Narrativa Aracne 59 Giuseppe Luigi Serra I Maleamati ARACNE Copyright © MMVII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978–88–548–1413–4 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: novembre 2007 Alla memoria di Elda A. Vernara che amò immensamente il Teatro e i Teatranti tutti dagli Attori più famosi ai “Maleamati” 6 I MALEAMATI L’idea di presentare in brevi racconti la passione, la bravura, l’entusiasmo di teatranti bravi ma non famosi o celebrati mi ronzava da un po’ di tempo nella testa. Ma fu Elda A. Vernara a spingermi a mettere sulla carta, nero su bianco, quanto mi frullava nel cervello. “Tanto mi piace l’idea” mi disse “che faccio uno strappo alla regola e te li pubblico io sul mio Théatron”. “Théatron” era la sua vita. Elda A. Vernara, già professoressa, in pensione, riversava in quella sua rivista tutto l’Amore e tutta la Passione che aveva per il Teatro. Per il Teatro tutto: da quello dei grandi nomi della prosa e della rivista a quello studentesco, a quello filodrammatico, a quello dialettale, a quello dei guitti e dei girovaghi (il più genuino, il più bello, quello che ha portato con orgoglio e dignità la sua miseria economica, innalzandola “ad astra” con la nobiltà della sua Arte e la stima per quell’Arte, ignorata dalla critica, ma amata, immensamente amata, dal pubblico). Fu lei che coniò il titolo della rubrica I Maleamati, che, rompendo una tradizione ultraventennale, sarebbe apparsa sulla sua rivista, fatta di presentazioni di spettacoli, di libri, di recensioni in modo tale da costituire, unica nel suo genere, un preziosissimo “Archivio Teatrale” per studiosi, critici o semplici appassionati della materia. Mi balenò anche l’idea di non citare i nomi degli artisti, sostituendoli con pseudonimi, ma Fioretta Moriconi, attrice in gioventù e mia compagna d’Arte nella compagnia del padre Umberto e della madre Mila Nistri (discendente da una dinastia teatrale antichissima, attiva ancor prima dell’avvento di Goldoni, e tramandatasi, purtroppo, per rami femminili, per cui è dif7 ficilissimo risalirne alle origini), mi dissuase dall’idea: “Non vedo perché! C’è solo da essere orgogliosi degli spettacoli e della vita che abbiamo fatto. Non c’è posto dove non ci ricordino con affetto. Il peccato è che compagnie così spariscano”. Aveva ragione. Ed aveva ragione Elda A. Vernara. Era giusto ricordare quel mondo che, detto ancora per inciso, ha dato illustri nomi al teatro maggiore (e al cinema e alla TV) anche se spesso questi, una volta entrati nel giro che conta, hanno rinnegato le loro origini. Onore in ciò a Lino Banfi che non lo ha fatto. D’altronde lui è diventato famoso per gradi. Grande lo sarebbe stato comunque, anche senza quei riconoscimenti che la critica (spesso con ritardo) tributa ad alcuni (Totò, Franchi e Ingrassia ecc.). I Maleamati apparvero, a firma Gino Serra, su Théatron a partire dal numero di dicembre del 1983, per tredici puntate. Elda A. Vernara, sin dalla nota introduttiva, spiegò che sarebbero usciti in volume. Ci teneva moltissimo, perché, attraverso quei “raccontini” tratti da vita reale, veniva fuori tutto un mondo teatrale sconosciuto ai più. Ma, un po’ i miei impegni, un po’ i suoi, rimandarono la cosa e non se ne fece nulla. Ora io ho pensato di rendere un doveroso omaggio alla “Signora Vernara” e ad un mondo del quale sono orgoglioso di aver fatto parte, completando e pubblicando questa raccolta di ritratti. Voi leggeteli così, come tutti i miei racconti, come tutte le mie poesie, come tutti i miei spettacoli, semplicemente, da spettatori, senza cercare reconditi messaggi… non ve ne sono… ci sono personaggi e fatti, sic et simpliciter. Se poi qualcuno, come capita anche per spettacoli fatti oltre quarant’anni fa, si accorgerà di aver passato qualche minuto in un mondo che non conosceva, beh, per me sarà una grande soddisfazione. 8 Presentazione di ELDA A. VERNARA Gino Serra, ottimo attore di teatro, cinema e televisione, che nella prima giovinezza ha conosciuto l’avanspettacolo e le sale teatrali di provincia di tutta Italia (fucine inesauribili di commedianti veraci), ormai divenuto quasi esclusivamente apprezzato poeta e narratore, ha deciso di offrire un piccolo meritato riconoscimento ai suoi ex compagni d’arte – ai quali l’“ufficialità” (organi di spettacolo e di stampa) non ha mai concesso la pur minima menzione – in un volume di ritratti di prossima pubblicazione. In un periodo in cui tutto il teatro – per lo meno italiano – sembra accentrato, per l’imprenditoriato e in gran parte per la stampa, intorno a non più di dieci grossi nomi di “mattatori” e “mattatrici” quasi – e/o ultra–sessantenni, Gino Serra ed io, Elda Vernara, chiamiamo tali autentici eroi dell’umiltà scenica “I maleamati”, cioè attori che sono amati – e tanto, incredibilmente tanto – da chi può ricambiarli con nient’altro che con non appariscente (ma infinitamente gratificante) amore. Ringrazio quindi vivamente Gino Serra di dare a Théatron (anch’esso, nel suo campo, un “maleamato”) la possibilità di pubblicare in anteprima alcuni dei suoi “ritratti”; ed anche quella di dimostrare ancora la predilezione di Théatron per tutto ciò che è “giovane” e “sconosciuto” (o “misconosciuto”): teatro, autori, registi, attori, fruitori… 9 10 1. LELIO SORDI Non so se disegna ancora a mano le locandine per reclamizzare i suoi spettacoli come faceva negli anni cinquanta quando l’ho conosciuto io, ma so per certo che calca ancora le scene, anche se non sono più quelle dei teatri di varietà importanti come il Reale, ma solo quelle di teatrini di provincia o di sale di circoli culturali o palchi di feste di paese. Ma l’entusiasmo è lo stesso, la passione è la stessa, lui, Lelio Sordi, comico romano, è lo stesso. Chi sia lo sanno in molti; e molti attori, specialmente quelli che facevano l’avanspettacolo, lo conoscono. Ma fanno finta di nulla. In sessanta anni di teatro, uno più uno meno, di spettatori ne ha avuti tantissimi e tutti, credo, se pure avranno dimenticato il suo nome, ricorderanno la sua infinita struggente simpatia. Chi lo ha sempre ignorato e lo ignora, senza peraltro che a lui importi granché, è la critica, sono le cronache, in una parola: l’ufficialità. Mai un aiuto, mai un riconoscimento; ma lui ha sempre tirato dritto, con pazienza, con umiltà, con amore, accettando con filosofica calma ogni contrattempo. Sempre pronto a ricominciare da zero, anzi da sottozero, con una fede incrollabile, con una dedizione totale, degna della miglior causa. Giovanissimo, ho fatto con lui qualche brevissima tournée. Spesato e a percentuale… mai una lira, o quasi.Tanto entusiasmo! Prendeva la camera in albergo, o in pensione, ma quando tutti andavamo a letto, lui non era ancora rientrato; e la mattina dopo, quando ci alzavamo, lui non era nella sua stanza ed il letto era intatto. Lo trovavamo in teatro, dove aveva dormito su un mucchietto di tende accatastate in palcoscenico o dietro le quin11 te. Dormiva? Forse sognava… No, Shakespeare non c’entra. Probabilmente nemmeno di sogno si trattava: Lelletto, è questo il suo nome di battaglia, nella quiete della notte, solo, su un piccolo palcoscenico che diventava immenso, davanti una saletta dai muri stinti, vuota, che si trasformava in una platea sfarzosa, circondata da palchi di porpora e oro, gremita da un pubblico osannante e pagante, viveva la sua ora di gloria, protagonista del più fantastico spettacolo del mondo. Poi riponeva tutto nello scrigno dei ricordi e la mattina seguente era vispo, allegro, pimpante, pronto ad affrontare una nuova giornata e ad offrirsi, la sera, ad un pubblico ben diverso, ma per lui ugualmente fascinoso. Poco prima di andare in scena stilava il programma (i suoi spettacoli, allora come ora, erano quelli che chiamavamo “ammucchiate” o “spedizioni punitive”): Sigla orchestra, Lelletto presenta lo spettacolo, balletto (due girls), parodia comica con Lelletto, cantante (donna), sketch con Lelletto, balletto, sottofinale con Lelletto, finale all’americana. Se poi c’era qualche intoppo o disguido, non c’era da preoccuparsi: sarebbe uscito Lelletto. E se durante lo spettacolo qualcuno distratto chiedeva: ― chi c’è ora? ― immancabilmente un altro rispondeva: ― Esce Lelletto! L’amico Juzzo Muscuso, che recentemente ha preso parte ad alcuni suoi spettacoli, dice che non è cambiato nulla. Negli anni cinquanta era già nonno e faceva parti da innamorato. Negli anni ottanta recita ancora negli stessi ruoli. Con la stessa passione, con la stessa simpatia, con la stessa mimica, con la stessa faccia scavata e gli stessi occhi scintillanti d’un tempo. Non è cambiato. Ma io, che pure spesso lo incontro, non ho il coraggio di assistere ad un suo spettacolo. Ne conoscerei ogni parola… e credo che davanti alla porta del locale troverei, fatto a mano ma da sembrar stampato, un manifesto: Stasera Lelio Sordi (il nome piccolo piccolo, quasi invisibile sul cognome a carattere cubitale) in “Fantasies neufcentes” (sic!) con (tre o quattro nomi scritti in piccolo e a caratteri uguali), con il balletto (nome di fantasia appena più visibile dei nomi precedenti), e con (in fondo, all’americana, grande quanto Sordi in alto) Lelletto. 12 Per un istante ritroverei i miei vent’anni. Ma, non leggendo il mio nome su quel manifesto, mi renderei conto che il tempo, almeno per me, è passato. 13 2. ALVARO DINI (FARFALLA) Lo trovo nel suo bar alla Magliana dove mi fermo ogni volta che capito in quella zona. È cambiato un bel po’! Il comico florido ed arzillo che incontravo in Galleria (Galleria Colonna, un tempo ritrovo quotidiano di Artisti e Camerieri) e col quale ho fatto alcuni spettacoli negli anni della mia prima giovinezza, ha ceduto il posto ad un signore piuttosto grasso, rilassato, quasi rassegnato al ruolo, per lui ingrato, di “barista”. È cambiato fisicamente, ma ha mantenuto intatte l’arguzia d’un tempo, la battuta sempre pronta, la profondità dello sguardo; mentre il fare scanzonato di una volta si è trasformato in sorniona ironia. Nel Teatro d’avanspettacolo ha rappresentato il più ribelle, il più anticonformista, il più indipendente e quindi il più isolato dei comici. Farfalla! Si chiamava così un tempo. Poi adottò il nome di Alvaro Dini, ricavandolo dall’anagrafico Alvaro Radini; ma tutti han sempre continuato a chiamarlo Farfalla. Lui stesso, del resto, quando si presentava, specificava: ― So’ Alvaro Dini, il comico Farfalla. Arrivava in Galleria ogni giorno sul tardi, alle tredici e talvolta alle quattordici. Col suo passo svelto, corto e largo, col cappello in testa, la cravatta a farfalla ed una eterna mezza sigaretta appiccicata ad un angolo della bocca. Si guardava intorno con aria diffidente ed inquisitoria, individuava il gruppo dei suoi amici e si avvicinava, quasi accodandosi, lentamente, dolcemente, senza dir parola, senza salutare… il suo saluto era la sua presenza silenziosa per qualche secondo. Poi cominciava a parlare dei suoi progetti, del teatro che aveva fissato per lo spet14 tacolo di sabato e domenica a Fiumicino, o a Pofi, o a… Faceva un cenno ad una cantante o ad un fantasista che intendeva scritturare, ma poi finiva col portare sempre le stesse persone, artisti da lui collaudati e con lui affiatati, che andavano volentieri, perché, se i teatri erano piccoli e modesti, la paga, per quanto modesta essa pure, era sicura. L’impresario Catenacci era famoso per il suo detto: ― Catenacci paga poco, ma paga! E Alvaro lo portava ad esempio, dicendo modestamente: ― Con me son pochi, maledetti e subito. Ed aggiungeva con dignità: ― A me non m’avanza una lira nessuno! S’inalberava facilmente ed era capace di venire alle mani per difendere una sua idea o un suo amico. Stava un po’ in disparte, ma il suo saluto era aperto e cordiale con tutti: ― Ciao, Jantaffi!… Caro Maggio… Ohé Ciro… Come va Giglio… Quando litigava con qualcuno era capace di non rivolgergli la parola per anni. Diffidava di tutti, ma non interferiva nei fatti degli altri, né era capace di fare una qualsiasi cosa o dire una parola che potesse nuocere a qualcuno. Per i giovani aveva sempre pronto un posto in compagnia, magari a percentuale (cioè, se pagati gli Artisti e tolte le spese restava qualcosa, una percentuale andava al giovane artista). Per quel suo carattere, pochissimi gli erano amici; molti lo evitavano. Anche perché non era un leccapiedi. Ed era onesto. Tanto onesto da riconoscere pubblicamente il valore a chi lo aveva, ma anche altrettanto pronto a dire in faccia il fatto suo a chi, secondo lui (e non sbagliava mai), rubava pane e lavoro a chi lo meritava. Sapeva riconoscere a naso un Artista. Potrei indicare moltissimi personaggi, allora sconosciuti, dei quali diceva che avrebbero fatto carriera perché erano dei bravi comici, dei bravi caratteristi o degli eccellenti brillanti… ed era di una imparzialità incredibile. Un giorno in Galleria fu avvicinato da un impresario che gli chiese un giudizio su un collega, ignorando che Alvaro aveva avuto con questo una discussione e che da mesi non gli rivolge15 va più la parola. Ebbene, dopo aver alzato le spalle e guardato, quasi a sfuggire i volti degli astanti, oltre le colonne della Galleria, verso il cielo, rispose: ― Io ci ho litigato e non ci parliamo più da quasi un anno… ma lei può stare tranquillo: se lo scrittura avrà un galantuomo con sé ed un signor Artista in scena. Quelli che udirono trasecolarono. Mai vista un’onestà così adamantina. Gli altri, purtroppo, non erano con lui altrettanto generosi. Forse non lo consideravano uno di loro; ed in effetti era diverso: vestiva dimessamente e si arrangiava a fare qualsiasi lavoro, purché onesto, pur di non sottostare a quelle che chiamava “angherie” degli impresari. Il sabato e la domenica partiva per fare il suo spettacolino in questo o in quel paese, col suo gruppo improvvisato, sul palcoscenico di un teatrino, per tener fede all’impegno preso in via dei Mille durante la settimana, direttamente col gestore. Andava a percentuale e, quando andava bene, ci ricavava le spese; ma il più delle volte ci rimetteva e qualche volta gli costava il lavoro di tutta una settimana. Il successo non gli mancava, perché, anche se la compagnia era piccolissima e raffazzonata (Lui, un attore, due girls, una cantante e un trio orchestrale), i suoi numeri, i suoi scketches, le sue barzellette erano preparate alla perfezione, con grande professionalità: ― Il pubblico non si può tradire. Per un Artista è tutto! Non era un autodidatta. Da giovane aveva studiato danza moderna e mimica ed il maestro Lajos gli aveva montato un numero mimato del quale era orgoglioso. Una volta me lo fece provare per una settimana intera e, quando il sabato lo presentammo, lui si mostrò entusiasta, io ebbi invece la sensazione che al pubblico non fosse piaciuto e glielo dissi. Ci rimase male, ma decise che lo avremmo tolto dal programma. La domenica, quando alla fine del primo spettacolo mancava quasi solo la passerella da fare, mi raggiunse eccitato: ― Te possino!… Preparati che facciamo il numero. È venuto su il padrone del locale a chiederlo perché ieri è piaciuto a tutti. 16 Al termine, mentre ringraziavamo per gli applausi, il mio sguardo incontrò il suo: due occhi azzurri vivi e scintillanti mi guardavano raggianti quasi a dirmi “grazie… sei stato bravo… ma il pubblico lo conosco meglio io”. Gli stessi occhi mi guardano ora nel bar. Sono ancora gli occhi vivi e penetranti di un comico, ma sono velati di una sottile malinconia. Oggi ha una bella famiglia, una bella casa, un bar bene avviato, sta bene economicamente. Ma ha tanta, tanta nostalgia per quel suo “lavoro” che non gli dava da vivere, ma gli dava la vita. 17 3. ANNA DE GIORGI La prima volta che vidi Annarella, gli amici chiamano così Anna De Giorgi, fui colpito dalla sua naturale eleganza, dai suoi modi distinti, dalla sua semplicità, prima ancora che dalla sua bellezza. E sì che bella lo era davvero! Proveniva dal Teatro di prosa e faceva la soubrette–attrice nella compagnia di varietà di Ciro Castiglia e Alberto Giglio, il quale era anche suo marito. La incontrai a Roma, non in Galleria, abituale ritrovo quotidiano degli Artisti intorno all’ora di pranzo, ma di sera, in via Volturno, in un bar all’angolo con piazza dei Cinquecento. Mi diede subito l’impressione di una donna riservata, schiva di pubblicità, sincera: una signora autentica. Fu un incontro brevissimo: appena il tempo, dopo le presentazioni, di scambiare poche parole, mentre il mio capocomico e suo marito parlavano di un futuro lavoro. Ci ritrovammo qualche mese dopo in uno spettacolo di prosa romanesca e varietà. Truccata da vecchia faceva la madre ne “Er Fijo bbono”, nel quale io ero il figlio buono, Alberto Giglio il figlio cattivo, Ciro Castiglia il vecchio compare, Valerio Valeri il commissario di polizia e la giovanissima Ety Silva la ragazza sedotta. Annarella caratterizzò stupendamente il personaggio, lavorando di fino, cesellando ogni gesto ed ogni parola, incantando con la sua arte e facendosi amare per la sua simpatia. Poi per anni ci siamo visti poco, ma eravamo diventati amici e ci sentivamo spessissimo a telefono: un saluto a lei e ad Alberto era d’obbligo ad ogni mio passaggio a Roma, a Natale, a Pasqua, per il compleanno di Alberto o per il suo. Anna ha 18 sempre tenuto al suo compleanno e lo ha festeggiato ogni anno, circondata dall’affetto dei suoi amici più cari. Gli anni non li ha mai contati, ma sempre ricordati. Una volta la invitai, insieme al marito e all’attore–cantautore siciliano Juzzo Muscuso, a partecipare ad uno spettacolino degli allievi della Scuola di Recitazione e danza “Metta Latini– Macioti”, per arricchirlo con la loro presenza. Lo spettacolo era Il Natale di Cirillino, era il mese di dicembre del 1972, credo. O 1971? Non ricordo. Ricordo che nel presentare lo spettacolo al pubblico che gremiva la sala del teatrino allestito in un antico palazzo di via degli Scipioni, mi lamentai del fatto che i miei incontri artistici con Annarella fossero ormai troppo rari: ― Quando Anna era nel pieno dell’attività, io ero troppo giovane per essere al suo fianco. Ora che avrei l’età, lei ha diradato i suoi impegni. Dal pubblico una voce, che seppi poi essere quella della nota attrice Lorella Da Luca, la cui figlia Federica Tessari, meravigliosa bambina che ricordo con grande affetto insieme alla altrettanto meravigliosa sorella, era tra le allieve interpreti, mi fece notare che non avevo certo fatto un complimento ad Annarella, alla quale praticamente avevo dato del “vecchia”. E mentre io, colto alla sprovvista, cercavo le parole per spiegare il perché e il per come avessi detto quello che avevo detto, Annarella, che era sul palcoscenico insieme agli altri Artisti ospiti, intervenne: ― È la verità! Si parla di quasi quindici anni fa ed io allora avevo quindici anni di meno. Ma ero io allora come sono io ora. L’età è quella che si dimostra in scena, mentre per andare in giro come una volta non sempre riesco a trovare il tempo, perché mi dedico un po’ di più alla famiglia. In effetti un attore sulla scena ha sempre l’età del personaggio che interpreta. E Anna De Giorgi, l’ancor giovane Annarella, ha l’età che di volta in volta la parte le assegna. E recita ancora, anche se raramente, anche se non si allontana per molto tempo da Roma. Ed è sempre un successo: non clamoroso (non è nel suo stile) ma discreto, delicato, preciso, umile e prezioso, come la sua recitazione, come lei stessa. 19 ― Ginè, quando mi vieni a trovare? ― Mi chiede ogni volta che le telefono. ― Presto, Annarè! ― Rispondo. E presto vuol dire spesso mesi. Per lavoro, per mancanza di tempo. Ma appena posso vado, come vanno tutti gli amici. È una donna intelligente, la sua compagnia è piacevole, il tempo che si passa con lei è prezioso… arricchisce… ha il profumo del buon Teatro di una volta… ha il sapore del ricordo di giorni felici e di Alberto Giglio, un grande indimenticabile amico che non c’è più. 20 4. DINO VALDI In una trasmissione televisiva di qualche anno fa, appariva su una nuvoletta il comico più amato e forse più grande che l’Italia abbia mai avuto: Totò. Poiché il personaggio che il Totò della nuvoletta interpretava era Totò da morto, e poiché Totò era morto realmente già da qualche anno, a molti veniva spontaneo chiedersi chi fosse quel Totò così vero che faceva Totò. Se avessero letto attentamente i titoli dello spettacolo avrebbero scoperto che l’attore che interpretava quel ruolo era il bravissimo Dino Valdi. Ma forse non sarebbe stato giusto perché Dino Valdi è anche Totò. Non a caso ne è stato per anni la controfigura; una controfigura che, specialmente negli ultimi tempi, era molto di più di una controfigura: era il personaggio. E del resto Dino Valdi ha sempre portato il personaggio Totò su tutti i palcoscenici dei teatri di Rivista e Varietà d’Italia. Sin da quando aveva cominciato a recitare aveva deciso di sfruttare la sua straordinaria somiglianza con S.A. Imperiale il Principe Antonio De Curtis Comneno… ecc. ecc., possessore di tanti nomi e tanti titoli che ci vorrebbe un foglio intero per elencarli tutti, ma che si era affermato usando, per contrasto, uno dei tanti bizzarri contrasti di un Artista Umorista e Poeta grandissimo, il brevissimo pseudonimo di “Totò”. Valdi lo aveva fatto per farsi conoscere, per cominciare, poi sarebbe stato Dino Valdi e basta. Ma l’uomo propone e Dio dispone. Così divenne per tutti “quello che assomiglia a Totò” o “quello che fa Totò”, e come tale si affermò nell’avanspettacolo e come tale entrò nel cinema come controfigura. 21 Io l’ho conosciuto molti anni fa al bar del Teatro Jovinelli, allora tempio consacrato dell’avanspattacolo. Abbiamo passeggiato insieme nel fresco di una serata estiva, fianco a fianco, io giovane comico alle prime armi e lui comico affermato di una bella compagnia di giro. Confesso che avevo un certo timore revenziale verso questo Artista che mi trattava da pari a pari con una modestia ed una umanità rarissime non solo nel mondo dello spettacolo, ma nell’universo intero. Mi parlò della sua rivista “Totòtutto”, del successo che aveva avuto, di ciò che voleva fare l’anno successivo, con una semplicità ed un entusiasmo propri dei grandi. Tornando a casa quella sera pensai che era un peccato che un simile Artista, per sfruttare la somiglianza con Totò, non cercasse altre vie. Mi rendevo conto che l’uomo era interiormente ricco: aveva un anima capace di esprimere cose che, forse, quel suo dover essere Totò, gli impediva. Solo a distanza di tanti anni capii che mi sbagliavo. Non nel giudizio sull’Uomo o sull’Artista, che anzi una abbastanza recente occasione di lavoro mi ha confermato, ma sul fatto che quella sua scelta di “essere Totò” lo limitava. L’uomo è rimasto lo stesso: Dino Valdi, intelligente, schivo, serio professionista. L’Artista non ha saputo liberarsi da quella maschera che madre natura gli ha costruito addosso, dopo averla disegnata sul corpo di Totò. Non ha saputo o non ha voluto? Probabilmente né l’una cosa né l’altra. Probabilmente avrà tentato altre vie, e senz’altro con successo, ma il suo grande affetto per Totò (genuino come pochi: lo ricordo piangente in TV il giorno della morte del principe dei comici) ha finito per identificarsi in lui con l’amore per il mestiere di comico nella più semplice e complessa delle equazioni: Totò uguale comico, Dino Valdi uguale Totò, quindi Dino Valdi uguale comico. Non un annullarsi nel Maestro, ma un riconoscersi in lui. I mezzi per diventare un attore di valore anche al di fuori del personaggio che ha scelto, o che lo ha scelto, Dino Valdi li ha tutti. Ma gli attori bravi sono tanti e finiscono nel gran calderone dello spettacolo dove diventano, al massimo, salvo rarissime 22 eccezioni, un nome che la gente spesso finisce col confondere con un altro e nella confusione dimentica del tutto. I personaggi invece sono pochi e ben distinti: al massimo hanno dei sosia anonimi. Chaplin, Keaton, Laurel, Hardy, Petrolini… sono unici. Come Totò. Ma con una differenza. Oltre che un sosia, Totò ha un autentico alter ego. E Dino Valdi è, appunto, l’alter ego del più grande comico italiano: un bravissimo attore, dotato di nome e personalità propri, per cui il somigliare ad un altro diventa, paradossalmente, un segno di distinzione. 