non era certo una nullità.
La cosa che mi fece quasi sorridere fu quando ci presentarono. Lui, il grande Zurzin, il comico che faceva letteralmente
sbudellare dal ridere, era più preoccupato di noi per come sarebbe andato lo spettacolo. Era nelle nostre stesse condizioni:
non sapeva nulla di noi se non che eravamo bravi. Ma come ci
saremmo trovati nello stesso spettacolo, il pubblico avrebbe
gradito due comici?
Dubbi, interrogativi e preoccupazioni che svanirono subito
dopo la prima stretta di mano canonica delle presentazioni. Ci
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trovammo in perfetta sintonia. Io ero un giovanissimo comico
girovago, lui un grandissimo comico dialettale, affermato nella
sua zona, con alle spalle una lunga e consolidata fama.
Non aveva nulla del divo, aveva tutto del comico. Le physique du rôle, innanzitutto. Piccoletto di statura, il volto un po’
lunare, quasi macarieggiante, ma personalissimo, una simpatia
innata, la battuta spontanea, o anche studiata, messa sempre al
punto giusto, la mimica mobilissima e un po’ clownesca, senza
bisogno di trucco. E poi quel dialetto ferrarese che in lui era
piacevole, simpatico, arguto… unico.
Ci accordammo su ciò che ognuno di noi avrebbe fatto per
non incorrere in qualche ripetizione, ed in poco tempo lo spettacolo fu preparato. E fu un successo. Mai uno spettatore avrebbe
pensato che si trattava di uno spettacolo improvvisato. Filò tutto
liscio. Io osservai attentamente Zurzin, per imparare. Talvolta la
moglie da dietro le quinte, preoccupata che ricordasse tutto, gli
suggeriva l’inizio della storiella o della barzelletta o del breve
monologo che lui doveva recitare. E lui, fatta una piccola pausa,
con un gesto o un giro su se stesso, ripartiva, con espressione
ora di meraviglia, ora di paura, ora di fermezza, a seconda di
quello che doveva dire. Io e Mila facemmo la nostra bella figura
e lui fu felice della cosa. Ovviamente il finale spettava a lui, per
fama e per anzianità. E a me la cosa parve giusta. Ma lui volle
che partecipassi anch’io al finale; mi chiamò in scena e disse:
― Diciamo una barzelletta per uno…
― Eh, no… io non so dire le barzellette: ogni volta che ne
dico una ridono tutti!
La mimica mia e la contromimica eccezionale sua fecero sì
che alla battuta il pubblico scoppiasse in un applauso che superò
la stessa risata. Appena si placò l’applauso continuai:
― Eppoi, una volta che sono qui, non voglio certo perdermi
il numero di un grande come Zurzin…
E scappai, lasciandolo solo in scena. Lui, facendo finta di
corrermi dietro per darmi un pestone, mentre il pubblico ridendo applaudiva, disse:
― Grazie!
Lo disse al pubblico, ma si voltò verso di me.
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― Che simpatico, Nicolino! ―
Fece una breve pausa condita da un continuo applauso, poi
cominciò il suo numero. E gli applausi, e le risate, e le richieste
di bis lo sommersero.
Avrebbe voluto che mi fermassi a Ferrara. Ma io non parlavo il ferrarese. Disse che avremmo trovato il modo di farmi entrare nell’ingranaggio della comicità del luogo, mi parlò della
commedia I punt i magna i ratt o i gatt, o qualcosa di simile.
Era il cavallo di battaglia, lì a Ferrara.
Ma gli impegni mi portarono subito lontano. Qualche giorno
dopo partimmo per le Marche, riprendendo il nostro viaggio di
girovaghi. Con me portai, indelebile, il ricordo di Zurzin.
Sono passati tanti anni. In un negozio un signore, non so
come e perché, dice di essere di Ferrara ed io:
― Ferrara, che bei ricordi. C’era Zurzin… era un comico
ferrarese, bravissimo…
E lui:
― I punt i magna i ratt (o i gatt, il titolo non l’ho capito bene neanche questa volta, ma non importa). Che forza! Non ho
mai riso tanto in vita mia!
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28. SALVATORE CAMPOCHIARO
Non mancava mai in galleria Colonna, Salvatore Campochiaro. Se mancava era perché stava lavorando in qualche
film. Lui era uno dei più caratteristici “vecchietti” del cinema
italiano e pertanto spesso era chiamato ad interpretare personaggi d’una certa età. Non veniva quindi in galleria per cercare una scrittura, ma per sentirsi parte di quel mondo che per
moltissimo tempo della sua vita era stato il suo mondo: il Teatro. Il suo era stato un teatro per lo più in vernacolo, ma nel
vernacolo di una regione con una tradizione teatrale di primissimo ordine: la Sicilia. Ed io, che, forse per le mie origini meridionali, ero amico di molti attori siciliani e napoletani e che
spesso interpretavo personaggi di quelle regioni, quasi automaticamente, malgrado la differenza di età, diventai suo amico. Lui era il commendator Campochiaro, ma non per quel titolo, ma per la stima che gli portavo come uomo, e per rispetto
del suo passato e del suo presente di artista, gli davo il lei. Lui,
quasi paternamente, mi dava il tu. D’altronde la prima volta
che ci siamo visti, lui aspettava un suo giovane amico perché
gli andasse a comprare dei “marrons glacés”, ma siccome questi non veniva, mi offrii di andarli a comprare io stesso. In
fondo il bar era in galleria. Ma lui sorridendo, dopo aver rifiutato in un primo momento per cortesia il mio aiuto, accettò e
mi spiegò:
― Eh, no, figlio mio, qua ci andavo da solo, ci siamo davanti! Mi devi andare alla pasticceria (e mi indicò quale fosse e dove si trovasse). Lì gli dici che sono per il commendator Campochiaro, sanno quali compro e così siamo sicuri che ci danno
quelli che voglio io. Mi raccomando a te…
103
La quantità di marrons glacés da comprare era talmente piccola che mi meravigliai che per tanto poco mi facesse tante raccomandazioni. D’altro canto ammirai il suo rispetto anche per
una così esigua spesa.
Il rispetto!
