Sfide e opportunità nel Caucaso e in Asia centrale

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“SFIDE E OPPORTUNITA’
NEL CAUCASO
E IN ASIA CENTRALE”
Ricerca realizzata con il contributo del Ministero degli Affari Esteri
A cura di: Aldo Ferrari, Carlo Frappi, Matteo Fumagalli,
Paolo Sartori, Silvia Tosi, Fabrizio Vielmini
Copyright © 2007 ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale
INDICE
SFIDE E OPPORTUNITA’ NEL CAUCASO E IN ASIA CENTRALE.
INTRODUZIONE ALLA RICERCA
Aldo Ferrari
♦ Caucaso e Asia centrale: da periferie imperiali a oggetti di competizione
geopolitica
♦ Il Caucaso: una frontiera europea?
1
4
♦ Asia centrale: finalmente Heartland
5
♦ Quale politica europea in Caucaso e Asia centrale?
7
GEORGIA, ARMENIA, AZERBAIGIAN: UNA CHANCE EUROPEA?
Aldo Ferrari
♦ Introduzione
10
♦ L’Europa e il Caucaso: uno sguardo storico
10
♦ Georgia, Armenia e Azerbaigian dopo la fine dell’Urss
15
♦ L’Unione Europea in cerca di una politica caucasica
18
♦ La Georgia: una posizione privilegiata?
24
♦ Conclusioni
27
LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO ECONOMICO DELLA TRANSCAUCASIA
Silvia Tosi
♦ Introduzione: la gravosa eredità della transizione
29
♦ Dalla transizione allo sviluppo
33
♦ Conclusioni
65
IL TRANSCAUCASO NELLA POLITICA ESTERA DELLA TURCHIA
Carlo Frappi
♦ Introduzione
66
♦ Le origini della politica estera turca verso gli Stati di Nuova Indipendenza
(1991-1993)
♦ Ridefinizione pragmatica della politica transcaucasica (1994-2000)
69
♦ Il processo di revisione della politica transcaucasica turca a partire dal 2000
92
♦ Conclusioni
96
81
FONTI ENERGETICHE E INFRASTRUTTURE DI TRASPORTO
Silvia Tosi
♦ Le risorse energetiche del bacino del Mar Caspio
♦ Il trasporto delle risorse attraverso il Caucaso: ragioni economiche e “Grande
Gioco” politico-strategico
♦ Conclusioni: l’Europa, la sicurezza energetica e il cosiddetto “Grande Gioco” del
Caspio
98
105
128
L’EVOLUZIONE DELLE STRATEGIE RUSSE NEL CAUCASO (1991-2006)
Aldo Ferrari
♦ Introduzione
130
♦ Il Caucaso settentrionale
131
♦ La Transcaucasia
136
♦ Putin e la politica caucasica della Russia
143
♦ Conclusioni
156
LA DIMENSIONE STRATEGICA DELL’ASIA CENTRALE TRA RUSSIA,
CINA E USA
Matteo Fumagalli
♦ Introduzione
158
♦ Ripensare le dinamiche di integrazione e frammentazione regionali
160
♦ L’importanza strategica del sistema regionale centroasiatico
166
♦ Russia: verso la ricostruzione di un ordine esogeno?
171
♦ Gli Stati Uniti e i dilemmi di sicurezza e democratizzazione
174
♦ Cina: stabilità e sicurezza energetica
176
♦ Orientamenti strategici delle repubbliche centroasiatiche
177
♦ Il riallineamento strategico dalla partnership tra Usa e Uzbekistan al
consolidamento della Sco
♦ Conclusioni
186
193
CONTINUITA’ POST-SOVIETICA, AUTORITARISMO POLITICO E DIRITTI
UMANI IN ASIA CENTRALE
Fabrizio Vielmini
♦ Introduzione
196
♦ Dietro gli sforzi della democratizzazione: il paradigma della transizione
197
♦ Le traiettorie istituzionali delle cinque repubbliche dopo l’indipendenza
201
♦ Problemi nella definizione della sfera politica centroasiatica: sfide interne
214
♦ Il contesto esterno. La “democratizzazione” nel contesto della competizione
geopolitica regionale. L’effetto delle “rivoluzioni colorate”
♦ Conclusioni
229
234
L’ISLAM IN ASIA CENTRALE TRA RECUPERO DELLA TRADIZIONE
E MOVIMENTI RADICALI: IL CASO UZBEKO
Paolo Sartori
♦ Introduzione
238
♦ Alcuni elementi caratteristici dell’Islam in Asia centrale
240
♦ L’Islam in Asia centrale durante l’epoca sovietica
246
♦ L’Islam non ufficiale
251
♦ Dalla perestrojka all’indipendenza: l’epoca della re-islamizzazione
254
♦ Mujaddidiyya e vahhobiylar
256
♦ Uno sguardo alla predicazione e all’Islam online
263
♦ Conclusioni
271
LE RISORSE ENERGETICHE E LE ECONOMIE CENTROASIATICHE
Silvia Tosi
♦ Introduzione
272
♦ La transizione economica post-sovietica
272
♦ Le risorse energetiche centroasiatiche: entità e localizzazione
283
♦ L’esportazione delle risorse: vincoli geografici, esigenze economiche e obiettivi
politico-strategici
♦ Le repubbliche centroasiatiche all’interno della partita energetica:
allineamenti e politiche multivettoriali
288
301
L’UNIONE EUROPEA E L’ASIA CENTRALE
Aldo Ferrari
♦ Introduzione
305
♦ L’Unione Europea e la “Nuova via della seta”
307
♦ Altri accordi di cooperazione
310
♦ La questione della sicurezza
312
♦ Quale strategia europea per l’Asia centrale?
316
♦ L’Unione Europea e la società civile in Asia centrale
321
♦ Conclusioni
323
IL GRUPPO DI RICERCA
325
SFIDE E OPPORTUNITÀ NEL CAUCASO E IN ASIA CENTRALE.
INTRODUZIONE ALLA RICERCA
Aldo Ferrari
Questa ricerca, che si è sviluppata tra il 2006 ed il 2007 grazie alla collaborazione
tra il Ministero degli Esteri e l’Ispi, ha preso in considerazione due aree il cui
significato sta rapidamente crescendo sulla scena internazionale, anche in
un’ottica europea. In particolare, a partire dal 2004 Bruxelles ha inserito le tre
repubbliche del Caucaso meridionale nella Politica Europea di Vicinato e più di
recente, soprattutto sotto l’impulso della presidenza tedesca, sta intensificando il
suo interesse per l’Asia centrale 1 . La sempre maggiore rilevanza di Caucaso e
Asia centrale – regioni ancora complessivamente poco note, soprattutto nel nostro
paese 2 – richiede una rapida estensione degli studi storici, politici, economici e
socio-culturali su queste regioni. La presente ricerca si pone come un contributo
in questa direzione.
1. Caucaso e Asia centrale: da periferie imperiali a oggetti di competizione
geopolitica
Il Caucaso e l’Asia centrale sono in effetti due regioni storicamente e
geograficamente distinte, ma con alcuni punti di forte contatto che consentono – e
in un certo senso impongono – di osservarle in parallelo. In primo luogo perché
entrambe queste regioni sono frutti tardivi dell’espansione imperiale della Russia 3 .
La conquista zarista del Caucaso ha avuto luogo tra il 1780 circa ed il 1864, quella
dell’Asia centrale tra il 1865 ed il 1885. Entrambe le aree sono state al centro di
quella rivalità geopolitica tra l’impero russo e quello britannico nota con il
1
Si vedano a questo riguardo i miei studi Georgia, Armenia, Azerbaigian: una chance europea?,
«ISPI Working Paper» n. 1, ottobre 2006, http://www.ispionline.it/it/documents/wp_1_2006.pdf e
L’Unione Europea e l’Asia centrale, «ISPI Policy Brief» n. 52, maggio 2007,
http://www.ispionline.it/it/documents/pb_52_2007.pdf.
2
Occorre tuttavia segnalare la nascita, avvenuta nel 2004, della Associazione per lo Studio in Italia
dell’Asia centrale e del Caucaso (Asiac), al cui interno collaborano gli specialisti che si occupano
di queste regioni nell’ambito di varie discipline. Cfr. http://www..asiac-centre.it.
3
Per la conquista del Caucaso e dell’Asia centrale si veda A. KAPPELER, La Russia. Storia di un
impero multietnico, tr. it., Roma, 2006, pp. 151-183.
1
suggestivo e kiplinghiano nome di “Grande Gioco” 4 . Tanto il Caucaso quanto
l’Asia centrale hanno poi fatto parte della compagine sovietica, subendone
ampiamente il destino, pur se con proprie peculiarità. In entrambe queste regioni,
con l’eccezione del Kazachstan settentrionale, la colonizzazione russa è stata
molto limitata. In epoca sovietica l’una e l’altra regione sono state oggetto di
processi di ingegneria etno-politica che avrebbero dovuto consentire la
realizzazione del socialismo su una base “nazionale”, nel senso che come in tutta
l’Urss si cercò di creare entità “nazionali” laddove le identità erano in realtà di
tipo clanico, assai spesso multi-linguistiche. Tale politica di territorializzazione
delle identità etniche è alla base di molti degli odierni conflitti. Soprattutto lo
sviluppo delle tre repubbliche indipendenti del Caucaso meridionale – Georgia,
Armenia e Azerbaigian – è gravemente ostacolato dal perdurare dei conflitti
congelati in Abkhazia, Ossetia meridionale e Alto Karabakh. Questo tipo di
conflitti non caratterizza invece le cinque repubbliche ex sovietiche dell’Asia
centrale (Turkmenistan, Uzbekistan, Kazachstan, Kirgizistan e Tagikistan), abitate
quasi completamente da popolazioni di lingua turca (ed eccezione del Tagikistan,
dove si parla una lingua iranica). Tuttavia, anche in questi paesi l’ingegneria
etnico-linguistica di epoca sovietica è stata particolarmente deficitaria. Nessuna di
queste repubbliche ha frontiere razionali e ognuna di esse contiene consistenti
minoranze nazionali 5 .
Nel complesso. all’interno dello spazio prima imperiale e poi sovietico il Caucaso
e l’Asia centrale erano aree di frontiera, periferie lontane dalle zone di maggior
rilevanza geopolitica. La situazione è profondamente mutata con la dissoluzione
dell’Urss. L’intera fascia meridionale dell’ex-Urss costituisce oggi un settore
fondamentale del cosiddetto “Grande Medio Oriente” (o “Grande Asia centrale”),
l’enorme spazio, fondamentale su scala globale per le sue ricchezze energetiche,
che va dalle coste orientali del Mar Nero alle frontiere della Cina 6 .
Venuta meno l’egemonia di Mosca, il Caucaso e l’Asia centrale si trovano
attualmente all’incrocio di un complesso gioco geopolitico che trascende la
dimensione locale. In particolare, in questi anni il ruolo della Turchia e dell’Iran
in Asia centrale (come anche nel Caucaso) è stato più limitato di quanto si
pensasse subito dopo la fine dell’Urss 7 . Nonostante la profonda crisi post4
Cfr. P. HOPKIRK, Il Grande Gioco, tr. it., Milano, 2004 e K. MEYER, La polvere dell’impero.
Il grande gioco in Asia centrale, tr. it., Milano, 2004.
5
Cfr. O. ROY, La Nouvelle Asie Centrale ou la fabrication des nations, Paris, 1997 e P. JONES
LUONG (ed.), The Transformation of Central Asia. States and Societies from Soviet Rule to
Independence, Ithaca, 2004, pp. 332.
6
Cfr. M.R. DJALALI - Th. KELLNER, Moyen-Orient, Caucase et Asie Centrale: des concepts
géopolitiques à construire et à reconstruire?, in «Central Asian Survey», 19, 2000, 1, pp. 117-140.
7
Sul ruolo della Turchia nel Caucaso si veda S. VANER, La politique transcaucasienne de la
Turquie, in M.R. DJALALI, Le Caucase post-soviétique: la transition dans le conflit,
Bruxelles/Paris, 1995, pp. 169-179; M. FUMAGALLI, Le iniziative regionali della Turchia, in A.
COLOMBO et al., Il Grande Medio Oriente. Il nuovo arco dell’instabilità, Milano, 2002, pp. 109158; N.G. KIREEV (ot. red.), Turcija meždu Evropoj i Aziej, Moskva, 2001, soprattutto pp. 356-
2
sovietica degli anni Novanta dello scorso secolo, tanto nel Caucaso quanto in Asia
centrale è invece la Russia che continua a giocare nella regione una partita
ritenuta decisiva per la sua sopravvivenza come superpotenza, almeno regionale,
contrastando entro certi limiti la penetrazione strategica ed economica degli Stati
Uniti 8 . Washington, a sua volta, è interessata in primo luogo ad evitare «il
riemergere di un impero euroasiatico che potrebbe ostacolare l’obbiettivo
geostrategico americano» 9 . Nel Caucaso come nell’Asia centrale ex-sovietica
Washington conduce quindi una politica di penetrazione massiccia che
oggettivamente tende a privare la Russia del tradizionale ruolo dominante. Uno
specialista come Stephen Blank ha scritto esplicitamente: «States and analysts
may talk of international relations as if a new liberal dispensation had come to
pass. But, as in earlier times, they act according to long-standing tenets of realism
and realpolitik. The quest for energy, the source of all the talk of a new great
game between Russia and United States, cannot be understood or separated apart
from more traditional and competitive geostrategies aiming to integrate the
Transcaspian into a Western, or Russian “ecumene”» 10 .
Secondo la maggior parte degli analisti, proprio la competizione politica,
strategica ed economica – non cruenta, ma reale – tra Stati Uniti e Russia nei paesi
post-sovietici dell’Asia centrale e del Caucaso costituisce il dato saliente delle
dinamiche dell’intera regione. Per alcuni aspetti questa competizione richiama
certamente il great game ottocentesco, ma la suggestione di questo parallelo
storico non deve condizionare oltre misura l’analisi della situazione odierna, che è
determinata da fattori in larga misura differenti da quelli ottocenteschi. In
particolare, occorre tener presente la pluralità di agenti statuali locali, superstatuali (Nato, Ue, Osce, Guuam) e sub-statuali (multinazionali, Ong, lobbies di
vario tipo, diaspore, organizzazioni criminali, gruppi terroristici e così via) che
interagiscono a livelli diversi nella regione 11 . Da un punto di vista strategico,
tuttavia, la dinamica principale della grande regione caucasico-centroasiatica può
485; M. AYDIN, Turkey’s Policies toward the South Caucasus and its Integration in EU, in
«Quaderni di Relazioni Internazionali», 2006, 1, pp. 51-62; C. FRAPPI, Il Transcaucaso nella
politica estera della Turchia, «ISPI Working Paper» n. 3, ottobre 2006,
http://www.ispionline.it/it/documents/wp_3_2006.pdf. Per quel che riguarda l’Iran si vedano
invece gli studi di M.R. DJALALI, L’Iran et la Transcaucasie, in IDEM, Le Caucase postsoviétique: la transition dans le conflit, cit., pp. 181-195 e R. REDAELLI, Gli assi strategici della
politica estera iraniana alla luce dell’attuale evoluzione politica interna, in A. COLOMBO et al.,
Geopolitica della crisi. Balcani, Caucaso e Asia centrale nel nuovo scenario internazionale,
Milano, 2001, soprattutto pp. 471-483.
8
Cfr. A. VITALE, La politica estera russa e il Caucaso, in «Quaderni di Relazioni Internazionali»,
2006, 1, pp. 40-50; A. FERRARI, L'evoluzione delle strategie russe nel Caucaso (1991-2006),
«ISPI Working Paper» n. 5, ottobre 2006, http://www.ispionline.it/it/documents/ wp_5_2006.pdf.
9
Z. BRZEZINSKI, La grande scacchiera, tr. it., Milano, 1998, p. 121.
10
S. BLANK, Every Shark East of Suez: Great Power Interests, Policies and Tactics in the
Transcaspian Energy Wars, in «Central Asian Survey», 18, 1999, 2, p. 150.
11
Cfr. M. EDWARDS, The New Great Game and the New Great Gamers: Disciples of Kipling
and Mackinder, in «Central Asian Survey», 22, 2003, 1, pp. 83-102.
3
essere definita di competizione egemonica tra Russia e Stati uniti, con la Cina che
per adesso non si è ancora posta come attore di primo livello nell’area, ma lo farà
con ogni probabilità nei prossimi decenni 12 . In tale contesto il ruolo dell’Unione
Europea è tutto da individuare.
2. Il Caucaso: una frontiera europea?
Se per alcuni aspetti il Caucaso e l’Asia centrale possono essere visti in parallelo,
occorre però tener ben presenti le specificità anche notevoli esistenti tra le due
aree ed all’interno di esse. A differenza dell’Asia centrale, il Caucaso è
storicamente oltre che geograficamente vicino all’Europa, di cui costituisce sin
dall’antichità la frontiera più estrema. Il dato saliente di questa regione è proprio il
suo essere un confine, storico-culturale prima ancora che geografico. In effetti il
Caucaso ha separato per millenni gli spazi delle steppe eurasiatiche dai sistemi
politici e culturali complessi del Vicino Oriente. Conseguenza di questa situazione
è stata l’estrema frammentazione etno-linguistica e culturale della regione e la sua
sostanziale divisione in due parti, l’una a nord l’altra a sud dello spartiacque,
caratterizzate da dinamiche ampiamente autonome 13 . Solo la conquista zarista
riuscì ad unificare i due versanti del Caucaso, inserendoli durevolmente in un
unico sistema politico e culturale. Dopo la dissoluzione dell’Urss, tuttavia, le due
aree sono tornate a dividersi. La parte settentrionale appartiene alla Federazione
Russa, mentre quella meridionale è costituita dalle tre repubbliche divenute
indipendenti dopo il 1991: Georgia, Armenia e Azerbaigian. Entrambe le parti del
Caucaso sono state scosse da violenti conflitti inter-etnici, in larga misura ancora
irrisolti. La tragica questione cecena costituisce il principale, ma non l’unico
fattore di instabilità del Caucaso settentrionale, dove la Russia non è ancora
riuscita a trovare una politica di stabilizzazione della regione che vada oltre la
mera repressione 14 .
Il Caucaso meridionale ha invece visto il difficile cammino verso l’indipendenza
di Georgia, Armenia e Azerbaigian. Oltre alle numerose difficoltà di carattere
culturale, sociale ed economico derivanti dal lascito sovietico, che ne ostacolano il
cammino verso una compiuta democrazia, questi paesi hanno pesantemente
risentito della persistenza dei conflitti congelati in Abkhazia e Ossetia meridionale,
in Georgia, e nell’Alto Karabakh, tra Armenia e Azerbaigian. Conflitti di carattere
interetnico, certo, ma la cui mancata soluzione dipende largamente dalla rivalità
geopolitica di agenti esterni, che ha sostanzialmente preso in ostaggio i popoli
della regione. Si tratta infatti di una regione fortemente conflittuale, nella quale sta
avendo luogo una sempre più contrastata “transizione egemonica” – dalla Russia
12
Per il quadro della situazione geopolitica dell’Asia centrale si veda nell’ambito di questa ricerca
lo studio di M. FUMAGALLI, La dimensione strategica dell’Asia centrale tra Russia, Cina e Usa.
13
Cfr. A. FERRARI, Il Caucaso. Popoli e conflitti di una frontiera europea, Roma 2005, pp. 8-9.
14
Cfr. A. FERRARI, L'evoluzione delle strategie russe nel Caucaso (1991-2006), cit.
4
agli Stati Uniti 15 . Si tenga presente che dopo la dissoluzione dell’Unione
Sovietica è proprio attraverso il Caucaso meridionale che è stato deciso di far
passare un fondamentale corridoio di gasdotti e oleodotti per convogliare sui
mercati occidentali le risorse energetiche del Caspio e dell’Asia centrale 16 .
Tuttavia, gli stessi percorsi di oleodotti e gasdotti – che escludono l’Armenia in
quanto fedele, ancorché obbligata, alleata di Mosca nella regione – mostrano
chiaramente l’interdipendenza dei conflitti etno-territoriali della regione con la
competizione strategica ed economica delle potenze esterne.
La stabilità del Caucaso – in particolare di Georgia, Armenia e Azerbaigian – e le
sue potenzialità di sviluppo dipendono essenzialmente dall’equilibrio con cui gli
agenti interni ed esterni si muoveranno in una situazione che rimane
estremamente complessa e problematica. E’ infatti fondamentale che la regione
possa sottrarsi all’odierna situazione di “faglia” geopolitica per far sì che la sua
posizione strategica divenga occasione di sviluppo e non di conflitto. Da questo
punto di vista, nonostante tutti i dubbi e le difficoltà, l’inserimento delle tre
repubbliche del Caucaso meridionale nella Politica Europea di Vicinato
costituisce nel complesso uno sviluppo potenzialmente positivo tanto per l’Unione
Europea quanto per i paesi della regione 17 . E questo anche a prescindere dalla
prospettiva – ufficialmente non in agenda – di una futura membership di Georgia,
Armenia e Azerbaigian.
3. Asia centrale: finalmente Heartland
Rispetto al Caucaso, l’Asia centrale appare invece decisamente “altra” rispetto
alle dinamiche storiche europee. Si tratta in effetti della regione più settentrionale
del mondo musulmano, che solo la dominazione russa e sovietica ha avvicinato
parzialmente alle dinamiche occidentali. Prima della rivoluzione alcuni suoi centri,
in particolare Bukhara e Samarcanda, avevano avuto per secoli un ruolo rilevante
nel mondo islamico. Da un punto di vista economico si tratta di paesi molto
arretrati, che nell’ambito russo e poi sovietico erano caratterizzati da una
posizione quasi coloniale, visibile ad esempio nella monocultura del cotone,
soprattutto in Uzbekistan. Negli ultimi decenni sovietici le repubbliche dell’Asia
centrale conobbero un notevole incremento demografico, facendo anche
prevedere – in un libro di Hélène Carrère D’Encausse tanto famoso quanto poi
15
Si veda il mio articolo, La Georgia tra Federazione Russa e Stati Uniti: un modello di
transizione egemonica?, in A. COLOMBO (a cura di), La sfida americana. Europa, Medio
Oriente e Asia orientale di fronte all’egemonia globale degli Stati Uniti, ricerca CeMISS/ISPI,
Milano, 2006, pp. 56-78.
16
Si veda lo studio di S. TOSI, Fonti energetiche e infrastrutture di trasporto, «ISPI Working
Paper» n. 4, ottobre 2006, http://www.ispionline.it/it/documents/wp_4_2006.pdf.
17
Si vedano a questo riguardo anche il volume The South Caucasus: a challenge for the EU,
«Chaillot Paper» n. 65, December 2003 e lo studio di S. E. CORNELL, The Caucasus: A
Challenge for Europe, http://www.silkroadstudies.org/new/docs/Silkroadpapers/0606Caucasus.
pdf.
5
clamorosamente smentito – che tale processo avrebbe provocato la fine
dell’Urss 18 . Le cose, come sappiamo, non andarono così, anzi le repubbliche
centroasiatiche furono per così dire costrette a subire un’indipendenza che non
avevano richiesto ed alla quale non erano preparate.
La dissoluzione dell’Urss e la ricchezza energetica di alcune di queste repubbliche
(in particolare Kazachstan e Turkmenistan sono grandi produttori di gas e
petrolio) hanno notevolmente accresciuto l’importanza dell’Asia centrale nello
scenario politico internazionale 19 , facendola divenire almeno in parte
quell’Heartland, regione-perno degli equilibri mondiali, che i geopolitici hanno
visto in essa sin dalle teorizzazioni di Mackinder ai primi del Novecento.
Ciononostante, rispetto alle violente convulsioni del Caucaso post-sovietico, la
situazione dell’Asia centrale poteva apparire relativamente tranquilla sino a pochi
anni fa. Nonostante l’estrema arretratezza e i numerosi potenziali conflitti, solo il
Tagikistan (che confina con Iran e Afghanistan) ha conosciuto nei primi anni postsovietici una vera guerra civile, che vide fronteggiarsi uno schieramento islamista
e uno laico, con la vittoria di quest’ultimo, appoggiato dalla Russia. In tre delle
repubbliche centroasiatiche al potere sono rimaste le stesse persone che lo
detenevano in epoca sovietica come segretari del partito comunista locale:
Nazarbaev nel Kazachstan, Karimov nell’Uzbekistan, Niyazov nel Turkmenistan.
Un’eccezione era costituita da Akaev, presidente del Kirgizstan sino al 2005, che
proveniva dall’ambito accademico, mentre Rakhmonov si affermò nel Tagikistan
dopo la conclusione della guerra civile. Queste figure, a volte collettivamente
chiamate “nuovi khan” 20 , sono riuscite in effetti a mantenere nei loro paesi una
relativa stabilità che però, con la parziale eccezione del Kazachstan, non ha
determinato né un sensibile miglioramento del livello di vita delle popolazioni né
una reale democratizzazione. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, in tutti
questi paesi il potere è quindi rimasto sostanzialmente in mano all’antica classe
dirigente comunista, riciclatasi nel nuovo contesto politico con modalità di
governo di tipo nazionalista, clanico e autoritario 21 . Soprattutto il Turkmenistan
del “duce” Niyazov e l’Uzbekistan di Karimov si sono in effetti dimostrati
particolarmente illiberali, con la tendenza a definire “islamista” ogni forma di
18
Cfr. H. CARRÈRE D’ENCAUSSE, Esplosione di un impero? La rivolta delle nazionalità in
Urss., tr. it., Roma, 1988.
19
Si veda, nell’ambito di questa ricerca, lo studio di S. TOSI, Le risorse energetiche e le economie
centroasiatiche.
20
Cfr. G.P. CAPITANI, I nuovi khan: popoli e stati nell’Asia centrale desovietizzata, Milano,
1996.
21
Su questo tema rimando all’interno di questa ricerca allo studio di F. VIELMINI, Continuità
post-sovietica, autoritarismo politico e diritti umani in Asia centrale. Si vedano inoltre il recente
studio di S.F. STARR, Clans, Authoritarian Rulers, and Parliaments in Central Asia, «Silk Road
Paper», June 2006, http://www.silkroadstudies.org/new/docs/Silkroadpapers/0605Starr_Clans.pdf
e anche J. KOHLER - Ch. ZURCHER, Conflict and the State in the Caucasus and Central Asia:
An Empirical Research Challenge, Institut der Freien Univesität, Berlin, 2004, soprattutto pp. 5667.
6
opposizione politica e a reprimerla duramente in quanto tale 22 . La stabilità dei
regimi presidenziali della regione ha però iniziato a incrinarsi nella primavera del
2005, che vide la caduta di Akaev in Kirghizstan e i gravi disordini che si
verificarono nella città uzbeka di Andijan.
Il cambiamento geopolitico verificatosi su scala globale dopo l’11 settembre 2001
ha coinvolto profondamente l’Asia centrale, dove si è assistito in questi anni a un
tentativo di penetrazione degli Stati Uniti che, dopo l’iniziale successo, sembra
essere al momento sostanzialmente fallito 23 . Da un punto di vista geopolitico la
regione appare al momento più orientata verso la Russia e la Cina, che rispetto
agli Stati Uniti sono più “vicini”, da un punto di vista non solo geografico, ma
anche politico e culturale. Mosca e Pechino, tra l’altro, sembrano capaci di
collaborare
fruttuosamente
nella
regione,
soprattutto
nell’ambito
dell’Organizzazione per la Sicurezza di Shanghai, che riunisce Russia, Cina e
paesi centroasiatici.
4. Quale politica europea in Caucaso e Asia centrale?
Il problema dell’Europa è quindi quello di inserirsi in queste complesse dinamiche
caucasiche e centroasiatiche, individuando le modalità più opportune e produttive
e valutando attentamente i rischi connessi a un suo maggior coinvolgimento. Il
Caucaso – intendendo ovviamente le repubbliche indipendenti di Georgia,
Armenia e Azerbaigian, mentre la parte settentrionale della regione resta inserita
nella Federazione Russa – è relativamente più agevole per i maggiori contatti
storico-culturali esistenti con l’Europa (soprattutto per quel che riguarda le prime
due). Almeno uno di questi paesi, la Georgia, è inoltre apertamente filooccidentale e particolarmente desiderosa di affermare la sua identità europea
(anche in prospettiva politica), ovviamente in chiave anti-russa. Più complessa è
invece la posizione dell’Armenia, la cui propensione europea è controbilanciata
da forti e indispensabili rapporti con la Russia. L’Azerbaigian, infine, il paese più
rilevante della regione da un punto di vista economico e strategico, è al tempo
stesso il meno vicino alla prospettiva europea per ragioni storico-culturali e
politiche. Nel complesso, tuttavia, l’inserimento di questi paesi nella Politica
Europea di Vicinato a partire dal 2004 ha una plausibilità che potrebbe
ulteriormente aumentare se la Turchia venisse accolta nell’Unione Europea, ma
deve evidentemente fare i conti con una situazione geopolitica fortemente segnata
dai conflitti interni e dalla rivalità tra Stati Uniti e Russia.
22
Su queste dinamiche e per un vasto quadro del ruolo dell’islam in Asia centrale si veda lo studio
di P. SARTORI, L’islam in Asia centrale, tra recupero della tradizione e movimenti radicali: il
caso uzbeko,
23
Cfr. F. VILLIER (pseud. Di F. VIELMINI), Les États-Unis en Asie centrale: Chronique d’une
défaite annoncée, in «Outre-terre – Revue française de géopolitique», 2006, 17, e S. BLANK,
America Strikes back? Geopolitical Rivalry in Central Asia and Caucasus, in «Central AsiaCaucasus Analyst», 17 May 2006, http://www.cacianalyst.org/view_article.php?articleid=4233.
7
Nei confronti dell’Asia centrale l’Unione Europea si trova invece in una
situazione quanto mai complessa. Il suo peso nella regione è ovviamente limitato
dalla distanza geografica e dalla scarsa quantità e qualità dei rapporti tradizionali,
nonché dall’assenza di stati europei che si propongano come sponsor nei confronti
di quelli locali. Le repubbliche post-sovietiche dell’Asia centrale hanno inoltre
dinamiche politiche e sociali molto particolari, che le distaccano completamente
dal paradigma dei “paesi in transizione” dell’Europa orientale e li avvicinano per
certi aspetti piuttosto ad altri stati asiatici e musulmani come il Pakistan o l’Iran.
Da questo punto di vista è molto importante che l’Unione Europea riesca in tempi
brevi ad aumentare sensibilmente la propria capacità di analisi politica e culturale,
oltre che economica, di una regione così complessa 24 . Come è stato osservato,
«sono necessarie nuove chiavi di lettura e paradigmi d’interpretazione della realtà
regionale in modo da uscire dalla gabbia interpretativa e dal peso ideologico del
paradigma della transizione»25 .
Al tempo stesso, tuttavia, l’Unione Europea ha forti e crescenti interessi
economici in Asia centrale, soprattutto per quel che riguarda la necessità di
trovare forniture energetiche alternative. Di grande rilievo sono anche le questioni
di sicurezza, riguardanti in primo luogo il vicino Afghanistan, nonché le
dinamiche terroristiche, il traffico di armi e stupefacenti e così via 26 . La crescente
attenzione dell’Unione Europea, sancita soprattutto dalla attuale presidenza
tedesca, ha quindi fondate motivazione, ma deve naturalmente declinarsi in
maniera prudente e sulla base di un chiaro progetto di lunga durata.
Occorre soprattutto che Bruxelles individui con attenzione i suoi concreti
interessi strategici, che devono per quanto possibile raccordarsi e non porsi in
contrasto con quelli degli altri attori che agiscono nella regione. Con gli Stati
Uniti, naturalmente, ma anche con la Russia, che ha superato la devastante crisi
post-sovietica che l’aveva attanagliata negli anni Novanta dello scorso millennio e
si pone invece adesso come indispensabile referente politico ed economico in
Asia centrale. E ancora con la Cina, il cui ruolo nella regione è destinato a
crescere, e che per molti aspetti sta trovando un linguaggio comune con Mosca. Il
punto cruciale è quindi che l’Unione Europea in Asia centrale si ponga non come
competitore geopolitico – un ruolo al quale non è attrezzata in assoluto e tanto
meno in questa regione – quanto come fattore di cooperazione e integrazione tra i
diversi attori esterni e interni.
24
Cfr. Z. BARAN et al., Islamic Radicalism in Central Asia and the Caucasus: Implications for
the EU, «Silk Road Paper», July 2006, http://www.silkroadstudies.org/new/docs/Silkroadpapers/
0607Islam.pdf.
25
F. VIELMINI, Continuità post-sovietica, autoritarismo politico e diritti umani in Asia centrale,
cit.
26
Cfr. A. SCHMITZ, A political Strategy for Central Asia, in V. PERTHES - S. MAIR (eds.),
European Foreign and Security Policy. Challenges and Opportunities for German EU Presidency,
«SWP Research Paper», October 2006, 10, http://www.swp-berlin.org/common/get_document.
php?asset_id=3366 e N.J. MELVIN, Building Stronger Ties, Meeting New Challenges: The
European Union’s Strategic Role in Central Asia, «CEPS Policy Brief», 28 March 2007.
8
Tanto nel Caucaso come in Asia centrale Bruxelles può sfruttare il vantaggio di
non essere portatrice di aspirazioni egemoniche, a differenza della Russia, degli
Stati Uniti e in prospettiva anche della Cina. Qui come in altre parti del mondo,
l’Unione Europea viene infatti largamente percepita come un modello
“occidentale”, cioè avanzato dal punto di vista politico, sociale e economico, ma
meno aggressivo di quello statunitense e quindi per molti aspetti più attraente. Pur
avendo anch’essa interessi economici e di sicurezza tanto nel Caucaso quanto in
Asia centrale, l’Unione Europea può aspirare ad avvicinare a sé queste regioni
essenzialmente nell’ambito di uno spazio di valori politici e culturali condivisi che
alcuni iniziano a definire “l’impero europeo” 27 . E’ però molto importante che
questo avvenga in maniera realista, sulla base di una conoscenza approfondita
delle realtà locali e senza lasciarsi fuorviare da moralismi astratti e spesso solo
retorici.
La capacità di individuare una strategia efficace, realista e concreta verso il
Caucaso e l’Asia Centrale – che sono tra le aree più complesse del globo –
costituisce in effetti un importante banco di prova delle potenzialità della politica
estera dell’Unione Europea nel prossimo futuro.
27
Cfr. M. GUDERZO, L’impero europeo, in «Studi Urbinati», Nuova Serie A, 56, 2004/2005, 3,
pp. 357-379 e J. ZIELONKA, Europe as Empire: The Nature of the Enlarged European Union,
Oxford, 2006.
9
GEORGIA, ARMENIA, AZERBAIGIAN:
UNA CHANCE EUROPEA?
Aldo Ferrari
Introduzione
La nomina, nel luglio del 2003, di un Rappresentante Speciale dell’Unione
Europea per il Caucaso meridionale, ha ufficialmente sancito l’accresciuto
interesse di Bruxelles per questa regione. Si tratta in effetti di un passo persino
tardivo se teniamo presente la prossimità geografica del Caucaso al nostro
continente e la sua notevole rilevanza strategica ed economica, peraltro
gravemente segnata da conflitti interni e rivalità geopolitiche esterne. Per oltre un
decennio l’Unione Europea ha in effetti mantenuto un profilo estremamente basso
in questa regione, ma il grande allargamento verso est compiuto nel 2004 e la
prospettiva di un ulteriore estensione (la Romania e la Bulgaria verosimilmente
nel 2007, quindi – se andranno in porto le complesse trattative che la riguardano –
la Turchia, il cui ingresso porterebbe le frontiere dell’Unione direttamente sul
Caucaso) sembrano aver sostanzialmente modificato tale atteggiamento. Questo
studio si propone pertanto di esaminare le prospettive delle nuove prospettive
della politica dell’Unione Europea verso il Caucaso meridionale.
1. L’Europa e il Caucaso: uno sguardo storico
Sin dall’antichità il Caucaso costituisce in effetti una sorta di estrema frontiera
culturale e psicologica, oltre che geografica, del continente europeo 1 . Alcuni
popoli caucasici, in particolare i georgiani e gli armeni, hanno comunque
mantenuto per secoli stretti contatti con l’Europa. Un rapporto approfondito dopo
che la loro conversione al cristianesimo, nel IV secolo, li isolò nel contesto
politico-culturale del Vicino Oriente, prima iranico e poi islamico (arabo, persiano
e turco). Georgiani ed armeni inviarono per secoli missioni diplomatiche
all’Europa cristiana alla vana ricerca di aiuto 2 sinché, soprattutto nel corso del
Settecento, iniziarono a rivolgere alla Russia le loro aspettative. Nei primi decenni
dell’Ottocento la Georgia e la parte nord-orientale dell’Armenia entrarono a far
1
A. FERRARI, Il Caucaso. Popoli e conflitti di una frontiera europea, Roma, 2005, pp. 7-8.
N. GABAŠVILI, La Georgia e Roma. Duemila anni di dialogo tra cristiani, Città del Vaticano,
2003, pp. 61-107 e A. FERRARI, La salvezza viene da Occidente. Il messianismo apocalittico
nella cultura armena, in idem, L’Ararat e la gru. Studi sulla storia e la cultura degli armeni,
Milano, 2003, pp. 62-64.
2
10
parte dell’impero russo. Occorre tuttavia avere ben chiara la sostanziale differenza
dell’atteggiamento che questi due popoli cristiani del Caucaso meridionale hanno
avuto nei confronti della conquista russa. Per quanto complessivamente positivo
nella sfera della sicurezza, dell’economia e della cultura, l’inserimento
nell’impero russo, che li privò della loro antica e pur precaria indipendenza, nel
complesso non è mai stato accettato dai georgiani 3 . Per gli armeni, da secoli privi
di un proprio stato, la conquista russa del Caucaso fu invece un evento
sostanzialmente positivo e ben accetto, in quanto li sottraeva al secolare e spesso
intollerabile dominio musulmano 4 . In particolare, gli armeni entrati a far parte
dell’impero russo poterono evitare il genocidio subito dai connazionali
dell’impero ottomano nel 1915. Tanto per i georgiani quanto per gli armeni,
tuttavia, l’inserimento nell’orbita zarista ha consentito un sostanziale ingresso
nella cultura europea moderna, sia pure recepita attraverso il prisma di quella
russa. Per quel che riguarda le popolazioni musulmane di lingua turca dell’attuale
Azerbaigian, nella parte sud-orientale della regione caucasica, occorre osservare
come non abbiano offerto – a differenza dei loro correligionari del Caucaso
settentrionale – una vera resistenza alla conquista russa. Tra l’altro, è stato solo
attraverso la mediazione russa che gli azeri si sono avvicinati in epoca moderna
alla cultura dell’Europa, con la quale in precedenza non avevano avuto
praticamente rapporti 5 .
Dopo il crollo dell’impero russo nel 1917, all’Europa guardarono vanamente
anche le effimere repubbliche di Georgia e Armenia, che conobbero una precaria
esistenza dal 1918 al 1920-1921, quando, insieme all’Azerbaigian, vennero
fagocitate dall’Unione Sovietica, seguendone la sorte sino al 1991 6 .
Anche nella parte meridionale del Caucaso l’inserimento nella compagine
sovietica determinò il rafforzamento di identità nazionali che, peraltro, già in
precedenza apparivano molto marcate, almeno nel caso di armeni e georgiani. Le
repubbliche di Georgia, Armenia ed Azerbaigian si fusero nel 1922 nella
Repubblica Federale Socialista Sovietica della Transcaucasia che alla fine di
quello stesso anno entrò nel patto costitutivo dell’Urss insieme a Russia, Ucraina
e Bielorussia. Ricondotte nell’orbita di una Russia divenuta sovietica, queste
repubbliche dovettero subirne le conseguenze in tutti i campi della vita politica,
socio-economica e culturale. Tuttavia, a differenza che nel Caucaso settentrionale,
il potere sovietico non dovette affrontare qui la resistenza armata di piccole e
bellicose etnie montanare, ma inserire nel nuovo contesto ideologico realtà
politiche e culturali di notevole tradizione. Questo compito fu particolarmente
3
Si veda a questo riguardo lo studio di L. MAGAROTTO, L’annessione della Georgia alla Russia
(1783-1801), Udine, 2004.
4
A. FERRARI, Alla frontiera dell’impero. Gli armeni in Russia (1801-1917), Milano, 2000.
5
Per un quadro dell’evoluzione dell’Azerbaigian in epoca zarista cfr. A.L. ALTSTADT, The
Azerbajani Turks. Power and Identity under Russian Rule, Stanford, 1997, pp. 15-87.
6
F. KAZAMZADEH, The Struggle for Transcaucasia. 1917-1921, New York/Oxford 1951; S.
AFANASYAN, L’Arménie, l’Azerbaïdjan et la Géorgie de l’indépendance à l’instauration du
pouvoir soviétique, Paris, 2001.
11
difficile in Georgia, dove la bolscevizzazione incontrò seri ostacoli. Le terre della
nobiltà, da sempre classe dominante in Georgia, furono espropriate nel 1923, ma
senza prestare attenzione all’aspirazione dei contadini a divenirne proprietari.
Importante fu invece il processo di korenizacija, cioè di radicamento, che portò i
georgiani ad occupare posti dirigenti sino ad allora occupati prevalentemente da
russi e armeni residenti nella repubblica 7 . Negli anni 1923-1924 all'interno del
territorio georgiano vennero create le repubbliche autonome di Abkhazia, Ossetia
Meridionale e Agiaria, mentre – nonostante le accese proteste armene –
l'Azerbaigian ottenne le repubbliche autonome del Nakhichevan (un'exclave
all'interno della repubblica armena allora abitata solo per metà da Azeri) e
dell’Alto Karabakh, abitato in larga maggioranza da Armeni. Queste decisioni
territoriali favorevoli alla repubblica turca dell'Azerbaigian vennero prese
soprattutto perché in quel periodo l'Urss ricercava l'alleanza della nuova Turchia
kemalista in funzione anticapitalista ed antioccidentale. Una speranza presto
svanita, ma le decisioni di quegli anni, soprattutto riguardo all’Alto Karabakh,
continuano a pesare sui rapporti tra le repubbliche transcaucasiche 8 .
Nella repubblica sovietica armena si ebbero da un lato le consuete politiche di
repressione antireligiosa e collettivizzazione, ma al tempo stesso proseguì – sia
pure in un contesto assai diverso – lo sviluppo culturale e socio-politico iniziato in
epoca zarista. In questa piccola porzione nord-orientale dell’Armenia storica si
concentrarono anche numerosi armeni provenienti dai territori diasporici, in
particolare da Georgia e Azerbaigian. Nel volgere di pochi decenni l’Armenia
divenne una delle repubbliche più istruite ed industrializzate dell’intera Unione
Sovietica 9 .
L’Azerbaigian aveva un notevole significato nell’ottica sovietica come avamposto
verso il mondo asiatico, in particolare islamico. Nel settembre del 1920 Baku
ospitò il Primo Congresso dei Popoli dell’Oriente, importante ma vano tentativo
sovietico di impostare una espansione della rivoluzione verso l’Asia. Come si è
visto, questa attenzione verso la Persia e soprattutto la Turchia fecero sì che
l’Azerbaigian ricevesse l’Alto Karabakh ed il Nakhichevan, territori su quali gli
armeni avevano nel complesso maggiori diritti storici, ma questo non evitò i
traumi della sovietizzazione: le strutture religiose islamiche furono duramente
combattute sin dall’inizio, mentre alla fine degli anni Venti giunsero la
collettivizzazione e l’industrializzazione forzata, basata ovviamente in primo
luogo sullo sfruttamento dei ricchi giacimenti petroliferi locali. Al tempo stesso, il
paese conobbe anche una forte modernizzazione culturale e l’azeri si affermò
come lingua di cultura, scritta dapprima in caratteri latini, poi cirillici 10 .
7
Su questa fase della storia georgiana si veda R.G. SUNY, The Making of Georgian Nation,
Bloomington/Indianapolis, 1994, pp. 208-291.
8
S. BLANK, The Soviet conquest of Georgia, in «Central Asian Survey», 1993, 1, p. 33-46.
9
G. DÉDÉYAN (a cura di), Storia degli armeni, Milano, 2002, pp. 411-440.
10
S. SALVI, La mezzaluna con la stella rossa. Origini, storia e destino dell’islam sovietico,
Genova 1993, pp. 225-226.
12
Nel 1936 la dirigenza sovietica decise che i pericoli nazionalistici non
sussistevano più e la Federazione trancaucasica venne divisa nelle tre repubbliche
di Georgia, Armenia e Azerbaigian. In tutti e tre i paesi transcaucasici la
repressione politica degli oppositori fu peraltro durissima, toccando il culmine
negli anni 1936-1938, quando venne eliminata buona parte dei quadri politici,
intellettuali e religiosi di queste popolazioni. Tra le vittime più illustri vi furono
ecclesiastici (in particolare il patriarca armeno, Khoren I), intellettuali (tra gli altri
i poeti Charents e Tabidze, armeno il primo, georgiano il secondo), numerosi
“islamisti” azeri ecc. Occorre tuttavia tener presente che queste repressioni non
furono dirette in modo particolare contro le popolazioni transcaucasiche, ma
riguardarono l’intera popolazione sovietica.
Benché un certo numero di georgiani, armeni ed azeri avessero militato affianco
ai Tedeschi nel corso della Seconda Guerra Mondiale, queste popolazioni – le più
numerose della regione caucasica – non vennero invece coinvolte dalle repressioni
che coinvolsero numerose popolazioni del Caucaso meridionale 11 . Anzi, furono
ricompensate per la loro sostanziale fedeltà allo stato sovietico durante la guerra
con rilevanti concessioni di carattere culturale e religioso (allentamento della
repressione antireligiosa, creazione di Accademie delle Scienze e così via). Nei
decenni successivi il Caucaso meridionale conobbe un periodo di relativa
tranquillità. Il potere sovietico si accontentava di un modus vivendi gestito da
un’élite burocratica legata al partito senza più esercitare la violenta repressione
degli anni 1920-1950. Seguendo l’evoluzione complessiva dello stato sovietico,
anche le popolazioni caucasiche passarono cioè dal terrore al ristagno, sia
economico che socio-culturale, senza che le loro aspirazioni politiche, religiose o
sociali potessero manifestarsi apertamente. Né, d’altro canto, potevano venire alla
luce le molteplici tensioni interetniche che covavano sotto la cenere in diverse
parti della regione caucasica 12 .
Gradualmente, però, soprattutto tra georgiani ed armeni – popoli di antica
tradizione storica e culturale – si osservò una sempre più forte rinascita del
sentimento nazionale, ovviamente in latente contrasto con l’ordinamento
ideologico sovietico. Tra gli armeni va segnalata in questo senso soprattutto
l’imponente manifestazione dell’aprile 1965 per commemorare il 50° anniversario
del genocidio, mentre cominciava a rafforzarsi la richiesta della regione autonoma
dell’Alto Karabakh di distaccarsi dell’Azerbaigian 13 .
11
A. NEKRIČ, Popoli deportati. Il genocidio delle minoranze nazionali sotto Stalin: una ferita
ancora aperta, trad. it., Milano, 1978.
12
G. F. SCHROEDER, Transcaucasia since Stalin, in R.G. SUNY (ed.), Transcaucasia.
Nationalism and Social Change, Ann Arbor, 1996, pp. 461-479.
13
C. MOURADIAN, Autour du Karabagh et du mouvement national arménien, in M. BUTTINO
(ed.), In a Collapsing Empire. Underdevelopment, Ethnic Conflicts and Nationalism in the Soviet
Union, Milano, 1997, pp. 203-219.
13
In Georgia, invece, iniziò a delinearsi sin dagli anni Settanta un “nazionalismo
eterodosso” 14 , capace di contestare vivacemente i tentativi di Mosca di limitare
l’uso della lingua nazionale. Di fronte a intense manifestazioni popolari, il potere
sovietico fu costretto a riconfermare il georgiano come lingua di stato della
Repubblica di Georgia. Solo con la perestrojka, tuttavia, queste tendenze poterono
trovare uno sbocco significativo, dagli esiti spesso devastanti, sia internamente
che verso l’esterno. In Georgia le sempre più accentuate spinte nazionaliste –
rivolte principalmente contro le minoranze etniche della repubblica, ma anche
contro i russi – determinarono un’ultima, violenta, reazione da parte sovietica,
culminata nel massacro dell’aprile 1989, con 19 morti e centinaia di feriti 15 . Nelle
prime elezioni libere svoltesi in Georgia dopo l’occupazione sovietica trionfarono
le forze nazionaliste, guidate da un ex dissidente, Zviad Gamsakhurdia. Il paese
iniziò allora a muoversi su un cammino di secessione unilaterale dall’Urss. Nel
marzo del 1991 un referendum approvò la ricostituzione della repubblica
georgiana indipendente. In aprile venne proclamata l’indipendenza ed a maggio
Gamsakhurdia fu eletto presidente.
Ancora più grave per l’Urss fu l’evoluzione della situazione in Armenia. Nel 1988
gli abitanti armeni dell’Alto Karabakh, che costituivano circa l’80 per cento della
popolazione di questa regione autonoma, avanzarono con decisione la richiesta di
unirsi alla repubblica armena. Alla guida di questo movimento nazionale si pose il
“Comitato Karabakh”, guidato da Levon Ter Petrosyan e caratterizzato anche da
un forte orientamento democratico. La mancata risposta da parte delle autorità, ma
anche l’iniziale assenza di una vera repressione, diedero a tali rivendicazioni un
carattere di massa. La reazione azera fu totalmente negativa e condusse a diverse
aggressioni ai danni degli armeni, culminate alle fine del febbraio di quell’anno
con un pogrom nella città di Sumgait. Nei mesi successivi quasi tutti gli armeni
abbandonarono l’Azerbaigian, in numero di circa 200.000. La popolazione azera
della repubblica armena seguì il percorso inverso. Il devastante terremoto che
colpì a dicembre l’Armenia attenuò, ma per poco tempo, la gravità della
situazione. L’incapacità delle autorità sovietiche di risolvere la questione dello
status dell’Alto Karabakh ha probabilmente contribuito ad innescare un
meccanismo di violenze incrociate dal quale l’intera regione caucasica non è
ancora uscita. Negli anni successivi l’Armenia condusse a marce forzate la
desovietizzazione del paese. Nel maggio del 1990 Ter Petrosyan fu eletto
presidente del parlamento armeno, mentre il 23 settembre dello stesso anno il
soviet supremo della repubblica approvò una dichiarazione di sovranità, peraltro
sempre all’interno dell’Urss.
La perestrojka non trovò invece una risposta politica immediata nell’Azerbaigian.
Solo nell’estate del 1988 in questa repubblica si organizzò un movimento di
opposizione, il Fronte Nazionale, di orientamento rinnovatore, laico e filo-turco.
Un nuovo pogrom anti-armeno a Baku nel gennaio 1990 provocò l’intervento
14
15
R.G. SUNY, The Making of Georgian Nation, cit., 308.
Ibidem, p. 322.
14
delle forze sovietiche, che la notte del 20 gennaio entrarono nella capitale azera
perpetrando una strage della popolazione civile e proclamando lo stato di
emergenza 16 .
Quasi al termine della sua esistenza, l’Unione Sovietica diede quindi prova in
tutte e tre le repubbliche della Transcaucasia di una residua capacità di repressione.
2. Georgia, Armenia e Azerbaigian dopo la fine dell’Urss
Lo specifico retroterra storico-culturale di queste repubbliche ne ha sensibilmente
influenzato l’orientamento verso la Russia e l’Europa negli anni post-sovietici.
Mentre Georgia ed Armenia hanno una dichiarata vocazione europea e si sono
poste sin dall’inizio la prospettiva di una richiesta di ingresso nell’Ue,
l’Azerbaigian ha a questo riguardo un atteggiamento più sfumato. La posizione di
tutte e tre le repubbliche transcaucasiche è stata e continua ad essere fortemente
condizionata dalla vicinanza della Russia.
Sin dal 1991 è stata invece soprattutto la Georgia a coltivare con ostinazione il
progetto di un completo distacco dalla Russia e di un sempre maggiore
avvicinamento all’Occidente 17 . Un atteggiamento che ha notevolmente
compromesso i rapporti con Mosca, che in questi anni ha appoggiato le
rivendicazioni separatiste delle minoranze abkhaza e osseta, peraltro provocate in
larga misura dalla politica ultra-nazionalista del primo presidente della Georgia
indipendente, Gamsakhurdia. Anche se il suo successore, Shevarnadze, fu più
prudente nei confronti della Russia, facendo tra l’altro entrare il paese nella Csi,
né la sconfitta nei conflitti con i secessionisti abkhazi e osseti né la gravissima
situazione economica in cui la repubblica è precipitata hanno però modificato
l’aspirazione georgiana a fuoriuscire dall’orbita russa. Un’aspirazione che sembra
derivare da una sorta di fideistica attesa di una salvezza provvidenziale,
proveniente dall’esterno, dal lontano Occidente. La Georgia, ha dichiarato nel
1997 l’allora presidente del parlamento Zhvania, “aspira all’Europa, ad un futuro
europeo” 18 . La forte propensione filo-occidentale dell’élite, sia politica che
culturale, è un aspetto saliente della realtà georgiana, che la distingue chiaramente
dalla maggior parte delle altre repubbliche post-sovietiche, al cui interno tale
orientamento è di solito – con l’ovvia eccezione dei paesi baltici – meno intenso e
diffuso. Ma, come osserva ironicamente uno studioso russo “…in Europa e negli
Stati Uniti è possibile emigrare, ma divenire parte del mondo culturale ed
16
P. KARAM - T. MOURGUES, Les guerres du Caucase des Tsars à la Tchéchènie, Paris, 1995,
pp. 130-133.
17
A. FERRARI, La Georgia tra Federazione Russa e Stati Uniti: un modello di transizione
egemonica?, in A. COLOMBO (a cura di), La sfida americana. Europa, Medio Oriente e Asia
Orientale di fronte all’egemonia globale degli Stati Uniti, Milano, 2005, pp. 56-78.
18
Cit. in K.S. GADŽIEV, Geopolitika Kavkaza, Moskva, 2000, p. 383.
15
economico dell’Europa, ignorando la Russia, resta un desiderio irreale per tutte le
regioni del Caucaso, nessuna esclusa” 19 .
Questo orientamento filo-occidentale della Georgia è stato a lungo frustrato
dall’interesse complessivamente scarso mostrato dall’Europa nei suoi confronti.
E’ probabilmente per questa ragione che la Georgia ha rivolto la sua attenzione
soprattutto agli Stati Uniti e alla Nato. Già il presidente Shevarnadze aveva
dichiarato più volte di voler chiedere l’ingresso nella Nato, nella speranza che
l’avvicinamento militare accelerasse l’integrazione del paese con le strutture
politiche ed economiche occidentali 20 . Tbilisi ha inoltre cercato con insistenza,
ma senza riuscirvi ancora completamente, di far chiudere le basi russe ancora
presenti sul suo territorio 21 . Nel 1999 la Georgia ha denunciato il trattato di
sicurezza collettiva della Csi, avvicinandosi ulteriormente alla Nato 22 . Da un
punto di vista economico, questa propensione filo-occidentale ha indotto la
Georgia ad appoggiare sistematicamente la creazione di vie di transito energetico
sia con terminali sul suo territorio, sia in Turchia, ma sempre escludendone la
Russia (e l’Armenia). L’orientamento filo-occidentale della Georgia si è
ulteriormente rafforzato dopo la cosiddetta “rivoluzione delle rose”, che tra la fine
del 2003 e l’inizio del 2004 ha visto la caduta del vecchio Shevarnadze e l’ascesa
al potere di una nuova élite guidata da Mikhail Saakashvili. In effetti uno dei punti
di maggior rilievo della nuova politica estera georgiana sembra essere
l’accresciuta attenzione nei confronti dell’Europa. Un segnale significativo di
questa svolta, che non avviene peraltro a scapito del sempre più intenso legame
con gli Stati Uniti, è stata la nomina a ministro degli esteri di Salomé Zurabishvili,
una diplomatica francese di origine georgiana in precedenza ambasciatrice di
Francia a Tbilisi rimasta in carica sino alla fine del 2005. Il presidente Saakashvili
ha inoltre creato un ministero per l’integrazione europea, facendo anche esporre la
bandiera europea su tutti gli edifici amministrativi della Georgia. La politica
estera georgiana sembra in effetti essersi orientata negli ultimi anni verso un
superamento della forzata antinomia Russia/Usa a favore di una sorta di triangolo
strategico che prevede anche l’Unione Europea, in prospettiva con un ruolo
persino più importante 23 . Per la sua posizione geografica e l’accentuata
propensione occidentale ed europea, la Georgia si candida realmente a divenire il
motore dell’avvicinamento economico e politico della regione all’Unione Europea.
In effetti il presidente Saakashvili ha dichiarato di essere intenzionato a chiedere
l’ingresso nell’Ue successivamente a Romania e Bulgaria, che dovrebbero entrare
19
A. ZUBOV, Il futuro politico del Caucaso, in P. SINATTI (a cura di), La Russia e i conflitti nel
Caucaso, Torino, 2000, p. 68.
20
Ibidem, p. 381.
21
A. FERRARI, Georgia e Russia. Un’amicizia senza basi, in «ISPI Policy Brief», 2004, 4,
http://www.ispionline.it.
22
D. DARCHIASHVILI, Georgia Courts NATO, Strives for Defense Overhaul, in «Eurasia
Insight», 26 July 2000, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/eav072600 .shtml.
23
T. DE WAAL, Saakishvili: saviour or threat?, in «Caucasus Reporting Service», 2004, 241,
http://www.iwpr.net.
16
nel 2007, mentre le leadership di Erevan e Baku appaiono al momento molto
meno impegnate in questa direzione, ovviamente a causa della loro differente
situazione interna ed esterna.
Tra le nuove repubbliche indipendenti della Transcaucasia solo l’Armenia è
entrata sin dall’inizio nella Csi, mostrando così di voler mantenere un legame
preferenziale con Mosca, reso obbligato non tanto, o non solo, dalle tradizionali
buone relazioni armeno-russe quanto da una situazione geopolitica estremamente
rischiosa a causa dell’ostilità della Turchia e della guerra non dichiarata con
l’Azerbaigian per l’Alto Karabakh, durante la quale Mosca ha sostanzialmente
appoggiato gli armeni. La presenza di basi militari russe sul suo territorio è quindi
ben vista da Erevan. Il tradizionale orientamento filo-occidentale degli armeni
deve cioè fare i conti con la realtà storica e geopolitica. Pur sforzandosi di
allacciare rapporti con l’Unione Europea e gli Stati Uniti (dove vivono consistenti
comunità armene), questa repubblica continua pertanto ad appoggiarsi
principalmente a Mosca.
L’inserimento obbligato dell’Armenia nell’asse informale Mosca-Teheran è
peraltro accompagnato da una forte propensione occidentale, favorita
dall’esistenza di comunità diasporiche particolarmente numerose ed influenti in
Francia e negli Stati Uniti. La repubblica armena si è dunque sforzata in questi
anni di condurre una politica del “doppio binario” o “di complementarietà” 24 , nel
complesso con buoni risultati. Lo stretto legame con Mosca costituisce una
garanzia di sicurezza nei confronti dei suoi vicini ostili, ma non ha sinora
pregiudicato il rapporto con gli Stati Uniti. Va comunque segnalato come a livello
di opinione pubblica anche l’Armenia sembri indirizzarsi più chiaramente che in
passato in tale direzione. In un sondaggio condotto nel dicembre 2004
dall’Armenian Center for National and International Studies (Acnis) su un
campione di 2000 persone, due terzi degli intervistati si sono detti favorevoli
all’ingresso nell’Unione Europea e solo il 12 per cento contrari. Tutti i 100 politici
e specialisti di politica internazionale contattati dall’Acnis hanno dato la stessa
risposta. Esito analogo ha dato un altro sondaggio, organizzato dall’agenzia “Vox
Populi”, secondo il quale il 72 per cento della popolazione di Erevan preferirebbe
far parte dell’Unione Europea anziché della Csi 25 . In una repubblica
tradizionalmente filo-russa si tratta di un dato rilevante, che risente certo degli
avvenimenti georgiani.
Nel frattempo anche l’Azerbaigian, una repubblica musulmana di lingua turca ma
di confessione sciita e per secoli culturalmente legata all’Iran, ha mostrato una
propensione cautamente filo-occidentale, non tanto – però – in senso europeo,
quanto piuttosto verso la Turchia e gli Stati Uniti. Dopo la rapida caduta del suo
24
L. ZARRILLI, L’Armenia post-sovietica: un profilo geografico, in idem (a cura di), La grande
regione del Caspio. Percorsi storici e prospettive geopolitiche, Milano, 2004, p. 93.
25
E. DANIELYAN, Polls Show Pro-Western Shift in Armenian Public Opinion, in «Eurasia
Insight», 11 January 2005, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/eav011105
.shtml.
17
primo presidente, Elchibey (eletto nel giugno 1992) e forte sostenitore
dell’avvicinamento del paese alla Turchia, il suo successore – Heydar Aliyev – è
stato più cauto: pur firmando con le compagnie petrolifere occidentali un accordo
che escluse quasi completamente la Russia dallo sfruttamento dei vasti giacimenti
petroliferi del Caspio, Aliyev fece infatti entrare l’Azerbaigian all’interno della
Csi e mantenne relazioni equilibrate con Mosca. Come la Georgia, tuttavia, anche
l’Azerbaigian ha sostenuto la costruzione dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan,
destinato a portare il greggio sui mercati occidentali evitando la Russia. E, sempre
a somiglianza della Georgia, l’Azerbaigian ha più volte dichiarato di voler entrare
a far parte della Nato 26 .
In tutte e tre le repubbliche caucasiche, quindi, nel primo decennio post-sovietico i
rapporti con la Russia, gli Stati Uniti e la Nato sono stati assai più determinanti di
quelli con l’Unione Europea, benché questi paesi siano entrati a far parte del
Consiglio d’Europa ed abbiano sottoscritto con Bruxelles gli Accordi di
Partenariato e Cooperazione. Una situazione che può essere spiegata da due fattori
concomitanti. Da un lato, indipendentemente dalla loro maggiore o minore
propensione filo-occidentale e filo-europea, le repubbliche della Transcaucasia
hanno continuato a risentire dell’eredità di due secoli di inserimento nel contesto
russo e russo-sovietico, nonché del condizionamento della loro posizione
geografica. D’altro canto, l’Unione Europea ha dimostrato sino a tempi recenti
una grande cautela, evitando di impegnarsi attivamente in un contesto tanto
problematico come quello caucasico 27 .
3. L’Unione Europea in cerca di una politica caucasica
In effetti, la politica dell’Unione Europea nel Caucaso meridionale dopo il crollo
dell’Urss è stata sino a pochi anni fa assai poco incisiva. Gli stati europei, sia
singolarmente che collettivamente, sono stati donatori generosi nella regione,
soprattutto nell’ambito del programma Tacis, destinato ai paesi ex-sovietici, ma
l’Unione Europea in quanto tale ha cercato a lungo di non farsi coinvolgere nelle
questioni di sicurezza della regione, determinate non solo dall’insorgere di
conflitti etno-territoriali, ma anche da complesse rivalità strategiche. Bruxelles ha
tentato invece di contribuire alla graduale stabilizzazione delle aree di crisi e di
incrementare la cooperazione economica dell’intera regione, demandando ad altre
organizzazioni il compito di intervenire in quest’area. A Onu e Nato, ma
soprattutto all’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa
(Osce), che ha avuto un certo ruolo nei negoziati tendenti a risolvere i conflitti
interetnici della regione 28 . Da un punto di vista economico, tuttavia, l’Unione
Europea ha partecipato ai progetti internazionali Interstate Oil and Gas Transport
26
K.S. GADŽIEV, Geopolitika Kavkaza, cit., pp. 381-382.
Ibidem, p. 185.
28
A questo riguardo si veda l’articolo di D. SAGRAMOSO, The UN, The OSCE and NATO, in
The South Caucasus: A Challenge for the EU, «Chaillot Papers», 2003, 65, pp. 63-90.
27
18
in Europe (Inogate) e soprattutto Transport Corridor Europe Caucasus Asia
(Traceca) 29 , miranti a ridisegnare radicalmente il trasporto delle fonti energetiche
dall’Asia centrale ai mercati globali, in larga misura escludendone la Russia. Nel
complesso, tuttavia, per oltre dieci anni dopo la dissoluzione dell’Urss è
chiaramente mancata un’attenzione strategica europea nei confronti della regione
caucasica. Un’assenza che può naturalmente essere spiegata con la debolezza
della politica estera globale dell’Unione Europea, ma anche con la percezione di
trovarsi di fronte ad un contesto particolarmente complesso e arduo da
interpretare. La regione caucasica, infatti, sia quella settentrionale rimasta
all’interno della Federazione Russa, sia le tre repubbliche indipendenti del
Caucaso meridionale è divenuta nel frattempo non solo un’area fortemente
segnata dai conflitti interetnici, ma anche il luogo di un confronto geopolitico non
cruento ma reale tra Russia e Stati Uniti.
La politica da seguire verso il Caucaso meridionale è stata a lungo oggetto di
dibattito all’interno dell’Unione Europea, sia a livello di Commissione e di altre
istituzioni comunitarie che di singoli stati, ma per molti anni il dato principale dei
rapporti concreti tra Bruxelles e le tre repubbliche della regione sono stati gli
Accordi di Partenariato e Cooperazione. Firmati nel 1999 con validità decennale,
questi accordi, che regolano i rapporti, gli obbiettivi ed i meccanismi della
cooperazione, prendono in considerazione una vasta gamma di temi politici,
economici, sociali e culturali. Per perseguire questi obbiettivi sono state create tre
istituzioni: un Consiglio di Cooperazione, che si riunisce una volta l’anno a livello
ministeriale; un Comitato di Cooperazione, che si riunisce più regolarmente a
livello di funzionari; un Comitato di Cooperazione Parlamentare con il
Parlamento Europeo che si riunisce pure una volta l’anno. Benché gli Accordi
comprendano anche articoli miranti a risolvere i conflitti regionali, il loro
interesse prevalente è di carattere economico e tecnico. La stipula di questi
Accordi condusse ad un dibattito all’interno dell’Unione Europea sulla politica
globale da seguire nella regione del Caucaso meridionale. La Commissione
dichiarò che l’assistenza europea sarebbe potuta divenire effettiva solo se i
conflitti interetnici presenti nella regione (Alto Karabakh, Ossetia meridionale e
Abkhazia) fossero stati risolti ed avesse avuto inizio una politica di reale
cooperazione tra Georgia, Armenia e Azerbaigian. Del resto la gravità di questi
conflitti (congelati dal 1993-1994, ma che in questi anni di instabilità hanno
prodotto il blocco delle frontiere, centinaia di migliaia di rifugiati ed una grave
stagnazione economica) legittimava la prudenza di Bruxelles. L’Unione Europea
sembrava essere entrata in un circolo vizioso, alla cui luce l’ulteriore sviluppo dei
rapporti con le tre repubbliche del Caucaso meridionale appariva illusorio 30 .
Tanto più che la stessa vocazione europea di questi paesi, apparentemente assai
29
Per informazioni più approfondite su questi progetti si vedano i siti http://www.traceca.org e
http://www.inogate.org.
30
D. LINCH, The EU: Toward a Strategy, in The South Caucasus: A Challenge for the EU, cit.,
pp. 181-182.
19
forte soprattutto in Georgia e Armenia, è spesso apparsa più retorica e strumentale
che reale, venendo utilizzata solo per questioni di prestigio o al servizio di
immediati fini pratici locali. Per quel che riguarda l’Azerbaigian, l’interesse
maggiore appariva in effetti rivolto alla Nato più che all’Unione Europea 31 .