23 5. MILA NISTRI UMBERTO MORICONI Sono stato nella loro Compagnia per molti anni, come primo attor comico, ma la sincera fraterna amicizia che mi ha legato ad Umberto Moriconi fino alla sua prematura scomparsa, avvenuta nel 1975, e che tuttora mi lega a Mila Nistri, ha ben presto mandato a farsi benedire ruoli, gradi e gerarchie. Poco tempo dopo essere stato scritturato ero, infatti, uno della famiglia; e tale sono rimasto. Gli anni trascorsi in quella formazione, così piccola e così carica di autentica Storia del Teatro, sono stati per me meravigliosi, affascinanti: avventurosi e romantici, spensierati ed istruttivi al tempo stesso. Lei, Mila Nistri, figlia di Arturo Nistri e di Pina Cresseri, discendente di un’antichissima famiglia di comici attivi in Teatro ancor prima dell’avvento di Goldoni, attrice comica ineguagliabile, spigliata, professionista esemplare; Lui, Umberto Moriconi, attore drammatico formatosi fin da adolescente nella Compagnia di Uberto Palmarini, grandissimo attore scomparso troppo presto dalle scene dei maggiori Teatri e poco dopo da quelle della vita; erano moglie e marito. Da poco avevano messo su Compagnia per conto proprio, staccandosi, come altri, dal nucleo centrale della Famiglia che per secoli aveva formato una Compagnia unica e che, grande com’era, era diventata ormai troppo costosa per reggere la concorrenza della invadente televisione, mostro fagocitatore di pubblico, dai mille tentacoli che si stendevano e si abbarbicavano dovunque, raggiungendo persino i più piccoli e sperduti borghi sulle più alte ed aspre montagne e nelle più desolate pianure, penetrando nelle case ed ivi istallandosi sotto forma di elet24 trodomestico, surrogato del cinema e discendente perfezionato della radio. Io avevo fatto solo avanspettacolo minore, avevo appena compiuto 23 anni e non avevo alcuna esperienza di Teatro “serio”. ― Non ti preoccupare! Farai solo la farsa finale. Mi aveva rassicurato Moriconi a Roma. Io non sapevo nulla di commedie e drammi e le farse le avevo sempre chiamate “Sketch”, ma il bisogno di lavorare (a quei tempi si passava più tempo in Galleria che in tournée) e soprattutto la fiducia e la sicurezza che Umberto Moriconi ispirava, mi fecero accettare la proposta. Li raggiunsi a Carnia l’otto novembre 1961. Alle dieci e trenta di una gelida notte, erano tutti ad attendermi alla stazione. In macchina, caricata la mia enorme valigia nuova con dentro un pigiama, una camicia, un cappello, la cravatta a farfalla, un paio di capi di biancheria intima e due paia di pedalini, raggiungemmo Ovaro. Lì, dopo aver preso un caffè al bar ed aver mangiato in albergo, mi diedero un copione: La Morte Civile di Paolo Giacometti. ― Leggi la parte di Monsignore… domani alle undici la prova, si debutta a Rigolato… poi faremo la farsa “Punto a capo”, che già conosci. Andai a letto a mezzanotte passata, in un albergo (della Posta) ammantato di neve come tutto il paesaggio circostante, chiedendomi se il tutto fosse una favola o realtà. Il cielo era punteggiato di stelle lucentissime. Imparai la parte, provai e debuttai tra bravissimi attori, cavandomela alla meno peggio; poi, alla farsa, ebbi un bel successo. Ma ero contento soprattutto perché avevo sostenuto un ruolo serio, il primo della mia vita. Con tali maestri avrei presto imparato il mestiere. Umberto Moriconi era un grande attore: bell’uomo, aspetto sereno, sorriso gioviale, sensibilissimo, si immedesimava nella parte e dava tutta l’anima ai personaggi che interpretava; dotato di una bella voce e di una tecnica eccellente, nei momenti più salienti riusciva ad inchiodare gli spettatori sulle sedie, tenendoli col fiato sospeso fino alla fine della scena che veniva salutata 25 sempre con un uragano improvviso di applausi. Sapeva essere Roberto ne La Nemica, malgrado avesse più di quarant’anni, e lo scienziato uxoricida nel “Dopo” di Augusto Novelli; Corrado ne La Morte Civile di Paolo Giacometti e Bepi ne L’Avvocato difensore di Mario Morais, e poi Giuda, Jochanan, Amleto… ed era stato, mi fu detto, un Romeo convincente in un’edizione in cui l’avvenente Giulietta era un’attrice dotata di mezzi espressivi non comuni ma anche di un marito gelosissimo che trovava sempre troppo ardite le scene d’amore tra i due e che una sera venne apostrofato dalla signora Cresseri con un ben azzeccato: ― Cretino! Amico mio, siete un perfetto cretino! Era il primattore indiscusso nelle commedie e nei drammi che la Compagnia metteva in scena, e sarebbe stato anche un ottimo attore di spalla solo che lo avesse voluto, ma lui, finito il “Lavoro”, se proprio non era necessario, usciva di scena lasciando agli altri il compito di farmi da spalla nella farsa. Mila Nistri, invece, adorava la farsa. Professionista inappuntabile e attrice sensibile, recitava con attenzione e con classe nel dramma o nella commedia, ma esplodeva nella farsa. Non è mai stata la mia spalla, è stata la comica della coppia: io ero il comico. Due comici. E da lei ho imparato tanto senza nemmeno rendermene conto. Era, pur nella massima spontaneità, la perfezione fatta attrice. Sui suoi ritmi si poteva regolare un cronometro svizzero di precisione. Era infallibile: ci trovavamo anche ad occhi chiusi. Lavorare con lei era veramente una gioia, un divertimento. E come si divertiva il pubblico!… Eravamo richiesti un po’ dovunque, ma Mila poneva il suo “veto” quando si trattava di recitare nei grandi centri. E non riuscivamo a capire il perché di quel suo rifiuto. ― In quei posti sanno tutto loro… si sentono padreterni. Non mi vanno… Da mezze frasi e da frammenti di racconto di questo o quell’artista che la conoscevano da tempo, credo di essere risalito a quel perché. Moltissimi anni prima, quando era poco più di una bambina, se non addirittura una bambina, arrivata in una grande città (Mi26 lano?) con una grande Compagnia (Zacconi?), fu presa in giro da alcuni coetanei: ― L’attrice… l’attrice… La cosa la indispettì e la sera, in scena, ebbe un moto di silenziosa ribellione: per protesta stette zitta, sicché si dovette calare il sipario. E a quelli che, accorsi preoccupati, le chiedevano se stesse poco bene o se avesse dimenticato la parte, rispose candidamente: ― Sto bene e so la parte; solo che non mi va di recitare qua. E per convincerli sciorinò una dopo l’altra tutte le battute che avrebbe dovuto dire, tra lo sbalordimento dei compagni d’Arte che cominciavano a sperare di poter riprendere la recita là dove era stata interrotta. Ma Mila aveva detto no e fu no. Per sempre. Almeno per la prosa che in varietà qualche volta, in recite straordinarie, accettò di recitare anche in grandi città… ed ottenne sempre un grande successo personale, che però non bastò a farle cambiare idea. Peccato. Oggi Mila è una tranquilla pensionata dell’Enpals. Vive con la figlia Fioretta, a suo tempo giovane attrice di brillante avvenire ma con interessi diversi, e fa la nonna di Monja… un ruolo che adora. Vive serena tra mille ricordi e senza rimpianti. Forse con un po’ di nostalgia, ma quella credo che sia inevitabile anche per i protagonisti delle fiabe più belle. Ecco! A pensarci bene, ad Ovaro, a mezzanotte dell’otto novembre 1961, io cominciavo a vivere una realtà da favola. 27 6. MARIO GRIMALDI Siamo amici da moltissimo tempo, io e Mario Grimaldi. Ci vedevamo in Galleria quando io ero un ragazzetto non ancora ventenne e lui era un comico di estrazione, scuola e classe partenopea. Ogni tanto mi chiamava a fargli da spalla in qualche suo spettacolo minore, nel quale anche un ragazzetto ancora acerbo poteva essere utile. Di lui mi piacque la caparbia puntigliosità con la quale preparava lo spettacolo: non improvvisava, non concedeva nulla alla platea che non fosse preparato a puntino. E così ti costringeva, ogni volta, ad imparare a memoria tutto uno sketch ed almeno due passaggi comici. Il che, per uno spettacolo destinato ad una sola rappresentazione, era davvero un po’ esagerato. Ma lui era fatto così. Forse perché, malgrado da anni facesse varietà e si fosse specializzato in macchiette, proveniva dal teatro di prosa napoletano nel quale aveva debuttato giovanissimo. O, forse, soprattutto per il grande amore che nutriva per quel suo mestiere che ha sempre considerato, e tuttora considera, il più bello del mondo. Di questo suo Amore mi resi conto una sera al Teatro Oriente di Roma, tanti anni fa, in quello che fu il mio debutto come comico assoluto in uno spettacolo di varietà: infatti sostituii proprio Mario Grimaldi che per un improrogabile e più importante impegno non potè essere presente. Debuttai con una bella formazione della quale facevano parte: Alberto Giglio, Anna De Giorgi, Lucia Guzzardi, Ety Silva, Il balletto della signora Milano, la cantante Alba Mila Chantal, il cantante Ugo Brunelli, a quell’epoca popolarissimo a Roma (ricordo i fasci di fiori che immancabilmente uno o più ammiratori gli facevano recapitare sul palcoscenico al termine della sua esibizione, e 28 ricordo la sua commozione sincera per quei fiori che gradiva più di ogni altra cosa e per i quali, in segno di gratitudine, dedicava ai donatori ed al pubblico, fuori programma, una eccezionale interpretazione di “Grazie dei fiori”); completava l’organico un complessino di cinque elementi. Lo spettacolo, che si avvaleva dei testi di Carlo Jantaffi, ebbe successo. E all’ultima recita dell’ultimo giorno intervenne proprio Mario Grimaldi, il quale, dietro invito di Alberto Giglio, presentò ’O Zappatore di Raffaele Viviani. Ebbene, al termine dell’esibizione, prima ancora che il pubblico gli tributasse il meritato applauso, egli soggiunse, quasi come frase facente parte del testo recitato: ― Raffaele Viviani è grande e finché ci sarà il Teatro sarà sempre ricordato! Dedicando così all’illustre Attore–Autore gli applausi e i consensi del pubblico. Molti anni più tardi ci ritrovammo insieme a Roma in uno spettacolo all’aperto in Piazza Santa Maria alle Fornaci, nei pressi di San Pietro, e volle recitare in omaggio a Totò la famosa poesia “A livella”. La interpretò mirabilmente, con tutto il sentimento e la dedizione di cui era capace, tanto che alla fine, mentre ancora non si spegnevano gli applausi del pubblico, sentii il bisogno di complimentarmi con lui. Mi strinse la mano e mi abbracciò con l’affetto di sempre, ma, più che ringraziarmi per i complimenti, mi fece una domanda che conteneva un consiglio ed un rimprovero insieme: ― Perché non scrivi niente su Tòtò? Hai scritto su Viviani, su De Filippo, no?… Ho il libro… Avrei dovuto e voluto rispondergli che in quel periodo tutti scrivevano su Totò e che non è mia abitudine cavalcare le mode del momento, che forse un giorno lo avrei fatto. Ma non mi avrebbe capito. Per lui il Teatro è Amore, Amore senza vergogna, Amore verso i grandi della scena, autori e attori, testi e musiche: Amore da manifestare sempre e comunque, sia che si gridi in coro con una moltitudine plaudente, sia che la voce si levi solitaria nel silenzio e nel disinteresse generale. Amore che non è esibizionismo, ma dedizione assoluta: 29 ― Ohè, ma vulimmu pazzià?… Nu principe, nu rre… a fronte a nuie nun so’ niente… dessero chissà cché ppe fa’ ‘o mestiere nuostu (Oh, ma scherziamo? Un principe, un re, di fronte e noi non sono niente: darebbero chissà cosa pur di fare il nostro mestiere). E lo dice convinto. Io allora lo vedo con la cravatta a farfalla, il cappelletto in testa, il fazzoletto nel taschino… e mi sorride col suo sorriso franco, pulito, un po’ dolce e un po’ malinconico, come fa quando sta per entrare in scena. Felice. Come può esserlo un uomo che va incontro all’Amore più grande, che dura da una vita e che lo accompagnerà per il resto della vita. Per la gioia sua e del suo pubblico. In bocca al lupo, Mario, per mille anni ancora… 30 7. ROSETTA, GIGLIOLA, MARUSKA, FIORETTA C’era sempre, nei paesi che si toccavano con le Compagnie girovaghe, qualcuno che si ricordava di Rosetta: con affetto, con stima, con rimpianto. Io non l’ho mai conosciuta la Rosetta di cui tanti parlavano; e per anni l’ho considerata una specie di alter ego del mio Nicolino. Rosetta e Nicolino: che bella coppia sarebbe stata! Lui così benvoluto, lei tanto amata. Poi, con l’andare del tempo, mi son reso conto che Rosetta, nella mia mente, acquistava sempre più una fisionomia ben precisa ed assumeva, per quanto sfumati, i contorni a me più noti di Gigliola o di Maruska, che io ho conosciuto, o quelli familiari e a me cari di Fioretta. Attrici che erano dirette eredi delle attrici del passato, interpreti di personaggi nei quali si fondevano e con i quali la gente nel ricordo le confondeva. Da secoli. Gigliola Nevastri, quando l’ho incontrata io, era in procinto di ritirarsi, benché ancora giovane, dalle scene: una delle prime “figlie d’arte” che, sposatasi, a poco a poco abbandonava la vita di girovaga e si sistemava in un comodo appartamento di città. Era stata una meravigliosa Giulietta e, nella routine dei figli d’arte, aveva fatto tutte le “amorose” del repertorio classico e di quello popolare. Per me un po’ più della ignota e famosa Rosetta, ma pur sempre una figura i cui contorni artistici sparivano nel vago di una “Storia del Teatro” fatta di ricordi altrui e di leggenda, per lasciar posto, in concreto, ad una donna molto bella, raffinata ed aristocratica. Tanto diversa da Maruska, sua sorella, altrettando bella ma più istintiva; anche lei attrice, poi 31 valente prestigiatrice e poi anche lei tranquilla signora, sposa e madre, in quel di Milano prima ed in Toscana dopo. Destino, quello di fermarsi, che cominciava ad accomunare quasi tutti i figli d’arte di quella generazione. Destino al quale non si sarebbe sottratta neanche la più giovane Fioretta. Fioretta fa rima con Rosetta. E dalla fantastica figura di Rosetta, pian piano, attraverso Gigliola e Maruska, epigoni quasi fantastici di fantastiche figure del passato, fra sogno e realtà, Fioretta giunge come presenza per me concreta di donna e di attrice. Bella, d’una bellezza particolare (“o tonto, ero bruttissima. Caso mai sono bella oggi…” scherza quando le dico che era bella), recitava con la semplicità della bambina, senza le moine ed i mottetti propri delle bambine. Ed affascinava e commuoveva. Durante una recita in un carcere, fece piangere di commozione la famosa Rina Fort, che in quella prigione era rinchiusa per un pluriomicidio. Da piccolina, en travesti, era stata Balilla ne I Figli di nessuno e quello è stato per sua ammissione il personaggio che ha amato di più. Ma io allora non la conoscevo ancora. Ho cominciato ad apprezzarla brava attrice come Fiorenza ne La Nemica, aristocratica, decisa, delicata; meravigliosa come Maria Goretti in Piccolo Fiore di Campo, dolce contadinella che difende il suo onore fino alla morte (celestiale nella scena finale durante l’ascesa in Paradiso, con i lunghi capelli biondi sciolti sulle spalle e vestita e circondata d’azzurro con un fascio di bianchi gigli stretto al petto); convincente come figlia di un padre uxoricida nel “Dopo” di Augusto Novelli, combattuta tra due sentimenti uguali e contrari; tenera come Pina ne L’Avvocato Difensore di Mario Morais; straziante come infelice cieca ne Le due Orfanelle; e poi spigliata interprete di importanti ruoli ne Il Padrone delle Ferriere, ne Il Fornaretto di Venezia, nelle Due dozzine di Rose Scarlatte; e poi ancora protagonista nella Pia de’ Tolomei; ed ancora nella Ninna Nanna di Silver Scialla ed in moltissimi altri lavori… infine briosa attrice giovane nelle mie farse. Una carriera densa, normale per una “figlia d’Arte”, nobilitata in lei da un impegno artistico sempre notevole fino al gior32 no della decisione, improvvisa e irrevocabile, di lasciare le scene. Una scelta decisa, precisa, senza ripensamenti né rimpianti. Probabilmente aveva esaurito la sua carica (calcava le scene da sempre), oppure voleva semplicemente vivere una vita propria dopo aver fatto vivere tanti e tanti personaggi. Per tutti oggi è la signora Fioretta, apprezzata funzionaria di un Ente statale e madre felice di una bella signorinella di nome Monja. Vive in una città dove ha recitato tante volte da attrice e dove moltissimi la ricordano attrice, ma dove tutti la considerano e stimano donna. L’attrice appartiene al passato e il passato non conta. Contano il presente e il futuro… ma quando il passato è un passato artistico del calibro di quello di Fioretta, io credo che “… hai voglia di dire, hai voglia di fare… non va più via!”, come dice il personaggio da lei tante volte interpretato nel “Dopo” di Augusto Novelli… Vero, Fioretta Moriconi? 33 8. SILVER SCIALLA Il libretto della L.E.S. era intitolato Paternità, ma non fu il titolo del lavoro teatrale, poiché della stampa di una commedia si trattava, bensì il nome dell’autore a convincermi ad acquistarlo: Silvestro Scialla. Pensai subito a Silver Scialla, attore del quale tanto avevo sentito parlare, ed alla sua commedia Ninna Nanna. Pensai “Vuoi vedere che si tratta dello stesso autore e dello stesso lavoro pubblicato sotto altro titolo?” Ci avevo azzeccato solo a metà. Silvestro Scialla era il nome anagrafico di Silver Scialla, ma il lavoro, Paternità, non era Ninna Nanna, anche se il tema era lo stesso: il sentimento della paternità, appunto, di cui così poco si parla e del quale quasi ci si vergogna. Lo stesso tema, trattato con la medesima sensibilità, ma visto in due ottiche differenti. Grande, naturale amore e assoluta dedizione di un padre legittimo in Paternità; eccezionale, sublime e quasi ribelle amore paterno di un sacerdote per una bimba abbandonata appena nata dai genitori e a lui affidata e da lui accolta ed allevata “contro tutto e tutti”, in Ninna Nanna. Il tema ed il modo con cui è presentato nei due testi, specialmente nel secondo, evidenziano l’attenzione che l’occhio dell’artista pone sulle cose del mondo, vere o possibili, e la capacità di farle sue fino ad infondere nei personaggi quei sentimenti che egli stesso prova, e nelle storie il pathos necessario per renderle vive oltreché credibili. La notevole conoscenza dell’arte dell’attore, una esemplare professionalità ed una padronanza assoluta della lingua italiana, fanno sì che le opere che Scialla ci fornisce siano letterariamente validissime, basate su dialoghi scorrevoli e comprensibili, teatralmente funzionanti, senza mai cadere nella teatralità forzata o di maniera. 34 Dotato di una vivida intelligenza (da notare che agiva in tempi difficili e quasi sempre da girovago), seppe lasciare un’impronta ben precisa come attore e come autore in quella “Storia del Teatro” mai scritta, che i figli d’arte e i “comici” si tramandano di generazione in generazione. Una storia dai contorni sfumati, che, per chi vi entra, assume, fino al giorno precedente, il crisma della leggenda: una leggenda che lo sfiora, una leggenda che con lui, e per lui, si tramuta in realtà, ma non lo tocca; una leggenda della quale avverte il fragrante profumo dal quale il tempo lo allontana inesorabilmente. Ed allora subentra la nostalgia: una nostalgia apparentemente assurda per una vita non vissuta, fino a che i ricordi altrui e i propri si confondono, magicamente avvolti nella nebbia del tempo e non si riesce più a capire quale sia la realtà e quale la fantasia. E tutto appare Storia. Io nella storia di Silver Scialla ci sono entrato per interposte persone, ma la ho vissuta, non visto, dopo, negli stessi teatri, dando vita al personaggio di Birillo, il sagrestano della “Ninna Nanna”; sdoppiandomi ed immaginandomi indietro nel tempo, o meglio, fuori dal tempo, osservatore di quello spettacolo, interpretato da altri attori non più presenti, ed altro attore io stesso. Interpretato da Silver Scialla, Pina e Pia Cresseri, Manlio Nevastri e, che so?… Vito Scialla, il figlio… forse mio coetaneo, mai conosciuto, se non per sentito dire. E mi ci sono trovato bene in quella storia. Perché mi sembra una storia pulita, bella. Una storia che ancor oggi, ogni volta che monto su un palcoscenico, mi illudo di continuare. Una storia senza tempo. Eppure forse oggi anche questa storia è alla fine. I figli d’arte, quei figli tanto cari a Silver Scialla, stanno scomparendo. Gli ultimi si sono fermati ed i loro discendenti, forse, non saliranno mai su un palcoscenico. E tutto un patrimonio culturale andrà disperso. Finirà nel nulla dei ricordi che, non tramandati, ciascuno si porterà nella tomba. E Silver Scialla, un nome per me quasi mitico, farà la fine dei ricordi. 35 Ma forse, per uno di quegli strani disegni del destino, un giorno qualcuno si ricorderà che il nonno, o il padre o uno zio, un tempo gli ha parlato di un lavoro di Silver Scialla intitolato, ma sì, Ninna Nanna… e ne parlerà a sua volta al nipotino, il quale, tra uno sguardo alla televisione tridimensionale ed un colpo al video game, batterà sulla tastiera del più moderno e sofisticato dei computer: Silver Scialla – Ninna Nanna… E, per abitudine, memorizzerà la frase… 36 9. EVY BOCCONE Ha avuto una carriera dignitosa, finora, Evy Boccone, ma nessuno le ha mai dato il giusto spazio e solo pochi hanno potuto ammirarla e apprezzarla nel suo giusto valore. Spesso le sono state offerte parti di comprimaria: importanti, importantissime, ma non esaltanti. Invece Evy ha bisogno di personaggi eccezionali per esprimersi in pieno, per emanare quel fascino particolare che è proprio delle grandi attrici: quell’essere resistenti e fragilissime contemporaneamente, quel darsi totalmente al personaggio fino alla sublimazione, all’annientamento della propria personalità; quell’essere vestale, sacerdotessa e vittima allo stesso tempo. Io quel fascino in Evy Boccone l’ho avvertito subito. Dal primo momento che l‘ho vista: così minuta, così dolce, così indifesa eppure così decisa, così appassionata, così consapevole, così forte d’una convinzione al di sopra di ogni debolezza, al di sopra di ogni più terrestre ragionamento… così presa dalla sua missione da non ammettere repliche al suo “credo”. Svilendo o, peggio, negando quel credo la si declassa ad attrice normale e lei in quei panni, che pure veste con la massima serietà professionale, si sente quasi a disagio, sprecata. Ma datele un ruolo sinceramente umano, forte, che le faccia scorrere con violenza il sangue nelle vene e la vedrete saltar fuori in tutto il suo splendore. Attrice sensibile, vibrante, viva e passionale come poche, illumina la scena con la sua Arte e coinvolge i colleghi fino a trasmettere loro quel “sacro fuoco” in lei così autentico e del quale neppure il più scettico degli spettatori può minimamente dubitare. 37 Primattrice nata, è una professionista esemplare, umile e modesta: sempre la prima ad arrivare per le prove o per lo spettacolo, sempre l’ultima a lasciare il Teatro, serena, sorridente, mai stanca, sempre tesa alla ricerca della perfezione. Innamorata del suo lavoro. Mi piacerebbe essere un impresario o un regista famoso per poter mettere in scena dei drammi che la vedano protagonista: La figlia di Jorio o I fucili di madre Carrar o Madre Coraggio. Mi piacerebbe che platee più vaste potessero godere della sua Arte e che altri colleghi provassero la gioia che ho avuto io nel lavorare al suo fianco: la gioia di esser toccati dallo stato di grazia. Vorrei che provassero quell’emozione con la consapevolezza di agire e vivere nella magia di un’atmosfera creata da un’Arte che li esalta ma che non è loro. Vorrei che provassero l’indescrivibile ebbrezza di volare, attori e spettatori, sulle ali di chi raggiunge, annientando la sua parte terrena, il sublime. Invece, io, questa attrice ho potuto averla solo in qualche lavoro comico: F.F. Fame e Follia per esempio… faceva una pazza, un ruolo brillante, una caratterizzazione più o meno accentuata, che però lei innalzava alla dignità di personaggio. E poi in altre occasioni… sempre con la stessa professionalità, con la massima disponibilità. E gliene sono grato. Oggi Evy fa pochissimo Teatro ed ha diradato anche le sue apparizioni in circoli culturali per quei suoi tanto graditi recitals di poesie e per le sue garbate letture di brani classici. Vive appartata, dedicandosi alla famiglia, ai figli ormai grandi, ai nipotini; con lo stesso trasporto e la stessa discrezione con cui da sempre si è dedicata ai suoi soli grandi Amori; appunto: la Famiglia e il Teatro. E al Teatro sicuramente pensa con la gioia per quello che è stato e con la segreta speranza che quello che non è stato, almeno in parte, si realizzi. Ma non lo dice. Intanto si preoccupa sempre e comunque di essere utile senza essere invadente. In famiglia come sulla scena. 