Non mi ero sbagliato. Salvatore Campochiaro aveva rispetto
per tutto e per tutti e lo pretendeva. Aveva qualcosa di nobile
nel portamento, nel sorriso, nel suo modo di salutare. Ed era
spontaneo. Raramente parlava della sua vita privata. Ad una
cert’ora passava in galleria sua moglie e insieme, dopo averci
salutato, se ne andavano. Felici, uno a fianco dell’altra.
Una volta, il bravissimo Salvatore Veneziano, virtuoso suonatore d’una minuscola armonica a bocca, con la quale era capace di fare miracoli sonori, scambiando una signora che entrava in galleria per la moglie di Campochiaro, gli disse:
― Arriva la signora.
E Campochiaro:
― Quella? Se è quella faccio subito il divorzio.
Poco dopo, ridendo, raccontò l’episodio alla moglie, la quale
gli fece notare che la cosa non sarebbe stata possibile, perché il
divorzio in Italia ancora non c’era. E lui:
― E nemmeno poteva essere possibile che quella era mia
moglie.
Ogni tanto parlava dei suoi trascorsi teatrali, qualche volta,
quando eravamo soli, mi spiegava alcune scenette che aveva recitato quando aveva compagnia: Attacca i Sauri o I ciciri ‘ntronati o altre, spesso basate su battute che in siciliano si prestavano a doppia interpretazione e mi diceva:
― Peccato che in lingua non hanno lo stesso effetto… Ma se
tu li adattassi… sono tutte scenette collaudate. Per non parlare
dei lavori: Aria del continente, L’eredità dello zio canonico,
Liolà … Ma ci vorrebbe una compagnia siciliana. L’anima degli
attori siciliani…
Una sera mi incontrò nei pressi del teatro Quirino con mia
madre. Mi chiamò e con un sorriso di felicità mi chiese conferma della domanda che mi fece:
― Tua madre?!
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E, avutane la conferma:
― Piacere, signora, suo figlio è un ragazzo d’oro…
Parlarono a lungo e quando ci salutammo mi raccomandò:
― Tienitela cara tua madre, figlio!
Da allora ogni volta mi domandò di lei e le mandò i saluti,
che mia madre ricambiava con la stessa stima e sincerità.
Qualche anno dopo, allorché morì mia madre, lui ci restò
malissimo. Quando glielo dissi ebbe quasi un mancamento, come se un turbine di idee o di cattivi pensieri lo avesse assalito,
ma si riprese subito.
― Non ne parliamo, non ne parliamo, dobbiamo sempre andare avanti. Pensieri così ammazzano.
Ma, malgrado questa sua decisione, qualche giorno dopo
tornò sull’argomento:
― Ti sarò sembrato strano, ma io ho dovuto fare così per
non morire in seguito a tutte le disgrazie che mi sono capitate,
alle morti di genitori e di figli, un figlio che muore, che ti dico?
Non parliamone, non pensiamoci. La vita continua.
Non abbiamo più parlato di morti.
Anni dopo, non si andava più in galleria, le scritture si facevano per telefono, alcuni attori si incontravano a piazza Indipendenza e per il commendator Campochiaro, che nel frattempo
aveva cambiato casa, il bar aveva sostituito la galleria. Si sedeva ad un tavolino sotto i portici e sorbiva il suo caffè, tirando su
ogni tanto una presa di tabacco da naso. Scambiava quattro
chiacchiere con gli attori, quasi tutti siciliani che frequentavano
quel bar: Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Ignazio Balsamo,
Juzzo Muscuso, Gino Buzzanca, Enzo Andronico… ed io. Io ci
andavo soprattutto per lui: era invecchiato, ma manteneva intatta la sua verve. Poi cominciò a diradare le sue venute, quindi ci
perdemmo di vista.
Andando alla sede dell’E.N.P.A.L.S., una mattina lo incontrai. Felicissimi tutti e due di incontrarci dopo tanto tempo. Andavamo di fretta entrambi e, dopo gli affettuosi saluti e un rapido scambio di reciproche informazioni, ci lasciammo con un:
― Arrivederci a presto a piazza Indipendenza.
Non ci siamo più visti.
105
29. PEPPINO ROBERTI
Aveva quasi ottantanni, e veniva in galleria ogni giorno. Era
stato attore di operette, di prosa e di varietà, e tuttora, quando
qualcuno lo chiamava per una serata o per un breve corso di recite, si faceva trovare pronto. Credo che vivesse di una modesta
pensione, ma quando rispondeva “presente” all’appello di questo o di quell’impresario, non lo faceva per soldi, ma soprattutto
per sentirsi ancora attivo. Peppino Roberti godeva della stima di
tutti. Era sempre ben rasato, ben vestito, naturalmente elegante,
educato. Colto. Uno dei pochi attori di varietà che aveva studiato recitazione e musica, ed aveva una discreta cultura generale.
Lo conoscevo di vista, e solo poche volte avevo avuto modo di
scambiare con lui qualche parola. Poi per un fine settimana in
un cinema teatro romano fummo scritturati entrambi insieme ad
Alberto Giglio, Anna De Giorgi e Ety Silva, da Lelio Sordi che
per quelle due serate aveva in programma come sketch centrale
Il pittore d’un morto vivo. Per me era solo un anziano attore in
pensione, e, benché sapessi che di tanto in tanto recitava, non lo
avevo mai immaginato in scena. Fu bravissimo; pur sostenendo
un ruolo brioso e non avendo la necessaria agilità che il ruolo
richiedeva, riuscì ad imprimere al personaggio la vivacità necessaria, caratterizzandolo alla perfezione, da attore consumato.
Da allora diventammo amici. Tanto che, quando un comune
amico si offrì di sovvenzionarci una compagnia di varietà, trovammo subito un accordo. Io avrei fatto solo il comico e lui si
sarebbe interessato dell’organizzazione. Aveva un modo di intendere lo spettacolo onesto e signorile e questo era una garanzia per tutti. Trovò facilmente degli ottimi elementi e si adoperò
per avere un valido copione “perché”, diceva, “il primattore del106
la compagnia è il copione”. Aveva perfettamente ragione. Riuscì a metter su un gruppo di prim’ordine; con me sarebbero stati
in scena: Gemma Lari, Masina Rossi, Enzo Filippi, Norma Del
Plata, Aldo Derby, un balletto… ecc.