Inoltre, a differenza di quanto avviene con i paesi occidentali dell’ex-Urss, il
Caucaso meridionale ha risentito negativamente della mancanza di stati-sponsor
all’interno dell’Unione Europea che potessero svolgere nei suoi confronti
un’azione simile a quella della Spagna nell’ambito del Processo di Barcellona o
della Finlandia verso le repubbliche baltiche. In questi anni la regione è stata
oggetto di attenzione saltuaria da parte di alcuni funzionari europei, in particolare
tedeschi e britannici, mentre con il processo di allargamento ha trovato sostenitori
proprio da parte delle repubbliche baltiche. Occorre tener presente, peraltro, che
non è stato agevole neppure identificare il Caucaso meridionale come regione a sé
stante, in quanto inizialmente era inserita nella categoria di riferimento comune a
tutte le repubbliche ex sovietiche. Solo in maniera molto graduale l’Unione
Europea ha iniziato a distinguere con chiarezza le diverse aree dell’ex-Urss e ad
iniziare una politica differenziata verso di esse. Benché sin dal 1998-1999 vi
fossero richieste, in particolare da parte del Parlamento Europeo, per una politica
specifica verso il Caucaso meridionale, sono occorsi ancora diversi anni perché si
giungesse a questo risultato. I diversi enti europei hanno preparato tutta una serie
di papers, i principali sono del gennaio 2001 e 2003, per preparare le discussioni
all’interno del Consiglio Politico e del Comitato di Sicurezza. Tali discussioni
hanno quindi affrontato essenzialmente le questioni concernenti la soluzione dei
conflitti nel Caucaso meridionale, l’avviamento della collaborazione regionale e
se l’approccio migliore per l’Unione Europea fosse quello dei Accordi di
Partenariato e lo sviluppo di una specifica strategia 32 . La prima opzione fu
inizialmente preferita, perché non parvero esserci le condizioni per una politica di
più vasto respiro. Bruxelles, tuttavia, decise di supportare alcuni programmi di
sicurezza e ricostruzione in Ossetia meridionale, Abkhazia, Azerbaigian e sulla
frontiera russo-georgiana 33 .
Negli anni successivi, tuttavia, ben poco è avvenuto nel Caucaso meridionale che
andasse incontro alle richieste di soluzione dei conflitti ed incremento della
cooperazione regionale. Nonostante questo, però, il Parlamento europeo richiese
lo sviluppo di una strategia per il Caucaso meridionale simile al Patto di Stabilità
per i Balcani. Nella prima metà del 2001 la Presidenza svedese pose la regione
come una delle priorità dell’Unione Europea, muovendo anche i primi passi in
questa direzione. Nel corso del 2002 diverse missioni europee visitarono le
capitali delle repubbliche del Caucaso meridionale, valutandone i progressi
politici ed economici. Si cominciò a parlare anche della possibilità di istituire una
Rappresentanza Speciale per la regione, nonostante le difficoltà e le remore di
31
Ibidem, p. 177.
Ibidem, p. 180.
33
Ibidem, p. 182.
32
20
molti paesi membri. Si cominciava infatti a ritenere pericolosa per gli interessi
europei l’assenza di una politica adeguata in una regione così instabile e vicina,
dove per di più l’Unione era percepita come una realtà sostanzialmente neutrale e
positiva, a differenza di altre realtà politiche internazionali34 .
Tuttavia, la situazione di sostanziale assenza di Bruxelles dalla scena del Caucaso
meridionale è durata sino al 2003. Ancora all’inizio di quell’anno, infatti, il
Caucaso meridionale appariva ancora escluso dalla Politica di Vicinato Europeo
(European Neighborhood Policy, Enp). Il comunicato della Commissione dell’11
marzo spiegava l’esclusione della regione con queste parole: “Given their
locations, the Southern Caucasus therefore also falls outside the geographic
scope of this initiative for the time being” 35 . Un’esclusione che a ben vedere
appariva sconcertante sia alla luce della partecipazione di Georgia, Armenia e
Azerbaigian al Consiglio d’Europa (del quale non fanno invece parte altri paesi
mediterranei inclusi nell’Enp), sia della rilevanza strategica ed economica di
questa regione, fondamentale per l’estrazione ed il transito delle risorse
energetiche 36 . Nel giro di pochi mesi, però, questa esclusione - che concludeva
una fase di sostanziale disinteresse per l’area caucasica - è stata superata in
maniera piuttosto improvvisa e rapida. Nel giugno del 2003, la versione
preliminare della strategia di sicurezza europea presentata dal Rappresentante per
la Politica Estera e la Sicurezza, Javier Solana, sosteneva che “We should take a
stronger interest in the problems of the Southern Caucasus, which in due course
will also be a neighbouring region” 37 .
Le conseguenze di questo mutato orientamento si sono viste presto. Già nel luglio
del 2003 l’Unione Europea ha nominato un rappresentante speciale per il Caucaso
del Sud, nella persona dell’esperto diplomatico finlandese Heikki Talvitie, con il
compito di aiutare i paesi della regione a raggiungere gli obbiettivi posti da
Bruxelles: sviluppare contatti con governi, parlamenti, magistrature e società
civile, incoraggiare i tre paesi a cooperare su sicurezza, terrorismo e crimine
organizzato, preparare il ritorno alla pace. Il rappresentante europeo avrebbe
anche fornito assistenza per la risoluzione dei conflitti etno-territoriali 38 . Nel
corso del suo mandato Talvitie visitò tre volte la regione, anche nel corso degli
avvenimenti noti come “rivoluzione delle rose”, che determinarono il cambio di
regime in Georgia. Il mandato di questo rappresentante era però insufficiente e nel
dicembre 2003 il Parlamento Europeo ha raccomandato di includere il Caucaso
34
Ibidem, p. 185.
Wider Europe – Neighbourhood: A New Framework for Relations with our Eastern and
Southern Neighbours, in «Commission Communication COM (203), 104 Final», Bruxelles, 11
March 2003.
36
S.E. CORNELL, Europe and the Caucasus: In Search for a Purpose, in «Central AsiaCaucasus Analyst», 2 July 2004, http://www.cacianalyst.org/viewarticle.phparticleid=2419.
37
J. SOLANA, A Secure Europe in a Better World, paper presentato a Tessalonica, 20 giugno
2003, http://www.ue.eu.int/pressdata/EN/reports/76255.pdf.
38
Per il testo completo della Joint Action cfr. «Official Journal of the European Union», L 169/74
– L 169/75, 8 luglio 2003.
35
21
meridionale nella Politica Europea di Vicinato. La Commissione Europea ha
accolto questa indicazione, che è divenuta operativa nel giugno 2004.
Come spiegare questa svolta nella politica estera dell’Unione Europea verso le tre
repubbliche del Caucaso meridionale? In primo luogo, naturalmente con
l’ingresso di dieci nuovi paesi dell’Europa orientale e meridionale, avvenuta nel
maggio 2004, che ha non solo mutato in maniera radicale il quadro interno
dell’intera Unione Europea, ma anche ampliato sensibilmente i suoi riferimenti
esterni. Il grande allargamento del 2004, cioè, ha contribuito non poco alla
percezione delle repubbliche del Caucaso meridionale – ma anche di Ucraina,
Bielorussia e Moldavia, come è ovvio – alla stregua di “paesi vicini”. La strategia
di sicurezza dell’Unione Europea considera adesso prioritario che questi paesi
divengano più stabili e sicuri ed è disposta ad impegnarsi per favorire tale
processo 39 .
Come è stato osservato, per quel che riguarda la cooperazione regionale Bruxelles
dovrebbe tener conto nella regione caucasica dell’esperienza, in gran parte
negativa, dei Balcani. Qui, come è noto, il tentativo di indurre i paesi dell’area ad
intraprendere una cooperazione regionale sono sostanzialmente falliti ed essi
hanno preferito avviare canali individuali nelle relazioni con l’Unione Europea 40 .
Un’impostazione di questo tipo andrebbe se possibile evitata nel Caucaso
meridionale anche se, come si è detto, l’atteggiamento dei tre governi locali nei
confronti dell’integrazione europea non è univoco, con la Georgia nettamente più
sensibile di Armenia e Azerbaigian. Anzi, la svolta della politica europea è stata
in larga misura determinata dalla “rivoluzione delle rose” in Georgia 41 .
Strettamente collegato al mutato atteggiamento europeo è ovviamente anche la
questione della candidatura della Turchia, il cui eventuale ingresso porterebbe le
frontiere europee direttamente sul Caucaso meridionale 42 . Come è noto, Ankara
ha ottimi rapporti con l’Azerbaigian (anche per l’affinità linguistica) e buoni con
la Georgia, mentre non mantiene rapporti diplomatici con l’Armenia. Tra i due
paesi pesano infatti sia il genocidio armeno del 1915, che il governo di Ankara
rifiuta ostinatamente di riconoscere, sia la chiusura da parte turca delle frontiere
con l’Armenia in seguito alla guerra dell’Alto Karabakh. Il presidente armeno
Kocharian ha in effetti chiesto che Bruxelles imponga alla Turchia la riapertura
della frontiera con l’Armenia, ritenendo inaccettabile che uno stato che sta
trattando l’adesione all’Unione Europea isoli in tal modo un altro che è già parte
della Politica di Vicinato Europeo. I difficilissimi rapporti tra questi due paesi
39
D. LINCH, The EU: Toward a Strategy, cit., p. 173.
F. DALLA PIAZZA, Caucaso, una rassegna, 19 dicembre 2005, http://www.
osservatoriobalcani.org/articleview/5064/1/205.
41
Sugli avvenimenti che hanno determinato la “rivoluzione delle rose” cfr. G. BENSI, Georgia: la
caduta di Shevarnadze, in «CSSEO Working Paper», 2004, 64, http://www.csseo.org e C. KING,
A Rose among Thorns. Georgia Makes Good, in «Foreign Affairs», 83, 2004, 2, pp. 13-18.
42
Si veda al riguardo M. AYDIN, Turkey’s Policies toward the South Caucasus and Its
Integration in the EU, in «Quaderni di Relazioni Internazionali», 2006, 1, pp. 58-62.
40
22
rappresentano in effetti un ostacolo non secondario per la politica dell’Unione nel
Caucaso, ma al tempo stesso si può anche osservare che la prospettiva europea
potrebbe contribuire al loro miglioramento. In questo senso, anche se si tratta di
processi non immediati, il cammino della Turchia verso l’Unione Europea
potrebbe avere conseguenze positive sulla situazione della regione 43 .
Nel complesso, tuttavia, l’intensificazione della politica europea nei confronti del
Caucaso meridionale sembra ricollegarsi al nuovo e più assertivo corso della
politica europea, manifestatosi negli ultimi mesi nei confronti paesi dell’ex-Urss,
soprattutto in Ucraina e Moldavia. Come è stato osservato, proprio il Caucaso
meridionale sembra poter costituire un ulteriore ed importante banco di prova
della politica estera dell’Unione Europea verso i paesi ex sovietici 44 . Bruxelles,
però, continua ad occuparsi soprattutto delle questioni legate alla sicurezza ed allo
sviluppo, mentre si mostra quanto mai prudente nei confronti delle esplicite
aspirazioni locali – in particolare georgiane – ad entrare a farne parte 45 . Per
esempio, durante una sua visita nella regione, il commissario europeo Janez
Potecnik ha insistito sul fatto che la Politica di Vicinato non ha legami diretti con
la questione dell’adesione all’Unione, ma si limita a coordinare i diversi
programmi di assistenza nel Caucaso meridionale. Il 20 febbraio 2006 il
diplomatico svedese Peter Semneby è stato nominato nuovo Rappresentante
Speciale dell’Unione Europea per il Caucaso meridionale ed ha ricevuto un nuovo
e più ampio mandato. Tuttavia non sono ancora stati approntati i Piani di Azione
che definiranno l’impegno europeo nel Caucaso meridionale nei prossimi 3-5
anni. L’ultima tornata di discussioni tra i rappresentanti di Georgia, Armenia e
Azerbaigian e l’Unione Europea ha avuto luogo a marzo a Bruxelles, ma senza
giungere ad una conclusione. Le trattative sono in effetti molto complesse, perché
riguardano un vasto raggio di questioni, tra le quali il monitoraggio del conflitto
nell’Ossetia meridionale, la messa in sicurezza della centrale nucleare di
Metzamor in Armenia, i negoziati con Cipro da parte dell’Azerbaigian e così
via 46 . I Piani di Azione, collegati alla soluzione dei conflitti, al miglioramento
degli standard democratici e al livello di governance e diritti umani, costituiscono
una opportunità importante per contribuire in maniera sostanziale allo sviluppo
del Caucaso meridionale, ma sono al tempo stesso di difficile raggiungimento ed
ardua implementazione. D’altra parte l’Unione Europea deve sensibilmente
accrescere la sua visibilità nella regione per divenirvi un attore credibile, in
43
J. GOVETT, Turkish Drive towards EU Increases Possibilities for Change in the Caucasus, in
«Eurasia
Insight»,
6
January
2005,
http://www.eurasianet.org/departments/insight/
articles/eav010605.shtml.
44
M. MONDELLI, L’Europa in espansione: sovrapposizioni, inclusioni ed esclusioni nell’estero
condiviso, in «Ispi Policy Brief», 2005, 14, http://www.ispionline.it.
45
A. ROCHANOWSKI, EU Extends Cooperation with Georgia, but Expresses Caution in Access
Issue, in «Eurasia Insight», 17 June 2004, <http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/
eav061704.shtml>.
46
A. LOBJAKAS, South Caucasus: Slow Progress on Plans for Closer EU Ties,
http://www.rferl.org/featurearticle/2006/03/ddfda8do-6641-4dd2-a1d4-f50647ao.
23
quanto la sola immagine di honest broker (“onesto mediatore”), estraneo alle
rivalità strategiche russo-americane non è più sufficiente. Soprattutto alla luce
della necessità di confrontarsi con la nuova politica energetica della Russia, il
Caucaso inizia adesso ad acquisire agli occhi dei paesi europei un’importanza
strategica che ancora pochi anni fa non aveva affatto 47 .
Alla luce di queste considerazioni, un recente rapporto ha raccomandato una serie
di misure per rafforzare l’efficacia politica dell’Unione Europea nella regione,
trarre il maggior vantaggio possibile dal negoziato per i Piani di Azione,
aumentare l’azione di sostegno alla soluzione dei conflitti, sia tra Armenia e
Azerbaigian che in Georgia 48 .
4. La Georgia: una posizione privilegiata?
Come si è già avuto modo di dire in precedenza, la Georgia è stato tra i paesi del
Caucaso meridionale quello che ha manifestato sin dagli anni immediatamente
successivi all’indipendenza una maggiore vocazione occidentale. Sotto il lungo
potere di Shevarnadze tale vocazione è stata in larga misura soffocata dalla crisi
economica del paese e dalla incombente presenza russa. La “rivoluzione delle
rose” ha cercato invece programmaticamente di portare a compimento il processo
di fuoriuscita dall’orbita di Mosca e di ingresso nelle struttura occidentali, in
primo luogo Nato e Unione Europea. Tanto il presidente Saakashvili quanto altre
figure di rilievo della nuova dirigenza di Tbilisi hanno affermato a più riprese di
ritenere l’inserimento nella Politica Europea di Vicinato un primo passo verso la
completa adesione all’Unione Europea. Nonostante tutte le cautele manifestate da
Bruxelles nei confronti delle avances della Georgia, non vi è dubbio che questo
paese costituisca il vero motore dell’avvicinamento della regione all’Europa.
D’altro canto, con l’imminente – pur se problematico – ingresso di Romania e
Bulgaria nell’Unione, la Georgia si avvicinerà sensibilmente all’Europa, separata
solo dalla frontiera liquida del Mar Nero. Non a caso, un paese rivierasco come la
Romania mostra un interesse particolare per la Georgia, soprattutto dopo che il
nuovo presidente Basescu ha dato un forte impulso alla politica romena verso il
Mar Nero. Oltre alla Romania, la Bulgaria e le tre repubbliche baltiche hanno
costituito il cosiddetto “Nuovo gruppo di amici della Georgia”, che ne difendono
la posizione verso l’Unione Europea e l’Osce 49 . In questo contesto, la
stabilizzazione della Georgia, minata al suo interno dalle sconfitte con i separatisti
abkhazi e osseti, costituisce una priorità per l’Unione Europea. La quale, al tempo
stesso, non può essere indifferente al forte orientamento in senso occidentale della
47
L. DI PUPPO, The EU Looks Carefully at the Caucasus and Its Energy Potential, 4 June 2006,
http://www.caucaz.com/home_eng/breve_contenu.php?id=248.
48
Conflict Resolution in the South Caucasus: The EU’s Role, in «Europe Report», 2006, 173,
http://www.crisisgroup.org/home/index.cfm?id4037&1=1.
49
D. LYNCH, Why Georgia Matters, in «Chaillot Papers», 2006, 86, p. 55.
24
nuova dirigenza georgiana, assai più accentuato di quanto avvenga in quella
armena ed azera.
L’Unione Europea, da parte sua, guarda alla Georgia con particolare interesse. Il
Rappresentante Speciale, il già ricordato Talvitie, si è recato diverse volte nel
paese, dove il 1 settembre 2005 ha ufficialmente iniziato le sue attività un team
composto da 20 persone. Il rafforzamento democratico, la stabilizzazione della
democrazia, la soluzione dei conflitti etno-territoriali al suo interno, il
consolidamento del ruolo di paese-tramite per il trasporto del petrolio proveniente
dall’Asia centrale e dal Caspio, la lotta ai traffici illegali (soprattutto armi e droga)
e la collaborazione nella lotta al terrorismo internazionale sono i principali
interessi europei in Georgia, che costituisce dunque un significativo banco di
prova per la politica estera di Bruxelles dopo il grande allargamento del 2004.
Occorre tuttavia considerare che l’interesse europeo per la Georgia, come per
l’intero Caucaso meridionale, rimane meno prioritario rispetto ad altre aree, in
primo luogo quella balcanica. Inoltre, l’opzione filo-occidentale di Tbilisi non
riguarda solo l’Unione Europea, ma anche gli Stati Uniti. Ora, nella sfera
strategica e militare questi ultimi sono non solo naturalmente più influenti
dell’Unione Europea, ma hanno anche obbiettivi e metodi non sempre identici,
soprattutto nel vicino contesto medio-orientale. In particolare, a Tbilisi si ha la
sensazione che mentre Washington fornisce un concreto appoggio militare,
economico e diplomatico, Bruxelles si limita a progetti di cooperazione ed a
indicazioni moraleggianti 50 .
Vi è inoltre un problema sostanziale nei rapporti tra Unione Europea e l’odierna
dirigenza della Georgia, vale a dire la forte volontà di quest’ultima di ricostituire
l’unità territoriale del paese senza tenere in sufficiente considerazione le
rivendicazioni di abkhazi e osseti e la situazione creatasi sul campo. Lo slogan
“riprendiamoci la Georgia” del “Movimento Nazionale” che ha portato Mikhail
Saakashvili al potere alla fine del 2003 riguardava in effetti non solo la necessità
di porre fine alla corruzione ed all’inefficienza del precedente governo, ma anche
quella di ristabilire la supremazia dei georgiani sulle minoranze e di porre fine
all’indipendenza delle repubbliche secessioniste. E questo sulla base di posizioni
fortemente centraliste e nazionaliste simili a quelle che avevano portato alla
rovina la presidenza di Gamsakhurdia agli inizi degli anni Novanta. Indurre la
dirigenza georgiana ad accettare una politica più attenta verso le minoranze
nazionali (oltre a osseti e abkhazi ci sono numerose altre minoranze nazionali, tra
le quali armeni e azeri hanno anche un insediamento territoriale piuttosto
compatto) è un compito particolarmente difficile per l’Unione Europea, ma si
tratta naturalmente di un obbiettivo essenziale. In particolare la confusione tra
“stato georgiano” e “nazione georgiana” sembra caratterizzare anche l’odierna
dirigenza di Tbilisi. Qui come nell’Alto Karabakh, il semplice ritorno allo status
quo antecedente lo scoppio dei conflitti etno-territoriali dei primi anni Novanta
50
Ibidem, p. 15.
25
non sembra poter costituire il punto di partenza della politica europea verso la
stabilizzazione di tali conflitti. In effetti a tutt’oggi non è stato fatto nessun passo
avanti per la soluzione di questa questione, che senza dubbio costituisce uno dei
principali fattori di destabilizzazione della regione. Come è stato osservato da uno
studioso statunitense, “The central government must recognize the multiethnic and
multireligious reality of the country. It must accept a decade of state-building in
the secessionist regions and allow local government to be empowered. If these
efforts succeed, Georgia could well become the positive example for Eastern
Europe and Eurasia that observers have long hoped for” 51 .
Occorre anche tener presente che il rapporto con la Georgia non è agevole alla
luce delle sue difficili relazioni con la Russia, che è a sua volta un partner
strategico dell’Unione Europea. Proprio lo status delle due regioni separatiste di
Abkhazia e Ossetia meridionale costituisce a questo riguardo l’ostacolo
principale. L’intensificazione delle rivendicazioni georgiane su queste regioni
dopo la “rivoluzione delle rose” ha infatti ravvivato la prospettiva di un loro
incorporamento nella Federazione Russa. Più volte sollecitata dai dirigenti di
Abkhazia e Ossetia meridionale, questa sorta di annessione di territori
giuridicamente appartenenti alla Georgia sembra peraltro scarsamente praticabile,
soprattutto alla luce delle forti ripercussioni interne ed internazionali che
un’operazione del genere potrebbe avere. Si pensi solo al caso della Cecenia. Non
vi è dubbio, tuttavia, che Mosca appaia ancora intenzionata a sostenere l’ufficiosa
indipendenza di queste repubbliche da Tbilisi. Tra l’altro, la possibilità di un
mutamento di status del Kosovo viene interpretato dalle autorità russe anche alla
luce di una analoga prospettiva riguardante la regioni secessioniste di Abkhazia e
Ossetia meridionale 52 .
La questione è di comprendere sino a che punto possa arrivare tale protezione di
fronte all’evidente volontà georgiana di risolvere a proprio favore la partita, nella
sicurezza di avere l’appoggio degli Stati Uniti. La questione dello status di
Abkhazia e Ossetia meridionale rischia in effetti non solo di riacutizzare le
tensioni inter-etniche nella regione caucasica, ma anche di divenire un pericoloso
banco di prova della rivalità russo-statunitense nei paesi della Csi 53 .
In una situazione di questo genere l’Unione Europea deve evidentemente
procedere con estrema prudenza. Dopo la “rivoluzione delle rose” l’Unione
Europea ha stanziato 7,5 milioni di euro in un programma di riabilitazione rivolto
all’Ossetia meridionale, in particolare per quel che riguarda la fornitura di acqua
potabile ed elettricità, nonché per la riapertura della ferrovia Gori-Tsinkhvali.
Diversi progetti sono stati anche approvati per migliorare la situazione
51
C. KING, A Rose among Thorns. Georgia Makes Good, cit., p. 8.
I. TORBAKOV, Russia Plays up Kosovo Precedent for Potential Application in the Caucasus,
in «Eurasia Insight», 4 December 2006, http://www.eurasianet.org/departments/insight/
articles/eav041206pr.shtml.
53
A questo riguardo si veda A. FERRARI, La Georgia tra Federazione Russa e Stati Uniti: un
modello di transizione egemonica?, cit., p. 72.
52
26
dell’Abkhazia (in particolare per lo sminamento del territorio) e della Georgia
occidentale 54 . Tuttavia resta la questione centrale di come affrontare la questione
globale dello status di questi territori secessionisti, parallela del resto a quella
dell’Alto Karabakh. Per quanto auspicata dalla maggior parte dei politici e degli
analisti europei 55 , il rientro di queste entità all’interno di Georgia e Azerbaigian –
sebbene con un’ampia ridefinizione della loro autonomia – non dovrebbe a mio
giudizio essere considerata l’unica opzione praticabile, sia per l’ostilità delle
popolazioni interessate sia per la sua difficile attuazione, anche alla luce della
posizione della Russia.
5.
Conclusioni
La stabilità del Caucaso meridionale e le sue potenzialità di sviluppo dipendono
essenzialmente dall’equilibrio con cui gli agenti interni ed esterni si muoveranno
in una situazione che rimane estremamente complessa e problematica. E’ infatti
fondamentale che la regione possa sottrarsi all’odierna situazione di “faglia”
geopolitica per far sì che la sua posizione strategica divenga occasione di
sviluppo e non di conflitto.
Da questo punto di vista, nonostante tutti i dubbi e le difficoltà, l’inserimento
delle tre repubbliche del Caucaso meridionale nella Politica Europea di Vicinato
costituisce nel complesso uno sviluppo potenzialmente positivo tanto per l’Unione
Europea quanto per i paesi della regione. Tuttavia, per renderlo efficace nel medio
e lungo termine occorrerà che Bruxelles sia capace di impostare una strategia
coerente e unitaria; e non solo nei confronti di Georgia, Armenia e Azerbaigian.
Si tratta infatti di una regione nella quale sta avendo luogo una contrastata
“transizione egemonica” – dalla Russia agli Stati Uniti 56 – nei confronti della
quale l’Unione Europea deve muoversi con prudenza, individuando attentamente i
rischi connessi ad un suo maggior coinvolgimento.
La necessità crescente di diversificare gli approvvigionamenti energetici e
l’importanza che il Caucaso meridionale ha in questo ambito impongono
all’Unione Europea di prestare in sempre maggiore attenzione a questa regione. E’
vero peraltro che, a differenza di Stati Uniti e Russia, l’Unione Europea non
persegue obbiettivi di dominio strategico e può quindi, almeno entro certi limiti,
porsi come honest broker nella regione, avvicinandola a sé nell’ambito di uno
spazio di valori politici e culturali condivisi che alcuni iniziano a definire
54
Cfr. D. LYNCH, Why Georgia Matters, cit., p. 64.
Secondo D. Lynch, per esempio, “Georgia’s territorial integrity is a key interest for the EU” (D.
LYNCH, Why Georgia Matters, cit., p. 73). L’affermazione mi sembra discutibile. L’interesse
europeo sta nella composizione definitiva dei conflitti in Georgia e nell’intero Caucaso
meridionale, che potrebbe avere anche soluzioni differenti dalla ricostituzione dell’integrità
territoriale della Georgia (e dell’Azerbaigian).
56
A. FERRARI, La Georgia tra Federazione Russa e Stati Uniti: un modello di transizione
egemonica?, cit., pp. 56-78.
55
27
“l’impero europeo” 57 . E questo anche a prescindere dalla prospettiva –
ufficialmente non in agenda – di una futura membership di Georgia, Armenia e
Azerbaigian.
Questi paesi, a loro volta, devono sfruttare al meglio l’importante opportunità di
cui dispongono per compiere passi precisi verso una prospettiva europea divenuta
di recente più percorribile, ma che richiede un enorme impegno politico,
economico e sociale. Solo così sarà loro possibile lasciarsi alle spalle un
quindicennio post-sovietico caratterizzato soprattutto da instabilità politica,
conflitti etno-territoriali e crisi economica.
57
Cfr. M. GUDERZO, L’impero europeo, in «Studi Urbinati», 3, 2004/2005, 56, pp. 357-379.
28
LE PROSPETTIVE DI SVILUPPO ECONOMICO
DELLA TRANSCAUCASIA
Silvia Tosi
1. Introduzione: la gravosa eredità della transizione
Negli ultimi anni Armenia, Azerbaigian e Georgia hanno conosciuto una crescita
economica particolarmente rapida, richiamando l’attenzione degli investitori
internazionali, attratti dalle opportunità di sfruttamento delle risorse energetiche
dell’area e dalla posizione geografica strategicamente cruciale per il passaggio dei
corridoi di trasporto trans-eurasiatici. Il recente dinamismo economico non deve
però portare a trascurare il fatto che tutti e tre i Paesi provengono da una fase
recessiva grave e prolungata, conseguente al trauma comune della dissoluzione
dell’Unione Sovietica: tale recessione ha coinvolto tutti i settori economici ed ha
avuto effetti drammatici sulla produzione interna, sulla dotazione di infrastrutture
e nel complesso sui livelli di vita della popolazione dei tre Paesi.
Questa ricerca fornisce un quadro complessivo della recente performance
economica delle tre repubbliche, esaminando i principali fattori che hanno
permesso la crescita delle economie caucasiche e individuando i nodi critici in
grado di influire sulle prospettive di sviluppo di medio-lungo periodo, con la
consapevolezza che su di esse grava tuttora l’eredità di una difficile transizione.
Negli anni Ottanta Armenia, Azerbaigian e Georgia avevano beneficiato di tassi di
crescita e livelli di vita relativamente alti, mediamente superiori rispetto agli altri
membri dell’Unione Sovietica. Questo relativo benessere era dovuto in larga
misura ai generosi sussidi statali, alla possibilità di procurarsi materie prime e
fonti energetiche a prezzi vantaggiosi e alla pianificazione centralizzata del
commercio all’interno dell’Unione Sovietica, tutti fattori che favorivano la
produzione industriale locale. Tanto più favorevoli erano le condizioni
economiche delle tre repubbliche caucasiche nel periodo sovietico, quanto più
gravi sono state le conseguenze del crollo dell’Urss sulle loro performance
economiche: dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica infatti tutte e tre le
repubbliche sono emerse come Paesi poveri. Se il PIL pro capite cominciò a
ridursi già alla fine degli anni Ottanta, a causa della crescente incertezza politica
ed economica 1 , la rottura dei legami commerciali tra le repubbliche sovietiche ha
poi privato le economie caucasiche del proprio principale mercato di esportazione,
esponendole ai meno favorevoli prezzi del mercato mondiale e rivelandone
1
J. FALKINGHAM, The End of the Rollercoaster? Growth, Inequality and Poverty in Central
Asia and the Caucasus, in «Social Policy and Administration», 39, 2005, 4, p. 341.
29
l’assoluta mancanza di competitività. L’interruzione dei flussi commerciali ha
anche escluso i tre Paesi dall’accesso alle proprie principali fonti di
approvvigionamento di materie prime e risorse energetiche, provocando una grave
crisi energetica che ha influito negativamente sulla produzione industriale. Allo
stesso modo, anche il settore agricolo si è trovato in difficoltà, principalmente a
causa della riluttanza con cui gli Stati post-sovietici hanno intrapreso radicali
riforme della proprietà terriera, che avrebbero potuto risollevare la bassa
produttività del settore.
TASSO DI CRESCITA PIL REALE (%)
Armenia
Azerbaigian
Georgia
30,0
20,0
10,0
0,0
-10,0
90
91
92
93
94
95
96
97
98
99
00
01
02
03
04
05
-20,0
-30,0
-40,0
-50,0
Fonte: UNECE
La dimensione del tracollo economico verificatosi in Armenia, Azerbaigian e
Georgia nella prima metà degli anni Novanta è stata nel complesso talmente grave
che nel giro di cinque anni il Pil dei tre Paesi si è ridotto di più della metà rispetto
ai livelli del 1989, facendo registrare le performance più negative di tutta l’exUnione Sovietica 2 . La gravità della recessione è ancora più evidente se si
esaminano i dati relativi alla produzione industriale: nel 1992 per esempio i tre
Paesi nel complesso hanno fatto registrare una contrazione della produzione
industriale quasi pari al 37 per cento rispetto all’anno precedente, mentre Armenia
e Georgia hanno entrambe subito una riduzione annua superiore al 45 per cento, i
dati in assoluto più negativi tra tutti i Paesi dell’ex-Unione Sovietica dal 1990 al
2004.
2
UNITED NATIONS ECONOMIC COMMISSION FOR EUROPE, Economic Survey of Europe
2005 n. 2. Statistical Appendix, Genève, 2005, pp. 70 e ss.
30
TASSO DI CRESCITA PIL REALE 1990-2005 (%):
90
Armenia
91
92
2004
vs
1989
9,6 15,1 14,0 10,1 13,9 1,5
93
94
95
96
97
98
99
00
01
02
03
04
05
-8,8
5,4
6,9
5,9
3,3
7,3
3,3
5,9
1,3
5,8
10,0 7,4 11,1 9,9 10,6 11,2 10,2 26,4 -22,7
-5,5
-11,7 -41,8
Azerbaigian
-11,7
-0,7
Georgia
REPUBBLICHE
CAUCASICHE
CSI
-15,1 -21,1 -44,9 -29,3 -10,4
2,6
11,2 10,5
3,1
2,9
1,8
4,8
5,5
11,0
6,2
8,0
-12,3 -11,4 -34,3 -23,1 -12,7
-3,7
5,5
6,9
7,0
4,9
6,9
8,2
9,9
11,8
9,0
16,5 -35,3
-3,1
-6,1
-14,0
-9,8
-14,4
-5,7
-3,5
1,4
-3,2 5,1
8,8
6,1
5,2
7,6
8,1
n.d. -19,8
-3,0
-5,0
-14,5
-8,7
-12,7
-4,1
-3,6
1,4
-5,3 6,4 10,0 5,1
4,7
7,3
7,2
n.d. -17,5
-3,3
-7,9
-10,6 -12,6 -21,1 -11,5 -7,2
0,6
0,6
0,8
5,7
7,8
5,3
8,8
11,7 n.d. -32,8
-0,2
-7,4
-10,6
1,8
1,5
4,8
7,1
9,0
6,4
7,1
8,3
Federazione Russa
Repubbliche
europee CSI (a)
Asia Centrale (b)
Fonte: UNECE
-22,6 -23,1 -19,7 -11,8
-7,2
-12,1
-6,0
1,2
n.d.
-58,5
0,1
(a) Bielorussia, Moldova, Ucraina
(b) Kazachstan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan
TASSO DI CRESCITA PRODUZIONE INDUSTRIALE 1990-2004 (%):
Armenia
90
91
92
93
-7,5
-7,7
-48,2 -10,7
94
95
96
97
98
99
00
01
02
03
04
5,3
1,5
1,4
1,0
-2,1
5,3
6,4
5,3
14,6
15,1
2,1
2004
vs
1989
-32,8
Azerbaigian
-6,3
-8,9
-30,4 -19,7 -24,7 -21,4
-6,7
0,3
2,2
3,6
6,9
5,1
3,6
6,1
5,7
-63,5
Georgia
REPUBBLICHE
CAUCASICHE
CSI
-5,7
-22,6 -45,8 -36,7 -39,1 -13,5
6,8
8,2
-1,5
4,8
6,1
-1,1
4,9
10,6
3,4
-80,2
-6,2
-13,4 -36,9 -23,4 -24,9 -16,9
-2,9
2,0
0,7
4,1
6,6
3,9
5,7
8,7
4,5
-66,1
-0,4
-7,0
-17,0 -13,1 -22,2
-5,7
-3,2
2,2
-3,2
9,1
12,0
6,8
4,7
8,5
8,5
-24,6
-0,1
-8,0
-18,0 -14,8 -20,9
-3,3
-4,0
2,0
-5,2
11,0
11,9
4,9
3,7
7,0
7,3
-28,7
0,4
-4,3
-7,5
-25,1 -11,7
-3,4
3,9
2,0
5,4
11,6
11,9
6,4
13,6
13,2
-0,6
n.d.
-0,1
-15,1 -11,2 -24,9
2,6
1,3
0,1
4,4
14,5
11,5
8,0
8,9
8,8
-7,7
Federazione Russa
Repubbliche
europee CSI (a)
Asia Centrale (b)
Fonte: UNECE
-8,1
-8,0
(a) Bielorussia, Moldova, Ucraina
(b) Kazachstan, Kirghisistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan
31
A partire dalla metà degli anni Novanta tutti e tre i Paesi hanno iniziato a
registrare tassi di crescita generalmente positivi, con un’evidente accelerazione tra
il 2000 e il 2001. Tuttavia, nonostante questa crescita sostenuta, le tre economie
caucasiche devono ancora completare il processo di recupero dalla crisi
economica che le ha colpite all’inizio del decennio scorso, e anzi in alcuni casi
sono ancora ben lontane dai livelli precedenti all’indipendenza. Di fatto, solo
l’Armenia nel 2004 aveva sostanzialmente recuperato i livelli produttivi del 1989,
mentre il Pil reale di Azerbaigian e Georgia nello stesso anno era equivalente
rispettivamente al 77 e al 41 per cento del Pil del 1989. Per quanto riguarda il
settore industriale, la Georgia produce addirittura l’80 per cento in meno rispetto
ai livelli precedenti all’indipendenza. Nel complesso quindi le performance di
crescita economica delle tre repubbliche caucasiche sono ancora nettamente
inferiori agli standard di fine anni Ottanta: basti pensare che il Pil reale dei tre
Paesi messi insieme nel 2004 corrispondeva grosso modo a due terzi del Pil
registrato nel 1989.
VARIAZIONE DEL PIL REALE 1989-2004 (1989=100)
1989
2004
120
100
80
60
40
20
0
Armenia
Azerbaigian
Georgia
Totale Repubbliche
caucasiche
Fonte: UNECE
Un’attenta valutazione delle condizioni attuali e delle prospettive future delle
economie caucasiche deve necessariamente partire dalla considerazione che, per
quanto tutti e tre i Paesi abbiano riguadagnato una certa stabilità macroeconomica
nella seconda metà degli anni Novanta, ancora adesso essi sono alle prese con la
difficile opera di ricostruzione economica post-sovietica e di passaggio da
un’economia pianificata a un’economia di mercato. In particolare il processo di
privatizzazione è stato finora irregolare ed incompleto, con buoni risultati per
quanto riguarda la cessione delle piccole e medie imprese e con gravi ritardi per
ciò che riguarda la ristrutturazione dei grandi complessi industriali. Le difficoltà
del processo di privatizzazione si sono riverberate sulla capacità relativa di
ciascuno dei tre Paesi di attirare gli investimenti stranieri indispensabili per
accelerare la crescita economica complessiva: significativo può essere considerato
32
il fatto che dei tre Paesi solo l’Azerbaigian è riuscito negli ultimi anni a
beneficiare di flussi di investimenti diretti esteri particolarmente consistenti, ma
grazie alla propria dotazione di risorse energetiche e alle ampie possibilità di
sfruttamento che essa offre, più che a un quadro economico complessivo attraente
per gli investimenti.
INVESTIMENTI DIRETTI ESTERI NETTI (in milioni di US$):
Armenia
Azerbaigian
Georgia
Fonte: EIU 2006
2000
104,2
129,9
131,6
2001
69,9
226,5
109,9
2002
110,7
1066,8
163,3
2003
120,4
2351,7
335,6
2004
216,6
2351,3
489,5
2005
150,8 (a)
458,2
175,3 (a)
(a) gennaio-settembre
2. Dalla transizione allo sviluppo
Dal quadro complessivo della transizione post-sovietica emergono tratti comuni ai
tre Paesi per quanto riguarda le principali difficoltà che essi hanno dovuto
affrontare all’indomani dell’indipendenza: queste somiglianze, derivanti da un
trauma comune, non devono però distogliere l’attenzione da alcune fondamentali
differenze nella struttura e nelle potenzialità economiche delle tre repubbliche,
che possono influire in misura significativa sulle prospettive di sviluppo di
ciascuna.
2.1 Armenia
INDICATORI ANNUALI DI CRESCITA:
PIL (miliardi di US$)
TASSO DI CRESCITA PIL
REALE (%)
2001
2002
2003
2004
2005
2,1
2,4
2,8
3,6
5
9,6
13,2
13,9
10,1
13,9
Fonte: EIU 2006
CRESCITA PER SETTORE:
Industria
di cui: settore metallurgico
Costruzioni
Agricoltura
Trasporti e comunicazioni
Commercio
crescita del
settore (%)
2004
2005
1,5
6,6
2,1
34,9
13,2
34,1
14,3
10,9
17,6
12,9
9,2
9,4
Fonte: EIU 2006
33
contributo alla
crescita del PIL (%)
2004
2005
0,3
1,3
--2,1
5,2
3,2
2,4
0,9
0,8
0,9
1,0
Negli ultimi quattro anni l’economia armena ha beneficiato di una crescita
particolarmente sostenuta, con tassi costantemente a due cifre nonostante una
lieve flessione registrata nel 2004 3 . Il principale fattore responsabile di questa
performance economica favorevole è stato senza alcun dubbio la rapida
espansione del settore delle costruzioni (cresciuto nel 2005 addirittura del 34 per
cento rispetto all’anno precedente), sostenuta da una crescente domanda sia
pubblica, sia privata. Da un lato infatti la combinazione di consistenti rimesse
dall’estero e nuovi crediti provenienti dal sistema bancario in lento sviluppo ha
permesso la realizzazione di numerosi progetti di edilizia residenziale privata,
mentre dall’altro lato la diaspora armena ancora una volta ha dimostrato il suo
apporto fondamentale per l’economia nazionale, andando ad integrare la spesa
pubblica dedicata al finanziamento di nuovi programmi di investimento
nell’edilizia civile e industriale. Non a caso proprio lo sforzo di ammodernamento
delle infrastrutture civili e di costruzione di nuovi impianti industriali, che ha reso
quello delle costruzioni il settore trainante dell’economia armena, è considerato
un presupposto per consentire al Paese di mantenere alti tassi di crescita anche nei
prossimi anni.
L’impegno per la ristrutturazione economica e l’ammodernamento delle
infrastrutture ha coinvolto anche il settore agricolo, che ha visto incrementare la
produzione fino a diventare nel 2005 (grazie a una crescita che si è attestata
intorno all’11 per cento rispetto all’anno precedente) il secondo maggior
contribuente alla crescita complessiva 4 . Nei prossimi anni il settore agricolo
continuerà probabilmente a crescere a ritmi sostenuti soprattutto grazie
all’assistenza finanziaria fornita dalla US Millennium Challenge Corporation in
seguito ad un accordo tra Armenia e Stati Uniti; lo scopo principale di tale
accordo (raggiunto anche grazie alla notevole influenza esercitata dalla diaspora
armena sugli ambienti politici e finanziari americani) è quello di sostenere le
politiche governative di riduzione della povertà rurale attraverso un’ampia opera
di ammodernamento delle infrastrutture per l’irrigazione per aumentarne
l’efficienza e delle reti stradali per migliorare l’accesso delle comunità rurali tanto
al mercato agricolo quanto alla rete di servizi sociali.
La crescita industriale nazionale è stata pure positiva, anche se più contenuta,
sorretta in particolare dal boom registrato nel settore metallurgico (con un tasso di
crescita superiore al 40 per cento nei primi nove mesi del 2005 5 ), che ha
beneficiato di consistenti investimenti esteri per la costruzione di nuovi impianti.
L’espansione del settore metallurgico ha in effetti più che compensato il declino
nella produzione registrato nei settori meccanico e della lavorazione delle pietre
preziose, tanto che l’intero settore manifatturiero ha realizzato nello stesso
periodo una crescita superiore al 9 per cento. Il boom metallurgico ha inoltre
3
I dati sono tratti da: ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT, Country Report Armenia, London,
February 2006, p. 5.
4
Ibidem, p. 23.
5
Ibidem, p. 27.
34
contribuito in misura decisiva alla crescita delle esportazioni armene, insieme agli
elevati prezzi mondiali e al commercio di pietre preziose lavorate, tradizionale
settore di esportazione del Paese: crescita tuttavia non sufficiente a ridurre il
deficit commerciale, che viceversa è aumentato a causa degli alti prezzi mondiali
dei prodotti minerari greggi, ovvero della quota più consistente delle importazioni
armene. Nonostante tale rialzo (che riguarda naturalmente anche i prezzi delle
fonti energetiche), l’impatto sulla bilancia commerciale armena dei prezzi
mondiali a livelli record negli ultimi due anni può considerarsi nel complesso più
contenuto delle aspettative, grazie al fatto che i prezzi d’importazione delle fonti
energetiche sono stati fissati precedentemente e non rinegoziati fino al 2006. I
ripetuti annunci da parte di Gazprom di imminenti aumenti del prezzo delle
forniture di gas all’Armenia lasciano però immaginare che il deficit commerciale
armeno sia destinato ad aggravarsi ulteriormente, parallelamente all’intensificarsi
della pressoché totale dipendenza energetica del Paese dalla Russia.
In questa ottica va considerata positivamente la priorità assegnata dal governo
armeno alla diversificazione delle fonti energetiche, in uno sforzo volto a
contenere la già preponderante presenza russa nel settore (che comprende tra
l’altro il controllo sull’unico impianto nucleare del Paese, che da solo genera
all’incirca il 40 per cento dell’energia elettrica armena, e il monopolio sulla rete di
distribuzione elettrica nazionale). A tale scopo è in corso la realizzazione di nuovi
progetti energetici, tra cui un nuovo gasdotto che collega l’Armenia all’Iran e
l’ampliamento, sempre in collaborazione con l’Iran, dell’impianto termoelettrico
di Hrazdan, finora controllato in gran parte da capitali russi. Grazie all’impegno
governativo e alla graduale realizzazione di riforme strutturali sostenute anche dal
Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, negli ultimi anni il
settore energetico armeno ha notevolmente ridotto le perdite dovute
all’inefficienza, fino a poter fare a meno degli onerosi sussidi statali che
gravavano sul bilancio pubblico, ed ha anche iniziato ad esportare energia elettrica
in Georgia.
Il quadro di crescita complessiva sopra delineato è stato accompagnato da una
decisa riduzione dell’inflazione, il cui tasso per il 2005 (0,6 per cento, il più basso
dal 2000 6 ) è rimasto ben al di sotto dell’obiettivo del 3 per cento fissato dalla
Banca Centrale armena. La riduzione dell’inflazione nonostante gli alti tassi di
crescita del Pil e degli aggregati monetari è in gran parte dovuta al rafforzamento
della valuta locale (il dram) e al suo apprezzamento soprattutto nei confronti del
dollaro americano (grazie alla generale debolezza del dollaro stesso nei confronti
delle altre valute sui mercati mondiali) e dello stesso rublo. Il rafforzamento del
dram ha quindi più che compensato gli effetti inflattivi degli alti tassi di crescita e
ha provocato persino una riduzione dei costi di produzione: come si è già
sottolineato, la spinta al rialzo dei prezzi dei prodotti energetici a livello globale
ha infatti avuto fino al 2005 scarsi effetti sull’economia armena, proprio per il
6
Ibidem, p. 23.
35
fatto che i prezzi della quota più consistente delle importazioni di prodotti
energetici in Armenia sono fissati anticipatamente, e dunque non hanno risentito
per il momento delle fluttuazioni dei prezzi mondiali.
TASSO DI INFLAZIONE - IPC (variazione % su base annua):
gen feb mar apr mag
giu
lug
ago
set
ott
nov dic media
2003
4,0 3,0
3,2
2,8
2,2
4,1
3,7
4,3
7,6
7,0
7,1
8,6
4,7
2004
6,9 7,7
8,7
7,9
7,9
6,3
9,5
9,4
6,0
6,3
4,4
2,0
7,0
2005
4,8 4,7
3,4
1,3
0,3
-1,0
-3,0 -2,0 -0,5 -0,4 -0,2 -0,2
0,6
Fonte: EIU 2006
TASSO DI CAMBIO:
2001 2002 2003 2004 2005
TASSO DI CAMBIO dram/US$ (media annua)
555,1 573,4 578,8 533,5 457,7
TASSO DI CAMBIO dram/rublo (media annua)
19,0
18,3
18,9
18,5
16,0
Fonte: EIU 2006
L’apprezzamento del dram a partire dal 2004 può considerarsi il prodotto di due
fattori: da un lato, l’alto tasso di inflazione registrato nel 2003 (mediamente
superiore al 7,5 per cento negli ultimi quattro mesi dell’anno) ha spinto le autorità
armene ad accogliere le pressioni del Fmi e a consentire un apprezzamento del
tasso di cambio per contrastare le spinte inflazionistiche; dall’altro lato,
l’apprezzamento del dram è stato stimolato dal massiccio afflusso di capitali che
ha investito il Paese nella forma di rimesse dall’estero. Nel complesso gli effetti
del rafforzamento del dram sono stati positivi per il mercato nazionale, in quanto
hanno incoraggiato una maggiore fiducia nella moneta nazionale e incrementato il
suo utilizzo tanto per le transazioni quanto come strumento di risparmio privato 7 ,
rafforzando al contempo il fragile sistema finanziario e bancario locale. Viceversa,
il marcato apprezzamento del dram anche in termini reali rispetto al dollaro
americano e all’euro ha sollevato qualche preoccupazione per la perdita di
competitività dei prodotti nazionali sui mercati internazionali: a placare i timori
degli esportatori armeni, più che giustificati data la tendenza al ribasso del tasso di
cambio a partire già dal 2004 e la ridotta base di esportazione del Paese, non sono
finora bastate le valutazioni ottimistiche del Fmi, che considera come fattori
positivi per la competitività armena i vantaggi di cui beneficia l’economia
nazionale in termini di costo della manodopera e la concentrazione delle
esportazioni del Paese in particolari nicchie di mercato. A sostegno della
7
In un’indagine condotta dalla Banca Centrale su un campione di duemila famiglie, il 33 per cento
degli intervistati ha dichiarato di preferire per le transazioni il dram alle valute straniere, contro il
solo 17 per cento registrato l’anno precedente, ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT, Country
Report Armenia, London, May 2006, p. 24.
36
posizione del Fmi può essere ricordato il fatto che negli ultimi cinque anni le
esportazioni sono cresciute costantemente, particolarmente verso Paesi non
appartenenti alla ex-sfera sovietica, tanto che l’Unione Europea nel suo complesso
è divenuta il principale partner commerciale della piccola repubblica.
COMMERCIO ESTERO (US$):
Esportazioni
Importazioni
Bilancia commerciale
2000,0
1500,0
1000,0
500,0
0,0
-500,0
2000
2001
2002
2003
2004
2005
-1000,0
Fonte: EIU 2006
Le condizioni dei conti con l’estero dell’Armenia, giudicate nel complesso con
ottimismo dal Fmi nonostante il deficit commerciale, sono rafforzate
dall’andamento dei trasferimenti correnti, che grazie a una combinazione di
consistenti rimesse dall’estero e maggiori aiuti pubblici (per un complessivo 20
per cento del Pil nel 2005) hanno prodotto un attivo in grado di ridurre
sensibilmente il deficit di parte corrente (sceso nel 2005 al di sotto del 2,5 per
cento del Pil dal 4,5 per cento registrato nel 2004 8 ). Analogamente, l’andamento
del debito estero è da valutare ora con un certo ottimismo, alla luce della sua
progressiva e costante riduzione che ha portato a dimezzare lo stock di debito tra
il 2000 e il 2005 (con una riduzione di dieci punti percentuali nell’ultimo anno), a
privilegiare i canali multilaterali di credito e a ridurre i debiti bilaterali. Tuttavia
non si può certo ignorare il fatto che un ruolo considerevole nell’ambito di questa
riduzione è stato svolto dalla conclusioni di un debt-for-equity swap, che nel 2003
ha estinto il debito dovuto dall’Armenia alla Russia, ovvero al suo principale
creditore bilaterale, in cambio della cessione di importanti pacchetti azionari a
compagnie russe.
8
EIU, Country Report Armenia, February 2006, cit., p. 31.
37
BILANCIA COMMERCIALE E SALDO DI PARTE CORRENTE
(in milioni di dollari USA):
2000
2001
2002
2003
2004
2005
Esportazioni di merci
309,9
353,1
513,8
696,1
738,3
981,4
Importazioni di merci
-773,4
-773,3
-882,5
-1130,2
-1196,3
-1566,1
Saldo commerciale
-463,5
-420,2
-368,8
-434,1
-458,0
-584,7
Servizi (netti)
-55,8
-17,8
-40,7
-68,3
-70,7
-53,9
Redditi (netti)
Trasferimenti unilaterali
(netti)
Saldo di parte corrente
52,9
63,5
88,2
94,5
36,6
44,9
188,1
174,0
173,4
218,5
330,4
389,5
-278,3
-200,5
-147,9
-189,4
-161,7
-204,2
Fonte: EIU 2006
D’altra parte non si può negare che, sebbene la forte crescita dell’economia
armena possa tenere sotto controllo anche nei prossimi anni il deficit corrente,
compensando grazie ai trasferimenti unilaterali il deficit commerciale e del settore
dei servizi, gli alti tassi di crescita del Pil non possono certo da soli eliminare le
debolezze strutturali del settore estero del Paese. In particolare acquista ulteriore
rilevanza lo sforzo governativo volto a sviluppare nuovi settori di esportazione,
che da un lato possano alleviare la dipendenza dalle importazioni di prodotti
alimentari, mentre dall’altro lato possano rimediare alla ridotta base industrialemanifatturiera nazionale. In questo senso è prevedibile che nuovi massicci
investimenti soprattutto nei settori metallurgico, meccanico e minerario possano
guidare la crescita delle esportazioni nei prossimi anni, riducendo la quota
riconducibile al settore della lavorazione dei diamanti (che nel 2005 rappresentava
oltre il 36 per cento del totale 9 ) e compensando il probabile aumento delle
importazioni di beni capitali dovuto alla realizzazione di nuovi progetti edilizi e
infrastrutturali.
In questo senso può forse interpretarsi la decisione del Governo di approvare per
il 2006 un obiettivo di deficit di bilancio vicino al 3 per cento del Pil, segnando un
marcato allentamento nella politica fiscale rispetto al deficit dell’1 per cento
registrato nel 2005. Il basso livello del deficit registrato nel 2005 sembra dovuto a
una combinazione di entrate maggiori delle aspettative e riduzioni nella spesa: se
il primo fattore può essere salutato come un (parziale) successo delle autorità nel
processo di miglioramento del sistema di imposizione e nella lotta all’evasione, il
secondo rispecchia soprattutto un dato negativo, ovvero la grave inefficienza che
affligge la regolamentazione e le procedure relative agli appalti pubblici causando
l’accumulo di lunghi ritardi nella decisione e nella realizzazione dei programmi di
spesa pubblica. La scelta di una politica fiscale maggiormente espansiva per il
2006 è del tutto coerente con il programma di riduzione della povertà contenuto
9
Ibidem, pp. 11 e 29.
38
nel Poverty Reduction Strategy Paper (Prsp) approvato dal Governo armeno nel
2003 con il consenso e l’assistenza del Fmi, programma che dovrebbe determinare
le priorità di politica economica del Paese in un’ottica di medio e lungo periodo10 .
Gli obiettivi del Prsp prevedono infatti un sostanziale incremento della spesa
pubblica dedicata a infrastrutture e programmi sociali e dunque un probabile
aumento del deficit pubblico, che sarà finanziato da una combinazione di
maggiori (anche se in misura limitata) entrate provenienti dalla tassazione, prestiti
concessi dalle istituzioni finanziarie internazionali ed emissione di titoli di stato.
Il Prsp rappresenta l’impegno più consistente da parte delle autorità armene per la
crescita stabile e lo sviluppo del Paese: il programma considera cruciale per gli
obiettivi di riduzione della povertà l’aumento sostanziale del livello di
occupazione attraverso la creazione di nuove piccole e medie imprese e la
continua modernizzazione del settore pubblico al fine di migliorare l’accesso della
popolazione ai servizi pubblici fondamentali. Tra questi, a ricevere la quota più
ampia della spesa pubblica nell’ambito del Prsp sono il settore sanitario e
dell’istruzione, entrambi reduci da anni di scarsi investimenti e deterioramento
delle infrastrutture: oltre alla ristrutturazione della dotazione fisica, entrambi i
settori hanno iniziato a beneficiare di salari più alti, corsi di formazione e
aggiornamento per il personale e di una particolare attenzione al decentramento
della gestione (soprattutto finanziaria) dei servizi sanitari e alla qualità
dell’istruzione al fine di meglio soddisfare le esigenze di specializzazione del
mercato del lavoro. A questo programma si devono aggiungere i prestiti che il
Paese riceve dalla Banca Mondiale e dallo stesso Fondo Monetario (nell’ambito
del Poverty Reduction and Growth Facility, un programma triennale iniziato nel
2005), destinati soprattutto a finanziare la realizzazione di riforme necessarie a
rendere più efficace la gestione del sistema di tassazione e ad incoraggiare lo
sviluppo del sistema bancario. In effetti già a partire dal 2004 le entrate fiscali
derivanti dalla tassazione hanno iniziato a crescere, sia in termini assoluti, sia
come percentuale del Pil: tuttavia nel 2005 questa percentuale era ancora piuttosto
bassa, intorno al 14 per cento. Una delle ragioni sottostanti a questa scarsa
performance è senza dubbio il fatto che molti dei settori più dinamici
dell’economia armena, che hanno maggiormente contribuito al raggiungimento di
alti tassi di crescita, non sono soggetti a tassazione: questo è particolarmente vero
per i settori industriali che hanno potuto beneficiare di massicci investimenti
stranieri, che sono stati attirati nel Paese proprio grazie all’esenzione fiscale.
Un’altra ragione, più preoccupante, che può contribuire a spiegare il basso livello
delle entrate fiscali è l’alto tasso di evasione: da un’indagine condotta nel 2005
dal Caucasus Resource Research Centre è emerso infatti che, più ancora della
10
INTERNATIONAL MONETARY FUND, Republic Of Armenia: Poverty Reduction Strategy
Paper Progress Report, Washington D.C., May 2005, p. 5; EIU, Country Report Armenia,
February 2006, cit., pp. 9, 20; COMMISSION OF THE EUROPEAN COMMUNITIES,
Commission Staff Working Paper, Annex To: “European Neighbourhood Policy”, Country Report
Armenia, Bruxelles, 2005, pp. 16-17.
39
corruzione e delle collusioni, quasi 6 imprenditori su 10 (su un campione di oltre
500 aziende armene) lamentano la pressione fiscale “ingiustificatamente elevata”,
tale cioè da costituire il principale ostacolo allo sviluppo della propria attività.
Oltre a ciò, l’83 per cento degli intervistati ha anche citato lo scarso impegno
dello Stato per facilitare lo sviluppo di nuove opportunità produttive e la
mancanza di un’adeguata regolamentazione, soprattutto per ciò che riguarda la
protezione della proprietà intellettuale, come seri limiti all’espansione delle
attività produttive 11 . La questione del miglioramento dell’ambiente economico e
del clima degli affari assume quindi particolare rilievo tra le priorità dell’agenda
di politica economica del Governo. Tuttavia è probabile che nell’immediato
futuro non vi siano progressi sostanziali, dal momento che l’appuntamento con le
elezioni politiche del 2007 verosimilmente attirerà, soprattutto a partire dagli
ultimi mesi del 2006, l’attenzione governativa verso le esigenze della campagna
elettorale.
INDICATORI SULL'AVVIAMENTO DI UN'ATTIVITA' PRODUTTIVA:
Armenia
Georgia
Azerbaigian
Tempi di avviamento (giorni)
25
21
115
Costi di avviamento (% reddito pro capite)
Rigidità dell'impiego (indice: 0=min rigidità;
100=max rigidità)
Tempi di registrazione della proprietà
(giorni)
Disclosure Index (indice di trasparenza:
0=min; 7=max)
Tempi di attuazione di un contratto (giorni)
Costi di attuazione di un contratto (% valore
del debito)
Durata media delle procedure di insolvenza
(anni)
6,1
13,7
12,5
49
43
38
6
9
61
3 (2005)
4
0
185
375
267
17,8
31,7
19,8
1,9
3,3
2,7
Fonte: Doing Business in 2006, Banca Mondiale
Nel complesso le prospettive di crescita dell’economia armena resteranno strettamente
legate all’andamento del settore estero. Se, come previsto, l’economia russa manterrà
tassi di crescita superiori al 5 per cento anche per il 2006 e il 2007, essa potrà trainare
l’economia armena (insieme alle altre economie della regione) grazie alla forte domanda
di importazioni e alla disponibilità ad investire ingenti capitali in settori chiave quali
quello energetico e quello metallurgico. Oltre a questo, l’impatto sulla bilancia
commerciale armena della diminuzione attesa dei prezzi mondiali dei metalli dovrebbe
essere compensato da un aumento della produzione, mentre la riduzione dei prezzi dei
generi alimentari sul mercato mondiale (già in corso dal 2005) dovrebbe aiutare a
contenere l’aumento delle spese per le importazioni. Nondimeno, la dipendenza del Paese
da una base di esportazione piuttosto ristretta, comprendente solo poche categorie di
11
EIU, Country Report Armenia, February 2006, cit., p. 20.
40
merci, continuerà a rendere l’economia nazionale vulnerabile a inattese fluttuazioni dei
prezzi mondiali.
PREVISIONI DI CRESCITA 2006-2007:
2006 (a) 2007 (a)
2004
2005
Mondo
5,0
4,4
4,0
3,9
Russia
7,2
6,2
5,7
5,2
Armenia
10,1
13,9
8,5
9,0
Petrolio (Brent; US$/barile)
38,5
54,7
55,0
46,8
Oro (US$/oncia)
409,5
445,0
525,0
493,8
Prodotti alimentari (variaz. % in US$)
8,5
-0,2
-0,5
-2,3
Materie prime industriali (variaz. % in US$)
21,0
10,4
-1,3
-10,7
Esportazioni di merci (milioni US$)
738,3
981,4
1056,0
1156,9
Importazioni di merci (milioni US$)
1196,3
1566,1
1709,1
1874,1
Saldo di parte corrente (milioni US$)
-161,7
-204,2
-229,5
-272,6
Deficit di parte corrente (% del PIL)
4,5
4,1
4,0
4,2
TASSO DI CRESCITA PIL REALE (%):
PREZZI MONDIALI DELLE MERCI:
SETTORE ESTERO ARMENIA:
Fonte: EIU 2006
(a) Previsioni Economist Intelligence Unit
41
2.2 Georgia
INDICATORI ANNUALI DI CRESCITA:
2001
2002
2003
2004
2005
PIL (miliardi di US$)
3,2
3,4
4,0
5,1
6,4
TASSO DI CRESCITA PIL (%)
4,8
5,5
11,1
5,9
9,3
Fonte: EIU 2006, IMF 2006 e BERS
CRESCITA PER SETTORE (%):
2003
2004
2005
Agricoltura
10,3
-7,1
4,9
Costruzioni
43,3
15,5
1,2
Industria
0,9
17,6
5,2
Servizi
8,7
17,0
11,5
Fonte: EIU 2006
Tasso di crescita PIL (%) 1995-2005
Tasso di crescita PIL (%)
12,0
10,0
8,0
6,0
4,0
2,0
0,0
1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005
Fonte: BERS 2006
Diversamente da quello armeno, l’andamento della crescita del Pil in Georgia è
stato altalenante negli ultimi cinque anni12 : dopo aver fatto registrare nel 2003 un
tasso di crescita doppio rispetto all’anno precedente e il più alto dal 1996,
l’economia georgiana ha subito una decisa flessione l’anno seguente, dovuta alla
performance particolarmente negativa del settore agricolo (che è passato da una
crescita a due cifre nel 2004 a una contrazione della produzione del 7,1 per cento
12
I dati sono tratti da: ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT, Country Report Georgia, London,
February 2006, pp. 21-22.
42
nel 2005). Accanto a questo, un altro fattore in grado di spiegare il brusco
rallentamento dell’economia georgiana nel 2004 è stato il completamento dei
progetti relativi alla costruzione di nuove infrastrutture di trasporto per il gas e il
petrolio del Mar Caspio: in effetti la costruzione di questi nuovi gasdotti e
oleodotti aveva trainato nel 2003 la crescita economica, e il loro progressivo
completamento ha inevitabilmente portato all’esaurimento della fase di crescita
del settore (che infatti ha registrato nel 2005 una crescita modesta, dell’1,2 per
cento). Il tasso di crescita dell’economia georgiana si è riportato nel 2005 al di
sopra del 9 per cento, in gran parte grazie alla ripresa del settore agricolo, che è
cresciuto quasi del 5 per cento grazie alle buone condizioni meteorologiche e che
rappresenta all’incirca un quinto del Pil georgiano. La ripresa agricola tuttavia non
elimina gli ostacoli strutturali di cui soffre il settore, come ad esempio la
frammentazione della proprietà terriera in appezzamenti di piccole dimensioni:
questi vincoli impediscono l’ulteriore sviluppo di un settore divenuto negli ultimi
anni particolarmente importante per il commercio con l’estero, dato che le
esportazioni di prodotti agricoli costituiscono quasi un quarto delle esportazioni
totali georgiane.
In tutti gli altri settori si è verificato viceversa un rallentamento della crescita,
legato in gran parte ancora una volta al completamento dei progetti di costruzione
delle nuove infrastrutture di trasporto delle risorse energetiche. L’unico settore
che nel complesso ha mantenuto un tasso di crescita a due cifre (+11,5 per cento)
è stato quello dei servizi: il dato è specialmente importante in considerazione della
quota crescente rappresentata dai servizi, che nel 2005 per la prima volta ha
superato la metà del Pil totale.
QUOTA DEI SETTORI RISPETTO AL PIL (%)
60,0
50,0
40,0
Agricoltura
30,0
Industria
20,0
Servizi
10,0
0,0
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
Fonte: EIU 2006
Anche in questo caso non si possono trascurare alcune considerazioni: nel 2004 la
straordinaria performance del settore dei servizi era da attribuire all’espansione
delle telecomunicazioni (+25,5 per cento), soprattutto grazie allo sviluppo delle
reti di telefonia mobile, prima pressoché inesistenti nel Paese. Un tale tasso di
43
crescita difficilmente poteva ripetersi l’anno seguente, ed infatti lo stesso settore
ha registrato una crescita comunque molto positiva, ma inferiore di quasi dieci
punti percentuali (+15,9 per cento). Questa crescita più contenuta è stata però
compensata dal tasso di crescita registrato nel settore dei servizi finanziari (+54,4
per cento nei primi nove mesi dell’anno, il più alto dal 1999), che ha contribuito
in misura decisiva a mantenere a due cifre la crescita complessiva dei servizi. Il
dato relativo ai servizi finanziari deriva da una maggiore efficienza del sistema
bancario, che si è riflessa in un aumento dell’attività di intermediazione; tuttavia
non bisogna dimenticare che alla base di questa nuova vitalità del sistema
finanziario georgiano vi è anche un massiccio afflusso di capitali stranieri in gran
parte non sterilizzato dalla Banca Centrale, a causa delle limitate opzioni di
politica monetaria a sua disposizione. Il dato più significativo dell’espansione del
settore dei servizi resta comunque il fatto che sia anch’essa in larga misura
collegata alla costruzione delle nuove reti di trasporto delle risorse energetiche e
agli investimenti esteri ad essi correlati, che si rivelano quindi fondamentali per la
prosecuzione della fase attuale di crescita economica.
L’aumento sia nominale che reale dei salari, particolarmente pronunciato a partire
dal 2004, e dell’occupazione nel settore è stato uno degli effetti positivi più
evidenti dell’espansione del terziario: da un lato esso ha spinto verso l’alto i salari
anche negli altri settori, compreso il settore pubblico, incrementando quindi il
reddito delle famiglie; dall’altro lato ha compensato almeno in parte l’aumento
della disoccupazione che si è verificato a seguito dei consistenti tagli del
personale dell’amministrazione pubblica. Nonostante il contributo del terziario,
nel 2005 il tasso di disoccupazione ha infatti toccato il 13,8 per cento,
confermando implicitamente la tesi che una fetta consistente della disoccupazione
sia strutturale e di lungo periodo: questo spiegherebbe anche la presenza di
un’economia informale particolarmente sviluppata, comprendente agricoltura di
sussistenza e altre attività di lavoro occasionale, che agisce come valvola di
sicurezza per allentare le pressioni sociali.
Nonostante i tagli relativi al pubblico impiego, il Governo georgiano ha nel
complesso incrementato la spesa pubblica 13 : una crescita delle entrate all’incirca
del 30 per cento nel 2005, superiore alle aspettative e all’obiettivo fissato dal
Governo, ha infatti consentito alle autorità di aumentare le spese sociali destinate
alla riduzione della povertà, che affligge ancora più della metà della popolazione
georgiana 14 (con una percentuale pari al 17,4 che vive in condizioni di povertà
assoluta 15 ), nell’ambito dell’Economic Development and Poverty Reduction
Program, approvato nel 2003 con il sostegno del Fondo Monetario Internazionale
e della Banca Mondiale. La spesa sociale ha rappresentato nel 2005 il 22 per cento
13
Ibidem, pp. 18-19.
WORLD BANK, Georgia Country Brief 2006, http://web.worldbank.org/WEBSITE/
EXTERNAL/COUNTRIES/ECAEXT/GEORGIAEXTN/.
15
Dati relativi al 2004, INTERNATIONAL MONETARY FUND, Georgia: Poverty Reduction
Strategy Paper Progress Report, Washington D.C., March 2005, p. 5.
14
44
della spesa pubblica totale, ovvero la sua componente principale, ed è stata in gran
parte destinata all’aumento delle pensioni minime e alla progressiva eliminazione
degli arretrati.
Il consistente aumento delle entrate pubbliche che ha consentito la realizzazione
dei programmi di spesa sociale sembra soprattutto merito della riforma
dell’imposizione fiscale approvata dal governo georgiano e introdotta all’inizio
del 2005 16 : accanto ad una generale riduzione delle aliquote fiscali e del numero
stesso delle imposte, volta a ridurre l’evasione, il governo ha infatti ridotto anche
le esenzioni fiscali, soprattutto per quanto riguarda la tassazione dei profitti e
l’imposta sul valore aggiunto. L’aumento delle accise che ha colpito soprattutto
alcool e tabacco ha avuto tuttavia come effetto principale quello di incoraggiare il
contrabbando, vera piaga dell’economia nazionale, costringendo le autorità a
rafforzare il proprio impegno per contrastare il commercio illegale attraverso più
stretti controlli alle frontiere. E’ significativo in questo senso il fatto che nel
bilancio approvato nel dicembre 2005 per l’anno 2006, che fissa un aumento di
spesa del 15 per cento rispetto all’anno precedente, la quota destinata ad
aumentare in misura più consistente sia quella destinata alle spese per la difesa,
che comprendono anche gli incrementi destinati a rafforzare le forze armate e di
pubblica sicurezza, e che andranno così a costituire più del 3 per cento del Pil.