38 Invece, cara meravigliosa Evy, in questo mondo, soprattutto nel nostro mondo dello spettacolo, qualche volta, forse, un po’ invadenti si dovrebbe essere… 39 10. JUZZO MUSCUSO Di tanto in tanto su qualche giornale appare un trafiletto piccolo piccolo che dà notizia di una qualche manifestazione artistica estemporanea tenuta in un circolo culturale o in un teatrino minore o in una Associazione Regionale (tipo la meritoria “Famiglia Siciliana”). Spesso questi trafiletti terminano con una brevissima nota: “Ha allietato la serata l’attore (o il cantante, o il cantautore) Juzzo Muscuso”. Un trafiletto come tanti e una notarella di cronaca in un angolo di un quotidiano, spesso importante, nella pagina cittadina o nell’inserto sui quartieri; altre volte un articoletto un po’ più lungo su qualche rivistina minore; il più delle volte nulla… per un attore–cantante siciliano di estrazione popolare, autodidatta. Juzzo Muscuso, Juzzo giovane, non troverebbe certo posto in questa carrellata di ritratti di Maleamati, giacché la sua vita di attore, se pur non su cime eccelse, lo ha portato abbastanza in alto, tanto da poter respirare aria di palcoscenici importanti in tutta Europa, con compagnie di primordine, e a sostenere in cinema ed in TV ruoli di fianco non disprezzabili, sia in prosa che in rivista, sia da attore che da cantante folk. Cito a caso: Rinaldo in Campo di Garinei e Giovannini, Petrosino in TV; Canzone mia sempre in TV (protagonista di una puntata interamente dedicata a lui); svariati films a fianco di attori famosi ecc… una carriera più che dignitosa per un professionista serio. Come molti. Ma ciò che lo avvicina ai Maleamati, e che lo rende degno della massima stima, è l’attività che svolge oggi, con passione da neofita, con umiltà, con entusiasmo giovanile nonostante la non più verde età, con la gioia di chi sa di dare qualcosa. Silen40 ziosamente, caparbiamente, appassionatamente, svaria in tutti i campi dell’Arte: dalla musica alla prosa, dalla poesia alla pittura, nella quale eccelle come un autentico maestro, sfoderando uno stile personalissimo ed un filone che ne denuncia chiaramente le radici di attore e di cultore di Teatro, soprattutto siciliano. L’ho avuto al mio fianco, Juzzo, quasi sempre nei miei più recenti spettacoli e, quando posso, vado a dargli una mano nelle sue serate, quasi tutte ormai di beneficenza. E sempre, dico sempre, l’ho trovato professionista ineccepibile, compagno ideale, figura carismatica rassicurante, con alle spalle una vita intensamente vissuta, con esperienze artistiche singolari ed importantissime, e, soprattutto, con la massima disponibilità a trasmetterle, queste sue esperienze, come le sue nozioni, agli altri. Ricordo di aver condotto una serata su Salvatore Quasimodo nel Circolo Culturale di Marino Aranci, altro autentico personaggio che lotta, pur tra mille difficoltà ed incomprensioni, per diffondere la “Cultura”, spesso trasformando la sua libreria in via Silvio D’Amico (magica potenza d’un nome!) in Centro d’Arte e punto d’incontro per scrittori, poeti, pittori, scultori ecc. Ricordo quella serata con Poeti e Professori, in una sala gremita fino all’inverosimile di gente attentissima e, tra tante voci dotte (cito per tutti il prof. Carlo Maria Picco, per l’occasione anche validissimo dicitore), ricordo la fresca, spontanea, semplice ed entusiasmante testimonianza di Juzzo Muscuso sul grande Poeta, del quale fu amico, e il suo dono agli astanti della recita di un inedito consegnatogli dal futuro “Premio Nobel” a Milano negli anni quaranta perché lo musicasse. Ma… “Non ci si poteva mettere la musica: era poesia!”. Disarmante! Juzzo, poeta lui stesso, personaggio da fiaba quasi, con la sua chitarra, la sua chioma candida, la sua espressione marcata e simpatica, la sua inesauribile verve, la sua incondizionata dedizione all’Arte, a tutta l’Arte, continua la sua storia di attore e di uomo di spettacolo, ricominciata là dove quella di attore di compagnie di grido, di cinema e di televisione stava per finire. 41 Una storia che lo rende personaggio degno di essere conosciuto ed imitato: una storia che non ha fine perché viene da fuori del tempo e fuori del tempo vive, ma che, appena nel tempo entra, lascia un segno che non si cancella facilmente. Il segno di un’Arte genuina, coltivata con amore e con amore offerta allo spettatore, perché ne conservi intatta la fragranza anche quando la voce e la figura dell’Artista, fagocitate, insieme a mille altre cose, dal caos tumultuoso del mondo, saranno un semplice e sbiadito, seppur gradevole, ricordo. 42 11. MANLIO NEVASTRI Silvio Spaccesi, validissimo Attore e Uomo di Teatro dotato di una sensibilità e di una signorilità non comuni, conversando con me nel “foyer” del Teatro Centrale a Roma, dove recitava e dove mi ero recato per godere della sua Arte e per rendere omaggio alla sua bravura, a pochi giorni da un mio raro debutto nella capitale, mi diede di Manlio Nevastri (spesso attivo come Manlio Nistri) la più bella definizione. ― Ne ho un ricordo meraviglioso: un professionista esemplare, mai stanco, sempre disponibile, innamorato come pochi del suo lavoro. Il suo giudizio confermava quello di altri e collimava col mio, che, se era il giudizio di uno che con Manlio non aveva mai recitato, era pur sempre quello di uno che lo aveva conosciuto molto bene, sia direttamente, sia attraverso testimonianze di altri colleghi. Personalmente lo avevo incontrato agli inizi degli anni sessanta, sempre a Roma. Faceva parte della Compagnia di un giovanissimo Carmelo Bene. Recitavano in un teatrino, in Trastevere, così minuscolo da sconcertare fino alla meraviglia uno come me che pure di teatri piccoli ne aveva fatto e ne faceva tanti in provincia. E mi sorprese anche il fatto che quest’uomo, che tutti mi avevano descritto come ligio, severo, irreprensibile, teatralmente impeccabile, amante del teatro Classico, avesse la certezza di lavorare con uno che sapeva fare il teatro, un teatro particolare, mentre a molti, ai più, quel nome e quel modo di fare spettacolo non dicevano assolutamente nulla, se non indignavano addirittura. Il tempo avrebbe dato ragione a Manlio. 43 Chiesi ad un signore alto e robusto, atleticamente prestante, con un’ampia fronte e un sorriso aperto dove potessi trovare il signor Nevastri e questi mi rispose: ― Lo ha davanti… Era lui. Familiarizzammo e parlammo della nostra Compagnia, cioè della Compagnia della sua famiglia, della quale lui da tempo non faceva più parte e della quale ora facevo parte io. Assisteva al nostro colloquio un giovanotto pressappoco della mia età, il quale mi rivolgeva ogni tanto, con dotta curiosità, domande sui lavori che presentavamo e sui personaggi che interpretavo, palesando una conoscenza del nostro Teatro Popolare assolutamente insospettabile, per me, in uno che recitava testi classici e impegnati, interpretandoli in un modo nuovo e personale. E per la prima volta la mia ignoranza di girovago proveniente dall’avanspettacolo, che recitava sempre in teatri pieni di gente plaudente e che per questo motivo si sentiva autorizzato a credersi bravo, mi si parò davanti in tutta la sua abissale immensità. Io di quel loro Teatro ignoravo tutto, proprio tutto, persino che potesse esistere. Che esistesse Manlio lo sapevo e come! In Compagnia me ne parlavano come di un attore perfetto e di un uomo onesto… e mi narrarono di quando, gratificato di una piccola somma come sovrappiù alla paga giornaliera, rispose: “E a che titolo?”… Oppure di quelle volte che andava a fare commissioni o girava per fissare piazze dove recitare; portava i conti al centesimo, magari segnando sotto la voce “Bar” la spesa per un caffè, aggiungendo il giustificativo: “l’uomo non è di legno”. E, quando mi volevano far notare che ero troppo serio e tutto d’un pezzo, mi dicevano: “E che? Sei come Manlio”. Non sapevano e non sapevo che mi facevano un complimento. Io me ne resi conto in seguito. Proprio a partire da quel primo incontro, così casuale (lessi in Galleria il suo nome su una locandina e decisi di andarlo a trovare) nel Teatrino di Carmelo Bene. Manlio Nevastri: somigliargli?… No! di Manlio ce n’è stato solo uno. Un Uomo diverso, che conosceva la vita come pochi 44 attori, ma la conosceva dalla parte veramente giusta, che è poi quella sbagliata per i più. Se il mondo fosse fatto di gente come lui, sarebbe perfetto. Sapeva tutto questo e tirava dritto per quella sua strada così limpida, sicuro di essere nel giusto, perché sempre a posto con la sua coscienza, così a posto da rischiare di sfiorare il ridicolo, se non fosse stato degno della massima ammirazione. Artista poliedrico: attore versatile, abile scrittore e delicato pittore, teneva in pochissimo conto il successo appariscente. Gli bastava far bene quello che faceva per essere contento. Sempre nelle regole del saper vivere, sempre al di fuori di ogni compromesso, sempre al di sopra di ogni meschineria. Sempre sereno, in pace col suo mondo. Ma aveva un suo rifugio, del quale era orgoglioso e che forse era la più bella gratifica alla sua esistenza di Uomo e di Artista: la Famiglia. Una moglie, già attrice al suo fianco, e due meravigliosi figli, che considerava, anche se non lo diceva, i capolavori della sua vita. Ed erano le sole cose che facevano brillare d’orgoglio i suoi occhi, normalmente abituati a sorridere anche quando severamente ammonivano. Maria Assunta e Arturo sono miei amici. Sono i suoi figli. Entrambi hanno lavorato con me, l’una prima di sposarsi, l’altro prima di diventare Fra’ Arturo. Sanno che quello che scrivo è vero, ma forse, degni figli di cotanto padre, vorrebbero che non lo rendessi noto; e forse anche la signora Nucci vorrebbe che non lo dicessi: per pudore, per riservatezza. Ma l’amore di Manlio per loro era una cosa troppo grande e troppo bella e sarebbe ingiusto se, ricordando un Attore ed un Uomo come Lui, non si ricordasse il suo amore più grande: più grande del Teatro, più grande della stessa vita, perché dell’uno e dell’altra era il compendio. 45 12. DERIO PINO E GRAZIA GORI Giocherellando col telecomando in un noioso pomeriggio di qualche tempo fa, mi è balenata davanti un’immagine di molti anni addietro. E siccome il dito nella sua fregola pulsatrice era già andato oltre, per un istante pensai che quell’immagine non fosse realmente apparsa sul teleschermo, ma che si trattasse della proiezione di un mio inconscio desiderio di vedere qualcosa di decente su quell’elettrodomestico popolato da figure straordinariamente insulse che presentavano insulsissimi spettacoli, talvolta addirittura offensivi del più comune senso del buongusto. Rimartellai col polpastrello sui tasti ed ecco riapparire l’immagine d’un tempo. Beh, per la verità una volta quell’immagine la vedevo in Teatro, dove potevo gustarla in tutta la sua interezza, ma anche qui, a mezzo busto o a piano americano, ripresa male tanto da nascondere quasi del tutto ogni effetto mimico, l’immagine in movimento di quei due personaggi era godibile. Si trattava di due dei più attivi e validi comici degli ultimi anni d’oro del varietà e dell’avanspettacolo: gli anni cinquanta. Gli anni di Fanfulla, di Fredo Pistoni e Mimma Rizzo, di Antonio e Mario De Vico (fratelli del grande Pietro De Vico), di Cecè e Franco Doria, di Vici De Rol e Carmen Borini, di Enzo, Dante e Beniamino Maggio, di Pia Velsi e Bertolini, di Romeo D’Amico e Jole Pupetta, di Trottolino e Nino Formicola, di Derio Pino e Grazia Gori… Già, Derio Pino e Grazia Gori. Erano proprio loro i due attori che apparivano sul teleschermo. E tra una risata e un sospiro di nostalgia ho vissuto con loro un meraviglioso e indescrivibile quarto d’ora fatto di presente e 46 di passato: di cose che sono state e di altre che potevano essere e non sono state. In una strana alternanza di tempo e di spazio, mi sono trovato contemporaneamente in un glorioso piccolo cinema teatro romano di avanspettacolo, l’Altieri, dove avevo visto per la prima volta quella coppia recitare, ed il salotto di casa mia dove vedevo ancora quella coppia agire (a distanza di oltre trent’anni) con la stessa bravura, la stessa professionalità, la stessa signorilità. Sì, credo proprio che la signorilità sia stata la qualità che più di ogni altra ha contraddistinto Derio Pino e Grazia Gori. Quel loro modo di essere, così gentile e discreto, così partecipe e schivo, così umano e delicato, ne ha fatto due autentici signori nella vita come sulle scene. Ricordi ed emozioni, sensazioni strane, sapore di tempo perduto, sapore amaro di talenti autentici non riconosciuti nel loro giusto valore, si accavallavano e riproponevano in me il mistero dell’Arte, della fortuna nell’Arte: il mistero stesso della vita. In quel lontano spettacolo all’Altieri Derio Pino proponeva vari personaggi, con vari travestimenti, varie parrucche, in vari scketches, con la sua recitazione sobria e misurata eppur così efficace, ben coadiuvato dalla brava ed avvenente Grazia Gori, molto distinta e applaudita (quale contrasto con tante bellezze provocanti, e come il pubblico lo percepiva e l’apprezzava!). E alla passerella finale, quando si presentavano nei loro panni, lei la signora Gori, lui il signor Derio Pino, il pubblico mostrava loro, con un caloroso e spontaneo applauso, tutto l’affetto e la stima dovuti. Ed ora là, sullo schermo TV, in un altro vecchio scketch, mi divertivano ancora. Come se il tempo si fosse fermato. E il presente ed il passato, così straordinariamete vivi, si fondevano e si proiettavano in un futuro, ahimè impossibile perché il tempo di quel futuro era già passato, che li vedeva, che so?… su Raiuno, o due, o su Canale 5 o che altro… protagonisti di un grande show, di Canzonissime fantastiche, oppure in grandi teatri impegnati in commedie musicali… e con loro altri grandissimi e dimenticati protagonisti di un’epoca irripetibile e meravigliosa, 47 povera portatrice di sogni e di speranze, finita e dimenticata come loro… Mi svegliai come da un torpore. Sullo schermo ormai c’era… chi si ricorda più?! Giocherellai tre o quattro volte col telecomando, quasi senza guardare, poi spensi… 48 13. GIULIO MASSIMINI Calca le scene dal 1944. E a quell’anno risale il suo primo spettacolo importante: “Ma le rondini non sanno” di Michele Galdieri, con Nino Taranto, Chiaretta Gelli… Teatro Savoia di Roma!… Poi con Nuto Navarrini… Poi l’avanspettacolo… Poi… ricordi di una vita di attore… … E da una vita lo conosco io, anche se tra noi non c’è mai stato un contatto diretto di lavoro, neanche quando, ironia della sorte, abbiamo lavorato nello stesso film. Ci incontravamo un tempo in Galleria Colonna, poi al bar del Volturno, che in realtà non era il bar del cinema teatro Volturno, ma che, essendogli a fianco, veniva da noi così designato per comodità. Lui, Giulio Massimi, era un attore di spalla già affermato nell’avanspettacolo e nella rivista, io ero un aspirante comico che si adattava a fare la spalla, la domenica, nei cinema teatro di paese, a comici “scavalcamontagne”, aspettando la “grande occasione” che si faceva sempre più improbabile in quel mondo ed in quel campo, dato il progressivo e veloce avvicinarsi della fine di quel genere di spettacolo, che pure è stato in Italia fucina di attori e di comici grandissimi: da Totò a Lino Banfi. Mi avrebbe fatto piacere, e comodo, avere con lui un rapporto di amicizia e anche di lavoro, ma non c’è stato mai altro che una reciproca stima e un doveroso rispetto. L’ho sempre ammirato per la sua squisita gentilezza e la sua serietà di uomo e di artista, doti riscontrabili tutte insieme solo in pochissime persone (e in quasi tutti i “Maleamati”), ma non ho mai avuto occasione di chiedergli di fare qualcosa insieme… E Dio sa se mi sarebbe piaciuto! 49 Poi lui fece coppia con Denny, bravo comico mio coetaneo o quasi e quasi sosia di Jerry Lewis, ed io passai alla prosa con la compagnia di Umberto Moriconi e Mila Nistri, dove ebbi la fortuna immensa di poter recitare e vivere con gente che portava in sé l’aria di secoli di Teatro, tramandata da padre (ma il più delle volte da madre) in figlio (ma il più delle volte in figlia, cosa che rende difficile risalire l’albero genealogico), sin dai tempi di Goldoni, attraverso varie generazioni, fino ai Cresseri ed ai Nistri attivi ai nostri giorni. Un’aria che non siamo riusciti a trasmettere alle nuove generazioni (dedite ad altre attività) e che cerchiamo di raccontare perché non se ne perda il profumo ed il valore o che almeno di quel profumo e di quel valore resti memoria. In quest’aria entrano tutti i Maleamati; ed in quest’aria entra a pieno titolo Giulio Massimi. Pardon: Giulio Massimini. Sì, Massimini, proprio così! L’ho incontrato dopo tanti anni, tempo fa, al doppiaggio di un film nel quale avevamo un ruolo ciascuno ma, come al solito, non avevamo scene in comune. Pur nella fretta e nel concitato entrare ed uscire dalla buia sala di doppiaggio, abbiamo avuto il tempo di scambiare qualche parola, di scambiarci i numeri telefonici… ― Metti Massimini; è il mio vero nome. Ora uso quello. Massimi ormai… l’ho usato anche troppo. C’era nella sua voce la consapevolezza e la modestia di un Artista che quasi abdicava, o meglio che entrava nella realtà di un mondo nuovo. Giulio Massimi era un nome che apparteneva a quell’aria gloriosa ma ormai solo storica, addirittura mitica, ma ormai sparita; Giulio Massimini era un attore moderno che viveva nel contesto dell’era attuale, dove il nome giusto è quello anagrafico, dove il palcoscenico e lo schermo son porzioni di vita ma non la vita stessa come un tempo, dove la favola non ha più posto e, comunque, non fa parte della vita. Ma io sono sicuro che nel cuore di Giulio Massimini la favola di Giulio Massimi resterà per sempre bella, come bella resterà nel cuore degli spettatori che lo hanno ammirato e che tuttora lo apprezzano, magari senza conoscerne il nome. 50 Di quella favola Giulio Massimini porta nella realtà del cinema, del teatro e della TV di oggi, la serietà, la professionalità e soprattutto la dignità che ha sempre contraddistinto i personaggi di quell’epoca sparita nel mito. Come tutti i “Maleamati”, meravigliosi eroi che han dato tutto senza nulla chiedere e che han scritto in punta di matita le pagine più belle, più vere e più amate, anche se meno celebrate, della storia del Teatro. 51 14. CESARE SARZI Umberto Moriconi, come tutti i veri innamorati del proprio mestiere, amava parlare ogni tanto di questo o di quell’attore o attrice di cui io non avevo mai sentito neppure il nome e lo faceva con tale trasporto da fartelo sentire vicino, importante; te lo faceva conoscere ammantato da un’aura quasi di mistero, o meglio di mitico, come qualcosa che apparteneva al mondo dello spettacolo, ma non a quello dorato dei divi che all’epoca furoreggiavano, bensì a quello umile, autentico, vero, dei girovaghi, ultimi rappresentanti di quella stirpe di comici che affondava le sue radici nel medioevo e che si era trascinata fino ai nostri giorni, perdendo piano piano terreno, e che lentamente si spegneva o si disperdeva o veniva fagocitata e relegata in ruoli spesso marginali dalla pletora degli attori osannati che uscivano dalle varie accademie, che occupavano i maggiori teatri o si affermavano nel cinema. Attori che non si portavano dentro secoli di storia come i figli d’Arte, né avevano la passione pura di quelli che, in numero sempre minore, in Arte entravano al fianco di costoro che io vedevo come figure arcane, sparite nel nulla di un mondo che esisteva da qualche parte, ma in una dimensione immaginaria di luogo e di tempo, lontanissima dal presente seppur nel presente ancora operante. Irraggiungibile. O inesistente? Perciò quando a Cembra una sera dopo lo spettacolo Umberto ci annunziò che il giorno dopo avremmo avuto ospiti a pranzo Cesare Sarzi e la figlia Cesarina, io ebbi una fortissima emozione, come quando ero bambino ed attendevo l’arrivo di una persona cara: ― Fanno uno spettacolo di marionette nella scuola di Lavis alle dieci e poi ci raggiungono. 52 Cesare Sarzi era uno dei personaggi che Umberto nominava spesso, quindi era uno dei miti per me e finalmente lo avrei conosciuto; il fatto che fosse fratello di Otello Sarzi, burattinaio apprezzato e famoso, me lo rendeva ancor più importante: quasi un tramite fra quel mondo in via di sparizione nel quale ero da poco entrato ed il mondo dorato del quale facevano parte i divi. Pur sapendo che prima delle dodici non sarebbero arrivati, io alle undici ero già pronto a riceverli facendo la spola tra il teatro, dove stavamo montando le scene per lo spettacolo serale, il bar sulla statale ed il ristorante. La macchina, non ricordo la marca ed il colore, arrivò poco dopo mezzogiorno arrancando su per l’erta ed io la riconobbi subito. Era stipata in ogni spazio con marionette, scenari, teloni e quanto altro occorreva per lo spettacolo. Si fermò davanti al bar, probabilmente per chiedere informazioni, ma io e Fioretta, seguiti subito da Umberto, sbucato chissà come alle nostre spalle, fummo prontissimi ad accoglierli. Prima ancora che potessero scendere giunse anche Mila. Abbracci e baci, gli attori si abbracciano e si baciano spesso anche quando non si possono vedere, ma quelli furono genuine espressioni d’affetto. Cesare Sarzi era già avanti negli anni, imponente, serio e gioviale, aveva un sorriso aperto ed il cuore in mano. ― E tu devi essere Gino! Mi disse stringendomi la mano, dopo aver dato un bacio a Fioretta. Certo Umberto gli aveva parlato di me, ma il fatto che ricordasse il mio nome mi inorgogliva. Cesarina era una bella ragazza, semplice, la avresti detta una ragazza di paese, una studentessa, invece era una bravissima artista ed una lavoratrice instancabile, sapeva far tutto. I due erano molto uniti. Trascorremmo una giornata indimenticabile. Cesare evidentemente mi trovava simpatico e mi elargì consigli e mi narrò episodi della sua vita di attore. Era un affabulatore nato ed io ne rimasi conquistato. Umberto lo invitò a recitare come ospite a Lavis dove avremmo agito due settimane dopo. L’invito era una specie di consuetudine, ma fu graditissimo da Cesare. Che però obiettò: 53 ― Ma alla mia età che posso fare? ― Corrado ne La Morte Civile. Propose Umberto. ― Addirittura! Fu l’esclamazione di Cesare. Si vedeva che il tornare a recitare in prosa, sia pur per una sera, lo rendeva felice. ― Vedrai, sarà un successo. Umberto fu facile profeta. Cesare era un bravissimo attore ed un serio professionista. Ed il successo infatti venne. E non fu il solo. Perché finchè restammo in zona, tra Val di Fiemme, Val di Cembra, Val di Fassa ecc., in ogni paese fu per una sera nostro attore ospite. Sempre con grande successo. Sempre gratuitamente. ― Recitare con voi mi ringiovanisce, mi porta indietro negli anni. Una sera ci telefonò a Grumes, chiedendo se potevo andare da loro a Trento l’indomani mattina presto. Ovviamente la risposta fu positiva e la mattina successiva alle sei, con un freddo che non ti dico, presi la corriera per Trento. Giunsi prestissimo a casa loro. Cesarina era già alzata, Cesare si stava alzando. Io la casa la conoscevo, dato che in quel periodo, ora per un motivo, ora per l’altro, andavamo spesso a trovarli, ma quella mattina mi parve bellissima e più accogliente del solito. Feci colazione con loro e per la prima volta dopo tanto tempo trascorso tra alberghi, case private, pensioni, sentii l’antico “calor del focolare”, anche se il focolare, o camino che dir si voglia, non c’era. Cesare mi fece sentire a casa mia, Cesarina mi parlò del fratello laureato, poi facemmo quel lavoretto per il quale mi aveva chiamato, quindi sorbimmo un ottimo caffè. Una mattinata in famiglia. Avrebbero voluto che mi fermassi a pranzo, e sarei rimasto volentieri se non ci fosse stato un debutto pomeridiano a Grauno a costringermi ad un veloce ritorno. Sulla corriera pensai alla serenità di quella casa, all’armonia di quella famiglia, ed ebbi un attimo di nostalgia. Ma poi il pensiero dello spettacolo pomeridiano a Grauno e di quello serale a Grumes mi assorbirono. 