Non so con quanti avesse già fatto il contratto, certo aveva
trovato un buon copione, con l’aiuto di Franco Castiglione: Parishow di V.L., diventato poi, mi dissero per disposizione
S.I.A.E., Parishow 1961. Sotto la sigla V.L. si celava Luigi Visconti, il popolare comico noto col nome di Fanfulla.
Ricordo la prima volta che andammo a casa di Fanfulla. Roberti mi disse:
― Non ci possiamo presentare a mani vuote.
Comprò una bottiglia di spumante e una scatola di dolci per
la signora “Diavolina”, madre di Fanfulla. Con loro brindammo
insieme ad Enzo Filippi e all’amministratore Da Vinci. Indubbiamente era un gruppo di un certo livello, formato da artisti di
“Teatrale” più che di avanspettacolo. Roberti era contento ed
eccitato per questa sua avventura da impresario alla bella età di
ottantanni. Ma…
Era destino che questa, come tante compagnie, restasse solo
sulla carta. Tutto ebbe inizio per una battuta infelice riportata
probabilmente male. Qualcuno aveva sostenuto che la compagnia non dava garanzie e che era senza nomi importanti. Le
primedonne si sentirono giustamente offese, io no, perché ero
un debuttante. Piuttosto che incontrarci e chiarire ogni cosa,
come sarebbe stato giusto e come Roberti avrebbe voluto, ognuno prese cappello ed in quelle condizioni Roberti decise che
sarebbe stato “meglio fermarsi da mezza via che non da tutta”.
Io fui del suo stesso parere, consigliato da Franco Valle, che già
era d’accordo con Rosaspina per fare una compagnia che avrebbe debuttato in Umbria; accettai la scrittura di quella compagnia, nella quale debuttai dopo una decina di giorni.
Roberti non volle entrare a farne parte. Voleva fare ormai
solo compagnie di primordine.
― Tu non puoi fare diversamente. Sei giovane e devi lavorare. Ma cerca di scegliere compagnie importanti. Ricordati che è
sempre meglio affogare in un mare grande.
107
Da quella compagnia, nella quale era presente anche Umberto Moriconi, passai direttamente alla “Artisti Associati” da lui
diretta e debuttai in prosa. In una compagnia di teatranti girovaghi, dove mi trovai benissimo.
Peppino Roberti continuai ad incontrarlo in galleria ogni
volta che ritornavo a Roma. Sempre gentile, sempre educato,
sempre ben vestito, ben rasato, elegante. Sorridente, ma io da
allora ho visto nei suoi occhi il rimpianto per quella compagnia
che non era andata in porto. Ma non me ne parlò mai. Portò
quella delusione con la dignità con la quale aveva affrontato
ogni giorno della sua vita, nella buona e nella cattiva sorte.
Qualche anno dopo, Franco Valle, in uno dei suoi tanti rientri nella compagnia di Moriconi, mi portò la tristissima notizia
della sua morte.
Fu per me un grande dolore: avevo perso un amico ed il
mondo aveva perso un galantuomo.
108
30. ENZO ENZI
I manifesti che annunciavano il nostro programma di recite a
Montieri dal martedì alla domenica, erano esposti in ogni pubblico esercizio del paese, nonché sui muri della via principale,
in piazza e, ovviamente, all’ingresso del locale nel quale gli
spettacoli si sarebbero tenuti. D’altronde questa cosa avveniva
in qualsiasi paese o città dove la nostra compagnia avesse programmato un “regolare corso di recite”. Fu pertanto grande la
nostra meraviglia quando, verso le diciassette, un signore un po’
accaldato, vestito con un completo blu, armato di chitarra e con
una piccola valigia in mano, fece irruzione nella sala dove stavamo completando il montaggio della scena per La Morte Civile, lo spettacolo programmato per quella sera insieme alla farsa
Deponga. Non era uno dei gestori, né aveva l’aria di essere uno
dei soliti curiosi che si trovano dovunque.
Il signore si fermò in fondo alla sala, guardò verso il palcoscenico, si asciugò il sudore e borbottò qualcosa come:
― Non ci voleva questo contrattempo!
In effetti appariva molto contrariato.
― Qui ci dovevo lavorare io, stasera.
Disse avvicinandosi a noi, tendendo la mano in segno di saluto, cercando di calmarsi e con sul volto l’espressione di uno
che chiedeva di stringere con noi quasi un patto di solidarietà.
Ma contro chi? I gestori del locale avevano fatto con noi un regolare contratto, quindi sia noi che loro eravamo in regola. Lui:
― No, non ho un contratto, ma io ogni volta che vado in un
posto trovo un locale o un teatro parrocchiale o un cinema e
presento il mio spettacolo.
― Da solo? Dov’è la sua Compagnia?
109
Alla domanda di Franco Valle lui rispose serissimo.
― Sono io, Enzo Enzi, la mia compagnia: recito un monologo, che un tempo era un dialogo che ho adattato io, quindi faccio dei numeri di prestigio e poi canto il mio repertorio accompagnandomi con la chitarra. Qui ci sono già stato un anno fa e ci
sono tornato stasera, non potevo mai immaginare che il teatro
era occupato e che c’era una compagnia completa. Con tanti posti, proprio qua dovevate venire…
― Ma come facevate a fare lo spettacolo? Il permesso alla
Siae, quando l’avete fatto non vi hanno detto che c’era un’altra
compagnia nel paese?