Sul totale delle entrate resta però significativa anche la quota dei proventi non
derivanti dalle imposte (circa il 12 per cento nel 2005): questa quota è peraltro
destinata ad aumentare nel bilancio del 2006, quando nelle casse dello Stato
arriveranno i proventi dell’ambizioso programma di privatizzazione iniziato nel
2004 e culminato nel 2005 con la cessione (soprattutto ad acquirenti stranieri) di
alcune importanti attività, quali Georgia Telecom, il complesso industriale di
Madneuli per l’estrazione e la lavorazione dell’oro e del rame, la compagnia
nazionale di trasporti navali. I consistenti ricavi delle privatizzazioni e il loro
notevole contributo alle entrate totali dello Stato hanno consentito una decisa
riduzione del deficit pubblico, contenuto nel 2005 entro il 2,4 per cento, senza per
questo sacrificare, come si è detto, la possibilità per le autorità di incrementare la
spesa pubblica destinata in particolare alla costruzione di infrastrutture, alla
realizzazione di programmi sociali e alla difesa. La generosa politica fiscale
georgiana è stata peraltro criticata dal Fondo Monetario Internazionale, che ne ha
sottolineato il carattere populistico (in particolare in vista delle elezioni
amministrative previste per la fine del 2006) e l’impegno giudicato insufficiente
per la riduzione della povertà 17 . Le pressioni del Fondo hanno spinto il governo
georgiano ad approvare parallelamente al bilancio per il 2006 un programma di
medio periodo per le spese, che dovrebbe assicurare un maggiore controllo e una
maggiore prudenza nella gestione della politica fiscale.
16
EIU, Country Report Georgia, February 2006, cit., p. 18.
INTERNATIONAL MONETARY FUND EXECUTIVE BOARD, Public Information Notice.
Conclusion of 2005 Article IV Consultation with Georgia, Washington D.C., April 2006,
http://www.imf.org/external/np/sec/pn/2006.
17
45
BILANCIO DELLO STATO (in miliardi di Lari)
Entrate
Spese
3,00
2,50
2,00
1,50
1,00
0,50
0,00
2002
2003
2004
2005
Fonte: EIU 2006
In effetti la critica del Fondo Monetario Internazionale è dettata da una più
generale preoccupazione circa la posizione finanziaria complessiva del Governo,
in particolare per ciò che riguarda la sostenibilità del debito pubblico e le
prospettive di rimborso del debito pubblico verso l’estero. L’apprezzamento del
lari avvenuto negli ultimi tre anni ha alleggerito sensibilmente il servizio del
debito, già ridotto dopo la rinegoziazione di gran parte dei debiti bilaterali
avvenuta nel luglio del 2004 nell’ambito di una serie di accordi conclusi in sede
Club di Parigi. Tuttavia parte di questi accordi non è ancora stata finalizzata, e
parte dei Paesi creditori non ha per ora accettato di rinegoziare i crediti concessi al
governo georgiano.
TASSO DI CAMBIO (lari/US$):
2001 2002 2003 2004 2005 2006(a) 2007(a)
Media annua
Variazione annua (% rispetto alla
media dell’anno precedente)
Fonte: EIU 2006
2,07
2,20
2,15
1,92
1,81
1,79
1,76
--
-6,3
2,3
10,7
5,7
1,1
1,7
(a) Previsioni EIU
L’apprezzamento del lari rispetto a tutte le maggiori valute a partire dal 2003 è
uno degli effetti più vistosi del massiccio afflusso di capitali esteri che ha investito
la Georgia contestualmente alla realizzazione dei progetti relativi alla costruzione
dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan. Fino al 2005 questo afflusso di capitali ha
permesso al Paese di coprire il proprio deficit corrente, sempre più ampio a causa
dell’aumento dei prezzi delle risorse energetiche e delle crescenti importazioni di
46
beni capitali che la base industriale nazionale insufficientemente sviluppata non
può fornire per le attività collegate alla costruzione dell’oleodotto.
BILANCIA DEI PAGAMENTI (in milioni di US$):
2001
2002
2003
2004
2005
496,1
601,7
830,6
1092,5
1472,0
-1045,6
-1084,7
-1466,6
-2008,6
-2686,0
-549,5
-483,0
-636,0
-916,1
-1214,0
77,2
35,5
54,0
56,1
71,9
Saldo dei redditi
32,3
33,2
32,4
96,7
93,8
Trasferimenti unilaterali netti
SALDO DI PARTE
CORRENTE
Investimenti diretti esteri
228,3
193,0
174,9
337,6
297,3
-211,7
-221,3
-374,7
-425,7
-751,0
109,9
163,3
335,6
489,5
537
Investimenti di portafoglio
-0,1
0,0
0,0
-13,1
19,2
Altri flussi di capitale
SALDO DI CONTO
CAPITALE E
FINANZIARIO
Errori e omissioni
99,9
-144,1
-12,9
2,5
166,8
204,5
37,6
342,6
519,8
723,0
34,9
-6,0
-16,8
14,7
12,0
SALDO GLOBALE
27,7
-189,7
-49,0
108,8
-16,0
Esportazioni
Importazioni
SALDO BILANCIA
COMMERCIALE
Saldo dei servizi
Fonte: EIU 2006
Tuttavia con il completamento del progetto Btc il flusso di Ide verso la Georgia si
è bruscamente ridotto, soprattutto a partire dal terzo trimestre del 2005, e a
compensare questa riduzione non è stato sufficiente l’incremento dei flussi in
entrata derivanti dal processo di privatizzazione di alcuni grandi complessi
industriali, ceduti a gestori stranieri. I ricavi della privatizzazione hanno
comunque contribuito ad incrementare le riserve ufficiali della Banca Centrale,
alleviando così la pressione sulla politica monetaria e sui tentativi della Banca
Centrale di sterilizzare i flussi di capitali esteri utilizzando i limitati strumenti a
sua disposizione. Per contenere almeno in parte il deficit corrente invece il Paese
sembra sempre più doversi affidare (oltre che naturalmente agli aiuti ufficiali) alle
sempre più consistenti rimesse provenienti dai circa due milioni di georgiani che
lavorano in altri Paesi dell’ex-Unione Sovietica.
Su una popolazione totale di meno di quattro milioni e mezzo di persone 18 , le
rimesse di quasi due milioni di lavoratori trasferitisi principalmente in Russia non
fanno che evidenziare in maniera ancora più netta l’importanza del legame
18
Dati relativi al 2003, Dipartimento Nazionale di Statistica del Ministero delle Finanze della
Repubblica di Georgia.
47
economico esistente tra i due Paesi. In effetti, insieme alla Turchia, la Russia è
ancora il principale partner commerciale della Georgia, e il suo fornitore
pressoché esclusivo di combustibili. Certamente anche nel prossimo biennio
l’Unione Europea fornirà alla Georgia quantità crescenti di beni capitali e di
servizi (soprattutto di trasporto e di consulenza) collegati alla messa in funzione
delle nuove infrastrutture di trasporto. Nondimeno, la rapida crescita complessiva
delle importazioni è in larga misura da attribuire ai prezzi del petrolio e dei suoi
derivati in continua ascesa: in particolare, la crescita del settore industriale
georgiano nel 2005 ha provocato un incremento della domanda di energia, che a
sua volta si è dovuto confrontare con l’incapacità del Paese di sfruttare appieno il
proprio notevole potenziale idroelettrico (le centrali idroelettriche georgiane
sfruttano infatti solo il 10-20 per cento della loro capacità produttiva 19 ). Questo fa
sì che la Georgia sia costretta ad importare dalla Russia gran parte del proprio
fabbisogno energetico, accentuando così la propria dipendenza economica dal
vicino settentrionale. Oltre ad essere il principale fornitore di energia della
repubblica caucasica, infatti, la Russia è tradizionalmente anche il principale
mercato di destinazione delle esportazioni georgiane, soprattutto per quanto
riguarda il vino e gli altri prodotti agricoli, che nel 2005 costituivano poco meno
di un quarto delle esportazioni totali del Paese: la domanda russa nello stesso anno
ha coperto i tre quarti del vino esportato dalla Georgia e più del 30 per cento delle
sue esportazioni complessive 20 . Tra le importazioni di risorse energetiche, le
rimesse dei lavoratori emigrati e le esportazioni in gran parte dipendenti dalla
domanda russa, non è dunque difficile immaginare la misura in cui le prospettive
di crescita dell’economia georgiana siano condizionate dall’andamento
dell’economia russa, che secondo le previsioni dovrebbe mantenere un tasso di
crescita superiore al 5 per cento nel biennio 2006-2007, pur subendo un lieve
rallentamento 21 . Tuttavia, il recente divieto imposto da Mosca sull’importazione
di vino e acqua minerale dalla Georgia, probabilmente dettato anche da
motivazioni politiche, avrà inevitabilmente ripercussioni negative sull’andamento
delle esportazioni georgiane, privando di fatto il Paese del proprio principale
mercato di esportazione e costringendo gli esportatori a cercare nuovi mercati nel
difficile tentativo di trovare nel breve periodo un’alternativa all’ampia domanda
russa 22 . Il fatto che le esportazioni georgiane dipendano in definitiva da una
gamma ristretta di prodotti, per lo più a basso valore aggiunto e quindi
particolarmente vulnerabili alle fluttuazioni dei prezzi mondiali, lascia prevedere
che il saldo commerciale del Paese tenderà quindi a peggiorare nel biennio in
corso, principalmente a causa degli alti costi del petrolio e del declino dei prezzi
dei prodotti alimentari e dei metalli greggi (ovvero dell’altra maggiore categoria
di esportazione, destinata soprattutto al mercato turco). Il quadro appare ancora
19
EIU, Country Report Georgia, February 2006, cit., p. 25.
Ibidem, pp. 24-26.
21
Per le previsioni relative all’economia russa e all’andamento dei prezzi mondiali, v. tabella a p.
9.
22
ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT, Country Report Georgia, London, June 2006, p. 24.
20
48
più preoccupante se si considera che le rendite derivanti dalle esportazioni sono in
grado di coprire solo il 35 per cento delle importazioni totali e un brusco
deterioramento delle ragioni di scambio potrebbe minacciare la stabilità
macroeconomica del Paese.
PREVISIONI DI CRESCITA 2006-2007:
2004
2005
2006(a)
2007(a)
Tasso di crescita PIL reale (%)
5,9
9,3
8,8
6,4
Tasso di inflazione (%, media)
5,7
8,2
6,7
5,7
Deficit di bilancio pubblico (% PIL)
-3,0
-2,4
-2,8
-2,5
Esportazioni (miliardi di US$)
1,1
1,5
1,8
2,1
Importazioni (miliardi di US$)
-2,0
-2,7
-3,3
-3,8
Saldo corrente (% del PIL)
-8,3
-11,7
-10,7
-8,5
Fonte: EIU 2006
(a) Previsioni EIU
In considerazione della dipendenza energetica del Paese dalla Russia (che si è
manifestata nella sua drammatica evidenza quando nel gennaio 2006 una serie di
esplosioni che hanno coinvolto le infrastrutture di trasporto dell’energia elettrica e
del gas nelle repubbliche caucasiche della Federazione russa ha interrotto le
forniture di combustibile dirette in Georgia, ancora più essenziali nei mesi
invernali), è da valutare con prudenza il programma governativo di riforme volte
ad incrementare la produzione di energia elettrica in misura tale da garantire al
Paese l’autosufficienza energetica. In effetti, la strategia governativa prevede un
generale ammodernamento delle infrastrutture e la costruzione di nuove centrali
idroelettriche (che non richiedono l’importazione di combustibile), al fine di
sfruttare tutto il potenziale idroelettrico nazionale e di rendere il Paese un
esportatore di energia elettrica. Tuttavia questo programma non sembra allentare i
legami di dipendenza dalla Russia, in quanto la stessa azienda che detiene il
monopolio dell’elettricità in Russia controlla anche il 75 per cento della rete di
distribuzione dell’elettricità in Georgia e all’incirca un quinto della capacità
produttiva del Paese. Altre compagnie russe inoltre parteciperanno
massicciamente alla costruzione (e poi alla gestione) delle nuove centrali
idroelettriche, mentre la maggior parte degli impianti termoelettrici georgiani di
recente costruzione funziona grazie alla tecnologia e ai capitali russi. Allo stesso
modo la possibilità di soddisfare il proprio fabbisogno di gas grazie al South
Caucasus Gas Pipeline, ovvero il progetto parallelo all’oleodotto Baku-TbilisiCeyhan, che dovrebbe trasportare il gas estratto dal giacimento azero di Shah
Deniz, nel Mar Caspio, permetterà alla Georgia di importare gas dall’Azerbaigian
a prezzi preferenziali e di beneficiare delle rendite derivanti dal transito del
combustibile sul proprio territorio: tuttavia anche per ciò che riguarda le forniture
di gas è improbabile che la dipendenza georgiana dalla Russia cessi del tutto, sia
per il rischio implicito nella semplice sostituzione dell’Azerbaigian alla Russia
49
come unico fornitore del Paese, sia nell’eventualità che la Georgia scelga di
“differenziare” le proprie importazioni di gas includendo anche il Kazachstan tra i
propri fornitori. In quest’ultimo caso infatti il gas kazako arriverebbe comunque in
Georgia grazie a un gasdotto russo 23 .
In definitiva il miglioramento delle condizioni della bilancia dei pagamenti
georgiana verrà a dipendere, oltre che naturalmente dalle rimesse dall’estero, dagli
introiti derivanti dal transito delle risorse energetiche sul territorio nazionale, una
volta che le nuove infrastrutture di trasporto entreranno in funzione. Le previsioni
dell’Economist Intelligence Unit stimano infatti che solo a partire dal 2007 si avrà
una sensibile riduzione del deficit corrente, proprio in corrispondenza della
prevista apertura del South Caucasus Gas Pipeline 24 .
D’altra parte i probabili nuovi massicci afflussi di capitali stranieri rafforzeranno
la tendenza all’apprezzamento del lari, accentuando le pressioni sulla politica
monetaria: la Banca Centrale fatica infatti anche ora a sterilizzare l’afflusso di
capitali soprattutto a causa della sostanziale impossibilità di vendere sul mercato
finanziario nazionale scarsamente sviluppato titoli a breve termine denominati in
valuta locale. L’apprezzamento del lari sarà tanto più marcato anche in
considerazione dell’obiettivo primario fissato dalla Banca Centrale, ovvero della
riduzione dell’inflazione: la politica fiscale espansiva perseguita dal Governo
coerentemente con i propri programmi di sviluppo, riduzione della povertà e
prosecuzione delle riforme strutturali infatti intensificherà ulteriormente le
pressioni sul tasso di inflazione, che nel 2005 ha superato mediamente l’8 per
cento. La particolare difficoltà di realizzare un appropriato mix di politiche
macroeconomiche sembra quindi essere la caratteristica distintiva in grado di
condizionare più che mai l’esito del processo di sviluppo economico della
Georgia, le cui prospettive peraltro riposano a loro volta sulla validità e sul
successo della sfida costituita dalle nuove rotte energetiche transcaucasiche.
2.3 Azerbaigian
INDICATORI ANNUALI DI CRESCITA:
2001
2002
2003
2004
2005
PIL (in miliardi di US$)
5,7
6,1
7,0
8,5
11,9
TASSO DI CRESCITA PIL REALE (%)
9,9
10,6
11,2
10,2
26,4
Fonte: EIU 2006
23
24
EIU, Country Report Georgia, February 2006, cit., pp. 15-17.
Ibidem, p. 11.
50
CRESCITA PER SETTORE (%):
Agricoltura
Industria
Costruzioni
Commercio (ingrosso e dettaglio)
2001
11,1
5,2
5,9
9,9
2002
6,4
3,6
105,0
9,6
2003
5,6
6,0
61,0
10,9
2004
4,6
5,7
41,9
13,0
2005
7,5
56,8
2,0
13,2
Fonte: EIU 2006
Rispetto alle altre due economie caucasiche, l’Azerbaigian presenta alcune
caratteristiche distintive che sono alla base dell’andamento della sua performance
economica. Dopo tre anni di crescita a due cifre, nel 2005 il Paese ha beneficiato
di un vero e proprio boom economico, con un tasso di crescita del Pil reale che ha
raggiunto il 26,4 per cento, il più alto nel mondo. La rapida crescita dell’economia
azera sta continuando anche nel 2006 e, secondo le stime del Comitato Nazionale
di Statistica relative al primo trimestre dell’anno, il Pil è cresciuto del 39,5 per
cento in termini reali, rispetto a una crescita di poco superiore al 10 per cento
nello stesso periodo dell’anno precedente 25 . Questa accelerazione, certo
sorprendente nelle dimensioni ma non del tutto inattesa, è da attribuire quasi
interamente all’espansione del settore industriale, guidata in particolare dal settore
degli idrocarburi. La produzione industriale è cresciuta infatti del 57 per cento nel
2005, principalmente come risultato di un incremento superiore al 40 per cento
nella produzione relativa all’industria estrattiva, che comprende il settore
petrolifero e quello del gas e che costituisce all’incirca il 60 per cento dell’intera
produzione industriale del Paese.
PRODUZIONE INDUSTRIALE PER SETTORE:
2003
2004
2005
2005
2006
(gen-mar) (gen-mar)
CRESCITA ANNUA:
Industria estrattiva (idrocarburi)
1,4
2,3
41,4
10,3
Elettricità
16,4
2,3
4,8
12,0
Industria manifatturiera
17,7 10,2 15,6
5,3
di cui: Prodotti alimentari
5,2
0,1
4,2
33,0
Raffinazione del petrolio
4,2
9,1
14,2
n.d.
Industria chimica
8,0
25,0
6,2
-17,7
QUOTA RISPETTO ALLA PRODUZIONE INDUSTRIALE TOTALE:
Industria estrattiva (idrocarburi)
48,6 48,8 59,8
58,3
Elettricità
8,7
7,7
6,1
8,5
Industria manifatturiera
42,7 43,6 34,1
39,4
di cui: Prodotti alimentari
17,8 18,8 13,6
15,3
Raffinazione del petrolio
13,4 12,3
9,4
12,2
Industria chimica
2,9
3,2
2,1
0,9
47,4
9,1
15,4
2,7
30,7
72,5
62,9
6,3
30,8
10,6
10,9
0,1
Fonte: EIU 2006
25
ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT, Country Report Azerbaijan, London, May 2006, p. 21.
51
Il boom petrolifero sta avendo benefiche ricadute sull’intera economia: il più alto
potere d’acquisto delle famiglie, che deriva soprattutto dai maggiori salari pagati
nel settore degli idrocarburi (sempre più dominato da compagnie private,
principalmente straniere), tende infatti ad incrementare la domanda di beni di
consumo e di servizi, che a sua volta si riflette sulla crescita del terziario (il settore
delle telecomunicazioni è cresciuto ad esempio del 36 per cento nel 2005).
Tuttavia l’espansione dell’industria degli idrocarburi ha anche contribuito a
marginalizzare progressivamente il settore agricolo, la cui quota rispetto al Pil è
scesa al di sotto del 10 per cento nel 2005, nonostante l’incremento nella domanda
abbia spinto la crescita del settore al di sopra del 7 per cento. Inoltre, sebbene nel
2005 le esportazioni azere di prodotti alimentari siano più che raddoppiate in
termini assoluti e quasi raddoppiate in termini percentuali sulle esportazioni totali
del Paese, il settore agricolo ha sofferto e prevedibilmente soffrirà in misura
crescente per l’apprezzamento marcato del manat, che combinato con gli alti costi
di trasporto tende ad indebolirne la competitività sui mercati internazionali 26 .
INVESTIMENTI DIRETTI ESTERI (in milioni di US$):
2001
2002
2003
2004
2005
Armenia
70
111
120
217
201
Georgia
110
163
336
490
234
Azerbaigian
227
1067
2352
2351
458
119
1007
2256
2237
241
Federazione russa
2748
3461
7958
11672
n.d.
Totale CSI
7076
8835
15536
22554
n.d.
di cui: nel settore petrolifero
Fonte: EIU 2006, UNCTAD, BERS
A ben vedere, la rapida crescita dell’industria degli idrocarburi come si è detto
non è del tutto inattesa: l’economia azera ha piuttosto iniziato nel 2005 a cogliere i
benefici dei massicci investimenti diretti esteri che a partire dal 2002 si sono
riversati nel settore, al fine di sfruttare i giacimenti di petrolio e gas naturale di cui
il Paese è ricco. In effetti la produzione di petrolio greggio ha superato nel 2005 i
22 milioni di tonnellate, con un incremento superiore al 40 per cento rispetto
all’anno precedente, soprattutto grazie al completamento dei progetti di
esplorazione e l’inizio dello sfruttamento dei giacimenti petroliferi azeri nel Mar
Caspio (Azeri-Chirag-Guneshli) ad opera dell’Azerbaijan International Operating
Company (Aioc), un consorzio internazionale privato guidato da British
Petroleum. Allo stesso modo, la produzione di gas naturale, sostanzialmente in
declino dal 1999 e stabile dal 2002, ha subito un nuovo incremento del 15 per
cento, da attribuirsi anche in questo caso quasi esclusivamente all’attività di
sfruttamento dell’Aioc, che ha quasi raddoppiato la propria produzione di gas, a
26
Ibidem, pp. 26-27.
52
fronte dell’andamento fondamentalmente stagnante dell’attività della State Oil
Company of the Azerbaijan Republic (Socar), la compagnia statale di sfruttamento
degli idrocarburi.
Grazie allo sfruttamento dei nuovi giacimenti petroliferi, nel 2005 per la prima
volta la produzione del consorzio guidato da Bp ha superato nettamente (quasi del
50 per cento) la produzione della Socar: considerato che lo sfruttamento dei
giacimenti Acg raggiungerà la massima capacità operativa a partire dalla seconda
metà del 2006, in coincidenza con la piena efficienza del nuovo oleodotto BakuTbilisi-Ceyhan (il primo carico di petrolio proveniente dal nuovo oleodotto ha
lasciato il porto turco nel giugno del 2006), nei prossimi anni il settore petrolifero
continuerà a trainare la rapida crescita dell’economia azera, e il volume di greggio
prodotto dall’Aioc costituirà una quota sempre più dominante della produzione
totale, che dovrebbe raggiungere nel 2008 il milione di barili al giorno 27 . In effetti,
l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, costruito grazie a capitali internazionali privati e
con l’appoggio del governo americano, oltre che naturalmente di Azerbaigian e
Turchia, costituirà la principale via di trasporto del petrolio proveniente dai
giacimenti sfruttati dall’Aioc, mentre la Socar continuerà ad esportare
esclusivamente attraverso il più obsoleto e meno conveniente oleodotto BakuTbilisi-Novorossijsk. Oltre a ciò, un ulteriore fattore in grado di spiegare il
declino dell’importanza della compagnia petrolifera statale è il suo prevalente
sfruttamento di giacimenti situati sulla terraferma, meno ricchi e comunque dotati
di tecnologia arretrata: di fatto, nei prossimi anni la sopravvivenza della Socar
sarà più che altro affidata alla quota del 10 per cento che la compagnia possiede
all’interno del consorzio Aioc, cosicché una parte crescente della sua produzione
annua scaturirà dall’attività di esplorazione e sfruttamento condotta dalle
compagnie petrolifere straniere.
PRODUZIONE DI PETROLIO E GAS:
Petrolio (milioni
di tonnellate)
SOCAR
‘96
‘97
‘98
‘99
‘00
‘01
‘02
‘03
‘04
‘05
9,1
9,1
11,4
13,7
13,9
14,9
15,3
15,4
15,5
22,2
9,1
9,0
9,0
9,0
9,0
9,0
8,9
8,9
9,0
9,0
AIOC
Gas naturale
(miliardi di
metri cubi)
SOCAR
0,0
0,1
2,4
4,8
5,1
5,9
6,5
6,5
6,6
13,2
6,3
6,0
5,6
6,0
5,6
5,5
5,1
5,1
5,0
5,8
6,3
6,0
5,2
5,8
n.d.
4,7
4,2
4,2
3,8
3,9
AIOC
0,0
0,0
0,4
0,2
n.d.
0,9
1,0
1,0
1,0
1,9
Fonte: EIU 2006
27
Ibidem, p. 10.
53
Un discorso analogo può essere fatto per la produzione di gas naturale: la quota
prodotta dal consorzio privato è destinata a crescere significativamente a partire
dalla seconda metà del 2006, quando lo sfruttamento del giacimento di Shah
Deniz, sempre nel Mar Caspio, raggiungerà la massima capacità operativa,
marginalizzando progressivamente l’attività della State Oil Company of the
Azerbaigian Republic anche in questo settore.
PRODUZIONE DI PETROLIO (in milioni di tonnellate)
SOCAR
14,0
AIOC
12,0
10,0
8,0
6,0
4,0
2,0
0,0
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
Fonte: EIU 2006
PRODUZIONE DI GAS (in miliardi di metri cubi)
SOCAR
AIOC
5,0
4,5
4,0
3,5
3,0
2,5
2,0
1,5
1,0
0,5
0,0
2001
2002
2003
Fonte: EIU 2006
54
2004
2005
COMPOSIZIONE DELLE ESPORTAZIONI 2005
(in %)
Petrolio (a)
Prodotti alimentari
Macchinari ed altri beni capitali
Altro
Prodotti chimici
Metalli greggi
Attrezzature di trasporto
COMPOSIZIONE DELLE IMPORTAZIONI 2005
(in %)
M acchinari e altri beni capitali
M etalli greggi
P etro lio e altri minerali greggi
A ltro
Fonte: EIU 2006
55
P ro do tti alimentari
P ro do tti chimici
A ttrezzature di traspo rto
Come è prevedibile, il settore petrolifero domina anche la struttura del commercio
con l’estero: basti pensare che, pur senza considerare le esportazioni dell’Aioc,
non computate nelle statistiche ufficiali del Comitato Nazionale di Statistica 28 , le
esportazioni di petrolio costituiscono all’incirca l’80 per cento del totale, mentre
la seconda categoria di esportazione (i prodotti alimentari) rappresenta una quota
inferiore all’8 per cento. Dal lato delle importazioni, il ruolo dominante
dell’industria degli idrocarburi è evidente nelle massicce importazioni di beni
capitali, destinati in prevalenza allo sviluppo dell’industria estrattiva, che
costituiscono tuttora un terzo del totale. D’altra parte la distribuzione delle
importazioni tra le diverse categorie di beni non solo è più bilanciata rispetto alla
struttura delle esportazioni, ma riflette anche un generale aumento in termini
assoluti delle importazioni di beni di consumo: il fenomeno è particolarmente
evidente per ciò che riguarda i prodotti alimentari, settore in cui continua a
registrarsi un deficit consistente nonostante l’aumento delle esportazioni sia in
termini assoluti, sia come percentuale sul totale.
Il mancato computo del petrolio venduto dall’Aioc sui mercati esteri tra le
esportazioni del Paese influisce anche sui dati relativi alla direzione del
commercio estero dell’Azerbaigian ma non elimina la netta prevalenza dei Paesi
occidentali per ciò che riguarda i mercati di esportazione: in effetti dai dati
ufficiali emerge che all’incirca l’80 per cento delle esportazioni azere è diretta
verso Paesi non appartenenti all’ex-Unione Sovietica (con l’Italia che occupa il
primo posto, assorbendo nel 2005 più del 30 per cento delle esportazioni azere),
ma il fatto che la produzione dell’Aioc, che costituisce la maggior parte della
produzione petrolifera del Paese, sia in larga misura venduta sui mercati
occidentali lascia intendere che la quota complessiva destinata a questi ultimi
vada ben al di là della cifra registrata dal Comitato Nazionale di Statistica. La
28
Ibidem, p. 27. Le statistiche del Comitato Nazionale di Statistica, che riportano le quote di
ciascun settore sul totale delle esportazioni e importazioni del Paese e si basano sui dati doganali,
differiscono nettamente dai dati registrati dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca
Centrale azera, che viceversa sembrano includere anche il petrolio venduto all’estero dall’Aioc
(circa 3500 milioni di dollari).
COMMERCIO CON L'ESTERO (Comitato Nazionale
di Statistica)
in milioni di
2002
2003
2004
2005
US$:
Esport.
2164,4 2590,4 3615,4 4346,9
di cui: sett.
1927,4 2229,1 2972,5 3337,0
petrol.
% sulle
88,9
86,1
82,2
76,8
esport. totali
Import.
-1665,5 -2626,2 -3515,9 -4200,3
SALDO
501,9
-35,8
99,6
146,6
COMM.
BILANCIA DEI PAGAMENTI (IMF e Banca Centrale)
Import.
SALDO
COMM.
Fonte: EIU 2006
Fonte: EIU 2006
in milioni di
US$:
Esport.
di cui: sett.
petrol.
56
2002
2003
2004
2005
2304,9
2624,6
3743,0
7649,0
2046,0
1336,8
1779,2
6883,2
-1823,3 -2723,1 -3581,7 -4349,9
481,6
-98,5
161,3
3299,1
prevalenza di partner commerciali esterni all’ex-Unione Sovietica è evidente
anche dal lato delle importazioni, in particolare per ciò che riguarda le
importazioni di beni capitali: in questo ambito infatti, eccezion fatta per il 2005, in
cui Singapore è stato il principale esportatore in Azerbaigian grazie a un insieme
di forniture una tantum di beni capitali, va gradualmente acquistando rilevanza la
Gran Bretagna, che grazie agli ingenti investimenti effettuati dall’Aioc (di cui Bp
possiede la quota più consistente) sta diventando il più importante fornitore di
beni capitali del Paese 29 .
PRINCIPALI PARTNER COMMERCIALI (in %):
2001
2002
2003
2004
2005
9,6
11,2
12,9
17,5
20,8
3,4
4,4
5,7
5,8
6,6
Resto del mondo
90,4
88,8
87,1
82,5
79,2
di cui: Italia
57,2
50,0
51,9
44,7
30,3
Francia
2,9
7,7
8,1
1,8
9,4
Turchia
2,9
3,9
4,1
5,1
6,3
31,1
39,1
32,4
33,2
34,4
10,7
16,9
14,6
16,2
17,1
68,9
60,9
67,6
66,8
65,6
0,2
2,1
0,4
n.d.
9,2
Regno Unito
3,8
5,1
10,9
12,0
9,1
Turchia
10,4
3,9
7,4
6,4
7,4
Esportazioni:
Ex-Unione Sovietica
di cui: Federazione russa
Importazioni:
Ex-Unione Sovietica
di cui: Federazione russa
Resto del mondo
di cui: Singapore
Fonte: EIU 2006
L’espansione dell’industria degli idrocarburi ha avuto effetti particolarmente
positivi sulla bilancia dei pagamenti azera: dopo aver sperimentato per anni ampi
deficit correnti, legati soprattutto negli ultimi anni agli alti livelli di importazioni
connessi allo sviluppo del settore petrolifero, nel 2005 per la seconda volta
dall’indipendenza (la prima è stata nel 1992) l’Azerbaigian ha concluso l’anno
con un surplus corrente pari all’incirca all’1,3 per cento del Pil, in netta
controtendenza rispetto al deficit del 30 per cento registrato l’anno precedente.
29
Ibidem, p. 28.
57
BILANCIA DEI PAGAMENTI (in milioni di US$):
2001
2001
2003
2004
2005
2078,9
2304,9
2624,6
3743,0
7649,0
1841,0
2046,0
1336,8
1779,2
6883,2
36,5
37,8
36,8
43,9
61,2
-1465,1
-1823,3
-2723,1
-3581,7
-4349,9
-138,4
-335,9
-1108,9
-1624,2
-1927,3
Importazioni (% del PIL)
25,7
29,9
38,1
42,0
34,8
Saldo della bilancia commerciale
613,8
481,6
-98,5
161,3
3299,1
Servizi (netti)
-375,1
-935,6
-1614,5
-2238,4
-1970,0
Redditi (netti)
-367,2
-384,7
-442,1
-700,6
-1645,6
76,6
70,4
134,2
188,5
483,9
-51,9
-768,4
-2020,9
-2589,2
167,3
-0,9
-12,6
-28,3
-30,4
1,3
226,5
1066,8
2351,7
2351,3
458,2
125,3
1007,1
2315,0
2258,2
242,2
3,9
17,5
32,9
27,6
3,7
2,1
16,5
31,6
26,2
1,9
0,0
0,4
0,0
-18,1
30,5
-100,5
-148,5
-72,0
627,0
76,3
126,0
890,0
2255,9
2956,1
566,0
-0,9
-87,4
-11,8
-49,9
-125,6
73,4
34,2
123,8
317,0
607,7
Esportazioni
di cui: settore petrolifero
Esportazioni (% del PIL)
Importazioni
di cui: settore petrolifero
Trasferimenti unilaterali (netti)
SALDO DELLE PARTITE
CORRENTI
SALDO DELLE PARTITE
CORRENTI (% del PIL)
Investimenti diretti esteri (netti)
di cui: settore petrolifero
Investimenti diretti esteri (% del PIL)
di cui: settore petrolifero (%
del PIL)
Investimenti di portafoglio (netti)
Altri flussi di capitali (netti)
SALDO DI CONTO CAPITALE E
FINANZIARIO
Errori ed omissioni
SALDO GLOBALE
Fonte: EIU 2006
Questa nota positiva è dovuta all’ampio surplus commerciale registrato nel 2005,
che grazie alle esportazioni più che raddoppiate ha potuto compensare
abbondantemente il saldo dei redditi, fortemente negativo a causa del progressivo
rimpatrio dei profitti delle compagnie petrolifere straniere. Negli anni precedenti i
massicci investimenti diretti esteri affluiti nel Paese contestualmente allo sviluppo
del settore petrolifero azero hanno in genere più che compensato (o quasi
compensato nel 2004) gli ampi deficit correnti: nel 2005 il completamento dei
progetti di sfruttamento dei nuovi giacimenti di idrocarburi ha avuto come
risultato, oltre al considerevole incremento del volume delle esportazioni, un
brusco declino degli investimenti diretti esteri, passati da una quota vicina al 30
per cento nel 2003 e 2004 a poco meno del 4 per cento del Pil (pari in termini
58
assoluti a un quinto degli investimenti diretti esteri registrati nel 2004), con una
riduzione vicina al 90 per cento nel solo settore petrolifero.
Naturalmente il boom petrolifero ha avuto un impatto positivo anche sul bilancio
pubblico, permettendo al Governo azero un’elevata spesa pubblica senza superare
l’obiettivo di deficit fissato per il 2005 all’1,1 per cento. A dire il vero il deficit
registrato nel 2005 è stato persino inferiore, pari allo 0,7 per cento del Pil,
soprattutto grazie agli alti prezzi del petrolio, che, oltre ad aver contribuito in
misura considerevole, come si è già potuto osservare, ad aumentare il valore
complessivo delle esportazioni, hanno fatto crescere anche i profitti delle
compagnie petrolifere e delle attività collegate all’industria degli idrocarburi,
contribuendo così ad incrementare le entrate derivanti dall’imposta sui profitti
quasi del 60 per cento rispetto al 2004. La crescita delle entrate derivanti
dall’imposta sui profitti è stata dunque la più rapida nel 2005, ma anche l’imposta
sul reddito delle persone fisiche ha registrato una crescita superiore al 40 per
cento, peraltro in linea con la crescita avvenuta nel 2004 rispetto all’anno
precedente: merito in gran parte della crescita dei salari (soprattutto nel settore
petrolifero), che nel 2005 sono aumentati mediamente del 22 per cento in termini
nominali, a fronte di un tasso di inflazione annuo vicino al 10 per cento 30 .
Tuttavia anche nel 2005 la fonte di entrata più consistente è stata l’imposta sul
valore aggiunto, la cui crescita riflette l’andamento particolarmente positivo del
settore dei servizi, specialmente del commercio al dettaglio, anche questo in
conseguenza della crescita dei salari e del potere d’acquisto delle famiglie
(nonostante l’alto tasso di inflazione), e quindi della domanda dei consumatori.
Per quanto siano marcatamente aumentate le entrate pubbliche, la spesa del
Governo è cresciuta anche più rapidamente, a seguito di un incremento medio
superiore al 30 per cento delle spese destinate a sanità, educazione e sicurezza
sociale, nonché un sostanzioso aumento dei salari dei dipendenti pubblici, che
costituiscono la componente maggiore del bilancio pubblico 31 . In realtà le
decisioni di spesa del Governo sono state da più parti criticate in quanto sospettate
di essere mosse intese a guadagnare il consenso popolare in vista delle elezioni
presidenziali del 2008, piuttosto che essere funzionali a una strategia di sviluppo
di medio-lungo periodo e di riduzione della povertà ancora diffusa nel Paese. Tale
è ad esempio la posizione del Fondo Monetario Internazionale, che ha
recentemente sottolineato la tendenza del Governo azero ad enfatizzare le
considerazioni di breve periodo, in contrapposizione alla necessità di elaborare
una strategia fiscale di medio periodo in grado di gestire il boom petrolifero e il
surplus corrente da esso derivante, che assegni la priorità a misure volte alla
riduzione della povertà e una particolare attenzione alla realizzazione di riforme
30
31
Ibidem, p. 17.
Ibidem, p. 18.
59
strutturali 32 . In effetti finora nel non c’è stato un netto progresso nella
realizzazione delle riforme destinate a migliorare l’assistenza sociale, ristrutturare
e snellire la burocrazia, favorire la concorrenza soprattutto nel sistema bancario e
rendere più efficiente e più trasparente la gestione delle aziende pubbliche ancora
esistenti.; allo stesso modo, nella politica fiscale del Governo è quasi del tutto
assente la spesa destinata a investimenti che dovrebbero aiutare a rendere più
efficienti e competitivi i settori non legati all’industria petrolifera e a impedire
l’accentuarsi del dualismo economico nel Paese.
BILANCIO PUBBLICO:
2004
Entrate
di cui: imposta
sul reddito
imposta sui
profitti
IVA
Spese
2005
2006 (gen-feb)
variaz
variaz
variaz
mln
%
mln
%
mln
%
annua
annua
annua
manat PIL
manat PIL
manat PIL
%
%
%
1481,2 17,7 20,8 2055,2 17,3 38,8
420,2 18,9 71,4
221,6
2,6
47,3
317,5
2,7
43,3
47,8
2,1
5,8
223,4
2,7
25,3
355,4
3,0
59,1
77,4
3,5
42,0
452,7
5,4
10,5
599,9
5,1
32,5
95,7
4,3
33,5
1501,0 17,9
21,6
2140,7 18,0
42,6
405,8
18,2
85,1
di cui: sanità
73,5
0,9
32,9
115,3
1,0
56,9
10,6
0,5
51,4
educazione
294,0
3,5
25,6
372,5
3,1
26,7
52,7
2,4
75,1
spese sociali
236,5
2,8
10,5
305,0
2,6
29,0
37,5
1,7
-0,8
SALDO
-19,8
-0,2
--
-85,5
-0,7
--
14,4
0,6
--
Fonte: EIU 2006
Al momento l’unico strumento di programmazione della spesa pubblica in
un’ottica di medio periodo è rappresentato dal Sofaz, lo State Oil Fund of the
Azerbaijan Republic, un fondo estero istituito con decreto presidenziale nel 1999 e
destinato a gestire i ricavi della crescita petrolifera a beneficio dell’intera
economia azera e in funzione dello sviluppo economico del Paese. Le risorse cui
attinge il Sofaz sono costituite dai ricavi derivanti dalla vendita del gas e del
petrolio da parte della Socar (con la vistosa eccezione delle rendite provenienti
dalle attività della compagnia petrolifera di Stato quando essa agisce in qualità di
azionista o partner nella realizzazione di progetti di sfruttamento petrolifero:
esclude quindi le rendite percepite dalla Socar grazie alla quota del 10 per cento
detenuta dalla compagnia nelle remunerative attività del consorzio Aioc), i ricavi
percepiti dallo Stato per la cessione o l’affitto a compagnie straniere di parti del
32
INTERNATIONAL MONETARY FUND EXECUTIVE BOARD, Public Information Notice.
Conclusion of 2005 Article IV Consultation with Azerbaijan, Washington D.C., April 2006,
http://www.imf.org/external/np/sec/pn/2006.
60
suolo e sottosuolo nazionale a scopo di sfruttamento, le rendite derivanti dal
transito sul territorio azero di idrocarburi destinati all’esportazione, bonus e
royalties e le rendite generate dal reinvestimento delle attività detenute dal Fondo.
Creato allo scopo di reinvestire i massicci afflussi di valuta estera che avrebbero
investito il Paese grazie allo sfruttamento delle risorse petrolifere, il Fondo ha in
effetti dedicato una parte delle proprie risorse per lo sviluppo dell’economia
nazionale, per la costruzione di infrastrutture e per la riduzione della povertà: le
spese per lo sviluppo vengono programmate nel medio periodo sulla base del
deficit di bilancio relativo a tutti i settori dell’economia, escluso quello degli
idrocarburi 33 . Nel bilancio approvato per il 2006 in effetti il previsto incremento
del 60 per cento relativo alla spesa pubblica sarà possibile (oltre che grazie a un
previsto aumento delle entrate derivanti dal settore petrolifero) proprio grazie al
ricorso al Sofaz, ricorso che dovrebbe diventare sempre più massiccio nei
prossimi anni. Tuttavia ancora una volta l’incremento della spesa pubblica sembra
in larga misura dedicato a spese correnti, anziché ad investimenti in capitale, a
danno delle possibilità di gettare basi solide per una maggiore diversificazione
dell’economia nazionale. Nel complesso il Sofaz ha il vantaggio di alleviare la
dipendenza dell’Azerbaigian dagli aiuti internazionali e dai prestiti ufficiali: le
preoccupazioni del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e della
Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo riguardo all’allocazione della
spesa pubblica del Paese e al crescente ricorso alle risorse del Sofaz sembrano
infatti dettate in parte anche dal timore che questa minore dipendenza dalle
istituzioni internazionali possa ridurre gli incentivi a realizzare effettivamente un
ampio programma di riforme strutturali compatibili con la politica di
condizionalità da esse sostenuta.
L’ampliamento previsto per il 2006 del deficit pubblico (comunque limitato
all’1,1 per cento del Pil) beneficerà comunque, oltre che del Sofaz, delle
condizioni di crescita economica generalmente favorevoli: anche per il 2006
infatti un costante incremento della produzione petrolifera grazie allo sfruttamento
dei giacimenti del Caspio e alla possibilità di utilizzare il nuovo oleodotto BakuTbilisi-Ceyhan per il trasporto verso i mercati occidentali, nonché un ulteriore
slancio nella produzione di gas grazie allo sfruttamento dei giacimenti di Shah
Deniz dovrebbero garantire un tasso di crescita del Pil azero particolarmente
elevato, superiore al 30 per cento. Solo nel 2007 la crescita dovrebbe rallentare,
mantenendosi comunque robusta, intorno al 16 per cento, a causa di una
progressiva riduzione degli investimenti diretti esteri. Nel biennio in corso dunque
la dotazione di risorse naturali del Paese e l’attenzione dimostrata verso di esse
dagli investitori stranieri in cerca di alternative al gas russo e al petrolio del Golfo
Persico permetteranno all’economia azera di crescere a tassi decisamente
superiori rispetto alla media delle economie dell’ex-Unione Sovietica.
33
ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT, Country Profile Azerbaijan, London, 2005, p. 26.
61
PREVISIONI DI CRESCITA 2006-2007:
Tasso di crescita PIL reale (%)
T. di crescita produzione industriale (%)
T. di crescita investimenti fissi lordi (%)
T. di inflazione (media annua)
Saldo delle partite correnti (miliardi di US$)
Saldo delle partite correnti (% del PIL)
Fonte: EIU 2006
2004
10,2
5,7
32,0
6,7
-2,6
-29,8
2005
26,4
40,0
17,5
9,6
0,2
1,3
2006(a)
32,5
45,0
14,5
6,6
4,2
22,6
2007(a)
16,1
15,0
8,0
6,9
10,1
41,2
(a) Previsioni EIU
CRESCITA PIL REALE (% )
Azerbaigian
Ex-URSS
35
30
25
20
15
10
5
0
2001
2002
2003
2004
2005
2006
2007
Fonte: EIU 2006
Tuttavia una crescita economica così rapida, guidata dall’industria petrolifera, ha
avuto e continuerà ad avere effetti problematici sull’economia azera: il più vistoso
di questi effetti è dato senza dubbio dalle difficoltà della Banca Centrale di
controllare l’inflazione, tendente al rialzo dall’ultimo trimestre del 2003 a causa
del massiccio afflusso di capitali stranieri che ha iniziato ad investire il Paese,
cercando al contempo di evitare un eccessivo apprezzamento del manat. A dire il
vero, nell’ultimo trimestre del 2005 c’è stato un significativo rallentamento
dell’inflazione, passata dal 10,3 per cento su base annua registrato nel mese di
settembre al 6,2 per cento nel mese successivo, per poi scendere al di sotto del 5
per cento nel mese di novembre. Tuttavia, più che essere il frutto di un’efficace
politica monetaria, questo miglioramento sembra sia da attribuire a un sostanziale
cambiamento del paniere di consumo di riferimento, i cui componenti sono stati
ampliati, riducendo così il “peso” di alcuni elementi importanti, come ad esempio
i generi alimentari 34 .
34
Ibidem, p. 22.
62
Tasso di inflazione (%, variaz. su base annua)
14
12
10
8
6
4
2
03/06
01/06
11/05
09/05
07/05
05/05
03/05
01/05
11/04
09/04
07/04
05/04
03/04
01/04
11/03
09/03
07/03
05/03
03/03
01/03
0
Fonte: EIU 2006
In effetti, al fine di ridurre le pressioni inflazionistiche, la Banca Centrale azera ha
alzato il tasso di sconto per ben tre volte nel corso del 2005, portando i tassi
ufficiali dal 7 al 9 per cento, ma la manovra ha avuto un impatto assai limitato, a
causa della sostanziale assenza di un sistema di intermediazione funzionante: basti
pensare che il settore bancario è controllato per oltre il 60 per cento dalle due
inefficienti banche a gestione statale. Per di più l’aspettativa di un ulteriore rialzo
dei tassi di almeno un altro punto percentuale nel corso del 2006 potrebbe avere il
pericoloso effetto di incoraggiare attacchi speculativi e attirare nuovi afflussi di
capitali stranieri difficilmente controllabili attraverso operazioni di sterilizzazione.
L’esistenza di un sistema finanziario scarsamente sviluppato, nel quale è difficile
il ricorso all’emissione di titoli di debito, limita gli strumenti a disposizione della
Banca Centrale per la sterilizzazione degli afflussi di valuta forte, costringendo di
fatto le autorità di politica monetaria a servirsi esclusivamente del già citato
SOFAZ per investire la valuta estera.
INDICATORI TRIMESTRALI:
2004
2005
2006
I
II
III
IV
I
II
III
IV
I
Tasso di inflazione
(%, variaz. su base
6,2 5,5
5,0
10,5 12,4 11,1 10,3
5,3
5,0
annua)
Tasso annuale di
7,0 7,0
7,0
7,0
7,0
7,5
8,0
9,0
9,0
sconto (media)
Tasso di cambio
0,99 0,98 0,98 0,98 0,98 0,95 0,93 0,92 0,91
manat/US$ (media)
Salari nominali
87,8 90,5 105,3 103,1 107,8 112,2 115,5 117,9 129,7
(manat/mese)
Fonte: EIU 2006
63
Il ricorso al Sofaz sembra essere l’unica risorsa valida anche per contenere
l’apprezzamento del manat, sia in termini nominali che in termini reali. I continui
afflussi di capitali derivanti dalla crescita delle esportazioni di idrocarburi lasciano
prevedere che nel biennio in corso la valuta nazionale si apprezzerà ulteriormente
in termini reali all’incirca del 14-15 per cento, minando la competitività dei già
fragili settori non petroliferi dell’economia. Allo stesso modo, la Banca Centrale
lascerà apprezzare il manat anche in termini nominali al fine di contenere
l’espansione dell’offerta di moneta e tenere sotto controllo l’inflazione. Tuttavia
la strategia della Banca Centrale ha per il momento modesti effetti sull’economia
azera, anche a causa della scarsa fiducia del pubblico nella valuta nazionale come
strumento di risparmio: in effetti tuttora la maggior parte dei depositi bancari è
denominata in dollari americani o rubli, nonostante si stia registrando un graduale
aumento dei depositi denominati in manat.
L’individuazione e la realizzazione di una politica monetaria efficace è dunque
stata ed è tuttora il nodo più problematico che devono sciogliere le autorità di
politica economica per gestire la crescita dell’economia azera. Le diverse e
contrastanti pressioni cui deve rispondere la politica monetaria rendono
assolutamente necessaria l’adozione di un atteggiamento particolarmente cauto da
parte della Banca Centrale: da un lato, tanto l’afflusso crescente di capitali
stranieri proveniente dall’esportazione del petrolio azero quanto il programma
governativo di massicci incrementi della spesa pubblica sono destinati a produrre
un’ulteriore accelerazione dell’inflazione, una tendenza accentuata anche dalle
pressioni al rialzo dei salari; dall’altro lato, una stretta monetaria volta a contenere
le spinte inflazionistiche non solo risulterebbe in un apprezzamento ancora più
marcato del manat, ma avrebbe anche l’effetto di privare tutta l’economia non
legata all’industria petrolifera della liquidità di cui essa ha invece bisogno per
potersi sviluppare e diventare competitiva. Di per sé, le tendenze dell’inflazione e
del tasso di cambio sembrano rafforzare la struttura duale dell’economia azera,
basata su un moderno ed efficiente settore industriale petrolifero, affiancato dal
resto dell’economia caratterizzato da bassa produttività, tecnologia arretrata e
scarsi investimenti. Le prospettive di crescita sostenibile dell’economia azera, in
un contesto macroeconomico stabile, dipendono quindi dalla capacità delle
autorità del Paese di elaborare una strategia di politica economica in grado di
destreggiarsi tra la semplice gestione finanziaria della ricchezza petrolifera
nazionale e l’esigenza di sviluppare un’economia diversificata. Come nei Paesi
petroliferi del Golfo Persico, tale sforzo richiede l’emergere (necessariamente
lento) di un settore economico privato dinamico e avanzato dal punto di vista
tecnologico e gestionale: nel medio-lungo periodo questa sarà la sfida più
impegnativa per l’economia azera.
64
3. Conclusioni
Come si è già menzionato, l’Armenia è l’unica delle tre repubbliche caucasiche ad
aver recuperato nel 2004 i livelli produttivi precedenti all’indipendenza,
specialmente grazie alla rapida crescita economica degli ultimi 4-5 anni. E’
tuttavia lecito interrogarsi sulla solidità di questa crescita e sulle prospettive di
medio-lungo termine dell’economia armena, alla luce dello stretto legame
esistente con la Russia, la cui performance economica condiziona in misura
sostanziale l’andamento dell’economia del piccolo Paese caucasico. La
Federazione russa non solo costituisce un importante mercato per le esportazioni
armene e una delle principali destinazioni di emigrazione dei lavoratori del Paese:
la massiccia presenza dei capitali russi specialmente nel settore energetico del
Paese non fa che accentuare la già stretta dipendenza armena da Mosca per quanto
riguarda le forniture energetiche e sottolinea le condizioni di sostanziale
isolamento politico ed economico del Paese, evidenziando al contempo l’esigenza
di sviluppare reti di transito e di trasporto alternative.
Se per l’Armenia questo rappresenta un indispensabile strumento per poter
allentare l’isolamento politico ed economico che la circonda, cercando di aprirsi
una via verso il Golfo Persico (peraltro affidandosi al rapporto con l’Iran, della cui
solidità in questi mesi è lecito dubitare), l’individuazione, la realizzazione e lo
sfruttamento di corridoi trans-eurasiatici alternativi costituiscono l’opportunità
principale su cui anche le altre due repubbliche sembrano fare affidamento per lo
sviluppo economico dell’intera regione caucasica. In effetti, tanto per chi possiede
consistenti giacimenti di gas e petrolio (Azerbaigian), quanto per chi è
fondamentalmente privo di tali risorse ma può sfruttare la propria posizione
geografica strategicamente favorevole (Georgia), la realizzazione dei nuovi
progetti di sfruttamento e trasporto degli idrocarburi ha consentito un massiccio
afflusso di investimenti esteri nel settore estrattivo, nelle costruzioni e nei servizi,
che hanno trainato la crescita economica degli ultimi anni.
L’effettivo successo del processo di sviluppo economico delle repubbliche
caucasiche dipenderà quindi nei prossimi anni dalla capacità delle tre economie di
affrancarsi da un lato dalla loro dipendenza dalla Russia, dall’altro lato di
integrarsi nel più ampio sistema economico globale. La crescente attenzione che
sia l’Unione Europea che gli Stati Uniti (ma anche alcuni Paesi dell’Asia
Centrale, quali il Kazachstan) stanno dimostrando nei confronti delle tre
repubbliche è un’utile indicazione della potenziale rilevanza economica dell’area
e al contempo un forte incentivo per i Paesi caucasici a confrontarsi con i propri
problemi di inefficienza economica e scarsa competitività internazionale.
Progressi nelle riforme strutturali sono infatti necessari affinché la rapida crescita
economica sperimentata negli ultimi anni possa diventare qualcosa di più di una
breve parentesi nella storia dei Paesi caucasici, limitata per di più ad un numero
ristretto di settori produttivi.
65
IL TRANSCAUCASO NELLA POLITICA ESTERA
DELLA TURCHIA
Carlo Frappi
Introduzione
Il superamento del sistema internazionale bipolare proprio della guerra fredda ha
comportato, per la Turchia, una radicale trasformazione della cornice entro la quale
esercitare la propria politica estera. La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha
segnato, difatti, la fine del tradizionale ruolo di baluardo contro l’espansionismo
sovietico verso le aree del Medio Oriente e del Mediterraneo orientale, svolto dalla
Turchia nell’ambito della strategia atlantica del containment. Logica conseguenza la
necessità, per Ankara, di reimpostare il proprio rapporto con i tradizionali alleati
occidentali, nel quadro di una più generale ridefinizione del proprio ruolo e dei
propri obiettivi regionali e internazionali. Frutto di tale necessità, i rapporti della
Turchia con le tre repubbliche del Transcaucaso hanno costituito, un importante
banco di prova per un nuovo corso di più assertiva politica estera. Per il tentativo,
cioè, di affermare nel Transcaucaso – così come nei Balcani o in Medio Oriente –
un nuovo profilo regionale basato sul bilanciamento della tradizionale cooperazione
con l’Occidente e le sue strutture da un lato, con il più deciso perseguimento del
proprio interesse nazionale, in termini economici e di sicurezza, dall’altro 1 .
D’altro canto, la maggior assertività della politica regionale inaugurata da Ankara
con il 1991 risultava pienamente in linea con il proposito statunitense ed europeo
di prospettare, agli stati ex-sovietici, un “modello turco” di sviluppo. Un modello
che – basato su secolarismo, democrazia e libero mercato – appariva loro come
principale antidoto alla possibile affermazione di un modello iraniano 2 , così come
al ritorno dell’egemonia di Mosca sullo spazio post-sovietico 3 .
Ciò tuttavia non ha implicato, tanto nei rapporti con il Transcaucaso quanto con le
altre aree limitrofe alla Turchia, un radicale cambiamento della tradizionale
impostazione conservatrice propria della politica estera di Ankara, ma piuttosto un
1
È questa l’essenza più profonda del “double coupling problem” teorizzato da Lesser. I.O.
LESSER, Beyond ‘Bridge or Barrier’: Turkey’s Evolving Security Relations with the West, in A.
MAKOVSKY - S. SAYARI (eds), Turkey’s New World: Changing Dynamics in Turkish Foreign
Policy, Washington D.C., 2000, p. 205. Nel medesimo senso, H. KRAMER, A Changing Turkey:
The Challenge to Europe and the United States, Washington D.C., 2000, pp. 93-94.
2
P. ROBINS, Between Sentiment and Self-Interest: Turkey’s Policy toward Azerbaijan and the
Central Asian States, in «Middle East Journal», 47, 1993, 4, p. 593.
3
Z. BRZEZINSKI, The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives,
New York, 1997, p. 47.
66
suo adeguamento alla mutata realtà degli allineamenti internazionali e regionali.
Sia pur nel quadro di una maggior assertività – e degli aggiustamenti di rotta resi
necessari per fronteggiare una situazione senza precedenti storici – la politica
transcaucasica turca non ha infatti rovesciato i tradizionali principi della cautela e
del non-interventismo frutto del precetto kemalista 4 , percorrendo “a delicate
tightrope” 5 tesa tra la volontà di cooperazione con gli Stati di Nuova
Indipendenza (Sni) e l’esigenza di non essere attirata in una pericolosa
competizione regionale con Russia e Iran.
In questo senso possono essere dunque lette le linee-guida esplicitate dal
Ministero per gli Affari Esteri turco rispetto al Transcaucaso, “a neighboring area
where the stability and welfare of the peoples […] is a matter of high interest for
Turkey’s own security and stability” 6 .
Esse comprendono:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
Il mantenimento della pace e della stabilità;
Un’ampia cooperazione regionale con il contributo delle tre repubbliche;
Il consolidamento dell’indipendenza degli SNI;
Il rafforzamento delle strutture democratiche;
La liberalizzazione dei mercati;
Lo sviluppo del potenziale economico regionale;
Il sostegno all’integrazione nelle organizzazioni euro-atlantiche (Osce, Nato e
Consiglio d’Europa) e nelle iniziative regionali 7 .
Ciò non deve tuttavia indurre ad attribuire alla politica estera turca verso il
Transcaucaso una coerenza e una linearità che non le sono state proprie. A
ostacolare la coerente formulazione degli interessi nazionali nell’area – e
conseguenzialmente delle politiche attraverso le quali perseguirli – hanno
contribuito infatti diversi ordini di fattori strettamente collegati tra loro, tanto di
natura interna quanto internazionale. In primo luogo, le elezioni parlamentari
dell’ottobre 1991 segnavano la fine del lungo periodo di stabilità politica garantito
al paese dal premierato di Turgut Özal (dicembre 1983 – novembre 1989) 8 e dalla
solida maggioranza del Partito della Madrepatria (Anavatan Partisi – Anap), di
cui era presidente. D’altro canto, la successione di Özal a Evren alla Presidenza
della Repubblica, nell’ottobre 1989, decretava la fine della consolidata
consuetudine costituzionale che assegnava tale carica a un alto esponente dello
4
M. AYDIN, Determinants of Turkish Foreign Policy: Historical Framework and Traditional
Inputs, in «Middle Eastern Studies», 35, 1999, 4, p. 156.
5
W. HALE, Turkish Foreign Policy 1774-2000, London, 2002, p. 266.
6
REPUBLIC OF TURKEY, MINISTRY OF FOREIGN AFFAIRS, Turkey’s Relations With
Southern Caucasus, http://www.mfa.gov.tr.
7
REPUBLIC OF TURKEY, MINISTRY OF FOREIGN AFFAIRS, Turkey’s Relations With
Southern Caucasus, cit.
8
La centralità della figura di Özal si può tuttavia estendere sino al giugno 1991, mese in cui
terminava il governo guidato dal protégé dell’ex-premier Yıldırım Akbulut. P. ROBINS, Suits and
Uniforms: Turkish Foreign Policy since the Cold War, London, 2003, p. 53.
67
Stato Maggiore. Se ciò, da un lato, rappresentò un importante passo sul percorso
della “smilitarizzazione” della politica turca, d’altra parte, segnalava la rottura di
un legame – quello tra governo ed esercito – cui veniva tradizionalmente
demandata la formulazione della politica estera turca. Si apriva invece, con il
1991, un periodo di elevata instabilità istituzionale – caratterizzato dalla
successione di nove governi sino al maggio 1999 – che non poteva che influire
negativamente sulla attuazione di una coerente linea di politica estera. Tanto più
in ragione della assunzione del governo, nella delicata fase tra il 1991 e il 1993,
da parte di Süleyman Demirel, tradizionale avversario di Özal.
In secondo luogo, la repentinità dei cambiamenti internazionali e regionali cui la
politica estera turca doveva far fronte, accompagnata dalla sostanziale
impreparazione dell’establishment turco a un tale sfida, apriva ampi spazi
all’azione isolata – e spesso contraddittoria – dei diversi centri di potere nazionale.
Una concorrenzialità, questa, resa più accentuata dalla circostanza che le nuove
sfide regionali risultarono di sovente caratterizzate da un inestricabile
cortocircuito di questioni di sicurezza ed economiche. Si apriva così, in Turchia,
una fase di inesplorata dialettica politica che, oltre a riguardare i tradizionali
autori della politica estera, si estendeva anche ai centri di potere economico.
Centri di potere identificabili in prima battuta con le compagnie energetiche
nazionali direttamente coinvolte nella politica regionale verso il Transcaucaso, le
quali beneficiavano, inoltre, delle conseguenze istituzionali del processo di
apertura democratica, avviatosi nel paese nel corso degli anni ’90 9 . Un’apertura
democratica che, non secondariamente, ha finito per fornire nuovi spazi all’azione
di una società civile che, portatrice di interessi spesso confliggenti, ha complicato
ulteriormente il quadro di riferimento di un processo decisionale, quello turco
rispetto al Transcaucaso, che diventerà, come sottolineato da Tayfur e Göymen,
piuttosto “affollato” 10 .
La tortuosità del percorso intrapreso da Ankara sulla via della definizione di una
politica regionale per il Transcaucaso, è resa più evidente infine dalla
considerazione dei fattori internazionali sommatisi alla complessità del contesto
nazionale turco. In questo senso, le peculiarità proprie dall’area transcaucasica –
caratterizzata da un’elevata conflittualità interna e dalla convergenza di interessi
economici e di sicurezza di importanti attori regionali e internazionali – hanno
rappresentato un difficile nodo cui rapportarsi coerentemente. Tanto più difficile,
poi, per la contemporanea apertura del processo di ridefinizione dell’identità e delle
prerogative delle maggiori organizzazioni internazionali cui la Turchia
tradizionalmente rivolgeva la propria attenzione – dalla Nato alla Ueo, dall’Onu
all’Osce.
9
Sull’influenza esercitata dalla progressiva democratizzazione turca sul processo decisionale, Z.
ONIS - U. TÜREM, Business, Globalization and Democracy: A Comparative Analysis of Turkish
Business Associations, in «Turkish Studies», 2, 2001, 2.
10
M.F. TAYFUR - K. GÖYMEN, Decision Making in Turkish Foreign Policy: The Caspian Oil
Pipeline Issue, in «Middle Eastern Studies», 38, 2002, 2, p. 107.
68
1. Le origini della politica estera turca verso gli Stati di Nuova Indipendenza
(1991-1993)
La dissoluzione sovietica restituiva alla politica estera turca degli stati che,
oggetto secolare di contesa tra l’impero ottomano e quello russo, avevano
tradizionalmente occupato un posto di primo piano nella politica estera di Istanbul.
Con la nascita della Repubblica Turca e la contemporanea formazione della
Repubblica Federale Socialista Sovietica Transcaucasica, Mustafa Kemal,
coerentemente con il principio “pace in casa, pace nel mondo”, sacrificava i
rapporti e le rivendicazioni territoriali sul Trancaucaso alla volontà di rafforzare la
sovranità della Turchia sui territori a essa riconosciuti dal Trattato di Losanna
(1923), oltre che a una più pragmatica realpolitik che imponeva buoni rapporti
con il vicino sovietico 11 . D’altro canto, il contemporaneo sforzo di rifondare una
identità nazionale turca – dalla connotazione spiccatamente territoriale, prima
ancora che etnica 12 – si traduceva nella proibizione delle attività anti-sovietiche
dei movimenti irredentisti di stampo pan-turco o neo-ottomano 13 . Nel corso del
primo settantennio di vita della Turchia, dunque, i rapporti con le repubbliche
sovietiche del Transcaucaso passarono necessariamente attraverso la mediazione
di Mosca, mentre gli stessi rapporti tra la consistente popolazione turca di origine
caucasica 14 e i propri affini d’oltreconfine si ridussero a sporadici contatti di
natura culturale 15 .
I primi segnali della crisi sovietica e della crescente indipendenza che le singole
repubbliche iniziavano ad assumere sul piano internazionale, colsero dunque la
Turchia sostanzialmente impreparata e non disposta a capovolgere quella “almost
11
Con il trattato di Alessandropoli/Gümrü (1920), d’altro canto, Armenia e Turchia avevano
fissato i rispettivi confini, ponendo sotto sovranità turca i distretti dei Kars e Ardahan. L’anno
successivo il Trattato di Mosca turco-sovietico sanciva gli attuali confini nord-orientali del paese,
con la parallela rinuncia turca al porto georgiano di Batumi. B.R. KUNIHOLM, The Origins of
the Cold War in the Near East, Princeton, 1980, pp. 358-359. Le rivendicazioni sovietiche sui
distretti dei Kars e Ardahan ritorneranno, nell’immediato secondo dopoguerra, a incrinare i
rapporti turco-sovietici e a spingere più risolutamente Ankara verso la cooperazione economica e
militare con le nascenti strutture di matrice euro-atlantica. Tali rivendicazioni cesseranno
ufficialmente solo nel 1953. W. HALE, Turkish Foreign Policy 1774-2000, cit., pp. 111-112 e
122.
12
W. HALE, Identità e Politica in Turchia, in R. ALIBONI (a cura di), Geopolitica della Turchia,
Milano, 1999, p. 45.
13
J.M. LANDAU, Pan-Turkism: From Irredentism to Cooperation, London, 1995, pp. 74-75. Tale
atteggiamento era peraltro in linea con le previsioni dl Trattato turco-sovietico del marzo 1921 che
impegnava le parti a proibire, sul proprio territorio, la formazione di organizzazioni irredentiste
“that have hostile intentions to the other country”. W. HALE, Turkish Foreign Policy 1774-2000,
cit., p. 51.
14
Secondo Henze, circa un 15% della popolazione della neoproclamata Repubblica Turca (2
milioni su un totale di 13) era di origine caucasica, giunta in Anatolia a seguito delle guerre russoturche tra il XIX secolo e la prima guerra mondiale. P. HENZE, Turkey and the Caucasus:
Relations with the New Republics, in M. RADU (ed.), Dangerous Neighborhood: Contemporary
Issues in Turkey’s Foreign Relations, New Brunswick/London, 2003, pp. 79-80.
15
P. HENZE, Turkey and the Caucasus: Relations with the New Republics, cit., p. 81.
69
obsequious correctness toward Moscow” 16 che costituiva una consolidata
tradizione diplomatica. In questo contesto va dunque inserita la cautela che
Ankara mostrò nell’accordare il riconoscimento ufficiale delle nuove repubbliche,
all’indomani delle dichiarazioni di indipendenza susseguitesi a partire dall’agosto
1991. Solo a seguito della formale dissoluzione dell’Urss, difatti, il 16 dicembre
successivo, Ankara riconosceva in blocco le repubbliche da essa emerse. Unica
eccezione fu tuttavia costituita dal riconoscimento che la Turchia, primo stato della
comunità internazionale, accordò in novembre all’Azerbaigian 17 , a dimostrazione
dell’importanza che Ankara attribuiva ai rapporti con la vicina e affine repubblica
azera, e a segnale della centralità che questa avrebbe da allora assunto nella
politica regionale turca nell’area del Transcaucaso, così come in quelle del Mar
Nero e dell’Asia centrale.
Emersa con chiarezza sin dai primi mesi del 1992 18 , la volontà europea e
statunitense di proporre un “modello turco” di sviluppo agli stati emersi dalla
dissoluzione sovietica costituì un importante incentivo per Ankara ad attuare una
più dinamica azione di politica regionale. Un maggior impegno nello spazio postsovietico che, su questo sfondo, la Turchia iniziò presto a valutare come
strumento per rafforzare, nel quadro dei nascenti equilibri internazionali, la
valenza strategica regionale del paese rispetto alle cancellerie occidentali 19 .
D’altro canto, nel paese, un senso di profonda euforia aveva accompagnato la
16
P. HENZE, Turkey: Toward the Twenty-First Century, in G.E. FULLER - I.O. LESSER,
Turkey’s New Geopolitics, From the Balkans to Western China, Boulder, 1993, p. 28.