54 Cesare recitò con noi un giorno alla settimana, quasi sempre di sabato, nella Morte Civile, ed intanto continuava i suoi spettacoli mattutini con le marionette nelle scuole. Forse avrebbe voluto fare anche altri spettacoli. Forse gli sarebbe piaciuto venire con noi. E a noi la cosa avrebbe fatto piacere. Tra il serio ed il faceto ne abbiamo anche accennato talvolta. ― Sarebbe bello, ma ora sono vecchio, la mia vita è qui con i miei figli, con i miei burattini. Qui è ormai la mia casa… Già, quella casa così accogliente… come dargli torto? Ma anche come resistere al richiamo della scena? Credo che ci abbia pensato a lungo, pur sapendo che non poteva decidere diversamente. Non lo disse mai, ma più di una volta in quei giorni avrà sognato la vita del girovago d’un tempo. Sognato soltanto. Però che bel sogno dev’essere stato! L’ultima recita con noi fu particolarmente sentita ma anche triste. Umberto gli fece un bellissimo, e per le nostre finanze costosissimo, regalo e lui si commosse: ― Non dovevate farlo… Vi ringrazio!… Ma soprattutto vi ringrazio per questa meravigliosa occasione che mi avete dato: tornare a recitare in teatro. Un miracolo. Cenammo come sempre insieme e nel salutarlo Umberto promise: ― Quando ripasseremo da queste parti sarai di nuovo nostro attore ospite. ― Ah, certamente e ben volentieri! Nella voce di Cesare, malgrado l’enfasi della battuta, c’era un velo di malinconia. Ci abbracciò tutti ad uno ad uno e da nessuno si sarebbe voluto staccare. Cesarina lo sollecitò: ― È tardi. Loro domattina debbono partire presto. ― Già. Devono partire… mannaggia. Cesare montò in macchina con gli occhi lucidi, Cesarina diede gas e la macchina partì. Noi restammo immobili per qualche secondo, seguendo la macchina con gli occhi immanenti di lacrime finché non scomparve. Poi Umberto si scosse: ― Andiamo a bere qualcosa. 55 E si avviò verso il bar che stava ormai per chiudere. Mila, io, Fioretta e Franco lo seguimmo senza parlare. 56 15. ENZO MENDETTA Eravamo a Gardolo, provincia di Trento, avevamo debuttato la sera prima con La Morte Civile di Giacometti e la farsa Deponga, e stavamo allestendo il palcoscenico per La Nemica di Niccodemi che sarebbe andata in scena la sera alle fatidiche ore 21, che col quarto d’ora accademico diventavano le 21,15 (e talvolta, se la sala non era piena, le 21,30, orario oltre il quale non si andava mai). Durante una “pausa bar”, che non ci facevamo mai mancare, Umberto Moriconi se ne uscì con un lontano ricordo di un attore che tanti anni prima si era fermato proprio da quelle parti: ― Enzo Mendetta… si sarà sposato… chissà dove sarà… ― Enzo, sì, mi piacerebbe vederlo. disse Fioretta ― Anche a me. ― fece eco Mila E ciascuno di loro portò un ricordo affettuoso di questo personaggio che, noi che non lo avevamo conosciuto, potemmo classificare come una bravissima persona, simpatico, non certo un grande attore ma uno che si era trovato a fare l’attore, in una compagnia nella quale era stato accolto come uomo di fatica, per la defezione di un elemento, che le vicissitudini di una vita difficile quale era quella del dopoguerra avevano momentaneamente allontanato dalle scene. Tutto questo dedotto dalle poche frasi dette tra di loro da Umberto, Mila e Fioretta nei pochi minuti di quella “pausa caffè” o “pausa bar”. Malgrado il gelo dell’inverno e la neve ghiacciata ai lati delle strade, Gardolo era splendente sotto un sole luminosissimo. 57 Molti dei pochi passanti ci salutavano o ci additavano, “segno buono” come diceva Marino per un pienone in teatro. E della possibilità di buoni incassi e di altro si parlò durante il breve tragitto dal bar al teatro quando… Tra tanti frettolosi passanti un signore piccoletto, dal sorriso particolare, intabarrato nel suo cappotto grigio, stava fermo davanti all’ingresso del teatro, ma non leggeva i manifesti né guardava le fotografie, solo sorrideva dolcemente sotto i baffi che non aveva. ― Enzo!… Enzo Mendetta! Urlò Umberto ― Oh, Madonna! Enzo… Esclamò Fioretta ― Lupus in fabula Rise Mila L’uomo rimase un istante quasi incredulo, con un sorriso tra lo stupito ed il meravigliato, poi si staccò di colpo dal teatro e si precipitò ad abbracciarli urlando: ― Umberto, Mila, Fioretta… Sono mi… Una scena veramente commovente quanto sincera e spontanea. Si abbracciavano con gli occhi lucidi, felici: dopo anni di lontananza tornavano a vedersi. E si tornò al bar! E si parlò di ricordi e ci si informò di questo e di quello e si parlò del più e del meno. Sapemmo che non si era sposato, che era stato male, che aveva avuto anche una labirintite, che il teatro, che non era certo stato il suo sogno di bambino pugliese, gli mancava, che ormai si considerava trentino e quando doveva dire io diceva “mi”. Ma era certo rimasto il ragazzo di sempre. Solo alle otto ci rendemmo conto che bisognava correre a teatro a finire di montare le scene e a fare porta (cioè a far entrare la gente). Ed Enzo ci aiutò con la perizia di sempre e durante lo spettacolo manovrò le scene e tirò il sipario. E alla fine unì il suo applauso a quello del pubblico, più che altro mimando il gesto, senza far rumore, quasi per non disturbare, restando in disparte, ma lo tirammo subito a noi e lo abbracciammo tutti. Al successo di quella sera, si unì la commozione per un amico ri58 trovato per Umberto, Mila e Fioretta; e per Maria, Marino, Franco e me la gioia di un amico acquisito. A cena ci disse di tornare in albergo solo per pagare e prendere i bagagli, che ci avrebbe ospitato lui per tutta la settimana di recite a Gardolo. ― Ho una casa grande, c’è posto per tutti e poi ci arrangeremo. I comici sanno sempre arrangiarsi. Forse non si sentiva un attore, ma un “comico”, un girovago sì; anche se si era fermato, se aveva una casa e un lavoro. A casa sua andammo il giorno dopo. E per una settimana la nostra fu una famiglia unita, ospite di un parente lontano. Ci sentimmo a casa nostra al punto che talvolta sembrava che lui fosse ospitato da noi. E la cosa lo rendeva felice. ― Lo vedi che si sente uno dei nostri ― diceva Umberto. ― Perché una sera non lo facciamo recitare? L’idea partì da me e da Franco e fu subito accolta da tutti. Ma cosa fargli fare? Lo chiedemmo proprio a lui. ― No, è tanto tempo che non recito e poi “mi” facevo solo piccole parti, qualche volta il comico… ― Allora farai il comico. Esclamai io che ero il titolare di quel ruolo. ― E, no, tu sei troppo bravo eppoi la gente è abituata a te, sarebbe un rischio, ma “mi” potrei fare una piccola parte: per soddisfazione. Gli trovammo un paio di battute nel Dopo di Augusto Novelli e un passaggio da caratterista nella farsa Sale in tavola. Provammo giovedì (la sera recitammo Il postiglione di Alby di Dennery) e venerdì (la sera recitammo Il Cardinale di Parker) e sabato andammo in scena. Per tutta la giornata Enzo si preoccupò che tutto fosse in ordine, che tutto andasse a meraviglia, che non potessero esserci intoppi. Era emozionatissimo. ― Sta’ tranquillo, andrà tutto benissimo. Sei bravo… Alle nostre frasi tranquillizanti rispondeva con un sorriso: ― Forse ho fatto male, io non sono all’altezza… E invece andò benissimo, da attore consumato. E sulla farsa 59 ebbe un successone. Tanto che decidemmo di fargli dire altre due battute la domenica ne L’Avvocato difensore di Morais e una piccola caratterizzazione sulla farsa. ― Ma no! Come faccio, cosi, senza prove… no, no, no… e che dovrei fare? Una risata e lo seppellimmo in un abbraccio: avrebbe provato forse tutto il giorno. Ma non fu così. Rotto il ghiaccio si sentiva sicuro, solo emozionato, ma perché era l’ultima recita. Andò benissimo: fu un trionfo (ovviamente tutto lo spettacolo, ma per lui fu l’apoteosi). Festeggiammo a cena nel solito ristorante e il giorno seguente a pranzo a casa sua. Saremmo partiti per la piazza successiva nel pomeriggio. Ma era un addio e la bella favola di Enzo Mendetta era alla fine. Nel salutarci facemmo finta di non commuoverci e riuscimmo a celare il nostro stato d’animo finché la macchina si mosse. Quando ci voltammo a salutare per l’ultima volta, Enzo agitò la mano destra nella quale era un fazzoletto bianco, che cominciò a sventolare. Era il suo addio a quel suo mondo che si allontanava. Marino ci si affiancò con la sua macchina: ― Come si chiama il paese dove andiamo? ― Grumes ― Gridammo in coro. E ci soffiammo tutti il naso. 60 16. WALTER MARCHETTI Lo vedevo spesso in Galleria Colonna a Roma. Ci veniva come quasi tutti i comici quando non lavoravano. Ci venivano gli attori di spalla, gli orchestrali, le attrazioni, i cantanti, le ballerine, tutti in cerca d’una scrittura; e qualche impresario in cerca di qualcuno da scritturare per lo spettacolino di fine settimana in qualche paese. Insomma tutto quel variopinto mondo che era l’avanspettacolo. Si restava lì dalle undici all’una o alle due, quando già la Galleria era invasa da un’altra categoria: quella dei camerieri. Allora qualcuno cominciava a sfollare: ― Bah!… Io vado a mangiare. E, se chi aveva parlato non era un attore di un certo nome, immancabilmente qualcuno rispondeva: ― Se è vero, buon appetito. Walter Marchetti era già un affermato comico di varietà: il lavoro non gli mancava certo, ma appena poteva era lì insieme agli altri. Ci conoscevamo di nome. Un saluto e un sorriso, qualche parola di circostanza. Poi io partii con la Compagnia di prosa di Umberto Moriconi e cambiai ovviamente vita. Diventai un girovago: il modo più bello per vivere la vita dell’attore. Ciononostante, ogni volta che tornavo a Roma, il che avveniva quasi sempre d’estate, andavo in Galleria Colonna dove spesso trovavo anche qualche scrittura per feste di piazza o brevi tournées o per qualche “spedizione punitiva”, come venivano chiamate le ammucchiate di vari numeri per uno spettacolo teatrale da tenere per una o due sere al massimo. In questi spettacoli io ero il comico e mi facevano da spalla di volta in volta Dino Rosaspina, Roberto Berti (Garasi) e, soprattutto, Franco Valle, il quale spesso recita61 va anche nella compagnia di Moriconi e con il quale ero artisticamente affiatatissimo. E fu proprio Franco Valle che un giorno mi propose di fare una tournée estiva con un nostro spettacolo di varietà. Fare uno spettacolo per noi era uno scherzo, in due eravamo capaci di reggere ore di spettacolo, considerato il fatto che lui era anche un ottimo cantante. Ma il balletto? ― Non ti preoccupare. Per le piazze c’è pronto un bel giro estivo e ci potrebbe essere anche una stagione teatrale coi fiocchi. Per quel che riguarda il balletto… c’è!… fidati! ― Franco non era certo la persona più affidabile, per dirla senza troppo ferire; diciamo che era fantasioso. Ma il fatto che il giorno dopo mi si fossero avvicinati una cantante, un cantante e un’attrice che erano da lui stati scritturati per la nostra compagnia, mi fece pensare che avesse detto il vero. Sì, ma il balletto? Quando glielo chiesi mi rispose: ― Domani cominciamo le prove alla sala dei bersaglieri a piazza Rondanini, sai dov’è. L’appuntamento è alle tre. Il balletto ce lo porta il marito di una ballerina dell’Altieri. L’Altieri era a quei tempi un tempio dell’avanspettacolo, normalmente una compagnia in quel teatro gestito dal comm. Fabbrocino recitava per una settimana, quindi era una cosa seria, della quale ci si poteva fidare. Ed infatti alle tre del giorno dopo trovai l’intera compagnia riunita nella sala dei bersaglieri: Franco Valle, Angelo Angeli il cantante, non era venuta ma avrebbe fatto parte della compagnia Alba Chantal, la cantante, c’era l’attrice e, guidate dal giovane marito di una ballerina, le ragazze del balletto. Non avevo ancora le idee chiare su quello che sarebbe stato lo spettacolo, ma, visti gli elementi a disposizione, la cosa non mi preoccupava. Tutto sarebbe andato liscio, senonché… Un ossesso urlando salì le scale che portavano alla sala prove. ― Maledette cretine, c’è lo spettacolo, fra pochi minuti siamo in scena. Quel disgraziato di tuo marito che si è messo in testa? (rivolto ad una ballerina). Vi mando tutte in galera. Walter Marchetti era fuori dalla grazia di Dio. Io in un angolo cascavo dalle nuvole, Franco Valle e il marito della ballerina 62 cercavano di calmarlo, ma inutilmente. Come una furia Walter spingeva le ballerine verso la porta e quelle saltellando e correndo spaventate guadagnavano meravigliate l’uscita per raggiungere al più presto il non lontano Teatro Altieri dove stava per alzarsi il sipario sul primo spettacolo della giornata. ― Mi spiegate? Chiesi, rivolto a Walter Marchetti, a Franco Valle e al marito della ballerina che, da quel che avevo capito, aveva dirottato alla sala prove le ballerine (moglie compresa) già scritturate dalla compagnia di Marchetti e impegnate all’Altieri. Una scorrettezza inaudita! ― Scusa, Walter ― balbettava Franco ― non sapevo che fossero impegnate con te. Le ha portate lui (indicando il giovane sposo della ballerina) credevo che fossero libere. ― Ma quale libere e libere! Ritarderemo un po’ l’inizio dello spettacolo. Ma meno male che le ho trovate… Walter si calmò quando io gli porsi la mano e gli spiegai come fossi all’oscuro di tutto. ― Lo so. Non avresti mai fatto una cosa del genere. È quel figlio di… Non ho capito perché ci voleva rovinare… Oh… Ti saluto, ci vediamo… ci conto… E scappò di corsa verso il Teatro. Lo spettacolo lo reclamava. Il giorno dopo in Galleria ci incontrammo e questa volta non ci limitammo ai saluti ed a poche parole: commentammo l’episodio del giorno prima, ma poi cambiammo discorso e scoprimmo reciprocamente interessi e punti di vista in comune. Fu l’inizio di una bellissima anche se, purtroppo, saltuaria amicizia. Quando ci incontravamo era una mezza festa. Si parlava di spettacoli, lui era un appassionato del mestiere: si informava delle commedie che recitavo, mi chiedeva se non sentissi nostalgia per il varietà, diceva che per un comico il posto più naturale è quello. Ottenne un notevole successo personale in una famosa rassegna di compagnie di avanspettacolo e molto modestamente non me ne parlò quando ci incontrammo qualche giorno dopo l’evento, ma i complimenti sinceri che gli feci, allorché un comune amico mi informò della cosa, gli fecero brillare gli occhi. Si commosse come sanno commuoversi gli animi grandi 63 di fronte alle cose vere. Fece tantissime tournées, moltissimi spettacoli, ottenne successo sempre, ma non fu molto fortunato. Ad un certo punto non l’ho incontrato più. Qualcuno un triste giorno mi disse che era morto. Lacrime immanenti invasero i miei occhi, ma poi rigettai l’idea. Un Artista sparisce, si rifugia in qualche parte del mondo dove nessuno può disturbarlo, ma non muore. Non muore mai! 64 17. ENZO LA TORRE Divenne noto all’improvviso nel giro dell’avanspettacolo per un suo scketch nel quale dimostrava una bravura straordinaria: L’imbianchino. Fu una folgorazione per tutti perché fino a quel momento nessuno aveva sospettato in Enzo La Torre una così grande carica di simpatia, una vis comica così travolgente, una mimica così umana e divertente. Era nel giro da anni, e ormai ne aveva circa quaranta, aveva sposato una figlia dell’impresario Salvatore Fabbrocino, e, malgrado non fosse più giovanissimo, aveva un viso da bravo ragazzo che suscitava in tutti quasi tenerezza, con quel sorriso dolce e timido e quel rossore sempre presente sul suo volto, non si sa bene se per timidezza o se per naturale predisposizione della pelle, dato che nel fare, nel gestire e nel parlare era disinvolto, elegante e sicuro come pochi. Fatto sta che quel suo exploit, così come aveva colpito tutti nell’ambiente a lui familiare e che lo aveva portato nel giro di poco tempo ad essere il comico di alcune delle migliori compagnie di varietà, non passò inosservato neppure negli ambienti dello spettacolo che contano. Ed infatti in poco tempo raggiunse una certa popolarità, preludio ad una carriera favolosa, quale la sua bravura meritava, e per la quale si stavano creando gli spazi data l’età ormai avanzata di quasi tutti i maggiori comici di rivista in Italia. Ormai era sulla cresta dell’onda, tanto che l’eco dei suoi successi giunse alla nostra compagnia non solo per il normale tam–tam tra gente di teatro, ma anche perché capitava di vederlo spesso in televisione, magari in qualche carosello che veniva trasmesso prima del normale inizio dei nostri spettacoli. A Roma, durante un mio breve ritorno nella capitale, incontrai don Luigi Fabbrocino, e con lui ci recammo a trovare in una 65 sala prove dalle parti di via Panisperna il fratello, suocero di Enzo. Seppi così che il lavoro lo aveva completamente assorbito, che addirittura era spesso costretto ad assentarsi per lunghi periodi e che trascurava un bel po’ anche la famiglia. Pensai che la cosa fosse normale, ma mi accorsi che il commendator Fabbrocino, benché teatrante di lungo corso, la trovava eccessiva. Comunque per me era il prezzo che si pagava per il successo. Prendere o lasciare. Cosicché quando, parlando con il grande Fiorenzo Fiorentini, mi sentii dire che stava preparando uno spettacolo di giovani (credo suoi allievi) e che gli sarebbe piaciuto avere me accanto ad Enzo La Torre per dare un certo peso ed una certa “esperienza” allo spettacolo, ne fui entusiasta. Di Fiorenzo Fiorentini ero un grande ammiratore, quando potevo andavo a vedere i suoi spettacoli e mi intrattenevo con lui col quale parlavo del più e del meno con grande semplicità. Una curiosità: Fiorenzo Fiorentini, quando non recitava, era balbuziente. Ebbene, con me parlava speditamente, appena inciampando ogni tanto solo al telefono. In quel periodo lo andai a trovare a casa sua, parlammo del progetto e mi disse che attendeva La Torre tra pochi giorni. Poi il progetto fu rimandato. Enzo non venne mai. Sparì quasi nel nulla: in giro per l’Italia alternando i normali spettacoli di prosa con uno spettacolo di varietà con me e Mila Nistri in ditta e con, di volta in volta, un cantante o un’attrazione famosi, seppi che era morto. Senza essere riuscito a compiere quella che sarebbe stata certamente una carriera favolosa. 66 18. LUCA SPORTELLI Quando, tramite l’amico Juzzo Muscuso, fui scritturato da Guido Leontini per il ruolo del cavaliere Amore nella commedia L’Eredità dello zio Canonico, fui piacevolmente impressionato dal cast dello spettacolo: accanto a Guido, oltre al sottoscritto ed a Juzzo, c’erano la simpaticissima sua compagna Ele Ganvioni, Maria Pia Orsini, Luca Sportelli, Teresa Bruni, Melo Leontini, Pippo Tuminelli, Giorgio Mattioli, Anita Pizic ed il piccolo Robertino Palleschi. Tutti appassionati e innamorati del nostro lavoro. Alla riunione di compagmia familiarizzammo, parlammo scherzando su varie cose di teatro, quindi leggemmo il testo, ognuno la propria parte. E andò tutto benissimo: ciascuno dette involontariamente o volontariamente una sua parvenza di interpretazione alla parte che gli era stata assegnata, ed alla fine a tutti sembrò che, come prima lettura, tutto fosse andato nel migliore dei modi, sicché abbandonammo la sala soddisfatti. La sera successiva, Guido mi chiamò in disparte e mi fece presente che, dovendo il personaggio interpretato da Luca Sportelli ad un certo punto fumare alcune boccate di sigaretta e non sopportando Luca il fumo, avrei fatto al collega un grande piacere se avessi accettato di scambiare con lui la parte. I due ruoli erano della stessa importanza, entrambi di soddisfazione, perciò non ebbi difficoltà alcuna ad eccettare il cambio. Senonché… Leggemmo la parte. Ma, mentre il primo giorno era filato tutto liscio, questa seconda lettura fu un disastro. E alla fine Guido era distrutto: ― Ero tanto felice, ieri, ma oggi… Luca ed io, forse condizionati inconsciamente uno dall’altro, 67 non eravamo entrati affatto in parte; certo entrambi avremmo poi creato benissimo il personaggio, ma dato che la sera prima era andato tutto benissimo, Luca rise di cuore: ― Vuol dire che mi sacrifico e fumo… Ognuno riprese il suo ruolo; e Franco Lattanzi, il regista, poté montare lo spettacolo. Da quella sera Luca ed io diventammo amici. Lo accompagnavo dopo lo spettacolo alla stazione di Ostia alla Piramide dove lui prendeva il treno che lo portava a casa. Facemmo insieme anche qualche serata, poi ancora insieme lavorammo per le scolaresche con lo spettacolo di Fabbretti e Mazzoleni, C’è una volta Bertoldo. Lui, che era un noto caratterista del cinema e che in teatro era stato un’ottima spalla e un eccellente caratterista in varietà e che per anni era stato al fianco di Macario, accettava umilmente di lavorare per i ragazzi. Ma ovviamente la cosa era molto provvisoria. Infatti dopo poco fu scritturato da Franco Enriquez per una memorabile messa in scena di Il Gattopardo dove sostenne da par suo il ruolo che nell’edizione cinematografica era stato di Burt Lancaster. Io quell’edizione del capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa non potei vederla, impegnato com’ero al Teatro dei Satiri con lo spettacolo Il diavolo ha gli occhi verdi, ma tutti quelli che lo hanno visto mi hanno riferito che la sua interpretazione era magistrale, e non seconda a quella del famoso divo americano. Cosa che non mi meravigliò conoscendo la bravura e la serietà di Luca. Tornammo a lavorare insieme in un nuovo spettacolo per la scolaresche e fu durante una rappresentazione che lui si sentì male e fummo costretti a sospendere le recite. Io tornai a fare per qualche tempo varietà, o meglio “cabaret” con Lydia Raimondi, Giosjana Pizzarro, Paolo Procaccini e quindi teatro, un po’ di cinema, serate… Ma con Luca non mi è più capitato di lavorare, anche se una volta io e Laura Sestili fummo contattati per entrare a far parte con lui di una compagnia di prosa comica insieme ad Alfredo Rizzo, che sarebbe stato anche il regista, e che aveva l’ambizione di riunire un gruppo di attori che avevano lavorato con Macario… Ma la cosa si arenò… come tantissime altre cose, lasciando il posto ad altri progetti, alcuni dei 68 quali, come tanti altri progetti, andarono in porto. Ma in nessuno di questi progetti c’è mai più stato posto per entrambi. 