Mila Nistri, che quasi sempre dava a tutti il voi, cercava di
capire, di farsi spiegare, e anche di trovare una soluzione; ma
l’attore–prestigiatore–cantante, preso dalla disperazione e dal
bisogno di rimediare almeno i soldi per una modesta cena, bofonchiava qualche parola, poi usciva per cercare di vedere qualcuno dei gestori, ma in realtà solo per prendere una boccata
d’aria che gli snebbiasse un po’ la mente, quindi rientrava più
disperato di prima, ma sempre con cipiglio battagliero. Una cosa così non ci era mai capitata. Marino Nevastri e Maria Guarnieri, anziani e con alle spalle tutta una vita spesa dall’infanzia
alla vecchiaia lavorando nei teatri, dai più grandi ai più piccoli,
si guardavano esterrefatti e increduli. Io e Fioretta, i più giovani
del gruppo, stavamo un po’ sul chi vive, sperando che si trovasse una soluzione. Umberto Moriconi, che pure nelle scuole
spesso aveva fatto spettacoli da solo presentando il Giuda, col
semplice aiuto di un registratore, non riusciva a spiegarsi come
quell’uomo, da solo, senza scene, senza permessi, potesse girare
il mondo facendo spettacoli. Mila, benché più giovane di Marino e Maria, aveva anche lei alle spalle tutta una vita spesa nei
teatri ed era esterrefatta; e persino Franco Valle, che era abituato a sbrogliare ogni situazione, a trovare una soluzione o un espediente per tutto, sembrava con la testa fra le nuvole. Ma tra i
comici, tra i girovaghi, tra quelli che Elda A. Vernara avrebbe
definito I Maleamati, c’è una solidarietà incredibile. Così, ad un
certo punto ci trovammo tutti ad andare al bar: e con noi il gestore del locale.
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In tutti regnava una calma semplicemente straordinaria. La
soluzione era nell’aria. Lo sentivamo tutti, ma nessuno sapeva
quale fosse.
Tornando in teatro Umberto, proprio prima di entrare, si
fermò e ci fermò, con al fianco Enzo Enzi, e così parlò:
― Faremo così: prima La Morte Civile, poi Enzo canterà le
sue canzoni, quindi la farsa a concludere.
― Ma per la paga?
Chiese Franco. Ed Enzo:
― L’importante che io possa cantare, poi farò un giro col
piattino.
Ma la soluzione non piacque a nessuno. Era una cosa da
guitti, era come chiedere l’elemosina, e noi eravamo attori. Così
decidemmo di fare, prima che lui cantasse, una lotteria, con in
palio una bottiglia di spumante, e cento biglietti da cento lire.
L’incasso sarebbe stato la paga dell’ospite dello spettacolo. E
come tale Umberto lo presentò, dopo aver annunziato la lotteria,
guardandosi bene di spiegare per quale scopo si facesse.
Lo spettacolo andò bene, Enzo Enzi aveva una bella voce e
non cantava male.
― Come attore sono più bravo.
Rise, rispondendo a chi, mi pare Marino, gli faceva i complimenti.
Una serena cena offerta dalla compagnia chiuse festosamente una giornata strana, ma positiva.
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31. LUCIANA LEHAR
Entrò nella mia vita una sera, sul finire degli anni sessanta.
Stavamo provando una improbabile commedia in un teatrino
alla Garbatella, con una compagnia alquanto numerosa, composta per lo più da studenti, figli di papà, aspiranti attori, che, quasi tutti, tranne forse qualche rara eccezione, fra qualche anno
sarebbero diventati ingegneri, ragionieri, impiegati di banca,
muratori o industriali, tutto, insomma, tranne che teatranti. Mi
aveva coinvolto col suo grande entusiasmo per tutto ciò che riguardava il Teatro, il mio amico Gianni Merlo. Da qualche
tempo si provava ma lo spettacolo era ben lontano dal prendere
forma. Si brancolava alla ricerca di una linea particolare da dare
all’interpretazione. Si cercava l’innovazione, ma non veniva
fuori nulla. Si discuteva se fare teatro d’avanguardia o teatro
classico, senza sapere bene (almeno io credo) cosa fosse l’uno o
l’altro. Fu così che una sera, Luciana Proietti, una ragazzona entusiasta, attiva, piena di buona volontà, al termine delle prove,
durate meno del solito disse:
― Ho due biglietti per il film Dove osano le Aquile, chi vuol
venire con me?
Nessuno rispose. Io, che mancavo al cinema da molto, e che
da tanto la sera, finito il lavoro, rientravo a casa, visto che nessuno aveva preso al volo l’occasione, decisi che era tempo che
mi scuotessi, che mi muovessi, ed accettai.
Fu una piacevole serata. Un bel film, con un ottimo cast di
attori, una pizza e tanto parlare. Ci trovammo in sintonia. Seppi
che era diplomata al conservatorio, che suonava il piano in alcune scuole di danza, e, soprattutto, che voleva fare l’attrice,
teatro innanzi tutto. Conosceva Gianni da tanto, avevano anche
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frequentato insieme un corso di recite, conosceva gli altri per lo
stesso motivo. Familiarizzammo. Uscimmo a cena insieme per
alcune sere, poi…
Come sempre accade quando le cose non vanno bene, in
compagnia, anziché provare si cominciò a discutere, a rimandare la prova alla sera successiva, quindi all’altra ancora. Del debutto quasi non si parlava più. Si parlava di riorganizzare il tutto. Io intuii che non si sarebbe più debuttato e, siccome avevo
bisogno di lavorare, una sera chiesi a Luciana se se la sentiva di
fare una piccola compagnia con me e con Gianni Merlo, della
cui adesione ero certo, per fare qualche spettacolo nell’attesa
che la compagnia della quale facevamo parte avesse programmato bene il da farsi. Dimostrandomi una incredibile fiducia mi
disse di sì. E “sì” lo disse, come prevedevo, anche Gianni.
La sera successiva, mentre si parlottava del più e del meno,
annunciai agli altri che io, Luciana e Gianni avremmo preparato, a partire dalla sera successiva, tre farse da fare quale spettacolo unico in qualche paese o in qualche teatrino, così, per non
continuare a stare fermi. Saremmo ritornati a far parte della
compagnia al momento opportuno per riprendere le prove. La
cosa fece sorridere tutti: come pensavamo di poter fare uno
spettacolo in tre? Gianni aveva lavorato molte volte con me e
sapeva che ce l’avremmo fatta. Luciana ne era convinta. La sera
andammo a prendere una pizza insieme e la ringraziai per la fiducia. Mi sorrise:
― Grazie a te della fiducia che mi dai tu!