17
A questo proposito, Robins evidenzia come la Turchia avrebbe probabilmente dilazionato
ancora i tempi del riconoscimento, se il Primo Ministro azero Hasanov non avesse forzato la mano
al governo: “He appealed to the Turkish people over the government’s head during a stopover in
Ankara, saying that Turkish business might lose out were it not the first country to extend
recognition”. P. ROBINS, Between Sentiment and Self-Interest: Turkey’s Policy toward
Azerbaijan and the Central Asian States, cit., p. 602. In linea con questa interpretazione, Winrow
sottolinea come il più rapido riconoscimento dell’Azerbaigian rispetto alle altre repubbliche fosse
legato alla volontà di anticipare un possibile riconoscimento iraniano. G. WINROW, Turkey and
the Caucasus: Domestic Interests and Security Concerns, London, 2000, p. 8.
18
Nel febbraio 1992, la visita di Demirel a Washington costituì l’occasione per Bush per
promuovere ufficialmente il ruolo di modello della Turchia per gli SNI. Parallelamente, la
Commissione Europea, prima ancora dei governi britannico e tedesco, evidenziava il fondamentale
ruolo di ‘corridoio’ della Turchia rispetto allo spazio post-sovietico. Sottolinea, a tal proposito,
Robins come “foreign politicians visiting Turkey, especially those from Europe, seemed to identify
Central Asia and Transcaucasia as a relatively cost free way of having praise on their host, with
whom, in other areas, relations were often problematic”. P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish
Foreign Policy since the Cold War, cit., p. 284.
19
D’altro canto, già in occasione di una riunione tentasi a Vienna, nel dicembre 1989, tra l’allora
Ministro degli Esteri Yılmaz e i principali ambasciatori turchi, le linee guida della politica estera a
venire erano non a caso identificate attorno alla necessità di mantenere la ferma cooperazione con
la Nato, aprendo al contempo rapporti più stretti con i paesi d’oltrecortina. Se infatti, la distensione
ridimensionava l’importanza strategica della Turchia, la sua posizione geografica ne avrebbe
rifondato la valenza agli occhi dell’occidente. B.R. KUNIHOLM, Turkey and the West Since
World War II, in V. MASTNY - R.C. NATION (eds), Turkey Between East and West: New
Challenges for a Rising Regional Power, Boulder/Oxford 1996, pp. 61-62.
70
dissoluzione dell’Urss e il conseguente emergere di quello che appariva come un
“nuovo mondo prevalentemente turcofono” 20 – formato da quattro delle cinque
repubbliche centroasiatiche e dall’Azerbaigian – naturalmente portato alla
identificazione e cooperazione con il “fratello maggiore” turco. La possibilità che
la Turchia potesse fondare sugli storici legami di natura etnica, culturale e
linguistica la propria direttrice di politica estera verso i paesi turcofoni del
Caucaso e Asia centrale – divenendo così per essi punto di riferimento obbligato
sulla strada del rafforzamento della indipendenza – lungi dall’essere relegata ai
movimenti pan-turchi, neo-ottomani o di solidarietà etnica, finì per ammantare la
stessa retorica governativa e presidenziale 21 .
Prendeva così forma il primo tentativo turco di sviluppare una linea di politica
regionale verso lo spazio post-sovietico, una politica che, rivolgendosi
prevalentemente agli stati turcofoni dell’area, mancava ancora di una strategia
coerente – sia pur di breve periodo – verso l’area del Transcaucaso.
Tuttavia, come sostiene Aras, “as the relationship between ethnicity and foreign
policy comes to the fore, identity politics has more to do with politics than with
identity” 22 . Lungi dunque dal rappresentare la volontà di affermazione di un
modello pan-turco, il richiamo alla comunanza etnica, linguistica e culturale
offriva piuttosto – alla Turchia così come agli Sni – un comodo quanto suggestivo
strumento di riavvicinamento politico. In questo senso, sgombrato il campo dalla
connotazione ideologico-confessionale attribuita alla politica regionale di
Ankara 23 , la strategia turca verso gli SNI, così come il suo successivo fallimento,
vanno valutati, prima ancora che sul piano economico 24 , su quello strettamente
politico. A fallire fu, in particolare, il tentativo di Ankara di assicurarsi il sostegno
dei nuovi interlocutori rispetto a una piattaforma comune di politica internazionale
e regionale confacente agli interessi del Ministero degli Affari Esteri turco. Il
primo “Summit Turco”, convocato ad Ankara nell’ottobre 1992, costituì in questo
senso la principale fonte di disillusione per una Turchia che, per l’occasione,
20
P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish Foreign Policy since the Cold War, cit., p. 272.
Innumerevoli sono difatti le dichiarazioni, provenienti dalla più alte sfere delle istituzioni
nazionali, velate di accenti pan-turchi. Così, se Özal, in linea con la propria retorica
tradizionalmente colorita, sosteneva che il secolo a venire sarebbe stato il secolo dei turchi, lo
stesso Demirel, generalmente più moderato, salutava l’emergere di “a gigantic Turkish world”
esteso dall’Adriatico sino alla Grande Muraglia cinese. P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish
Foreign Policy since the Cold War, cit., p. 280.
22
B. ARAS, Turkish Foreign Policy Toward the Caucasus, in «Central Asia and the Caucasus», 5
(11), 2001, p. 83.
23
Si veda, ad esempio, S. HUNTINGTON, Lo Scontro delle Civiltà e il nuovo ordine mondiale,
Garzanti Editore, trad. it., Milano, 2000, p. 214.
24
La mancanza di adeguate risorse finanziarie da indirizzare verso gli Stati di Nuova
Indipendenza, la ritrosia dell’imprenditoria turca verso investimenti che si presentavano ad alto
rischio, così come l’incapacità della Turchia di presentarsi come canale privilegiato degli aiuti
economici provenienti dalle principali organizzazioni internazionali e regionali, sono tutte
concause comunemente addotte per spiegare il fallimento della politica regionale turca nella fase
immediatamente successiva al 1991.
21
71
aveva predisposto una dichiarazione congiunta contenente le linee-guida di un
politica estera comune. La mancanza di accordo sulle principali questioni in essa
contenute – dal riconoscimento della Repubblica Turca di Cipro del Nord sino al
conflitto in Bosnia-Erzegovina – rappresentò un duro colpo alla credibilità del
ruolo regionale cui Ankara aspirava. La più cocente sconfitta per la diplomazia
turca giunse, tuttavia, in relazione alla posizione da assumere relativamente al
conflitto che, nel Transcaucaso, opponeva Azerbaigian e Armenia per il controllo
della regione dell’Alto Karabakh. Questione che, riguardando più da vicino gli
equilibri dell’area post-sovietica, rappresentava un fondamentale banco di prova
per la sua politica regionale. Una politica che non poté di conseguenza che uscire
ridimensionata dalle profonde divisioni emerse sul tema, così come dal rifiuto
opposto dai capi di stato centroasiatici alla proposta – propugnata dal presidente
azero Elçibey e appoggiata dalla Turchia – di intraprendere azioni concrete contro
l’occupante armeno e, più significativamente, dalla mancanza di accordo finanche
su una dichiarazione di aperta condanna dell’occupazione 25 .
Il summit di Ankara, pensato come pietra miliare per lo sviluppo di una rete di
cooperazione turcocentrica nello spazio post-sovietico, si tradusse dunque nella
evidente manifestazione della velleitarietà dei progetti regionali di Ankara, della
possibilità di trarre da essi facili e veloci dividendi politici, così come della
sottovalutazione dell’influenza che Mosca continuava a esercitare sull’estero
vicino. Significativamente, il summit si concludeva con una dichiarazione
congiunta sulla volontà di approfondire la cooperazione economica e gli scambi
culturali – aspetti che, da allora, avrebbero costituito il principale ambito di
collaborazione tra la Turchia e le repubbliche centroasiatiche.
1.1 La Turchia e i conflitti nel Transcaucaso
Il principale ostacolo all’iniziale cooperazione politica ed economica tra la
Turchia e le repubbliche del Transcaucaso – così come alla predisposizione di una
coerente strategia regionale di lungo periodo – fu rappresentato dall’accentuata
conflittualità che accompagnò e seguì, nell’area, la dissoluzione dell’Unione
Sovietica. Il cammino post-indipendentistico delle tre repubbliche fu infatti
pesantemente condizionato dall’erompere di tensioni e conflitti, dai contorni etnoterritoriali 26 , nella regione azera a maggioranza armena dell’Alto Karabakh, così
come nelle province georgiane dell’Ossetia meridionale e dell’Abkhazia. La
diplomazia turca si trovava così a fronteggiare una fluida e incerta situazione di
25
P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish Foreign Policy since the Cold War, cit., p.287.
Si fa qui riferimento, nella definizione di Streleckij, a quelle “controversie accese in nome di
etnie o gruppi etnici e riguardanti il diritto di abitare, possedere o amministrare questo o quel
territorio”. Cit. in E. PAIN, Analisi comparativa e valutazione del rischio di conflitti etnopolitici
lungo le frontiere russe, in P. SINATTI (a cura di), La Russia e i conflitti nel Caucaso, Torino,
2000, p. 81.
26
72
fatto, rapportarsi alla quale era reso più complesso dalle rilevanti ripercussioni che
implicava tanto sul piano internazionale, quanto interno.
In questo quadro, il nodo che più di ogni altro influenzò la politica estera turca fu
il conflitto per il controllo dell’Alto Karabakh che, prodottosi a uno stato latente a
partire dal 1988, assunse, a seguito delle dichiarazioni di indipendenza azere e
armene, un connotato tipicamente interstatale destinato ad avere pesanti
ripercussioni sulla politica regionale di Ankara. Non è un caso che, dopo aver a
lungo considerato le tensioni azero-armene come problema elusivamente interno
all’Urss, la Turchia, alla vigilia della sua dissoluzione, manifestasse la propria
disapprovazione rispetto al provvedimento con il quale l’Azerbaigian, il 26
novembre 1991, sopprimeva l’autonomia tradizionalmente accordata alla regione
dell’Alto Karabakh. Una decisione, quest’ultima, che il governo Demirel
sottolineò essere contraria tanto alla stabilità regionale, quanto agli stessi interessi
azeri 27 .
L’erompere, a partire dai primi mesi del 1992, del conflitto si ripercosse
negativamente anzitutto sulle prospettive di normalizzazione degli storicamente tesi
rapporti turco-armeni. L’eredità del passato ottomano rappresentava, difatti, un
pesante fardello sulla strada di una possibile normalizzazione delle relazioni
bilaterali. Pesava e pesa a tutt’oggi, in particolare, il tentativo di Erevan e della
diaspora di ottenere che allo sterminio della popolazione armena compiuto in
Turchia a partire dal 1915, venga ufficialmente riconosciuta – internazionalmente
come ad Ankara – la natura di genocidio 28 . Parallelamente, le rivendicazioni
armene su territori della Turchia orientale 29 , così come il ricordo, tra la diplomazia
turca, degli attentati terroristici compiuti negli anni Ottanta dall’Armenian Secret
Army for the Liberation of Armenia, costituivano altrettante eredità di un passato
con cui risultava difficile fare i conti. A scapito di ciò, tuttavia, a partire dalla visita
a Erevan dell’ambasciatore turco a Mosca, Volkan Vural, nell’aprile del 1991, i
rapporti tra i due paesi sembrarono imboccare un percorso di reciproco
riavvicinamento. Nell’occasione venne infatti predisposta la bozza di un accordo di
buon vicinato, cui seguì, all’indomani del riconoscimento turco dell’indipendenza
armena, l’apertura di un consolato turco e la nomina di un ambasciatore a Erevan, in
27
S. BOLUKBASI, Ankara’s Baku-Centred Transcaucasia Policy: Has It Failed?, in «Middle
East Journal», 51, 1997, 1, p. 83.
28
Ankara, continua al contrario a sostenere che dietro i “massacri” della popolazione armena non
vi sia stata una deliberata politica di sterminio, ridimensionando al contempo le stime relative alle
vittime. In questo senso, S.R. SONYEL, Falsifications and Disinformation Negative Factors in
Turco-Armenian Relations, in «SAM Papers», 3, 2000.
29
Nel 1991 il Parlamento armeno dichiarava il non riconoscimento della validità dei Trattati di
Kars e Gümrü del 1921, con i quali venivano stabiliti i confini turco-armeni. L’articolo 11 della
Dichiarazione di Indipendenza armena, fa inoltre riferimento alla Anatolia orientale come alla
“Armenia occidentale”. D’altro canto, tuttavia, i successivi ingressi dell’Armenia nelle
organizzazioni internazionali che riconoscono il principio di inviolabilità delle frontiere – a partire
da quello nella Conferenza per la Sicurezza e Cooperazione in Europa del gennaio 1992 – possono
essere interpretati come un sia pur indiretto riconoscimento della frontiera tra i due stati.
73
attesa della formalizzazione di un’apertura di relazioni diplomatiche che lo sviluppo
delle operazioni militari nell’Alto Karabakh renderà tuttavia inattuabile.
Parallelamente e in funzione del tentativo di normalizzazione dei rapporti con
l’Armenia, Ankara tentò peraltro di non lasciarsi trascinare nella crescente ostilità
armeno-azera propugnando, a più riprese, un ruolo di mediatore imparziale tra le
parti. In questo quadro si colloca dunque la “shuttle diplomacy” 30 inaugurata dal
Ministro degli Esteri turco Çetin tra la regione e le varie capitali europee, così
come il tentativo di internazionalizzare la mediazione del conflitto attraverso le
organizzazioni di cui la Turchia era membro – con la Csce in testa 31 – nella
costante riaffermazione del principio della intangibilità delle frontiere 32 . D’altro
canto, propugnando una politica di non diretto intervento nel conflitto in
Azerbaigian, Ankara dimostrava tutta la propria preoccupazione rispetto alla
possibilità che questo potesse assumere un connotato spiccatamente confessionale 33 ,
minando le fondamenta del precetto secolarista turco e della sua proiezione
internazionale – un rischio tanto più sentito per il contemporaneo sviluppo della
crisi bosniaca. La possibilità di assumere un ruolo di mediatore, era infine
funzionale alla volontà di anticipare l’analogo tentativo di Teheran.
La credibilità di un ruolo turco super partes rispetto al conflitto, fu tuttavia vittima
della mancanza di formulazione di una coerente strategia regionale di politica
estera, nel cui vuoto si inserirono presto le divergenze tra le più alte cariche
istituzionali del paese. Alla moderazione del governo guidato da Demirel, fece
infatti da contrappeso la colorita e populistica retorica del Presidente Özal che finì
per minarne le fondamenta, contribuendo una volta di più alla radicalizzazione
delle posizioni di un’opinione pubblica, quella turca, che a gran voce richiedeva
una più attiva politica di sostegno ai “fratelli azeri”. La linea interventista di Özal
– alle cui spalle si muoveva un’ampia parte dello spettro politico e istituzionale
30
S.E. CORNELL, Turkey and the Conflict in Nagorno-Karabakh: A Delicate Balance, in
«Middle Eastern Studies», 34, 1998, 1, p. 60.
31
La Turchia riuscì, in ambito CSCE, a porre la questione dell’Alto Karabakh nell’agenda del
summit di Praga del 28 febbraio 1992, nel corso del quale l’organizzazione decise di costituire un
gruppo di contatto per la mediazione nel conflitto. Prendeva così forma quello che sarebbe
divenuto noto, a partire dal giugno successivo, come il “Gruppo di Minsk”, di cui la Turchia
divenne parte assieme a Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Repubblica Ceca, Francia, Germania,
Italia, Federazione Russa, Svezia e Stati Uniti. Sullo sforzo di mediazione internazionale rispetto
all’Alto Karabakh, si veda J.J. MARESCA, The International Community and the Conflict over
Nagorno-Karabakh, in B.W. JENTLESON (ed), Opportunities Missed, Opportunities Seized:
Preventive Diplomacy in the Post-Cold War World, Lanham, 2000, pp. 68-90.
32
La stretta riaffermazione del principio di inviolabilità delle frontiere in connessione al conflitto
nell’Alto Karabakh rispondeva, prima ancora che alla volontà di sostegno alla causa azera, alle
preoccupanti connessioni che esso mostrava rispetto alla rinascita del separatismo curdo in
Turchia. La presa armena di Lachin nel maggio 1992 comportò infatti la formazione, nella regione
– già sede negli anni Venti di un’entità autonoma curda – di un Movimento Curdo di Liberazione
che proclamava in essa la formazione di uno stato curdo indipendente. Cfr. Keesing’s Record of
World Events, 38, June 1992.
33
A. COWELL, Turk Warns of a Religious War in Azerbaijan, in «The New York Times», 12
March 1992.
74
turco 34 – si manifestò, in tutta evidenza, a seguito delle rilevanti vittorie militari
che i separatisti armeni, sostenuti militarmente dalla madrepatria, ottennero tra il
febbraio e il maggio 1992. La minaccia presidenziale di un intervento militare a
protezione dell’enclave azera di Nakhichevan 35 , accompagnata dai movimenti di
truppe in prossimità dei confini orientali del paese, implicò così il fallimento della
contemporanea mediazione di Demirel. La possibilità che la Turchia intervenisse
militarmente nel conflitto, d’altro canto, spinse più risolutamente Erevan
nell’orbita politico-militare di Mosca, finendo per favorire l’avvio di una
polarizzazione degli schieramenti regionali, che avrebbe costituito, da allora, una
pesante gravame sulla via della cooperazione nell’area. Dopo aver infatti rifiutato
di esaminare, a inizio marzo, un piano di pace turco 36 , in maggio l’Armenia
siglava il Trattato di Sicurezza Collettiva (Cst) della Csi e un Accordo di Sicurezza
Congiunta con la Russia – alle cui truppe avrebbe peraltro demandato, nel febbraio
successivo, la responsabilità del pattugliamento delle proprie frontiere
internazionali, ivi compresa quella con la Turchia.
Le sconfitte militari azere della primavera accentuarono, peraltro, la crisi politica
del governo guidato da Mutalibov, che in giugno lasciò il posto al leader della
formazione nazionalista del Fronte Popolare dell’Azerbaigian, Elçibey. In questo
quadro d’insieme, la spiccata retorica anti-russa e pan-turca del presidente azero,
si tradusse in Turchia in un ulteriore elemento di polarizzazione politica, oltre che
in un insormontabile ostacolo rispetto ai contemporanei tentativi di dialogo e
cooperazione tra Demirel e il governo armeno guidato dal moderato TerPetrossian 37 . Maturava così, sulla scia della sempre più pressante richiesta
34
L’opposizione al governo del Partito della Giusta Via (DYP) guidato da Demirel si presentava
compatta nel richiedere un più deciso intervento nel conflitto. Il Partito Nazionalista di Azione
(MHP) di Türkeş, dalla tradizionale connotazione pan-turca, era naturalmente il più attivo
sostenitore della necessità di intervento militare a tutela degli interessi regionali turchi. Allo stesso
modo, il Partito Democratico della Sinistra (DSP) guidato da Ecevit, portatore di una retorica
terzomondista e sostenitore di una “regionally-centred foreign policy depending on national
interests” (W. HALE, Turkish Foreign Policy 1774-2000, cit., p. 207), criticava aspramente la
cautela politica di Demirel come controproducente rispetto all’avanzamento degli interessi turchi
nelle aree del Caucaso e dell’Asia centrale. Infine, l’influente Mesut Yilmaz – succeduto a Özal
alla leadership del maggior partito dell’opposizione, il Partito della Madrepatria (ANAP) – a più
riprese sottolineò la necessità di una più dura linea di politica estera nei confronti dell’Armenia.
35
Secondo un’interpretazione ampiamente propugnata in Turchia, la lettera dei Trattati di Mosca e
Kars del 1921 conferiva a essa il diritto di intervenire militarmente a tutela dello status
dell’enclave.
36
Significativamente, l’Armenia giustificava il rifiuto sulla base dell’accusa alla Turchia di “not
being neutral”. Cfr. Keesing's Record of World Events, 38, March 1992.
37
Nell’agosto 1992, una missione diplomatica turca in Armenia sondava la possibilità di apertura
delle relazioni diplomatiche, richiedendo a tal fine il ritiro dell’esercito dai territori azeri esterni
all’Alto Karabakh. Nel settembre successivo, inoltre, il governo turco accettò la richiesta armena
di invio di 100.000 tonnellate di grano all’Armenia, per motivi umanitari. Contemporaneamente,
veniva siglato un protocollo per la fornitura di energia elettrica al paese. L’effetto congiunto dei
due provvedimenti sarebbe stata la rottura di quell’embargo azero nei confronti dell’Armenia, che
costituiva la principale arma di Baku. Fu così solo a seguito delle vibranti proteste del governo
azero e dell’opposizione turca, inoltre, a far cadere un accordo bollato come “una pugnalata alle
75
dell’opinione pubblica nazionale 38 , l’aperto sostegno di Ankara a favore della causa
azera, che si concretava, nell’aprile 1993, nella chiusura delle frontiere tra Turchia e
Armenia, dove venivano contemporaneamente mobilitati l’esercito e l’aviazione.
Le successive schiaccianti vittorie militari dei secessionisti armeni – che entro
settembre estendevano la propria occupazione a un quarto circa del territorio
azero – dimostrarono tuttavia tutta la inefficacia della politica regionale di Ankara.
Inefficacia manifesta rispetto tanto al tentativo di mobilitare, a sostegno della
causa azera, i propri alleati occidentali, quanto di attuare una qualche forma di
diplomazia coercitiva – principale ostacolo alla quale era costituito dalla tutela
militare russa di Erevan.
La possibilità di assicurare che l’Azerbaigian fosse retto da un “regime amico”,
obiettivo centrale nella strategia turca verso il Transcaucaso 39 , fu ulteriore vittima
dell’insuccesso della politica rispetto all’Alto Karabakh. Nel giugno 1993 un
colpo di stato deponeva infatti Elçibey, presto sostituito da Heydar Aliyev che, in
mancanza di concrete alternative, rovesciava il corso di politica estera sino ad
allora seguito dal paese, congelando i rapporti con la Turchia e avvicinandosi
risolutamente alla Russia. Nel maggio 1994, dopo aver riportato il paese nella Csi
e siglato il Trattato per la Sicurezza Collettiva, l’Azerbaigian accettava un piano
per il cessate-il-fuoco che, predisposto dal Ministro della Difesa russo Grachev,
prevedeva tra l’altro il dispiegamento, a sua garanzia, di truppe russe sotto l’egida
della Csi. Benché quest’ultima previsione venisse successivamente rigettata dal
parlamento azero, la firma dell’accordo rappresentò un importante successo
diplomatico per Mosca, che, presentandosi come garante unico della stabilità e
della sicurezza nell’area, rafforzava le proprie posizioni in quello che appariva
essere “a hidden regional conflict between Turkey's drive to build a zone of
influence in Transcaucasia and Russia's determination not to be excluded from its
traditional spheres of influence” 40 .
L’accordo per il cessate-il-fuoco, cui non sarebbe seguita la conclusioni di un piano
di pace, finiva per congelare, assieme al conflitto, le stesse possibilità di
normalizzazione dei rapporti diplomatici armeno-turchi, condizionati da Ankara, a
partire dal 1993, a “positive development toward the peaceful settlement of the
Nagorno-Karabakh dispute” 41 . I rapporti della Turchia con l’Armenia – e con essi
le potenzialità di un’ampia cooperazione nel Transcaucaso – finivano così per
divenire ostaggio del crescente avvicinamento all’Azerbaigian.
spalle” da parte di Ankara. S. BOLUKBASI, Ankara’s Baku-Centred Transcaucasia Policy: Has
It Failed?, cit., p. 84.
38
S.E. CORNELL, Turkey and the Conflict in Nagorno-Karabakh: A Delicate Balance, cit., p. 61.
39
S. BOLUKBASI, Ankara’s Baku-Centred Transcaucasia Policy: Has It Failed?, cit., p. 81.
40
S.J. BLANK, Turkey’s Strategic Engagement in the Former USSR and U.S. Interests, in S.J.
BLANK - S.C. PELLETIERE - W.T. JOHNSEN, Turkey's Strategic Position at the Crossroads of
World Affairs, Carlisle, 1993, p. 69-70.
41
G. WINROW, Turkey and the Caucasus: Domestic Interests and Security Concerns, cit., p. 13.
76
D’altro canto, l’oggettiva difficoltà per il governo turco di predisporre, rispetto ai
conflitti nell’area transcaucasica, una linea di deciso e coerente intervento, risultò
evidente anche rispetto a quel conflitto in Abkhazia che, a partire dall’estate del
1992, divampava in Georgia.
La netta instabilità che caratterizzò la fase successiva alla proclamazione
d’indipendenza georgiana – determinata dalla guerra civile del 1991-1992 e dal
conflitto in Ossetia meridionale – aveva rappresentato un freno all’apertura delle
relazioni diplomatiche tra Ankara e Tbilisi. Il tardivo riconoscimento accordato
alla Repubblica Georgiana nel maggio 1992 dimostrava dunque, una volta di più –
prima ancora della iniziale secondarietà del vettore transcaucasico della politica
estera turca – la riproposizione della tradizionale cautela e del non-interventismo
sul piano regionale. Non è un caso, in questo senso, che il riconoscimento turco
seguisse il consolidamento del potere di Shevarnadze e, più significativamente,
l’analogo provvedimento statunitense e tedesco. Fu dunque in contemporanea che
si svilupparono, nella successiva estate, i primi contatti turco-georgiani per lo
sviluppo di una cooperazione politico-economica, da un lato 42 , e l’apertura delle
ostilità nella regione secessionista della Abkhazia, dall’altro.
L’iniziale atteggiamento legalistico e filo-governativo di Ankara rispetto al conflitto
fu messo in seria difficoltà, questa volta, dalla presenza in Turchia di una numerosa
comunità di origine abkhaza 43 . Quest’ultima, in unità di intenti con le numerose
associazioni di minoranze d’origine nord-caucasica, diede vita al Comitato di
Solidarietà Caucasico-Abkhazo (Kafkas-Abhaz Dayanişma Komitesi – Kadk), attivo
sin dal 1992 nel richiedere il riconoscimento turco dell’indipendenza dell’Abkhazia,
e nell’esercitare pressioni su quella parte trasversale dello spettro politico
favorevole a un più attivo coinvolgimento nelle questioni regionali. La
contemporanea formazione, a opera della influente minoranza georgiana, della
Fondazione Culturale e di Solidarietà Turco-Georgiana (Türk-Gürcü Kültür ve
Dayanişma Vakfı – Tgkdv) determinò così un scontro di interessi, che assunse
presto portata politica. L’avvio di un pericoloso processo di politicizzazione delle
minoranze etniche, emerse chiaramente dall’acceso dibattito parlamentare
sull’Abkhazia dell’ottobre 1992. Dibattito che evidenziava, al contempo,
l’impossibilità per Ankara di sfruttare i dividendi politici che le sarebbero potuti
derivare dal più diretto sostegno a una delle parti in causa. Su questo sfondo, fu
42
Nel luglio 1992, Demirel si recava in visita a Tbilisi dove veniva siglato un Accordo di Amicizia e
protocolli in materia di commercio, cultura, istruzione e trasporti.
43
Secondo Winrow, la comunità turco-abkhaza comprendeva 700.000 persone. Un numero,
questo, tanto più rilevante se paragonato al totale della popolazione della provincia georgiana che,
nelle stime di Alexei Zverev era di poco superiore al mezzo milione G. WINROW, Turkey and the
Caucasus: Domestic Interests and Security Concerns, cit., p. 33; A. ZVEREV, Ethnic Conflicts in
the Caucasus, 1988-1994, in B. COPPIETERS (ed.), Contested Borders in the Caucasus,
Bruxelles, 1996, http://www.poli.vub.ac.be.
77
dunque la necessità di rapportarsi alla “fabbrica demografica” 44 turca, prima
ancora che una deliberata scelta di politica estera, a dettare l’agenda della politica
nei confronti del conflitto in Georgia. A imporre, cioè, un approccio bilanciato
che, pur sensibile “in a humanitarian fashion” 45 alle istanze dei secessionisti,
ribadiva fermamente la necessità del rispetto dell’integrità territoriale georgiana.
Benché una simile linea di condotta super partes finisse per assicurare ad Ankara
sia pur limitati risultati politici 46 , esso impedì tuttavia di offrire a Tbilisi quelle
garanzie di sicurezza che Shevarnadze, come già accaduto ad Aliyev, non poté
che richiedere alla Russia. Fu ancora una volta Mosca nel novembre 1993, dopo
aver ottenuto l’ingresso georgiano nella Csi e nel Tsc e negoziato il dispiegamento
di una forza di interposizione, a farsi infatti promotrice di un accordo per il
cessate-il-fuoco. Significativamente inoltre, come già avvenuto con l’Armenia,
Russia e Georgia si accordavano per il dispiegamento di guardie di frontiera russe
al confine con la Turchia.
I conflitti etno-territoriali divampati nel Transcaucaso con la dissoluzione
dell’Urss hanno dunque costituito il principale ostacolo, tra il 1992 e l’inizio del
1994, sulla via dell’affermazione di un ruolo regionale di primo piano della
Turchia. L’effetto combinato di fattori interni e internazionali ha infatti impedito
ad Ankara di rappresentare, per l’area, un fattore di sicurezza e stabilità, lasciando
al contempo campo libero alle iniziative di Mosca. La conseguente
sistematizzazione russocentrica rappresentava, per questa via, la più evidente
manifestazione, da un lato, dell’inefficacia della politica regionale turca e,
dall’altro, dell’avvio di una polarizzazione degli interessi e schieramenti regionali
che avrebbe da allora pesantemente influito sulle possibilità di cooperazione interregionale.
1.2 La centralità azera nella politica multi-regionale di Ankara
La stretta affinità etnica, linguistica e culturale tra Turchia e Azerbaigian – base
della consueta formula “due stati, una nazione” – rendeva l’approfondimento delle
relazioni bilaterali un passaggio quasi obbligato nello sviluppo delle rispettive
politiche estere. Se infatti la Turchia rappresentava, per Baku, un ponte verso le
principali strutture di matrice euro-atlantica, oltre che un naturale punto di
riferimento sulla strada del rafforzamento della propria sovranità e indipendenza,
non meno rilevante risultava essere per Ankara, di converso, l’Azerbaigian. Forte di
44
D.B. SEZER, Turkey in the New Security Environment in the Balkan and Black Sea Region, in
V. MASTNY - R.C. NATION (eds.), Turkey Between East and West: New Challenges for a Rising
Regional Power, cit., p. 90.
45
P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish Foreign Policy since the Cold War, cit., p. 183.
46
In particolare, in occasione del lancio dell’operazione di monitoraggio del cessate-il-fuoco
UNOMIG, la richiesta di partecipazione turca provenne significativamente, nel settembre 1994, da
entrambe le parti del conflitto. Inoltre, tra il 1999 e il 2001, Il Ministero degli Esteri turco offriva
ripetutamente di ospitare colloqui tra inviati del governo georgiano e rappresentanti del KADK.
78
ingenti e inesplorate risorse energetiche, esso costituiva, prima ancora che un
partner economico di primo piano 47 , un fondamentale alleato nell’affermazione
dell’influenza turca sul Transcaucaso e l’Asia centrale.
L’Azerbaigian si configurò dunque, sin dalla fase immediatamente successiva al
1991, come il punto di collegamento tra le diverse direttrici della politica multiregionale di Ankara nell’area del Transcaucaso, così come in quella dell’Asia
centrale e del Mar Nero. Una politica multi-regionale caratterizzata dal tentativo
di porsi alla testa di iniziative di cooperazione economica regionale, in linea con
le più profonde convinzioni del liberista Özal. Sin dagli anni Ottanta, infatti, le
relazioni economiche regionali avevano assunto, nella politica estera di Ankara, il
ruolo centrale di fattore di stabilizzazione e sicurezza regionale 48 , elemento di
cooperazione e avvicinamento politico con gli avversari, prima ancora che con i
partner regionali.
Si è già visto come l’Azerbaigian avesse assunto una posizione centrale per lo
sviluppo
–
così
come
per
il
fallimento
–
della
cooperazione con gli stati turcofoni della ex-Unione Sovietica. Nello stesso ambito la
Turchia sosteneva, nel 1992, il progetto di allargamento della Economic
Cooperation Organisation (Eco). L’organizzazione, creata nel 1985 da Turchia,
Iran e Pakistan, e finalizzata alla predisposizione di accordi doganali e allo
sviluppo di una rete infrastrutturale tra i suoi membri, si apriva così alla
partecipazione delle cinque repubbliche centroasiatiche, dell’Afghanistan e
dell’Azerbaigian. In occasione dei summit di Quetta e Istanbul, del febbraio e
luglio 1993 49 , l’Eco approvava un ambizioso piano d’azione di lungo periodo (da
completare entro il 2005), ottenendo contemporaneamente lo status di osservatore
presso le Nazioni Unite. Nonostante il promettente inizio, tuttavia,
l’organizzazione non ha avuto un significativo impatto sugli scambi economici tra
i suoi membri – il cui incremento è stato in linea con i più generali tassi di crescita
– né ha sviluppato, al suo interno, meccanismi di consultazione politica. La
valenza più profonda dell’Eco sembra dunque essere stata, per Ankara, la
disponibilità di un canale istituzionale di cooperazione con Teheran, e di uno
strumento per prevenire iniziative economiche unilaterali iraniane nell’area del
Transcaucaso e dell’Asia centrale.
Un maggior rilievo ha assunto, nel quadro del multi-regionalismo turco, il
progetto di costituzione di un meccanismo di cooperazione per l’area del Mar
Nero. All’indomani della proclamazione dell’indipendenza degli Sni, Özal,
47
Dall’analisi dei dati forniti dal Sottosegretariato al Commercio estero turco, emerge infatti come
già nel 1992, se si esclude dal computo la Federazione Russa, le esportazioni turche verso
l’Azerbaigian costituivano il 42% del totale della esportazioni verso i paesi della Csi.
UNDERSECRETARIAT OF THE PRIME MINISTRY FOR FOREIGN TRADE, Exports,
http://www.dtm.gov.tr.
48
W. HALE, Turkish Foreign Policy 1774-2000, cit., p. 208.
49
Ö. ÖZAR, Economic Co-operation Organisation: a Promising Future, in «Perceptions», 2,
1997, 1, p. 16.
79
riprendendo un progetto elaborato sul finire degli anni Ottanta, si faceva
promotore della Black Sea Economic Cooperation (Bsec), lanciata ufficialmente
in occasione dell’incontro di Istanbul del giugno 1992. Significativamente
l’organizzazione, oltre a includere gli stati rivieraschi del Mar Nero (Russia,
Ucraina, Romania, Bulgaria, Georgia) e la Moldova, assumeva
contemporaneamente, su iniziativa turca, una più ampia dimensione
transcaucasica e balcanica – con la partecipazione di Azerbaigian e Armenia da
una parte, e di Grecia e Albania dall’altra. Obiettivo dichiarato
dell’organizzazione, la progressiva rimozione degli ostacoli al commercio tra i suoi
partecipanti e la predisposizione di progetti congiunti in materia di trasporto,
comunicazioni, energia, turismo, agricoltura e protezione ambientale50 . A tal fine
venivano istituiti un Segretariato Permanente, un’Assemblea Parlamentare e un
Consiglio Economico dell’organizzazione, per favorire le cui attività veniva
inoltre stabilita la costituzione della Black Sea Foreign Trade and Development
Bank, con sede a Salonicco.
Nonostante il lancio in ambito Bsec di una serie di rilevanti progetti
infrastrutturali 51 , non sembra tuttavia che l’organizzazione, come già per il caso
dell’Eco, abbia sortito effetti indipendenti sull’aumento degli scambi tra i suoi
membri. D’altro canto, la sostanziale inefficacia delle iniziative di cooperazione
regionale turche risulta in linea con la più generale tendenza, registrata lungo
l’ultimo quindicennio, a una scarsa interazione economica con l’area del
Transcaucaso. A tutto il 2005, infatti, le repubbliche transcaucasiche influivano
per un modesto 1,1% sul totale delle esportazioni turche 52 , e per uno 0,5% sulle
importazioni 53 . Di converso, nello stesso 2005, il volume degli scambi con la
Turchia si assestava, per l’Azerbaigian al 6,9% del totale54 , mentre per la Georgia,
nel primo quadrimestre del 2006, al 10% 55 . Significativamente, in entrambi i casi,
50
B. GÜLTEKIN - A. MUMCU, Black Sea Economic Cooperation, in V. MASTNY - R.C.
NATION (eds), Turkey Between East and West: New Challenges for a Rising Regional Power,
cit., pp. 179-180.
51
Per ciò che riguarda più propriamente la cooperazione tra Turchia e Transcaucaso, nel 1996 veniva
completato l’Eastern Black Sea Telecommunications Project (Dokap), per la costruzione di un
collegamento digitale radio tra Turchia, Azerbaigian e Georgia, del valore di 15 miliardi di dollari.
M. DEMIRSAR, BSEC Business Conference Promotes Regional Cooperation, in «Turkish Daily
News», 2 May 1997.
52
UNDERSECRETARIAT OF THE PRIME MINISTRY FOR FOREIGN TRADE, Exports,
http://www.dtm.gov.tr.
53
UNDERSECRETARIAT OF THE PRIME MINISTRY FOR FOREIGN TRADE, Imports,
http://www.dtm.gov.tr. Sul volume del commercio estero con il Transcaucaso pesa, peraltro, il
provvedimento della chiusura delle frontiere con l’Armenia varato da Ankara nell’aprile 1993 a
seguito del conflitto nell’Alto Karabakh.
54
STATE STATISTICAL COMMITTEE OF THE AZERBAIJAN REPUBLIC, Azerbaijan's
Main Trading Partners in 2005, in «Azerbaijan in Figures 2006», http://www.azstat.org.
55
NATIONAL BANK OF GEORGIA, Major Foreign Trade Partners of Georgia, in «Bulletin of
Monetary and Banking Statistics», April 2006, http://www.nbg.gov.ge.
80
il dato relativo alla Turchia risultava nettamente inferiore a quello riguardante la
Russia 56 .
La secondaria valenza economica assunta dalla Bsec non deve tuttavia indurre a
sottovalutarne la portata politica. Per quanto il lancio della cooperazione
economica non si sia tradotto, come era nelle intenzioni di Özal, in un
miglioramento delle relazioni politiche tra i suoi partecipanti, la Bsec ha
comunque rappresentato, tra il 1992 e il 1999, un importante “forum for member
states to try to settle their differences […] and to enhance Turkey’s image as a
cooperative neighbour” 57 .
2. Ridefinizione pragmatica della politica transcaucasica (1994-2000)
Il sostanziale fallimento, tra il 1991 e il 1994, della politica estera turca verso il
Transcaucaso, frutto della mancanza di una coerente strategia regionale prima
ancora che di mezzi materiali, era stato reso più manifesto dalla scarsa attenzione
che, nei confronti dell’area, mostrarono i principali attori della comunità
internazionale. La concomitanza della crisi bosniaca, accompagnata dalla difficile
fase di adeguamento alla nuova realtà internazionale delle principali
organizzazioni euro-atlantiche, nonché dalla volontà dei principali attori della
comunità internazionale di non compromettere i rapporti con la Russia di Elc’in,
avevano privato la Turchia di quel sostegno – economico quanto diplomatico –
che, solo, avrebbe potuto dare un diverso peso alla direttrice regionale della sua
politica estera.
Su questo sfondo, la rottura dell’isolamento internazionale del Transcaucaso,
prodottosi a cavallo tra il 1993 e il 1994 a seguito delle iniziative regionali
europee e statunitensi, non poté che aprire nuovi rilevanti spazi alla politica estera
di Ankara. La Turchia inaugurava infatti un nuovo corso di politica regionale che,
gettatasi alle spalle l’eccessiva quanto infondata euforia successiva alla
dissoluzione sovietica, si connotava in senso più spiccatamente pragmatico,
legandosi a filo doppio alle iniziative regionali statunitensi. Iniziative che,
significativamente, si indirizzarono verso i due settori rispetto ai quali la
dipendenza degli stati transcaucasici da Mosca aveva reso impraticabile il
tentativo di prenderne le distanze: quello della cooperazione alla sicurezza da un
lato, e quello economico, con particolare riferimento allo sfruttamento e al
trasporto delle risorse energetiche del Mar Caspio, dall’altro.
A favorire il nuovo approccio regionale turco, contribuirono due ulteriori fattori.
In primo luogo, la sia pur parziale risoluzione dei conflitti in Abkhazia e Alto
Karabakh, introducendo un primo importante fattore di stabilizzazione del
56
Nello stesso periodo di tempo preso in considerazione, la percentuale sul totale del volume di
scambi con la Russia si attestava al 12% per l’Azerbaigian e al 17,6% per la Georgia.
57
W. HALE, Turkish Foreign Policy 1774-2000, cit., p. 270; nella stessa direzione C. KING, The
New Near East, in «Survival», 43, 2001, 2, pp. 58-59.
81
Transcaucaso, conferiva una nuova libertà d’azione a Baku e Tbilisi. In secondo
luogo, tale libertà d’azione risultò essere tanto più ampia a partire dalla netta
perdita di credibilità regionale cui fu soggetta la Russia all’indomani della
fallimentare prima campagna militare in Cecenia 58 .
2.1 Politica economica ed energetica
Se la volontà di proporre un “modello turco” di sviluppo aveva giocato un ruolo di
primo piano nell’iniziale politica di Ankara rispetto agli Sni in generale e
all’Azerbaigian in particolare, una motivazione altrettanto valida derivava,
parallelamente, dai vantaggi strettamente economici che ne sarebbero derivati per
il Paese. Al di là del valore rivestito dalla cooperazione economica nella visione
özalista, e della possibilità di aprire nuovi mercati alle esportazioni nazionali, tali
vantaggi si concretavano principalmente nella prospettiva di inserimento nel giro
d’affari legato allo sfruttamento delle ingenti risorse energetiche del Mar Caspio,
rispetto alle quali l’Azerbaigian appariva come il “cork in the bottle” 59 .
La Turchia, d’altro canto, costituiva un mercato in costante espansione, le cui
stime di crescita nel fabbisogno energetico imponevano il tentativo di
diversificazione degli esistenti canali di approvvigionamento – principalmente
russi. Al di là, tuttavia, della valenza strettamente economica, lo sfruttamento
degli idrocarburi del Caspio offriva ad Ankara ben più rilevanti dividendi politici.
La necessità di approntare nuove rotte per il trasporto energetico verso i mercati
occidentali schiudeva difatti alla Turchia la prospettiva di divenire lo stato-chiave
nel transito degli idrocarburi, con notevole incremento della propria valenza
strategica, tanto nei confronti degli stati consumatori quanto di quelli produttori di
energia. Per questa via dunque, Il Trancaucaso assumeva progressivamente agli
occhi di Ankara la duplice potenziale connotazione di fornitore energetico e,
contemporaneamente, di primo corridoio rispetto alle risorse energetiche
centroasiatiche – kazake, turkmene e uzbeke.
Non è dunque un caso che la questione energetica – con particolare riguardo ai
progetti di trasporto – entrasse, sin dal 1992, nell’agenda della politica regionale
di Ankara. Subito dopo la proclamazione d’indipendenza azera, difatti, la
Compagnia Petrolifera Turca (Türkiye Petrolleri Anonim Ortaklı – Tpao)
predisponeva il progetto di costruzione di un oleodotto tra Baku e il porto turco di
Ceyhan sul Mediterraneo 60 . Tale progetto, che diverrà la pietra angolare della più
pragmatica strategia transcaucasica turca degli anni Novanta, veniva formalizzato
dalla firma di un memorandum tra i ministri dell’energia turco e azero, il 9 marzo
58
Sul punto, S. BLANK, Russia and Europe in the Caucasus, in «European Security», 4, 1995, 4,
p. 638. Per una più approfondita analisi si veda A. LIEVEN, Chechnya: The Tombstone of
Russia’s Power, New Haven/London, 1998.
59
Z. BRZEZINSKI, The Grand Chessboard, cit., p. 46.
60
M.F. TAYFUR - K. GÖYMEN, Decision Making in Turkish Foreign Policy: The Caspian Oil
Pipeline Issue, cit., p. 110.
82
1993 61 – salvo cadere vittima, dopo la caduta di Elçibey, del riavvicinamento di
Aliyev a Mosca. A riaprire definitivamente la partita del trasporto energetico –
che, significativamente, minacciava il tradizionale monopolio russo – contribuiva
però la firma, nel settembre 1994, del cosiddetto “contratto del secolo” tra Aliyev
e il consorzio dell’Azerbaijan International Oil Company (Aioc). Il contratto,
finalizzato allo sfruttamento di tre giacimenti caspici azeri 62 , prevedeva infatti
l’individuazione, in un primo tempo, di una rotta per il cosiddetto early oil e,
successivamente, del tragitto per il passaggio della Main Export Pipeline (Mep).
La Turchia, rappresentata nell’Aioc da una modesta quota dell’1,75% in capo alla
Tpao 63 , tornava così a concentrarsi sul nodo del trasporto energetico, favorita
questa volta dalla internazionalizzazione della questione.
Se infatti, come sostiene Larrabee, “pipeline projects acquired the role played by
railways in late nineteenth century diplomacy, as weapons in a struggle for
political as well as economic penetration” 64 , essi costituivano, al contempo, un
fondamentale strumento, in capo agli Sni, per il rafforzamento della propria
sovranità e della propria indipendenza rispetto alla sistematizzazione russocentrica
dello spazio post-sovietico. Principalmente in questa prospettiva 65 ,
l’amministrazione Clinton entrava nella partita degli oleodotti caspici, dichiarando
nel gennaio 1995, attraverso il proprio ambasciatore ad Ankara 66 , il proprio
sostegno ai progetti di trasporto predisposti dalla Turchia, come parte del più
ambizioso progetto per la predisposizione di un corridoio energetico est-ovest in
grado di coinvolgere i paesi produttori di energia dell’area transcaucasica e
centroasiatica.
61
Il memorandum prevedeva l’avvio della costruzione dell’oleodotto, da finanziare con
investimenti di istituzioni internazionali e banche estere, a partire dal 1994. A dimostrazione del
tentativo turco di mantenere una posizione di equidistanza nel contemporaneo conflitto nell’Alto
Karabakh, nessuna indicazione veniva fornita circa il percorso dell’oleodotto, lasciando così aperta
una possibile rotta attraverso l’Armenia. P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish Foreign Policy
since the Cold War, cit., p. 303.
62
Va segnalato come, attorno alla titolarità dei giacimenti energetici del Caspio, la Russia
sollevasse la questione dello status internazionale del bacino. La connotazione internazionale di
“lago”, piuttosto che di “mare”, implicava difatti una “sovranità congiunta” sulla gran parte dello
spazio del bacino, con un parallela riduzione delle zone economiche esclusive degli stati
rivieraschi. La Turchia, non avendo uno sbocco sul bacino, restava formalmente fuori dalla
controversia legale, pur manifestando il proprio sostegno a favore della posizione azera.
Sul punto, B.H. OXMAN, Caspian Sea or Lake: What Difference Does It Make?, in «Caspian
Crossroads Magazine», 1, 1996, 4; B. JANUSZ, The Caspian Sea: Legal Status and Regime
Problems, in «RIIA/REP Briefing Papers», 2005, 2.
63
La partecipazione della Tpao sarebbe cresciuta, sulla base di un accordo siglato il 12 aprile
1995, di un ulteriore 5% ceduto dalla compagnia petrolifera azera Socar. Nell’assicurarsi una
maggior quota partecipativa, la Tpao anticipava un analogo tentativo iraniano. Cfr. Keesing's
Record of World Events, 48, April 1995.
64
S. LARRABEE, cit. in W. HALE, Turkish Foreign Policy 1774-2000, cit., p. 271.
65
In questo senso, il senatore Brownback, membro del Comitato per le Relazioni Estere del
Senato, in S. BROWNBACK, U.S. Economic and Strategic Interests in the Caspian Sea Region:
Policies and Implications, in «Caspian Crossroads Magazine», 3, 1997, 2.
66
P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish Foreign Policy since the Cold War, cit., p. 305.
83
La politica transcaucasica della Turchia assumeva così, agli occhi dei suoi
beneficiari, la più profonda connotazione di avamposto degli interessi regionali
statunitensi. Su questo sfondo, la questione connessa alla individuazione della
rotta per l’early oil azero, rappresentò una prima importante saldatura degli
interessi e delle posizioni turche con quelle dell’Azerbaigian e di una Georgia che
avrebbe assunto, da allora, un ruolo di primo piano nella politica regionale di
Ankara. In alternativa a una rotta settentrionale tra Baku e il terminale russo di
Novorossijsk 67 , la Turchia, a seguito della visita del presidente Demirel a Tbilisi
del novembre 1994, proponeva infatti la costruzione di un oleodotto tra Baku e
Supsa, in Georgia 68 . Oltre a determinare un rilevante ambito di cooperazione
regionale – aperto ufficialmente con la firma, nel febbraio 1995, dell’Early Oil
Transportation Agreement tra Turchia e Georgia – la realizzazione di tale rotta era
interpretata, ad Ankara, come primo passo per la possibile individuazione della
Mep lungo la direttrice Baku-Ceyhan. Non è un caso, in questo senso, che il
Ministero per gli Affari Esteri turco proponesse di finanziare la sua realizzazione,
a patto che venisse contemporaneamente ufficializzato un impegno alla successiva
predisposizione del prolungamento verso la Turchia 69 .
Come già accaduto in precedenza rispetto ai conflitti nel Transcaucaso, anche in
questo caso, tuttavia, la Turchia manifestò la propria incapacità di predisporre una
linea di politica estera coerente e univoca. La mancanza di coordinamento tra le
67
Il tentativo turco di sottrarre credibilità internazionale alla rotta verso il terminale russo sul Mar
Nero, si concretò, prima ancora che sul piano strettamente tecnico, nella approvazione di una
nuova regolamentazione – entrata in vigore nel novembre 1994 – per la limitazione del passaggio
di natanti attraverso gli stretti del Bosforo, unico sbocco al mare per le petroliere russe provenienti
da Novorossiisk. La motivazione addotta era di natura strettamente ambientale, ricollegata al
rischio di catastrofe ecologica in un’area, quella di Istanbul, abitata da più di 10 milioni di persone.
B. SASLEY, Turkey's Energy Politics in the Post-Cold War Era, in «Middle East Review of
International Affairs», 2, 1998, 4, pp. 31-32. Per l’evoluzione della regolamentazione sul
passaggio attraverso gli Stretti, Y. GÜÇLÜ, Regulation Of The Passage Through The Turkish
Straits, in «Perceptions», 6, 2001, 1.
68
Il percorso, se da un lato rifletteva l’opposizione azera a una rotta armena e quella statunitense a
una iraniana, dimostrava, al contempo, il pragmatismo insito nelle scelte turche. Numerose erano
state infatti le pressioni interne a sostegno del terminale georgiano di Batumi, capoluogo della
regione a maggioranza musulmana dell’Agiaria. Tale soluzione era, in particolare, propugnata
dalla compagnia nazionale per il gas (Boru Hatları İle Petrol Taşıma A.Ş. - BOTAŞ), allora
egemonizzata politicamente dal Partito Nazionalista di Azione. Su questo sfondo, la volontà di non
fornire sostegno alle istanze autonomistiche proprie della regione e, di conseguenza, di non creare
motivi d’attrito con Tbilisi, induceva il Ministero per gli Affari Esteri turco a gettare il proprio
peso a favore del terminale alternativo di Supsa – soluzione peraltro propinata dallo stesso Aioc.
Sulle diverse alternative e posizioni internazionali sulla questione delle rotte petrolifere, E.
YAZDANI, Competition over the Caspian Oil Routes: Oilers and Gamers Perspective, in
«Alternatives», 5, 2006, 1/2.
69
Finanziamento dell’opera era condizionato inoltre all’acquisto esclusivo, da parte della Turchia,
del petrolio trasportato, rispetto ala cui quantità Ankara richiedeva un impegno formale per un
periodo di otto anni. Infine, la costruzione sarebbe dovuta essere opera di compagnie turche o di
consorzi internazionali a guida turca. P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish Foreign Policy
since the Cold War, cit., pp. 306-307.
84
principali istituzioni nazionali interessate allo sviluppo della cooperazione
energetica si tradusse infatti in uno scontro tra le diverse anime dello spettro politico
turco 70 che, in un momento di elevata instabilità istituzionale 71 , comportò nel luglio
1996 il ritiro dell’offerta turca di finanziamento dell’oleodotto azero-georgiano, a
opera del governo Erbakan. Su questo sfondo, fu dunque solo il decisivo intervento
dell’amministrazione Clinton – promotrice di una soluzione multipla per il trasporto
dell’early oil attraverso le due rotte concorrenti – a favorire la scelta dell’oleodotto
Baku-Supsa, formalizzata dall’Aioc nell’ottobre 1995 72 senza che tuttavia Ankara
fosse riuscita a promuovere il proprio interesse rispetto alla individuazione della
rotta della Mep.
Lungi dall’esaurirsi con la chiusura della controversia relativa all’early oil,
l’attivo coinvolgimento statunitense nella questione energetica si manifestò con
ancor maggiore determinazione anche in relazione alla successiva individuazione
della rotta per la Mep. Al di là delle pressioni a più riprese esercitate sull’Aioc per
l’approvazione del progetto di trasporto tra Baku e Ceyhan via Tbilisi (Btc) 73 ,
l’esplicito sostegno alla rotta veniva inserito, a partire dal 1997, nella più ampia
formulazione di una strategia regionale indirizzata a favorire lo sviluppo di una
rete infrastrutturale est-ovest. Rete che faceva della Turchia il perno regionale di
un ambizioso sistema di oleodotti e gasdotti transcaucasici e centroasiatici 74 .
Forte del rinnovato sostegno statunitense, a cavallo tra il 1997 e il 1998,
l’influente Consiglio di Sicurezza Nazionale (Csn) turco interveniva direttamente
nella formulazione e nel coordinamento della politica energetica del paese. Le sue
linee guida 75 entravano così, per la prima volta, a far parte del “Documento sulla
70
Sulla mancanza di un centro decisionale unico rispetto alla politica energetica, così come di
meccanismi per il coordinamento dei diversi attori in gioco, M.F. TAYFUR - K. GÖYMEN,
Decision Making in Turkish Foreign Policy: The Caspian Oil Pipeline Issue, cit., pp. 111-117; G.
WINROW, Turkey and the Caucasus: Domestic Interests and Security Concerns, cit., pp. 27-29.
71
Tra l’ottobre 1995 e il luglio 1996, si alternarono infatti in Turchia tre diversi governi retti da
maggioranze differenti, due a guida della Çiller (ottobre-novembre ’95 e novembre ’95-marzo
’96), uno di Yılmaz (marzo-luglio ’96).
72
S. BOLUKBASI, The Controversy over Caspian Mineral Resources, in «Europe-Asia Studies»,
50, 1998, 3, p. 404.
73
Sull’evoluzione della politica statunitense verso il Caspio, con particolare riferimento al progetto
Btc, J. JOFI, Pipeline Diplomacy: the Clinton Administration’s Fight for Baku-Ceyhan, in «WWS
Case Study», 1999, 1; S. KOBER, The Great Game, Round 2: Washington’s Misguided Support
for the Baku-Ceyhan Oil Pipeline, in «Cato Institute Foreign Policy Briefings», 2000, 63.
74
L’oleodotto Btc avrebbe difatti beneficiato, nelle intenzioni statunitensi, del petrolio estratto nei
giacimenti kazaki e trasportato a Baku dal terminale di Aktau. Parallelamente veniva lanciato il
progetto Trans-Caspian Gas Pipeline, un gasdotto sottomarino per collegare i giacimenti del
Turkmenistan con Baku, da dove un gasdotto parallelo alla Btc avrebbe raggiunto la Turchia.
75
I contorni della politica energetica turca per il secolo a venire erano identificati attorno a quattro
punti salienti: (a) la collocazione geografica della Turchia e il suo sistema politico ed economico
rendono il Paese uno snodo quasi obbligato sul percorso delle rotte energetiche verso occidente;
(b) il crescente fabbisogno energetico della Turchia impone di ottenere il massimo beneficio dalla
produzione del Caspio; (c) la rotta Baku-Ceyhan risulta centrale per la politica energetica
nazionale; (d) fermo restando il sostegno alla rotta Baku-Ceyhan la Turchia deve promuovere la
85
Politica Nazionale” del 1998. Significativamente, inoltre, il Csn riconosceva
ufficialmente al Ministero per gli Affari Esteri la titolarità dell’adozione delle
misure necessarie al conseguimento degli obiettivi così determinati.
A partire dalla primavera 1998 si moltiplicarono dunque i contatti tra Ankara,
Tbilisi e Baku in vista della approvazione del progetto Btc. Un esplicito impegno
in tal senso veniva così sancito dalla “Dichiarazione di Ankara”, siglata
nell’ottobre successivo, in occasione dei 75 anni dalla proclamazione della
Repubblica Turca. La presenza, tra i firmatari, del Presidente uzbeko Karimov e
del kazako Nazarbaev, rimarcava una volta di più la portata eurasiatica della
collaborazione energetica nell’area del Transcaucaso, in perfetta sintonia con la
politica regionale della Casa Bianca – rappresentata, nell’occasione, dal
Segretario per l’Energia Bill Richardson. Su questo sfondo, l’accordo
intergovernativo per la costruzione della Btc – accompagnato da sei accordi
quadro – veniva infine siglato da Demirel, Aliyev e Shevarnadze, alla presenza di
Clinton, nel novembre 1999 a Istanbul, a margine di un summit Osce. 76 D’altro
canto, tra il 1999 e il 2000, la scoperta di nuovi fecondi giacimenti petroliferi in
Azerbaigian e Kazachstan, contribuiva a fugare i dubbi sulla valenza economica
del progetto sino ad allora nutriti dall’Aioc 77 . Dopo una serie di studi di fattibilità
condotti a partire dal 2000, la costruzione della Btc iniziava così nell’estate 2002
per essere completata nel maggio del 2005.
Parallelamente, nel marzo 2001, Baku e Ankara si accordavano per la costruzione
di un gasdotto che, seguendo lo stesso percorso della Btc, avrebbe collegato i
giacimenti azeri al terminale turco di Erzurum. L’accordo, ratificato dal parlamento
turco nel febbraio del 2003, prevede il completamento del gasdotto entro la fine del
2006 78 . Secondo le stime della BOTAŞ, l’Azerbaigian fornirà, di conseguenza, il
13% del consumo nazionale di gas entro il 2010 79 .
2.2 Politica regionale di sicurezza
La centralità assunta dalle iniziative regionali degli Stati Uniti nella strategia
transcaucasica perseguita dalla Turchia a partire dal 1994 emerse in tutta evidenza,
più ampia cooperazione regionale, in particolare nei confronti della Russia. M.F. TAYFUR - K.
GÖYMEN, Decision Making in Turkish Foreign Policy: The Caspian Oil Pipeline Issue, cit., p.
103.
76
Quanto determinante fosse stato il sostegno statunitense risultò evidente dall’entusiasmo con il
quale Clinton salutò l’accordo, indicando come “one of the my proudest accomplishments […] the
Caspian pipeline agreement, which I believe, 30 years from now, you'll all look back on as one of
the most important things that happened this year”. H. KAZAZ, Clinton's Proudest Achievement
This Year Is Caspian Pipeline Agreement, in «Turkish Daily News», 11 December 1999.
77
Ö.Z. OKTAV, American Policies Towards the Caspian Sea and The Baku-Tbilisi-Ceyhan
Pipeline, in «Perceptions», 10, 2005, 1, pp. 27-28.
78
N. DEVLET, Turkey’s Energy Policy in the Next Decade, in «Perceptions», 9, 2004/2005, 4, p.
76.
79
Ibidem, p. 75.
86
oltre che sul piano energetico, su quello della cooperazione alla sicurezza. La
progressiva trasformazione della Nato da alleanza difensiva in meccanismo di
cooperazione per la sicurezza e la stabilità dell’area eurasiatica 80 coinvolse infatti,
sin dal principio, le repubbliche del Transcaucaso. Il summit di Bruxelles del
gennaio 1994 costituì in questo quadro un fondamentale spartiacque, nella misura in
cui, attraverso il lancio della Partnership for Peace (Pfp), veniva offerto agli Sni un
primo canale istituzionale di cooperazione bilaterale con l’Alleanza Atlantica
finalizzato “to develop, over the longer term, forces that are better able to operate
with those of the members” 81 . Obiettivo, questo, tanto più significativo se letto alla
luce della contemporanea approvazione del Combined Joint Task Force Concept,
designato a fornire all’Alleanza uno strumento flessibile per operazioni di
peacekeeping aperte alla partecipazione di stati non membri 82 . Georgia e
Azerbaigian siglavano il Pfp Framework Document rispettivamente nel marzo e
maggio del 1994, seguiti dalla Armenia in ottobre.
La dissoluzione dell’Unione Sovietica non aveva rappresentato, per la Turchia,
una diminuzione della percezione di minaccia proveniente da nord-est che, al
contrario, non poté che essere accentuata dal successo con il quale, tra il 1993 e il
1994, la Russia era riuscita a riportare Georgia e Armenia nella propria orbita
militare. Non stupisce dunque che la Turchia fosse tra i promotori della Pfp 83 , e
che ne sfruttasse a fondo le potenzialità di cooperazione regionale 84 , assumendo il
ruolo di principale punto di collegamento tra la Nato e il Transcaucaso. In questo
senso, ad esempio, può essere letta la proposta turca, espressa al summit di Sintra
del maggio 1997, per l’apertura ad Ankara di un Pfp Training Center. Il centro,
inaugurato nel successivo giugno 1998 e finalizzato “to provide qualitative
training and education support to partners in accordance with NATO and Pfp
general principles and interoperability objectives” 85 , dava la misura dell’impegno
80
W. CHRISTOPHER - W.J. PERRY, NATO’s True Mission, in «New York Times», 21 October
1997.
81
Ulteriori obiettivi del programma, espressamente rivolto a colmare il vuoto di sicurezza
determinatosi, con la caduta dell’Unione Sovietica, nello scacchiere eurasiatico, erano “to
facilitate transparency in national defence planning and budgeting processes; to ensure
democratic control of defence forces; to maintain the capability and readiness to contribute to
operations under the authority of the United Nations and/or the responsibility of the OSCE; to
develop cooperative military relations with NATO, for the purposes of joint planning, training and
exercises, in order to strengthen ability of Pfp participants to undertake mission in the field of
peacekeeping, search and rescue, humanitarian operations, and others as may subsequently be
agreed”. NORTH ATLANTIC TREATY ORGANISATION, NATO Handbook, Bruxelles, 2001,
p. 68.
82
Ibidem, pp. 253-255.
83
Y. İNAN - İ. YUSUF, Partnership For Peace, in «Perceptions», 4, 1999, 2.
84
In questa prospettiva, la Turchia beneficiava peraltro della presenza, in Georgia e Azerbaigian,
di propri attachés militari che, al contrario, Washington nominerà solo nella seconda metà degli
anni ’90. Nella prima fase di sviluppo della Pfp, la Turchia giocò un ruolo quasi esclusivo
nell’approntare gli accordi logistici necessari al suo sviluppo.
85
PARTNERSHIP
FOR
PEACE
TRAINING
CENTER,
Our
Mission,
http://www.bioem.tsk.mil.tr.
87
turco alla cooperazione regionale per la sicurezza. Stando ai dati forniti dal centro,
tra le venti nazionalità sino a oggi fruitrici dei corsi di addestramento, i militari
azeri sono stati secondi solo a quelli provenienti dall’Ucraina, mentre i georgiani
quarti 86 . L’interoperabilità dei contingenti Nato e di quelli azero-georgiani veniva
poi propugnata attraverso le esercitazioni militari cui, a partire dal 1997, presero
parte contingenti azeri e georgiani, sempre al fianco di quelli turchi.
Lungi dall’esaurirsi con i programmi attuati sotto l’egida Nato, l’impegno di
Ankara rispetto all’ammodernamento e organizzazione degli apparati militari di
Azerbaigian e Georgia, costituì una parte essenziale della profonda cooperazione
bilaterale inaugurata, tra il 1996 e il 1997, dalla Turchia. Dopo un primo accordo di
cooperazione tecnico-scientifica siglato nel 1996 tra il Ministero della Difesa azero
e il Capo di Stato Maggiore turco 87 , nel maggio 1997, in occasione di una visita ad
Ankara di Aliyev, i due paesi approfondivano la misura della cooperazione.
Nell’occasione veniva infatti siglata una dichiarazione sulla Deepened Strategic
Cooperation che, benché segretata nel contenuto, impegnava Turchia e Azerbaigian,
secondo il Turkish Daily News, “[to] help each other within the context of their
strategic partnership using methods foreseen by the United Nations in the event that
their sovereignty, territorial integrity, and the inviolability of their borders are
endangered” 88 . Anche nei confronti della Georgia, l’avvio della cooperazione
militare fu segnato, nell’estate 1996, dall’iniziativa dello Stato Maggiore, che si
accordava per l’addestramento militare dell’esercito e per la predisposizione di
esercitazioni congiunte. Ulteriori accordi di addestramento e assistenza finanziaria e
tecnologica venivano siglati nel settembre 1997, a seguito della visita di Demirel a
Tbilisi, nel giugno 1998 e nel marzo 1999 89 . Complessivamente, tra il 1997 e il
giugno del 2005 – data della firma dell’ultimo accordo per la sicurezza – Ankara ha
sostenuto la modernizzazione delle forze armate georgiane con un impegno
finanziario pari a 37 milioni di dollari 90 .
Tra i fattori che hanno contribuito al lancio della cooperazione militare tra la
Turchia e i suoi partner trancaucasici, un ruolo di primo piano ha di certo svolto la
86
Va peraltro rimarcato come il totale dei militari provenienti dalle 10 repubbliche dell’ex fianco
meridionale sovietico – dalla Moldova sino al Tagikistan – abbia costituito l’80% sul totale dei
militari addestrati sotto l’egida della Pfp. TURKISH PFP TRAINING CENTER, About the
Center, http://www.bioem.tsk.mil.tr.
87
Lo Stato Maggiore turco era stato tradizionalmente in prima linea nel sostenere la necessità di
una più stretta collaborazione militare tra Turchia e Azerbaigian. L’allora Capo di Stato Maggiore,
Güreş, era stato il primo rappresentante delle istituzioni turche a visitare Baku – un mese prima
che l’Azerbaigian venisse ufficialmente riconosciuto. Logico presupporre inoltre, nonostante le
smentite ufficiali, che allo Stato Maggiore vada ascritta la paternità dell’accordo in base al quale,
nel 1992, un centinaio di ex-ufficiali turchi arrivavano in Azerbaigian in qualità di consiglieri
militari – per essere poi espulsi in conseguenza del riavvicinamento di Aliyev a Mosca.
88
Cit. in G.E. HOWARD, NATO and the Caucasus: The Caspian Axis, in S.J. BLANK (ed.),
NATO After Enlargement: New Challenges, New Missions, New Forces, Carlisle, 1998, p. 177.
89
J. FEINBERG, The Armed Forces in Georgia, in «Center for Defense Information Monograph»,
March 1999, p. 28.
90
D. LYNCH, Why Georgia Matters, in «Chaillot Papers», 2006, 86, p. 58.
88
comune volontà di controbilanciare la pressione russa sull’area. Una necessità,
questa, tanto più avvertita in relazione ai contemporanei sforzi di Mosca volti a
ottenere una favorevole revisione dei tetti imposti dal trattato sulle Forze
Convenzionali in Europa (1990) ai contingenti dispiegabili nella flank zone del
Caucaso 91 . Per la Georgia, la presa di distanza da Mosca si concretava
principalmente nella possibilità di assumere direttamente la responsabilità del
pattugliamento dei propri confini e delle acque territoriali nel Mar Nero. In questa
prospettiva, dal 1996 la Turchia – assieme a Germania, Stati Uniti e Ucraina –
lanciava un programma di addestramento di truppe di frontiera, che dall’estate
1999, a seguito del ritiro russo, divenivano operative sul confine turco-georgiano
in Agiaria. Parallelamente, con Stati Uniti e Gran Bretagna, la Turchia assumeva
l’onere di dotare Tbilisi di una marina militare in grado di assicurare un
pattugliamento costiero sino ad allora esclusiva responsabilità delle imbarcazioni
russe 92 . In questa prospettiva, Ankara cedeva alla Georgia una delle 17
imbarcazioni che avrebbero costituito la base della marina e organizzava
contestualmente un’esercitazione navale congiunta, la “Kavkazskaya Amazoni98”, nel maggio 1998 93 . A partire dal luglio successivo, la marina georgiana
iniziava dunque la progressiva sostituzione di quella russa.
Allo stesso modo, per l’Azerbaigian, la cooperazione militare con la Turchia – il
cui esercito era numericamente secondo, in ambito Nato, solo a quello
statunitense – rappresentava anzitutto un contrappeso alla crescente cooperazione
russo-armena. Non è un caso, in questo senso, che la Deepened Strategic
Cooperation turco-azera venisse lanciata a breve distanza rispetto all’emergere
dello scandalo del “Yerevangate”, legato alla rivelazione del trasferimento di
armamenti russi all’Armenia per un valore superiore al miliardo di dollari, nel
periodo 1994-1996 94 .