69 19. FANFULLA Nei lunghi periodi invernali, durante la mia fanciullezza, nell’uggia di giornate piovose e nelle quali l’unica cosa che potevo fare, e che non volevo fare, era studiare, spesso me ne andavo bighellonando qua e là senza una meta, per le strade della mia città. Me ne andavo fantasticando tra la gente che non vedevo, che non sentivo e della quale non mi importava niente, tutto compreso in un mondo tutto mio dal quale mi distraevano soltando le edicole dei giornali e i manifesti dei cinema. Andare al cinema mi piaceva, anche se tra tutti i ragazzi miei coetanei ero forse l’unico al quale non interessava fare l’attore. Però, quando arrivava a Cosenza qualche compagnia teatrale, per lo più di varietà, ma talvolta anche di prosa, il mio interesse era attratto da quelle particolari locandine e da quei grandi manifesti colorati con i nomi degli artisti scritti a caratteri cubitali che le annunciavano. Non che sognassi il mio nome scritto in futuro su uno di essi, dato che in realtà quello era per me un mondo veramente sconosciuto, ma perché quel mondo, che dietro quei manifesti si celava, stuzzicava la mia fantasia. Mi faceva sognare, come il mondo celato dietro le copertine dei giornaletti di Tex, di Tom Bill o di Kansas Kid, o dietro le copertine dei romanzi esposti nelle vetrine delle librerie, o dietro i già citati manifesti cinematografici. Ma mentre al cinema ci andavo, i giornaletti li leggevo ed i romanzi pure, visto che a casa mia non mancavano di certo nelle librerie insieme a libri di cultura, di storia, di legge, del teatro avevo solamente sentito parlare da mia madre e conoscevo solo alcune arie di opere liriche che mia nonna soleva cantare la sera, forse nostalgicamente ricordando la sua lontana gioventù. Dei tanti nomi che ogni anno appariva70 no sui muri, ne ricordo molti, ma quello che colpì la mia fantasia, chissà perché, fu solo uno: Fanfulla! Anni dopo, fine anni cinquanta, inaspettatamente, Fanfulla entrò nella mia vita. Peppino Roberti stava preparando una compagnia della quale avrei dovuto essere il comico e Franco Castiglione (attore, impresario, amministratore, uno dei padroni del vapore dell’avanspettacolo) gli propose di mettere in scena un testo di L.V. (Luigi Visconti). Chiesi chi fosse. ― Fanfulla! È il vero nome di Fanfulla. Fu la lapidaria risposta di Roberti. Fanfulla in Galleria, pur se non veniva quasi mai, qualche volta lo avevo visto, ne avevo sentito parlare e certo non avevo dimenticato il suo nome scritto sui vecchi manifesti che leggevo nella mia fanciullezza. Era un mito, e non solo per me. Attore di razza, comico raffinato, elegante, ha avuto una carriera a mezza via, come diceva qualcuno: troppo grande per essere uno dell’avanspettacolo, incompiuto per non essere riuscito ad entrare definitivamente nel giro delle grandi compagnie di rivista e commedie musicali. La leggenda vuole, ma in realtà è storia, che, scritturato dalla compagnia di Wanda Osiris, quale comico assoluto, non si sia messo d’accordo sul nome in ditta che la Wandissima gli aveva proposto magnanimamente, affiancandolo al suo, all’epoca tanto grande da bastare da solo a garantire ogni spettacolo. La compagnia sarebbe stata “Wanda Osiris ― Fanfulla”. Ma lui si impuntò. In rivista il primo nome spettava al comico e quindi la ditta doveva essere “Fanfulla ― Wanda Osiris”. Risultato, la ditta fu “Wanda Osiris ― Macario”. Questo è quanto si diceva in galleria e questo è quanto mi è stato confermato da Dino Rosaspina, saltuariamente mio attore di spalla in qualche “spedizione punitiva” e, all’epoca dei fatti, amministratore della compagnia della Wandissima. E Fanfulla tornò alla testa della sua compagnia: la migliore tra le compagnie della gloriosa “serie B della rivista”, famosa sul finire degli anni quaranta. Per me fu un autentico Maestro. Mi accolse con una vigorosa stretta di mano nella sua casa di via Faà Di Bruno, insieme alla simpaticissima vecchia madre, la famosa Diavolina, in gio71 ventù valente Artista. Io avevo una certa soggezione, la avevano un po’ tutti; il fatto che fosse in credito grandissimo con la fortuna, il fatto che non fosse riuscito a diventare come Rascel o Macario o Dapporto, malgrado ne avesse le capacità, lo rendeva simpatico, ma quel suo fare apparentemete distaccato, aristocratico, lo rendeva misterioso ed inavvicinabile. Quello spettacolo, come tanti altri, non andò in porto ed io ci rimasi malissimo. Sotto la sua regia avrei avuto la possibilità di apprendere tante cose: i segreti del mestiere. E ci rimase malissimo anche lui. Aveva la voglia di insegnare, di creare e, forse, aveva pensato di creare anche me. A partire dal nome. Mi fece cambiare il nome anagrafico (Giuseppe Luigi, ma lui sapeva solo Giuseppe) in quello di Gino, lasciando inalterato il cognome Serra, che lui riteneva teatrale. Il nuovo nome fece piacere a mia madre che me lo aveva proposto quando avevo cominciato a recitare, e che in una lettera (che ancora conservo) mi ricordò che era stata lei la prima a sceglierlo. Leggendo il copione mi spiegava il perché di certe intonazioni e l’effetto delle pause, l’importanza dei tempi e soprattutto la fedeltà al testo. ― Tu sei in grado di svolazzare a destra e a manca e sei abbastanza intelligente da sapere quando ti devi fermare. Ma ricordati sempre che su mille persone che sono in sala, almeno sessanta sono di un certo livello. Tu devi farli ridere tutti i mille, ma per far ridere i novecentoquaranta non far mai in modo da disgustare i sessanta. Sono loro quelli che qualificano il tuo spettacolo. Talvolta lo incontravo per strada, avevo paura di disturbarlo, ma era lui stesso che mi chiamava, che mi parlava di teatro, che mi dava consigli, sempre. Altro che inavvicinabile! Alto, un po’ massiccio, fu sempre delicatissimo in scena, spesso portando un teatro surreale che anche al giorno d’oggi andrebbe valorizzato. “Sentivo una voce che diceva: ― Non gioco più, non gioco più, non gioco più ― veniva dal bagno, sono entrato con circospezione, indovinate chi era? Il lavandino che perdeva” oppure “Stanotte mi ha svegliato un rumore di passi nella stanza. Ho acceso la luce, non c’era nessuno, ma i passi continuavano; ho teso l’orecchio, il rumore dei passi pro72 veniva dall’armadio, l’ho spalancato di colpo e… era un mio vecchio abito che passava di moda”. Negli ultimi anni era malato, ma non si arrendeva mai, sempre alla guida della sua compagnia, sempre con spettacoli degni del suo nome e della sua classe. In uno degli ultimi faceva coppia con un altro grandissimo, Alberto Sorrentino; in una scenetta dove l’uno era un autore e l’altro un dirigente TV al quale l’autore proponeva i suoi lavori, i due ricamavano un duetto che a buon diritto si sarebbe potuto proporre come esempio di alta comicità alle nuove generazioni di comici. Fu poco attivo nel cinema, ma proprio il cinema ce lo ha tramandato come attore drammatico di rara potenza. Nel film Totò e Marcellino disegna il personaggio di un delinquentuccio di borgata con accenti tragici, patetici e umani che classificano Fanfulla Visconti (così appare nei titoli del film) come un grande attore completo. Il giorno successivo alla sua morte, avvenuta in un albergo di Bologna mentre era in attesa di recarsi a teatro per lo spettacolo, un giornale ne pubblicò un bel “ricordo”, terminando: resta il rammarico per “quel che poteva essere e non è stato”. Per quel che non è stato riconosciuto, dico io, perché quel che sarebbe potuto essere, almeno per chi lo ha conosciuto, Fanfulla è stato. 73 20. ALBERTO GIGLIO Era la “spalla” per antonomasia, Alberto Giglio, nei teatri dell’avanspettacolo minore. Dopo essere stato attore e organizzatore per anni di spettacoli teatrali di ottimo livello ed aver calcato le scene di teatri importanti, forse anche per desiderio della moglie Anna De Giorgi, che voleva finalmente stare un po’ vicino al figlio Massimo ormai quasi giovanotto, decise di dedicarsi ad un genere che non lo costringesse a lunghe ed estenuanti tournées. Finì così per fare la spalla fissa a Ciro Castiglia e, di volta in volta, quando se ne presentava l’occasione, ad altri comici in spettacoli occasionali a Roma e dintorni. Uomo colto e serio, ma anche dotato di una pungente ironia, sapeva adattarsi perfettamente alle esigenze di qualsiasi comico, inventandosi di volta in volta, quando la scena lo richiedesse, anche interpretazioni caratteristiche di grandissimo successo, che lui eseguiva quasi come un estemporaneo divertimento. Prendeva in queste sue particolari evasioni risate e applausi a scena aperta, tanto che qualcuno gli propose più di una volta di fare il comico. Diceva non ho le physique du rôle e rifiutava. In effetti era un bell’uomo, già di una certa età quando l’ho conosciuto io e non aveva l’aspetto di quello che tradizionalmente era “il comico”. Ma in realtà aveva preparazione artistica e simpatia che gli avrebbero consentito di coprire quel ruolo con successo, solo che lui avesse voluto, ma non voleva. Una volta mi confidò con una battuta delle sue: ― A fare il comico mi sentirei ridicolo… Forse fu per questo motivo che, venuto a mancare per un improrogabile impegno (probabilmente aveva trovato una scrittura meglio pagata) il comico Mario Grimaldi (al quale qualche 74 volta avevo fatto da spalla anch’io), un giorno, mentre provavamo alla sala di Terziano in via Leccosa lo spettacolo Peter Pan nel quale io avevo un ruolo da caratterista, mi chiamò in disparte e mi disse: ― Tu sei molto bravo, te la senti di fare il comico in ditta all’Oriente sabato e domenica? Fare il comico era la mia ambizione, ma per lo spettacolo? Chi mi avrebbe fatto da spalla? Quale sketch avremmo recitato? Pensò a tutto lui. Provammo un paio di volte con Annarella, Ety Silva e lui, e il sabato debuttammo. Fu un successo. Ricevetti i complimenti di tutti, anche di Ugo Brunelli, cantante romano in voga in quegli anni. Alberto mi disse: ― Bravo! Hai visto, ti ha fatto i complimenti anche Brunelli. Sei contento? I complimenti me li fecero tutti: Anna De Giorgi, Ety Silva, gli orchestrali e, la domenica sera, anche Mario Grimaldi arrivato in tempo per vedermi nell’ultimo spettacolo. Avevo poco più di vent’anni, sapevano tutti che era la mia prima volta da comico assoluto, ero andato bene, e nessuno mi fece mancare il proprio plauso di incoraggiamento. Ero contento, sì! Ma il più contento di tutti era proprio Alberto Giglio. Generoso e spontaneo, l’ho visto sempre godere del successo di ognuno, sempre tirandosi in disparte, sempre minimizzando il proprio operato. Grande meraviglioso amico e maestro. Non si contano gli artisti che hanno cominciato con lui: comici, attori, cantanti, orchestrali… Tutti a lui grati. I primi tempi, quando ha cominciato ad interessarsi di Teatro, ne ha fatto debuttare tantissimi nei maggiori teatri. Poi man mano che i costi d’una compagnia di giro diventavano insostenibili per chi non avesse una organizzazione apposita, aveva ristretto sempre più il suo giro d’azione, ma non aveva mai abbassato la qualità dei propri spettacoli, né aveva fatto esordire elementi che non fossero di sicuro valore artistico. Mai aveva mandato alcuno allo sbaraglio. Era rigorosissimo nella sua semplicità. Mai uno strillo, mai un rimbrotto, sempre col sorriso sulle labbra, ma sempre esigente il massimo possibile da ognuno. “Non la luna, ma il massimo impegno e la massima serietà” diceva, spiegando dove si era sbagliato e facendo 75 pausa caffè perché ognuno metabolizzasse quello che si era detto, prima di riprendere le prove. Non faceva pesare mai niente a nessuno. Poi si ammalò e dopo anni di doloroso calvario, curato amorevolmente dalla moglie Anna De Giorgi e dal figlio, mai abbandonato dai suoi amici che accoglieva sempre col suo solito cordiale sorriso, un triste giorno si spense. Al funerale incontrai tanti artisti, alcuni anche noti, tutti che avevano cominciato con lui, o che con lui avevano lavorato: tutti a lui grati. Tornai verso casa proprio con Mario Grimaldi. Andammo a prendere un caffè. Prima di bere, dinanzi a quelle fumanti tazzine di caffè, Mario, con gli occhi ancora arrossati dal pianto mi disse: ― Avimmu persu nu grand’amicu (abbiamo perso un grande amico). Poi mi mise una mano sulla spalla e mi strinse a sé in un fraterno abbraccio. 76 21. DINO ROSASPINA Carlo Rosaspina fu un ottimo attore teatrale, ma è ricordato nella storia del teatro per essere stato primattore in una compagnia a soli diciassette anni e per aver tenuto a battesimo quale primattrice, in quella compagnia e a quell’età, nientemeno che Eleonora Duse, di pochi anni più giovane, destinata a diventare la più grande attrice italiana della sua epoca e una delle più grandi di sempre nel mondo. Quando ho cominciato a recitare i Rosaspina in teatro erano due: Cesare e Dino (Eduardo); erano i figli di Carlo. Cesare recitava, ebbi modo di conoscerlo, di vedergli fare la spalla all’Altieri, ma purtroppo poco tempo dopo seppi che era morto. Dino, del quale ignoravo l’esistenza, lo conobbi in Galleria Colonna. Me lo presentarono come amministratore di compagnie di giro importanti. Ma lui si schermì “Sì, ho fatto anche quello, ma sono pure un attore”. La cosa finì lì. Ma Dino Rosaspina era un personaggio incredibile, capace di mille trovate: stava per cominciare una cosa e ne pensava altre cento e spesso non portava a termine quello che aveva cominciato a fare, perché già stava pensando di imbarcarsi in una nuova impresa. Essendo però un super attivo, talvolta gli capitava di concludere l’impresa appena pensata, per cui non poteva più lasciarla per intraprenderne una che certamente già gli bolliva nel cervello. Un giorno in via dei Mille stava concludendo con un impresario uno spettacolo nel quale in ditta c’era il mio nome insieme ad un “Dino Rosi” che poi mi confessò essere uno dei suoi nomi d’arte. Non andò in porto, perché, come mi spiegò dopo, gli era venuta un’idea migliore che mi avrebbe comunicato a suo tempo. Andammo infatti, a recitare vicino Terni, con una di77 screta formazione della quale facevano parte con me e lui, Franco Valle, Umberto Moriconi, che conobbi in quell’occasione, Lucia Varrone, le sorelle Valentini ecc… Un teatrale, cioè solo teatro, senza film. Fu un discreto spettacolo, ché la qualità degli artisti era ottima pur se la preparazione inesistente. Il pubblico accorse abbastanza numeroso, ma il paese era piccolo e gli incassi insoddisfacenti. Tornammo a Roma alla spicciolata. Io tornai con Franco Valle e Lucia Varrone, miei amici da sempre. In Galleria, qualche giorno dopo, Dino diede la colpa al fatto che il paese fosse piccolo, ma spiegò che alla prossima occasione ci saremmo rifatti. Intanto qualche volta andavamo a cena o a pranzo insieme, con noi veniva pure Franco Valle; ma più che parlare di lavoro, loro due parlavano di sport, calcio, ma talvolta anche pugilato o ciclismo. Tempo trascorso piacevolmente, entrambi erano abili e simpatici conversatori, ma infruttuosamente. Raccontava spesso dei suoi trascorsi come amministratore di grandi compagnie, ci parlava di Wanda Osiris e di Macario, dei grandi teatri, ma non ci diceva mai perché avesse abbandonato quel mondo al quale sembrava ancora tanto attaccato. Una sera, passando per corso Vittorio verso le otto mi disse: ― Andiamo a mangiare due supplì: poi a teatro a vedere Macario. Macario era al Valle con Maria Fiore nella commedia La bella Rosina, e a me sarebbe piaciuto tantissimo andarci, ma gli feci presente che non avevo i soldi del biglietto. Sorrise: ― Vieni con me, ci mancherebbe altro, se ci sono i posti non c’è problema. I posti fortunatamente c’erano. Lui, ben accolto, salutò alcuni vecchi amici e mi presentò loro. Entrando in sala mi disse: ― Potevi metterti una camicia. Abbottonati almeno il colletto. Io, che ovviamente non pensavo minimamente di andare a teatro quella sera, indossavo per fortuna sotto la giacca una magliettina bianca con colletto che, una volta allacciato dava l’impressione di una camicia, seppur senza cravatta. Lo spettacolo mi entusiasmò, per la bravura degli interpreti, per i costumi, per le scene. Poi andammo a mangiare una pizza. E in pizzeria Dino 78 mi narrò di come una volta in un casinò, preso dal demone del gioco, avesse buttato alle ortiche in una sola puntata l’intero incasso della compagnia. Procurò un danno enorme all’impresario ma questi non lo denunciò. Con quel gesto però aveva dato l’addio per sempre alla possibilità di tornare a fare l’amministratore di compagnia. Ora comunque aveva tanti progetti… Pochi giorni dopo venne con un manifesto, già stampato, in mano. C’era il mio nome in ditta e tanti altri nomi, alcuni veri, altri di fantasia, e un titolo a caratteri cubitali che annunciava uno strip–tease. ― Ti porto a Fiumicino con un signor spettacolo. Mi disse. Io a Fiumicino si può dire che fossi di casa. In due anni c’ero stato tre o quattro volte con Alvaro Dini (gli facevo da spalla), due volte con Roberto Berti che mi faceva da spalla, e questa era la sesta o la settima volta. All’arrivo in paese, notai che i nostri manifesti erano dovunque, però notai anche come il titolo fosse coperto con uno striscione anonimo. In Teatro i fratelli Romani, gestori del cinema teatro “Trionfo”, ci spiegarono che avevano così deciso le autorità, trovando il titolo offensivo. Rosaspina fu contrariato e paventò che si facesse forno (fare forno, in gergo teatrale, significa non avere pubblico). Contrariamente alle sue pessimistiche previsioni andò invece tutto bene, incasso compreso. Alla fine era entusiasta. ― Faremo grandi cose! Ho tante idee… Poi ci perdemmo di vista perché partii in tournée. Lui si ritirò per un periodo di tempo in un paesetto vicino ad Amatrice. L’estate successiva in galleria racimolò tantissimi artisti per una eccezionale festa in piazza in quel paese: due comici, ben quattro attori di spalla, due orchestre, tanti cantanti, tre attrazioni. Tutti in festa. Tanti soldi promessi, uno spettacolo da favola. Io di favoloso ricordo il pranzo: ogni artista era ospite in qualche locale. A me toccò una trattoria dove c’era un pranzo di nozze. Quando credevo di aver pranzato anche abbondantemente, mi accorsi che il pranzo vero stava appena per cominciare. Da quel momento in poi assaggiai soltanto i vari piatti, ciononostante alla fine ero groggy, né mi rimisero in sesto l’amaro 79 finale e due caffè. Non so come avrei fatto a recitare. In qualche modo ci sarei riuscito; ma ad un certo punto mi fu comunicato che erano sorti dei problemi, che lo spettacolo non si sarebbe potuto fare. Gli artisti andarono via alla spicciolata, chi con i mezzi propri, chi in autostop su automobili fermate dalla polizia. Essendo già partiti il cantante e la cantante che mi avevano accompagnato la mattina, con questo tipo di autostop autorizzato e garantito dalla polizia tornai a Roma anch’io. A bordo di una bella automobile insieme ad una famigliola simpatica e felice che tornava a casa dopo aver trascorso una bella giornata al lago. Il giorno seguente il mio stomaco pagò le conseguenze di quella memorabile abbuffata ed io non potei andare in galleria; lui ci andò e mi lasciò detto che partiva per nuove piazze e che ci saremmo rivisti al più presto. Aveva tanti progetti, ma da allora io non l’ho incontrato che poche volte, sempre indaffarato, sempre con in mano un grosso affare da realizzare, sempre di corsa: ― Grosse cose, vedrai. E ogni volta spariva. E la sua assenza diventava sempre più lunga. Poi io raggiunsi la Compagnia di Moriconi ed il capitolo Dino Rosaspina per me si concluse così. Almeno per quel che riguardava il teatro, perché un giorno mi chiamò per farmi fare una comparsata in TV (allora la TV era solo Rai) ed io andai a registrare, confuso tra vari figuranti, la sigla di uno spettacolo allo stadio Olimpico. La sera mi chiamò per sapere se era andato tutto bene. Mi salutò promettendomi come sempre grandi cose. Pensai che in RAI si fosse in qualche modo sistemato. Seppi invece che aveva solo avuto una scrittura come suggeritore e che, per caso, aveva conosciuto una specie di capogruppo dei figuranti, grazie al quale aveva ottenuto una scrittura di un giorno per me e per altri suoi due amici. Lo ringraziai per il pensiero. Certo era un amico, peccato che le grandi produzioni che sognava non si siano mai realizzate. Sono sicuro che gli amici li avrebbe fatti lavorare tutti. E sono sicuro che ancora sogna grandi cose ed ancora crede che un giorno quelle grandi cose le realizzerà. 80 22. FRANCO VALLE Genialità e pazzia credo che non si siano fuse mai così bene in nessun essere umano come in Franco Valle. Dotato di una mente fervida, artista immenso sulla scena, sapeva recitare, cantare, ballare; era capace di scrivere una canzone in pochi minuti e di inventare un scenetta comica in un lampo. Bohémien per vocazione, viveva alla giornata, bighellonando da un capo all’altro di Roma, o meglio del centro storico di Roma, delimitato nella sua mente da ponte Vittorio, ponte Garibaldi, piazza Argentina, piazza Venezia, via Nazionale, Stazione Termini, Piazza Barberini, via Veneto, piazza di Spagna, piazza del Popolo, Corso Vittorio, e, occasionalmente, zone appena confinanti. Al centro c’era, ovviamente, piazza Colonna, dove quasi ogni giorno era possibile incontrarlo. E lì l’ho conosciuto io. Me lo presentò Alvaro Dini, dipingendomelo, come sempre usava fare, in maniera perfetta. ― Un grandissimo Artista, ma anche inaffidabile matto. A mie spese imparai che era proprio così. E non sono stato il solo ad aver imparato a proprie spese quanto fosse grande come artista e quanto fosse indicibilmente matto come uomo. Attori famosi lo ammiravano e gli concedevano la loro amicizia, non riuscendo a staccarsi da lui nemmeno quando ne scoprivano le mille marachelle di uomo, affascinati come erano dalla sua genialità di Artista e imbambolati dalla sua incredibile capacità di rigirare le frittate in modo tale che la ragione era sempre e solo dalla sua parte. Una volta non si presentò ad un appuntamento con cinque amici che lo attesero invano per una serata intera; ebbene, il giorno dopo, in Galleria si mostrò adiratissimo per la 81 “buca” che gli avevano dato e con argomentazioni varie e fantasiose, seppur non li convinse del fatto che loro non c’erano, riuscì a convincerli del fatto che lui c’era e che loro forse avevano sbagliato luogo, magari di pochi metri. Un giorno, uscendo di galleria, mi si accodò e mi seguì, consigliandomi, adulandomi, pronosticandomi un avvenire radioso, e nello stesso tempo scroccandomi in una modesta trattoria un più che modesto pranzo, durante il quale fece di tutto per mostrarmi quanto valesse per meglio conquistarsi la mia fiducia. La cosa si ripetè per qualche tempo, finché, quasi senza accorgermene, ci trovammo a poco a poco a fare vari progetti, fino a programmare uno spettacolo tutto nostro. Il suo valore era indubbio, aveva tantissime conoscenze, la cosa mi sembrò fattibile. Per lunghe giornate camminammo per il centro di Roma, alternando sogni a progetti possibili, parlando del più e del meno, inventando passaggi comici e sketches, quasi preparando un repertorio vastissimo e intercambiabile per spettacoli di tutti i tipi, anche per due soli personaggi. In tanti mi mettevano sull’avviso. ― Guarda che quando meno te lo aspetti ti pianta in asso con tutta la compagnia, magari dopo avervi mandato in una piazza dove dirà di aver programmato uno spettacolo, cosa che non risulterà vera. L’ha già fatto con Sampieri. La cosa mi sembrava strana, ma siccome Gianni Sampieri era un mio amico, un bravo comico ed una persona seria, chiesi a lui se fosse vero quanto mi avevano detto. E Gianni, ancora sbalordito al ricordo dell’episodio, me ne confermò la veridicità. Ma Franco non fece mai nulla che potesse insospettirmi. E al riguardo dell’episodio, quando gliene parlai, mi disse che era vero, ma che loro avevano sbagliato paese, facendo fare a lui una brutta figura col gestore del locale, col quale comunque aveva pensato a mettere a posto le cose, per cui anche noi saremmo andati a lavorare in quel teatro quanto prima. Tra le altre cose avevamo pensato di mettere su un numero di attrazione con Lucia Varrone, una ballerina nostra amica che aveva lavorato anche in grandi compagnie e che sarebbe stata ben felice di 82 riesumare un vecchio numero nel quale lei faceva il pupazzo chiuso in una valigia. Il numero, di grande effetto, era stato portato per anni nei circhi e nei teatri dal celebre “trio Amadori”, del quale Lucia era una componente. Non so se Amadori avrebbe dato il benestare per riesumarlo, ma quel numero non lo montammo mai. In compenso passammo a casa di Lucia e della sua simpaticissima anziana madre serate meravigliose che terminavano sempre tardissimo con un caffè e un “ammazza caffè”. E prendemmo intanto parte ad alcuni spettacoli, noi come coppia comica e lei come ballerina, in paesi nei dintorni di Roma o in Umbria. Soldi quasi niente, successo tantissimo. Franco ed io certe sere dovevamo fermarci per qualche secondo perché le risate del pubblico ci impedivano di continuare e, quando ci fermavamo, le risate spesso aumentavano di intensità. Forse stavamo preparandoci a fare davvero qualcosa di buono. La coppia era affiatata e gli sketches ed i Black–out funzionavano. Franco, nella vita, per la verità qualche estrosità la palesava. Scroccava il caffè a chi poteva, si presentava in casa di gente, che aveva appena conosciuto, all’ora di pranzo e, all’immancabile “volete favorire”, rispondeva con un furbo sorriso: ― Non vorrei dar fastidio… Ma se è per farvi piacere… ma sì, sarà un piacere per tutti… ma non state a preoccuparvi, mangeremo quel che c’è… Qualche volta spariva, qualche volta mancava agli appuntamenti, qualche volta per sbaglio dimenticava di pagare al bar, ma erano tutte mancanze alle quali trovava sempre una scusa plausibile. Fare rivista e varietà era il nostro sogno, ma quando io passai alla prosa con Umberto Moriconi, per un periodo venne anche lui a far parte della compagnia. Faceva i ruoli che di volta in volta serviva ricoprire e lo faceva con grande bravura ma con scarso entusiasmo, entusiasmo che metteva invece nella farsa finale, dove mi faceva da spalla formando con la bravissima Mila Nistri e con me un trio comico di sicuro effetto. Carattere estroso, libero, irrequieto, sempre incapace di prendere una decisione definitiva, dopo qualche tempo se ne tornava a Roma in cerca di non si sa che cosa, per poi inaspettatamente tornare in 83 compagnia come se niente fosse. In estate spesso mi faceva da spalla nelle feste di piazza, sempre con successo, ma talvolta mi dava buca ed io ero costretto a farmi fare da spalla da questo o quell’attore o dal presentatore, recitando scenette che loro conoscevano ed adattando a quelle la mia comicità. Una volta in un teatro romano non si presentò ed io, privo di spalla e senza nessuno che sapesse recitare, fui salvato da Nino Villa che si offrì di fare il comico se io gli avessi fatto da spalla. Da allora il nostro sodalizio, già traballante, si incrinò, ma l’anno successivo un giorno mi propose di andare a Perugia in un istituto a fare uno spettacolo in due. Per paura che mi desse una fregatura, chiamai il direttore ed ebbi la conferma che lo spettacolo era in programma. A Perugia, dopo avermi presentato al direttore, mi pregò di andare in camerino dove mi avrebbe raggiunto poco dopo. Infatti dieci minuti dopo arrivò eccitatissimo: ― Mi raccomando, dacci dentro. Dobbiamo fare un successone! Faremo così… E giù il programma, con un entusiasmo che non aveva mai avuto prima. La cosa ovviamente mi fece piacere. Entrambi montati al punto giusto, ottenemmo un grandissimo successo, lui anche come cantante, accompagnato dall’orchestra in scatola, cioè con la base registrata. Ma lui ogni tanto mi chiedeva: ― Mi pare che si divertono. È un buon successo? Non lo avevo mai visto preoccuparsi tanto che lo spettacolo piacesse al pubblico; anzi, fino allora, se qualche volta una gag non otteneva il successo desiderato diceva che il pubblico non aveva capito. Lo rassicuravo: ― Sì che va bene! Non senti gli applausi? Continuiamo a darci dentro. E avanti per quasi tre ore. Alla fine, stanchi, fummo gratificati da applausi numerosi e convinti. ― Meno male! Vado in direzione a prendere i soldi. E si avviò, quasi preoccupato. Tornò raggiante poco dopo. Mi abbracciò quasi urlando: ― Tutto bene. Bravo… Ci hanno dato tutti i soldi… trecentomila lire… ― Beh, scusa, perché non avrebbero dovuto darceli? 