Già, aveva ragione. Ma io sentivo che quella fiducia lei la
meritava. E non mi sbagliavo. Quattordici giorni dopo partimmo per le Marche, dove Umberto Moriconi aveva preparato un
piccolo Tour di recite per una Compagnia comica col sottoscritto, Luciana Lehar, (cognome d’arte scelto da Luciana al posto
di quello anagrafico, per la sua passione per l’operetta, e che
terrà per sempre), e Gio–Batta Merlo, nome anagrafico di Gianni, adottato da lui definitivamente anche in Arte a partire da
quello spettacolo. Come avevo previsto, lo spettacolo piacque a
Varano, a Candia, a Montacuto ed in altri centri, dove tornammo con un nuovo spettacolo, sempre di tre farse, con la par113
tecipazione straordinaria di Umberto Moriconi. Fu l’avvio di
una collaborazione felice. Gianni, pardon, Gio–Batta si occupava della parte amministrativa, io dei testi, Luciana un po’ di tutto. A Roma dove io collaboravo alle riviste “La stanza Letteraria” e “CID”, prendemmo per una stagione il teatrino alla Garbatella e, per completare i borderò recitammo per alcune sere
nella sala del circolo culturale del “CID”. Quindi io e Luciana,
che ormai era diventata un’ottima spalla, facemmo parecchie
feste di piazza e partecipammo come ospiti in vari spettacoli di
rivista. Devo dire che Luciana era attentissima, seria professionista, perfezionista come pochi, analizzava ogni nostra prestazione, cercava di scoprire se c’era qualcosa che non andava per
poterla correggere. Facevamo insieme quello che facevamo anni
prima con Franco Valle. Con Franco inventavamo nuove situazioni comiche divertendoci, con lei rivedevamo quello che già
facevamo per migliorarlo. Poi…
Come spesso accade ad un certo punto le nostre strade si divisero. Io mi dedicai di più alle lettere, lei al cinema e alla TV.
Fu la pianista in alcuni show televisivi con Gabriella Ferri, come Mazzabubù, prese parte ad alcune pellicole come attrice, tra
l’altro sostenne il ruolo di una ballerina–attrice in Ninì Tirabusciò e, soprattutto, il ruolo della sorella di Alberto Sordi nel film
Lo scopone scientifico. Poteva essere quello l’inizio di una carriera brillante. Aveva tanti progetti, e un futuro davanti, ma…
Si ammalò.
Una grigia mattina d’autunno, mentre mi sbarbavo, una telefonata di Mirella Santi, ballerina di tante Canzonissime, mia
amica ed amica del cuore di Luciana, mi comunicò che Luciana
era morta. Mi sentii gelare.
Al funerale, Gio–Batta Merlo e la cara Matilde Antonelli fecero di tutto per rincuorarmi. Sapevano che un pezzo del mio
cuore ed una parte importante della mia vita era in quella bara.
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32. GIO–BATTA MERLO
Mio grande amico, grande appassionato d’arte; attore, non
sempre convinto dei suoi mezzi, ma talmente entusiasta da impegnarsi ore ed ore per migliorare, per dire bene una battuta.
Studioso, lettore di classici e ammiratore incondizionato di ogni
grande autore, avrebbe voluto iscriversi e frequentare ogni
scuola d’Arte, di Teatro, di Letteratura.
Lo conobbi tanti anni fa, aveva fatto già parecchie esperienze teatrali, ma aveva la timidezza del neofita. Gli sembrava che
tutti fossero più bravi di lui, ma non era vero.
Gianni Merlo come attore era impagabile, faceva quello che
il regista gli chiedeva, ma cercava anche di capire il perché doveva dire la battuta in un modo piuttosto che in un altro. Certo,
non prendeva mai lui l’iniziativa, seguiva pedissequamente il
copione, ma non perché non fosse capace di inventare o di esprimersi secondo la propria personalità, ma per timidezza. Signore in ogni sua espressione, educato, incapace di contraddire,
per paura di offendere.
Venne nella compagnia di Umberto Moriconi e fu un ottimo
Checchi ne L’Avvocato Difensore, l’aiutava anche il fisico di
bel ragazzo, slanciato, simpatico. Sostenne con successo vari
ruoli, tanto che Umberto, avendo deciso di metter su Il Cardinale di Parker, gli diede da studiare la parte di Chigi. Gianni la
studiò, la imparò, fece le prove, ma alla vigilia fu preso dal panico:
― Non ce la faccio, ho troppa paura di sbagliare…
Furono vani tutti i tentativi di fargli cambiare idea. Era
all’altezza di farla, quella parte, ma il grande senso di responsabilità lo frenava. In meno di ventiquattro ore dovetti impararla
115
io quella parte. In qualche modo la avrei fatta. E qui venne fuori
la grandezza dell’amico. Mi lesse la parte, me la ripeté più volte
perché la sapeva bene a memoria e la diceva con la giusta intonazione, mi spronò in tutti i modi e, solo quando si accorse che
la sapevo a memoria, si rasserenò un poco. Le parti che dovevo
fare quella sera erano due: Chigi e Baglioni. Con un attore in
meno dovemmo adattare le parti tagliandole e ricucendole durante le prove del pomeriggio precedente la recita. Anche qui
Gianni mi fu vicinissimo e trascorse al mio fianco tutta la serata, preoccupato che tutto andasse bene. Così preoccupato non lo
avevo visto mai, neppure quando a dover andare in scena era
lui. Andò tutto bene, ed alla fine il più contento fu proprio lui,
che aveva seguito da dietro le quinte con trepidazione ogni mia
battuta. Ma fu quella la sola volta che si tirò indietro. Facemmo
anche compagnia insieme, ma ormai era diventato un attore che,
pur avendo ancora timore di sbagliare, recitava bene: aveva acquistato una certa padronanza scenica. Ad un certo punto cambiò il nome di Gianni con quello anagrafico di Gio–Batta ed iniziò una nuova carriera. Insieme abbiamo fatto molti spettacoli, poi si è dedicato agli spettacoli per scolaresche. E anche in
questi spettacoli siamo capitati parecchie volte insieme. È diventato un attore professionista nel senso vero della parola. Nel
senso che fare l’attore è diventato per lui una routine, perché
attore lo è sempre stato, anche quando ancora non ci credeva.