91
Mosca richiedeva inoltre che dal computo totale delle forza dispiegate venissero esclusi i
contingenti impegnati in attività di peacekeeping. Per l’analisi delle problematiche che
emergevano rispetto alla applicazione e alla revisione del Trattato CFE, R.A. FALKENRATH,
The CFE Flank Dispute: Waiting in the Wings, in «International Security», 19, 1995, 4; G.
AYBET, The CFE Treaty: The Way Forward For Conventional Arms Control In Europe, in
«Perceptions», 3, 1996, 4; R. HUBER, NATO Enlargement and CFE Ceilings: A Preliminary
Analysis in Anticipation of a Russian Proposal, in «European Security», 5, 1996, 3.
92
A rendere l’esigenza di cooperazione navale con Tbilisi più pressante, l’incidente occorso nel
marzo 1996, allorché una nave militare russa apriva il fuoco su un peschereccio turco in acque
territoriali georgiane, causando un pesante incidente diplomatico tra Ankara e Mosca. G.E.
HOWARD, NATO and the Caucasus: The Caspian Axis, cit., p. 185.
93
J. FEINBERG, The Armed Forces in Georgia, cit., pp. 27-28.
94
“The massive transfer of arms also included the gift of over 32 Scud ballistic missiles and 8
associated launchers to the Armenian military. Armenian military personnel even received
extensive training in the use of the missiles at the Russian testing range of Kapustin Yar in mid1996. […] Moreover, the transfer of nearly 100 sophisticated T-72 tanks and 50 armored vehicles
greatly augmented the military muscle of the Armenian-backed forces of Nagorno-Karabakh”.
G.E. HOWARD, NATO and the Caucasus: The Caspian Axis, cit., p. 196.
89
Se è innegabile, come sostiene Köknar, che “having established a sophisticated
combination of military, law enforcement, and intelligence relationship with
Azerbaijan and Georgia, [Turkey] has been successful in exerting its power to
offset […] other competing influences” 95 , non si può non riconoscere, tuttavia,
come tale “combinazione” abbia determinato una serie di ricadute negative sulla
più ampia sicurezza dell’area transcaucasica. La stessa centralità assunta dalla
Turchia rispetto alle iniziative regionali della Nato, ad esempio, finiva per pesare
sulla volontà di collaborazione dell’Armenia, spinta più risolutamente a cercare
altrove garanzie di sicurezza e sostegno finanziario-tecnologico. Se il Trattato di
Amicizia, Collaborazione e Mutua Assistenza siglato con la Russia nell’agosto
1997 confermava una volta di più la centralità rivestita da Mosca nella politica
estera armena, Erevan inaugurava contemporaneamente la cooperazione alla
sicurezza con la Grecia 96 . In questo quadro, i tre accordi militari greco-armeni
siglati tra il 1996 e il 1997 – assieme al lancio di una cooperazione trilaterale tra
Grecia, Armenia e Iran 97 – fomentarono i timori di “accerchiamento”,
tradizionalmente parte integrante delle politiche di sicurezza di Ankara 98 . Il
processo di polarizzazione degli schieramenti regionali ebbe modo di manifestarsi,
in tutta evidenza, nel corso del 1999. Lo scoppio della crisi kosovara, sullo sfondo
della ridefinizione del Concetto Strategico dell’Alleanza Atlantica, vide Georgia e
Azerbaigian prendere, da un lato, le distanze dalla condanna della Csi
dell’intervento Nato e, dall’altro, dispiegare propri contingenti nel Turkbat, il
battaglione turco di peacekeeping di stanza in Kosovo nell’ambito della Kfor 99 .
Parallelamente essi dichiaravano inoltre la propria intenzione di non rinnovare il
Trattato sulla Sicurezza Collettiva della Csi – al contrario dell’Armenia che lo
sottoscriveva, assieme a Russia, Bielorussia, Kazachstan, Kirghizistan e
Tagikistan in aprile.
La progressiva connotazione di “gioco a somma zero” che la cooperazione alla
sicurezza andò assumendo nella regione transcaucasica nel corso della seconda
metà degli anni ’90, non poté d’altro canto che influire negativamente sulla stessa
95
A.M. KÖKNAR, Turkey and the Caucasus: Security and Military Challenges, in M. RADU
(ed.), Dangerous Neighborhood: Contemporary Issues in Turkey’s Foreign Relations, cit., p. 93.
96
Significativamente, Atene diveniva al contempo il canale privilegiato per la cooperazione tra
l’Armenia e la Nato, come dimostrato dalla partecipazione di contingenti armeni alla esercitazione
militare Prometheus-97 organizzata e ospitata dalla Grecia nel dicembre 1997.
97
Nonostante il meccanismo trilaterale avesse una connotazione principalmente economica,
l’incontro dei ministri degli esteri dei tre paesi a Teheran nel settembre 1998 sollevò notevoli
preoccupazioni ad Ankara. Riferendosi all’incontro, il Ministro degli esteri turco Cem arrivò ad
accusare la Grecia di “recruit Muslim soldiers to take part in the new Crusades”. Cit. in P.
ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish Foreign Policy since the Cold War, cit., p. 171.
98
Il riferimento va qui a quella che viene comunemente indicata come la “sindrome di Sèvres”.
Richiamando l’omonimo trattato del 1920, base della spartizione del territorio turco tra le grandi
potenze, si sottolinea la costante percezione di minaccia alla integrità territoriale turca proveniente
dall’azione congiunta degli avversari regionali di Ankara.
99
G. WINROW, Turkey and the Caucasus: Domestic Interests and Security Concerns, cit., p. 25;
A.M. KÖKNAR, Turkey and the Caucasus: Security and Military Challenges, cit., p. 95.
90
efficacia della azione di Ankara. Non stupisce infatti che, su questo sfondo, la
proposta avanzata dalla Turchia nel luglio 1998 per la creazione, in ambito Pfp, di
una forza di peacekeeping Nato per il Caucaso, fosse destinata al fallimento. Un
fallimento, quest’ultimo, tanto più rilevante in ragione della primaria importanza
che Georgia e Azerbaigian avevano attribuito a tale possibilità sin dall’inizio della
collaborazione con la Nato.
Che la Turchia fosse consapevole dei rischi che la polarizzazione degli schieramenti
regionali portava con sé, risulta evidente dalla considerazione che, anche in questa
fase, il maggior attivismo di Ankara nel Transcaucaso non si traduceva nel
rovesciamento della tradizionale cautela della propria politica estera. Non è un caso,
in questo senso, che la Turchia, non solo non entrasse in alleanze militari con
Georgia e/o Azerbaigian 100 , ma evitasse contemporaneamente di assumere
iniziative autonome di peacekeeping 101 o di avvicinarsi a quelle formazioni
regionali, quali il Guuam, percepite come schieramenti regionali anti-russi 102 .
Secondo la stessa logica, mostrava inoltre tutta la propria ritrosia a lanciare progetti
di pattugliamento congiunti turco-georgiano-azeri per garantire la sicurezza delle
rotte petrolifere che attraversavano – o avrebbero attraversato – i rispettivi territori,
lambendo zone di conflitto o, nel caso della Turchia, soggette alle attività
terroristiche del Pkk 103 .
100
Baku in particolare, in risposta alla saldatura militare dell’asse russo-armeno, sembra abbia
insistito sulla possibilità di un patto di mutua difesa in almeno due occasioni. La prima di queste
risale al maggio 1997, allorché, a seguito dello “Yerevangate”, dopo intensi colloqui con lo Stato
Maggiore turco, Aliyev riusciva a ottenere solo il blando impegno contenuto nella dichiarazione
sulla Deepened Strategic Cooperation (G.E. HOWARD, NATO and the Caucasus: The Caspian
Axis, cit., pp. 176-177). Ancora, in occasione della visita ad Ankara del febbraio 1999, Aliyev
richiedeva senza successo un trattato turco-azero ricalcato sul patto di Amicizia Collaborazione e
Mutua Assistenza russo-armeno del 1997 (D.B. SEZER, Turkish-Russian Relations: From
Adversity to ‘Virtual Rapprochement’, in A. MAKOVSKY - S. SAYARI, Turkey’s New World, p.
100). Parallelamente il governo turco smentiva la possibilità, adombrata dal Consigliere per la
Politica Estera azero Gülüzade, dell’apertura di una base militare turca in Azerbaigian (G.
WINROW, Turkey and the Caucasus: Domestic Interests and Security Concerns, cit., pp. 24-25).
101
In questo senso va letto il rifiuto opposto da Ankara, nel dicembre 2001, alla proposta
georgiana di sostituzione delle truppe di peacekeeping russe schierate sul confine tra la Georgia e
l’Abkhazia. V. KORKMAZ, Dynamics of Turkish Foreign Policy Towards South Caucasus;
Continuities and Changes, in N. ATEŞOĞLU GÜNEY - F. AKSU (eds.), Proceedings of the
International Conference on the Prospects for Cooperation and Stability in the Caucasus, March
1st, 2005, İstanbul, İstanbul 2005, p. 29.
102
Il favore con il quale buona parte degli analisti statunitensi guardava alla possibilità
dell’ingresso turco nel gruppo consultivo del Guuam, è ben dimostrato dall’auspicio espresso in tal
senso da Brzezinski nel settembre 1999. RFE/RL Newsline, 3, 1999, 183.
103
Un accordo a tre in tal senso veniva siglato, in un mutato contesto regionale, nel successivo
2002. I. TORBAKOV, A New Security Arrangement Takes Shape In The South Caucasus, in
«Eurasia Insight», 24 January 2002.
91
3. Il processo di revisione della politica transcaucasica turca a partire dal 2000
Per quanto la linea pragmatica di politica transcaucasica turca avesse fatto registrare,
tra il 1995 e il 2000, una serie di rilevanti successi sul piano della cooperazione
militare ed energetica, essa non era tuttavia riuscita a offrire a Georgia e
Azerbaigian concrete alternative per risolvere quelle problematiche che ancora ne
inficiavano il processo di state building. Il congelamento dei rispettivi conflitti
interni, associato a una cooperazione energetica che aveva mancato di assicurare
quei veloci e cospicui dividendi economici che essi avevano auspicato, finirono per
mettere in luce le contraddizioni insite nella politica regionale turca, sullo sfondo
dell’allineamento a quella statunitense. Contraddizioni legate a una politica estera
che, pur perseguendo una linea di basso profilo, aveva finito tuttavia per divenire
parte integrante di un progressivo processo di polarizzazione degli schieramenti
regionali. Contraddizioni infine che, rese più evidenti dalla più assertiva politica
transcaucasica inaugurata dalla Russia di Vladimir Putin tra il 1999 e il 2000, fecero
registrare un netto arretramento delle posizioni conquistate da Ankara nell’area,
imponendo una ridefinizione degli strumenti di cooperazione verso l’area.
3.1 La nuova strategia regionale della Turchia
La dissoluzione dell’Unione Sovietica non aveva comportato, come detto, una
ridefinizione del concetto strategico alla base della politica estera turca. La
percezione di una minaccia proveniente dalla Russia aveva così determinato
buona parte delle scelte compiute da Ankara verso il Transcaucaso nel corso degli
anni Novanta, tanto sul piano energetico quanto della sicurezza. Tra la fine degli
anni Novanta e l’inizio degli anni 2000, tuttavia, maturava ad Ankara un ampio
dibattito sulla revisione del fondamento del proprio concetto strategico 104 .
Incentivato in larga misura dalla prospettiva di apertura dei negoziati per
l’ingresso nell’Ue – a seguito della decisione del Summit di Helsinki del dicembre
1999 – e favorito dal clima di più ampia cooperazione regionale determinatosi
all’indomani dell’11 settembre, esso si traduceva in un cambio di prospettiva
riguardo l’azione di politica regionale. Una azione che, pur mantenendo ferma la
cooperazione tradizionalmente perseguita sotto l’egida delle organizzazioni
regionali di cui era parte – Nato e Osce in primis – poneva rinnovata enfasi sulla
collaborazione multilaterale e sulla necessità di coinvolgimento di tutti gli attori
transcaucasici nel tentativo di colmare quel vuoto di sicurezza che ancora minava
la stabilità dell’area.
In questa prospettiva, e sullo sfondo di un deciso riavvicinamento di Ankara a
Mosca 105 , Demirel si faceva promotore, nel gennaio del 2000, di un Patto di
104
Si veda, a riguardo, P. BILGIN, Turkey’s Changing Security Discourses: The Challenge of
Globalisation, in «European Journal of Political Research», 44, 2005, 1.
105
Sul punto, F. HILL - O. TASPINAR, Russia and Turkey in the Caucasus: Moving Together to
Preserve the Status Quo?, in «IFRI Russie Nei Visions», 2006, 8.
92
Stabilità per il Caucaso modellato su quello già approvato per i Balcani nel luglio
1999 106 . L’accordo, proposto in occasione di una visita a Tbilisi del 14 e 15
gennaio, era rivolto alla costituzione di un meccanismo deputato, in linea con le
norme e i valori Osce, alla più ampia gestione dei conflitti ancora aperti nel
Transcaucaso, e alla successiva predisposizione di uno strumento di diplomazia
preventiva. Il Patto, aperto alla partecipazione di tutti i membri Osce, veniva
espressamente proposto alle tre repubbliche transcaucasiche e alla Russia 107 .
Il contemporaneo fallimento del negoziato di pace di Davon tra Armenia e
Azerbaigian per l’Alto Karabakh, tuttavia, limitava sul nascere le possibilità di
successo dell’iniziativa turca. Inoltre, rimarcando una volta di più la limitata
libertà d’azione nel Transcaucaso che la partnership turco-azera concedeva ad
Ankara, Erevan e Mosca condizionavano la firma di un accordo sul Caucaso alla
normalizzazione dei rapporti tra Turchia e Armenia.
L’accento posto da Ankara sullo sviluppo della cooperazione multilaterale nel
Transcaucaso si riflesse inoltre, a partire dal 1999, nella rinnovata attenzione
verso quella Bsec che costituiva l’unica struttura regionale comprendente, oltre
alla Turchia, le repubbliche transcaucasiche e la Russia. Tra il 1999 e il 2001, la
Bsec si dotava infatti di uno statuto e di un ambizioso piano d’azione economica,
enfatizzando “the importance of joint projects which would bring in tangibile
benefits and stimulate internal reforms and integration of national economies in
the region” 108 . Significativamente inoltre, se fino al 1999 la Bsec aveva
manifestato l’intenzione di sostenere la pace e la stabilità regionale “by applying
the pragmatic concept that economic cooperation is an effective confidencebuilding measure and serves as a pillar in the new European architecture” 109 , con
la dichiarazione rilasciata a margine del Decennial Summit di Istanbul del giugno
2002, si sottolineava l’intenzione di “to consider ways and means of enhancing
contribution of the Bsec to strengthening security and stability in the region” 110 .
Che la cooperazione nel bacino del Mar Nero assumesse una rinnovata centralità
nel quadro della politica transcaucasica di Ankara, è ulteriormente dimostrato
dalla contemporanea ripresa di un progetto, datato 1998, per la cooperazione
navale alla sicurezza dell’area 111 . Prendeva così forma il Black Sea Naval
Cooperation Task Group (Blackseafor). Formalizzato a Istanbul nell’aprile 2001 a
106
S. GULTASLI, Demirel Suggests Caucasus Stability Pact, in «Turkish Daily News», 16
January 2000.
107
G. WINROW, Turkey and the Caucasus: Domestic Interests and Security Concerns, cit., pp.
60-61.
108
M. AYDIN, Europe’s Next Shore: The Black Sea Region after EU Enlargement, in «ISS
Occasional Papers», 2004, 53, p. 22.
109
BLACK SEA ECONOMIC COOPERATION, Istanbul Summit Declaration, Istanbul, 17
November 1999, http://www.bsec-organization.org.
110
REPUBLIC OF TURKEY, MINISTRY OF FOREIGN AFFAIRS, The Text of the Istanbul
Decennial Summit Declaration (25 June, 2002), http://www.mfa.gov.tr.
111
H. ULUSOY, A New Formation in the Black Sea: BLACKSEAFOR, in «Perceptions», 4,
2001/2002, 4.
93
opera dei sei stati rivieraschi del Mar Nero, il meccanismo, con l’obiettivo di
approfondire la cooperazione tra i suoi partecipanti e contribuire alla stabilità
dell’area, veniva finalizzato al compimento di missioni di salvataggio, umanitarie,
di sminamento e di protezione ambientale nel bacino 112 . Su iniziativa turca,
inoltre, la Blackseafor lanciava, a partire dall’incontro dei Ministri degli Esteri
tenutosi ad Ankara nel gennaio 2004, un forum di consultazione politica, nel cui
ambito l’organizzazione aggiungeva alle proprie finalità la cooperazione
antiterroristica e contro il traffico di armi di distruzione di massa 113 . L’iniziativa,
oltre a segnare un’ulteriore saldatura della cooperazione russo-turca, marcava per
la prima volta, la presa di distanza di Ankara dalla politica regionale di sicurezza
propugnata dagli Stati Uniti. Evidente risultava infatti la concorrenzialità del
progetto rispetto all’operazione navale Nato Active Endeavour, lanciata nel
Mediterraneo con le stesse finalità a partire dall’ottobre 2001, e suscettibile, nei
programmi statunitensi, di estendersi al bacino del Mar Nero 114 . Come
sottolineato da un recente hearing innanzi alla Commissione del Senato
statunitense per le Relazioni Estere, l’opposizione turca a una simile eventualità
sembrava fondarsi, prima ancora che sulla volontà di non aprire il passaggio
attraverso gli Stretti a unità navali non appartenenti a stati rivieraschi, sul
proposito di evitare nuove linee di polarizzazione nello spazio transcaucasico 115 .
La presa di distanza dalla politica transcaucasica di Washington era peraltro già
emersa, sebbene in maniera più latente, rispetto alla freddezza con la quale
Ankara aveva accolto la “rivoluzione delle rose” georgiana, nel novembre 2003.
L’enfasi posta dalla Casa Bianca sul processo di democratizzazione del
Transcaucaso – sullo sfondo del più generale impegno a favore della
democratizzazione nello spazio del Grande Medio Oriente – era passibile, agli
occhi di Ankara, di tradursi in un rinnovato impegno a favore della causa
dell’autodeterminazione dei popoli. Principio che, prima ancora che contraddire le
linee guida della politica regionale di Ankara, veniva percepito come minaccia
all’integrità territoriale turca 116 – tanto più in connessione alla rinascita
dell’insorgenza curda interna e alle prospettive di partizione dell’Iraq, oltre che,
naturalmente, alle rivendicazioni armene sul territorio anatolico.
112
BLACKSEAFOR, Agreement for the Establishment of Black Sea Naval Cooperation Task
Group, http://www.blackseafor.org.
113
Si vedano, in questo senso, le dichiarazioni di Ankara (19 gennaio 2004), Mosca (7 luglio
2004) e Kiev (31 marzo 2005), in REPUBLIC OF TURKEY, MINISTRY OF FOREIGN
AFFAIRS, BLACKSEAFOR, http://www.mfa.gov.tr.
114
Russia agrees to join Turkish security operation in Black Sea, in «RIA Novosti», 29 June 2006.
D’altro canto l’opposizione turca all’estensione del progetto al Mar Nero si è già manifestata,
bloccandolo, nel giugno 2004. B.P. JACKSON, The Future of Democracy in the Black Sea Area,
in «Hearing before the Committee on Foreign Relations, United States Senate», 8 March 2005,
p.4, http://www.foreign.senate.gov.
115
Z. BARAN, The Future of Democracy in the Black Sea Area, in «Hearing before the
Committee on Foreign Relations, United States Senate», 8 March 2005, pp. 9-10,
http://www.foreign.senate.gov.
116
Z. BARAN, The Future of Democracy in the Black Sea Area, cit.
94
Il tentativo turco di propugnare un meccanismo regionale multilaterale per la “soft
security cooperation” è stato d’altro canto frutto di un più generale processo di
“europeizzazione” della politica estera turca, inteso come il “foreign policy
change at the national level originated by the adaptation pressures and the new
opportunities generated by the European integration process” 117 . La decisione del
Summit europeo di Helsinki di accordare alla Turchia lo status di candidato
all’ingresso nell’Ue, ha infatti costituito un elemento determinante sulla strada
della revisione della politica transcaucasica di Ankara. La cooperazione per la
lotta la terrorismo, alla diffusione e al traffico delle armi di distruzione di massa,
così come al traffico internazionale di stupefacenti, è in questo senso pienamente
in linea con la strategia di sicurezza europea adottata nel dicembre 2003 118 .
La prospettiva di apertura dei negoziati per l’ingresso nell’Unione imponeva
peraltro al governo turco di affrontare i nodi irrisolti della politica estera di
Ankara, di risolvere cioè quei contenziosi regionali che ne mettevano a rischio il
cammino europeo. La centralità rivestita, per il governo Erdoğan, dal vettore
europeo della politica estera si traduceva quindi nella necessità di riaprire, sul
versante transcaucasico, la datata e insidiosa questione della normalizzazione dei
rapporti con l’Armenia 119 . Il summit Nato di Madrid, del giugno 2003, costituiva
in questo senso un primo importante spartiacque. Nell’occasione infatti, a margine
di un incontro separato tra il Ministro degli Esteri armeno Oskanian e il turco Gül,
quest’ultimo dichiarava l’intenzione di perseguire la riconciliazione dei due paesi
“with renewed energy” 120 . Condizionando la normalizzazione dei rapporti
esclusivamente alla fine delle rivendicazioni armene sull’Anatolia orientale, Gül,
nel tentativo di svincolare i rapporti turchi con l’Armenia da quelli con
l’Azerbaigian, modificava considerevolmente la posizione tenuta dalla Turchia
nel precedente decennio. Nonostante una serie di incontri successivi, tra l’estate
del 2003 e il 2004, le possibilità di soluzione del contenzioso sono andate tuttavia
progressivamente assottigliandosi. Un primo rilevante ostacolo è stato
rappresentato dalla dura reazione azera alla prospettiva di riapertura delle frontiere
turco-armene che, dall’angolazione di Baku, si sarebbe tradotta in un duro colpo
117
J. VAQUER, cit. in G. WINROW, Turkey’s Changing Regional Role and Its Implications, in
«Paper Presented at the Conference “Europeanization and Transformation: Turkey in the PostHelsinki Era”», Istanbul, 2-3 December 2005, p. 4, http://www.ces.bilgi.edu.tr.
118
M. EMERSON - N. TOCCI, Turkey as a Bridgehead and Spearhead: Integrating EU and
Turkish Foreign Policy, in «CEPS EU-Turkey Working Papers», 2004, 1, p.4.
119
La collegata possibilità di riapertura del confine turco-armeno, risultava peraltro importante per
contrastare il progressivo impoverimento dei distretti orientali di Kars, Van e Ardahan. Una
necessità tanto più avvertita ad Ankara in connessione alla riduzione dello squilibrio economico
regionale che costituisce un non secondario problema sulla strada dell’ingresso turco nell’Unione.
Sulle implicazioni economiche della chiusura della frontiera, B. GÜLTEKIN, The Stakes of the
Opening of Turkish-Armenian Border: The Cross-Border Contacts between Armenia and Turkey,
in «French Institute of Anatolian Studies Working Paper», 2002), http://www.tabdc.org.
120
H. KHACHATRIAN, Olive Branch from Ankara Raise Hopes and Challenges in Armenia, in
«Eurasia Insight», 24 June 2003.
95
al proprio potere negoziale rispetto all’Alto Karabakh 121 . D’altro canto, il dibattito
interno alla Turchia sulla questione armena si è andato progressivamente
intrecciando con quello relativo alla effettiva desiderabilità dell’ingresso
nell’Unione Europea, i cui sostenitori diminuirono notevolmente dopo lo
slittamento dei termini per l’apertura dei negoziati, previsti per il dicembre 2004.
Su questo sfondo, la ripresa della campagna internazionale per il riconoscimento
del genocidio armeno in occasione del suo novantennale (aprile 2005), le
connesse manifestazioni di solidarietà al popolo armeno provenienti dalle
principali capitali e dal Parlamento Europeo 122 , nonché le pressioni esercitate su
Ankara dalla Commissione Europea 123 , rinvigorivano la tradizionale “sindrome di
accerchiamento” diffusa in Turchia. La questione della normalizzazione dei
rapporti con l’Armenia finiva così per essere vittima del più ampio scontro tra il
riformismo del governo Erdoğan e il conservatorismo di buona parte dello spettro
politico e istituzionale turco, per il quale il cammino europeo imponeva
un’inaccettabile ridimensionamento delle garanzie di sicurezza nazionale.
4. Conclusioni
Il Transcaucaso ha rappresentato, a partire dal 1991, un importante banco di prova
per la ridefinizione del ruolo internazionale e regionale della Turchia. Se il fallito
tentativo di proporsi agli Sni come modello di sviluppo era frutto, anzitutto, della
volontà di rifondare una valenza strategica internazionale post-guerra fredda, allo
stesso modo il pragmatico tentativo di bilanciare una più assertiva politica regionale
con il tradizionale legame con le organizzazioni euro-atlantiche, era in linea con
l’affermazione di una “good international citizenship” 124 . Del tentativo cioè di
presentarsi, agli occhi dei propri alleati internazionali, come affidabile attore
regionale, punto di riferimento centrale per attività multilaterali in paesi limitrofi o
culturalmente affini alla Turchia – dalla Georgia all’Azerbaigian, dalla Bosnia alla
Albania, dal Kosovo all’Afghanistan.
Una good international citizenship che nella seconda metà degli anni Novanta è
tuttavia rimasta vittima, nello spazio postsovietico, della eccessiva identificazione
della Turchia con le iniziative regionali di Washington che, favorendo la
polarizzazione di schieramenti contrapposti, hanno finito per minare le
121
F. ISMAILZADE, Azerbaijan Concerned by Possible Turkish-Armenian Normalization, in
«Eurasia Insight», 7 July 2003.
122
Il Parlamento Europeo, che ha riconosciuto il genocidio armeno nel 1987, apriva la seduta del
14 aprile con un minuto di silenzio a memoria delle sue vittime. Armenians Seek EU Platform for
Disputes with Turkey, in «Turkish Daily News», 15 April 2005.
123
In maggio, il rappresentante della Commissione Europea ad Ankara, Kretschmer, dopo aver
rimarcato le mancanze istituzionali e legislative che ancora ostacolavano il percorso della Turchia
verso l’Unione Europea, aggiungeva che “The Armenian issue is not a criterion for membership.
But it is an issue that Turkey needs to urgently face up to”. Kretschmer: Turkey Far from Meeting
EU Entry Conditions, in «Turkish Daily News», 7 May 2005.
124
P. ROBINS, Suits and Uniforms: Turkish Foreign Policy since the Cold War, cit., p.42.
96
fondamenta del tentativo turco di non lasciarsi catturare dalla competizione
regionale con l’Iran e, soprattutto, con la Russia. In questo senso, dunque, la
cooperazione con il Transcaucaso si va delineando oggi come frutto del tentativo
di propugnare una nuova politica regionale che, con una spiccata enfasi sul
multilateralismo e un rinnovato interesse alla cooperazione con Mosca, persegua
più risolutamente l’interesse nazionale turco.
Se la politica transcaucasica di Ankara è risultata centrale nel rifondare la valenza
strategica del paese rispetto ai propri partner occidentali, essa ha al contempo
rivestito un ruolo di primo piano anche sul piano interno. Essa ha infatti
rappresentato un terreno privilegiato di scontro e di sintesi per le diverse istanze
generate dal processo di democratizzazione aperto in Turchia nel corso degli anni
Novanta. La nuova dialettica inter-istituzionale, il rapporto della politica con la
società civile, il ruolo dell’iniziativa economica e culturale privata, sono tutte
questioni che si sono infatti intrecciate a doppio filo con la predisposizione della
politica verso il Transcaucaso.
Lungi dall’essersi concluso, il processo di ridefinizione del ruolo internazionale e
regionale di Ankara – e con esso la cornice nella quale sviluppare i rapporti con il
Transcaucaso – resta ancora aperto e incerto negli sbocchi. La prospettiva di
ingresso nell’Ue, così come la rinnovata attenzione che Bruxelles ha rivolto al
Caucaso a partire dal 2004, rappresentano elementi di potenziale rafforzamento e
stabilizzazione della politica regionale della Turchia, passibile di divenire l’unico
confine europeo terreste con il Transcaucaso. Molto dipenderà, in questo senso,
dalla capacità di entrambe le parti di armonizzare i propri interessi e le proprie
politiche nell’area, dalla capacità di Bruxelles di sostenere le iniziative regionali
turche – come, ad esempio, il Patto di Stabilità per il Caucaso – e, parallelamente,
di quella di Ankara di liberarsi dei legacci che ancora ne imbrigliano la politica
regionale – a partire dalla risoluzione di quella questione armena che continua a
rappresentare il principale ostacolo al superamento del deficit di sicurezza del
Transcaucaso.
97
FONTI ENERGETICHE E INFRASTRUTTURE
DI TRASPORTO
Silvia Tosi
1. Le risorse energetiche del bacino del Mar Caspio
Negli ultimi anni la regione del Mar Caspio e del Caucaso ha sempre più
richiamato l’attenzione internazionale: politici e analisti hanno infatti
ripetutamente sottolineato la rilevanza degli Stati rivieraschi e delle risorse
energetiche (petrolio e gas naturale) da essi possedute in misura consistente.
Merita sottolineare tuttavia che mancano statistiche ufficiali relative alle riserve e
alla produzione delle risorse del bacino del Caspio e le stime variano
considerevolmente. Tanto in Russia quanto in Iran (due dei cinque Stati
rivieraschi del Mar Caspio) lo sfruttamento delle risorse situate nel bacino del
Caspio è stato finora relativamente ridotto, sicché la quasi totalità delle riserve e
della produzione di idrocarburi della regione provengono dalle repubbliche un
tempo appartenenti all’Unione Sovietica, che nel complesso possiedono riserve
petrolifere stimate pari a 48,5 miliardi di barili, ovvero equivalenti ad un sesto
delle riserve dei Paesi non appartenenti all’Opec, e nel 2005 hanno prodotto quasi
2 milioni e 300mila barili di petrolio al giorno, pari all’incirca al 5 per cento della
produzione non-Opec 1 . Così riviste, le stime relative alle riserve petrolifere del
Caspio variano tra i 17 e i 33 miliardi di barili (equivalenti rispettivamente alle
riserve del Qatar e degli Stati Uniti), con una produzione che secondo gli analisti
nel 2010 dovrebbe assestarsi tra i 2 milioni e mezzo e i 6 milioni di barili al
giorno (superiore nel complesso alla produzione del Venezuela, il principale
produttore petrolifero dell’America Latina), mentre le stime relative alle riserve di
gas naturale ammontano a poco meno di 7 miliardi di metri cubi (più o meno
equivalenti alle riserve di gas dell’Arabia Saudita) 2 .
La crescente rilevanza internazionale della regione si è rispecchiata quindi in un
deciso incremento nella produzione e nell’estrazione di queste preziose risorse,
particolarmente evidente nelle repubbliche dell’ex-Unione Sovietica a seguito
dell’indipendenza, e soprattutto in Kazachstan e Azerbaigian, grazie alla
1
BP, Statistical Review of World Energy 2006, London, 2006, pp. 4-6 e 20-22 (dati disponibili
aggiornati al 2005, http://www.bp.com) e United STATES ENERGY INFORMATION
ADMINISTRATION, International Energy Outlook 2005, Washington D.C., 2005, passim,
http://www.eia.doe.gov.
2
R. WINSTONE - R. YOUNG, The Caspian Basin, Energy Reserves and Potential Conflicts,
London, 2005, pp. 35-36.
98
realizzazione di alcuni nuovi progetti di sfruttamento relativi ai giacimenti di
Karachaganak (Kazachstan) e Azeri-Chirag-Gunashli (Azerbaigian) per ciò che
riguarda il petrolio, Kashagan (Kazachstan) e Shah Deniz (Azerbaigian) per il gas
naturale e Tengiz (Kazachstan) per entrambi. Basti pensare che il Kazachstan ha
più che triplicato la propria produzione tanto di petrolio quanto di gas rispetto al
1994 (passata rispettivamente da 430mila barili di petrolio al giorno a circa un
milione e 364mila nel 2005 e da poco più di 4 miliardi di metri cubi di gas
naturale a 23,5 miliardi nel 2005), mentre l’Azerbaigian ha più che raddoppiato la
propria produzione petrolifera (passata da 193mila barili al giorno nel 1994 a
452mila nel 2005) 3 . D’altra parte non si può fare a meno di notare che nonostante
le riserve di gas naturale nella regione siano molto più abbondanti delle risorse
petrolifere presenti, sono state queste ultime ad attirare una maggiore attenzione
sia nazionale che internazionale: lo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale è
stato finora tutto sommato ridotto soprattutto a causa dei più alti costi di
investimento rispetto al settore petrolifero, che oltre a costituire un potente
deterrente per i Governi locali alle prese con una lunga opera di ricostruzione
economica post-sovietica hanno ridotto gli incentivi anche per i potenziali
investitori internazionali 4 .
Tuttavia lo sfruttamento di queste importanti risorse ha incontrato diverse
difficoltà, legate, oltre che alla costosa tecnologia necessaria per avviare
l’esplorazione e lo sfruttamento dei giacimenti, alla localizzazione stessa dei
giacimenti (specialmente di quelli offshore), nonché alle condizioni politiche (e
geopolitiche) ed economiche dei singoli Stati rivieraschi.
La delimitazione delle rispettive porzioni di piattaforma continentale degli Stati
che si affacciano sul Mar Caspio ha in effetti costituito motivo di notevole attrito
tra gli stessi, rendendo per questo più difficoltosa l’opera di esplorazione e
sfruttamento delle risorse situate nel sottosuolo marino, specialmente laddove
queste ultime si trovino distanti dalle coste, ovvero i giacimenti occupino una
superficie tale da ricadere sotto la giurisdizione di Stati diversi. Il fallimento nel
corso degli anni di qualsiasi tentativo di raggiungere un accordo multilaterale
sulla questione ha incoraggiato gli Stati costieri, sull’esempio della Russia, a
definire la questione procedendo attraverso negoziati bilaterali. Questo
procedimento ha portato alla ratifica tra il 1998 e il 2003 di una serie di trattati
bilaterali tra Russia, Kazachstan e Azerbaigian che hanno definito la divisione del
suolo e sottosuolo del Caspio secondo il principio delle linee di equidistanza,
modificato al fine di mantenere l’unità di eventuali giacimenti situati a ridosso
della linea mediana, ma ha altresì condotto alla divisione del Caspio in due zone:
la prima, quella settentrionale, appunto spartita nella maniera suddetta, mentre la
seconda, quella meridionale, tuttora preda di apparentemente insolubili dispute tra
i tre Stati costieri interessati (Azerbaigian, Iran e Turkmenistan). I problemi
3
BP, Statistical Review of World Energy 2006, cit., pp. 6, 22.
R. WINSTONE - R. YOUNG, The Caspian Basin, Energy Reserves and Potential Conflicts, cit.,
p. 36.
4
99
principali per il raggiungimento di un accordo anche su questa seconda porzione
del Caspio riguardano tre importanti giacimenti di idrocarburi situati grosso modo
al centro del bacino del Caspio, che costituiscono materia di scontro tra
Azerbaigian e Turkmenistan per i relativi diritti di sfruttamento. Tuttavia il
maggiore ostacolo all’individuazione di un definitivo assetto della questione è
probabilmente costituito dalla posizione intransigente da sempre sostenuta
dall’Iran, contrario a qualsiasi sistemazione diversa dalla divisione del suolo, del
sottosuolo e della superficie del Mar Caspio in parti uguali tra i cinque Stati
rivieraschi, indipendentemente dalla lunghezza delle coste di ciascuno, e
soprattutto contrario a una sistemazione sulla base del principio delle linee di
equidistanza, che lascerebbe all’Iran lo sfruttamento soltanto del 14 per cento
circa del suolo e sottosuolo, favorendo viceversa Kazachstan e Turkmenistan
(rispettivamente 29 e 21 per cento) 5 .
Al problema della definizione dei diritti di sfruttamento del suolo e sottosuolo si
deve aggiungere la questione della gestione della superficie del Mar Caspio, che
ha importanti riflessi anche sul regolare sfruttamento delle risorse situate nel
sottosuolo. Sembra infatti che a tal proposito sia emerso un generico accordo tra i
cinque Stati interessati sull’opportunità che almeno l’area centrale del bacino sia
amministrata in comune dai Paesi costieri, sulla scia della posizione sempre
sostenuta dalla Russia, che in caso di gestione comune grazie al proprio superiore
potenziale militare sarebbe in grado di garantirsi l’effettivo controllo della
superficie del Caspio. D’altra parte il principio della gestione comune sembra,
almeno nelle intenzioni dei cinque Stati interessati, debba essere bilanciato dal
concetto non ancora ben definito di “zone nazionali costiere”, ovvero fasce di
mare adiacenti alla costa sulle quali ciascuno Stato manterrebbe la propria
giurisdizione. Proprio la mancata definizione dell’estensione di tali “zone
nazionali”, nonché del contenuto della giurisdizione detenuta da ciascuno Stato
sulla propria zona, può porre alcune questioni problematiche legate alla sicurezza
dell’intero bacino: infatti dal momento che i diritti di sfruttamento del suolo e del
sottosuolo sono definiti secondo il principio dell’equidistanza, potrebbe verificarsi
l’eventualità (per la verità nemmeno tanto remota) che le attività di sfruttamento
di giacimenti offshore compresi nella porzione di fondale marino assegnata ad uno
Stato possano realizzarsi al di là dei limiti della “zona nazionale” in cui lo stesso
Stato può esercitare la propria giurisdizione, con evidenti pericoli di attrito e
conflitto tra i diversi Stati.
Come si è detto, il problema di una definitiva ripartizione delle aree di
sfruttamento del Mar Caspio tra i diversi Stati costieri non è però l’unico ostacolo
all’attività di esplorazione dei giacimenti di idrocarburi: altre difficoltà sono
infatti legate alle condizioni dei singoli Stati della regione.
Per quanto l’Iran sia uno dei principali produttori mondiali di petrolio (il quarto
produttore mondiale e il secondo Paese con le maggiori riserve petrolifere,
5
Ibidem, pp. 10-11.
100
secondo le statistiche relative al 2005 contenute nella BP Statistical Review of
World Energy 2006 6 ) e l’unico Stato in grado di svolgere un ruolo vitale di
collegamento tra il Mar Caspio e il Golfo Persico, lo sfruttamento dei giacimenti
di idrocarburi nel settore iraniano del Caspio (le cui riserve ammonterebbero
peraltro a non più di 15 miliardi di barili di petrolio e 311 miliardi di metri cubi di
gas naturale, una piccola porzione rispetto alle riserve totali di idrocarburi del
Paese 7 ) è stato fortemente compromesso a causa delle pesanti sanzioni
economiche imposte al Paese dagli Stati Uniti, che hanno fortemente scoraggiato
gli investimenti delle compagnie americane e reso difficile per l’Iran attirare
capitali stranieri per iniziare nuovi progetti di esplorazione. L’Iran finora ha
dunque potuto “sfruttare” il proprio potenziale energetico nella regione del Caspio
soltanto in modo indiretto, grazie ad alcuni accordi in base ai quali il Paese
importa idrocarburi dagli altri Stati della regione ed esporta quantità equivalenti
dai propri terminali situati nel Golfo Persico, incrementando i propri guadagni
grazie alle tasse portuali e alle tariffe imposte sul transito. In tal modo l’Iran si è
proposto all’attenzione internazionale, soprattutto degli altri Stati della regione,
come Paese cruciale per lo sviluppo di corridoi di trasporto per il petrolio e il gas
provenienti dagli Stati del bacino del Caspio, privi di sbocchi sui mari aperti, e
diretti verso il Golfo Persico.
Nonostante le vaste riserve di gas naturale, anche lo sfruttamento delle risorse
energetiche del Turkmenistan è stato problematico, recuperando solo in parte
dopo il collasso successivo all’indipendenza. La ragione principale dello scarso
sfruttamento del potenziale energetico del Paese è da ricercarsi nella pesante
dipendenza dalla rete di gasdotti gestita dalla compagnia russa Gazprom, che
passando attraverso il territorio russo collega la regione ai mercati mondiali e che
ha costituito fino ad ora l’unico canale in grado di garantire il trasporto del gas
turkmeno verso i suoi principali mercati di esportazione, ovvero Federazione
russa e Ucraina. In conseguenza dei limiti imposti dalla rete gestita da Gazprom e
degli alti costi necessari per esportare il gas attraverso altri mezzi di trasporto, il
gas turkmeno ha sofferto di una sostanziale non competitività sui mercati
internazionali, riducendo gli incentivi ad aumentare la produzione e ad avviare
nuove attività di esplorazione e sfruttamento. Solo negli ultimi anni, a seguito di
alcuni accordi intercorsi tra Ashgabat e Mosca, il Paese ha potuto rinegoziare (e
quindi aumentare) i volumi di gas destinati all’esportazione tramite la rete di
gasdotti russa.
Nel complesso dunque i Paesi della regione che hanno attirato la maggiore
attenzione internazionale grazie alle potenzialità di sfruttamento delle proprie
risorse energetiche sono stati e sono tuttora Kazachstan e Azerbaigian, che sono i
principali responsabili dell’incremento (pari al 70 per cento) nella produzione di
petrolio avvenuto nei Paesi dell’ex-Unione Sovietica dopo l’indipendenza. Le
6
Dati tratti da BP, Statistical Review of World Energy 2006, cit., pp. 6, 8.
Dati tratti da UNITED STATES ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION,
International Energy Outlook 2005, cit. e BP, Statistical Review of World Energy 2006, cit.
7
101
riserve di petrolio del Kazachstan sono indubbiamente le più vaste del bacino del
Caspio (il Kazachstan è l’ottavo Paese al mondo per riserve di petrolio e
l’undicesimo per riserve di gas 8 ), raggiungendo quasi i 40 miliardi di barili
(superiori alle riserve della Nigeria e all’incirca equivalenti a quelle della Libia,
entrambi membri dell’Opec), mentre le riserve di gas naturale, pur se meno
abbondanti, sono comunque stimate poco al di sopra delle riserve turkmene. Da
solo, il Paese produce nel complesso all’incirca i due terzi degli idrocarburi
prodotti nell’intera regione del Caspio 9 : tale performance produttiva è stata
possibile soprattutto grazie ai massicci investimenti americani di cui ha
beneficiato il settore a partire dall’indipendenza del Paese, per un totale di 20
miliardi di dollari. In effetti più del 60 per cento degli investimenti nel settore
degli idrocarburi del Paese è stato effettuato da compagnie americane (Chevron
Texaco in testa): Chevron Texaco ed Exxon Mobil detengono nel complesso il 75
per cento (50 e 25 per cento rispettivamente) delle quote di partecipazione al
consorzio internazionale che nel 1993 ha iniziato l’esplorazione e lo sfruttamento
del giacimento (sia di petrolio che di gas) di Tengiz, il principale giacimento
onshore del Paese, mentre la stessa Exxon Mobil insieme a Conoco Phillips fa
parte di un secondo consorzio internazionale (di cui fra l’altro l’italiana Eni
costituisce l’operatore unico, dopo che la britannica British Gas ha ceduto la
propria quota ai partner nel 2004) costituito per lo sfruttamento del giacimento
(sia di petrolio che di gas) di Kashagan, il principale giacimento off shore 10 .
Nonostante il Kazachstan detenga le più vaste riserve di idrocarburi del bacino del
Caspio, lo Stato che ha ricevuto la maggiore attenzione internazionale negli ultimi
anni è stato l’Azerbaigian. Le riserve petrolifere del Paese, stimate intorno ai 7
miliardi di barili, corrispondenti allo 0,6 per cento delle riserve mondiali, sono
state sfruttate in misura crescente negli ultimi anni, tanto che a partire dal 1997 la
produzione di petrolio ha subito un incremento superiore al 10 per cento annuo
(con una crescita complessiva del 61 per cento negli ultimi cinque anni). A questa
performance positiva ha contribuito in misura sostanziale l’esplorazione e lo
sfruttamento da parte di un consorzio internazionale costituito nel 1994 e guidato
da British Petroleum dei giacimenti offshore di Azeri-Chirag-Gunashli: tali
giacimenti da soli hanno prodotto circa 400mila dei 452mila barili di greggio
estratti giornalmente dall’Azerbaigian nel 2005, e le stime prevedono un picco
produttivo (che peraltro sarà raggiunto molto presto, già nel 2008) superiore al
milione di barili al giorno 11 . Anche le riserve di gas naturale del Paese sono
considerevoli (all’incirca lo 0,8 per cento delle riserve mondiali, poco meno della
metà delle riserve situate in Kazachstan), ma il loro sfruttamento per anni è
rimasto limitato ai giacimenti onshore situati nella parte meridionale della
8
BP, Statistical Review of World Energy 2006, cit., pp. 6, 22.
R. WINSTONE - R. YOUNG, The Caspian Basin, Energy Reserves and Potential Conflicts, cit.,
p. 38.
10
Ibidem, p. 21.
11
Ibidem, p. 37 e BP AZERBAIJAN, Presentation, May 2006, http://www.bp.com.
9
102
penisola di Absheron. Solo a partire dal 1996, anno in cui è stato costituito il
relativo consorzio internazionale, sono iniziati l’esplorazione e lo sfruttamento del
giacimento di Shah Deniz, situato nel Mar Caspio circa 100 chilometri a sud-est
della capitale Baku, nonché la costruzione delle infrastrutture necessarie la cui
assenza aveva fino a quel momento impedito lo sfruttamento dei giacimenti
offshore di gas naturale. Secondo le stime di BP il giacimento di Shah Deniz
contiene riserve pari a poco meno di 450 miliardi di metri cubi, equivalenti a più
di un terzo delle riserve di gas situate in Azerbaigian 12 .
RISERVE DI PETROLIO (dati alla fine del 2005):
miliardi di
barili
7,0
quota sul
totale (%)
0,6
rapporto riserve/
produzione (anni)
42,4
Federazione Russa
74,4
6,2
21,4
Iran
137,5
11,5
93,0
Kazachstan
39,6
3,3
79,6
Totale ex-Unione Sovietica
Totale ex-Unione Sovietica
(esclusa Russia)
Totale Medio Oriente
122,9
10,2
28,4
48,5
4,0
n.d.
742,7
61,9
81,0
Totale OPEC
902,4
75,2
73,1
Totale non-OPEC
298,3
24,8
19,7
TOTALE MONDIALE
1200,7
100,0
40,6
Azerbaigian
Fonte: BP 2006
RISERVE DI GAS NATURALE (dati alla fine del 2005):
miliardi di metri
quota sul
cubi
totale (%)
rapporto riserve/
produzione (anni)
Azerbaigian
1370
0,8
> 100
Federazione Russa
47820
26,6
80
Iran
26740
14,9
> 100
Kazachstan
3000
1,7
> 100
Turkmenistan
2900
1,6
49,3
Totale Europa e Eurasia
64010
35,6
60,3
Totale Medio Oriente
72130
40,1
> 100
TOTALE MONDIALE
179830
100
65,1
Fonte: BP 2006
12
BP, Statistical Review of World Energy 2006, cit. e BP AZERBAIJAN, Presentation, cit.
103
PRODUZIONE PETROLIO (migliaia di barili al giorno):
2000
2001
2002
2003
2004
2005
Azerbaigian
281
300
311
Federazione Russa 6536 7056 7698
Iran
3818 3730 3414
Kazachstan
744
836
1018
Totale ex-Unione
8013 8659 9533
Sovietica
Totale ex-Unione
Sovietica (esclusa
1477 1603 1835
Russia)
Totale Medio
23501 22871 21471
Oriente
Totale OPEC
31393 30614 28882
Totale non-OPEC 43548 44122 45501
TOTALE
2432 2492 2533
MONDIALE
313
8544
3999
1111
317
9287
4081
1297
452
9551
4049
1364
quota sul totale
(%, dati 2005)
0,6
12,1
5,1
1,6
10499 11409 11844
14,8
1955
2293
2,8
23296 24588 25119
31,0
30806 32985 33836
46286 47214 47252
41,7
58,3
2623
100,0
2122
2704
2763
Fonte: BP 2006
PRODUZIONE DI GAS NATURALE (miliardi di metri cubi):
2000
2001
2002
2003
2004
2005
quota sul
totale (%,
dati 2005)
5,3
5,2
4,8
4,8
4,7
5,3
0,2
Federazione Russa
545,0
542,4
555,4
578,6
591,0
598,0
21,6
Iran
60,2
66,0
75,0
81,5
84,9
87,0
3,1
Kazachstan
10,8
10,8
10,6
12,9
20,6
23,5
0,9
Turkmenistan
43,8
47,9
49,9
55,1
54,6
58,8
2,1
959,5
967,7
989,4
1024,4 1055,9 1061,1
38,4
206,8
224,8
244,7
259,9
292,5
10,6
2432,3 2492,1 2532,6 2623,3 2703,8 2763,0
100,0
Azerbaigian
Totale Europa e
Eurasia
Totale Medio
Oriente
TOTALE
MONDIALE
Fonte: BP 2006
104
280,4
2. Il trasporto delle risorse attraverso il Caucaso: ragioni economiche e
“Grande Gioco” politico-strategico
Lo sviluppo dello sfruttamento delle risorse energetiche del Caspio e il
conseguente aumento della produzione di idrocarburi nella regione ha
naturalmente portato in primo piano la questione delle infrastrutture destinate a
trasportare tali risorse verso i mercati internazionali. Azerbaigian, Kazachstan e
Turkmenistan sono privi di sbocco su mari aperti e sono quindi obbligati ad
esportare le proprie risorse per mezzo di oleodotti e gasdotti che necessariamente
devono attraversare numerosi confini per raggiungere i principali mercati di
destinazione: non c’è dunque da stupirsi se la ricerca di potenziali “corridoi” di
trasporto attraverso gli Stati della regione è divenuta una priorità per le potenze
internazionali (regionali e non) e per le compagnie petrolifere operanti nel bacino
del Caspio.
105
106
Le repubbliche ex-sovietiche della regione hanno tradizionalmente utilizzato per
l’esportazione degli idrocarburi estratti dai propri giacimenti il sistema di
oleodotti e gasdotti russo, costruito in epoca sovietica, controllato dalla
compagnia statale Transneft e costituito da quasi 47mila chilometri di condotte
per una capacità massima di trasporto complessiva di 12,7 milioni di metri cubi 13 .
Si tratta di una rete di trasporto che risente pesantemente dell’eredità politica
sovietica, caratterizzata da un sistema “imperiale” che imponeva alle risorse
energetiche provenienti dal Caspio e dalle repubbliche periferiche il transito
attraverso il territorio russo, per poi raggiungere i terminali situati sul Baltico e
sulle coste ucraine del Mar Nero, oppure collegarsi all’oleodotto “Druzba”, il
principale canale di esportazione del petrolio russo verso l’Europa. In mancanza
di gasdotti e oleodotti che collegassero direttamente il bacino del Caspio ai
mercati di esportazione, la Russia ha quindi per lungo tempo detenuto un
monopolio del trasporto del gas e del petrolio al di fuori dell’ex-Unione Sovietica,
e in particolare verso Occidente 14 . Un dato innegabile tuttavia riguarda
l’obsolescenza della rete russa di oleodotti e gasdotti: all’incirca i tre quarti delle
condotte in questione ha più di vent’anni e quasi la metà ne ha più di trenta,
richiedendo quindi nel complesso una vasta (e costosa) opera di manutenzione e
riparazione della rete esistente, nonché l’elaborazione di progetti di costruzione di
nuove infrastrutture in grado di assorbire l’incremento produttivo derivante dal
crescente sfruttamento delle risorse estratte dal Caspio. Questa opera di
ammodernamento è stata in parte favorita dal contesto geopolitico emerso dalla
dissoluzione dell’Unione Sovietica, che ha privato Mosca di un facile accesso ai
terminali situati nelle repubbliche di nuova indipendenza, in particolare ai porti
ucraini ubicati sul Mar Nero. Dalla metà degli anni Novanta la realizzazione di un
nuovo corridoio per l’esportazione degli idrocarburi verso il Mar Nero è dunque
divenuta prioritaria: l’ampliamento del porto russo di Novorossijsk, con
l’obiettivo di farne il principale terminale per l’esportazione del petrolio
proveniente dal Caspio, è stata la necessaria premessa per la realizzazione della
variante Tikhoretsk-Novorossijsk, che innestandosi sull’oleodotto che in epoca
sovietica collegava Baku al porto di Odessa ha fatto sì che dal 1997 l’oleodotto
Baku-Novorossijsk, con una capacità di 100mila barili al giorno, divenisse l’unica
via di esportazione per il petrolio del Caspio caricato ai terminali di Sangachal,
presso la capitale azera 15 . Nel 2000 il percorso di tale condotta è stato modificato
al fine di evitare il passaggio sul territorio ceceno, e contestualmente è stato
realizzato un collegamento con il porto russo di Makhachkala sul Mar Caspio.
13
H.A. SADRI - A. VOLKOV, The Russian Pipeline System: Between Globalization and
Localization, in «East European Quarterly», 38, 2004, 3, pp. 383-384.
14
S.F. STARR - S.E. CORNELL, The Politics of Pipelines: Bringing Caspian Energy to Markets,
in «Saisphere 2005», Washington D.C., 2005, http://www.sais-jhu.edu/pubaffairs/publications/
saisphere/winter05.
15
H.A. SADRI - A. VOLKOV, The Russian Pipeline System: Between Globalization and
Localization, cit., p. 387 e US ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION, Caspian Sea
Regional Analysis Brief 2005, http://www.eia.doe.gov.
107
La portata comunque limitata dell’oleodotto Baku-Novorossijsk in rapporto alla
crescente produzione di idrocarburi nella regione del Caspio di cui si è parlato in
precedenza, unita al desiderio delle repubbliche ex-sovietiche di affrancarsi
definitivamente dal monopolio russo per ciò che riguarda il trasporto delle proprie
risorse energetiche, ha tuttavia incoraggiato la ricerca di rotte alternative e la
conseguente proliferazione di progetti più o meno realistici destinati a portare il
gas e il petrolio del Caspio in ogni angolo dell’Europa e dell’Asia, in cui
l’intreccio di ragioni economiche e ragioni politico-strategiche ha contribuito a
dare credibilità a proposte altrimenti giudicate impraticabili 16 . Dalla fine degli
anni Novanta Kazachstan e Turkmenistan hanno iniziato a studiare la possibilità
di realizzare nuove infrastrutture per il trasporto del petrolio e del gas estratti dal
Caspio verso Cina, Pakistan e India. Il sistema Trans-Afghan Pipelines, che
avrebbe dovuto essere composto da un oleodotto (Central Asia Oil Pipeline)
lungo quasi 1700 chilometri con una capacità di un milione di barili al giorno che
dal Kazachstan attraverso il Turkmenistan e l’Afghanistan avrebbe raggiunto il
Pakistan e proseguito verso l’India, e da un gasdotto (Centgas) lungo più di
duemila chilometri con una capacità di circa venti miliardi di metri cubi annui che
a sua volta avrebbe raggiunto Pakistan e India partendo dal Turkmenistan e
attraversando l’Afghanistan, non ha finora visto la luce, nonostante i
finanziamenti ricevuti dall’Asian Development Bank dopo la firma del relativo
memorandum d’intesa da parte dei Paesi interessati, l’interesse dichiarato da
diverse compagnie internazionali quali Gazprom e Petronas e il riavvicinamento
(peraltro di dubbia solidità) avvenuto tra India e Pakistan nel 2003. Allo stesso
modo, dopo il completamento dei relativi studi di fattibilità, sono stati più volte
abbandonati e poi ripresi tra il 2003 e il 2005 i progetti relativi a un oleodotto che
dal Kazachstan avrebbe dovuto trasportare il petrolio del Caspio fino alla regione
cinese dello Xinjiang 17 ; nel 2005 finalmente, dopo che diverse compagnie
petrolifere membri del consorzio che gestisce lo sfruttamento del giacimento
kazako di Kashagan si sono opposte all’ingresso nel consorzio delle due principali
compagnie petrolifere cinesi, è stato realizzato un oleodotto che collega il
terminale kazako di Atasu, nel nord del Paese, allo snodo ferroviario cinese di
Alashankou, nello Xinjiang, senza che ancora sia stato trovato un accordo sulla
possibilità di estendere tale oleodotto fino a raggiungere i giacimenti kazaki del
Caspio 18 .
Dei quattro principali progetti effettivamente realizzati, tutti diretti a trasportare le
risorse del Caspio verso ovest, l’oleodotto gestito dal Caspian Pipeline
Consortium (Cpc), una struttura lunga quasi 1600 chilometri con attualmente una
16
S.F. STARR - S.E. CORNELL, The Politics of Pipelines: Bringing Caspian Energy to Markets,
cit.
17
J. ROBERTS, Energy Reserves, Pipeline Politics and Security Implications, in The South
Caucasus: A Challenge for the EU, «Chaillot Papers», 2003, 65, pp. 94-95.
18
A. SUKHANOV, Caspian Oil Exports Heading East, in «Asia Times Online», 9 February 2005,
http://www.atimes.com e CENTRAL ASIA-CAUCASUS ANALYST – NEWS, KazakhstanChina Pipeline Completed, 16 November 2005, http://www.cacianalyst.org.
108
capacità di circa 600mila barili al giorno, destinata ad aumentare ad oltre un
milione e 300mila barili entro il 2015, è l’unico a transitare in territorio russo fino
a raggiungere il porto di Novorossijsk sul Mar Nero. Gli altri tre progetti hanno
enormemente accresciuto l’importanza internazionale della regione caucasica,
divenuta uno snodo fondamentale per l’esportazione del petrolio e del gas
provenienti dal Caspio. Dal 1999 è infatti operativo l’oleodotto Baku-Supsa,
costruito e gestito dal consorzio Aioc per esportare il petrolio estratto dai
giacimenti azeri offshore fino alle coste georgiane del Mar Nero: la capacità
originaria di questo oleodotto è stata successivamente accresciuta da 100mila a
circa 220mila barili scaricati giornalmente al terminale di Supsa, più altri 190mila
barili trasportati al porto georgiano di Batumi grazie all’utilizzo della linea
ferroviaria preesistente 19 . Nonostante gli aggiustamenti, la linea Baku-Supsa
mantiene comunque una capacità di trasporto limitata, insufficiente ad assorbire
l’incremento produttivo previsto dall’Aioc per lo sfruttamento dei giacimenti di
Azeri-Chirag-Gunashli: in effetti tale oleodotto non rappresenta che la cosiddetta
“Early Oil Western Route”, ovvero la linea provvisoriamente utilizzata dalle
compagnie del consorzio Aioc per l’esportazione del petrolio azero in attesa della
completa realizzazione del Main Export Pipeline, l’oleodotto che dai terminali di
Sangachal presso Baku e attraverso il territorio georgiano giunge fino al porto
turco di Ceyhan, direttamente sul Mar Mediterraneo. Questa colossale opera di
ingegneria, lunga oltre 1760 chilometri e costata 3,9 miliardi di dollari (quasi un
miliardo di dollari in più del previsto 20 ), costruita tra il 2002 e il 2005 e operativa
dalla metà del 2006 (il primo carico di petrolio è stato effettuato presso il
terminale di Ceyhan il 27 maggio 2006, un anno dopo l’apertura ufficiale
dell’oleodotto 21 ), è in grado di trasportare un milione di barili di greggio al giorno
a partire dal 2008: dati la dimensione e il ritmo di sfruttamento dei giacimenti di
Azeri-Chirag-Gunashli, le prospettive di lungo periodo dell’oleodotto Btc
dipendono tuttavia dalla possibilità di trasportare anche il petrolio kazako
proveniente dai giacimenti di Kashagan, al fine di evitare il rischio di un
prematuro esaurimento delle riserve petrolifere azere. In effetti il 16 giugno 2006
Azerbaigian e Kazachstan hanno firmato in accordo bilaterale che sancisce
definitivamente la partecipazione più volte annunciata di Astana al progetto Btc,
accordo in base al quale il Kazachstan esporterà tramite l’oleodotto Btc tra i 20 e i
25 milioni di tonnellate di greggio ogni anno, ovvero poco meno della metà del
19
L’accresciuta capacità di trasporto (da poco più di 130mila barili a 190mila barili al giorno)
della linea ferroviaria che collega la capitale dell’Azerbaigian al porto georgiano di Batumi,
seguendo un percorso parallelo all’oleodotto Baku-Supsa, è stata raggiunta in gran parte a seguito
dell’annuncio effettuato da ExxonMobil nel giugno 2005 secondo cui la compagnia petrolifera
avrebbe presto iniziato a inviare il greggio estratto dai propri giacimenti in Azerbaigian via treno
fino al porto di Batumi (US ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION, Caucasus Region
Country Analysis Brief, May 2006, http://www.eia.doe.gov/cabs/Caucasus).
20
BP’s Baku Pipeline 30% over Budget in «Financial Times», 20 April 2006.
21
Happy Ending Nears in Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline Project in «Turkish Daily News», 25
May 2006, http://www.turkishdailynews.com.tr.
109
petrolio totale trasportato annualmente da Baku a Ceyhan 22 . Il petrolio kazako
sarà inizialmente trasportato via nave dal porto di Kuryk, sulla sponda orientale
del Mar Caspio, al terminale di Sangachal, ma è allo studio la possibilità di
prolungare l’oleodotto Btc tramite un condotto sottomatino che raggiunga Aktau,
il principale porto kazako.
Per la verità l’oleodotto Btc fa parte di un sistema più ampio di trasporto delle
risorse energetiche che comprende anche un gasdotto “gemello” che dovrebbe
essere operativo a partire dalla seconda metà del 2006, il South Caucasus Pipeline
(Scp), che corre parallelo al Btc fino alla città turca di Erzurum, per poi
connettersi al sistema di gasdotti turco. Tale gasdotto, la cui capacità iniziale
dovrebbe essere di circa 7,2 miliardi di metri cubi all’anno (con una possibilità di
espansione fino a 20-30 miliardi di metri cubi annui quando il gasdotto funzionerà
a pieno regime 23 ), è destinato ad esportare verso l’Europa il gas naturale
proveniente dal giacimento off shore di Shah Deniz: tuttavia anche in questo caso
è allo studio la possibilità di prolungare il gasdotto fino al porto di Turkmenbashi
ed avere così accesso alle vaste riserve di gas naturale turkmene 24 .
Nel complesso quindi il Caucaso meridionale sembra essere divenuto una sorta di
“corridoio preferenziale” che grazie al sistema Btc-Scp e ai suoi potenziali
prolungamenti verso est (tramite il menzionato sistema di Trans-Caspian
Pipelines) e verso ovest (grazie ai progetti di costruzione di due prolungamenti del
sistema di gasdotti turco, rispettivamente verso Grecia e Italia e verso Bulgaria,
Romania, Ungheria e Austria, il cosiddetto “Progetto Nabucco”, entrambi allo
studio nell’ambito del Programma Inogate25 ) è in grado di collegare direttamente i
principali fornitori di risorse energetiche del bacino del Caspio ai mercati
occidentali. Al di là della diffusa retorica che tende considerare il Caucaso lo
snodo fondamentale per far rivivere una sorta di “Via della Seta del XXI secolo”,
e il sistema Btc-Scp la chiave di volta indispensabile per il completamento dei
programmi Traceca e Inogate e dei principali progetti riguardanti lo sviluppo dei
corridoi di trasporto trans-eurasiatici 26 , è innegabile che l’attenzione
internazionale dedicata alle nuove infrastrutture di trasporto delle risorse
energetiche passanti per il Caucaso non faccia altro che ribadire il crescente ruolo
del bacino del Caspio nel mercato globale delle fonti energetiche ed evidenziare la
22
Kazakh, Azeri Leaders Signed Agreement on Kazakh Oil’s Delivery Via BTC in «Today.Az», 16
June 2006, http://www.today.az e Azerbaijan: BTC Pipeline Hails Political Triumph in «Oxford
Analytica», 13 June 2006, http://www.oxan.com.
23
M. TSERETELI, Caspian Gas: Potential to Activate Europe in the South Caucasus, in «Central
Asia-Caucasus Analyst», 25 August 2004, http://www.cacianalyst.org e EUROPEAN BANK FOR
RECONSTRUCTION AND DEVELOPMENT, Project Summary Document. SOCAR – South
Caucasus Gas Pipeline, December 2003, http://www.ebrd.com/projects/psd/psd2003.
24
S.F. STARR - S.E. CORNELL, The Politics of Pipelines: Bringing Caspian Energy to Markets,
cit.
25
Intestate Oil and Gas Transport to Europe, http://www.inogate.org.
26
S.F. STARR - S.E. CORNELL, The Politics of Pipelines: Bringing Caspian Energy to Markets,
cit.
110
complessa realtà geopolitica di una regione in cui si intrecciano gli interessi
economici e politico-strategici delle potenze locali e delle grandi potenze extraregionali. Non sorprende, quindi, che la questione della scelta dei progetti e della
costruzione delle nuove infrastrutture, in genere già di per sé materia di negoziati
difficili tra compagnie petrolifere e stati di transito, nel caso degli oleodotti e dei
gasdotti passanti per il Caucaso abbia coinvolto una complessa miscela di
considerazioni tanto economiche quanto strategiche.
2.1 Le ragioni economiche: la questione della sicurezza energetica tra ricerca di
fonti alternative e “chokepoints”
La sicurezza energetica viene in genere definita come la capacità di assicurarsi il
soddisfacimento dei bisogni energetici futuri o come la capacità di avere accesso
in futuro a una sufficiente quantità di risorse energetiche ad un prezzo ragionevole
e senza rischio di gravi disservizi 27 . Il concetto alla base della sicurezza energetica
è quindi tradizionalmente connesso alla disponibilità fisica di risorse energetiche,
declinata tanto nel senso di capacità produttiva inutilizzata, particolarmente
importante per far fronte a improvvise e temporanee interruzioni negli
approvvigionamenti, quanto nel senso di diversificazione geografica della
produzione: in altre parole, maggiore è il numero delle regioni in grado di fornire
risorse energetiche, maggiore è in genere la stabilità dei mercati internazionali in
cui tali risorse vengono scambiate. Solitamente la questione della diversificazione
delle risorse è quindi intesa come possibile soluzione all’accentuata dipendenza
dalle risorse del Medio Oriente grazie all’incremento delle risorse disponibili
provenienti da Russia, bacino del Caspio, Africa occidentale, America Latina.
L’importanza delle risorse del Caspio risiede non tanto e non solo nella loro entità,
come si è visto indubbiamente notevole ma non certo in grado di modificare in
misura sostanziale la dipendenza energetica globale dal Medio Oriente, ma nella
possibilità che esse raggiungano il mercato mondiale restando complessivamente
sotto il controllo delle compagnie internazionali che hanno investito nella regione
e degli Stati esportatori, grazie ad un adeguato livello di investimento non soltanto
nello sviluppo delle risorse e della capacità produttiva, ma anche nella costruzione
delle relative infrastrutture di trasporto 28 . Di certo a questo fine è volta la
cosiddetta “Multiple Pipeline Strategy” promossa dagli Stati Uniti come l’unica
possibile strategia economicamente e politicamente valida per l’esportazione degli
idrocarburi del Caspio: per quanto inizialmente molte compagnie petrolifere
abbiano accolto con scarso favore il coinvolgimento politico americano nel
processo di scelta tra le varie possibili opzioni per il trasporto delle risorse del
Caspio, in questo caso tale partecipazione ha contribuito in misura determinante
all’individuazione di soluzioni economicamente efficienti, ed ha portato alla
27
28
G. BAHGAT, Central Asia and Energy Security, in «Asian Affairs», 37, 2006, 1, p. 1.
Ibidem, pp. 2-3.
111
costruzione prima degli oleodotti Baku-Supsa e Cpc (che nonostante si trovi in
gran parte sul territorio russo è gestito da un consorzio privato, sostanzialmente
indipendente dal monopolio di TransNeft, ed ha costituito una prima importante
alternativa al sistema tradizionale russo), e successivamente del sistema Btc-Scp e
dei progetti relativi al sistema di Trans-Caspian Pipelines 29 .
L’efficienza economica delle infrastrutture per il trasporto delle fonti energetiche
dipende, nel caso delle risorse del Caspio, sostanzialmente da tre fattori. Il primo
naturalmente è legato alla sicurezza fisica delle infrastrutture stesse, ovvero alla
possibilità di far fronte ai rischi connessi all’instabilità locale e all’eventualità che
gasdotti e oleodotti divengano potenziali obiettivi all’interno di conflitti regionali.