84 Mi meravigliai. Poi più meravigliato ancora esclamai: ― Trecentomila lire… tante? Mi guardò sorridendo felice ed emozionato: ― Già, tu non sai, non ti ho detto… ma se te lo avessi detto non avresti recitato… E mi spiegò che aveva contrattato quella cifra per la compagnia al completo, ma poiché questa non c’era, aveva trovato la scusa che c’era stato un incidente nel quale erano rimasti coinvolti tutti i componenti la Compagnia tranne noi due e che lo spattacolo lo avremmo fatto bene anche in due, ma che c’era tutta la compagnia da pagare. Il direttore aveva detto che non se ne faceva nulla, e che al massimo ci avrebbe dato trentamila lire in due. A questo punto era stato Franco a dire che non se ne faceva nulla e così, tira e molla, si erano accordati che se lo spettacolo avesse fatto davvero successo ci avrebbe dato tutte le trecentomila lire, ma che, se non fosse piaciuto, non ci avrebbe dato neppure una lira. ― Per fortuna è stato un successone! Concluse Franco, saltellando felice mentre io cominciavo veramente a pensare che fosse matto, proponendomi di non fare mai più spettacoli con lui. Ma poi ogni tanto tornavamo a far coppia in scena. Finché… Una sera, dopo avermi dato una serie di fregature, cercò di imbambolarmi per l’ennesima volta. Ma la misura quella volta era colma. Cercò di piantarmi in asso per non darmi una spiegazione, entrando in un portone e dicendomi di aspettarlo un minuto. Ma si era dimenticato che quel portone a doppia uscita lo conoscevo pure io. E fu a quella seconda uscita che lo bloccai. Divenne pallido e per la prima volta non cercò di inventare una scusa. Io lo acchiappai per il colletto, lo spinsi contro il muro e gli urlai: ― Non sei mio padre, non sei mio figlio, non sei mio fratello, non sei niente, quindi sparisci: non farti mai più vedere, perché, la prossima volta che ti vedo, prima ti ammazzo di botte e poi parliamo. Non disse una sola parola. Voltai le spalle e lo lasciai lì senza uno sguardo. Da allora non l’ho più visto. Qualche volta, 85 mentre recitavo in qualche teatro a Roma, pensai che sarebbe venuto a trovarmi con la faccia tosta di sempre. Invece no. Dovevo essere stato abbastanza convincente, quella sera, davanti a quel portone. 86 23. ROMEO D’AMICO E JOLE PUPETTA Una coppia particolare nell’avanspettacolo degli anni cinquanta e sessanta era quella formata da Romeo D’Amico e Jole Pupetta. Non ho avuto modo di conoscerli personalmente, ma ricordo che ogni volta che il loro nome era in cartellone in qualche teatro di varietà, se potevo, andavo a vederli. Ciò vuol dire che avevano qualcosa di particolare, di valido, di diverso. Gli spettacoli di avanspettacolo avevano praticamente un canovaccio quasi uguale per tutti. C’era il comico con la spalla, c’era un secondo attore, la soubrette, qualche volta un’attrice caratterista, c’era il balletto ed un cantante (meglio donna se era una) o due (maschio e femmina) e un’attrazione, un’orchestrina. Su questi si costruiva lo spettacolo, di un’ora circa, che andava in scena tra una proiezione e l’altra del film che era evidentemente lo spettacolo principale per cui quell’intrattenimento teatrale veniva considerato e classificato come avanspettacolo. Il canovaccio era il seguente: sigla musicale, presentazione (che spesso avveniva con due soubrettine, da sole o col balletto, che cantavano versi di presentazione appunto), seguiva un passaggio comico, quindi un cantante, poi il balletto, lo sketch centrale, il balletto, l’altro cantante (o lo stesso se era uno), l’attrazione, un balletto, il sottofinale con comico e spalla (o con comico solo, o con comico, soubrette e spalla) e finale con passerella, che in alcuni teatri minori non c’era e veniva sostituita da un giro davanti alle luci della ribalta, che ancora si usavano in tutti i teatri. I comici, quasi tutti, si attenevano a questo cliché consolidato che il pubblico aveva ormai accettato e che si aspettava. Cambiavano i testi, spesso scritti da umoristi di valore con pseudonimi. Devo segnalare che i comici e gli attori e tutti i 87 componenti le compagnie avevano un grande senso del dovere, una grande dignità ed un grande rispetto del proprio lavoro e del proprio pubblico. Quando sento dire, quasi con disprezzo, “roba da avanspettacolo”, vorrei invitare quei signori ad andare indietro nel tempo e ad andare a conoscere un mondo che merita il massimo rispetto. Purtroppo non c’è una macchina del tempo che possa permettere questo. Peccato! Romeo D’Amico e Jole Pupetta facevano avanspettacolo, ma, come dicevo, si differenziavano, come altri del resto, vedi Franco Nola per esempio…, da quello che era il classico comico di varietà, che basava la sua comicità sulla propria vis comica, sulla maschera personale o personalizzata, sulla situazione comica delle scenette, sui lazzi improvvisati o preparati. Loro, no. Basavano quasi tutto o per lo meno la parte migliore del loro repertorio sui duetti cantati, sui duetti brillanti, sulle parodie. Avevano una signorilità che si palesava in ogni momento della loro recitazione, anche quando i due nei ruoli di innamorati battibeccanti si insultavano. Nel loro litigare c’era già la gioia per la pace che immancabilmente avrebbero fatto alla fine della scenetta o del duetto. E anche nell’impostazione dei numeri dello spettacolo, spesso si differenziavano dal cliché tradizionale, magari inserendo un duetto o un litigio inatteso. O, forse, erano talmente imprevedibili nella loro linearità che facevano sembrare diverso l’andamento dello spettacolo che pure era uguale agli altri. Fatto sta che ricordo che, se avevo tempo, quando in cartellone c’erano loro, io andavo a vederli. E non me ne son mai pentito. Sono spariti nel nulla. In galleria non li ho mai visti. Un giorno Ciro Castiglia mi disse che aveva una bella scenetta comica che gli aveva dato Romeo D’Amico. Presi la palla al balzo e gli domandai cosa facesse. Mi disse che si era impiegato, in una banca mi pare… Certo il varietà aveva perso un personaggio importante. Molti anni dopo, sul finire degli anni settanta, mentre giravamo a Palombara Sabina le prime scene del film Io zombo, tu zombi, lei zomba, parlando durante una pausa con Ghigo Masino, all’epoca il maggior comico dialettale fiorentino, ma in pas88 sato noto comico di avanspettacolo col come di Rico Masi, a proposito di un impresario, dissi: ― Deve essere abbastanza vecchio. E lui mi corresse: ― È da tanto sulla breccia, ma ha cominciato presto. È un errore che fanno moltissimi. Lo facevano anche con la moglie di Romeo D’Amico, la Jole Pupetta. Credevano che avesse una certa età perché lavorava da molto tempo, ma era ancora giovane. Solo aveva cominciato prestissimo a calcare le scene. ― E ancor giovane le ha lasciate. Il grande Ghigo si fece serio, poggiò le mani aperte sulle ginocchia e sospirò: ― Già! 89 24. CARLO JANTAFFI Alto, imponente, intabarrato nel suo lungo cappotto nero, con la sciarpa al collo ed in testa il cappello, tipo Borsalino, nero, Carlo Jantaffi si aggirava in galleria camminando a passi molto lenti e osservando tutti e tutto con fare quasi sornione. Tutti lo salutavano con deferenza. E lui rispondeva con una cordialità ed una bonomia che contrastavano con l’aspetto austero e serio della persona. Era stato un comico popolarissimo in avanspettacolo. In gioventù era molto magro e la sua magrezza, unita all’altezza e alla lunghezza delle braccia, che in scena agitava e roteava con sapiente maestria comica, lo caratterizzavano fisicamente, mentre una abile recitazione gli consentiva di interpretare i vari personaggi secondo il suo stile, ma con grande rispetto dell’autore del testo, che spesse volte era lui stesso. Io, come tutti i giovani ed i giovanissimi attori, avevo per lui una grande stima e moltissimo rispetto. Al mio timido saluto rispondeva con un cenno del capo ed un accenno di sorriso. Mi sarebbe piaciuto molto essere suo amico ed ascoltare da lui storie di un teatro che ormai non esisteva più e del quale non sarebbero rimaste tracce se non nei ricordi dei vecchi che lo avevano conosciuto. Un mondo di ricordi destinato quindi a sparire nel giro di qualche lustro. Un mondo che doveva aver affascinato generazioni di spettatori e che, anche se io allora lo ignoravo, aveva incantato ed ispirato, per la sua poetica sensibilità, anche grandi personaggi come Alberto Sordi, che più di una volta in televisione avrebbe, in anni futuri, ricordato e descritto Carlo Jantaffi, Gustavo Cacini ed altri, e che all’avanspettacolo avrebbe dedicato un film, Polvere di stelle, che ne evidenzia miserie economiche e nobiltà di intenti. 90 Sentivo che Carlo Jantaffi aveva dentro tutta un’epoca, e sentivo anche che aveva la voglia di raccontarla, di immortalarla in qualche modo, e mi sarebbe piaciuto poterlo aiutare. Per non far morire un tempo irripetibile che personaggi come lui, come Cacini, come Campochiaro, come Bixio Ribechi custodivano nello scrigno dei ricordi, gelosamente, ma con la voglia di raccontarlo. E, per una strana predisposizione del destino, al quale sono e sarò sempre grato, in tempi successivi, io sono stato fortunato fruitore, almeno in parte, dei racconti di tali personaggi che mi hanno onorato delle loro confidenze e accordato la loro fiducia. Carlo Jantaffi me lo trovai improvvisamente di fronte nella sala prove di Terziano Petri in via Leccosa 23 il giorno della riunione della Compagnia organizzata da Valerio Valeri. Fui piacevolmente sorpreso e, dal modo come mi accolse, mi parve che lo fosse anche lui. Ci trovammo subito in sintonia. Mi prese a benvolere e mi promosse quasi a suo aiutante. Pensai che lo avesse fatto perché ero quello che più degli altri avrebbe eseguito i suoi ordini, perché il più giovane del gruppo. Certo avevo molto da imparare da lui, ma se avessi avuto qualche obiezione da fare, la avrei fatta, educatamente, ma la avrei fatta. Invece ci trovammo in perfetta sintonia. In tutto. E sempre. Tranne quando arrivarono, stampate, le locandine. A me non stette bene come avevano messo il mio nome e protestai anche in modo violento, minacciando di andarmene. Jantaffi quel giorno non c’era, ma all’indomani mi chiamò in disparte e mi disse: ― Fai conto che io non ho saputo niente di quello che hai combinato ieri. Lo sai che per poco non hai mandato all’aria la compagnia? Avevi ragione; del resto io avevo dato disposizioni per mettere i nomi come giustamente hai fatto notare tu, ma dovevi avvisare me, senza far baccano. Io so ancora come fare per sistemare le cose. L’anella so’ caduti ma le dita so’ rimaste… Certo l’avevo combinata grossa, rischiare di mandare in malora la compagnia, con le difficoltà che ci sono sempre state in teatro non era una cosa intelligente. Ma del resto era evidentemente destino che quella compagnia non andasse in porto. Si 91 sciolse, infatti, dopo poche serate a Roma e dintorni. Fortunatamente non si sciolse il rapporto con Jantaffi. Poco tempo dopo debuttai con Alberto Giglio in un fine settimana come comico assoluto al cinema teatro Oriente e i testi erano di Carlo Jantaffi. E poi con altri testi di Jantaffi recitammo in vari teatri del Lazio. E con Franco Valle, mentre preparavamo i nostri numeri, fummo qualche volta ospiti a casa sua per avere consigli, per ascoltare racconti di anni passati, per i quali ci diede lo spunto la televisione nella quale apparve una sera Ettore Petrolini, in un servizio giornalistico. ― Non avresti potuto essere più grande di quanto sei stato! Disse il commendator Jantaffi rivolgendosi spontaneamente al personaggio sullo schermo, come se fosse presente di persona, tanto che io mi guardai intorno per vedere a chi avesse parlato. E lui, accorgendosi del mio disagio: ― Ettore Petrolini, lo vedi in televisione? Grande, grande, grande… Quanto grande fosse la sua ammirazione per l’autore di Gastone e dei Salamini, del resto era testimoniato dal nome che aveva dato al figlio: Ettore. E, come avevo previsto, da allora più volte narrò della sua epoca d’oro, ma non come di una cosa importante, solo irripetibile. ― Non ci sarà mai e in nessun luogo un altro Ettore Petrolini. Purtroppo il tempo della sua vita terrena era ormai al termine e ad un ritorno a Roma da una tournée seppi che era morto. Andai a trovare il figlio Ettore e la figlia Maria per vedere se riuscivo a rintracciare una sua vecchia scenetta. La casa dei Jantaffi non era più quella a ridosso di piazza San Silvestro, il Carlo Jantaffi che la abitava era il piccolo figlio di Ettore, la scenetta non riuscimmo a trovarla. Carlo Jantaffi, il comico, il commendatore, il custode dei ricordi di un’epoca lontana, non c’era più. Ma chi lo ha conosciuto lo ricorderà sempre, io, insieme a lui, ricorderò il suo mondo, così come mi è arrivato attraverso i suoi racconti. 92 25. GUSTAVO CACINI Oggi a nessuno verrebbe in mente di dire a qualcuno che si crede importante: ― Ma chi sei? Cacini?! Eppure fino agli anni sessanta e oltre, la frase era ancora abbastanza usuale e i romani, e quanti a Roma vivevano, la conoscevano tutti. Anche se non tutti conoscevano Gustavo Cacini, comico romano, famosissimo, un tempo, tra i frequentatori dei teatri di varietà, ma noto solo per quella frase agli altri, che però sapevano che era un comico. Quando ho cominciato a frequentare l’ambiente del varietà, lui già da tempo si era ritirato dalle scene, ma era ancora presente nei discorsi degli addetti ai lavori e, di persona, era presente ogni mattina in via dei Mille, nella zona della stazione Termini, dove si incontravano i vari gestori di cinema e cineteatri di Roma e dintorni, perché in quella via, o nelle immediate vicinanze, c’erano le case che noleggiavano i films. E poiché parecchi capocomici o comici o attori si recavano lì per incontrare i gestori e trattare con loro qualche serata di varietà, Cacini in questo modo si teneva in contatto con quello che per anni era stato il suo mondo. Non l’ho mai visto in galleria. Me lo presentò Alvaro Dini, il comico Farfalla, come dovette spiegare a Cacini per farsi riconoscere. ― Farfalla! E come no? Come stai? Accennò ad alzarsi dal tavolo del bar dove ogni mattina si sedeva, ma Alvaro lo fermò. ― Sta’ comodo. Poi, rivolto verso di me. 93 ― Lui è Gustavo Cacini, Quello di “ma chi sei? Cacini?!” e anche quello di “faccetta nera”… Lui prende i diritti d’autore per “faccetta nera”… Il vecchio comico, magro, con un occhio leggermente strabico, elegante nel suo abito scuro, sorrise: ― L’hai saputo, eh? Prendemmo insieme un caffè e ci trattenemmo con lui per qualche minuto, poi Alvaro vide e salutò il gestore di un cineteatro, questi gli fece cenno che desiderava parlargli, e la nostra conversazione con Cacini finì là. Io in via dei Mille andavo molto raramente, ma quando ci andavo passavo sempre dal bar dove lui sedeva; e lui mi accoglieva di buon grado, forse perché aveva voglia di parlare ed io ero uno che sapeva ascoltare. Ed ero giovane. Le persone anziane, i “vecchi”, ricordano e amano parlare. Soprattutto con i giovani. È il loro modo di sentirsi vivi, di far rivivere nei ricordi se stessi e gli anni del loro vigore e della loro “età più bella”, trasferendoli idealmente in eredità a chi quell’età la vive adesso. Quando sono abili affabulatori c’è nei loro discorsi tanta storia vera quanta non è dato di trovare in nessun testo. E Cacini era un simpatico narratore e una persona prodiga di consigli: ― La nostra generazione ha fatto ridere e piangere come ha voluto, modestamente… Tu sei un bravo ragazzo, anche bravo sulla scena, me lo ha detto più di uno… Non montarti mai la testa… E poi… E giù consigli, ricordi, storie… Ma sapeva anche ascoltare anche se, a causa dell’età, non sentiva sempre bene, e proprio da questo suo difetto ho capito che ascoltava davvero, non faceva finta, infatti, quando non capiva, ti chiedeva di ripetere. E quando riprendeva a parlare, commentava, giudicava e ti dava consigli su ciò che aveva sentito. Ovvio che a parlare era quasi sempre lui. Ed io ascoltavo la favola del teatro d’un tempo… Seppi così che il detto “Ma chi sei? Cacini?!” era il titolo di una sua rivista, e che per “Faccetta nera” prendeva i diritti d’autore perché la famosa marcia, cara al popolo fascista, era il plagio di una sua canzone. Lui aveva fatto causa e l’aveva vinta. 94 Non per nulla era Cacini… Tra i consigli che dava ce n’era uno particolarmente arguto. ― Se andate a trattare una piazza, e ve la vogliono dare a percentuale, guardate se il teatro è grande: se l’hanno costruito grande, vuol dire che la gente ci va, se no lo costruivano piccolo, no? Il ragionamento non faceva una grinza, così io, molti anni dopo, alla domanda di Umberto Moriconi se ci convenisse o meno andare a recitare nel teatro al bivio di Ravi, vedendo che il locale era grande, anche se oltre ad un bar, un distributore di benzina ed un albergo non c’era altro segno di vita, memore dei consigli di Cacini, dissi: ― È un bel locale, grande: vuol dire che la gente ci viene, se no lo costruivano piccolo. Umberto si convinse e la settimana successiva debuttammo davanti ad un pubblico di una trentina di spettatori sperduti in una immensa sala. Quasi un forno completo, che ci costrinse nei giorni successivi a riparare nella più popolosa Gavorrano. Personaggi come Cacini oggi non se ne trovano più, ma non c’è più nemmeno quel tipo di teatro e neppure quell’aura di poesia povera di cui quel mondo era permeato. A più riprese ho letto che a Cacini vogliono intitolare una strada. Io non so se sia stato un grandissimo comico, né se abbia portato spettacoli di alta cultura. Certamente è stato un personaggio, certamente ha divertito la gente, certamente quelli che, come me, lo hanno conosciuto lo ricordano con simpatia. Allora perché non dedicargliela questa strada a “Gustavo Cacini, Maschera Romana”? 95 26. BIXIO RIBECHI Di lui avevo sentito parlare un po’ da tutti i romani che conoscevo. Ne parlavano come si parla di un personaggio particolare, ma nessuno me lo aveva mai definito. La sola cosa che avevo capito era che scriveva sul giornale “Il Rugantino” pezzi di colore su fatti e personaggi romani e romaneschi. Ma da come ne parlavano io, che cercavo di capire le cose senza avere il coraggio puro e semplice di chiederle, avevo dedotto che era qualcosa di più di un giornalista o di un cronista. Alvaro Dini me ne aveva parlato qualche volta, descrivendolo come grande artista, “quello che ha lanciato Claudio Villa”. Altri ne parlavano con deferenza, ma come se parlassero di uno del quale per forza tutti dovevano sapere chi fosse. Io, pertanto, di Bixio Ribechi non sapevo che il nome. Poi un giorno… Ero andato a fare uno spettacolo con Lelio Sordi in un paesino vicino Roma e, per una serie di piccoli contrattempi, rientrammo con due giorni di ritardo. Lelletto era preoccupatissimo perché aveva assicurato a Bixio Ribechi, dal quale aveva preso le scene per lo spettacolo, che gliele avrebbe portate il lunedì successivo… invece era già mercoledì. Che scusa avrebbe potuto trovargli? ― Gli dici la verità. ― dissi io. E lui: ― Ma non ci crede! Sai quanti prendono le scene per un giorno o due e poi se le tengono una settimana? Trovano una scusa… ― Ma questa volta non è una scusa. ― E tu vaglielo a dire… Anzi, che idea, fa’ ‘na cosa, portagliele tu. A te non ti può dire niente. Poi ci parlo io. 96 Così, una mattina di tanti anni fa, io, con una valigia con dentro un sipario e qualche tenda, mi recai a casa di Bixio Ribechi. Via Bixio, 1. Il nome della via lo ricordo benissimo, sul numero civico non ci giurerei, potrei confonderlo con quello dell’interno, prima porta a sinistra entrando nell’androne. “Che combinazione” pensai “Bixio Ribechi, via Bixio…”. Suonai e mi venne ad aprire una signora dolcissima, con i capelli bianchi ed un sereno sorriso vagamente indagatore. Spiegai che mi mandava Lelio Sordi e che avevo portato le scene dello spettacolo della domenica precedente. Una voce dall’interno chiese: ― Chi è? ― Un ragazzo che ha portato le scene di Lelio Sordi… ― Ah, Lelletto le ha mandate?! Bene, bene. Fallo entrare. Il tono non lasciava trapelare l’umore. Come quando un regista stupido chiede ad un attore di ripetere una frase che lui gli suggerisce senza enfasi. Entrai quindi senza sapere in che modo mi avrebbe accolto. Prima stanza a sinistra, porta aperta. Un signore di una certa età seduto ad una scrivania poggiata al muro sulla sinistra, in fondo una grande finestra e sul tavolo una serie di libri, di copioni, di giornali, di fogli, alcune riviste di enigmistica. Il Re ed il suo Regno. Finalmente vedevo il grande Bixio Ribechi, Bizio Ribecchi, come dicevano tutti. Mi diede subito il “tu”, d’altronde non avevo ancora vent’anni, forse ne dimostravo anche meno, e artisticamente ancora proprio non potevo esistere. Ma a parte il “tu”, che seppi poi essere un suo modo affettuoso di accogliere le persone a lui simpatiche, ma credo che a lui le persone fossero simpatiche tutte, così come simpatico a tutti risultava lui, mi mise perfettamente a mio agio: si informò gentilmente su chi ero, su quello che facevo, mi parlò di quello che scriveva, mi disse cose che risultarono poi sempre esatte e che mi furono di grande aiuto nella vita e nell’arte. Soprattutto nell’arte dello scrivere, cosa alla quale non avevo mai pensato, anche se avevo già scritto, solo per diletto, qualche poesia. 