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33. ENZO MAGGIO
Dei tre figli maschi di don Mimì Maggio, popolare attore
napoletano degli inizi del secolo scorso, Enzo era il maggiore. I
fratelli Dante e Beniamino i più popolari, attivi in teatro e in cinema come caratteristi. Enzo anche, ma per una di quelle incomprensibili stranezze del mondo dello spettacolo, e anche
dell’umana esistenza in generale, non raggiunse mai la popolarità degli altri due, pur avendo trascorso una vita sulle tavole del
palcoscenico ed avendo preso parte a vari films facendo sempre
la sua brava figura. Nessuno lo ha mai gratificato per come meritava. Al massimo qualcuno riusciva a classificarlo come “il
fratello di Dante Maggio” o “il fratello di Beniamino Maggio” o
“il fratello di Beniamino e Dante Maggio” o “il fratello dei fratelli Maggio” (Sic!). Lui per la verità era una persona schiva,
modesta, non si dava arie, non si metteva in vista. Dotato di una
innata simpatia, piccolo di statura, con due folte sopracciglie su
occhi vivissimi ed espressivi, aveva una faccia interessante e
particolare che avrebbe dovuto spingere più di un autore a scrivere per lui e più di un regista ad affidargli ruoli non solo comici e caratteristici, ma anche drammatici. Una piccola contrazione della bocca, una semplice alzata di ciglia avrebbe cambiato
l’espressione di un viso per il resto immobile nella sua naturale
maschera, capace, con quel piccolo movimento, di esprimere e
di comunicare gioia o tristezza, di suscitare riso o pianto. Ma
nessuno ci ha mai pensato, almeno nel mondo dello spettacolo
che conta, perché nella sua pluriennale carriera di attore, le sue
brave soddisfazioni se le è certamente prese. Ma non saranno
certo state le cose più importanti per lui. Nato e cresciuto sulla
scena, avendo trascorso gli anni giovanili impegnato in tour117
nées, alle prese con scenette e testi vari per spettacoli teatrali, da
anziano era interessatissimo alle cose della vita, che amava scoprire di giorno in giorno, di momento in momento. Attaccatissimo alla famiglia, era sempre in compagnia della moglie, una
signora simpatica, molto gentile, che spesso lo seguiva anche in
tournée. Lui, come detto, piccolino di statura, modesto, lei prosperosa, piena di vita; fisicamente così diversi, erano ancora innamoratissimi. Questo lo si capiva fin dai tempi in cui si andava
in galleria. Sempre insieme, sempre sereni, sempre gentili. A
quel tempo loro erano per me i genitori del mio amico Mario e
basta. Un saluto ed un sorriso. Poi un giorno, anzi una notte, mi
chiamò la signora Severino chiedendomi se potevo andare a Firenze la mattina successiva a raggiungere la compagnia di Enzo
Maggio per sostituire per qualche giorno l’attore Margaritora.
Non potevo dir no alla signora Matilde Severino, eppoi mi sarebbe piaciuto immensamete lavorare per qualche giorno con
Enzo Maggio, era un grande e da lui avrei avuto solo da imparare, per cui accettai con entusiasmo. Enzo, io l’ho sempre chiamato “Signor Maggio” e gli ho dato sempre il “lei”, lui mi ha
sempre chiamato solamente “Serra” e mi ha sempre dato il
“voi”, non appena mi vide, rivolto alla moglie disse:
― Ah, vedi, è Serra, l’amico di Mario.
Poi rivolto a me.
― Sono contento che siate voi.
Al pomeriggio facemmo le prove e alla sera debuttammo.
Lui e la signora, temendo che potessi emozionarmi, cercarono
di tranquillizzarmi, debuttare davanti ad un pubblico numeroso
e con una sola prova non è facile per nessuno, figurarsi per un
giovane attore poco più che ventenne. Lo spettacolo ebbe successo, lui fu ovviamente bravissimo e per fortuna tutto andò bene anche a me, tanto che presi un applauso a scena aperta ed
uno alla mia uscita di scena. E qui avvenne un episodio che mostra tutta la grandezza di Enzo Maggio come uomo. Pur dovendo restare in scena, mi accompagnò dietro le quinte e, appena
usciti dal campo visivo del pubblico, mi diede un veloce colpo
sulla spalla e mi gridò “bravo”, tornando precipitosamente in
scena. A cena mi ripetè l’elogio.
118
― Sono contento che al debutto con me avete preso due begli applausi.
― Meritati!
Aggiunse la moglie. E diventammo amici. Non amici come
succede tra attori, cioè finché si lavora insieme. Diventammo
amici sul serio. Finita la mia prestazione fiorentina, ripresi la
vita di sempre, tournées, spettacoli vari, poi critiche d’arte e di
letteratura, sceneggiature di fumetti, tutto quanto mi veniva
proposto. Quando uscì la mia prima raccolta di poesie, mi premurai di dargliene personalmente una copia in omaggio. Prese
in mano il volumetto, lo aprì, vide che si trattava di poesie, lo
richiuse e sorrise:
― Sono tutte vostre poesie? Vi ringrazio.
Due giorni dopo mi telefonò. Era la prima volta che lo faceva, e fu anche la sola. Mi invitò per il pomeriggio a casa sua:
― Mia moglie non c’è, mi tenete un po’ di compagnia.
Mi ricevette nel salottino, ma subito dopo mi fece accomodare in cucina:
― In cucina è più intimo…
Mi parlò del libro, gli era piaciuto. “Si vede la sensibilità del
poeta” disse; poi, mentre sorbivamo un caffè preparato con le
sue mani, affabilmente cominciò a narrarmi tante cose, di sé,
della famiglia, di Mario soprattutto, del teatro, del cinema “Pensate, quando ho fatto il mio primo film, il regista mi ha scelto in
base ad una fotografia formato tessera che gli aveva portato un
mio amico”, delle difficoltà del vivere “… alla mia età devo ancora andare in giro per il mondo a fare il buffone per divertire la
gente”; e al mio obbiettare che non era affatto un buffone, ma
un grande artista, umilmente mormorò un sommesso e timido
“troppo buono!”. Ad un certo punto, temendo di abusare della
sua ospitalità, accennai ad andarmene.
― Tolgo il disturbo.
― Ma no! Siate gentile. Restate un altro poco: ve lo dirò io
quando sarà il momento.
E continuammo a parlare, piacevolmente. Lui era una “enciclopedia del varietà e della sceneggiata”. Mi illustrò un secolo
di teatro partenopeo e mi parlò dei più grandi personaggi che lo
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avevano popolato. Poi, ad un certo punto, qualche ora dopo, con
un sorriso mi congedò:
― Ora potete togliere il disturbo. Vi ringrazio della bella
compagnia.