Ciò richiede l’individuazione di corridoi di trasporto che evitando le aree
caratterizzate da instabilità minimizzino la vulnerabilità delle strutture rispetto ai
conflitti civili o agli interventi militari stranieri, circostanze in cui eventuali
attacchi contro oleodotti e gasdotti possono essere parte di una strategia legata a
un conflitto più ampio, piuttosto che essere deliberatamente volti a interrompere i
flussi internazionali di risorse energetiche o danneggiare gli interessi delle
compagnie petrolifere. Nel contesto caucasico questa preoccupazione è
particolarmente evidente: la variante dell’oleodotto Baku-Novorossijsk,
completata nel 2000, è esplicitamente intesa ad aggirare il territorio ceceno,
ponendo la struttura al riparo dalla guerriglia. Analogamente, al favore con cui la
Georgia ha accolto il sistema Btc-Scp non è estranea la volontà di evitare da un
lato il transito in quelle regioni su cui Tbilisi non esercita un pieno controllo
(Abkhazia e Ossetia meridionale), dall’altro un’eccessiva dipendenza da quelle
infrastrutture appartenenti alla rete russa di trasporto delle risorse energetiche che
presentano a loro volta significativi rischi, come hanno drammaticamente
dimostrato le esplosioni che nel gennaio 2006 hanno coinvolto la rete di gasdotti
che collega la Georgia al suo vicino settentrionale, attribuite da Mosca ad attacchi
terroristici e da Tbilisi ad un deliberato gesto russo volto ad interrompere le
forniture di gas verso sud 30 . Da questo punto di vista anche l’oleodotto BakuSupsa risponde all’esigenza di garantire la sicurezza fisica delle forniture
energetiche: la sua “appendice” ferroviaria che conduce al porto di Batumi
attraversa la repubblica autonoma dell’Agiaria, un tempo teatro di tensioni
separatiste ma su cui Tbilisi ha ormai riguadagnato il controllo 31 .
Il dato più evidente relativo alla preoccupazione per la sicurezza fisica delle
infrastrutture è tuttavia la completa esclusione dell’Armenia dai corridoi di
trasporto che collegano il Caspio al Mar Nero e al Mediterraneo, e in particolare
dal percorso seguito dall’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan e dal gasdotto parallelo
29
S.E. CORNELL - M. TSERETELI - V. SOCOR, Geostrategic Implications of the Baku-TbilisiCeyhan Pipeline, in S.F. STARR - S.E. CORNELL (a cura di), The Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline:
Oil Window to the West, Washington D.C./Uppsala, 2005, p. 31, http://www.cacianalyst.org.
30
Caucasus: Georgia, Armenia Consider Options after Russia Pipeline Explosions, in «Radio
Free Europe/Radio Liberty – News & Analysis», 1 February 2006, http://www.rferl.org.
31
A. FERRARI, Il Caucaso. Popoli e conflitti di una frontiera europea, Roma, 2005, p. 96.
112
Baku-Tbilisi-Erzurum: un’esclusione peraltro inevitabile dato il contenzioso
ancora aperto tra Armenia e Azerbaigian per il controllo dell’Alto Karabakh e la
provenienza delle risorse che transitano attraverso il Caucaso, per ora
esclusivamente da giacimenti azeri. Il sistema Btc-Scp, destinato di fatto ad
ottenere una sorta di “monopolio” delle esportazioni di idrocarburi
dall’Azerbaigian verso occidente, ha infatti profonde implicazioni per la sicurezza
energetica dei Paesi importatori, che dipendono dal petrolio e dal gas trasportati
grazie a queste condotte, ma anche per gli Stati esportatori (Azerbaigian in primis,
ma anche Kazachstan e, potenzialmente, Turkmenistan), per i quali tali
infrastrutture costituiscono una fonte primaria di entrate. Non sorprende dunque
che per garantirne il regolare funzionamento, al riparo da qualsiasi rischio per la
loro sicurezza fisica, il percorso dei due condotti sia stato allungato attraverso la
Georgia, a scapito di un possibile tragitto più breve attraverso l’instabile confine
tra Azerbaigian e Armenia.
L’esclusione armena ha più che mai esposto il Paese ai rischi di interruzione delle
forniture energetiche dalla Russia, spingendo pertanto Erevan ad affidarsi al
gasdotto tuttora in costruzione tra Armenia e Iran come unica possibile soluzione
alle proprie esigenze di diversificazione delle fonti di approvvigionamento
energetico, finora limitate al gasdotto che collega il Paese alla Russia attraverso la
Georgia. Le prospettive di prolungamento di questa nuova condotta, da un lato
fino a collegarsi all’intero sistema iraniano, e fino ai vasti giacimenti di gas
turkmeni, dall’altro lato fino a raggiungere la Georgia (e quindi potenzialmente il
Mar Nero e l’Europa), ne accentuano ulteriormente l’importanza come fonte di
approvvigionamento energetico alternativa alla Russia per gli stessi Paesi
caucasici, e in particolare, oltre naturalmente all’Armenia, per la Georgia 32 .
Sennonché – anche a voler escludere le problematiche relative alla crisi nucleare
iraniana – nella primavera del 2006 la compagnia russa Gazprom, che insieme
all’altra società russa Itera detiene la quota maggiore di ArmRosGazprom, la
compagnia che gestisce la quasi totalità delle attività energetiche armene, ha
ripetutamente annunciato (e poi smentito) di aver concluso con il Governo armeno
un accordo che le garantisce il controllo del gasdotto, nell’ambito di una più
ampia sistemazione della questione delle condizioni di fornitura del gas naturale
alla piccola repubblica caucasica 33 . Se l’interesse di Gazprom per il nuovo
gasdotto (che si prevede venga completato entro il 2006 e possa quindi diventare
operativo nel 2007) troverà soddisfazione, lungi dal rappresentare la chiave per
diversificare le forniture armene e quindi garantire al Paese una maggiore
sicurezza energetica, il gasdotto armeno-iraniano non farà che confermare la
32
H. PEIMANI, The Iran-Armenia Pipeline: Finally Coming to Life, in «Central Asia-Caucasus
Analyst», 22 September 2004, http://www.cacianalyst.org.
33
Details on Russian-Armenian Gas Agreement Remain Unclear, in «Radio Free Europe/Radio
Liberty Newsline», 7 April 2006, http://www.rferl.org/newsline; Russia Confirms Takeover of
Iran-Armenia Pipeline, in «The Journal of Turkish Weekly», 7 April 2006,
http://www.turkishweekly.net; E. DANIELYAN, Armenia Cedes More Energy Assets for Cheaper
Russian Gas, in «Eurasianet Business & Economics», 10 April 2006, http://www.eurasianet.org.
113
posizione assolutamente dominante della Russia nel settore energetico armeno, e
quindi la pressoché totale dipendenza energetica di Erevan dal suo alleato
settentrionale.
Il controllo del gasdotto armeno-iraniano evidenzia il secondo, e più importante,
dei tre fattori da cui dipende l’efficienza economica degli oleodotti e dei gasdotti
che esportano le risorse energetiche del Caspio, e che fa del Caucaso meridionale
un passaggio obbligato per il trasporto di tali risorse verso i mercati internazionali,
ovvero l’indipendenza delle infrastrutture dal controllo russo come condizione
necessaria per una reale diversificazione delle fonti di approvvigionamento
energetico. Questo vale naturalmente per i Paesi di transito: oltre ad essere, come
è ovviamente prevedibile, un importante fattore di sviluppo per l’economia
nazionale, grazie alla possibilità di attirare massicci investimenti esteri e di
beneficiare di consistenti tariffe di transito, nonché alla capacità di fungere da
catalizzatore per la realizzazione di altri progetti di rilevanza internazionale nella
regione, nel caso della Georgia la costruzione delle nuove infrastrutture per il
trasporto delle risorse energetiche sul proprio territorio nazionale è fondamentale
anche per diversificare il proprio approvvigionamento energetico, segnando un
punto di svolta rispetto alla pressoché totale dipendenza energetica che il Paese
caucasico ha finora mantenuto nei confronti della Russia. Per la Turchia, altro
Paese di transito dei “corridoi energetici” passanti per il Caucaso, lo stesso
discorso acquista una connotazione ancora più significativa: la crescente
predisposizione internazionale a considerare il sistema Btc-Scp come principale
canale per far giungere le risorse del Caspio (o almeno della sua parte occidentale)
sul mercato sembra realmente in grado di rendere la Turchia una sorta di “centro
energetico” tra Oriente e Occidente, in grado di collegare le risorse situate ad est
del Paese con la domanda proveniente dai mercati situati ad ovest, assumendo un
ruolo che finora è stato una ingombrante prerogativa russa 34 .
Ma la necessità di allentare la dipendenza dalla Russia per quanto riguarda le
forniture energetiche vale anche, e soprattutto, per i Paesi importatori di risorse
energetiche, in particolare per i Paesi occidentali: è questo il presupposto per la
validità della Multiple Pipeline Strategy americana, ovvero l’interesse occidentale
allo sviluppo di una rete di corridoi alternativi per l’esportazione delle risorse
della regione, almeno uno dei quali sia al di fuori del controllo russo. Ed è senza
alcun dubbio questo uno dei motivi, oltre naturalmente all’accento posto sulla
possibilità di promuovere lo sviluppo complessivo e la crescita delle economie
regionali, che hanno spinto le principali istituzioni finanziarie internazionali
occidentali (Banca Mondiale e Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo)
a sponsorizzare generosamente la costruzione del sistema Btc-Scp 35 .
34
G. BAHGAT, Central Asia and Energy Security, cit., p. 8.
F. ISMAILZADE, Leading Western Financial Institutions Lend Money to BTC Pipeline, in
«Central Asia-Caucasus Analyst», 19 November 2003, http://www.cacianalyst.org.
35
114
Il soggetto più direttamente interessato a minimizzare il controllo russo sulle
risorse energetiche del Caspio è sicuramente l’Europa: l’Unione Europea ha infatti
inserito tra le priorità politiche per il proprio sviluppo energetico quella di “evitare
qualsiasi dipendenza strategica”, in particolare nei confronti della Russia 36 . Mosca
è già il principale fornitore di gas per l’Europa e con la domanda europea di gas
naturale probabilmente destinata ad aumentare sostanzialmente nel prossimo
futuro è naturale che la Russia cerchi di colmare la domanda in eccesso con il
proprio gas o controllando i canali di esportazione del gas turkmeno e kazako. In
tal caso il Caucaso meridionale e la Turchia, tramite la South Caucasus Pipeline,
costituiscono un prezioso corridoio di accesso per l’Europa ai giacimenti del
Caspio, in grado di diversificare le fonti di approvvigionamento energetico
europeo e contemporaneamente ridurre la dipendenza dell’Europa dalla russa
Gazprom. Analogamente, il petrolio trasportato al porto turco di Ceyhan, insieme
a quello scaricato ai due terminali georgiani di Supsa e Batumi
(complessivamente più di un milione e 400mila barili di greggio al giorno) può
certo sembrare poca cosa in confronto alla dimensione del consumo europeo di
petrolio (quasi 15 milioni di barili al giorno nel 2005 37 ): al di là del suo valore
assoluto, l’impatto e il valore strategico del petrolio esportato sui mercati europei
attraverso il Caucaso consiste nella sua origine, non russa e non Opec, e quindi nel
suo contributo alla diversificazione delle fonti energetiche europee.
Non è un caso che la volontà di rafforzare il legame tra Mar Nero e Mar Caspio e
di fornire alternative ai tradizionali flussi commerciali e di transito di merci e
risorse centrati sulla Russia sia, come si è già ricordato, al centro dei programmi
Tra ceca e Inogate, entrambi sostenuti dall’Unione Europea. Nell’ambito di questi
programmi di cooperazione la regione caucasica assume una rilevanza di primo
piano: il programma Inogate, il cui trattato istitutivo (Umbrella Agreement) in
vigore tra i ventuno Paesi firmatari dal febbraio 2001 esplicitamente accoglie il
principio della diversificazione delle infrastrutture di trasporto delle risorse
energetiche come fondamento indispensabile per rafforzare la sicurezza energetica
dei Paesi europei 38 , ha inserito tra i progetti di sviluppo prioritario la South
Caucasus Pipeline, la connessione tra le infrastrutture di trasporto del gas iraniane
e turche, nonché il cosiddetto “Sistema Multimodale di Trasporto Petrolifero”
(Multimodal Oil Transport System) per trasportare il petrolio kazako via nave
attraverso il Caspio e poi da Baku e attraverso la Georgia, via treno e grazie agli
oleodotti, fino ai terminali sul Mar Nero o direttamente fino a Ceyhan nel
Mediterraneo 39 . Nel tentativo di “sottrarre” al controllo russo l’esportazione del
gas del Caspio inoltre il programma Inogate fa del gasdotto Scp (e quindi del
36
S.E. CORNELL - M. TSERETELI - V. SOCOR, Geostrategic Implications of the Baku-TbilisiCeyhan Pipeline, cit., p. 28-29.
37
BP, Statistical Review of World Energy, cit., p. 11.
38
INTERSTATE OIL AND GAS TRANSPORT TO EUROPE, INOGATE Developments 20012004 and New Perspectives, Kyiv, 2004, p. 9, http://www.inogate.org/inogate/en/resources/
publications.
39
http://www.inogate.org.
115
Caucaso) il nucleo necessario di una rete alternativa per il trasporto di tale
preziosa risorsa verso l’Europa: per quanto avveniristici e fantasiosi possano
sembrare, i due lunghi gasdotti che connettendosi al sistema turco dovrebbero
raggiungere rispettivamente l’Italia attraverso la Grecia (circa 3400 chilometri di
lunghezza, per una portata complessiva di 22 miliardi di metri cubi) e l’Austria
attraverso Bulgaria, Romania e Ungheria (più di 3600 chilometri, per una portata
di 20 miliardi di metri cubi) rispondono precisamente a questa esigenza, e si
propongono come potenziale alternativa al cosiddetto “Blue Stream” (il gasdotto
sottomarino operativo dal 2003 che collega le coste russe sul Mar Nero al porto
turco di Samsun) per soddisfare il fabbisogno dell’Europa sud-orientale in via del
tutto indipendente dal transito sul territorio russo 40 .
Il programma Traceca si spinge anche oltre facendo del Caucaso il nucleo di un
“corridoio di trasporto tra Oriente e Occidente [che si sviluppa] dall’Europa,
attraverso il Mar Nero, il Caucaso meridionale e il Mar Caspio”, riconosciuto
come “la via più breve e potenzialmente più rapida e meno costosa dall’Asia
Centrale ai porti sui mari aperti collegati con il mercato globale” 41 . In tale
contesto le infrastrutture connesse all’esportazione delle risorse energetiche del
Caspio (oleodotti e gasdotti, ma anche la rete ferroviaria Batumi/Poti-Tbilisi-Baku
e i terminali marittimi di Poti, Batumi, Baku, Aktau e Turkmenbashi) si
inseriscono in (e costituiscono la chiave di volta di) una più ampia rete di trasporti
e comunicazioni tra Europa ed Asia, che include oleodotti e gasdotti, strade,
ferrovie, porti e servizi marittimi, linee elettriche e fibre ottiche. A ben vedere, più
che la chiave di volta, le infrastrutture energetiche passanti per il Caucaso
costituiscono di fatto gli unici progetti di un certo spessore effettivamente portati
avanti nell’ambito del Traceca dal suo lancio ufficiale nel 1993 e gli unici risultati
positivi in grado di rivitalizzare e rilanciare un progetto ambizioso da troppo
tempo in fase di sostanziale stasi a causa delle scarse risorse economiche e
politiche ad esso finora dedicate 42 .
In definitiva uno dei meriti più apprezzabili dei programmi Traceca e Inogate è
stato quello di coinvolgere direttamente i Paesi esportatori del Caspio in iniziative
di cooperazione alla ricerca di corridoi di trasporto alternativi, indipendenti cioè
dalla loro ex-madrepatria. Anche per Azerbaigian, Kazachstan e Turkmenistan le
infrastrutture di trasporto che attraversano il Caucaso meridionale rappresentano
un canale di esportazione particolarmente appetibile proprio in virtù della loro
indipendenza dalla rete monopolistica russa nelle mani di Gazprom e Transneft,
che permette ai tre Paesi di mantenere un maggiore controllo sulle proprie risorse
di maggior valore. Se questo è più che mai ovvio nel caso dell’Azerbaigian, grazie
in particolare alla quota del 10 per cento detenuta dalla compagnia statale Socar
40
INOGATE, INOGATE Developments 2001-2004 and New Perspectives, cit., p. 12.
TRANSPORT CORRIDOR EUROPE-CAUCASUS-ASIA, TRACECA Brochure, pp. 4-6,
http://www.traceca-org.org.
42
S.E. CORNELL - M. TSERETELI - V. SOCOR, Geostrategic Implications of the Baku-TbilisiCeyhan Pipeline, cit., p. 29.
41
116
all’interno dell’Aioc, il consorzio incaricato della gestione del sistema Btc-Scp e
dell’oleodotto Baku-Supsa, va detto che l’accordo siglato nel giugno 2006 da
Azerbaigian e Kazachstan (in base al quale quest’ultimo esporterà una parte
consistente del petrolio estratto principalmente dal giacimento di Kashagan
tramite l’oleodotto Btc) è un indice significativo dell’interesse di Astana per lo
sviluppo di reti di trasporto alternative che riducano la dipendenza delle proprie
esportazioni dalla benevolenza di Mosca, sul cui territorio per il momento
transitano gli idrocarburi kazaki. Data l’attuale impraticabilità di soluzioni dirette
verso est (Cina) o verso sud (Turkmenistan, Afghanistan, Iran), nonché
l’improbabile eventualità che la Turchia autorizzi un incremento sostanziale del
passaggio delle petroliere attraverso Istanbul in grado di far fronte a una possibile
espansione della portata dell’oleodotto Cpc 43 , una condotta che collega
direttamente Baku al Mar Mediterraneo rappresenta un’opportunità unica per il
Paese asiatico per diversificare i propri canali di esportazione coerentemente con
il desiderio di accrescere la propria importanza quale Paese produttore di risorse
energetiche. Un discorso analogo può essere fatto per il Turkmenistan, che per
esportare il proprio gas per il momento si affida quasi esclusivamente alla rete di
gasdotti russi: da questo punto di vista la tensione nei rapporti con l’Azerbaigian
riguardo alla definizione delle rispettive porzioni di sottosuolo del Caspio
rappresenta un fastidioso ostacolo all’opportunità di collegare i vasti giacimenti di
gas turkmeni alle infrastrutture caucasiche, che viceversa non potrebbe che essere
uno stimolo positivo per spezzare il quasi-monopolio russo cui si è fatto cenno e
per avvicinare il Paese ai ricchi mercati europei.
L’opportunità unica rappresentata dal corridoio di trasporto che attraverso il
Caucaso raggiunge direttamente il Mediterraneo è messa in risalto anche dal terzo
elemento dal quale, come si è detto, dipende l’efficienza economica delle
infrastrutture per il trasporto delle risorse energetiche del Caspio, ovvero la
possibilità di aggirare i cosiddetti “chokepoints”, quelle “strozzature” geografiche
che ostacolano i regolari flussi commerciali via mare, costituite in particolare, per
ciò che riguarda il trasporto del petrolio, dagli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli
tra Mar Nero e Mar Mediterraneo e dallo Stretto di Hormuz tra Golfo Persico ed
Oceano Indiano. In effetti, la possibilità di raggiungere direttamente il
Mediterraneo attraverso la vicina Turchia è il fattore determinante che rende le
infrastrutture che attraversano il Caucaso meridionale più appetibili anche per il
petrolio del Kazachstan, oltre che naturalmente per le risorse dell’Azerbaigian,
rispetto tanto all’oleodotto Cpc, che termina a Novorossijsk sul Mar Nero, quanto
ad un eventuale oleodotto che dagli Stati del Caspio orientale procedendo verso
sud attraversi l’Iran fino al Golfo Persico, diretto in questo caso verso i mercati
asiatici 44 . Se quindi nel caso dell’Azerbaigian i vantaggi del sistema Btc-Scp sono
43
G. BAHGAT, Central Asia and Energy Security, cit., p. 9 e S.F. STARR - S.E. CORNELL, The
Politics of Pipelines: Bringing Caspian Energy to Markets, cit.
44
L’opzione iraniana è stata a lungo considerata dai Paesi interessati e dalle compagnie petrolifere
impegnate nella regione come la più efficiente da un punto di vista economico, nonostante il
117
del tutto evidenti per prossimità geografica, maggiore controllo sulle risorse
esportate e sulle infrastrutture di trasporto, l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan
rappresenta anche per il Kazachstan “l’opzione migliore per trasferire sui mercati
internazionali il petrolio del Caspio in modo sicuro, rapido, economico e
rispettoso dell’ambiente” 45 .
Questo vale a maggior ragione se si considerano le ripetute dichiarazioni delle
autorità turche che sottolineano la situazione ormai insostenibile del traffico
attraverso gli Stretti (dalla metà degli anni Novanta al 2005 il transito delle
petroliere nel Bosforo è triplicato 46 ) e l’intenzione di impedire ogni ulteriore
incremento della quantità di petrolio passante per la città più popolosa e
importante della Turchia. In realtà, ciò che più di ogni altra preoccupazione
relativa alla sicurezza della popolazione di Istanbul può convincere compagnie
petrolifere e Paesi esportatori a concentrare la propria attenzione sulle vie di
transito che attraversano il Caucaso, e in particolare sull’oleodotto Btc, è la
possibilità neanche troppo remota che la Turchia decida di aumentare le già
costose tariffe per il transito delle petroliere attraverso gli Stretti o di rendere più
severe le relative norme di sicurezza nel tentativo di ridurre il traffico.
Considerato che tali norme per il transito di materiali pericolosi attraverso gli
Stretti impongono alle petroliere lunghi tempi di attesa (che nella stagione
invernale possono anche superare le due settimane) e che per ogni giorno di attesa
le compagnie di trasporto devono pagare un costo di stazionamento che si aggira
intorno ai 60mila dollari 47 , si comprende facilmente come un oleodotto che non
dipenda dal transito attraverso il Bosforo per raggiungere i mercati permetta agli
esportatori un sostanzioso risparmio in termini di tempi e di costi.
Non sorprende quindi che la ricerca di nuovi canali di trasporto alternativi al
passaggio attraverso i chokepoints e il potenziamento delle infrastrutture esistenti
sia anche al centro dei già ricordati programmi Traceca e Inogate. In particolare
quest’ultimo ha assegnato la priorità a tre progetti di costruzione di oleodotti
direttamente sul suolo europeo: l’estensione dell’oleodotto Odessa-Brody fino alla
città polacca di Plock; la costruzione di un oleodotto che dal porto rumeno di
formidabile ostacolo costituito dalla politica degli Stati Uniti ostile al coinvolgimento dell’Iran nei
progetti di costruzione di nuove infrastrutture per il trasporto del petrolio del Caspio. Lo scoglio
che ha determinato il definitivo accantonamento del progetto è piuttosto legato proprio al fatto che
le risorse energetiche trasportate attraverso l’Iran avrebbero raggiunto il Golfo Persico e sarebbero
poi state esportate attraverso lo Stretto di Hormuz, che con i circa 17 milioni di barili di greggio
che transitano giornalmente in un canale largo poco più di tre chilometri costituisce di gran lunga
la più importante “strettoia” petrolifera mondiale (attraverso il Bosforo transitano giornalmente 3
milioni di barili di greggio, in una larghezza inferiore ad un chilometro), S.E. CORNELL - M.
TSERETELI - V. SOCOR, Geostrategic Implications of the Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline, cit.,
pp. 18-19.
45
S.F. STARR - S.E. CORNELL, The Politics of Pipelines: Bringing Caspian Energy to Markets,
cit.
46
J. ELKIND, Economic Implications of the Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline, in S.F. STARR - S.E.
CORNELL (a cura di), The Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline: Oil Window to the West, cit., p. 40.
47
Ibidem, p. 46.
118
Costanta sul Mar Nero raggiunga Omisalj (Croazia) e prosegua fino al porto di
Trieste; e la costruzione di un oleodotto che colleghi il porto bulgaro di Burgas,
sempre sul Mar Nero, con il porto greco di Alessandropoli sul Mediterraneo 48 .
Tutti e tre questi progetti mirano ad allentare la pressione sugli Stretti turchi e
presuppongono chiaramente un rafforzamento e ampliamento delle strutture
portuali situate sulle coste orientali del Mar Nero: di questo si occupa infatti il
programma Traceca, che nei propri progetti di assistenza tecnica riguardanti lo
sviluppo dei trasporti marittimi sottolinea l’importanza dell’ammodernamento e
dell’ampliamento dei porti georgiani di Poti e, soprattutto, Batumi (che, come si
ricorderà, è direttamente collegato all’oleodotto Baku-Supsa, di cui costituisce un
terminale alternativo) e del rafforzamento delle rotte marittime che li collegano ai
porti situati sulle coste occidentali del Mar Nero, di cui gli oleodotti progettati
nell’ambito dell’Inogate costituirebbero un naturale prolungamento verso i
mercati europei 49 .
Se questo insieme di ragioni economiche contribuiscono ad accentuare
l’importanza del Caucaso meridionale come valido corridoio alternativo in grado
di accrescere la sicurezza energetica per consumatori, esportatori e mercati
energetici globali, rendendo il trasporto delle risorse energetiche meno vulnerabile
a shock di natura tecnica o politica e mantenendo un alto grado di efficienza
economica, non bisogna dimenticare che nel caso della regione del Caucaso e del
Mar Caspio la scelta della via più appropriata attraverso cui tali risorse devono
passare riflette più che mai anche una serie di motivazioni legate a una complessa
competizione politico-strategica in atto tra soggetti locali e potenze regionali ed
extraregionali.
48
49
INOGATE, INOGATE Developments 2001-2004 and New Perspectives, cit., p. 10.
TRACECA, TRACECA Brochure, cit., p. 38.
119
120
121
122
2.2 Le ragioni politico-strategiche: le risorse energetiche e il cosiddetto “Grande
Gioco”
Il 25 maggio 2005 Samuel Bodman, Segretario del Dipartimento dell’Energia
degli Stati Uniti, in occasione della cerimonia ufficiale di apertura dell’oleodotto
Baku-Tbilisi-Ceyhan, salutava l’inizio di “[…] una nuova era nello sviluppo del
bacino del Caspio. [L’oleodotto Btc] permette al petrolio del Caspio di
raggiungere i mercati europei e mondiali in modo economicamente efficiente e
rispettoso dell’ambiente, […] rafforza l’integrazione di Azerbaigian, Georgia e
Turchia nell’economia globale. […] Gli Stati Uniti hanno sostenuto il Btc perché
credono nella capacità di tale progetto di rafforzare la sicurezza energetica globale,
diversificare le fonti di approvvigionamento energetico dei Paesi partecipanti,
dare slancio alla cooperazione regionale ed espandere le opportunità di
investimento internazionale […]” 50 . Le parole del Segretario Bodman, peraltro
confermate anche da un analogo intervento del portavoce del Dipartimento di
Stato 51 , non hanno fatto altro che ribadire le linee fondamentali che, almeno negli
interventi ufficiali, hanno guidato l’approccio americano alla questione della
scelta dei corridoi di trasporto più adatti a far giungere le risorse energetiche del
Caspio sui mercati internazionali: preoccupazione per la sicurezza energetica
globale, impegno per lo sviluppo economico della regione e, naturalmente,
volontà di massimizzare i profitti degli investimenti americani.
Ciò che le parole del Segretario Bodman hanno mancato di sottolineare al
cospetto dei leader politici locali e della stampa internazionale è stato un concetto
d’altro canto ben noto a tutti i presenti: il concetto cioè che l’oleodotto Btc, prima
ancora di essere un progetto determinante per le prospettive di sviluppo regionale,
particolarmente importante per la sicurezza energetica globale e probabilmente
anche vantaggioso per gli investitori internazionali, è stato fin dall’inizio dei
dibattiti riguardanti la sua possibile realizzazione una pedina, peraltro di grande
valore strategico, all’interno di un complesso gioco geopolitico che ha coinvolto,
e tuttora coinvolge, le maggiori potenze regionali ed extra-regionali in una
competizione per l’estensione della propria influenza che tende inevitabilmente ad
intrecciarsi con gli sforzi dei soggetti locali volti a rafforzare la propria sovranità
ed ampliare il proprio spazio di manovra internazionale.
La dissoluzione dell’Unione Sovietica all’inizio degli anni Novanta ha creato un
vuoto di potere in un’area particolarmente rilevante per le relazioni internazionali,
che si estende dal Mar Nero ai confini con la Cina. L’importanza strategica del
Caucaso e dell’Asia centrale è dovuta anzitutto alla collocazione geopolitica
stessa della regione: più ancora della sua condizione di ponte tra Europa e Asia, e
50
UNITED STATES DEPARTMENT OF ENERGY, OFFICE OF PUBLIC AFFAIRS, BakuTbilisi-Ceyhan Pipeline First Oil Ceremony. Remarks of Secretary of Energy Samuel Bodman,
Washington D.C., 25 May 2005, http://www.energy.gov.
51
UNITED STATES DEPARTMENT OF STATES, United States Welcomes Opening of Caspian
Basin Pipeline, 25 May 2005, http://usinfo.state.gov.
123
tra cultura occidentale, islamica e sinica 52 , ciò che ne rende evidente la centralità è
la sostanziale fragilità dei suoi equilibri strategici e militari. La vicinanza di
quattro potenze nucleari (Russia, Cina, India e Pakistan), di un altro Stato che ha
intrapreso un attivo programma di sviluppo del proprio potenziale nucleare (Iran),
di un Paese la cui stabilità e sicurezza necessita il sostegno della comunità
internazionale (Afghanistan) e del bastione sud-orientale della Nato (Turchia),
unita alla lunga tradizione di conflitti etnici locali, fa del Caucaso e dell’Asia
centrale un’area a rischio continuo di instabilità, e quindi meritevole della
massima attenzione internazionale. La guerra globale contro il terrorismo lanciata
dagli Stati Uniti non ha fatto che accentuarne il valore strategico per Washington
come base di partenza indispensabile per le proprie operazioni militari, dandole
così l’opportunità di riempire con la propria presenza il vuoto lasciato dall’Unione
Sovietica 53 .
Se l’11 settembre 2001 e la campagna contro il terrorismo che ne è seguita hanno
fornito l’occasione per l’insediamento di una potenza esterna nella regione, un
altro avvenimento ha contribuito in misura determinante a plasmare il destino
dell’area: la costituzione nel 1994 del consorzio internazionale Aioc può essere
assunta come punto di partenza della competizione internazionale per il controllo
e soprattutto per l’accesso alle risorse energetiche di cui è ricco il bacino del
Caspio, che ha aggiunto un’ulteriore dimensione alla lotta per il controllo politicostrategico del Caucaso e dell’Asia centrale. Da quel momento la partita che si è
giocata intorno alle infrastrutture destinate ad esportare le risorse energetiche del
Caspio ha avuto l’obiettivo di creare reti di dipendenza politica e di cooperazione
strategica funzionali da un lato a massimizzare l’influenza di ciascuna delle
maggiori potenze nella regione, dall’altro lato a sfruttare il coinvolgimento di
queste ultime per perseguire gli interessi strategici propri di ciascuno degli Stati
locali 54 . In altre parole, le modalità di gestione dei flussi delle risorse energetiche,
il maggiore o minore (o persino mancato) coinvolgimento dei soggetti interessati
agli equilibri della regione nella scelta dei percorsi di transito del gas e del
petrolio rappresentano il “fattore critico” per determinare il successo o il
fallimento delle rispettive politiche.
In questo contesto di competizione internazionale e rivalità geopolitiche il
Caucaso viene proiettato al centro della scena in virtù del ruolo fondamentale che
la regione caucasica può svolgere all’interno della Grand Strategy americana,
ovvero il ruolo di “corridoio” in grado di consentire l’accesso all’Asia centrale e
(ancora più importante) al cosiddetto “Grande Medio Oriente” che costituiscono
52
S.E. CANTLEY, Black Gold or the Devil’s Excrement? Hydrocarbons, Geopolitics and the Law
in the Caspian Basin, in «Europe-Asia Studies», 54, 2002, 3, p. 478.
53
G. BAHGAT, Central Asia and Energy Security, cit., p. 11.
54
B. SHAFFER, From Pipedream to Pipeline: A Caspian Success Story, in «Current History»,
October 2005, p. 344.
124
un obiettivo strategico degli Stati Uniti 55 . All’inizio degli anni Novanta le neonate
repubbliche indipendenti ex-sovietiche erano viste come periferiche rispetto agli
interessi strategici americani, e l’attenzione che esse ricevevano da Washington
era sostanzialmente dettata dalla preoccupazione che l’eredità dell’arsenale
sovietico finisse nelle mani sbagliate, favorendo la proliferazione di armi di
distruzione di massa 56 . Viceversa dalla metà del decennio la politica americana
verso la regione ha assunto una connotazione sempre più assertiva, volta a
minimizzare l’influenza russa e (soprattutto) iraniana e a creare “[…] un nuovo
spazio geopolitico che si estende dalla Turchia attraverso il Caucaso meridionale
fino all’Asia centrale, che consenta [agli Stati Uniti] l’accesso diretto all’intera
Eurasia” 57 . Da allora l’appoggio e il coinvolgimento di Washington nella
realizzazione delle infrastrutture di trasporto delle risorse energetiche del Caspio
passanti per il Caucaso sono stati motivati dal desiderio politico-strategico di
creare un corridoio di trasporto lungo la direttrice est-ovest che escludesse
qualsiasi interferenza russa e negasse all’Iran la possibilità di sfruttare la sua
posizione geograficamente favorevole per il transito delle risorse del Caspio al
fine di aumentare la propria influenza nella regione.
In effetti il transito attraverso l’Iran poteva essere (e a dire il vero lo è stato,
almeno per il gas turkmeno) una possibile alternativa per il trasporto delle risorse
energetiche del Caspio: la scelta della direttrice est-ovest passante per il Caucaso
tuttavia esclude il Paese e rischia di ridurne l’influenza in un’area che Teheran ha
storicamente considerato di proprio interesse strategico. In quest’ottica si
comprende come la decisione iraniana di firmare tra il 2001 e il 2002 una serie di
accordi con l’Armenia per la costruzione di un gasdotto che colleghi i due Paesi
(fornendo alla repubblica caucasica un’alternativa alla totale dipendenza dal gas
russo per soddisfare il proprio fabbisogno) non sia che il tentativo di percorrere
l’unica strada rimasta all’Iran per mantenere la propria presenza e recuperare la
propria influenza nel Caucaso. Il Caucaso è infatti un tassello-chiave anche nella
strategia della Repubblica Islamica: con la propria presenza nella regione l’Iran si
lega anche direttamente all’Europa, e può presentarsi all’Occidente (Stati Uniti
esclusi) come una forza di stabilità per il mantenimento dei fragili equilibri locali.
A conferma di questo ragionamento, si può citare il repentino cambiamento nelle
relazioni, tradizionalmente poco amichevoli, tra Iran e Azerbaigian, avvenuto
all’indomani dell’inclusione del primo nel cosiddetto ”asse del male” da parte
degli Stati Uniti: temendo che la cooperazione tra Washington e Baku nella lotta
al terrorismo avrebbe potuto spingersi fino a fare del Paese caucasico una base per
un eventuale attacco statunitense, Teheran ha effettuato una svolta a centottanta
gradi nella sua politica e ha avviato un intenso dialogo al vertice con Baku nel
55
Ibidem, p. 344 e M. BRILL OLCOTT, The Great Powers in Central Asia, in «Current History»,
October 2005, p. 332.
56
G. BAHGAT, Central Asia and Energy Security, cit., p. 12.
57
V. MATCHAVARIANI, U.S. Policies and Russian Responses to Developing the East-West
Transportation Corridor, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 18 June 2003,
http://www.cacianalyst.org.
125
tentativo di assicurarsi una benevola neutralità da parte del suo vicino
settentrionale 58 .
Nel lungo periodo tuttavia l’obiettivo americano, di cui la costruzione di
un’opportuna rete di infrastrutture energetiche nel Caucaso meridionale dovrebbe
permettere il raggiungimento, è quello, detto con le parole di Zbigniew Brzezinski,
ex-Consigliere per la Sicurezza Nazionale, di “[…] ridurre e poi azzerare
influenza e presenza russa nella regione, favorendo l’affermazione e la crescita di
quella occidentale, segnatamente di quella americana” 59 . La strategia di Multiple
Pipelines sostenuta da Washington è infatti uno strumento prezioso per rafforzare
l’indipendenza e la sovranità degli Stati del Caucaso e dell’Asia centrale,
sottraendo appunto il controllo delle loro risorse più preziose alla vicina Russia.
Unita agli altri strumenti utilizzati da Washington nella regione, ovvero la
cooperazione (prevalentemente militare) sotto l’”ombrello” della Nato e della
Partnership for Peace, l’appoggio alla creazione del Guuam (un’iniziativa di
cooperazione politica, economica e strategica avviata nel 1996 da Georgia,
Ucraina, Uzbekistan, Azerbaigian e Moldova allo scopo di rafforzare
l’indipendenza e la sovranità di queste repubbliche ex-sovietiche) e la promozione
dei movimenti democratici (come la cosiddetta “Rivoluzione delle Rose” in
Georgia), la Multiple Pipeline Strategy sembra in grado di garantire agli Stati
Uniti la possibilità di mantenere nell’area una presenza di lungo periodo in grado
di bilanciare la Russia e, in una prospettiva più lontana, la Cina. Non bisogna
infatti dimenticare che una politica energetica che promuova le infrastrutture
energetiche dirette dal Caspio al Mediterraneo passando per il Caucaso nega
anche a Pechino (nel 2005 il secondo maggior consumatore di petrolio, dietro agli
Stati Uniti 60 ) l’accesso alle risorse energetiche del Caspio, cui la Repubblica
Popolare è interessata per soddisfare il proprio crescente fabbisogno e che
costituiscono una delle ragioni principali del suo coinvolgimento nell’area. In
quest’ottica la politica cinese di inserimento attivo nella partita per le risorse
energetiche “[…] rischia… di indebolire fatalmente il tentativo statunitense di
affermare il primato americano nel Caspio”61 .
D’altro canto anche il tentativo russo di riaffermare la tradizionale influenza nel
suo “estero vicino” passa per il controllo sulle principali infrastrutture per
l’esportazione delle risorse energetiche da essi detenute e sulle reti di
distribuzione delle stesse risorse all’interno dei Paesi del Caucaso e dell’Asia
Centrale. Basti pensare che la Russia è per ora l’acquirente pressoché esclusivo
del gas estratto in Turkmenistan, che viene quindi trasferito sui mercati grazie al
58
S.E. CORNELL - F. ISMAILZADE, The Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline: Implications for
Azerbaijan, in S.F. STARR - S.E. CORNELL (a cura di), The Baku-Tbilisi-Ceyhan Pipeline: Oil
Window to the West, cit., p. 79.
59
Riportato in BTC, la nuova pedina del Grande Gioco petrolifero, in «Il Sole 24 Ore», 25 maggio
2005, http://www.ilsole24ore.com.
60
BP, Statistical Review of World Energy, cit., p. 11.
61
L. MAUGERI, Il Caspio divide Russia e America, in «Il Sole 24 Ore», 18 maggio 2006.
126
sistema di gasdotti russo; che nel complesso Gazprom, Itera e Rao Ues dominano
le reti di distribuzione del gas e dell’elettricità, nonché i principali impianti di
produzione dell’energia elettrica in Armenia, Georgia e repubbliche dell’Asia
centrale; e che Mosca è sempre più consapevole anche dell’importanza del
controllo degli impianti idroelettrici dell’Asia centrale per far sentire il peso
determinante della propria voce nella gestione delle risorse idriche della regione, e
quindi massimizzare la propria influenza politica 62 .
Parallelamente Mosca si oppone alla costruzione di nuovi oleodotti e gasdotti che
trasportino le risorse del Caspio indipendentemente dal controllo russo, prime fra
tutte le infrastrutture sponsorizzate dagli Stati Uniti e passanti per il Caucaso
meridionale: tali infrastrutture infatti fanno cadere uno degli indispensabili
presupposti grazie ai quali la Russia può mantenere una forte influenza politicostrategica sulla regione. A dimostrazione dell’importanza che la partita delle
infrastrutture energetiche ha assunto nella politica regionale russa, nel febbraio
scorso (circa tre mesi prima della prevista apertura dell’oleodotto Baku-TbilisiCeyhan) Mosca ha cercato di recuperare parte del proprio controllo sulle risorse
energetiche del Caspio proponendo all’Azerbaigian un accordo di lungo termine
sulle quantità di petrolio da trasportare attraverso il vecchio oleodotto BakuNovorossijsk, nel tentativo di impedire un completo abbandono dell’oleodotto
passante sul territorio russo come via di esportazione del petrolio azero 63 .
Ancora più che in Azerbaigian, il cosiddetto “Grande Gioco” si manifesta in
Georgia. Non solo sul territorio georgiano transitano tanto il sistema Btc-Scp
quanto l’oleodotto Baku-Supsa, ma il Paese acquista anche una speciale rilevanza
strategica per la stabilità regionale in considerazione dello stato di conflitto
esistente tra gli altri due Stati caucasici. La stabilità della Georgia è quindi
essenziale per rafforzare la posizione degli Stati Uniti nella regione, e per
dimostrare la validità dell’appoggio americano all’oleodotto Btc e in definitiva di
tutta la politica americana verso il Caucaso: a questo proposito infatti è da
segnalare la crescente partecipazione americana al mantenimento della stabilità
della Georgia, anzitutto con consistenti contributi economici a sostegno
dell’integrità territoriale del Paese (il riferimento è ovviamente alle questioni
dell’Ossetia meridionale e dell’Abkhazia) 64 , e soprattutto inviando a partire dal
2002 numerosi “consiglieri militari” in chiave antiterroristica.
L’effetto complessivo dell’intrecciarsi delle strategie e rivalità delle potenze
impegnate nel “Grande Gioco” e dei soggetti locali che possono sfruttare tali
62
Ibidem; M. TSERETELI, Russian Energy Expansion in Caucasus: Risks and Mitigation
Strategy, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 27 August 2003, http://www.cacianalyst.org; M.
BRILL OLCOTT, The Great Powers in Central Asia, cit., p. 334.
63
Moscow Proposes Oil Transport Deal to Azerbaijan, in «Axis Information and Analysis», 23
February 2006, http://www.axisglobe.com.
64
UNITED STATES DEPARTMENT OF STATE, U.S. Pledges $2 Million for South Ossetia
Economic Rehabilitation e U.S. Donate $2 Million for Georgia’s South Ossetia Region, 14 June
2006, http://usinfo.state.gov.
127
rivalità a proprio vantaggio è quello di ampliare le opzioni di politica estera degli
Stati locali e di esaltare il loro ruolo nella regione. Da questo punto di vista, il
Paese che ha saputo maggiormente beneficiare dell’andamento della partita per le
infrastrutture energetiche, e che pertanto incarna meglio la strategia di sviluppo di
molteplici direttrici lungo cui incanalare la propria politica estera, è forse il
Kazachstan. La Multiple Pipeline Strategy americana e soprattutto il corridoio di
trasporto caucasico rafforzano la posizione del Paese nei confronti della Russia
garantendone una maggiore indipendenza, consentono lo sviluppo di una strategia
di esportazione delle risorse energetiche capace di aggiustare secondo opportunità
i flussi petroliferi diretti rispettivamente verso Russia, Cina e Occidente (tramite il
Caucaso) e di equilibrare volta per volta i tre maggiori “poli” (Russia, Cina e Stati
Uniti) con cui Astana è in relazione, e in definitiva soddisfa l’ambizione del
Kazachstan a divenire un soggetto importante nei mercati energetici capace di
sviluppare relazioni vantaggiose con le maggiori potenze extra-regionali 65 . Allo
stesso modo la realizzazione del corridoio caucasico è per Baku un’opportunità
preziosa per ampliare il proprio raggio d’azione internazionale e sviluppare,
tramite le prospettive di estensione transcaspiana del sistema Btc-Scp e dei
corridoi Traceca e Inogate, una politica estera che coinvolgendo i Paesi dell’Asia
centrale esalti la posizione e il valore politico-strategico dell’Azerbaigian.
3. Conclusioni: l’Europa, la sicurezza energetica e il cosiddetto “Grande
Gioco” del Caspio
L’intero sistema di infrastrutture per il trasporto delle risorse energetiche
attraverso il Caucaso sembra dunque risentire delle decisioni politico-strategiche
di Washington, nell’ambito del più generale approccio degli Stati Uniti verso
quella vasta regione che si estende dal Mediterraneo orientale ai confini cinesi,
più ancora che dell’insieme di ragioni economiche legate alla questione energetica.
Per citare le parole del Presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev: “se non fosse
stato per il sostegno degli Stati Uniti, non avremmo mai potuto trasformare questi
progetti in realtà” 66 .
Anche se l’Europa dovrebbe, almeno in teoria e nelle dichiarazioni ufficiali,
essere il soggetto maggiormente interessato alle risorse energetiche del Caspio per
accrescere la propria sicurezza energetica minimizzando la propria dipendenza
dalla Russia, l’Unione Europea è stata sostanzialmente assente nel cosiddetto
“Grande Gioco” nel Caucaso meridionale. Molto più dell’empasse in cui si
trovano gli ambiziosi programmi Traceca e Inogate, penalizzati dalla scarsità di
fondi e di iniziative di rilievo per alimentare la cooperazione tra Europa da un lato
e Caucaso ed Asia centrale dall’altro, pesa la mancanza di una visione strategica
65
S.F. STARR - S.E. CORNELL, The Politics of Pipelines: Bringing Caspian Energy to Markets,
cit.
66
Riportato in G. ISMAILOVA, Baku-Tbilisi-Ceyhan Oil Pipeline Is Put into Operation, in
«Central Asia-Caucasus Analyst», 1 June 2005, http://www.cacianalyst.org.
128
attiva e condivisa 67 . Eppure, la questione della sicurezza energetica e la crescente
interdipendenza che si sta creando tra Europa e Caucaso rendono un eventuale
deterioramento della stabilità nel Caucaso una minaccia per la stessa sicurezza
europea: sembra dunque necessario che i Paesi europei identifichino rapidamente
una strategia attiva e condivisa verso la regione.
67
L. MAUGERI, Il Caspio divide Russia e America, cit.
129
L’EVOLUZIONE DELLE STRATEGIE RUSSE
NEL CAUCASO (1991-2006)
Aldo Ferrari
Introduzione
La dissoluzione dell’Urss, avvenuta alla fine del 1991, ha avuto conseguenze
particolarmente notevoli in una regione complessa e tormentata come quella
caucasica 1 . Il risultato più significativo è stato l’indipendenza di Georgia,
Armenia e Azerbaigian, che in epoca sovietica avevano lo status di repubbliche
federate. Dopo quasi due secoli la Russia ha così perso le sue conquiste
transcaucasiche, con le quali aveva avuto un rapporto che nel complesso può
essere considerato positivo. Conserva invece al suo interno le indocili popolazioni
del Caucaso settentrionale, inquadrate in repubbliche o regioni autonome 2 .
Nel primo periodo post-sovietico la Russia si è quindi trovata a dover sostenere
nei confronti del Caucaso una politica di doppio registro, interna ed esterna al
tempo stesso, resa estremamente difficile dalla profonda crisi politica, economica
e culturale che l’ha coinvolta soprattutto negli anni Novanta dello scorso secolo.
In questo senso il Caucaso costituisce per la Russia una sorta di duplice confine,
interno ed esterno al tempo stesso 3 . Conviene qui esaminarne lo sviluppo a partire
dalla distinzione fondamentale tra i due versanti del Caucaso, l’uno ancora
inserito nella compagine federale russa, l’altro ormai indipendente. A Mosca,
tuttavia, l’intera regione caucasica viene percepita come un unico sistema, sia
nella sfera economica che in quella di sicurezza 4 . Si tratta in effetti della regione
più turbolenta dell’intera area ex-sovietica, che mette a dura prova le capacità
politiche del Cremlino, i cui interessi fondamentali sono essenzialmente due:
preservare l’integrità territoriale della Federazione nel Caucaso settentrionale e
salvaguardare i propri interessi strategici ed economici nella Transcaucasia. Come
è stato osservato, “Più ancora che in altre aree ex sovietiche, in quella caucasica la
1
Per uno sguardo più vasto sulla storia antica e recente del Caucaso rimando al mio recente saggio
Il Caucaso. Popoli e conflitti di una frontiera europea, Roma, 2005.
2
Strumenti utili per “leggere” la complessa situazione attuale sono: N. BEROUTCHACHVILI - J.
RADVANY (a cura di), Atlas géopolitique informatique du Caucase, Paris, 1996 e A. CUCIEV,
Atlas Etnopolitičeskoj istorii Kavkaza, 1774-2004, Moskva, 2006.
3
Si veda a questo riguardo A. FERRARI, La Russia e il “limes” caucasico (1801-2002), in L.
ZARRILLI (a cura di), La grande regione del Caspio. Percorsi storici e prospettive geopolitiche,
Milano, 2004, pp. 17-42.
4
D. LYNCH, A Regional Insecurity Dynamic, in The South Caucasus: A Challenge for the EU,
«Chaillot Papers», 2003, 75, p. 17.
130
fondamentale e dominante finalità strategica russa rimane quella della
conservazione di un ruolo egemonico primario di influenza politica” 5 . In questo
studio la politica della Russia verso il Caucaso verrà esaminata in due fasi –
corrispondenti la prima alla presidenza di Boris El’cin, la seconda a quella di
Vladimir Putin – e seguendone l’evoluzione.
1. Il Caucaso settentrionale
Se la dissoluzione dell’Urss ha consentito alle tre repubbliche della Transcaucasia
di trovare una loro pur sofferta ed ancora incompleta indipendenza da Mosca, le
popolazioni del Caucaso settentrionale, tradizionalmente le più avverse al dominio
russo e sovietico, sono invece rimaste inserite nel quadro della Federazione Russa
con lo status di repubbliche o regioni autonome. Bisogna inoltre considerare che
in gran parte di queste entità autonome esiste una forte componente russa (31, 8%
in Ossetia settentrionale, 71, 8% nella regione autonoma adighea ecc.) 6 .
Nel Caucaso Settentrionale la Russia post-sovietica deve fronteggiare una
situazione quanto mai complessa, in cui interagiscono fattori differenti. Benché la
maggior parte delle popolazioni locali siano musulmane, l’aspetto religioso
sembra essere secondario se non, in parte, nel caso della Cecenia e del Dagestan,
dove l’islam è più antico e strutturato 7 . Dopo la fine dell’Urss sono in effetti
venuti al pettine soprattutto i nodi creati dalla politica delle nazionalità portata
avanti negli anni Venti, in primo luogo il collegamento – tra l’altro quasi sempre
imperfetto – tra etnie e territori, compromesso ulteriormente dalle repressioni
“staliniane”. Al di là di ogni giudizio di merito, la territorializzazione delle
identità locali, in precedenza di carattere sostanzialmente tribale, ha determinato
una serie di conflitti latenti 8 , aggravati dalle deportazioni “staliniane” alla fine
della seconda guerra mondiale e dalla infelice gestione del ritorno dei popoli
deportati 9 . L’apparente – e relativa – tranquillità di questi territori dopo il ritorno
in essi dei deportati in seguito al XX Congresso ha dimostrato negli immediati
anni post-sovietici tutta la sua precarietà. La possibilità che l’inserimento nella
Federazione Russa venga sostituito da una struttura politica unitaria che
comprenda tutti i popoli del Caucaso del Nord, o almeno una loro sensibile parte,
sembra tuttavia remota. E non solo per l’indisponibilità di Mosca. Il punto è che
5
A. VITALE, La politica estera russa e il Caucaso, in «Quaderni di Relazioni Internazionali»,
2006, 1, p. 40.
6
Questi dati sono quelli dell’ultimo censimento sovietico, del 1989. Cfr. P. B. HENZE, The
Demography of the Caucasus According to 1989 Soviet Census Data, in «Central Asian Survey»,
10, 1991, 1/2, p. 158.
7
A. BENNIGSEN - C. LEMERCIER QUELQUEJAY, L’islam parallelo. Le confraternite
musulmane in Unione sovietica, a cura di E. FASANA (trad. it.), Genova, 1990.
8
S. SALVI, La mezzaluna con la stella rossa. Origini, storia e destino dell’islam sovietico,
Genova, 1993, pp. 259-264.
9
A. NEKRIČ, Popoli deportati. Il genocidio delle minoranze nazionali sotto Stalin: una ferita
ancora aperta, trad. it., Milano, 1978.
131
la politica nazionale sovietica ha sensibilmente rinforzato le singole identità
etnico-nazionali, ormai fortemente collegate a entità politico-territoriali. Allo stato
attuale dei fatti, cioè, appare poco probabile che le popolazioni del Caucaso del
Nord possano realmente trovare una qualche forma di unità politica. Neppure la
fede islamica, pur condivisa dalla grande maggioranza delle popolazioni del
Caucaso settentrionale, assai spesso in maniera intensa, sembra poter costituire un
fattore unificante davvero efficace a livello politico. Nell'intera regione, tuttavia, il
peso dell'islam continua ad essere forte, soprattutto grazie all'azione delle
confraternite, che neppure le dure repressioni sovietiche sono riuscite a
smantellare ed hanno oggi ripreso a far sentire il loro influsso. Esistono anche
organizzazioni politiche – in primo luogo il Partito della Rinascita Islamica – che
in nome della comune fede religiosa chiedono il superamento delle divisioni
etniche, riprendendo in questo modo il modello ottocentesco dell'imam Šamil', ma
una prospettiva unitaria panislamica appare sinora inconsistente nel Caucaso
come nelle altre regioni musulmane ex sovietiche. Nel Caucaso Settentrionale,
cioè, la Federazione Russa si è trovata a fronteggiare una situazione quanto mai
complessa, ma nella quale l’aspetto religioso sembra essere secondario se non, in
parte, nel caso della Cecenia e del Dagestan.
La prima contesa che esplose fu quella del distretto di Prigorodnyj, attribuito
all’Ossetia dopo la soppressione della repubblica autonoma della CeceniaInguscetia e deportazione della sua popolazione, nel giugno 1946. Anche dopo la
ricostituzione di tale repubblica nel 1957, il distretto rimase all’Ossetia e i
deportati ingusci che vi fecero ritorno trovarono le loro case occupate da osseti, i
quali si rifiutarono di restituirle, appoggiati dalle autorità locali. Il conflitto rimase
insoluto ma latente negli ultimi decenni sovietici, ma si intensificò nel 1990-91 ed
esplose nel 1992 con violenti scontri tra le due popolazioni, imponendo l’invio di
truppe russe a separare i contendenti. Gli ingusci, musulmani, continuano ad
essere visti, al pari dei loro consanguinei ceceni, come una popolazione
tradizionalmente ostile alla Russia. Le accuse ai russi di appoggiare gli osseti,
prevalentemente cristiani e loro tradizionali alleati, sembrano pertanto essere
almeno in parte giustificate. L’atteggiamento sostanzialmente favorevole agli
osseti da parte di Mosca va inserito nelle dinamiche di lungo termine del rapporto
tra la Russia ed il Caucaso, dove questa popolazione costituisce da sempre un
importante sostegno delle strategie russe. Non a caso Mosca ha sostanzialmente
appoggiato anche le rivendicazioni degli osseti meridionali, che chiedono l'unione
dell'Ossetia settentrionale e di quella meridionale, inserita nella repubblica
georgiana 10 . In definitiva il conflitto osseto-inguscio ha fornito alla Russia il
pretesto per riprendere saldamente il controllo militare su un territorio importante
della regione nord-caucasica. L’azione russa in Inguscetia va inoltre inquadrata
nell’ambito del confronto con la Cecenia, proclamatasi indipendente già alla fine
del 1991.
10
Sulle complesse dinamiche ossete si veda l’articolo di J. BIRCH, Ossetiya – Land of Uncertain
Frontiers and Manipulative Elites, in «Central Asian Survey», 1999, 4, pp. 501-534.
132
Nelle due repubbliche autonome del Caucaso del Nord, la Caraciaia-Circassia e la
Cabardino-Balcaria, esistono invece contrasti tra le popolazioni caucasiche
(circassi, adighei e cabardini, parlanti diverse varianti di un’unica lingua ed
appartenenti all’etnia circassa) e turche (caraciai e balcari). Popolazioni
cervelloticamente inserite in epoca sovietica in due entità politiche etnicamente
miste e che cercano ora di ricomporsi secondo linee etniche e territoriali più
coerenti, in sostanza costituendo una repubblica cabardino-circassa nel nord ed
una caraciai-balcara nel sud montagnoso 11 . L’iniziativa è soprattutto nelle mani
delle due popolazioni turche delle repubbliche, mentre quelle circasse sono meno
attive. In ogni caso si tratta di popolazioni interamente musulmane, il che
costituisce un parziale deterrente ad un loro scontro diretto. La situazione è
tuttavia aggravata dalla presenza di una consistente popolazione russa, perlopiù di
origine cosacca, quindi con un’antica tradizione di animosità nei confronti dei
musulmani locali 12 . Il governo russo sembra propenso a riprendere la politica
zarista di usare questa popolazione cosacca come un utile strumento di pressione
nei confronti delle popolazioni circasse e turche delle due repubbliche 13 . In
entrambe, tuttavia, la situazione è rimasta sotto il controllo russo e sino a pochi
anni fa non si sono avute gravi tensioni, anche perché al vertice sono rimasti
uomini della nomenklatura sovietica, poco propensi ad avventure di tipo
nazionalista o religioso.
Prima di passare ad occuparci del caso ceceno, conviene prendere in
considerazione il rapporto tra Mosca ed il Dagestan. Quest’ultimo, organizzato in
repubblica autonoma, è stato a lungo insieme alla Cecenia la regione più ostile
alla dominazione russa. Il grande Šamil’, che nell’Ottocento guidò la resistenza
antirussa, apparteneva ad una delle sue numerose popolazioni, gli avari, ed anche
nel corso della ribellione al potere sovietico nel 1920-22 il Dagestan fu al centro
degli eventi. Nonostante questo, però, la regione non venne coinvolta nella
deportazione dei popoli avvenuta nel corso della Seconda Guerra Mondiale, forse
per il timore in una sollevazione generale. Probabilmente proprio l’aver evitato
questa tragedia è la ragione della relativa tranquillità della regione negli ultimi
decenni sovietici, nel corso del quale le cariche politiche venivano distribuite alle
molte, oltre trenta, comunità etniche della repubblica con un sistema di
ripartizione simile al modello libanese. Anche negli anni immediatamente
successivi alla dissoluzione dell’Urss, i problemi principali del Dagestan sono
stati di ordine interno: da un lato l’aspirazione di una delle sue popolazioni – i
lesghi – di riunirsi ai connazionali inseriti nell’Azerbaigian, dall’altro il conflitto
tra la piccola comunità cecena locale (i cosiddetti akkiny) con quella dei lachi,
che aveva occupato le loro terre durante la deportazione.
Anche nel corso delle due guerre della Russia con la Cecenia, quando molti
ritenevano che il Dagestan avrebbe aiutato i suoi vicini, nulla di rilevante è in
11
S.E. CORNELL, Conflicts in the North Caucasus, in «Central Asian Survey», 1998, 3, p. 420.
V. AVIOUTSKII, Les cosaques au Nord-Caucase, in «Hérodote», 1996, 81, pp. 126-150.
13
S.E. CORNELL, Conflicts in the North Caucasus, cit., p. 422.
12
133
effetti avvenuto, benché la parte nord-occidentale della repubblica sia stata
marginalmente coinvolta negli scontri. La ragione principale di questa estraneità
va vista nel fatto che, a differenza di quanto è avvenuto in Cecenia, nel Dagestan è
rimasta sinora al potere l’élite sovietica di orientamento se non filo-russo, almeno
non ostile alla Russia. Inoltre, come si è detto, le popolazioni della regione non
hanno memoria diretta dell’orrore delle deportazioni. Infine, l’estrema
frammentazione etnica del paese rende poco agevole organizzare dell’opposizione
a Mosca, dalla quale il Dagestan dipende economiche in maniera pressoché
assoluta 14 . Non vi è dubbio peraltro che esista un sentimento anti-russo all’interno
delle popolazioni dagestane, tra le quali la pratica islamica è particolarmente
radicata, ma senza un cambio al vertice politico è difficile che possa affermarsi.
Vi sono tuttavia diversi segnali del fatto che la presa dell’élite sovietica sulla
repubblica si sta attualmente attenuando 15 . In particolare il Dagestan costituisce il
centro di una rinascita dell’islam, che peraltro non è mai stato sradicato, neppure
in epoca sovietica, grazie all’azione delle confraternite sufi 16 . Adesso la fase
clandestina è solo un ricordo e nelle scuole della repubblica, soprattutto nei
distretti nord-occidentali, si stanno diffondendo classi di arabo e di Corano 17 .
Tutto questo tende, insieme con la rinascente pratica del pellegrinaggio alla
Mecca, a riavvicinare i dagestani, come le altre popolazioni musulmane del
Caucaso del Nord, al mondo islamico.
Sin dalla dissoluzione dell'Urss, tuttavia, il problema di maggior rilevanza della
regione ciscaucasica è rappresentato dalla Cecenia. Nonostante il suo passato di
strenua opposizione alla Russia, non vi è dubbio che un fattore determinante nel
costituirsi di questa regione a bastione irriducibile della lotta dei popoli caucasici
a Mosca sia stato l'aver trovato sin dall'inizio un leader energico come Džochar
Dudaev. Questi, un ex generale sovietico, nell'ottobre del 1991 riuscì a prendere il
potere a Groznyj indicendo un referendum nel quale venne sancita unilateralmente
– unica tra le repubbliche della Federazione Russa – l’indipendenza della
Cecenia-Inguscetia. Lo stesso Dudaev ne divenne presidente, chiedendo la
solidarietà delle altre popolazioni caucasiche e dei musulmani in generale 18 .
El’cin avrebbe voluto reprimere immediatamente questa secessione, ma il
parlamento russo annullò il suo decreto sullo stato d'emergenza, allontanando per
tre anni lo scontro armato. Nessuna delle altre repubbliche caucasiche ebbe però il
coraggio di seguire l’esempio ceceno, anzi nel marzo del 1992 gli ingusci si
separarono dalla Cecenia ed aderirono al nuovo trattato federale russo. Nel
14
Ibidem, p. 430.
R. BRUCE - E. KISRIEV, After Chechnya: New Dangers in Daghestan, in «Central Asian
Survey», 1997, 3, pp. 401-412.
16
T. ZARCONE, Vitalità e influenza delle confraternite e del sufismo nella regione del Caucaso,
in M. STEPANIANTS (a cura di), Sufismo e confraternite nell’islam contemporaneo. Il difficile
equilibrio tra mistica e politica, Torino, 2003, pp. 161-181.
17
R. BRUCE - E. KISRIEV, The Islamic Factor in Dagestan, in «Central Asian Survey», 2000,
2, pp. 235-252.
18
S. SALVI, Breve storia della Cecenia, Firenze, 1995, p. 41.
15
134
frattempo la Russia esercitò un rigido blocco economico nei confronti della
Cecenia, che fu allora abbandonata da quasi tutti i russi che vi risiedevano 19 . Oltre
a ciò, Mosca fomentò l’opposizione interna a Dudaev, che nell’ottobre del 1994
tentò di conquistare Groznyj con l’appoggio dell’aviazione russa. Il fallimento di
questo tentativo indusse El’cin ad invadere la Cecenia, iniziando una guerra
rivelatasi rovinosa. Le truppe russe riuscirono dopo molti sforzi ad occupare la
parte pianeggiante della Cecenia, inclusa la capitale Groznyj (ridotta in macerie
dai bombardamenti aerei), ma la resistenza cecena si concentrò sulle montagne e
produsse clamorose azioni terroristiche. Prima tra tutte quella di Budennovsk, in
territorio russo, dove un commando guidato da Šamil Basaev, si impadronì nel
giugno 1995 dell’ospedale locale, riuscendo a resistere al sanguinoso intervento
delle truppe speciali ed ottenendo un salvacondotto per rientrare in patria.
Nonostante l’uccisione di Dudaev avvenuta nell’aprile del 1996, l’avventura
bellica in Cecenia divenne sempre più invisa all’opinione pubblica russa. La
decisione di porre fine alle ostilità venne rafforzata dalla improvvisa e
sconcertante riconquista di Groznyj da parte dei ceceni nei primi giorni
dell’agosto 1996. Il 23 di quel mese, A. Lebed’, il plenipotenziario russo inviato
dal presidente El’cin a risolvere la contesa con i ceceni, sottoscrisse un cessate il
fuoco che prevedeva la partenza immediata delle truppe russe dalla Cecenia. Lo
stesso Lebed’ stipulò poi con Aslan Maschadov, divenuto il principale capo della
resistenza cecena dopo la morte di Dudaev, l’accordo di Chazav Jurt, in base al
quale lo status definitivo della Cecenia sarebbe stato rinviato di 5 anni 20 .
Sotto la guida di Maschadov, eletto Presidente della Repubblica nel gennaio 1997
e riconosciuto tale dalla Russia, la Cecenia ha conosciuto alcuni anni di confusa e
precaria indipendenza. I negoziati con la Russia per definire il nuovo status della
repubblica sono apparsi subito inconcludenti, nonostante la stipula di un trattato di
pace nel maggio 1997. Da parte russa la possibilità di riconoscere una piena
indipendenza alla Cecenia era preclusa da considerazioni tanto politiche quanto
economiche. L’indipendenza cecena avrebbe da un lato potuto stimolare analoghe
richieste da parte di altre repubbliche della Federazione, caucasiche e non, con in
prospettiva il rischio di una disgregazione dell’intero paese. Da un punto di vista
economico, inoltre, la Cecenia non è particolarmente ricca di petrolio, ma
attraverso essa passa quello prodotto nell’Azerbaigian, che viene esportato in
Occidente attraverso il porto di Novorossijsk, sul Mar Nero. Un accordo, siglato
nel settembre 1997, regolò provvisoriamente la questione del transito di questo
petrolio 21 . Da un punto di vista politico la Russia offriva in sostanza alla Cecenia
uno status di ampia autonomia, simile a quello di cui gode il Tatarstan all’interno
della federazione. Ma da parte cecena questo appariva insufficiente, soprattutto
dopo una guerra sostanzialmente vinta. Di fronte alla Russia si pose quindi un
19
Ibidem, p. 44.
M. BENNIGSEN BROXUP, Chechnya: Political Development and Strategic Implication for the
North Caucasus, in «Central Asian Survey», 1999, 4, p. 545.
21
Ibidem, p. 556.
20
135
dilemma: riconoscere l’indipendenza cecena, col rischio di innescare un processo
di progressiva secessione dei soggetti della Federazione, almeno nel Caucaso
settentrionale, oppure ritornare all’uso della forza, con una migliore
programmazione dell’azione militare?
2. La Transcaucasia
A differenza di quanto fece l’Urss nei primi anni 20, la Russia post-sovietica non
è stata in grado di arrestare il cammino verso l’indipendenza delle repubbliche
transcaucasiche. E questo sia per una almeno iniziale rottura ideologica con il
passato imperiale sia per il caos politico-diplomatico dell’immediato periodo postsovietico. Come è stato osservato, ... per dimensioni e ritmi di attività economica,
coerenza ed equilibrio nella politica estera la Russia attuale non raggiunge
neppure il livello di una potenza regionale come la Turchia 22 . Pur con ripetute e
spesso pesanti intromissioni nella vita politica di questi paesi, soprattutto di
Georgia e Azerbaigian, Mosca non sembra avere l’effettiva possibilità di
muoversi davvero in una direzione “neo-imperiale”. Oltre a ciò, anche
psicologicamente l’opinione pubblica russa tende a disinteressarsi sempre più di
questa regione, coinvolgendo le tre repubbliche transcaucasiche in una più
generale avversione per il Caucaso derivante in primo luogo dalle vicende
cecene 23 . Tra l’altro, in tutta la Transcaucasia la percentuale dei russi residenti è
assai bassa, certo assai minore delle percentuali riportate dall’ultimo censimento
sovietico (7,38% in Georgia, 1,84% in Armenia, 6,16% in Azerbaigian) 24 .