97 Mi parlò di Claudio Villa, di come e perché da Claudio Pica lo aveva fatto diventare Claudio Villa. ― Gli avevano fatto diventare la P una F, cancellando un pezzetto di lettera su alcuni manifesti. Allora, tu capisci, decidemmo di cambiar nome. Era il tempo del film Pancho Villa e così pensai a quel nome, che unito alla sua bravura, gli ha portato fortuna. Io lo ascoltavo incantato, ma avevo paura di restare troppo a lungo e di disturbare. Lui chiamò anche la moglie, la dolcissima signora Giovanna, e la rese in poche parole edotta di quanto avevamo detto, spiegando a lei chi ero e che cosa avrei potuto fare, meglio di come avrei potuto spiegarglielo io stesso. La signora non fu da meno del marito. Entrambi erano persone aperte e sincere e parlammo del più e di meno. Poi al momento dei saluti mi disse: ― Vieni a trovarmi qualche volta. Fosse stato per me, sarei andato lì ogni giorno, ma ci andai solo poche volte, tutte indimenticabili, sempre accolto festosamente. La signora Giovanna e lui mi volevano bene ed io li ammiravo. Lui come artista e Maestro autentico, entrambi come coppia e come persone. E quando dico Maestro, lo dico nel vero senso della parola. Maestri miei io considero tutte le persone dalle quali ho preso qualcosa. Lui qualcosa me la ha proprio data. Senza salire in cattedra. ― Vedi, ho le parole crociate, ma non per copiare le barzellette, come fanno tanti, ma per imparare. Anche per prendere spunti, perché no? Nella vita bisogna imparare da tutti e da tutto, ma poi scrivere in proprio. Portare le proprie idee, il proprio stile. Ed essere onesti. Il tuo giudice deve sempre essere la tua coscienza. Io, timidamente, gli confidavo i miei sogni, lui mi illuminava con la sua saggezza. Devo dire che ammirandolo ho cominciato a pensare di scrivere; forse è stato proprio lui a suggerirmelo quando mi fece capire che recitare è una parte esaltante della vita di un artista, ma anche scrivere, se si sa scrivere, dà soddisfazioni. A lui certo aveva dato popolarità e certo era soddisfatto dell’affetto che tutti gli tributavano. E gli tributano ancora. 98 Alcuni anni fa, Anita Pizic, attrice, moglie del compianto attore Mario Bartoli, a me ed a Luca Sportelli che, parlando di lontani ricordi, avevamo nominato Bixio Ribechi, disse: ― Bixio Ribechi, che brava persona! È stato compare al mio matrimonio. L’avete conosciuto, eh? E chi non l’ha conosciuto?! E chi non gli ha voluto bene… a lui e alla signora Giovanna! 99 27. ZURZIN Eravamo con la compagnia in provincia di Rovigo, quando ci invitarono per una serata a Ferrara. Uno spettacolo di arte varia. Umberto Moriconi sarebbe stato il presentatore, le sorelle Zavaglia avrebbero presentato una carrellata sulla danza negli ultimi cinquanta anni, un complessino ed alcuni cantanti locali avrebbero garantito la parte musicale e io e Mila, con Fioretta e lo stesso Umberto, avremmo sostenuto la parte comica con uno Sketch e due “Black–outs” (passaggi comici così detti perché al termine di ognuno si spegneva la luce, possibilmente su un accordo musicale, per riaccendersi qualche secondo dopo sul numero successivo). E ci sarebbe stata anche la partecipazione di Zurzin, famosissimo comico ferrarese. Devo dire che il fatto che avessero chiamato un altro comico lasciava me e Mila un po’ perplessi. Ma tant’era! Noi avremmo fatto il nostro solito spettacolo e senz’altro la nostra bella figura. Ma Zurzin? Di lui non sapevamo nulla, né come fosse fisicamente, né che tipo di persona fosse, né che tipo di comico fosse. Certo per essere così popolare non era certo una nullità. La cosa che mi fece quasi sorridere fu quando ci presentarono. Lui, il grande Zurzin, il comico che faceva letteralmente sbudellare dal ridere, era più preoccupato di noi per come sarebbe andato lo spettacolo. Era nelle nostre stesse condizioni: non sapeva nulla di noi se non che eravamo bravi. Ma come ci saremmo trovati nello stesso spettacolo, il pubblico avrebbe gradito due comici? Dubbi, interrogativi e preoccupazioni che svanirono subito dopo la prima stretta di mano canonica delle presentazioni. Ci 100 trovammo in perfetta sintonia. Io ero un giovanissimo comico girovago, lui un grandissimo comico dialettale, affermato nella sua zona, con alle spalle una lunga e consolidata fama. Non aveva nulla del divo, aveva tutto del comico. Le physique du rôle, innanzitutto. Piccoletto di statura, il volto un po’ lunare, quasi macarieggiante, ma personalissimo, una simpatia innata, la battuta spontanea, o anche studiata, messa sempre al punto giusto, la mimica mobilissima e un po’ clownesca, senza bisogno di trucco. E poi quel dialetto ferrarese che in lui era piacevole, simpatico, arguto… unico. Ci accordammo su ciò che ognuno di noi avrebbe fatto per non incorrere in qualche ripetizione, ed in poco tempo lo spettacolo fu preparato. E fu un successo. Mai uno spettatore avrebbe pensato che si trattava di uno spettacolo improvvisato. Filò tutto liscio. Io osservai attentamente Zurzin, per imparare. Talvolta la moglie da dietro le quinte, preoccupata che ricordasse tutto, gli suggeriva l’inizio della storiella o della barzelletta o del breve monologo che lui doveva recitare. E lui, fatta una piccola pausa, con un gesto o un giro su se stesso, ripartiva, con espressione ora di meraviglia, ora di paura, ora di fermezza, a seconda di quello che doveva dire. Io e Mila facemmo la nostra bella figura e lui fu felice della cosa. Ovviamente il finale spettava a lui, per fama e per anzianità. E a me la cosa parve giusta. Ma lui volle che partecipassi anch’io al finale; mi chiamò in scena e disse: ― Diciamo una barzelletta per uno… ― Eh, no… io non so dire le barzellette: ogni volta che ne dico una ridono tutti! La mimica mia e la contromimica eccezionale sua fecero sì che alla battuta il pubblico scoppiasse in un applauso che superò la stessa risata. Appena si placò l’applauso continuai: ― Eppoi, una volta che sono qui, non voglio certo perdermi il numero di un grande come Zurzin… E scappai, lasciandolo solo in scena. Lui, facendo finta di corrermi dietro per darmi un pestone, mentre il pubblico ridendo applaudiva, disse: ― Grazie! Lo disse al pubblico, ma si voltò verso di me. 101 ― Che simpatico, Nicolino! ― Fece una breve pausa condita da un continuo applauso, poi cominciò il suo numero. E gli applausi, e le risate, e le richieste di bis lo sommersero. Avrebbe voluto che mi fermassi a Ferrara. Ma io non parlavo il ferrarese. Disse che avremmo trovato il modo di farmi entrare nell’ingranaggio della comicità del luogo, mi parlò della commedia I punt i magna i ratt o i gatt, o qualcosa di simile. Era il cavallo di battaglia, lì a Ferrara. Ma gli impegni mi portarono subito lontano. Qualche giorno dopo partimmo per le Marche, riprendendo il nostro viaggio di girovaghi. Con me portai, indelebile, il ricordo di Zurzin. Sono passati tanti anni. In un negozio un signore, non so come e perché, dice di essere di Ferrara ed io: ― Ferrara, che bei ricordi. C’era Zurzin… era un comico ferrarese, bravissimo… E lui: ― I punt i magna i ratt (o i gatt, il titolo non l’ho capito bene neanche questa volta, ma non importa). Che forza! Non ho mai riso tanto in vita mia! 102 28. SALVATORE CAMPOCHIARO Non mancava mai in galleria Colonna, Salvatore Campochiaro. Se mancava era perché stava lavorando in qualche film. Lui era uno dei più caratteristici “vecchietti” del cinema italiano e pertanto spesso era chiamato ad interpretare personaggi d’una certa età. Non veniva quindi in galleria per cercare una scrittura, ma per sentirsi parte di quel mondo che per moltissimo tempo della sua vita era stato il suo mondo: il Teatro. Il suo era stato un teatro per lo più in vernacolo, ma nel vernacolo di una regione con una tradizione teatrale di primissimo ordine: la Sicilia. Ed io, che, forse per le mie origini meridionali, ero amico di molti attori siciliani e napoletani e che spesso interpretavo personaggi di quelle regioni, quasi automaticamente, malgrado la differenza di età, diventai suo amico. Lui era il commendator Campochiaro, ma non per quel titolo, ma per la stima che gli portavo come uomo, e per rispetto del suo passato e del suo presente di artista, gli davo il lei. Lui, quasi paternamente, mi dava il tu. D’altronde la prima volta che ci siamo visti, lui aspettava un suo giovane amico perché gli andasse a comprare dei “marrons glacés”, ma siccome questi non veniva, mi offrii di andarli a comprare io stesso. In fondo il bar era in galleria. Ma lui sorridendo, dopo aver rifiutato in un primo momento per cortesia il mio aiuto, accettò e mi spiegò: ― Eh, no, figlio mio, qua ci andavo da solo, ci siamo davanti! Mi devi andare alla pasticceria (e mi indicò quale fosse e dove si trovasse). Lì gli dici che sono per il commendator Campochiaro, sanno quali compro e così siamo sicuri che ci danno quelli che voglio io. Mi raccomando a te… 103 La quantità di marrons glacés da comprare era talmente piccola che mi meravigliai che per tanto poco mi facesse tante raccomandazioni. D’altro canto ammirai il suo rispetto anche per una così esigua spesa. Il rispetto! Non mi ero sbagliato. Salvatore Campochiaro aveva rispetto per tutto e per tutti e lo pretendeva. Aveva qualcosa di nobile nel portamento, nel sorriso, nel suo modo di salutare. Ed era spontaneo. Raramente parlava della sua vita privata. Ad una cert’ora passava in galleria sua moglie e insieme, dopo averci salutato, se ne andavano. Felici, uno a fianco dell’altra. Una volta, il bravissimo Salvatore Veneziano, virtuoso suonatore d’una minuscola armonica a bocca, con la quale era capace di fare miracoli sonori, scambiando una signora che entrava in galleria per la moglie di Campochiaro, gli disse: ― Arriva la signora. E Campochiaro: ― Quella? Se è quella faccio subito il divorzio. Poco dopo, ridendo, raccontò l’episodio alla moglie, la quale gli fece notare che la cosa non sarebbe stata possibile, perché il divorzio in Italia ancora non c’era. E lui: ― E nemmeno poteva essere possibile che quella era mia moglie. Ogni tanto parlava dei suoi trascorsi teatrali, qualche volta, quando eravamo soli, mi spiegava alcune scenette che aveva recitato quando aveva compagnia: Attacca i Sauri o I ciciri ‘ntronati o altre, spesso basate su battute che in siciliano si prestavano a doppia interpretazione e mi diceva: ― Peccato che in lingua non hanno lo stesso effetto… Ma se tu li adattassi… sono tutte scenette collaudate. Per non parlare dei lavori: Aria del continente, L’eredità dello zio canonico, Liolà … Ma ci vorrebbe una compagnia siciliana. L’anima degli attori siciliani… Una sera mi incontrò nei pressi del teatro Quirino con mia madre. Mi chiamò e con un sorriso di felicità mi chiese conferma della domanda che mi fece: ― Tua madre?! 104 E, avutane la conferma: ― Piacere, signora, suo figlio è un ragazzo d’oro… Parlarono a lungo e quando ci salutammo mi raccomandò: ― Tienitela cara tua madre, figlio! Da allora ogni volta mi domandò di lei e le mandò i saluti, che mia madre ricambiava con la stessa stima e sincerità. Qualche anno dopo, allorché morì mia madre, lui ci restò malissimo. Quando glielo dissi ebbe quasi un mancamento, come se un turbine di idee o di cattivi pensieri lo avesse assalito, ma si riprese subito. ― Non ne parliamo, non ne parliamo, dobbiamo sempre andare avanti. Pensieri così ammazzano. Ma, malgrado questa sua decisione, qualche giorno dopo tornò sull’argomento: ― Ti sarò sembrato strano, ma io ho dovuto fare così per non morire in seguito a tutte le disgrazie che mi sono capitate, alle morti di genitori e di figli, un figlio che muore, che ti dico? Non parliamone, non pensiamoci. La vita continua. Non abbiamo più parlato di morti. Anni dopo, non si andava più in galleria, le scritture si facevano per telefono, alcuni attori si incontravano a piazza Indipendenza e per il commendator Campochiaro, che nel frattempo aveva cambiato casa, il bar aveva sostituito la galleria. Si sedeva ad un tavolino sotto i portici e sorbiva il suo caffè, tirando su ogni tanto una presa di tabacco da naso. Scambiava quattro chiacchiere con gli attori, quasi tutti siciliani che frequentavano quel bar: Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Ignazio Balsamo, Juzzo Muscuso, Gino Buzzanca, Enzo Andronico… ed io. Io ci andavo soprattutto per lui: era invecchiato, ma manteneva intatta la sua verve. Poi cominciò a diradare le sue venute, quindi ci perdemmo di vista. Andando alla sede dell’E.N.P.A.L.S., una mattina lo incontrai. Felicissimi tutti e due di incontrarci dopo tanto tempo. Andavamo di fretta entrambi e, dopo gli affettuosi saluti e un rapido scambio di reciproche informazioni, ci lasciammo con un: ― Arrivederci a presto a piazza Indipendenza. Non ci siamo più visti. 105 29. PEPPINO ROBERTI Aveva quasi ottantanni, e veniva in galleria ogni giorno. Era stato attore di operette, di prosa e di varietà, e tuttora, quando qualcuno lo chiamava per una serata o per un breve corso di recite, si faceva trovare pronto. Credo che vivesse di una modesta pensione, ma quando rispondeva “presente” all’appello di questo o di quell’impresario, non lo faceva per soldi, ma soprattutto per sentirsi ancora attivo. Peppino Roberti godeva della stima di tutti. Era sempre ben rasato, ben vestito, naturalmente elegante, educato. Colto. Uno dei pochi attori di varietà che aveva studiato recitazione e musica, ed aveva una discreta cultura generale. Lo conoscevo di vista, e solo poche volte avevo avuto modo di scambiare con lui qualche parola. Poi per un fine settimana in un cinema teatro romano fummo scritturati entrambi insieme ad Alberto Giglio, Anna De Giorgi e Ety Silva, da Lelio Sordi che per quelle due serate aveva in programma come sketch centrale Il pittore d’un morto vivo. Per me era solo un anziano attore in pensione, e, benché sapessi che di tanto in tanto recitava, non lo avevo mai immaginato in scena. Fu bravissimo; pur sostenendo un ruolo brioso e non avendo la necessaria agilità che il ruolo richiedeva, riuscì ad imprimere al personaggio la vivacità necessaria, caratterizzandolo alla perfezione, da attore consumato. Da allora diventammo amici. Tanto che, quando un comune amico si offrì di sovvenzionarci una compagnia di varietà, trovammo subito un accordo. Io avrei fatto solo il comico e lui si sarebbe interessato dell’organizzazione. Aveva un modo di intendere lo spettacolo onesto e signorile e questo era una garanzia per tutti. Trovò facilmente degli ottimi elementi e si adoperò per avere un valido copione “perché”, diceva, “il primattore del106 la compagnia è il copione”. Aveva perfettamente ragione. Riuscì a metter su un gruppo di prim’ordine; con me sarebbero stati in scena: Gemma Lari, Masina Rossi, Enzo Filippi, Norma Del Plata, Aldo Derby, un balletto… ecc. Non so con quanti avesse già fatto il contratto, certo aveva trovato un buon copione, con l’aiuto di Franco Castiglione: Parishow di V.L., diventato poi, mi dissero per disposizione S.I.A.E., Parishow 1961. Sotto la sigla V.L. si celava Luigi Visconti, il popolare comico noto col nome di Fanfulla. Ricordo la prima volta che andammo a casa di Fanfulla. Roberti mi disse: ― Non ci possiamo presentare a mani vuote. Comprò una bottiglia di spumante e una scatola di dolci per la signora “Diavolina”, madre di Fanfulla. Con loro brindammo insieme ad Enzo Filippi e all’amministratore Da Vinci. Indubbiamente era un gruppo di un certo livello, formato da artisti di “Teatrale” più che di avanspettacolo. Roberti era contento ed eccitato per questa sua avventura da impresario alla bella età di ottantanni. Ma… Era destino che questa, come tante compagnie, restasse solo sulla carta. Tutto ebbe inizio per una battuta infelice riportata probabilmente male. Qualcuno aveva sostenuto che la compagnia non dava garanzie e che era senza nomi importanti. Le primedonne si sentirono giustamente offese, io no, perché ero un debuttante. Piuttosto che incontrarci e chiarire ogni cosa, come sarebbe stato giusto e come Roberti avrebbe voluto, ognuno prese cappello ed in quelle condizioni Roberti decise che sarebbe stato “meglio fermarsi da mezza via che non da tutta”. Io fui del suo stesso parere, consigliato da Franco Valle, che già era d’accordo con Rosaspina per fare una compagnia che avrebbe debuttato in Umbria; accettai la scrittura di quella compagnia, nella quale debuttai dopo una decina di giorni. Roberti non volle entrare a farne parte. Voleva fare ormai solo compagnie di primordine. ― Tu non puoi fare diversamente. Sei giovane e devi lavorare. Ma cerca di scegliere compagnie importanti. Ricordati che è sempre meglio affogare in un mare grande. 107 Da quella compagnia, nella quale era presente anche Umberto Moriconi, passai direttamente alla “Artisti Associati” da lui diretta e debuttai in prosa. In una compagnia di teatranti girovaghi, dove mi trovai benissimo. Peppino Roberti continuai ad incontrarlo in galleria ogni volta che ritornavo a Roma. Sempre gentile, sempre educato, sempre ben vestito, ben rasato, elegante. Sorridente, ma io da allora ho visto nei suoi occhi il rimpianto per quella compagnia che non era andata in porto. Ma non me ne parlò mai. Portò quella delusione con la dignità con la quale aveva affrontato ogni giorno della sua vita, nella buona e nella cattiva sorte. Qualche anno dopo, Franco Valle, in uno dei suoi tanti rientri nella compagnia di Moriconi, mi portò la tristissima notizia della sua morte. Fu per me un grande dolore: avevo perso un amico ed il mondo aveva perso un galantuomo. 108 30. ENZO ENZI I manifesti che annunciavano il nostro programma di recite a Montieri dal martedì alla domenica, erano esposti in ogni pubblico esercizio del paese, nonché sui muri della via principale, in piazza e, ovviamente, all’ingresso del locale nel quale gli spettacoli si sarebbero tenuti. D’altronde questa cosa avveniva in qualsiasi paese o città dove la nostra compagnia avesse programmato un “regolare corso di recite”. Fu pertanto grande la nostra meraviglia quando, verso le diciassette, un signore un po’ accaldato, vestito con un completo blu, armato di chitarra e con una piccola valigia in mano, fece irruzione nella sala dove stavamo completando il montaggio della scena per La Morte Civile, lo spettacolo programmato per quella sera insieme alla farsa Deponga. Non era uno dei gestori, né aveva l’aria di essere uno dei soliti curiosi che si trovano dovunque. Il signore si fermò in fondo alla sala, guardò verso il palcoscenico, si asciugò il sudore e borbottò qualcosa come: ― Non ci voleva questo contrattempo! In effetti appariva molto contrariato. ― Qui ci dovevo lavorare io, stasera. Disse avvicinandosi a noi, tendendo la mano in segno di saluto, cercando di calmarsi e con sul volto l’espressione di uno che chiedeva di stringere con noi quasi un patto di solidarietà. Ma contro chi? I gestori del locale avevano fatto con noi un regolare contratto, quindi sia noi che loro eravamo in regola. Lui: ― No, non ho un contratto, ma io ogni volta che vado in un posto trovo un locale o un teatro parrocchiale o un cinema e presento il mio spettacolo. ― Da solo? Dov’è la sua Compagnia? 109 Alla domanda di Franco Valle lui rispose serissimo. ― Sono io, Enzo Enzi, la mia compagnia: recito un monologo, che un tempo era un dialogo che ho adattato io, quindi faccio dei numeri di prestigio e poi canto il mio repertorio accompagnandomi con la chitarra. Qui ci sono già stato un anno fa e ci sono tornato stasera, non potevo mai immaginare che il teatro era occupato e che c’era una compagnia completa. Con tanti posti, proprio qua dovevate venire… ― Ma come facevate a fare lo spettacolo? Il permesso alla Siae, quando l’avete fatto non vi hanno detto che c’era un’altra compagnia nel paese? Mila Nistri, che quasi sempre dava a tutti il voi, cercava di capire, di farsi spiegare, e anche di trovare una soluzione; ma l’attore–prestigiatore–cantante, preso dalla disperazione e dal bisogno di rimediare almeno i soldi per una modesta cena, bofonchiava qualche parola, poi usciva per cercare di vedere qualcuno dei gestori, ma in realtà solo per prendere una boccata d’aria che gli snebbiasse un po’ la mente, quindi rientrava più disperato di prima, ma sempre con cipiglio battagliero. Una cosa così non ci era mai capitata. Marino Nevastri e Maria Guarnieri, anziani e con alle spalle tutta una vita spesa dall’infanzia alla vecchiaia lavorando nei teatri, dai più grandi ai più piccoli, si guardavano esterrefatti e increduli. Io e Fioretta, i più giovani del gruppo, stavamo un po’ sul chi vive, sperando che si trovasse una soluzione. Umberto Moriconi, che pure nelle scuole spesso aveva fatto spettacoli da solo presentando il Giuda, col semplice aiuto di un registratore, non riusciva a spiegarsi come quell’uomo, da solo, senza scene, senza permessi, potesse girare il mondo facendo spettacoli. Mila, benché più giovane di Marino e Maria, aveva anche lei alle spalle tutta una vita spesa nei teatri ed era esterrefatta; e persino Franco Valle, che era abituato a sbrogliare ogni situazione, a trovare una soluzione o un espediente per tutto, sembrava con la testa fra le nuvole. Ma tra i comici, tra i girovaghi, tra quelli che Elda A. Vernara avrebbe definito I Maleamati, c’è una solidarietà incredibile. Così, ad un certo punto ci trovammo tutti ad andare al bar: e con noi il gestore del locale. 110 In tutti regnava una calma semplicemente straordinaria. La soluzione era nell’aria. Lo sentivamo tutti, ma nessuno sapeva quale fosse. Tornando in teatro Umberto, proprio prima di entrare, si fermò e ci fermò, con al fianco Enzo Enzi, e così parlò: ― Faremo così: prima La Morte Civile, poi Enzo canterà le sue canzoni, quindi la farsa a concludere. ― Ma per la paga? Chiese Franco. Ed Enzo: ― L’importante che io possa cantare, poi farò un giro col piattino. Ma la soluzione non piacque a nessuno. Era una cosa da guitti, era come chiedere l’elemosina, e noi eravamo attori. Così decidemmo di fare, prima che lui cantasse, una lotteria, con in palio una bottiglia di spumante, e cento biglietti da cento lire. L’incasso sarebbe stato la paga dell’ospite dello spettacolo. E come tale Umberto lo presentò, dopo aver annunziato la lotteria, guardandosi bene di spiegare per quale scopo si facesse. Lo spettacolo andò bene, Enzo Enzi aveva una bella voce e non cantava male. ― Come attore sono più bravo. Rise, rispondendo a chi, mi pare Marino, gli faceva i complimenti. Una serena cena offerta dalla compagnia chiuse festosamente una giornata strana, ma positiva. 