La sera, allo “Jovinelli” o al “Volturno”, incontravo gli amici: Gianni Sampieri e signora, Don Luigi Fabbrocino, Franco
Giannitto, Luca Sportelli, Enzo Maggio e signora e prendevamo
qualcosa insieme al Bar o alla trattoria da “Ciccio”. Era contentissimo quando poteva insegnarmi qualcosa. Ed era felice quando la cosa che voleva insegnarmi io già la sapevo. Una sera da
Ciccio, seduti al tavolino di quella specie di giardinetto che divideva la trattoria dal cinema teatro, passò una ragazza. Lui la
guardò e commentò.
― Bella ragazza! Peccato abbia quelle efelidi…
Quella parola creò un po’ d’imbarazzo tra gli astanti, non a
me. E a me si rivolse:
― Sapete che sono le efelidi?
Non mi venne altro in mente che dire:
― Le lenticchie in faccia.
― Alla faccia! Sapete tutto…
E tutti scoppiammo a ridere.
Bei tempi! Altri Artisti, altri Uomini!
120
34. GIANNI SAMPIERI
Ci incontravamo seralmente, Gianni Sampieri ed io. Da
“Ciccio”, alla trattoria a fianco dell’Ambra Jovinelli. Quando io
arrivavo, dopo aver consegnato allo studio “Scenex” la mia
quotidiana razione di sceneggiature di fumetti, lui era già lì.
Con la moglie, la signora Dolly, attrice anche lei. Una coppia
affiatatissima ed innamoratissima. Provenivano entrambi dalla
formazione storica dei Sampieri, compagnia di prosa guidata
dal padre di Gianni, ma ormai da moltissimo tempo facevano
solo avanspettacolo. E neanche più continuatamente. Serate, il
sabato e la domenica, qualche volta una settimana intera all’Altieri; per il resto chiacchiere con gli amici e progetti alla trattoria di Ciccio. Davanti ad una ottima “camomilla”. La “camomilla” di Gianni Sampieri, lo sapevano tutti, era il mezzo litro di
vino che ordinava appena arrivato. Poi veniva il resto, ma la
“camomilla” era la prima cosa che voleva fosse in tavola, quasi
prima di sedersi. Comico di antica scuola: sempre elegantemente vestito, sigaretta con bocchino, orologio d’oro, fare distaccato. Aveva un non so che di nobile nel portamento. La dignità dei
comici di un tempo, unita ad una “nonchalance” che contrastava
con la sua naturale timidezza e gli conferiva un’aria distaccata e
quasi sorniona, che però non poteva essere classificata come
snob. Camminava a passi lenti e sorrideva a tutti, quasi come
fosse in passerella. Deformazione professionale che più o meno
ha sempre contagiato quanti per anni seralmente, e spesso anche
per due o tre volte al giorno, su una passerella sfilavano per ringraziare il pubblico al termine dello spettacolo; o su di essa si
addentravano durante un numero particolare, per meglio essere
a contatto col pubblico, per esempio in un monologo o in un
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sottofinale o in duetto tra comico e spalla o tra comico e
soubrette. A tal proposito, Gianni narrava di una soubrette, conosciutissima nell’ambiente e bravissima, alla quale spesso, durante un suo applaudito numero, il pubblico chiedeva di fare la
passerella, ma lei evitava, promettendo “al finale… al finale”,
perché, essendo miope, temeva di mettere il piede in fallo e cadere, mentre al finale sarebbe stata al sicuro al braccio del comico. Orbene, una sera, al colmo dell’entusiasmo per il grande
successo che il pubblico le stava tributando, decise di arrischiarsi a fare passerella per meglio ringraziare degli applausi, e partì
decisa. Un urlo del pubblico e un tonfo: il palcoscenico era privo di passerella e lei si trovò distesa al suolo in platea… fortunatamente se la cavò con qualche ammaccatura. Ne aveva tante
di storie, di teatro e non, da narrare, Gianni. Di quando il padre
era stato ricevuto dal re; del funerale del padre che si tenne nel
giorno di una ricorrenza nazionale e che fu salutato dalle varie
forze dell’ordine, che incontrava durante il percorso, schierate
in alta uniforme e sull’attenti al passaggio del feretro; di come il
padre ci sapesse fare con gli attori, cavando da ognuno di essi il
massimo. Parlava anche di Angelo Musco, di Giovanni Grasso,
di attori minori, dei compagni d’arte, degli attori che gli avevano fatto da spalla, della sorella Mariuccia Sampieri, bravissina
cantante, e della sorella Gina, attrice ballerina e coreografa di
un certo nome. Ma il suo idolo era il padre per il quale aveva
una autentica venerazione, eguagliata forse solo dall’amore per
la moglie Dolly, che lo ripagava di eguale sentimento.
In scena era rigoroso, esigente, ma comprensivo. Una volta,
mi pare per due giorni, gli ho fatto da spalla; ero preoccupato,
perché non avendo avuto modo di provare bene lo sketch, avevo
paura di non ricordare qualche battuta e di svolazzare un po’ a
soggetto, mettendolo in difficoltà. Ma lui mi tranquillizzò:
― Non stiamo mica fecendo l’Amleto… sei un attore esperto, basta che mi arrivi al punto obbligato, io riprendo…
Non dimenticai nessuna battuta e tutto andò benissimo.
Gianni recitava, come tutti noi comici a quel tempo, col cappello in testa, ma, al contrario di tutti noi, non indossava il farfallino, ma una normalissima cravatta. La moglie mi fece nota122
re la cosa e mi disse in sua presenza, ad alta voce perché lui
sentisse:
― Sono anni che gli dico che con la farfalla è più caratteristico… la portano tutti. Glielo dica pure lei.