Occorre tuttavia tener presente che la Russia considera anche la Transcaucasia
come le altre aree ex sovietiche un “Estero Vicino” (Blizkoe Zarubež’e), vale a
dire uno spazio storicamente, politicamente ed economicamente legato ai suoi
interessi vitali. Questo senza presupporre necessariamente una ricomposizione
imperiale, ma …ponendosi come fine, non sempre apertamente confessato, quello
della “reintegrazione sovrastatale” delle repubbliche ex sovietiche e
dell’autodeterminazione delle minoranze russe in esse contenute 25 . Soprattutto a
partire dalla fine del 1993, Mosca ha esplicitato i suoi interessi e le sue priorità
riguardo ai conflitti nell’ex-Urss, rivendicando: a) le funzioni di peacekeeping e
difesa delle minoranze nazionali, in particolare russofone, in tutto l’ “estero
vicino”; b) il mantenimento della stabilità nel territorio dell’intera Csi e la
formazione di una fascia di “buon vicinato” lungo i confini russi, da assicurare
anche per mezzo di forze militari; c) un ruolo speciale all’interno della Csi, non
solo per i suoi specifici interessi nazionali, ma anche alla luce del fatto che
22
S. PANARIN, Konflikty v Zakavkaz’e: pozicii storon, perspektivy uregulirovanija, vozmožnyj
vklad Rossii, in «Vestnik Evrazii», 1999, 1/2, p. 122.
23
Ibidem, p. 123.
24
P.B. HENZE, The Demography of the Caucasus According to 1989 Soviet Census Data, cit., p.
151.
25
A. VITALE, La politica estera russa e il Caucaso, cit., p. 44.
136
nessuno stato estero e nessuna organizzazione internazionale ha mostrato
l’intenzione o la capacità di sostituire la Russia in questo ruolo. Tali
rivendicazioni non escludono però la richiesta di collaborazione con Onu e Osce
nella gestione delle aree di crisi nello spazio ex-sovietico 26 .
La Transcaucasica è una regione di enorme significato strategico ed economico
per la Russia, la cui politica nella regione risulta solo limitatamente efficace, in
primo luogo a causa del divario esistente tra le ambizioni a rimanere nella regione
come forza dominante e le potenzialità a disposizione 27 . L’azione di Mosca in
Transcaucasia è peraltro favorita da alcuni fattori di notevole rilevanza: la
contiguità territoriale, … l’appartenenza dell’intera regione all’area linguistica
russa e la comune esperienza sovietica (che facilita le possibilità di comprensione
e dialogo), il prevalente orientamento verso la Russia dei flussi economici ed
umani locali (che aumenta l’interesse delle popolazioni transcaucasiche alla
conservazione di vasti legami economici, politici ed umanitari con la Russia), la
presenza, infine, di basi e truppe russe di peace-making nella regione (grazie alle
quali la Russia può ancora esercitare una notevole pressione di breve termine) 28 .
Dal punto di vista strategico Mosca è evidentemente interessata ad avere a sud
della nuova e turbolenta frontiera caucasica una fascia di paesi non ostili, che le
consentano di mantenere i suoi interessi nella regione. Si tratta di interessi legati
sostanzialmente alle fonti di energia. In primo luogo al petrolio nel Caspio, che
dopo il crollo dell’Urss è passato sotto il controllo dell’Azerbaigian indipendente,
dal quale le compagnie occidentali hanno presto ottenuto la maggior parte dei
diritti di sfruttamento 29 . Ma anche a quello del Kazachstan, che – insieme con il
gas del Turkmenistan – per essere avviato verso i mercati occidentali deve
transitare attraverso il Caucaso seguendo un percorso che è stato al centro di
accanite dispute tra i paesi interessati (Russia, Turchia, Iran, Azerbaigian,
Armenia, Georgia) e che nel summit Osce di Istanbul del novembre 1999 si
risolse a favore della linea Baku-Tbilisi-Ceyhan. Una soluzione duramente ma
vanamente osteggiata dalla Russia, che viene tagliata fuori da questa direttrice,
come anche l’Armenia e l’Iran, eterogeneo “asse” di paesi “esclusi” dal nuovo
Eldorado petrolifero del Caspio.
26
D. DANILOV, Russia’s Search for an International Mandate in Transcaucasia, in B.
COPPETIERS (ed.), Contested Borders in the Caucasus, Bruxelles, 1995 (consultabile in rete:
http://poli.vub.ac.be/ publi/ContBorders/eng/contents.htm).
27
P. BAEV, Russia’s Policy in North and South Caucasus, in The South Caucasus: A Challenge
for the EU, cit., p. 41.
28
S. PANARIN, Konflikty v Zakavkaz’e: pozicii storon, perspektivy uregulirovanija, vozmožnyj
vklad Rossii, cit., pp. 123-123.
29
A. COHEN, The New Great Game: Pipeline Politics in Eurasia, in «Eurasian Studies», 1996, 1,
pp. 2-25; R. GOULIEV, Oil and Politics. New Relationships among the Oil-Producing States:
Azerbaijan, Russia, Kazakhstan, and the West, New York, 1997; J. FEDOROV, Neft’ i politika
Azerbajdžana, Moskva, 1997; R. MUSABEKOV, Nezavisimyj Azerbaidžan: Neft’ i politika, in
«Central’naja Azija i Kavkaz», 1998, 1, pp. 48-52.
137
Da un punto di vista militare la Russia ha cercato in questi anni di mantenere la
sua presenza in Transcaucasia, impegnandosi ad impedire la penetrazione di
agenti esterni (in primo luogo, ovviamente, Turchia e Iran, ma anche Stati Uniti e
Nato), anche solo a livello di assistenza militare e fornitura di armi. Come in Asia
Centrale, tuttavia, anche nel Caucaso la Russia ha voluto prendere il controllo dei
confini esterni della Csi (coincidenti con quelli sovietici), ma se in Armenia la
presenza del suo esercito è benvenuta (come deterrente nei confronti non tanto
dell’Azerbaigian quanto della Turchia), l’Azerbaigian ne ha preteso il ritiro sin dal
1993. E la Georgia ha di recente ottenuto l’inizio della chiusura delle basi russe.
In effetti la politica della Russia post-sovietica nei confronti della Transcaucasia è
stata in larga misura determinata dall’atteggiamento delle nuove repubbliche
indipendenti. Tra queste solo l’Armenia è entrata sin dall’inizio nella Csi,
mostrando così di voler mantenere un legame preferenziale con la Russia, reso
obbligato non tanto, o non solo, dalle tradizionali buone relazioni tra i due paesi
quanto da una situazione geopolitica estremamente rischiosa a causa della guerra
non dichiarata con l’Azerbaigian per l’Alto Karabakh e l’ostilità della Turchia.
Tbilisi e Baku, guidate da due accesi nazionalisti, il georgiano Gamsakhurdia e
l’azero Elchibey (eletto nel giugno 1992), hanno avuto inizialmente un
atteggiamento più ostile, rifiutandosi di aderire alla Csi. Gamsakhurdia, fautore di
una politica micro-imperiale ostile sia alla Russia che alle autonomie delle
minoranze etniche 30 , riuscì in breve a suscitare una aperta resistenza da parte di
Abkhazi e osseti, subito appoggiati da Mosca. Alla quale non era certo più gradito
Elchibey, sostenitore dell’avvicinamento - anche militare - alla Turchia. Si spiega
così il sostegno offerto all’Armenia nel conflitto per l’Alto Karabakh per
“premiarla” della sua immediata scelta filo-russa e, al contrario, quello offerto ai
separatisti abkhazi per punire la Georgia della sua “infedeltà” 31 . In entrambi i casi,
tuttavia, tale sostegno non è stato decisivo 32 né assoluto, in quanto sarebbe
imprudente per uno stato multi-etnico come la Russia appoggiare in maniera
troppo aperta le rivendicazioni “separatiste” delle diverse etnie caucasiche.
Allo stesso modo non sorprende che la Russia abbia appoggiato i nemici interni di
Gamsakhurdia e Elchibey, rovesciati in maniera violenta nel corso del 1992 e
sostituiti da Shevarnadze e Aliyev, persone dal lungo trascorso sovietico, che
senza affatto divenire fantocci di Mosca, anzi mostrando maggiore autonomia di
quanto sembrasse prevedibile, hanno promosso comunque una politica più
realista: alla fine del 1993 Georgia e Azerbaigian, soccombenti nei rispettivi
30
O. VASILIEVA, La Georgia quale modello di piccolo impero, in C. M. SANTORO (a cura di),
Nazionalismo e sviluppo politico nell’ex URSS, Milano, 1995, pp. 206-228.
31
A. DE TINGUY, La Russie en Transcaucasie: chef d’orchestre ou médiator, in R.M. DJALALI
(ed.), Le Caucase postsoviétique: La transition dans le conflit, Bruxelles/Paris, 1995, pp.152-153.
32
La ragione principale della netta vittoria militare di queste minoranze, enormemente inferiori da
un punto di vista numerico rispetto ad azeri e georgiani, deve essere visto nella loro assai maggiore
combattività, che deriva in primo luogo dalla comune percezione di una gravissima minaccia alla
propria identità etno-culturale. Cfr. S. PANARIN, Konflikty v Zakavkaz’e: pozicii storon,
perspektivy uregulirovanija, vozmožnyj vklad Rossii, cit, p. 115.
138
conflitti interni, aderirono alla Csi. E Aliyev, pur rifiutando di accogliere truppe di
Mosca sul territorio dell’Azerbaigian, attribuì alla Lukoil – l’ente russo per le
risorse energetiche – una percentuale, limitata peraltro al 10%, nello sfruttamento
dei giacimenti petroliferi. La Georgia, invece, con un trattato bilaterale del 1995
concesse alla Russia il diritto a mantenere per 25 anni le quattro basi presenti sul
suo territorio. A parte quella di Vaziani, situata nei pressi di Tbilisi, le altre basi
russe si trovavano proprio in regioni più o meno fuori del controllo del governo
centrale: a Batumi, in Agiaria, a Gudauta, in Abkhazia, a Akhalkalaki, in
Javakheti 33 .
Nel complesso sembra di poter individuare due linee alternative della politica
estera russa verso la Transcaucasia. Una, prevalente ma applicata soprattutto nei
confronti di Georgia e Azerbaigian, prevede rapporti di coesistenza regolati dal
diritto internazionale. L’altra, ufficialmente non riconosciuta, ritiene che la Russia
sia costretta dalla particolare situazione post-sovietica a difendere i suoi interessi
vitali anche al di fuori di tali norme, privilegiando gli interlocutori ad essa più
favorevoli, vale a dire armeni, osseti ed abkhazi 34 . In pratica queste due linee si
sono sviluppate in maniera spesso contraddittoria.
La Transcaucasia costituisce un obbiettivo primario di questa nuova assertività
politico-diplomatica di Mosca, che non è risultata tuttavia molto produttiva. La
Russia ha cercato in questi anni di ottenere un mandato internazionale per
risolvere i conflitti interetnici in Transcaucasia, ponendosi però in sostanziale
contrasto con la volontà delle repubbliche locali (ma non di armeni, abkhazi e
osseti) e della stessa comunità internazionale, restia a conferirle questo ruolo. Il
suo rinnovato attivismo è stato piuttosto salutato con timore, come una nuova
manifestazione dell’imperialismo russo. Tuttavia la sua posizione è stata favorita
dalla riluttanza di Onu e Osce di agire con prontezza, cosicché già nel 1992 la
Russia inviò truppe nell’Ossetia meridionale e all’anno successivo
nell’Abkhazia 35 . In entrambi i casi questo intervento di peace-keeping ha ottenuto
il riconoscimento dell’Osce, ma senza determinare una soluzione definitiva dei
conflitti: queste due regioni sono infatti rimaste in sostanza al di fuori dell’autorità
georgiana. Si tratta, peraltro, di un esito non sgradito a Mosca, anche se la
Federazione Russa avrebbe dovuto poco dopo confrontarsi con forme analoghe di
secessionismo nel Caucaso settentrionale, in particolare in Cecenia.
Nell’Alto Karabakh i risultati diplomatici della Russia sono stati ancora più
limitati. In particolare Mosca non è riuscita – i tentativi in questo senso furono
particolarmente intensi nel 1994 – a convincere l’Azerbaigian ad accettare
l’interposizione di truppe russe e da allora la questione della contesa regione
autoproclamatasi indipendente è stata internazionalizzata, sottraendosi in
33
Sulla questione delle basi russe in Georgia si veda A. FERRARI, Georgia e Russia. Un’amicizia
senza basi, in «ISPI Policy Brief», Marzo 2004, 4, http://www.ispionline.it.
34
S. PANARIN, Konflikty v Zakavkaz’e: pozicii storon, perspektivy uregulirovanija, vozmožnyj
vklad Rossii, cit., p. 124.
35
Ibidem.
139
definitiva all’intervento diretto di Mosca. Nell’ambito del “gruppo di Minsk” il
suo atteggiamento ha sempre cercato di bilanciare quello dei paesi occidentali,
tendenzialmente filo-azero nonostante l’influsso delle comunità armene di Francia
e Stati Uniti, mantenendosi quindi su posizioni almeno in parte favorevoli alle
rivendicazioni degli armeni, i suoi più affidabili partner nella regione.
Nel complesso, tuttavia, nonostante gli sforzi profusi nel primo decennio postsovietico, la presa russa sulla Transcaucasia si è attenuata. Delle tre repubbliche
della regione due, Georgia e Azerbaigian, si sono mosse – sia pure con la dovuta
cautela, soprattutto quest’ultimo – verso un deciso avvicinamento all’Occidente,
la seconda attraverso un legame privilegiato – anche se non privo di difficoltà –
con la Turchia. Solo l’Armenia, per la sua tradizionale vicinanza alla Russia e la
necessità di controbilanciare l’asse Baku-Ankara, tende ancora verso Mosca anche
se un’eventuale soluzione del conflitto per il Karabakh – impossibile senza il
consenso dell’Occidente – le consentirebbe di eliminare l’attrito con i due vicini
turchi e quindi di porre fine alla dipendenza dall’appoggio russo 36 .
Occorre tener presente che dopo il crollo del sistema sovietico ed il conseguente
indebolimento del controllo russo, il Caucaso si trova oggi in una situazione di
estrema incertezza. La dissoluzione dell’Urss ha trasformato una regione già di
per sé tanto complessa e travagliata in un luogo di scontro di giganteschi interessi
internazionali. Interessi economici, in primo luogo, ma anche strategici, che si
riannodano inestricabilmente con lasciti storici dolorosi e rivendicazioni
contrapposte. In realtà la complessità della realtà caucasica e delle forze esterne
che vi agiscono rendono difficile non solo fare previsioni di medio o lungo
termine, ma anche disegnare un quadro coerente ed esauriente delle dinamiche in
corso. Mentre molte entità politiche locali sono indipendenti o aspirano a tale
status, l’intera regione è tornata ad essere oggetto di scontro tra interessi
geopolitici esterni. In primo luogo, ovviamente, quelli delle potenze locali, vale a
dire Russia, Turchia e Iran.
Mosca, Ankara e Teheran si confrontano per ridefinire le rispettive sfere di
influenza in una partita che comprende complessi fattori religiosi, politicoideologici ed economici. In questo senso il Caucaso si trova cioè in una
situazione in parte simile a quella del XVIII secolo, prima che la Russia riuscisse
ad estromettere dalla regione i suoi rivali musulmani 37 . Dopo circa due secoli
questa sistemazione torna ad essere posta in discussione, secondo una dinamica
per alcuni aspetti paragonabile a quella dell'Asia centrale ex sovietica, l'altro
frutto tardivo dell'espansionismo imperiale russo. Ma il dato principale della
questione sta piuttosto nel fatto che entrambe queste aree sono inserite in quello
che viene definito “Grande Medio Oriente” o “Grande Asia Centrale”, intendendo
36
L. ZARRILLI, No peace no war: riflessioni sul conflitto del Nagorno-Karabagh, in «1989.
Rivista di Diritto Pubblico e Scienze Politiche», 2000, 2, p. 324.
37
A. FERRARI, Etnie e petrolio del Caucaso, in «Relazioni Internazionali», 1995, 36, pp. 60-66 e
idem, La Russia e il Caucaso: alle origini di un problema insoluto, in «La Nuova Europa», 1995,
4, pp. 85-93.
140
con queste espressioni l’enorme regione, fondamentale su scala globale per le sue
ricchezze energetiche, che va dalle coste orientali del Mar Nero alle frontiere della
Cina 38 .
Il sempre influente Z. Brzezinski ha indicato con molta chiarezza quale debba
essere in questa regione, da lui definita i “Balcani dell’Eurasia” 39 , la strategia
degli Stati Uniti: evitare … il riemergere di un impero euroasiatico che potrebbe
ostacolare l’obbiettivo geostrategico americano 40 Anche senza attribuire agli
scenari disegnati in quest’opera il valore di un programma ufficiale
dell’amministrazione statunitense, non vi è dubbio che dopo la dissoluzione
dell’Urss Washington ha condotto, soprattutto a partire dal 1994, una politica di
penetrazione massiccia nell’intera regione che oggettivamente tende a privare la
Russia del tradizionale ruolo dominante. Uno specialista tanto acuto quanto
schietto come Stephen Blank scrive chiaramente: States and analysts may talk of
international relations as if a new liberal dispensation had come to pass. But, as
in earlier times, they act according to long-standing tenets of realism and
realpolitik. The quest for energy, the source of all the talk of a new great game
between Russia and United States, cannot be understood or separated apart from
more traditional and competitive geostrategies aiming to integrate the
Transcaspian into a Western, or Russian “ecumene” 41 .
Nel Caucaso – così come in Asia Centrale (entrambe le regioni sono qui incluse
nel termine Transcaspian) – ci si trova quindi di fronte ad una sorta di riedizione
del great game ottocentesco di kiplinghiana memoria, in cui la Russia postsovietica si confronta con un antagonista occidentale rappresentato questa volta
non dalla Gran Bretagna, ma dagli Stati Uniti 42 . Ma i rapporti di forza sembrano
essere molto più sfavorevoli a Mosca di quanto fossero a Pietroburgo. Secondo la
maggior parte degli analisti, proprio la competizione politica, strategica ed
economica – non cruenta, ma reale – tra Stati Uniti e Russia nei paesi postsovietici del Caucaso (e dell’Asia centrale) costituisce il dato saliente delle
dinamiche dell’intera regione. Per alcuni aspetti questa competizione richiama
certamente il great game ottocentesco e kiplinghiano, vale a dire la lunga rivalità
tra Russia e Gran Bretagna per le regioni a cavallo tra i rispettivi imperi. La
suggestione di questo parallelo storico non deve però condizionare oltre misura
l’analisi della situazione odierna 43 , che è determinata da fattori in larga misura
38
M.R. DJALALI - T. KELLNER, Moyen-Orient, Caucase et Asie Centrale: des concepts
géopolitiques à construire et à reconstruire?, in «Central Asian Survey», 2000, 1, pp. 117-140.
39
Z. BRZEZINSKI, La grande scacchiera, trad. it., Milano, 1998, p. 167.
40
Ibidem, p. 121.
41
S. BLANK, Every Shark East of Suez: Great Power Interests, Policies and Tactics in the
Transcaspian Energy Wars, in «Central Asian Survey», 1999, 2, p. 150.
42
Per la politica statunitense nella regione si veda B. SHAFFER, US Policy, in The South
Caucasus: A Challenge for the EU, cit., pp. 53-62; C. STEFANACHI, Il Caucaso nell’orizzonte
strategico americano, in «Quaderni di Relazioni Internazionali», 2006, 1, pp. 27-37.
43
M. EDWARDS, The New Great Game and the New Great Gamers: Disciples of Kipling and
Mackinder, in «Central Asian Survey», 2003, 1, pp. 83-102.
141
differenti da quelli ottocenteschi. In particolare, occorre tener presente la pluralità
di agenti statuali locali (Georgia, Armenia, Azerbaigian 44 , Turchia 45 , Iran 46 ),
super-statuali (Unione Europea, Nato, Osce, Guuam) e sub-statuali
(multinazionali, Ong, lobbies di vario tipo, diaspore, organizzazioni criminali,
gruppi terroristici e così via) che interagiscono a livelli diversi nella regione.
La penetrazione statunitense ha luogo a diversi livelli: l’aspetto economico, in
primo luogo il controllo delle fonti energetiche, è in realtà inscindibile da quello
politico e strategico. Il colossale progetto di un asse geo-economico mirante a
collegare il petrolio ed il gas dell’Asia centrale con il Mediterraneo, noto con
l’immaginifica denominazione di “Via della seta del XXI secolo” 47 , appare
parallelo al tentativo politico di eliminare la presenza russa dalla regione. Un
tentativo portato avanti anche sostenendo la costituzione di un asse tra i paesi ex
sovietici più ostili alla prospettiva di una ricomposizione politica intorno alla
Russia, il cosiddetto Guuam (acrostico di Georgia, Ucraina, Uzbekistan,
Azerbaigian e Moldavia), la cui prima riunione politica ha avuto luogo nel maggio
del 2000 48 . Nel Caucaso il principale beneficiario di questo progetto è – o
dovrebbe essere – l’Azerbaigian, a sua volta paese di grande rilevanza economica
per i giacimenti di petrolio del Caspio. Come anche per i paesi centro-asiatici le
prospettive collegate allo sfruttamento delle ricchezze naturali sono state utilizzate
per attrarre fuori dall’orbita russa i neo-indipendenti stati della regione, allettati da
miraggi di ricchezza rivelatisi illusori per diversi anni. Questa politica economica
ha tuttavia cominciato a dare i primi risultati tangibili nel 1999, quando è stato
inaugurato l’oleodotto che da Baku porta il petrolio a Supsa, sul litorale georgiano
del Mar Nero, ponendo così fine all’egemonia russa sull’esportazione del petrolio
caspico. Nello stesso anno la Georgia ha denunciato il trattato di sicurezza
collettiva della Csi, al quale l’Azerbaigian non aveva mai aderito, avvicinandosi
invece alla Nato. E la Russia ha effettivamente iniziato lo sgombero delle basi che
conservava in questa repubblica 49 . Non è da escludere che l’offensiva dei
guerriglieri ceceni in Dagestan nell’agosto del 1999 sia stata favorita
44
Sul coinvolgimento di queste tre repubbliche si veda A. FERRARI, Georgia, Armenia e
Azerbaigian. Pedine del nuovo “Grande Gioco”?, in «Quaderni di Relazioni Internazionali», 2006,
1, pp. 15-26.
45
M. FUMAGALLI, Le iniziative regionali della Turchia, in A. COLOMBO et al., Il Grande
Medio Oriente. Il nuovo arco dell’instabilità, Milano, 2002, pp. 109-158; M. AYDIN, Turkey’s
Policies toward the South Caucasus and its Integration in the EU, in «Quaderni di Relazioni
Internazionali», 2006, 1, pp. 51-62.
46
R. REDAELLI, Gli assi strategici della politica estera iraniana alla luce dell’attuale evoluzione
politica interna, in M. ANTONSICH et al., Geopolitica della crisi. Balcani, Caucaso e Asia
Centrale nel nuovo scenario internazionale, Milano, 2001, pp. 437-492.
47
Cfr. M.O. ZARDARIAN, Velikij Šelkovyj put’: istorija, kon’junktura, perspektivy, in
«Central’naja Azija i Kavkaz», 1999, 4 (5), pp. 175-183.
48
Per maggiori informazioni sulla struttura e le finalità di questa associazione di stati postsovietici si veda il sito http://www.guuam.org.
49
J. RADVANYI, Conflits caucasiens et bras de fer russo-américaines, in «Le Monde
diplomatique», octobre 2000, p. 18.
142
dall’impressione che la presa russa sull’intera regione caucasica fosse ormai
esaurita. L’energica reazione di Mosca, sotto un leader più energico dell’ultimo
El’cin, ha peraltro dimostrato che la situazione caucasica è più fluida di quanto si
possa pensare e talvolta desiderare.
3. Putin e la politica caucasica della Russia
Il Caucaso ha avuto in effetti una notevole importanza per la carriera politica di
Vladimir Putin, che era stato da poco nominato capo del governo quando,
all’inizio dell’agosto 1999, vi furono le già ricordate infiltrazioni di guerriglieri
ceceni in Dagestan. Tra la fine di agosto e i primi di settembre alcuni attentati –
attribuiti dal Cremlino a terroristi ceceni, peraltro senza presentare prove
convincenti – provocarono centinaia di vittime a Mosca ed in altre località del
paese. In reazione a tali fatti la macchina militare russa si rimise in moto, questa
volta con un andamento molto deciso delle operazioni. I guerriglieri vennero
espulsi dal Dagestan, poi la Cecenia fu nuovamente invasa, con una sostanziale
ripetizione delle diverse fasi del precedente conflitto: occupazione della zona
pianeggiante e delle principali città, ardua penetrazione nelle zone montagnose,
violenti contrattacchi della resistenza cecena. L’impressione di efficacia offerta da
Putin in quell’occasione fu fondamentale per la sua elezione a presidente nel
marzo 2000.
Nel corso di questa seconda occupazione della Cecenia, rifiutandosi di trattare non
solo con i comandanti militari come Basaev, ma anche con il presidente
Maschadov, la Russia ha invece cercato di individuare un interlocutore politico
malleabile. Un interlocutore che è stato dapprima l’ex sindaco di Groznyj, Belan
Gantemirov, quindi – nel giugno del 2000 – la suprema autorità religiosa cecena,
il mufti Achmed Kadyrov, che negli anni precedenti si era opposto ai tentativi di
Basaev di imporre un regime islamico al paese. Una figura quindi ostile al
radicalismo islamico e disposto a collaborare con Mosca, ma la cui azione è stata
fortemente limitata tanto dall’ostilità dei suoi rivali tra i connazionali filorussi
quanto dagli scarsi poteri a sua disposizione. Benché buona parte della
popolazione cecena, stanca di una situazione ormai insostenibile, abbia accettato il
ritorno della sovranità russa, i combattenti più irriducibili si sono asserragliati
sulle montagne, rinforzati da volontari islamici di diversa origine, bene armati e
decisi a resistere a oltranza, anche iniziando il ricorso ad azioni suicide 50 . In
questa situazione, le possibilità di un’estensione del conflitto alle vicine regioni
caucasiche, soprattutto al Dagestan, sono nel complesso aumentate 51 .
50
T. VALASEK, The Changing Face of the Chechnya War, in «Weekly Defense Monitor», 13
July 2000, http://www.cdi.org.
51
S. LEVINE, Upheaval in Caucasus, Central Asia Comes as No Surprise, in «Eurasia Insight»,
28 September 2000, http://www.eurasianet.org.
143
Anche sotto la nuova presidenza la Russia, quindi, … appears to try to restore its
influence throughout the region, on all sides, in every conflict, in order to prevent
developments from slipping out of control and so opening the floodgates to
outside interference 52 . Per raggiungere questo obbiettivo Putin sembra utilizzare
due distinte politiche: una puramente repressiva in Cecenia, l’altra più flessibile
ed incentrata prevalentemente, ma non esclusivamente, sulle leve diplomatiche ed
economiche in Transcaucasia. Occorre considerare che anche nel Caucaso la
Russia è da alcuni anni grandemente favorita dalla favorevole congiuntura
economica, che grazie agli alti prezzi petroliferi ha posto Putin in una situazione
incomparabilmente migliore di quella in cui si era trovato El’cin nel decennio
precedente, consentendogli di elaborare una vera e propria strategia energetica
globale 53 . Al tempo stesso, però, Putin ha dovuto confrontarsi con il
ridispiegamento strategico di Washington verso il cosiddetto Grande Medio
Oriente seguito all’11 settembre 2001, che ha ovviamente coinvolto anche il
Caucaso (e l’Asia Centrale).
L’incondizionato avvicinamento, almeno verbale, agli Stati Uniti e
l’opportunistica adesione allo slogan della “lotta al terrorismo internazionale”
dettati dalla possibilità di migliorare in maniera sostanziale la posizione della
Russia nei confronti dell’Occidente, nella sfera economica come in quella
strategica 54 , hanno consentito alla Russia di avere un sostanziale via libera alla
repressione militare della Cecenia, che continua ad essere portata avanti con
sistemi particolarmente detestabili. Questo, tuttavia, non ha certo portato ad un
progresso della situazione nella regione. Sul fronte militare l’esercito russo ha
ottenuto notevoli successi negli ultimi, portando duri colpi alla resistenza cecena
ed eliminando alcuni tra i leader principali (sono stati uccisi gli arabi Khattab e
Abu Walid, Jandarbiev, quest’ultimo nel Qatar con una discussa operazione dei
Servizi di Sicurezza, mentre Charbiev è stato costretto alla resa). Ma questi
progressi sul fronte bellico, pagati peraltro a durissimo prezzo dalla popolazione
civile, non hanno certo prevenuto l’organizzazione di gravissimi atti terroristici,
sia in Cecenia e nelle regioni limitrofe del Caucaso (in particolare Ossetia e
Inguscetia) sia in Russia (come hanno dimostrato soprattutto i tragici eventi del
teatro Dubrovka a Mosca, 23-25 ottobre 2002 – costati la vita non solo all’intero
commando ceceno che se ne era impadronito, ma anche a 129 civili russi). Anche
in Cecenia, inoltre, si è diffuso negli ultimi anni la pratica di origine vicinoorientale degli attentati suicidi, compiuti talvolta da donne.
52
D. TRENIN, Russia’s Security Interests and Policies in the Caucasus Region, in B.
COPPETIERS (ed.), Contested Borders in the Caucasus, cit., (consultabile in rete:
http://poli.vub.ac.be/publi/ContBorders/eng/contents.htm).
53
Per la politica energetica di Putin si veda M. OLCOTT, Vladimir Putin and the Geopolitics of
Oil, in The Energy Dimension in Russian Global Strategy, The James A. Baker III Institute for
Public Policy at Rice University, 2004, http://www.carnegie.ru/en/pubs/workpapers/71963.htm.
54
Su questo tema si veda P. SINATTI, La Russia dopo l’11 settembre, in «Affari Esteri», 2002,
133, pp. 125-140 e il mio articolo I dilemmi del Cremlino tra eurasismo e occidentalismo, in
«Limes. Rivista italiana di Geopolitica», 2002, 3, pp. 227-236.
144
Nonostante l’ostentata sicurezza delle dichiarazioni delle autorità di Mosca, la
questione cecena è tuttora tragicamente aperta. Oltre alla mancanza di una politica
di sviluppo dell’intera regione nord-caucasica, che pure potrebbe essere favorita
dall’odierno momento positivo dell’economia russa 55 , il nodo cruciale della
situazione è dato dalla totale mancanza di legittimazione da parte di Mosca della
controparte separatista, definita tout court terroristica e con la quale si rifiutano
trattative politiche per tentare di risolvere in conflitto in ogni maniera che non sia
la resa incondizionata. Tanto gli elementi irriducibili come Basaev, ucciso il 10
luglio di quest’anno, quanto quelli politicamente più moderati – come il
presidente Maschadov – sono stati esclusi da ogni trattativa, mentre Mosca ha
puntato tutte le sue carte sul consolidamento di Kadyrov, inviso a buona parte
della popolazione locale. Nel marzo 2003 ha avuto luogo un referendum con il
quale è stata approvata – con una sospetta percentuale favorevole del 96% – la
nuova costituzione, che conferma l’inserimento della Cecenia nella Federazione
Russa e ne sancisce un ordinamento fortemente presidenziale. Quest’ultimo
aspetto è determinato dalla volontà di Mosca che il proprio proconsole in Cecenia
disponga di forti poteri, ma al tempo stesso non corrisponde alla struttura clanica
della società cecena, che richiederebbe invece una amministrazione il più
possibile condivisa e rappresentativa. Neppure l’amnistia concessa nel maggio
1993 a tutti i combattenti non coinvolti in atti criminali – omicidi, rapimenti,
stupri – ha contribuito ad una ricomposizione della situazione politica in Cecenia.
Kadyrov combatteva aspramente i radicali islamici (i wahabiti, come vengono
chiamati solitamente in Russia), cercando al tempo stesso di avvicinare a sé i capi
dei vari clan. Tuttavia le sue forze di sicurezza, alla cui testa aveva nominato il
figlio Ramzan, si rendevano responsabili di tali violenze ed arbitri da renderne
sempre più impopolare la guida. La sostanziale mancanza di legittimità del potere
di Kadyrov venne confermata proprio dalle grottesche elezioni dell’ottobre 2003,
in cui egli è stato eletto presidente dopo che gli altri principali candidati erano
stati convinti dalle pressioni russe a ritirarsi e con una affluenza alle urne altissima
secondo le autorità federali ma quasi inesistente nella realtà 56 .
Nei mesi successivi alle elezioni la popolarità di Kadyrov è rimasta bassissima,
cosicché l’attentato che il 9 maggio 2004 pose fine alla sua vita non ha certo
costituito una sorpresa. La scomparsa di Kadyrov ha inferto realmente un duro
colpo alla politica russa in Cecenia, basata esclusivamente sulla repressione e
priva di una visione di lunga durata. La sua morte – seguita da una nuova ondata
di violenze e arbitri, nonché dall’intensificazione delle azioni della guerriglia, sia
55
Anzi, il perdurare del conflitto in Cecenia ostacola pesantemente lo sviluppo dell’intera area,
che pure avrebbe interessanti prospettive. Cfr. al riguardo A. FERRARI, La regione del Mar Nero
e la politica estera russa, in A. COLOMBO et al., Il Grande Medio Oriente. Il nuovo arco
dell’instabilità, cit., soprattutto pp. 92-93.
56
T. ALIYEV, Chechen Election Goes just about to Plan, in «Caucasus Reporting Service», n. 9
October 9, 2003, 199, http://www.iwpr.net.
145
contro le truppe federali che contro le forze di polizia locale fedeli a Mosca 57 –
avrebbe potuto indicare alle autorità russe la necessità di un cambiamento di
strada nella loro politica verso la Cecenia. Ma non sembra che questa svolta abbia
avuto luogo. Inizialmente il presidente Putin aveva dato l’impressione di voler
semplicemente sostituire il presidente ucciso con suo figlio Ramzan, ricevendolo
al Cremlino poche ore dopo l’attentato e nominandolo primo vicepremier. In
seguito ha però abbandonato questo progetto, che con ogni probabilità avrebbe
peggiorato ulteriormente la situazione, non tanto per la giovane età del
personaggio, quanto per l’odio che la sua temuta milizia gli ha procurato. Alla
successione di Kadyrov Mosca ha designato Alu Alchanov, in precedenza
ministro degli Interni. Le elezioni presidenziali sono state precedute da una serie
di violente operazioni militari della guerriglia, sia in Cecenia che nelle regioni
limitrofe, nonché dai due attentati aerei della notte tra il 23 ed il 24 agosto,
probabilmente di matrice cecena, che hanno provocato 89 vittime. Le elezioni del
29 agosto ratificarono la scelta delle autorità russe, ma senza certo porre fine alla
tragedia della Cecenia.
Non è certo un caso che immediatamente dopo queste elezioni la cittadina di
Beslan, nell’Ossetia settentrionale, sia stata vittima della più grave tragedia del
Caucaso post-sovietico. Il primo settembre, un commando ceceno prese in
ostaggio un migliaio di persone. I terroristi chiedevano il ritiro delle truppe russe
dalla Cecenia e la liberazione dei prigionieri accusati di terrorismo. Dopo inutili
trattative, l’intervento dei militari russi ha causato centinaia di vittime, soprattutto
bambini. Questo tragico episodio ha dimostrato come sia tutt’altro che tramontato
il rischio che dalla Cecenia il conflitto possa estendersi alle vicine regioni
caucasiche 58 .
Una politica di “cecenizzazione” che si fondi essenzialmente sul potere di un
presidente imposto dalla Russia ed appoggiato da una milizia brutale non può
certo ottenere il consenso necessario ad avviare questa regione sulla via di una
pacificazione che sarà comunque difficile e irta di problemi di ogni genere. In
Cecenia tale consenso può essere raggiunto solo coinvolgendo nella maggior
misura possibile nel governo le entità claniche (tejp) che ne costituiscono tuttora il
fondamento sociale. Un organo collettivo, una sorta di “Loya Jirga” locale,
corrisponderebbe alla tradizione politica e sociale cecena assai più di un
presidente-proconsole 59 . Per quanto non certo esente da rischi, un processo di
questo tipo – magari sanzionato in seguito da una modifica costituzionale che
57
U. DUDAEV, Killings on the Increase, in «Caucasus Reporting Service», 9 June, 2004, 237,
http://www.iwpr.net.
58
In seguito anche la repubblica cabardino-balcara è stata di recente sanguinosamente coinvolta
nel conflitto, quando - il 15 ottobre 2005 - un numeroso reparto di miliziani ceceni ha attaccato la
capitale Nal'cik, provocando decine di vittime. Negli ultimi mesi, inoltre la situazione politica ed
interetnica si è visibilmente deteriorata anche nel Dagestan e non è da escludere che nei prossimi
mesi la relativa tranquillità di questa repubblica possa venir meno.
59
T. DE WAAL, Chechnya: Time for an International Role?, in «Caucasus Reporting Service»,
16 June, 2004, 238, http://www.iwpr.net.
146
trasformi la repubblica cecena da presidenziale a parlamentare – potrebbe
contribuire al miglioramento della situazione. Inoltre, non si vede come la Russia
possa pensare di giungere ad una pacificazione definitiva della Cecenia senza
riconoscere il diritto di sedere al tavolo delle trattative anche ai leader separatisti,
o almeno a quelli di essi – come Maschadov e Zakaev – che, oltre a mantenere
una legittimità politica, non sono influenzati dall’islamismo radicale.
Un processo di questo tipo richiederebbe però da parte russa e cecena una volontà
politica di comprensione reciproca che sembra essere del tutto assente. La
conclusione della tragedia della Cecenia appare in effetti lontana. Nelle sue
diverse fasi il conflitto dura ormai da oltre un decennio ed ha prodotto una
profonda radicalizzazione da entrambe le parti. Nel campo ceceno si trovano
indubbiamente numerosi estremisti, tra i quali i fondamentalisti islamici che
considerano i russi “infedeli” da sterminare e perseguono l’obbiettivo politico di
costituire uno stato islamico nel Caucaso settentrionale. Si tratta evidentemente di
uno scenario politico che potrebbe avere conseguenze disastrose per la Russia,
alla quale non può quindi essere negato il diritto di opporvisi. Al tempo stesso,
come è stato osservato, non tutti coloro che cercano l’indipendenza possono
essere considerati come terroristi o fanatici, benché, naturalmente, elementi del
genere possano essere presenti 60 . Mosca continua invece a rifiutare ogni soluzione
politica che non consista nella completa sconfitta dei “terroristi” per mezzo di una
brutale repressione – che non può neppure essere definita militare – e la creazione
di un governo fantoccio. La demonizzazione del nemico determina una percezione
non politica, bensì metafisica e strumentale al tempo stesso del conflitto in corso.
In questo senso l’inserimento della resistenza cecena nella onnicomprensiva
categoria del “terrorismo internazionale” è un’arma a doppio taglio, che aiuta a
legittimare la repressione militare, ma allontana al tempo stesso la soluzione
politica. L’imbarbarimento di entrambi i contendenti ed il loro rifiuto di
riconoscere alla controparte ogni legittimità non possono non indurre al
pessimismo riguardo alla possibilità che il conflitto che da oltre dieci anni devasta
la Cecenia possa concludersi in tempi brevi. Dalle autorità della Russia postsovietica, che sta pagando questo conflitto con un altissimo prezzo – umano e
morale, prima ancora che economico – sembra legittimo attendersi un
atteggiamento differente da quello avuto sinora, senza che lo schermo della lotta
al terrorismo internazionale impedisca ancora la ricerca di una soluzione
indubbiamente difficile, ma necessaria.
L’incapacità di trovare una soluzione politica alla resistenza cecena, ridotta
unicamente a questione terroristica, rende ancor più difficile per Mosca opporsi
alla penetrazione statunitense nelle repubbliche indipendenti della Transcaucasia.
La politica di Putin in questa regione ha tuttavia segnato un cambiamento
significativo rispetto a quanto era avvenuto nel decennio precedente. In
particolare Putin si è sforzato di superare la mancata coincidenza tra la politica
60
R. MENON - G.E. FULLER, Russia’s Ruinous Chechen War, in «Foreign Affairs», 79, 2002, 2,
p. 44.
147
estera dello stato e l’interesse delle grandi compagnie petrolifere russe che aveva
ostacolato l’azione di Mosca nella regione. La decisa, se non brutale, opera di
riappropriazione delle compagnie petrolifere russe da parte dello stato ha avuto
ripercussioni notevoli nella regione 61 , soprattutto per quel che riguarda
l’Azerbaigian. Qui, oltre a sanare diversi contenziosi accumulatisi in precedenza e
a legittimare la transizione ereditaria del potere, Putin ha finalmente acconsentito
alla costruzione del contestato oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan. Tanto in Georgia
quanto in Armenia, inoltre, la politica russa ha iniziato a far leva sull’economia.
Tra il 2002 ed il 2003 Mosca acquisì il controllo pressoché totale dell’energia
elettrica in Georgia 62 , estendendo ulteriormente la sua penetrazione economica in
Armenia, della quale controlla ora circa la metà dell’energia elettrica e – dal
settembre 2003 – anche la centrale nucleare di Metzamor 63 . Questo spregiudicato
uso politico dell’economia da parte della Russia appare in effetti collegato all’idea
di “impero liberale” elaborato dall’influente Anatolij Čubais, noto per avere
guidato le liberalizzazioni nei primi anni Novanta ed attualmente a capo di una
vasta holding energetica di Stato, la Rao Ues. A partire dalla fine del 2003 Čubais
si è più volte espresso a favore di questa prospettiva, che consentirebbe al paese
più industrializzato e maggiormente dotato di risorse energetiche, umane e militari
fra gli stati membri della Csi, di tornare ad assumere il ruolo che gli compete e di
edificare un moderno impero basato sui principi liberali della tolleranza e della
cooperazione. In maniera non dissimile dagli Stati Uniti, la Russia dovrebbe
ricostituire la sua egemonia sull’area ex-sovietica su queste nuove basi, con un
accorto utilizzo degli strumenti a sua disposizione, primo fra tutti la leva delle
risorse energetiche, ma anche accordando sostanziale libertà di movimento e di
lavoro in territorio russo alle intense correnti migratorie in provenienza
principalmente dall'area caucasica e centroasiatica 64 .
Al di là della discutibile consistenza dell’idea della Russia come “impero liberale”,
non vi è dubbio che la politica estera di Mosca negli ultimi anni si stia servendo
ampiamente delle leve energetiche, in particolare – ma non solo – nei confronti
delle repubbliche ex-sovietiche. Assai prima del conflitto con l’Ucraina per il gas
a cavallo tra 2005 e 2006, la Transcaucasia può in effetti essere considerata il
banco di prova di questa nuova strategia russa.
Un altro aspetto importante di questa politica estera basata principalmente sugli
strumenti economici, è il riavvicinamento alla Turchia, con la quale aveva avuto
in precedenza forti contenziosi sia in Europa (Bosnia e Kosovo) sia nello stesso
61
P. BAEV, Russia’s Policy in North and South Caucasus, cit., p. 45.
M. TSERETELI, Russian Energy Expansion in Caucasus: Risks and Mitigation Strategy, 27
August 2003, http://www.cacianalyst.org/viewarticlephp?articleid=1675.
63
H. KHACHATRIAN, Russian Moves in Caucasus Energy and Power Sectors Could Have
Geopolitical Impact, in «Eurasia Insight», 25 September 2003, http://www.eurasianet.org/
departments/business/articles/eav092502.shmtl.
64
I. TORBAKOV, Russian Policymakers Air Notion of “Liberal Empire” in Caucasus, Central
Asia, in «Eurasia Insight», 27 October 2003, http://www.eurasianet.org/departments/insight/
articles/eav102703.shtml.
62
148
Caucaso (Alto Karabakh e Cecenia). Da alcuni anni Mosca e Ankara hanno
invece trovato opportuno migliorare i loro rapporti. A livello economico è da
segnalare soprattutto la costruzione del gasdotto sottomarino Blue Stream, che
porta il gas russo in Turchia attraversando il Mar Nero, nonché il forte
intensificarsi del flusso turistico tra i due paesi. A livello strategico, invece,
Russia e Turchia – quest’ultima soprattutto dopo il peggioramento dei rapporti
con Washington in seguito alla Guerra del Golfo – trovano conveniente limitare
la penetrazione statunitense nel Caucaso 65
Oltre a perseguire queste nuove strategie di carattere prevalentemente economico,
Mosca continua peraltro a portare avanti nel Caucaso alcuni aspetti della politica
precedente. In particolare ha riconfermato il suo appoggio alle regioni separatiste,
soprattutto ad Abkhazia e Ossetia meridionale, che fanno parte della sempre meno
controllabile Georgia. Un altro aspetto importante di questa politica è il tentativo
di mantenere il più a lungo possibile le proprie basi militari in Georgia ed
Armenia. E’ evidente che Mosca si è servita di queste basi per preservare la
propria declinante presa sulla Georgia. In ogni caso il parlamento georgiano non
ha mai ratificato il trattato del 1995, il che ha consentito al governo di chiedere in
seguito la chiusura delle basi russe. Nel novembre 1999, durante il vertice Osce di
Istanbul, Georgia e Russia firmarono un nuovo trattato per la graduale riduzione
della presenza militare russa. Le basi di Gudauta e Vaziani avrebbero dovuto
chiudere, ma questo è avvenuto solo per la seconda. La prima, situata in Abkhazia,
ha continua ad ospitare una forza militare russa di peace-keeping, tanto gradita
agli abkhazi quanto invisa al governo di Tbilisi. La presenza delle basi russe in
Armenia non è invece mai stata messa in discussione a causa del perdurare della
percezione della minaccia turca da parte di Erevan. Nel complesso tuttavia, la
reale rilevanza strategica di queste basi è discutibile. In particolare, da più parti
vengono sollevate “…questions about the purpose and the rationale of the Russian
military bases in Georgia and Armenia, since their dismal status stands in sharp
contrast to the strategic importance that is often ascribed to them. Indeed, the few
thousand troops stationed in those bases are at a low state of readiness and
increasingly resemble lost legions that have few chances of seeing reinforcements
arriving swiftly in a time of crisis” 66 .
In ogni caso, la presenza di queste basi e la pressione energetica non hanno potuto
impedire la penetrazione statunitense in Georgia, avvenuta – almeno ufficialmente
– sotto il segno della lotta al terrorismo. Sin dal febbraio 2002, infatti, gli Stati
Uniti hanno inviato in Georgia un contingente militare, sia pur limitato (200
uomini) e preposto all’addestramento anti-terroristico (progetto Train and Equip).
Il dispiegamento di militari statunitensi in Georgia è seguito alla “scoperta” di
militanti di al-Qaeda nella repubblica ex-sovietica di Georgia, precisamente nella
valle settentrionale del Pankisi, che costituisce da anni il principale canale
65
F. HILL - O. TASPINAR, La Russie et la Turquie au Caucase: se rapprocher pour préserver le
statu quo?, in «Russie.Nei. Visions», 2006, 8, pp. 4-5.
66
P. BAEV, Russia’s Policy in North and South Caucasus, cit., p. 48.
149
attraverso cui si alimenta la guerriglia separatista cecena. Nonostante Putin abbia
cercato di far buon viso a cattivo gioco dichiarando che l’arrivo di militari
statunitensi in Georgia non preoccupa il governo russo, tale fatto – che segue di
poco il loro più consistente dislocamento nelle repubbliche centroasiatiche ex
sovietiche – ha un significato strategico molto preoccupante per la Russia. Viene
in effetti ad essere compromessa la dottrina strategica, affermata a partire dalla
fine del 1993, secondo la quale Mosca rivendica funzioni di peacekeeping e
mantenimento della stabilità nel territorio dell’intera CSI e la formazione di una
fascia di “buon vicinato” lungo i confini russi. La presenza americana in Georgia,
in una regione di vitale importanza strategica per la Russia, costituisce inoltre un
fattore che inquieta larga parte dell’opinione pubblica russa, nonché i vertici
militari 67 . Da parte russa si sospetta infatti in primo luogo che questi istruttori
possano addestrare le truppe georgiane in vista di una riconquista di Abkhazia e
Ossetia meridionale, prospettiva assai poco gradita a Mosca 68 . Più in generale, la
Russia teme che – nonostante le smentite ufficiali di Washington – l’operazione
Train and Equip abbia costituito un primo passo per l’insediamento stabile di
truppe statunitensi nella regione.
Nel corso del 2002 e del 2003 i rapporti tra la Georgia e la Russia hanno
conosciuto fasi alterne. Alcuni segnali positivi si sono avuti nella sfera economica,
ma in quella politica i rapporti russo-georgiani sono sempre tesissimi. Mosca ha
mantenuto il regime di visto obbligatorio con la Georgia, emettendo al tempo
stesso passaporti russi in Abkhazia e Ossetia. Ma è soprattutto la presenza di
guerriglieri ceceni nella valle di Pankisi ad aver avvelenato i rapporti tra Mosca e
Tbilisi. Dopo un misterioso bombardamento aereo di questa località il 23 agosto
2002, attribuito dalle autorità georgiane alla Russia (che ha ufficialmente
smentito), il presidente Putin è giunto a minacciare un’azione militare russa,
provocando una forte preoccupazione a Tbilisi, che – nonostante i gravi problemi
di budget – incrementò immediatamente le sue spese militari 69 . Un incontro tra
Putin e Shevarnadze avvenuto a Chisinau (Moldavia) il 6 ottobre dello stesso anno
sembrò aver in parte migliorato la situazione. I presidenti dei due paesi
raggiunsero un accordo sul controllo congiunto della valle di Pankisi per
controllare lo sconfinamento in Russia di guerriglieri ceceni e Shevarnadze si
spinse a definire la Russia uno dei due principali partner strategici del suo paese,
67
I. TORBAKOV, Putin Faces Domestic Criticism over Russia’s Central Asia Policy, in «Eurasia
Insight», 2 December 2002, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/eav021202.
shtml.
68
J. SILVERMAN, Russian Manoeuvring in Kodori Exposes Tangle of Georgian Interests, in
«Eurasia Insight», 17 April 2002, http://www.eurasianet.org/departments/insight/artcles/
eav041702a.shtml.
69
I. ARESHIDZE - I. CHKHENKELY, Georgian Diplomats, Blaming Russia, Invite Important
Questions, in «Eurasia Insight», 27 November 2002, http://www.eurasianet.org/departments/
insight/articles/eav112702.shtml.
150
ovviamente insieme agli Stati Uniti 70 . Tale dichiarazione, peraltro, suscitò
immediatamente le reazioni negative degli oppositori del presidente, che vi
lessero un pericoloso cedimento alle pressioni russe 71 . La politica di equilibrio tra
Russia e Occidente condotta da Shevarnadze risultava ormai insoddisfacente sia
verso l’interno che verso l’esterno. Mentre in Russia la sempre più stretta
cooperazione militare di Tbilisi con gli Stati Uniti (e la Turchia) 72 suscitava una
crescente irritazione, così come l’esplicito appoggio alla guerra in Irak, per altri
aspetti la posizione di Shevarnadze appariva a Washington eccessivamente
succube a Mosca, come nelle questioni energetiche.
Nel 2003 la popolarità di Shevarnadze era ormai molto bassa, soprattutto alla luce
di una situazione economica sempre difficilissima. A partire dalle elezioni locali,
che si svolsero il 2 giugno in un’atmosfera di disordine e violenza, il potere
dell’anziano presidente iniziò a sgretolarsi rapidamente. Gli Stati Uniti
cominciarono ad appoggiare direttamente e indirettamente i suoi oppositori
(soprattutto con i finanziamenti di George Soros a movimenti giovanili e reti
televisive) 73 . La “rivoluzione di velluto” è stata guidata principalmente da persone
di netto orientamento filo-occidentale, come Nino Burjanadze, Zurab Zhvania e
soprattutto Mikhail Saakashvili, impostosi come la figura dominante
dell’opposizione. Dopo i clamorosi brogli elettorali nelle elezioni parlamentari del
2 novembre, che avevano visto la contestatissima vittoria delle forze filopresidenziali, la situazione è sfuggita di mano a Shevarnadze, costretto alle
dimissioni il 23 novembre del 2003. Dimissioni in qualche modo concordate con
la Russia, il cui ministro degli esteri – Igor’ Ivanov – era in quei giorni a Tbilisi
per seguire l’evolvere della situazione. Dopo una presidenza pro-tempore di Nino
Burjanadaze, le elezioni del 4 gennaio 2004 hanno visto il trionfo di Mikhail
Saakashvili, che ha ottenuto il 97,5% dei voti.
Questa evoluzione politica della Georgia è avvenuta indubbiamente con il favore
ed il sostegno degli Stati Uniti. Washington è intenzionata a fare della Georgia il
paese chiave del suo ridispiegamento strategico e militare nella regione caucasica,
più di quanto – per differenti ragioni – possano divenirlo l’Armenia e
l’Azerbaigian. Non a caso il ministro della difesa Donald Rumsfeld visitò Tbilisi
già nel dicembre 2003, invitando tra l’altro la Russia a chiudere le sue basi
militari in questo paese. A Mosca è diffuso il timore che le truppe russe possano
essere sostituite da quelle statunitensi, magari all’interno delle stesse basi tanto a
lungo contestate. Nonostante le smentite di Washington, non vi è dubbio che
70
Georgian President revises Foreign Policy concept, in «Caucasus Report», 24 October 2002,
http://www.rferl.org/Caucasus-report/2002/10/ 35-241003.html.
71
G. KANDELAKI, Shevarnadze’s Chisinau Concessions Shatter Georgia’ Political Unity, in
«Eurasia Insight», 10 September 2002, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/
eav100902.shtml.
72
I. TORBAKOV, Expanding Turkish-Georgian Strategic Ties Rankle Russia, in «Eurasia
Insight», 25 April 2003, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/eav042503.shtml.
73
P. SINATTI, La Georgia tra Mosca e Washington, in «Limes. Rivista di geopolitica», 2004, 1,
p. 292.
151
proprio la Georgia sia il punto di partenza del processo di transizione egemonica
che sta avvenendo nella Transcaucasia ed alla quale Mosca si oppone peraltro
strenuamente 74 .
Si tratta comunque di un processo non esente da rischi. Il più immediato può
provenire dalla tentazione, oggi forte a Tbilisi, di sfruttare l’appoggio statunitense
per riprendere la politica micro-imperiale di Gamsakhurdia e porre fine in maniera
violenta alla virtuale indipendenza delle repubbliche secessioniste. Questo
potrebbe determinare una ripresa dei conflitti inter-etnici, raffreddatasi ormai da
dieci anni ma sostanzialmente irrisolti. Lo slogan “Riprendiamoci la Georgia”
utilizzato dal blocco elettorale guidato da Saakashvili, Movimento Nazionale,
risulta non poco inquietante per abkhazi e osseti. Soprattutto dopo quel che è
avvenuto in Agiaria. Il presidente di questa repubblica, Abashidze, che da
oppositore di Shevarnadze era divenuto suo alleato nel corso del 2003, aveva
assunto una posizione decisamente ostile alla nuova dirigenza di Tbilisi, facendo
affidamento sulla base militare russa dislocata a Batumi. Nel maggio 2004, però, è
stato costretto alla resa, rifugiandosi in Russia. L’Agiaria è quindi ritornata sotto il
controllo di Tbilisi, segnando l’inizio della riconquista del territorio nazionale che
faceva parte del programma elettorale di Saakashvili. Va però tenuto presente che,
per quanto prevalentemente musulmani, gli abitanti dell’Agiaria sono georgiani e
non hanno nei confronti di Tbilisi la forte ostilità di abkhazi e osseti. La partita per
riprendere il controllo dei territori abitati da queste popolazioni potrebbe quindi
risultare più difficile e foriero di gravi complicazioni internazionali. Tuttavia la
determinazione di Saakashvili di proseguire in questa direzione è fuori questione.
Poco dopo aver vinto la partita in Agiaria, il presidente georgiano ha iniziato
quella in Ossetia meridionale, per mezzo di una campagna consistente tanto in
dimostrazioni di buona volontà (donazioni di fertilizzanti, offerte di pagare le
pensioni agli abitanti della regione, tentativi di organizzare incontri culturali e
sportivi, trasmissioni televisive in lingua osseta), quanto in esibizioni di forza
militare. Nell’estate del 2004 la tensione in questa regione aumentò sensibilmente,
con tutta una serie di incidenti frontalieri, scaramucce ed accuse reciproche tra le
parti. La situazione è ancora oggi estremamente delicata e non è escluso che in
nell’immediato futuro possa precipitare verso un vero e proprio scenario di
guerra 75 .
L’intensificazione delle rivendicazioni georgiane su queste regioni dopo la
“rivoluzione delle rose” ha infatti ravvivato la prospettiva di un loro
incorporamento nella Federazione Russa. Più volte sollecitata dai dirigenti di
74
A questo riguardo si veda A. FERRARI, La Georgia tra Federazione Russa e Stati Uniti: un
modello di transizione egemonica?, in A. COLOMBO (a cura di), La sfida americana. Europa,
Medio Oriente e Asia Orientale di fronte all’egemonia globale degli Stati Uniti, Milano, 2005, pp.
56-78.
75
I. TORBAKOV, South-Ossetia Crisis Stokes Tension between Russia and Georgia, in «Eurasia
Insight», 25 August 2004, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/eav082504.
shtml; S. SMITH, South Ossetia Conflict Heats up, in «Caucasus Reporting Service» 12 August
2004, 246, http://www.iwpr.net.
152
Abkhazia e Ossetia meridionale, questa sorta di annessione di territori
giuridicamente appartenenti alla Georgia sembra peraltro scarsamente praticabile,
soprattutto alla luce delle forti ripercussioni interne ed internazionali che
un’operazione del genere potrebbe avere. Si pensi solo al caso della Cecenia. Non
vi è dubbio, tuttavia, che Mosca appaia ancora intenzionata a sostenere l’ufficiosa
indipendenza di queste repubbliche da Tbilisi. Tra l’altro, la possibilità di un
mutamento di status del Kosovo viene interpretato dalle autorità russe anche alla
luce di una analoga prospettiva riguardante la regioni secessioniste di Abkhazia e
Ossetia meridionale 76 .
L’invito alla prudenza rivolto da uno specialista statunitense dell’area alla nuova
leadership georgiana, ma anche ai policy-makers di Washington, appare pertanto
del tutto condivisibile: The United States should now help Georgia’s new
leadership think creatively about basic questions of sovereignty, territorial
control, and institutional design. The central government must recognize the
multiethnic and multireligious reality of the country. It must accept a decade of
state-building in the secessionist regions and allow local government to be
empowered. If these efforts succeed, Georgia could well become the positive
example for Eastern Europe and Eurasia that observers have long hoped for 77 .
In effetti la situazione in Georgia rischierebbe di diventare estremamente
pericolosa se si acutizzasse la rivalità tra la Russia e gli Stati Uniti per il controllo
di questo paese, soprattutto sfruttandone le tensioni interne. Un ulteriore
dispiegamento militare statunitense, magari con l’obbiettivo di difendere il nuovo
oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, confermerebbe i timori russi sulla volontà di
Washington di insediarsi stabilmente nel Caucaso ed inasprirebbe senza dubbio la
situazione. Tuttavia il rapporto tra Mosca e Tbilisi continua ad essere
estremamente teso, con segnali di schiarita rapidamente seguiti da momenti di
irrigidimento. L’annuncio, avvenuto il 30 maggio 2005, della chiusura delle ultimi
basi russe in Georgia entro il 2008 ha senz’altro contribuito a distendere i rapporti
tra i due paesi. Tuttavia l’aumento del prezzo del gas imposto da Mosca alla fine
dell’anno e gli attentati, non chiariti, che il 22 gennaio del 2006 hanno provocato
l’interruzione per alcuni giorni del rifornimento energetico alla repubblica
caucasica hanno di nuovo portato ad un peggioramento della situazione. Il
successivo blocco da parte di Mosca di prodotti agricoli georgiani (in particolare
vino e acqua minerale), ha mostrato ancora una volta quanto difficile sia il
76
I. TORBAKOV, Russia Plays up Kosovo Precedent for Potential Application in the Caucasus,
in «Eurasia Insight», 12 April 2006, http://www.eurasianet.org/departments/insigh/articles/
eav041206pr.shtml.
77
C. KING, A Rose Among Thorns. Georgia Makes Good, in «Foreign Affairs», 2004, 2, pp. 1318.
153
cammino verso l’instaurazioni di stabili rapporti di collaborazione tra Georgia e
Russia 78 .
Le relazioni della Russia con l’Armenia sono completamente diverse. Da un punto
di vista economico questa repubblica è in netto miglioramento, con tassi di
sviluppo intorno al 10% nel 2001-2002. L’evoluzione della situazione
internazionale dopo l’11 settembre 2001 ha però posto l’Armenia in una
situazione estremamente complessa. I tradizionali rapporti positivi con l’Iran –
uno dei paesi del cosiddetto “asse del male” – hanno creato alcune difficoltà con
Washington 79 . Inoltre, il dislocamento di militari statunitensi nella vicina
repubblica georgiana è stato osservato a Erevan con una certa inquietudine 80 , in
quanto potrebbe preludere ad una completa esclusione dalla Transcaucasia della
Russia, che dell’Armenia resta il sostegno principale contro l’Azerbaigian e
soprattutto la Turchia. E’ vero peraltro che negli ultimi anni vi sono stati alcuni
importanti segnali di distensione tra l’Armenia e la Turchia. Il 15 maggio 2002 i
ministri degli esteri dei due paesi (e dell’Azerbaigian) si sono incontrati ai margini
del summit della Nato di Reykjavik e altri colloqui hanno avuto luogo a giugno a
Istanbul, in occasione di una conferenza della Comunità economica del Mar Nero.
Un ulteriore elemento positivo è costituito dalla vittoria alle elezioni turche del
2002 del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, meno legato all’eredità kemalista
e quindi – almeno in teoria – alla tradizionale posizione negazionista riguardante
il genocidio armeno del 1915. Anche se una svolta in questo senso appare al
momento ancora remota, l’eventuale soluzione del complesso contenzioso turcoarmeno modificherebbe in effetti radicalmente le prospettive geopolitiche del
Caucaso. Anche nella mutata situazione internazionale il principale alleato
dell’Armenia rimane tuttavia la Russia. Nella sfera militare la stretta alleanza con
Mosca è stata riconfermata da una serie di nuovi accordi firmati nel novembre
2003 tra i ministri della difesa dei due paesi 81 . La specificità storica e geopolitica
dell’Armenia continua dunque a farne un fedele alleato di Mosca ed ha sinora
impedito una penetrazione strategica degli Stati Uniti in questo paese.
Ciononostante anche qui la situazione potrebbe conoscere un’evoluzione poco
gradita a Mosca. Va comunque segnalato come a livello di opinione pubblica
anche l’Armenia sembri indirizzarsi più chiaramente che in passato verso
Occidente piuttosto che verso la Russia. In un sondaggio condotto nel dicembre
2004 dall’Armenian Center for National and International Studies (Acnis) su un
78
Sul significato, non solo economico, che questa misura ha per la Georgia si veda l’articolo di
M. CORSO, To Georgia, Wine War with Russia: A Question of National Security, in «Eurasia
Insight», 13 April 2006, http://www.eurasianet.org/departments/insigh/articles/eav041306pr.shtml.
79
E. DANIELYAN, U.S. Sanctions Expose Unease over Warm Ties between Yerevan and Tehran,
in «Eurasia», 18 May 2002, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/pp051802.
shtml.
80
J-C. PEUCH, Possible US Military Buildup in Georgia Raises Armenian Concerns, in «Eurasia
Insight», 14 March 2002, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/pp031402.shtml.
81
S. BLAGOV, Armenia and Russia Reassert Bonds amid Georgia’s Crisis, in «Eurasia Insight»,
17 November 2003, http://www.eurasianet.org/departments/insigh/articles/eav111703.shtml.
154
campione di duemila persone, due terzi degli intervistati si sono detti favorevoli
all’ingresso nell’Unione Europea e solo il 12% contrari. Tutti i cento politici e
specialisti di politica internazionale contattati dall’Acnis hanno dato la stesa
risposta. Esito analogo ha dato un altro sondaggio, organizzato dall’agenzia “Vox
populi”, secondo il quale il 72% della popolazione di Erevan preferirebbe far
parte dell’Unione Europea anziché della CSI 82 . In una repubblica
tradizionalmente filo-russa si tratta di un dato rilevante, che risente certo degli
avvenimenti georgiani. La percezione del diminuito peso della Russia nella
regione sembra aver parzialmente influenzato anche l’orientamento dei vertici
politici armeni, che negli ultimi anni hanno rafforzato i legami con Nato, Stati
Uniti e Unione Europea.
In Azerbaigian il cambiamento delle prospettive geopolitiche dopo l’11 settembre
ha avuto conseguenze relativamente limitate. La leadership autoritaria e clanica di
Heydar Aliyev aveva stabilito rapporti preferenziali con gli Stati Uniti e la
Turchia senza però pregiudicare le relazioni con l’Iran e la Russia. Il presidente
Putin ha cercato sin dall’inizio del 2001 di migliorare le relazioni della Russia con
l’Azerbaigian, acconsentendo, sia pure in maniera ambigua, alla costruzione del
tanto contestato oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan. Per la Russia è in effetti di
particolare importanza economica la soluzione dei problemi di divisione del Mar
Caspio, dove è di gran lunga la maggior potenza militare (come mostrano le
ripetute, e a volte imponenti, manovre militari) 83 . Da parte di Baku la volontà di
migliorare i rapporti con Mosca deriva anche dal fatto che numerosi azeri
lavorano in Russia, contribuendo non poco con le loro rimesse all’economia dl
paese. Il miglioramento delle relazioni russo-azere ha in qualche modo limitato la
penetrazione statunitense, che pure è indubbiamente aumentata. In particolare si è
rafforzata la cooperazione militare, soprattutto per migliorare la flotta,
principalmente in funzione anti-iraniana 84 . Ciononostante, nel corso della guerra
in Iraq del 2003 l’atteggiamento dell’Azerbaigian è stato alquanto prudente, in
quanto Aliyev, la cui salute era ormai minata, non voleva sacrificare all’alleanza
con gli Stati Uniti il sentimento di solidarietà per l’Iraq ampiamente diffuso in un
paese musulmano come l’Azerbaigian. Benché la possibilità di accogliere basi
statunitensi non sia esclusa dalla dirigenza azera 85 , si ha in effetti l’impressione
che Baku abbia ceduto definitivamente alla Georgia la chance di divenire il paesechiave della penetrazione statunitense nella regione.
82
E. DANIELYAN, Polls Show Pro-Western Shift in Armenian Public Opinion, in «Eurasia
Insight», 11 January 2005, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/eav011105.
shtml.
83
P. BAEV, Russia’s Policy in North and South Caucasus, cit., pp. 46-47.
84
S. BLANK, U.S. Military in Azerbaijan, to Counter Iranian Threat, in «Central Asia-Caucasus
Analyst», 10 April 2002, http://www.cacianalyst.org/2002-04-10/20020410_US_AZERBAIJAN_
IRAN.htm.
85
F. ISMAILZADE, Heightened Geopolitical Competition over the Caucasus?, in «Central AsiaCaucasus Analyst», 17 December 2003, http://www.cacianalyst.org/view_article.php?articleid=
1977.
155
La discutibile operazione politica che ha visto la trasmissione ereditaria del potere
da Heydar Aliyev – morto alla fine del 2003 – a suo figlio Ilham, è stata bene
accolta sia dalla Russia che dagli Stati Uniti. Mosca spera evidentemente che
Ilham Aliyev, il quale per rafforzare la sua ancora debole posizione ha un forte
bisogno dell’appoggio del grande vicino settentrionale, abbia ereditato l’equilibrio
politico del padre. Per quel che riguarda Washington, gli interessi connessi al
transito petrolifero ed al controllo del radicalismo islamico sono troppo grandi
perché si guardi eccessivamente alle incerte credenziali democratiche del nuovo
presidente.
Mentre la Georgia è ormai apertamente proiettata verso gli Stati Uniti e l’Armenia
rimane in larga misura sotto il controllo di Mosca perché obbligata dalle sue
particolari questioni geopolitiche, l’Azerbaigian sembra quindi poter costituire
una sorta di modello delle nuove relazioni internazionali, in cui la superpotenza
statunitense agisce in parziale accordo con quella locale, in questo caso la
Russia 86 .
4.