111 31. LUCIANA LEHAR Entrò nella mia vita una sera, sul finire degli anni sessanta. Stavamo provando una improbabile commedia in un teatrino alla Garbatella, con una compagnia alquanto numerosa, composta per lo più da studenti, figli di papà, aspiranti attori, che, quasi tutti, tranne forse qualche rara eccezione, fra qualche anno sarebbero diventati ingegneri, ragionieri, impiegati di banca, muratori o industriali, tutto, insomma, tranne che teatranti. Mi aveva coinvolto col suo grande entusiasmo per tutto ciò che riguardava il Teatro, il mio amico Gianni Merlo. Da qualche tempo si provava ma lo spettacolo era ben lontano dal prendere forma. Si brancolava alla ricerca di una linea particolare da dare all’interpretazione. Si cercava l’innovazione, ma non veniva fuori nulla. Si discuteva se fare teatro d’avanguardia o teatro classico, senza sapere bene (almeno io credo) cosa fosse l’uno o l’altro. Fu così che una sera, Luciana Proietti, una ragazzona entusiasta, attiva, piena di buona volontà, al termine delle prove, durate meno del solito disse: ― Ho due biglietti per il film Dove osano le Aquile, chi vuol venire con me? Nessuno rispose. Io, che mancavo al cinema da molto, e che da tanto la sera, finito il lavoro, rientravo a casa, visto che nessuno aveva preso al volo l’occasione, decisi che era tempo che mi scuotessi, che mi muovessi, ed accettai. Fu una piacevole serata. Un bel film, con un ottimo cast di attori, una pizza e tanto parlare. Ci trovammo in sintonia. Seppi che era diplomata al conservatorio, che suonava il piano in alcune scuole di danza, e, soprattutto, che voleva fare l’attrice, teatro innanzi tutto. Conosceva Gianni da tanto, avevano anche 112 frequentato insieme un corso di recite, conosceva gli altri per lo stesso motivo. Familiarizzammo. Uscimmo a cena insieme per alcune sere, poi… Come sempre accade quando le cose non vanno bene, in compagnia, anziché provare si cominciò a discutere, a rimandare la prova alla sera successiva, quindi all’altra ancora. Del debutto quasi non si parlava più. Si parlava di riorganizzare il tutto. Io intuii che non si sarebbe più debuttato e, siccome avevo bisogno di lavorare, una sera chiesi a Luciana se se la sentiva di fare una piccola compagnia con me e con Gianni Merlo, della cui adesione ero certo, per fare qualche spettacolo nell’attesa che la compagnia della quale facevamo parte avesse programmato bene il da farsi. Dimostrandomi una incredibile fiducia mi disse di sì. E “sì” lo disse, come prevedevo, anche Gianni. La sera successiva, mentre si parlottava del più e del meno, annunciai agli altri che io, Luciana e Gianni avremmo preparato, a partire dalla sera successiva, tre farse da fare quale spettacolo unico in qualche paese o in qualche teatrino, così, per non continuare a stare fermi. Saremmo ritornati a far parte della compagnia al momento opportuno per riprendere le prove. La cosa fece sorridere tutti: come pensavamo di poter fare uno spettacolo in tre? Gianni aveva lavorato molte volte con me e sapeva che ce l’avremmo fatta. Luciana ne era convinta. La sera andammo a prendere una pizza insieme e la ringraziai per la fiducia. Mi sorrise: ― Grazie a te della fiducia che mi dai tu! Già, aveva ragione. Ma io sentivo che quella fiducia lei la meritava. E non mi sbagliavo. Quattordici giorni dopo partimmo per le Marche, dove Umberto Moriconi aveva preparato un piccolo Tour di recite per una Compagnia comica col sottoscritto, Luciana Lehar, (cognome d’arte scelto da Luciana al posto di quello anagrafico, per la sua passione per l’operetta, e che terrà per sempre), e Gio–Batta Merlo, nome anagrafico di Gianni, adottato da lui definitivamente anche in Arte a partire da quello spettacolo. Come avevo previsto, lo spettacolo piacque a Varano, a Candia, a Montacuto ed in altri centri, dove tornammo con un nuovo spettacolo, sempre di tre farse, con la par113 tecipazione straordinaria di Umberto Moriconi. Fu l’avvio di una collaborazione felice. Gianni, pardon, Gio–Batta si occupava della parte amministrativa, io dei testi, Luciana un po’ di tutto. A Roma dove io collaboravo alle riviste “La stanza Letteraria” e “CID”, prendemmo per una stagione il teatrino alla Garbatella e, per completare i borderò recitammo per alcune sere nella sala del circolo culturale del “CID”. Quindi io e Luciana, che ormai era diventata un’ottima spalla, facemmo parecchie feste di piazza e partecipammo come ospiti in vari spettacoli di rivista. Devo dire che Luciana era attentissima, seria professionista, perfezionista come pochi, analizzava ogni nostra prestazione, cercava di scoprire se c’era qualcosa che non andava per poterla correggere. Facevamo insieme quello che facevamo anni prima con Franco Valle. Con Franco inventavamo nuove situazioni comiche divertendoci, con lei rivedevamo quello che già facevamo per migliorarlo. Poi… Come spesso accade ad un certo punto le nostre strade si divisero. Io mi dedicai di più alle lettere, lei al cinema e alla TV. Fu la pianista in alcuni show televisivi con Gabriella Ferri, come Mazzabubù, prese parte ad alcune pellicole come attrice, tra l’altro sostenne il ruolo di una ballerina–attrice in Ninì Tirabusciò e, soprattutto, il ruolo della sorella di Alberto Sordi nel film Lo scopone scientifico. Poteva essere quello l’inizio di una carriera brillante. Aveva tanti progetti, e un futuro davanti, ma… Si ammalò. Una grigia mattina d’autunno, mentre mi sbarbavo, una telefonata di Mirella Santi, ballerina di tante Canzonissime, mia amica ed amica del cuore di Luciana, mi comunicò che Luciana era morta. Mi sentii gelare. Al funerale, Gio–Batta Merlo e la cara Matilde Antonelli fecero di tutto per rincuorarmi. Sapevano che un pezzo del mio cuore ed una parte importante della mia vita era in quella bara. 114 32. GIO–BATTA MERLO Mio grande amico, grande appassionato d’arte; attore, non sempre convinto dei suoi mezzi, ma talmente entusiasta da impegnarsi ore ed ore per migliorare, per dire bene una battuta. Studioso, lettore di classici e ammiratore incondizionato di ogni grande autore, avrebbe voluto iscriversi e frequentare ogni scuola d’Arte, di Teatro, di Letteratura. Lo conobbi tanti anni fa, aveva fatto già parecchie esperienze teatrali, ma aveva la timidezza del neofita. Gli sembrava che tutti fossero più bravi di lui, ma non era vero. Gianni Merlo come attore era impagabile, faceva quello che il regista gli chiedeva, ma cercava anche di capire il perché doveva dire la battuta in un modo piuttosto che in un altro. Certo, non prendeva mai lui l’iniziativa, seguiva pedissequamente il copione, ma non perché non fosse capace di inventare o di esprimersi secondo la propria personalità, ma per timidezza. Signore in ogni sua espressione, educato, incapace di contraddire, per paura di offendere. Venne nella compagnia di Umberto Moriconi e fu un ottimo Checchi ne L’Avvocato Difensore, l’aiutava anche il fisico di bel ragazzo, slanciato, simpatico. Sostenne con successo vari ruoli, tanto che Umberto, avendo deciso di metter su Il Cardinale di Parker, gli diede da studiare la parte di Chigi. Gianni la studiò, la imparò, fece le prove, ma alla vigilia fu preso dal panico: ― Non ce la faccio, ho troppa paura di sbagliare… Furono vani tutti i tentativi di fargli cambiare idea. Era all’altezza di farla, quella parte, ma il grande senso di responsabilità lo frenava. In meno di ventiquattro ore dovetti impararla 115 io quella parte. In qualche modo la avrei fatta. E qui venne fuori la grandezza dell’amico. Mi lesse la parte, me la ripeté più volte perché la sapeva bene a memoria e la diceva con la giusta intonazione, mi spronò in tutti i modi e, solo quando si accorse che la sapevo a memoria, si rasserenò un poco. Le parti che dovevo fare quella sera erano due: Chigi e Baglioni. Con un attore in meno dovemmo adattare le parti tagliandole e ricucendole durante le prove del pomeriggio precedente la recita. Anche qui Gianni mi fu vicinissimo e trascorse al mio fianco tutta la serata, preoccupato che tutto andasse bene. Così preoccupato non lo avevo visto mai, neppure quando a dover andare in scena era lui. Andò tutto bene, ed alla fine il più contento fu proprio lui, che aveva seguito da dietro le quinte con trepidazione ogni mia battuta. Ma fu quella la sola volta che si tirò indietro. Facemmo anche compagnia insieme, ma ormai era diventato un attore che, pur avendo ancora timore di sbagliare, recitava bene: aveva acquistato una certa padronanza scenica. Ad un certo punto cambiò il nome di Gianni con quello anagrafico di Gio–Batta ed iniziò una nuova carriera. Insieme abbiamo fatto molti spettacoli, poi si è dedicato agli spettacoli per scolaresche. E anche in questi spettacoli siamo capitati parecchie volte insieme. È diventato un attore professionista nel senso vero della parola. Nel senso che fare l’attore è diventato per lui una routine, perché attore lo è sempre stato, anche quando ancora non ci credeva. 116 33. ENZO MAGGIO Dei tre figli maschi di don Mimì Maggio, popolare attore napoletano degli inizi del secolo scorso, Enzo era il maggiore. I fratelli Dante e Beniamino i più popolari, attivi in teatro e in cinema come caratteristi. Enzo anche, ma per una di quelle incomprensibili stranezze del mondo dello spettacolo, e anche dell’umana esistenza in generale, non raggiunse mai la popolarità degli altri due, pur avendo trascorso una vita sulle tavole del palcoscenico ed avendo preso parte a vari films facendo sempre la sua brava figura. Nessuno lo ha mai gratificato per come meritava. Al massimo qualcuno riusciva a classificarlo come “il fratello di Dante Maggio” o “il fratello di Beniamino Maggio” o “il fratello di Beniamino e Dante Maggio” o “il fratello dei fratelli Maggio” (Sic!). Lui per la verità era una persona schiva, modesta, non si dava arie, non si metteva in vista. Dotato di una innata simpatia, piccolo di statura, con due folte sopracciglie su occhi vivissimi ed espressivi, aveva una faccia interessante e particolare che avrebbe dovuto spingere più di un autore a scrivere per lui e più di un regista ad affidargli ruoli non solo comici e caratteristici, ma anche drammatici. Una piccola contrazione della bocca, una semplice alzata di ciglia avrebbe cambiato l’espressione di un viso per il resto immobile nella sua naturale maschera, capace, con quel piccolo movimento, di esprimere e di comunicare gioia o tristezza, di suscitare riso o pianto. Ma nessuno ci ha mai pensato, almeno nel mondo dello spettacolo che conta, perché nella sua pluriennale carriera di attore, le sue brave soddisfazioni se le è certamente prese. Ma non saranno certo state le cose più importanti per lui. Nato e cresciuto sulla scena, avendo trascorso gli anni giovanili impegnato in tour117 nées, alle prese con scenette e testi vari per spettacoli teatrali, da anziano era interessatissimo alle cose della vita, che amava scoprire di giorno in giorno, di momento in momento. Attaccatissimo alla famiglia, era sempre in compagnia della moglie, una signora simpatica, molto gentile, che spesso lo seguiva anche in tournée. Lui, come detto, piccolino di statura, modesto, lei prosperosa, piena di vita; fisicamente così diversi, erano ancora innamoratissimi. Questo lo si capiva fin dai tempi in cui si andava in galleria. Sempre insieme, sempre sereni, sempre gentili. A quel tempo loro erano per me i genitori del mio amico Mario e basta. Un saluto ed un sorriso. Poi un giorno, anzi una notte, mi chiamò la signora Severino chiedendomi se potevo andare a Firenze la mattina successiva a raggiungere la compagnia di Enzo Maggio per sostituire per qualche giorno l’attore Margaritora. Non potevo dir no alla signora Matilde Severino, eppoi mi sarebbe piaciuto immensamete lavorare per qualche giorno con Enzo Maggio, era un grande e da lui avrei avuto solo da imparare, per cui accettai con entusiasmo. Enzo, io l’ho sempre chiamato “Signor Maggio” e gli ho dato sempre il “lei”, lui mi ha sempre chiamato solamente “Serra” e mi ha sempre dato il “voi”, non appena mi vide, rivolto alla moglie disse: ― Ah, vedi, è Serra, l’amico di Mario. Poi rivolto a me. ― Sono contento che siate voi. Al pomeriggio facemmo le prove e alla sera debuttammo. Lui e la signora, temendo che potessi emozionarmi, cercarono di tranquillizzarmi, debuttare davanti ad un pubblico numeroso e con una sola prova non è facile per nessuno, figurarsi per un giovane attore poco più che ventenne. Lo spettacolo ebbe successo, lui fu ovviamente bravissimo e per fortuna tutto andò bene anche a me, tanto che presi un applauso a scena aperta ed uno alla mia uscita di scena. E qui avvenne un episodio che mostra tutta la grandezza di Enzo Maggio come uomo. Pur dovendo restare in scena, mi accompagnò dietro le quinte e, appena usciti dal campo visivo del pubblico, mi diede un veloce colpo sulla spalla e mi gridò “bravo”, tornando precipitosamente in scena. A cena mi ripetè l’elogio. 118 ― Sono contento che al debutto con me avete preso due begli applausi. ― Meritati! Aggiunse la moglie. E diventammo amici. Non amici come succede tra attori, cioè finché si lavora insieme. Diventammo amici sul serio. Finita la mia prestazione fiorentina, ripresi la vita di sempre, tournées, spettacoli vari, poi critiche d’arte e di letteratura, sceneggiature di fumetti, tutto quanto mi veniva proposto. Quando uscì la mia prima raccolta di poesie, mi premurai di dargliene personalmente una copia in omaggio. Prese in mano il volumetto, lo aprì, vide che si trattava di poesie, lo richiuse e sorrise: ― Sono tutte vostre poesie? Vi ringrazio. Due giorni dopo mi telefonò. Era la prima volta che lo faceva, e fu anche la sola. Mi invitò per il pomeriggio a casa sua: ― Mia moglie non c’è, mi tenete un po’ di compagnia. Mi ricevette nel salottino, ma subito dopo mi fece accomodare in cucina: ― In cucina è più intimo… Mi parlò del libro, gli era piaciuto. “Si vede la sensibilità del poeta” disse; poi, mentre sorbivamo un caffè preparato con le sue mani, affabilmente cominciò a narrarmi tante cose, di sé, della famiglia, di Mario soprattutto, del teatro, del cinema “Pensate, quando ho fatto il mio primo film, il regista mi ha scelto in base ad una fotografia formato tessera che gli aveva portato un mio amico”, delle difficoltà del vivere “… alla mia età devo ancora andare in giro per il mondo a fare il buffone per divertire la gente”; e al mio obbiettare che non era affatto un buffone, ma un grande artista, umilmente mormorò un sommesso e timido “troppo buono!”. Ad un certo punto, temendo di abusare della sua ospitalità, accennai ad andarmene. ― Tolgo il disturbo. ― Ma no! Siate gentile. Restate un altro poco: ve lo dirò io quando sarà il momento. E continuammo a parlare, piacevolmente. Lui era una “enciclopedia del varietà e della sceneggiata”. Mi illustrò un secolo di teatro partenopeo e mi parlò dei più grandi personaggi che lo 119 avevano popolato. Poi, ad un certo punto, qualche ora dopo, con un sorriso mi congedò: ― Ora potete togliere il disturbo. Vi ringrazio della bella compagnia. La sera, allo “Jovinelli” o al “Volturno”, incontravo gli amici: Gianni Sampieri e signora, Don Luigi Fabbrocino, Franco Giannitto, Luca Sportelli, Enzo Maggio e signora e prendevamo qualcosa insieme al Bar o alla trattoria da “Ciccio”. Era contentissimo quando poteva insegnarmi qualcosa. Ed era felice quando la cosa che voleva insegnarmi io già la sapevo. Una sera da Ciccio, seduti al tavolino di quella specie di giardinetto che divideva la trattoria dal cinema teatro, passò una ragazza. Lui la guardò e commentò. ― Bella ragazza! Peccato abbia quelle efelidi… Quella parola creò un po’ d’imbarazzo tra gli astanti, non a me. E a me si rivolse: ― Sapete che sono le efelidi? Non mi venne altro in mente che dire: ― Le lenticchie in faccia. ― Alla faccia! Sapete tutto… E tutti scoppiammo a ridere. Bei tempi! Altri Artisti, altri Uomini! 120 34. GIANNI SAMPIERI Ci incontravamo seralmente, Gianni Sampieri ed io. Da “Ciccio”, alla trattoria a fianco dell’Ambra Jovinelli. Quando io arrivavo, dopo aver consegnato allo studio “Scenex” la mia quotidiana razione di sceneggiature di fumetti, lui era già lì. Con la moglie, la signora Dolly, attrice anche lei. Una coppia affiatatissima ed innamoratissima. Provenivano entrambi dalla formazione storica dei Sampieri, compagnia di prosa guidata dal padre di Gianni, ma ormai da moltissimo tempo facevano solo avanspettacolo. E neanche più continuatamente. Serate, il sabato e la domenica, qualche volta una settimana intera all’Altieri; per il resto chiacchiere con gli amici e progetti alla trattoria di Ciccio. Davanti ad una ottima “camomilla”. La “camomilla” di Gianni Sampieri, lo sapevano tutti, era il mezzo litro di vino che ordinava appena arrivato. Poi veniva il resto, ma la “camomilla” era la prima cosa che voleva fosse in tavola, quasi prima di sedersi. Comico di antica scuola: sempre elegantemente vestito, sigaretta con bocchino, orologio d’oro, fare distaccato. Aveva un non so che di nobile nel portamento. La dignità dei comici di un tempo, unita ad una “nonchalance” che contrastava con la sua naturale timidezza e gli conferiva un’aria distaccata e quasi sorniona, che però non poteva essere classificata come snob. Camminava a passi lenti e sorrideva a tutti, quasi come fosse in passerella. Deformazione professionale che più o meno ha sempre contagiato quanti per anni seralmente, e spesso anche per due o tre volte al giorno, su una passerella sfilavano per ringraziare il pubblico al termine dello spettacolo; o su di essa si addentravano durante un numero particolare, per meglio essere a contatto col pubblico, per esempio in un monologo o in un 121 sottofinale o in duetto tra comico e spalla o tra comico e soubrette. A tal proposito, Gianni narrava di una soubrette, conosciutissima nell’ambiente e bravissima, alla quale spesso, durante un suo applaudito numero, il pubblico chiedeva di fare la passerella, ma lei evitava, promettendo “al finale… al finale”, perché, essendo miope, temeva di mettere il piede in fallo e cadere, mentre al finale sarebbe stata al sicuro al braccio del comico. Orbene, una sera, al colmo dell’entusiasmo per il grande successo che il pubblico le stava tributando, decise di arrischiarsi a fare passerella per meglio ringraziare degli applausi, e partì decisa. Un urlo del pubblico e un tonfo: il palcoscenico era privo di passerella e lei si trovò distesa al suolo in platea… fortunatamente se la cavò con qualche ammaccatura. Ne aveva tante di storie, di teatro e non, da narrare, Gianni. Di quando il padre era stato ricevuto dal re; del funerale del padre che si tenne nel giorno di una ricorrenza nazionale e che fu salutato dalle varie forze dell’ordine, che incontrava durante il percorso, schierate in alta uniforme e sull’attenti al passaggio del feretro; di come il padre ci sapesse fare con gli attori, cavando da ognuno di essi il massimo. Parlava anche di Angelo Musco, di Giovanni Grasso, di attori minori, dei compagni d’arte, degli attori che gli avevano fatto da spalla, della sorella Mariuccia Sampieri, bravissina cantante, e della sorella Gina, attrice ballerina e coreografa di un certo nome. Ma il suo idolo era il padre per il quale aveva una autentica venerazione, eguagliata forse solo dall’amore per la moglie Dolly, che lo ripagava di eguale sentimento. In scena era rigoroso, esigente, ma comprensivo. Una volta, mi pare per due giorni, gli ho fatto da spalla; ero preoccupato, perché non avendo avuto modo di provare bene lo sketch, avevo paura di non ricordare qualche battuta e di svolazzare un po’ a soggetto, mettendolo in difficoltà. Ma lui mi tranquillizzò: ― Non stiamo mica fecendo l’Amleto… sei un attore esperto, basta che mi arrivi al punto obbligato, io riprendo… Non dimenticai nessuna battuta e tutto andò benissimo. Gianni recitava, come tutti noi comici a quel tempo, col cappello in testa, ma, al contrario di tutti noi, non indossava il farfallino, ma una normalissima cravatta. La moglie mi fece nota122 re la cosa e mi disse in sua presenza, ad alta voce perché lui sentisse: ― Sono anni che gli dico che con la farfalla è più caratteristico… la portano tutti. Glielo dica pure lei. E Gianni: ― Che volete che vi dica, con la cravatta ci sono abituato, col farfallino non mi ci ritrovo. Eppoi, la gente ride lo stesso… La gente che ride è il solo punto importante dei comici. Se il pubblico ride, tutto va bene. Ed è la verità che salta per prima agli occhi. Ma c’è modo e modo di far ridere. Ogni comico lo sa, anche quello che per ottenere una qualsiasi risata fa le capriole più assurde. La risata, al momento, giustifica tutto, ma Gianni non diceva questo, infatti aggiunse: ― E ride bene… non ci tiriamo fuori dai pantaloni il pizzo della camicia… Poi, la sera successiva all’ultimo giorno di spettacolo, ancora al “Jovinelli”, ancora con gli amici; un salto al bar, poi da “Ciccio”. Qui, scelto il tavolo, prima di sedersi: ― Ciccio, mezzo litro di “camomilla”. Ricordi. 123 35. LYDIA RAIMONDI Una delle domande che mi sento rivolgere spesso è: ― Quando torni a far teatro? E la risposta che immancabilmente do da qualche tempo è: ― Credo mai… Per la verità spesso penso ad uno spettacolo da fare, ma poi mi rendo conto che è molto difficile che lo faccia. Ogni attore di teatro, dietro l’angolo, vorrebbe trovare un bellissimo spettacolo… ma, credo proprio che… ma no, ormai… ma non si sa mai. E questo è il mio reale stato d’animo. Da una parte il desiderio di tornare a calcare le tavole del palcoscenico, dall’altro la consapevolezza delle difficoltà che dovrei affrontare: i copioni, i teatri, gli attori… Per i testi penserei ai classici lavori comici, a novità comiche, ad un teatro farsesco (ma piacerà ancora? Penso di sì, ma…) oppure anche ad un teatro all’italiana antico, valido ma poco conosciuto, che so, Silver Scialla Ninna nanna, oppure i testi recitati da Govi o da Musco, ovviamente adattandoli… Per gli attori, ce ne stanno tanti; ma io sono un po’ troppo fuori dal giro per poter avere una benché minima idea su quali potrebbero essere. Per la primattrice, invece, non avrei dubbi. Lydia Raimondi. Musicista, cantante, attrice, Lydia è una seria professionista, la conosco da tempo e con lei ho già lavorato. È cresciuta alla scuola di Checco Durante, per anni ha recitato nella sua compagnia ed ha composto le musiche originali per le commedie alle quali ha preso parte. Inoltre ha il mio stesso modo di intendere lo spettacolo. Divertimento per il pubblico, che deve significare 124 anche divertimento per noi attori, perché col pubblico si crei una autentica simbiosi. Una vita tra musica e teatro, quella di Lydia. Bambina in Rai col coro famosissimo di Renata Cortiglione, poi tanto studio: pianoforte, canto, dizione. Abilissima dicitrice di poesie, poi attrice per anni, come detto, con Checco Durante: La Buffa storia di Meo Patacca, Er Marchese der Grillo e tante altre commedie di successo romanesche e romane. Una felice vena musicale che la ha portata a comporre e a cantare canzoni piacevoli, orecchiabili, di facile presa sul pubblico, che ha sempre mostrato di gradirle; e poi musiche e canzoni dedicate, oltre che a Roma, a tantissimi paesi di tutta Italia. Su versi del giornalista Carlo Sabatini ha composto Quo vadis Domine? ricevendo la benedizione del Papa. Ma il suo merito maggiore è la facilità con la quale comunica col pubblico, sia che canti, sia che declami, sia che reciti. Artisticamente ci siamo incontrati in uno spettacolo di cabaret, e, benché per entrambi fosse una prestazione estemporanea, ce la siamo cavata con successo. Poi in una sua trasmissione televisiva, nella quale mi aveva invitato, mi ha fatto da spalla, con la disinvoltura degna di una consumata attrice di rivista. Esperienza ripetuta con egual successo a Villa Lais in uno spettacolo all’aperto. Ancora insieme al Divino Amore, un anno è stata la madrina di una grande manifestazione, organizzata da Settimio Ciucci (Maleamato anche lui, ciclista e organizzatore appassionato), nella quale presentavo tutte le squadre ciclistiche laziali. Un colpo d’occhio eccezionale la verde vallata macchiata dai colori delle maglie di centinaia di ciclisti di tantissime squadre. Ed ancora insieme in uno spettacolo di beneficenza nel teatro dello stesso Santuario. Ora, dopo un periodo di stasi dovuto alla morte del marito Eldo Carlone, sta tornando all’attività. Recita brani sacri nelle chiese, e la gente apprezza molto questi suoi interventi, tanto che per strada più di uno la ferma e si complimenta con lei. Ma ovviamente ciò non può bastare. La sua arte merita un più ampio respiro. Ecco, chissà che questo non sia uno stimolo… Sono sicuro che il successo non ci mancherebbe. Ci mancherebbe, e tanto, Eldo dietro le quinte. Ma sarebbe nei nostri cuori. 125 126 Indice Presentazione di Elda A. Vernara 1. Lelio Sordi 2. Alvaro Dini (Farfalla) 3. Anna De Giorgi 4. Dino Valdi 5. Mila Nistri Umberto Moriconi 6. Mario Grimaldi 7. Rosetta, Gigliola, Maruska, Fioretta 8. Silver Scialla 9. Evy Boccone 10. Juzzo Muscuso 11. Manlio Nevastri 12. Derio Pino e Grazia Gori 13. Giulio Massimini 14. Cesare Sarzi 15. Enzo Mendetta 16. Walter Marchetti 17. Enzo La Torre 18. Luca Sportelli 19. Fanfulla 20. Alberto Giglio 21. Dino Rosaspina 22. Franco Valle 23. Romeo D’amico e Jole Pupetta 24. Carlo Jantaffi 25. Gustavo Cacini 26. Bixio Ribechi 27. Zurzin 28. Salvatore Campochiaro 29. Peppino Roberti 30. Enzo Enzi 31. Luciana Lehar 32. Gio–Batta Merlo 33. Enzo Maggio 34. Gianni Sampieri 35. Lydia Raimondi 127 9 11 14 18 21 24 28 31 34 37 40 43 46 49 52 54 61 65 67 70 74 77 81 87 90 93 96 100 103 106 109 112 115 117 121 123 Finito di stampare nel mese di novembre del 2007 dalla tipografia « Braille Gamma S.r.l. » di Santa Rufina di Cittaducale (Ri) per conto della « Aracne editrice S.r.l. » di Roma CARTE: Copertina: Digit Linen 270 g/m2; Interno: Usomano bianco Selena 80 g/m2. ALLESTIMENTO: Legatura a filo di refe / brossura