E Gianni:
― Che volete che vi dica, con la cravatta ci sono abituato,
col farfallino non mi ci ritrovo. Eppoi, la gente ride lo stesso…
La gente che ride è il solo punto importante dei comici. Se il
pubblico ride, tutto va bene. Ed è la verità che salta per prima
agli occhi. Ma c’è modo e modo di far ridere. Ogni comico lo
sa, anche quello che per ottenere una qualsiasi risata fa le capriole più assurde. La risata, al momento, giustifica tutto, ma
Gianni non diceva questo, infatti aggiunse:
― E ride bene… non ci tiriamo fuori dai pantaloni il pizzo
della camicia…
Poi, la sera successiva all’ultimo giorno di spettacolo, ancora
al “Jovinelli”, ancora con gli amici; un salto al bar, poi da “Ciccio”. Qui, scelto il tavolo, prima di sedersi:
― Ciccio, mezzo litro di “camomilla”.
Ricordi.
123
35. LYDIA RAIMONDI
Una delle domande che mi sento rivolgere spesso è:
― Quando torni a far teatro?
E la risposta che immancabilmente do da qualche tempo è:
― Credo mai… Per la verità spesso penso ad uno spettacolo
da fare, ma poi mi rendo conto che è molto difficile che lo faccia. Ogni attore di teatro, dietro l’angolo, vorrebbe trovare un
bellissimo spettacolo… ma, credo proprio che… ma no, ormai… ma non si sa mai.
E questo è il mio reale stato d’animo. Da una parte il desiderio di tornare a calcare le tavole del palcoscenico, dall’altro la
consapevolezza delle difficoltà che dovrei affrontare: i copioni,
i teatri, gli attori…
Per i testi penserei ai classici lavori comici, a novità comiche, ad un teatro farsesco (ma piacerà ancora? Penso di sì,
ma…) oppure anche ad un teatro all’italiana antico, valido
ma poco conosciuto, che so, Silver Scialla Ninna nanna, oppure i testi recitati da Govi o da Musco, ovviamente adattandoli…
Per gli attori, ce ne stanno tanti; ma io sono un po’ troppo
fuori dal giro per poter avere una benché minima idea su quali
potrebbero essere.
Per la primattrice, invece, non avrei dubbi. Lydia Raimondi.
Musicista, cantante, attrice, Lydia è una seria professionista,
la conosco da tempo e con lei ho già lavorato. È cresciuta alla
scuola di Checco Durante, per anni ha recitato nella sua compagnia ed ha composto le musiche originali per le commedie alle
quali ha preso parte. Inoltre ha il mio stesso modo di intendere
lo spettacolo. Divertimento per il pubblico, che deve significare
124
anche divertimento per noi attori, perché col pubblico si crei
una autentica simbiosi.
Una vita tra musica e teatro, quella di Lydia. Bambina in Rai
col coro famosissimo di Renata Cortiglione, poi tanto studio:
pianoforte, canto, dizione. Abilissima dicitrice di poesie, poi attrice per anni, come detto, con Checco Durante: La Buffa storia
di Meo Patacca, Er Marchese der Grillo e tante altre commedie
di successo romanesche e romane. Una felice vena musicale che
la ha portata a comporre e a cantare canzoni piacevoli, orecchiabili, di facile presa sul pubblico, che ha sempre mostrato di gradirle; e poi musiche e canzoni dedicate, oltre che a Roma, a tantissimi paesi di tutta Italia. Su versi del giornalista Carlo Sabatini
ha composto Quo vadis Domine? ricevendo la benedizione del
Papa. Ma il suo merito maggiore è la facilità con la quale comunica col pubblico, sia che canti, sia che declami, sia che reciti.
Artisticamente ci siamo incontrati in uno spettacolo di cabaret, e,
benché per entrambi fosse una prestazione estemporanea, ce la
siamo cavata con successo. Poi in una sua trasmissione televisiva,
nella quale mi aveva invitato, mi ha fatto da spalla, con la disinvoltura degna di una consumata attrice di rivista. Esperienza ripetuta con egual successo a Villa Lais in uno spettacolo all’aperto.
Ancora insieme al Divino Amore, un anno è stata la madrina di
una grande manifestazione, organizzata da Settimio Ciucci (Maleamato anche lui, ciclista e organizzatore appassionato), nella
quale presentavo tutte le squadre ciclistiche laziali. Un colpo
d’occhio eccezionale la verde vallata macchiata dai colori delle
maglie di centinaia di ciclisti di tantissime squadre. Ed ancora insieme in uno spettacolo di beneficenza nel teatro dello stesso
Santuario. Ora, dopo un periodo di stasi dovuto alla morte del
marito Eldo Carlone, sta tornando all’attività. Recita brani sacri
nelle chiese, e la gente apprezza molto questi suoi interventi, tanto che per strada più di uno la ferma e si complimenta con lei. Ma
ovviamente ciò non può bastare. La sua arte merita un più ampio
respiro. Ecco, chissà che questo non sia uno stimolo…
Sono sicuro che il successo non ci mancherebbe. Ci mancherebbe, e tanto, Eldo dietro le quinte.
Ma sarebbe nei nostri cuori.
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Indice
Presentazione di Elda A. Vernara
1. Lelio Sordi
2. Alvaro Dini (Farfalla)
3. Anna De Giorgi
4. Dino Valdi
5. Mila Nistri Umberto Moriconi
6. Mario Grimaldi
7. Rosetta, Gigliola, Maruska, Fioretta
8. Silver Scialla
9. Evy Boccone
10. Juzzo Muscuso
11. Manlio Nevastri
12. Derio Pino e Grazia Gori
13. Giulio Massimini
14. Cesare Sarzi
15. Enzo Mendetta
16. Walter Marchetti
17. Enzo La Torre
18. Luca Sportelli
19. Fanfulla
20. Alberto Giglio
21. Dino Rosaspina
22. Franco Valle
23. Romeo D’amico e Jole Pupetta
24. Carlo Jantaffi
25. Gustavo Cacini
26. Bixio Ribechi
27. Zurzin
28. Salvatore Campochiaro
29. Peppino Roberti
30. Enzo Enzi
31. Luciana Lehar
32. Gio–Batta Merlo
33. Enzo Maggio
34. Gianni Sampieri
35. Lydia Raimondi
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24
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Finito di stampare nel mese di novembre del 2007
dalla tipografia « Braille Gamma S.r.l. » di Santa Rufina di Cittaducale (Ri)
per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma
CARTE: Copertina: Digit Linen 270 g/m2; Interno: Usomano bianco Selena 80 g/m2. ALLESTIMENTO: Legatura a filo di refe / brossura