Conclusioni
La recente politica della Russia post-sovietica nei confronti del Caucaso si
sviluppa dunque secondo due linee differenti. Nel Caucaso settentrionale, Mosca
ha dimostrato anche sotto la presidenza di Putin di non saper concepire una vera
alternativa alla politica di repressione in Cecenia (sia pure affidata ad una fazione
locale filo-russa), né di portare avanti un effettivo sviluppo economico dell’intera
regione. Da questo punto di vista il Caucaso continua a costituire davvero il punto
debole della Russia putiniana, anche se non si deve sottovalutare l’importanza che
a livello di politica interna continua ad avere la manifestazione di “fermezza”
manifestata verso questa regione. Nella Transcaucasia, invece, rispetto al
decennio di El’cin, all’uso spregiudicato delle rivalità interetniche ed al
mantenimento di basi militari nella regione ovunque possibile la Russia ha
iniziato ad aggiungere lo sfruttamento sempre più intenso delle leve economiche,
in particolare per quel che riguarda l’energia. Questa strategia, legata alla nuova
concezione di un “impero liberale” che sembra stare prendendo piede a Mosca,
non è tuttavia servita ad impedire che in seguito alla cosiddetta “rivoluzioni delle
rose” la Georgia si allontanasse ulteriormente dall’orbita russa, avvicinandosi
ancor più agli Stati Uniti ed all’Unione Europea. Nella stessa Armenia,
tradizionalmente l’alleato più fedele nella regione, si hanno crescenti segnali di un
desiderio di disimpegno dallo stretto e pur strategicamente indispensabile legame
con la Russia. Il paese in cui tale politica sembra aver dato frutti migliori è forse
l’Azerbaigian, che nonostante il completamento dell’oleodotto Baku-Ceyhan, ha
oggi migliorato i suoi rapporti con Mosca.
86
I. TORBAKOV, Russia Backs Dynastic Political Succession Scenario in Azerbaijan, in
«Eurasia Insight», 7 August 2003, http://www.eurasianet.org/department/insight/articles/
eav0800703a.shtml.
156
Nel complesso sembra possibile affermare che la politica russa nel Caucaso
appare rivolta essenzialmente al mantenimento dello status quo, per molti aspetti
favorevole a Mosca grazie all’eredità imperiale e sovietica, ma senza la capacità
di adattarsi realmente alla mutata situazione internazionale, in primo luogo
all’indipendenza delle tre repubbliche transcaucasiche. In particolare la Russia
sembra ancora soggetta ad una tentazione cripto-imperiale, che tende a ricondurre
sotto il suo controllo questi paesi che tendono invece, con particolare forza nel
caso della Georgia, a proiettarsi vero l’Europa e l’Occidente. In effetti, tanto sotto
la guida di El’cin quanto sotto quella di Putin la Russia non ha saputo dimostrarsi
un valido polo di attrazione per queste repubbliche (se non per l’Armenia,
costretta dalla sua particolare situazione geopolitica a mantenersi stretta a Mosca).
In particolare, la politica brutale in Cecenia e l’incapacità di realizzare un
adeguato sviluppo socio-economico del Caucaso settentrionale costituiscono un
biglietto da visita assai poco gradevole nei confronti dei paesi transcaucasici.
Questo ha reso con ogni probabilità irreversibile il distacco di Georgia e
Azerbaigian dall’orbita politica diretta della Russia.
Sia per la crescente penetrazione degli Stati Uniti sia per l’accresciuto interesse
dell’Unione Europea, la situazione politica e strategica del Caucaso meridionale
sta rapidamente cambiando. E qui, forse più che in ogni altra regione dell’ex-Urss,
Mosca deve trovare un difficile equilibrio tra la difesa dei suoi consistenti
interessi strategici e la nuova realtà politica internazionale.
157
LA DIMENSIONE STRATEGICA DELL’ASIA CENTRALE
TRA RUSSIA, CINA E USA
Matteo Fumagalli
Introduzione
La fine della guerra fredda e dell’era bipolare hanno portato ad uno
stravolgimento delle relazioni strategiche in Asia centrale. In epoca sovietica le
relazioni tra la regione ed il mondo esterno passavano da Mosca. Non vi erano
rappresentanze diplomatiche nella regione, l’accesso alla quale era interdetto alla
quasi totalità dei cittadini non sovietici, non vi erano élites diplomatiche
centroasiatiche e soprattutto non vi era alcuna sistematica riflessione teorica sul
ruolo che la regione potesse occupare nel sistema internazionale in quanto non se
ne vedeva la necessità: l’ordine nella regione era garantito da Mosca e l’input
delle élites regionali nel definire questo ordine pareva minimo. L’implosione dello
stato sovietico e la conseguente indipendenza delle cinque repubbliche
centroasiatiche hanno rimesso in discussione non solo questa certezza, ma anche
l’importanza strategica della regione.
Nell’immediato (i primi anni Novanta) il consolidamento statuale e dell’identità
nazionale costituivano le priorità delle élites centroasiatiche. Per le potenze
(geograficamente 1 ) esterne alla regione, oltre al consolidamento della statualità
delle cinque repubbliche (che avrebbe evitato irredentismo e secessionismo),
l’accesso alle risorse energetiche (petrolio e gas naturale) rappresentava la
principale ragione per allacciare rapporti con gli attori regionali. Verso la fine
degli anni Novanta apparve incofuntabile che la minaccia posta dal radicalismo
islamico avrebbe occupato un ruolo centrale nelle relazioni tra le repubbliche
post-sovietiche e ogni altro attore che avrebbe voluto interagire con loro.
Come avrebbero risposto le repubbliche centroasiatiche a questo crescente
interesse per la regione ha dato vita a una serie di dibattiti, accademici e non.
Sarebbero rimaste a gravitare nell’orbita russa o avrebbero optato per
l’allacciamento di rapporti più o meno stretti con altri attori, più o meno vicini? Di
contro, come avrebbe reagito l’unica superpotenza globale rimasta, gli Stati Uniti,
alla comparsa di un nuovo teatro regionale?
1
Chiarisco subito che il mio uso dei termini interno ed esterno alla regione è puramente
geografico. Infatti quello che mi propongo di mostrare è come l’appartenenza di un attore alla
regione sia stato oggetto di aspra contestazione, ma soprattutto l’articolazione della alterità di un
attore rispetto al contesto centroasiatico è stato utilizzato come giustificazione per ridurne la
presenza.
158
Al fine di rispondere a queste domande esaminerò il ri-allineamento strategico
dell’Asia centrale dall’indipendenza a oggi, facendo particolare attenzione alle
dinamiche successive agli attacchi dell’11 settembre 2001. E’ bene chiarire subito
che chi scrive non ritiene che gli attacchi dell’11 settembre abbiano costituito o
generato un cambiamento strutturale nel sistema internazionale. L’impatto degli
attacchi sulle relazioni strategiche in Asia centrale è stato tutt’altro che
secondario, ma rimangono forti elementi di continuità con il periodo sovietico e
irrisolte tensioni rendono prematuro ogni giudizio sull’effettivo consolidamento
del sistema regionale centroasiatico.
Policy-makers e analisti hatto fatto uso frequente di metafore e nuovi strumenti di
analisi per riferirsi alle dinamiche strategiche e di sicurezza dei paesi
centroasiatici e di quegli attori che hanno cercato di espandere la propria presenza
e influenza nella regione. Complesso di sicurezza regionale 2 e comunità di
sicurezza 3 sono i due concetti più comunemente usati nel corso degli ultimi
quindici anni per ripensare la formazione del sistema regionale in Asia centrale.
Esaminerò queste dinamiche guardando all’Asia centrale quale esempio di quelli
che Alessandro Colombo definisce “sistemi regionali post-unitari” 4 . Nella prima
parte del saggio in particolare mi concentrerò sulle strategie degli unici attori che
hanno mostrato di avere sia le risorse che la visione strategica per imporsi nella
regione (Russia, Cina e Stati Uniti) 5 , nonché sugli orientamenti internazionali
delle repubbliche della regione, evidenziandone somiglianze e differenze.
La seconda parte del saggio esamina due casi studio specifici: la nascita e crisi
della Partnership Strategica tra Stati Uniti e Uzbekistan (2001-2005) e il
consolidamento della Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco,
2001-2007). L’analisi di questi processi (di ascesa e declino statunitense,
consolidamento della egemonia russa e simultanea crescita dell’influenza
economica cinese) costituiscono due casi studio rappresentativi dei processi di
contestazione cui è stato soggetto il sistema regionale centroasiatico. Discutere i
due casi studio mi consentirà di esaminare uno dei fattori di instabilità che
secondo Colombo affliggono tali sistemi regionali: i deficit di legittimità che
gravano sui confini del sistema, sul numero e sull’identità dei suoi attori e
2
Si vedano: B. BUZAN - O. WÆVER, Regions and Power: The Structure of International
Security, Cambridge, 2003; R. ALLISON - L. JONSON (eds.), Central Asian Security: The New
International Context, London, 2001.
3
Si vedano: E. ADLER - M.N. BARNETT, Governing Anarchy: A Research Agenda for the Study
of Security Communities, in «Ethics and International Affairs», 10, 1996; J. HEATHERSHAW,
Worlds Apart: The Making and Remaking of Geopolitical Space in the US-Uzbekistan Strategic
Partnership, in «Central Asian Survey», 18, 2007, 1.
4
A. COLOMBO, Frammentazione e ordine internazionale. I sistemi regionali post-unitari e il
nuovo arco dell’instabilità, in «Quaderni di Relazioni Internazionali», 2006, 3.
5
Non sto sottintendendo che questa visione strategica sia sempre stata coerente o coerentemente
applicata.
159
sull’esistenza del sistema stesso 6 . Oggetto di contestazione nell’Asia centrale
post-sovietica, al pari di altri sistemi post-unitari, sono stati i confini (dove finisce
l’Asia centrale?), il numero e l’identità degli attori (gli Usa sono una potenza
centroasiatica? Che dire della Russia e della Cina?), nonché il sistema stesso
(esiste un sistema regionale centroasiatico separato da altri sistemi limitrofi?).
Concluderò questo contributo sostenendo che il recente ri-allineamento strategico
è il risultato di una convergenza normativa delle élites regionali, russe e cinesi. Il
concetto di comunità di sicurezza sviluppato da Adler e Barnett (e applicato al
contesto centroasiatico da Heathershaw 7 ) appare pertinente per cogliere
l’elemento coagulante della Organizazzione per la Cooperazione di Shanghai. Al
tempo stesso appare prematuro sostenere che il sistema regionale centroasiatico
sia ormai consolidato. Come sostiene Colombo con riferimento alla formazione
dei sistemi regionali sorti sulle ceneri del sistema unitario, la statualità tanto difesa
(assieme a una autentica gelosia della propria sovranità) dalle cinque repubbliche
centroasiatiche appare tuttora debole. Proprio questa debolezza e le tensioni
irrisolte costituiscono e anzi richiedono cooperazione tra attori regionali ed extraregionali.
1. Ripensare le dinamiche di integrazione e frammentazione regionali 8
Il crollo del sistema bipolare ha portato a una autentica proliferazione degli studi
sul regionalismo 9 e a un ripensamento di questioni relative alla sicurezza a livello
regionale 10 . Le teorie delle relazioni internazionali offrono una ricca selezione di
approcci che cercano di spiegare le dinamiche di frammentazione ed integrazione
seguiti alla fine del bipolarismo. Le teorie (neo)realiste 11 hanno tradizionalmente
sminuito il ruolo delle istituzioni internazionali e delle dinamiche cooperative fra
gli stati a favore di una presunzione del sistema quale anarchico, in cui il
comportamento degli attori (stati) è il risultato della distribuzione di potenza
(militare o economica). Negli approcci neorealisti le forme di cooperazione più
comuni sono le alleanze militari in cui gli attori più deboli collaborano e cercano
di bilanciare quell’attore che costituisce una minaccia. Se gli assunti neorealisti
fossero validi, nel contesto centroasiatico dovremmo aspettarci una cooperazione
6
A. COLOMBO, Frammentazione e ordine internazionale. I sistemi regionali post-unitari e il
nuovo arco dell’instabilità, cit., pp. 86-87.
7
J. HEATHERSHAW, Worlds Apart: The Making and Remaking of Geopolitical Space in the USUzbekistan Strategic Partnership, cit.
8
A. COLOMBO, Frammentazione e ordine internazionale. I sistemi regionali post-unitari e il
nuovo arco dell’instabilità, cit.
9
A.J. HURRELL, Explaining the Resurgence of Regionalism in World Politics, in «Review of
Iternational Studies», 21, 1995, 4.
10
P. KUBICEK, Regionalism, Nationalism and Realpolitik in Central Asia, in «Europe-Asia
Studies», 49, 1997, 4, p. 638.
11
K.N. WALTZ, Theory of International Politics, Reading, 1979; S.M. WALT, The Origins of
Alliances, Ithaca, 1987.
160
tra le repubbliche post-sovietiche al fine di controbilanciare una minaccia comune
(effettiva o immaginata). La conseguenza di questo comportamento sarebbe una
forte spinta integrativa verso la cooperazione regionale. In realtà non solo le
repubbliche dell’Asia centrale non hanno cooperato per bilanciare l’influenza
russa (il Turkmenistan si è dichiarato permanentemente neutrale, l’Uzbekistan ha
cercato di ridurre al minimo il retaggio culturale russo sul paese), ma alcuni
mantenevano stretti legami con Mosca (Kirghizistan e Kazachstan, pur all’interno
di una politica multivettoriale), e il Tagikistan entrava in una relazione di tipo
clientelare con questa. Un altro principio neorealista vedrebbe negli stati più
deboli i più accesi entusiasti di strutture multilaterali per bilanciare minacce
regionali. Di nuovo, il Tagikistan avrebbe dovuto farsi promotore di una serie di
strutture regionali per bilanciare il vicino Uzbekistan e le ambizioni di egemonia
regionale di questo stato, mentre invece Dushanbe ha preferito una stretta
relazione bilaterale con Mosca. L’intreccio della questione del degrado ambientale
con la proprietà e l’uso delle risorse naturali avrebbe dovuto mostrare il riscontro
empirico delle teorie dell’interdipendenza 12 . Poiché gli stati centroasiatici non
sono in grado di risolvere tali problemi (la dessiccazione del lago d’Aral e dei due
immissari, l’Amu Darya e il Syr Darya; la gestione e distribuzione delle risorse
naturali) tramite azioni unilaterali in quanto essi affliggono tutte le repubbliche
della regione (ad esempio l’Uzbekistan dipende dalle risorse idriche kirghize e
tagike e questi stati dipendono dal gas uzbeko), una soluzione richiede un’azione
congiunta, regionale e multilaterale. Ciò significa limitare la sovranità di stati che
quella stessa sovranità l’hanno acquisita solo recentemente. Aldilà di un certo
livello di cooperazione nel settore ambientale13 , mancano invece esempi di come
superare tali problemi di azione collettiva.
A differenza degli approcci (neo)realisti, le teorie della stabilità egemonica
vedono nella presenza di un “attore privilegiato” o “federatore esterno” 14 un
elemento necessario per superare i problemi di azione collettiva. Tali teorie
prevedono che gli stati più deboli si allineino all’attore più forte (bandwagoning).
Negli anni Novanta la Russia non ha né voluto né ha avuto le risorse per prendere
l’iniziativa di promuovere una cooperazione inter-statuale su base regionale,
intrattendendo relazioni bilaterali ad hoc. Non sono mancate strutture multilaterali
(che anzi abbondano, perlomeno sulla carta 15 ), ma gli effetti pratici di queste sono
apparsi di scarsa sostanza. Al tempo stesso le teorie della stabilità egemonica
hanno una certa utilità se applicate al contesto centroasiatico. Come in altri
12
E. WEINTHAL, State Making and Environmental Cooperation: Linking Domestic and
International Politics in Central Asia, Cambridge (Mass.), 2002.
13
S. HORSMAN, Uzbekistan’s Involvement in the Tajik Civil War 1992-1997: Domestic
Considerations, in «Central Asian Survey», 18, 1999, 1, pp. 37-48; E. WEINTHAL, State Making
and Environmental Cooperation: Linking Domestic and International Politics in Central Asia, cit.
14
P. KUBICEK, Regionalism, Nationalism and Realpolitik in Central Asia, cit., p. 639.
15
Per una rassegna dei vari tentativi di regionalismo e regionalizzazione si veda A. LIBMAN,
Regionalisation and Regionalism in the Post-Soviet Space: Current Status and Implications for
Institutional Development, in «Europe-Asia Studies», 59, 2007, 3.
161
sistemi regionali di recente formazione, anche quello centroasiatico ha mostrato
come l’ordine regionale sia esogeno in quanto le potenze internazionali – Usa e
Russia soprattutto – hanno giocato un ruolo fondamentale nel dar forma al sistema
regionale centroasiatico. Il problema di queste teorie, come pure di quelle
esaminate in precedenza, sostiene Kubicek, è che considerano gli attori
centroasiatici dei “non attori”, ossia dei recipienti passivi delle azioni e strategie
provenienti dall’esterno. Sia gli approcci costruttivisti alle relazioni
internazionali 16 che quegli studi di politica estera che affermano l’importanza di
fattori interni per comprendere le relazioni strategiche tra gli stati 17 sopperiscono
a questa mancanza. Due concetti appaiono pertinenti alla presente analisi:
innanzitutto il riconoscimento che l’ordine in Asia centrale non è solo esogeno,
ma al tempo stesso endogeno, nel senso che è anche il risultato delle strategie
elaborate dalle élites centroasiatiche. In secondo luogo le interazioni tra attori
interni ed esterni e le dinamiche che ne risultano possono essere comprese
appieno solo prendendo in considerazioni questioni di identità, norme e valori che
– se condivisi – danno vita a forme di comunità o, nel contesto dell’Asia centrale,
“regioni-comunità” 18 . Prima di procedere oltre, guarderò a come le dinamiche di
frammentazione e integrazione nella regione nell’era post-bipolare sono state
ripensate tenendo conto di questi elementi (esogenia o endogenia dell’ordine e
questioni identitarie).
1.1 La teoria del complesso di sicurezza regionale (regional security complex)
Alcuni degli elementi di novità più significativi che hanno seguito la fine dell’era
bipolare sono costituiti dalla prominenza assunta dalle regioni come attori di
politica internazionale e dalla regionalizzazione della sicurezza. Un modo di
ripensare la trasformazione della sicurezza internazionale e la sua
regionalizzazione è stato proposto da Buzan e Wæver attraverso la teoria del
complesso di sicurezza regionale (regional security complex theory, Rsct) 19 .
L’assunto principale della Rsct è che poiché le minacce alla sicurezza “viaggiano”
più rapidamente lungo brevi distanze che non attraverso spazi più estesi,
l’interdipendenza della sicurezza è strutturata su base regionale, intorno a quelli
che Buzan e Wæver chiamano “complessi di sicurezza regionali”. Gli stati che
16
E. ADLER - M.N. BARNETT, Governing Anarchy: A Research Agenda for the Study of
Security Communities, cit.
17
Si vedano: M.N. BARNETT, High Politics is Low Politics: The Domestic and Systemic Sources
of Israeli Security Policy, 1967-1977, in «World Politics», 42, 1990, 4; M.N. BARNETT - J.S.
LEVY, Domestic Sources of Alliances and Alignments: The Case of Egypt, 1962-1973, in
«International Organization», 45, 1991, 3; R.D. PUTNAM, Diplomacy and Domestic Politics: The
Logic of Two-level Games, in «InternationalOrganization», 42, 1988, 3.
18
E. ADLER, Imagined (Security) Communities: Cognitive Regions in International Relations, in
«Millennium: Journal of International Studies», 26, 1997, 2.
19
B. BUZAN - O. WÆVER, Regions and Power: The Structure of International Security, cit., p.
4.
162
appartengono a un complesso di sicurezza regionale condividono preoccupazioni
in relazione alla sicurezza e sono interconnessi al punto che le azioni di uno hanno
un impatto diretto sulla sicurezza degli altri attori 20 . La Rsct effettua una
distinzione tra un livello sistemico in cui operano gli attori globali e uno subsistemico, quello regionale. Il vantaggio del concetto di complesso di sicurezza
regionale è costituito dalla possibilità di esaminare l’interazione tra questi due
livelli di analisi. I cambiamenti all’interno del complesso sono infatti dettati da
fattori interni ed esterni al sistema.
Allison e Jonson riprendono tale concetto e lo applicano al contesto centroasiatico
al fine di comprendere le cause della riconfigurazione strategica in atto nella
regione. L’analisi di Allison e Jonson è pertinente al contesto centroasiatico
perché interroga la capacità delle repubbliche centroasiatiche di rispondere con
efficacia alle minacce di varia natura in maniera autonoma o attraverso il sostegno
di una potenza esterna che interviene ai fini di mantenere pace e stabilità nella
regione. Le dinamiche strategiche sono influenzate da fattori sia esterni (alleanze
tra potenze esterne e attori regionali) che interni (potenza economica o militare
delle repubbliche regionali). L’intensificazione di contatti tra interno ed esterno
può anche risultare nella formazione di una “comunità di sicurezza”, fondata su
valori e interessi comuni. Alla luce dell’alto livello di competizione intraregionale, questo esito – in Asia centrale – è considerato improbabile da Allison e
Jonson. In realtà la recente evoluzione strategica nella regione, che ha visto la
presenza statunitense diminuire a favore di una maggiore influenza sino-russa, e
una simultanea affermazione della Organizzazione per la Cooperazione di
Shanghai sembra mostrare che, dopotutto, una identità di valori e interessi
possono emergere nella regione. Il problema è costituito dal fatto che gli studi
delle comunità di sicurezza hanno tradizionalmente guardato a comunità liberali o
alla trasformazione di regioni illiberali in comunità liberali 21 , mentre le società
centroasiatiche si discostano palesemente da questo modello di trasformazione
lineare, come verrà mostrato in seguito.
1.2 Il nesso tra identità e sicurezza: le comunità di sicurezza
La nozione di comunità di sicurezza (una «regione transnazionale che comprende
stati sovrani le cui popolazioni condividono aspettative di cambiamento
pacifico» 22 ), sviluppata originariamente da Karl Deutsch e poi ripresa da Adler e
Barnett, ha avuto un impatto fondamentale sullo studio della politica
internazionale. Come notano Adler e Barnett, fino a poco più di un decennio fa,
gli studiosi di relazioni internazionali erano decisamente a disagio nell’utilizzare
20
R. ALLISON - L. JONSON (eds.), Central Asian Security: The New International Context, cit.,
p. 5
21
E. ADLER - M.N. BARNETT, Governing Anarchy: A Research Agenda for the Study of
Security Communities, cit.
22
Ibidem.
163
nozioni di identità, valori, norme e simboli, in particolare il fatto che attori –
statuali e non – possano condivere questi elementi che ne definiscono l’identità
sociale. Adler e Barnett distinguono tra le comunità di sicurezza “amalgamate” e
quelle “pluralistiche”, a seconda della porzione di sovranità che viene ceduta.
L’idea di comunità di sicurezza pluralistica appare più pertinente a una
discussione dei sistemi regionali post-unitari in quanto il processo di statebuilding è di recente origine e gli stati membri di questa comunità sono restii a
cedere anche solo porzioni della sovranità appena acquisita. La nozione di
comunità di sicurezza costituisce un importante passo in avanti per comprendere
la formazione del sistema centroasiatico e gli elementi che lo definiscono. Ci sono
però delle peculiarità nel contesto in questione. Le differenze sono essenzialmente
due. In primo luogo la cessione di porzioni di sovranità è una “non possibilità” in
Asia centrale, in quanto l’unica eccezione è costituita dalla relazione clientelare
tra Russia e Tagikistan durante e nel periodo immediatamente successivo alla
guerra civile in cui il Tagikistan aveva di fatto ceduto la propria sovranità a
Mosca. Nonostante la presenza di una vasta gamma di organizzazioni regionali, il
regionalismo centroasiatico è apparso, per larga parte del periodo post-sovietico,
simile più alla somma delle parti che non a un sistema di governance regionale 23 .
In secondo luogo ciò che accomuna le comunità di sicurezza, secondo Adler, è
dato dalle aspettative che eventuali episodi di cambiamento a livello politico
avvengano senza ricorrere all’uso della violenza. Di contro, la violenza, o meglio
la possibilità della violenza in Asia centrale non è mai esclusa. Il separatismo,
terrorismo e fondamentalismo islamico, identificati dalle potenze regionali come
le maggiori minacce alla sicurezza regionale, indicano come la possibilità della
violenza incomba sul sistema. Tale violenza, va ricordato, non è esclusivamente di
natura anti-sistema, ma può manifestarsi come violenza di stato, legittimata dalle
élites al potere come misura necessaria per rispondere a minacce alla propria
esistenza 24 . La crisi di Andijan in Uzbekistan nel maggio 2005, quando scontri fra
forze governative e dimostranti hanno causato un numero imprecisato di morti, ne
è un chiaro esempio.
1.3 Comunità di sicurezza immaginate e comunità di sicurezza illiberali
Dopo aver occupato un ruolo a dir poco marginale negli studi strategici e di
sicurezza durante la guerra fredda, le questioni identitarie e il ruolo di queste nel
definire le politiche di sicurezza sono state finalmente riconosciute negli studi di
sicurezza. La ricerca di Adler e Barnett è focalizzata su comunità liberali o sul
processo attraverso cui comunità di sicurezza non liberali diventano tali, come già
osservato in precedenza. L’Asia centrale si pone in contrasto a tale idea, in quanto
23
A. LIBMAN, Regionalisation and Regionalism in the Post-Soviet Space: Current Status and
Implications for Institutional Development, cit.
24
M. FUMAGALLI, The Andijan Events: State Violence, Popular Resistance and the Rhetoric of
Terrorism in Uzbekistan, in «ISIM Newsletter», 18, 2006, pp. 28-29.
164
è proprio l’opposizione a questo processo di trasformazione politica e cognitiva
che “tiene insieme” gli stati membri della comunità di sicurezza che fa capo alla
Sco (secondo caso studio esaminato in questo saggio). Se per alcuni la Partnership
Strategica tra Stati Uniti ed Uzbekistan (primo caso studio) poteva costituire un
meccanismo attraverso cui l’Uzbekistan – pur all’interno della guerra globale al
terrorismo – diventava parte di una comunità di sicurezza immaginata liberale, in
realtà il legame tra identità e norme da un lato e sicurezza dall’altro appare
applicabile anche a regioni che liberali non sono. Le élites centroasiatiche (e
russe) hanno articolato la regione come un luogo in cui gli attori membri di tale
comunità difendono strenuamente l’idea di sovranità e minacce alla stabilità
provenienti da gruppi militanti islamici, organizzazioni non governative dedite
alla democratizzazione della regione, nonché potenze esterne alla regione. Queste
concezioni di statualità e sovranità si fondano su una radicale demarcazione tra
interno ed esterno, e il rispetto di quanto avviene all’interno (di ogni stato)
costituisce uno degli elementi caratterizzanti questa comunità di sicurezza
immaginata.
1.4 I sistemi regionali post-unitari
In questo saggio l’Asia centrale verrà esaminata come esempio di quelli che
Alessandro Colombo definisce “sistemi regionali post-unitari”. Al pari di altri
sistemi post-unitari, il sistema centroasiatico si pone in forte antitesi a quello
europeo occidentale per una serie di motivi. Innanzitutto una prima differenza sta
nella origine anomala del sistema regionale europeo, fortemente consolidato
anche grazie al fatto che il processo di integrazione risale a diversi secoli fa (e che
la statualità dei paesi membri è forte e dunque cessioni di sovranità non sono
percepite come un indebolimento della statualità). L’origine dei sistemi regionali
post-unitari risale all’implosione del centro, in questo caso quello sovietico
intorno a cui gravitava la periferia centroasiatica. Colombo inoltre sottolinea
l’origine esogena dell’ordine regionale. Il crollo del centro, all’origine della
formazione del nuovo sistema, non ha portato a una situazione di indipendenza
della periferia dal centro. Al contrario la «forza gravitazionale dello spazio
unitario precedente» 25 si fa sentire eccome in Asia centrale, forse più in questo
decennio che in quello precedente in cui la debolezza dello stato russo era
evidente. Le relazioni di sicurezza in Asia centrale sono inevitabilmente
influenzate dalla politica russa verso la regione 26 .
Al pari di Adler e Barnett, Colombo condivide l’attenzione a nozioni di comunità
e identità, il collante del nascente sistema regionale. Colombo nota pure come gli
25
A. COLOMBO, Frammentazione e ordine internazionale. I sistemi regionali post-unitari e il
nuovo arco dell’instabilità, cit., p. 79.
26
Questo non significa che l’ordine sia esclusivamente esogeno e nella fattispecie di origine russa.
La tesi qui sostenuta è che il “vecchio” centro esercita una forza gravitazionale molto forte, ma
questa viene soggetta a negoziazione (pur su base ineguale) da parte degli attori regionali.
165
stati membri del sistema siano riluttanti a cedere porzioni di sovranità a strutture
sovrastatali. Questo, viene sottolineato, non è dovuto al fatto che la statualità di
questi stati è particolarmente forte; al contrario, è proprio la debolezza della
statualità centroasiatica – il riconoscimento implicito delle élites regionali di
questa debolezza e il tentativo di farvi riparo – a essere il maggiore ostacolo a
ogni processo integrativo. Questo, è chiaro, si pone in forte contrasto con il
sistema regionale “forte” per eccellenza: quello europeo 27 . I due elementi centrali
del sistema europeo, ossia la cessione di porzioni di sovranità e la forte statualità,
sono assenti nel caso centroasiatico. Come mostrerò nelle pagine seguenti, le
repubbliche post-sovietiche dell’Asia centrale sono apparse del tutto riluttanti a
cedere anche porzioni minime della propria sovranità a organizzazioni regionali o
supra-regionali.
Questo aspetto, anziché essere una anomalia del nascente sistema centroasiatico,
appare una normalità nelle fasi formative dei sistemi regionali post-unitari.
Analizzare quindi l’origine del nascente e fragile sistema regionale centroasiatico
significa interrogare le determinazioni di questo sistema (i confini, le identità
degli attori e l’esistenza del sistema stesso), come scrive Colombo, e verificarne la
legittimità. Ed è proprio questo deficit di legittimità che mina alle fondamenta la
definizione dei confini, l’identità degli attori e l’esistenza stessa del sistema
internazionale come sistema interstatuale. Gli attori che appartengono e
definiscono tali sistemi, sostiene Stefanachi a proposito del sistema regionale estasiatico, sono accomunati da una forte affermazione della sovranità statuale, dalla
ricerca di sicurezza e da una aspirazione multipolare 28 . Nelle pagine seguenti
esaminerò due casi studio che mostreranno come anche il sistema centroasiatico
soffra di un deficit di legittimità plurimo che colpisce le tre determinazioni sopra
citate, e come il recente consolidamento della Sco abbia dato vita a quanto di più
vicino la regione abbia espresso a un sistema regionale in cui la Sco ambisce a
determinare l’ordine del sistema e costituire un polo in un sistema internazionale
multipolare. Prima di procedere oltre, è opportuno rivisitare le tre ragioni
principali per cui la regione centroasiatica è diventata di importanza strategica
dopo il crollo dell’Urss: la questione dell’accesso agli idrocarburi, la sicurezza, e
le instabili relazioni tra stato e società.
2. L’importanza strategica del sistema regionale centroasiatico
Che cos’è dunque l’Asia centrale e da dove deriva la sua importanza strategica? A
livello geografico l’Asia centrale comprende una porzione significativa della
massa eurasiatica, che racchiude non solo le cinque repubbliche post-sovietiche di
27
A. COLOMBO, Frammentazione e ordine internazionale. I sistemi regionali post-unitari e il
nuovo arco dell’instabilità, cit., p. 75.
28
C. STEFANACHI, L’Asia orientale tra regionalizzazione e leadership americana, in A.
COLOMBO (a cura di), La sfida americana. Europa, Medio Oriente e Asia orientale di fronte
all’egemonia globale degli Stati Uniti, Milano, 2006, pp. 108-114.
166
Kazachstan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan, ma anche la
Mongolia, il Xinjiang e l’Afghanistan 29 . I problemi sorgono quando si cerca di
definire la regione a livello politico. La regione era nota come “Asia di mezzo e
Kazachstan” (srednyaya Aziya i Kazakhstan) in epoca sovietica in quanto le
autorità sovietiche differenziavano tra la parte meridionale della regione,
marcatamente distinta a livello geografico e culturale dalla Russia, e il
Kazachstan, più simile – o meno dissimile, almeno nelle regioni settentrionali –
alle zone della Siberia centrale. E’ solo in epoca post-sovietica che i leader delle
cinque repubbliche post-sovietiche resero noto che la categoria “Asia centrale”
avrebbe sostituito quella precedente e che ne avrebbero fatto parte le cinque
repubbliche di Kazachstan, Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan e
Turkmenistan 30 .
Per gran parte degli anni Novanta per gli Stati Uniti, la Russia e la Cina (come
pure per l’Unione Europea) le repubbliche centroasiatiche sono state percepite
come «un collettaneo di “stan” non proprio degni di nota» 31 . Come osserva
Legvold, la disintegrazione dello spazio sovietico rendeva i rischi provenienti
dalla regione meno prevedibili, ma tutto sommato l’incertezza sembrava porre una
minaccia meno “temibile” rispetto alla presenza della potenza sovietica. Come far
fronte a questo nuovo spazio politico in via di formazione non era ben chiaro, né
era chiara la strategia che le potenze internazionali avrebbero adottato nei
confronti della regione. L’attenzione cinese continuava a essere monopolizzata da
quel che succedeva nella zona del Pacifico e in particolare dai rapporti con
Taiwan. La Russia sprofondava in un caos decisionale in cui le relazioni con
l’Occidente e il conflitto ceceno gettavano il vecchio “ventre molle” dell’Unione
Sovietica (la periferia meridionale, appunto) nell’ombra, considerato come un
peso di cui liberarsi al più presto 32 . Gli Stati Uniti da parte loro parevano oscillare
tra le critiche allo scarso progresso in tema di democrazia, pluralismo e diritti
umani e i tentativi invece di integrare le repubbliche centroasiatiche nelle strutture
di una Nato a sua volta in via di ridefinizione. L’accesso alle riserve di
idrocarburi, specialmente di Kazachstan e Turkmenistan (e Azerbaigian) e le
difficoltà connesse al trasporto di queste verso ovest tenevano impegnati governi e
multinazionali. L’Unione Europea era presente solo “per interposta persona”,
nelle vesti della Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa e altri
programmi ad hoc 33 .
29
I. ZVIAGEL’SKAYA, Russia and Central Asia: Problems of Security, in B. RUMER (ed.),
Central Asia at the End of Transition, London, 2005, p. 72.
30
Ibidem.
31
R. LEGVOLD, Great Power Stakes in Central Asia, in R. LEGVOLD (ed.), Thinking
Strategically: The Major Powers, Kazakhstan and the Central Asian Nexus, Cambridge (Mass.),
2003, p. 1.
32
Solo con l’avvento di Evgenij Primakov al Ministero degli Esteri cominciava un serio
ripensamento dell’importanza strategica delle repubbliche centroasiatiche per il Cremlino.
33
Questi comprendono i programmi Tacis (scaduto nel 2006), Bomca, Cadap.
167
Gli attacchi dell’undici settembre 2001 hanno cambiato la percezione dell’Asia
centrale e della sua importanza strategica. Non si sono risparmiate iperboli per
riferirsi alla regione: l’Asia centrale era diventata improvvisamente un «teatro
centrale della prima guerra globale del ventunesimo secolo» 34 ed aveva acquisito
una «nuova rilevanza strategica» 35 . Il riferimento a un presunto nuovo “Grande
Gioco” diventava la spiegazione delle dinamiche in corso, invece che una
analogia il cui potere esplicativo avrebbe dovuto essere soggetto a verifica
empirica.
Gli eventi che si sono succeduti dalla fine del 2004 e nel corso degli anni
successivi (2005-2007) hanno mostrato come il ruolo statunitense nella regione
fosse assai più precario di quanto fosse possibile immaginare nell’autunno 2001.
L’espulsione delle forze statunitensi dall’Uzbekistan, le crescenti critiche alla
presenza Usa in Kirghizistan, l’affermazione della Organizzazione per la
Cooperazione di Shanghai come importante attore regionale nonché l’efficacia
delle compagnie cinesi e soprattutto russe nel rafforzare la presenza politica ed
economica di Pechino e Mosca nella regione sembrano dare ragione a chi,
specialmente in Cina e Russia, sosteneva l’alterità di Washington alla regione.
Questa sezione ripercorre brevemente il percorso e gli ostacoli incontrati dalle
repubbliche centroasiatiche verso il consolidamento della propria indipendenza.
Così facendo illustrerò le problematiche che hanno preoccupato il policy-making
non solo delle élites locali, ma anche delle maggiori potenze internazionali, ossia
gli Stati Uniti, la Russia e la Cina.
2.1 State-building, autoritarismo e contratto sociale.
Un elemento che accomuna le repubbliche centroasiatiche è la presenza di regimi
autoritari più o meno consolidati 36 . A parte qualche timido esperimento con
riforme volte a introdurre una certa misura di pluralismo e liberalizzazione
politica mentre l’Unione Sovietica volgeva al tramonto (Tagikistan) e nei primi
anni di indipendenza (Kirghizistan, 1991-1994; Tagikistan, 1991-1992), gli stati e
le popolazioni dell’Asia centrale sono rimasti “immuni” dal processo di
democratizzazione che ha contraddistinto il crollo del comunismo in Europa
centro-orientale e nelle repubbliche baltiche. I regimi più repressivi sono stati
quelli di Turkmenistan e Uzbekistan, ma nel complesso le élites al potere hanno
fatto di tutto per preservare e consolidare la propria posizione e isolarsi da
possibili sfide da parte dell’opposizione.
34
D. LOVELACE, Foreword, in E. WISHNICK, Strategic Consequences of the Iraq War: US
Security Interests in Central Asia Reassessed, Strategic Studies Institute, US Army War College,
Carlisle, 2004, p. i.
35
R. GIRAGOSIAN, The Strategic Central Asian Arena, in «China and Eurasia Forum
Quarterly», 4, 2006, 1, p. 133.
36
S.N. CUMMINGS (ed.), Power and Change in Central Asia, London, 2002.
168
Come ha notato Deniz Kandiyoti a proposito del rapporto stato-società in
Uzbekistan, per gran parte del periodo post-sovietico una sorta di “contratto
sociale” tra élites e popolazione ha garantito ordine e stabilità sociale 37 . Le élites
assicuravano che l’assenza di opposizione sarebbe stata ricompensata con un
sistema di sussidi che avrebbe consentito alla popolazione di fronteggiare le
difficoltà economiche associate all’indipendenza. Di contro, la popolazione
avrebbe rinunciato a far sentire il proprio malcontento. Questo sistema,
strutturalmente precario, ha garantito che episodi di protesta di massa e disordini
civili rimanessero ai minimi livelli. Quando però, come gli episodi di Andijan nel
maggio 2005 dimostrano, lo stato non appare più in grado di garantire anche i
fabbisogni minimi della popolazione che anzi continua a vessare, il malcontento
non è più contenibile e il conflitto politico si fa violento. Se questa situazione è in
buona sostanza una questione interna alle repubbliche della regione, la incessante
pressione politica e le difficoltà economiche hanno reso ogni forma di
opposizione non clandestina impossibile, contribuendo alla crescita in popolarità
dell’islamismo radicale e alle ramificazioni internazionali di questo fenomeno.
2.2 Sicurezza e islamismo radicale
La questione della minaccia posta dai movimenti radicali islamici nella regione è
collegata al deterioramento delle relazioni tra stato e società esaminate qui sopra.
La crescita e la minaccia posta dai movimenti islamisti in Asia centrale e
Afghanistan sono stati oggetto di un numero crescente di pubblicazioni
accademiche e non. L’Islam politico post-sovietico ha assunto varie forme e
manifestazioni. Il Partito di rinascita islamico del Tagikistan ha giocato un ruolo
centrale nella guerra civile che ha distrutto il paese dal 1992 al 1997. La presenza
di un movimento islamico fra i ranghi della opposizione tagika ha consentito alla
fazione “governativa” – ma anche alle autorità delle repubbliche confinanti,
soprattutto a Tashkent – di agitare lo spettro del fondamentalismo islamico,
facendo della lotta all’estremismo religioso una priorità delle politiche della
sicurezza delle repubbliche centroasiatiche. Anche nel vicino Uzbekistan, la
popolarità di organizzazioni come Adolat (concentrata nella valle di Ferghana) nel
1991-1992 contribuì ad alimentare la percezione di una crescente minaccia ai
regimi laici della regione 38 . Di scarso rilievo in Turkmenistan e sostanzialmente
marginale anche in Kazachstan, la cosiddetta minaccia islamica nella regione si è
concentrata in Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan, e particolarmente nella
regione transfrontaliera della valle di Ferghana. L’opposizione islamica nella
regione include sia movimenti violenti che non violenti. Questi ultimi
comprendono il Partito di rinascita islamico in Tagikistan (dopo gli accordi di
37
D. KANDIYOTI, Andijan: Prelude to a Massacre, OpenDemocracy.net, 20 May 2005,
http://www.opendemocracy.net/globalization-institutions_government/Andijan_2527.jsp.
38
A. KHALID, Islam after Communism. Religion and Politics in Central Asia, London, 2007, p.
140.
169
pace del 1997), ma anche l’Hizb-ut Tahrir, una organizzazione transnazionale
dalla retorica fortemente antisemita e antiamericana, ma che professa un
cambiamento politico e l’instaurazione del califfato nella regione tramite metodi
pacifici (proselitismo e cambiamento graduale). L’opposizione violenta in Asia
centrale è stata tradizionalmente identificata con il Movimento islamico
dell’Uzbekistan (Imu), fondato nel 1998 da Tohir Yuldash e Juma Namangani.
L’Imu è stato protagonista di ripetute incursioni in Uzbekistan nelle estati del
1999 e 2000 e ha costituito una spina nel fianco del regime di Islam Karimov. I
suoi militanti hanno tradizionalmente operato dalle valli del Tagikistan centrale
(Tavildera e Karategin) e quando poi gli accordi di pace che hanno posto fine alla
guerra civile nel paese hanno imposto ai militanti di lasciare la repubbliche, l’Imu
ha trovato rifugio nell’Afghanistan talebano, salvo poi essere coinvolta (e
decimata) nella guerra al terrorismo che ha colpito le basi di gruppi al-qaedisti e
fazioni talebane nell’inverno 2001. Scontri tra truppe governative e militanti si
sono poi verificati negli anni successivi in Uzbekistan (attentato nel 2004), in
Kirghizistan (2005) e Tagikistan (2006), senza però dar mai l’impressione che
potessero costituire una seria minaccia alla posizione dei regimi al potere. La
presenza di questi episodi è stata ciononostante utilizzata dalle élites locali (ma
anche da Cina e Russia) come giustificazione per una azione sempre più
repressiva nei confronti della opposizione, religiosa e laica, violenta e non.
2.3 Dimensione energetica
La questione energetica costituisce un’altra importante ragione per cui le potenze
internazionali, attori statuali e non (compagnie petrolifere in primis) hanno riposto
una crescente attenzione verso la regione. Nonostante la regione disponga anche
di risorse idriche (Tagikistan e Kirghizistan), è la presenza di idrocarburi che ha
destato l’attenzione internazionale per l’Asia centrale. Kazachstan, Turkmenistan
e Uzbekistan, in misura diversa, dispongono di gas naturale, mentre Turkmenistan
e soprattutto Kazachstan possiedono ingenti riserve petrolifere. Le riserve kazake
si aggirano intorno ai 39,8 miliardi di barili di petrolio (metà delle riserve russe e
l’undici per cento di quelle saudite 39 ). Il Turkmenistan dispone invece di circa 600
milioni di barili 40 . E’ il gas naturale la maggiore risorsa di cui dispone lo stato
turkmeno, visto che le sue riserve ammontano a circa 2.860 miliardi di metri cubi.
Le riserve kazake sono di pari entità, mentre quelle uzbeke sono leggermente
inferiori (1.870 miliardi di metri cubi 41 ). Le tre questioni sollevate dal crollo
sovietico sono innanzitutto quella relativa all’accesso alle risorse, nonché il loro
trasporto al di fuori della regione e l’impatto sulle economie e società locali.
Storia e geografia hanno tradizionalmente legato la questione energetica alle
39
INTERNATIONAL CRISIS GROUP, Central Asia’s Energy Risks, «Asia Report» n. 133, 24
May 2007, p. 6, http://www.crisisgroup.org/home/index.cfm?id=4866&l=1.
40
Ibidem, p. 8.
41
Ibidem, p. 12.
170
relazioni con la Russia, attraverso cui venivano trasportati gli idrocarburi. La
possibilità di sfruttare gli idrocarburi centroasiatici ha riscontrato il prevedibile
interesse di quegli attori, quali gli Stati Uniti, l’Unione Europea e più
recentemente la Cina, alla ricerca della sicurezza energetica. Il consolidamento
delle relazioni con le repubbliche centroasiatiche è favorito in parte dai fabbisogni
energetici degli attori esterni alla regione, e la diversificazione delle importazioni
di idrocarburi passa necessariamente dalla regione. Le controversie relative alla
fattibilità, ai costi e alle opportunità politiche di costruire nuovi oleodotti o
gasdotti per trasportare le risorse verso ovest, sud o est o ammodernare le strutture
sovietiche che trasportano gas naturale e petrolio via territorio russo hanno
preoccupato e affascinato al tempo stesso analisti, politici, compagnie private e
governi di mezzo mondo. La Russia, come si vedrà nella prossima sezione, ha
cercato di creare un “cartello” controllato dalla compagnia Gazprom
(ufficialmente indipendente dal Cremlino, anche se in pratica l’uso politico di
questa appare sempre più evidente) al fine di controllare non solo le infrastrutture
(che permettono il trasporto delle risorse via Russia), ma anche i giacimenti stessi
tramite la firma di una serie di contratti con i governi locali. La Cina ha cercato di
rispondere costruendo un oleodotto che trasporta petrolio dal Kazachstan, mentre
Usa e Ue hanno sviluppato pipelines alternative cercando di ridurre la dipendenza
dalle risorse e infrastrutture russe 42 . Non vanno poi dimenticati aspetti più deleteri
di questa ricchezza energetica, ossia il fatto che l’economia locale viene distorta
da una dipendenza da queste risorse. Non vi sono in altre parole incentivi per
diversificare l’economia. Ciò che è ancor più preoccupante è che le élites al potere
non hanno mostrato alcun segno di volere ridistribuire le ricchezze acquisite alla
popolazione che invece è rimasta esclusa dai vari contratti del secolo firmati da
compagnie occidentali e ristretti circoli di potere nella regione.
3. Russia: verso la ricostituzione di un ordine esogeno?
La presenza russa nella regione risale alla seconda metà del diciannovesimo
secolo, allorché l’impero zarista si espanse verso sud, conquistando le steppe
kazake e turkmene, i khanati di Kokand e Khiva e l’emirato di Bukhara. Con la
conquista di Tashkent (1876) e la battaglia di Goek-tepe (1881), la conquista russa
dell’Asia centrale era pressoché totale. Il periodo sovietico ha poi consolidato i
legami tra la regione e la Russia al punto tale che, nonostante l’implosione dello
stato sovietico, vi era una fitta rete di interdipendenze che avrebbero continuato a
determinare le relazioni tra il centro (la Russia) e la periferia (l’Asia centrale) 43 .
42
Per una analisi più dettagliata della questione energetica in Asia centrale si vedano S. TOSI,
Fonti energetiche e infrastrutture di trasporto, «ISPI Working Paper» n. 4, ottobre 2006,
http://www.ispionline.it/it/documents/wp_4_2006.pdf e INTERNATIONAL CRISIS GROUP,
Central Asia’s Energy Risks, cit.
43
Quella che è comunemente nota come “eredità sovietica” racchiude non solo la prossimità
geografica ed esperienze storiche condivise, ma anche la complementarietà e dipendenza delle
171
Negli anni Novanta le relazioni russo-centroasiatiche sono state contraddistinte da
una radicale perdita di influenza da parte russa a livello politico e culturale.
Questa perdita di influenza era dovuta alla volontà delle élites centroasiatiche di
difendere la propria indipendenza da Mosca, ma anche alle difficoltà incontrate
dalla Russia nello stabilire i parametri del proprio disimpegno e alla ridefinizione
delle proprie priorità strategiche. In un primo momento (allorché Kozyrev era
ministro degli Esteri durante la presidenza Eltsin) sembrò che l’Asia centrale non
fosse altro che un peso, specialmente economico, per la Russia. Un peso di cui
disfarsi al più presto. Al tempo stesso l’asse strategico russo era decisamente
orientato verso la definizione di relazioni privilegiate con l’Occidente. Certo il
Cremlino si rendeva conto che un ritiro totale dalla regione sarebbe stato non solo
impraticabile, ma controproducente. Il controllo dei confini afghano-sovietici
rimase infatti una priorità russa. Ciò non era tanto dovuto a una riflessione
strategica riguardo al ruolo che la Russia avrebbe potuto giocare in quella parte
del mondo, quanto più a esigenze di sicurezza. Un confine poroso avrebbe portato
a degli spillover di instabilità dall’Afghanistan verso l’Asia centrale post-sovietica
e da questa entro i confini russi. Il radicalismo religioso, ma anche il traffico di
stupefacenti e di armi costituivano minacce non solo alla sicurezza di Tagikistan e
Uzbekistan, fra gli altri, ma anche alla sicurezza russa. Che il vecchio confine
afghano-sovietico era diventato un confine afghano-tagiko sembrava una
differenza impercettibile. Truppe russe (la 201-esima divisione motorizzata)
rimasero stazionate nella piccola repubblica montana a garantire la sicurezza
tagiko e per estensione della Federazione Russa. Nel settore della sicurezza la
Russia è rimasta il principale attore nella regione, anche se la sua capacità di
garantire la sicurezza è stata progressivamente erosa. Il riconoscimento di questa
realtà ha portato le repubbliche centroasiatiche alla ricerca di nuovi partner in
grado di colmare queste percezioni di insicurezza. A livello culturale l’influenza
russa era in declino. Migliaia di russi o russofoni hanno lasciato la regione negli
anni Novanta alla ricerca di maggiori fortune (economiche) e maggiore sicurezza
(anche solo a livello psicologico) entro i confini russi. L’Asia centrale diventava
progressivamente meno russa, e più uzbeka, kazaka, kirghiza e così via.
Il biennio 1999-2000 ha costituito un autentico spartiacque tra le due fasi di
politica e concettualizzazione del ruolo russo in Asia centrale. Nel giro di breve
tempo l’influenza russa è passata da una situazione di declino inarrestabile a un
recupero di una influenza perduta. I fattori decisivi che hanno portato a questo
mutamento radicale sono stati essenzialmente due:
- il cambio alla presidenza della Federazione Russa;
- la rinascita economica russa dovuta a un aumento dei prezzi del petrolio.
economie, identità, culture e valori condivisi, come pure infrastrutture create in funzione dell’unità
dello spazio sovietico e non nell’assunto che un giorno le repubbliche sarebbero diventate
indipendenti.
172
Vladimir Putin ha razionalizzato l’allora assai caotica formulazione della politica
estera (e non solo) russa, in gran parte grazie alla verticalizzazione del potere
(vertikal vlasti). Il ripensamento strategico russo comincia nel 1999 e si manifesta
nella bozza della Dottrina militare (poi adottata nel 2000) e nel Concetto di
sicurezza nazionale in cui gli obiettivi strategici del paese vengono dichiarati in
maniera inequivocabile: la vocazione multipolare e il contenimento dell’influenza
straniera nello spazio post-sovietico. La Russia ha proceduto a definire i sui
obiettivi strategici nella regione:
- reintegrare la regione nella propria sfera di influenza e mantenere la stabilità
regionale;
- prevenire la crescita di influenza di potenze esterne 44 .
I tentativi per raggiungere il primo obiettivo non sono mai mancati nemmeno nel
corso degli anni Novanta. Il tentativo di creare delle strutture militari integrate
tramite il Trattato di sicurezza collettiva (Tsc) firmato a Tashkent nel 1992
costituisce l’esempio più lampante di questi tentativi e del loro fallimento dovuto
sia ad una mancanza di volontà da parte di alcune repubbliche post-sovietiche di
cedere nuovamente porzioni di sovranità alla Russia, ma anche alla mancaza di
reali capacità da parte russa di tradurre in pratica le dichiarazioni retoriche di tali
trattati. Nel ridefinire la posizione russa nella regione – e più in generale nello
spazio post-sovietico – Putin ha fatto meno uso di retorica e ha invece insitito su
una risorsa più efficace: il controllo da parte russa (fosse questo governativo o di
compagnie russe più o meno allineate al Cremlino) delle risorse energetiche e
delle infrastrutture attraverso cui queste devono essere trasportate come strumento
di politica estera 45 . Per assicurare la propria influenza nella regione la Russia ha
di fatto creato un cartello in campo energetico 46 . L’improvvisa disponibilità
finanziaria di Mosca dovuta all’alto prezzo del petrolio ha consentito alle autorità
russe di riversare miliardi di dollari sulle repubbliche centroasiatiche. Un
atteggiamento filo-russo manifestato tramite la partecipazione a strutture di
sicurezza (Tsc o Sco) o economiche (Comunità Economica Eurasiatica, Eurasec)
sarebbe stato ricompensato con investimenti ingenti e una intensificazione negli
scambi commerciali. A differenza delle politiche occidentali che hanno tentato di
far uso della condizionalità, l’unica condizionalità russa consiste nel
posizionamento internazionale delle repubbliche post-sovietiche senza
manifestare interesse alcuno per le dinamiche interne al paese. Che questi paesi
44
L. JONSON, Russia and Central Asia, in R. ALLISON - L. JONSON (eds.), Central Asian
Security: The New International Context, cit., pp. 98-114.
45
Alcuni analisti hanno anche notato come la Russia abbia cercato di fare uso di un certo “soft
power”: cfr. N. POPESCU, Russia’s Soft Power Ambitions, «CEPS Policy Brief» n. 115, October
2006 e F. HILL, Moscow Discovers Soft Power, in «Current History», 105, October 2006, pp. 341347.
46
S. BLANK, Russia Realizes its Cartel, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 30 November 2005,
http://www.cacianalyst.org e M. BRILL OLCOTT, The Great Powers in Central Asia, in «Current
History», 104, October 2005, pp. 331-335.
173
siano autoritari o democratici poco importa a Mosca che tramite le proprie azioni
garantisce lo status quo (trattato come sinonimo di stabilità) nella regione.
4. Gli Stati Uniti e i dilemmi di sicurezza e democratizzazione
La presenza statunitense è una novità assoluta nella regione. Per l’intero decennio
1991-2001 Washington non ha elaborato alcuna strategia nei confronti della
regione. Privilegiando rapporti bilaterali anziché una strategia regionale,
l’attenzione statunitense era finalizzata al rafforzamento dell’indipendenza delle
repubbliche centroasiatiche (obiettivo alquanto vago) e soprattutto al
contenimento della proliferazione nucleare (Kazachstan). Solo verso la seconda
metà degli anni Novanta gli Stati Uniti hanno cominciato a guardare alla regione
come una possibile fonte alternativa di approvvigionamento di energia. Fino ad
allora le repubbliche centroasiatiche apparivano del tutto marginali e periferiche
agli interessi strategici americani. Geograficamente distante e remota e
difficilmente accessibile, l’Asia centrale non presentava alcuna minaccia per
Washington, che infatti non esitava a criticare il lento progresso a livello
economico e politico, nonché gli abusi in tema di diritti umani. Nel periodo 19911994 il consolidamento dell’indipendenza della repubbliche centroasiatiche da
Mosca ha monopolizzato l’attenzione statunitense. Di fatto ciò ha avuto
conseguenze pratiche minime. Nel corso degli anni Novanta (1994-2001) è stato
possibile riscontrare un interesse crescente nei confronti delle questioni
energetiche, manifestato tra l’altro, con il sostegno per la costruzione della
pipeline Baku-Tbilisi-Ceyhan (Btc) che avrebbe trasportato il petrolio dal Caspio
al Mediterraneo evitando il territorio e le strutture russe. La diversificazione delle
fonti di energia, la riduzione della dipendenza dal petrolio mediorientale (e in
seguito dalle pipelines russe) hanno guidato la politica Usa verso la regione. Vi
erano indubbiamente altre considerazioni. Mentre infatti la Nato era in via di
ridefinizione ma anche di allargamento verso est, gli Usa hanno cercato di
integrare gli stati della regione nelle strutture militari occidentali, principalmente
tramite il programma Partnership for Peace della Nato. L’assistenza militare e la
creazione di un battaglione centroasiatico hanno contribuito ad alimentare le paure
russe di un accerchiamento occidentale ai propri danni. Al tempo stesso gli Usa
hanno finanziato una serie di programmi che avrebbero dovuto portare alla
creazione di una robusta società civile e in ultima analisi di società democratiche
nella regione. La continua resistenza delle autorità locali a pressioni americane in
tema di democrazia, pluralismo, diritti civili e umani, ha però costituito una
“incessante” doccia fredda. Le possibilità che Uzbekistan o Turkmenistan per
esempio seguissero l’esempio degli stati post-comunisti dell’Europa centroorientale sono sempre state assai remote. In sostanza per il primo decennio
dell’indipendenza la politica Usa nella regione è stata contraddistinta da un uso
congiunto di cooperazione militare e assistenza economica.
174
Gli interessi strategici statunitensi nella regione sono mutati radicalmente in
seguito agli attacchi dell’11 settembre. Gli Usa hanno ratificato accordi con
Uzbekistan e Kirghizistan circa l’uso di basi militari nei due paesi (KarshiKhanabad e Manas, rispettivamente), ottenuto diritti di sorvolo dal Kazachstan,
nonché l’avallo tagiko per l’uso temporaneo dell’aeroporto della capitale
Dushanbe 47 . Nei primi mesi del 2003 gli Stati Uniti contavano circa tremila unità
nella regione ed avevano concluso accordi di intelligence-sharing con tutti gli stati
della regione ad eccezione del Turkmenistan. Se le operazioni in Afghanistan
sono state il fattore catalizzatore dell’attenzione americana per la regione
centroasiatica, la trasformazione strategica si è rivelata di portata globale, come
evidenziato nella Strategia per la sicurezza nazionale (2002). Lo spazio postsovietico è diventato uno dei fronti principali in cui la guerra globale al terrorismo
viene combattuta. Il cambiamento radicale nelle priorità strategiche ha causato un
ripensamento delle relazioni con le repubbliche della regione, con l’Uzbekistan in
particolare, come vedremo nelle pagine successive.
Bilateralismo, anziché un approccio regionale, continua a contraddistinguere le
relazioni tra Usa e repubbliche regionali in questa fase. Le relazioni con il
Turkmenistan rimangono minime, ma nel complesso la presenza e il ruolo
statunitense nella regione aumentano a tal punto da preparare il terreno a una
controffensiva russa e cinese, sempre più insofferenti alla presenza americana 48 .
Il periodo che va dal 2005 in poi è quello analiticamente di maggiore semplicità
per il puro fatto che Washington non ha ancora iniziato un serio dibattito sul come
reagire alla propria marginalizzazione nella regione, nonché alla apparente
egemonia sino-russa istituzionalizzata attraverso la Sco. Il dibattito strategico
negli Usa è paralizzato a causa della inconciliabilità di due fazioni, una che chiede
a gran voce la riapertura del dialogo senza condizioni con Tashkent, e l’altra che
considera riforme e regime behaviour change una conditio sine qua non per
riallacciare i rapporti con l’Uzbekistan. Tornerò sull’argomento nella discussione
di uno dei due casi studio.
Quello che comunque appare evidente è come la politica Usa nella regione sia
stata contraddistinta da un continuo vacillamento frutto di una mancanza di
riflessione strategica su quali siano effettivamente gli obiettivi primari americani.
Il cambiamento più significativo degli ultimi anni riguarda il modo in cui la
presenza Usa è percepita da parte delle élites al potere in Asia centrale. Da alleati
nella lotta al radicalismo islamista, i regimi centroasiatici hanno progressivamente
visto gli Usa come una ulteriore minaccia alla propria sopravvivenza al potere (il
47
I. BERMAN, The New Battleground: Central Asia and the Caucasus, in «The Washington
Quarterly», 28, 2004/2005, 1, p. 60.
48
In seguito agli attacchi dell’11 settembre e in controtendenza rispetto a vari circoli politici e
militari russi, Vladimir Putin non manifestò alcuna opposizione all’uso americano delle basi in
Kirghizistan e Uzbekistan, contando sulla dichiarazione che l’uso di queste fosse temporaneo e
limitato alla durata delle operazioni in Afghanistan. Su questo faranno poi leva Mosca e Pechino
per chiedere a gran voce il ritiro americano dalla regione.
175
regime di Tashkent ha perfino sostenuto l’esistenza di una inverosimile alleanza
tra Washington e l’opposizione islamista dietro agli eventi di Andijan nel maggio
2005).
5. Cina: stabilità e sicurezza energetica
Al fine di portare a termine il proprio processo di modernizzazione, la Cina
necessita di un ambiente internazionale stabile e pacifico. Nello sviluppare una
politica regionale nei confronti dei paesi centroasiatici la Cina ha tenuto in
considerazione i seguenti aspetti. In primo luogo la Cina ha impostato le relazioni
con i paesi confinanti alla luce della questione uigura e della stabilità della regione
autonoma dello Xinjiang 49 . Se da un lato Pechino sta cercando di accelerare lo
sviluppo economico della regione, dall’altro le autorità cinesi guardano sempre
con circospezione e sospetto le attività dei gruppi separatisti uiguri che
occasionalmente hanno trovato rifugio in Kazachstan o Kirghizistan. In secondo
luogo la Cina ritiene che le risorse energetiche della regione saranno oggetto del
desiderio di un crescente numero di attori alla ricerca di una diversificazione delle
fonti di energia e di una maggiore sicurezza energetica. In questo senso è da
intendersi l’intensa attività cinese sia in Asia centrale che in Africa, alla ricerca di
mercati alternativi al Medio Oriente. Politicamente, le repubbliche centroasiatiche
hanno mostrato di essere particolarmente sensibili a interferenze nella propria
sovranità e la Cina ha mostrato sensibilità analoghe in tema di difesa della propria
sovranità da interferenze esterne. La difesa di sovranità, stabilità e statualità
accomunano Pechino e le élites della regione. La questione potenzialmente più
controversa era quella relativa alle dispute territoriali tra la Cina e l’Unione
Sovietica. Un accordo firmato nel 1991 chiuse sostanzialmente la questione dei
confini sino-russi, eccezion fatta per i tremila chilometri di confine tra la Cina e
tre repubbliche centroasiatiche. Le parti si accordarono per risolvere le dispute
tramite negoziati, ma mentre la questione è stata risolta nel caso del confine sinokazako, le dispute relative ai confini sino-kirghisi e sino-tagiki rimangono, con
Bishkek e Dushanbe periodicamente irritate da quella che viene percepita come
una inesorabile annessione cinese di territorio kirghizo e tagiko. E’ invece in tema
di commercio e cooperazione economica che i legami tra Pechino e le repubbliche
centroasiatiche si sono fatti sempre più stretti. Se le cifre ufficiali parlano di
scambi commerciali in crescita, è soprattutto a livello di economia informale
(shuttle trade e importazione di prodotti cinesi a basso costo e rivendita di questi
sui mercati centroasiatici da parte di singoli individui) che la penetrazione
economica cinese in Asia centrale diventa inarrestabile per proporzioni e per
potenzialità. Infine, a livello della cooperazione militare e di sicurezza l’evento di
maggiore rilevanza è senza dubbio la creazione della Organizzazione per la
49
G. XING, China and Central Asia, in R. ALLISON - L. JONSON (eds.), Central Asian
Security: The New International Context, cit., pp. 152-153.
176
Cooperazione di Shanghai, in cui per la prima volta la Cina partecipa a una
struttura centroasiatica multilaterale.
6. Orientamenti strategici delle repubbliche centroasiatiche
Il “ritiro volontario” russo 50 di fine 1991 e inizio 1992 ha di fatto costretto le
repubbliche centroasiatiche a sviluppare politiche estere indipendenti per le quali
erano impreparate sia a livello di riflessione strategica (il foreign policy-making
era di stretto dominio russo in epoca sovietica) che pratico, dato che vi erano
pochi centroasiatici nel corpo diplomatico sovietico, nonché poche risorse per
aprire e sostenere ambasciate e consolati. Le nuove repubbliche hanno reagito e
interagito in maniera diversa alle pressioni, sfide e opportunità offerte dalla
possibilità di avere relazioni con paesi limitrofi e non e ai segnali contrastanti
provenienti da Mosca, come già osservato nelle pagine precedenti. La sezione
riassume brevemente le scelte strategiche delle cinque repubbliche centroasiatiche
dall’indipendenza ad oggi.
6.1 La neutralità permanente del Turkmenistan
Delle cinque repubbliche, il Turkmenistan è quello che meno ha “oscillato” in
termini di alleanze, almeno fino alla morte di Saparmurat Niyazov, il leader
indiscusso del paese, nel dicembre 2006. Fino ad allora l’elemento centrale della
politica estera turkmena era costituito dalla ufficiale neutralità del paese,
dichiarata da Niyazov al momento dell’indipendenza dall’Unione Sovietica e poi
riconosciuta dalle Nazioni Unite nel dicembre 1995. I rapporti con la Comunità di
Stati Indipendenti rimasero a livelli minimi per l’intero periodo successivo al
crollo dell’Urss al punto che nel 2005 il paese riuscì a fare declassare la propria
partecipazione alla Csi al livello di “paese associato”.
Niyazov decise the il paese non avrebbe fatto parte né della Organizzazione per la
Cooperazione di Shanghai (unico paese della regione a non farne parte) né della
Comunità Economica Eurasiatica o di altre organizzazioni regionali. Ashgabat ha
mantenuto contatti assai circoscritti con la Banca Mondiale, il Fondo Monetario
Internazionale e il programma Partnership for Peace della Nato.
La neutralità turkmena è giustificata con riferimento a tre motivi 51 . Innanzitutto,
l’adesione a organizzazioni internazionali è stata interpretata da Niyazov come
una cessione di sovranità. Ciò avrebbe avuto ripercussioni sulle relazioni con Iran
e Afghanistan; quando quest’ultimo era sotto controllo talebano il Turkmenistan
era l’unico stato post-sovietico con il quale manteneva relazioni ufficiali. Questo
50
L. JONSON, Russia and Central Asia, cit.
M.J. DENISON, Turkmenistan in Transitino: A Window for EU Engagement?, «CEPS Policy
Brief» n. 29, May 2007.
51
177
aspetto è significativo in quanto l’organizzazione che ha preceduto la Sco
(Shanghai-5) aveva nella lotta al terrorismo e nella opposizione al regime dei
talebani uno degli elementi fondanti l’organizzazione. In secondo luogo, le
minacce alla sicurezza turkmena hanno una origine più probabile nelle dispute di
frontiera con l’Uzbekistan (membro della Organizzazione del Trattato di
Sicurezza Collettiva 52 ); il Tsc prevede situazioni in cui l’attacco a uno stato
membro si traduce in un attacco alla organizzazione stessa e prevede meccanismi
di risoluzione dei conflitti qualora una parte sia esterna alla organizzazione,
mentre non sono previsti meccanismi di risoluzione dei conflitti qualora entrambe
le parti siano stati membri. La terza priorità strategica consiste nell’assicurare che
nessuna via di transito degli idrocarburi (attuale o potenziale) venga messa a
repentaglio dall’intrappolamento del paese in una particolare alleanza 53 .
La morte del Turkmenbashi e la rapida successione di Gurbanguly
Berdimukhammedov (eletto nel febbraio 2007) hanno aperto una finestra di
opportunità alle élites del paese per riconsiderare l’isolamento imposto da
Niyazov. Come sostiene Denison, è improbabile che la nuova leadership turkmena
proceda a un riorientamento strategico a centottanta gradi 54 . Sarà molto probabile
che gli stretti rapporti con la Russia continuino, anche se maggiore considerazione
verrà data anche ad altri attori, inclusa la Cina e l’Ue. La visita a Mosca del
neopresidente turkmeno Gurbanguly Berdimukhammedov nell’aprile 2007 ha
mostrato come la strategia russa di consolidare un cartello energetico nella
regione anche tramite la politica energetica incontrerà degli ostacoli nel
Turkmenistan. Il Turkmenistan ha infatti resistito alla richiesta di intensificare le
relazioni di sicurezza tra i due paesi né ha acconsentito alla richiesta del
presidente russo Putin di muoversi in direzione di una reintegrazione economica
ed energetica con Mosca 55 , per esempio bloccando l’ipotesi di un oleodotto
transcaspico (osteggiato dal Cremlino) in favore di un riorientamento delle
pipelines verso nord 56 . L’improvvisa scomparsa del Turkmenbashi ha aperto un
periodo di incertezza, ma anche di opportunità per il paese per aprirsi al mondo
esterno. I rapporti con la Cina, ma anche con l’Ue, potrebbero intensificarsi nel
medio periodo, anche se non vi sono segnali che la nuova dirigenza turkmena
possa rinunciare alla politica di neutralità permanente che peraltro ha giovato al
paese, che ha evitato di trovarsi intrappolato in alleanze internazionali,
beneficiando dell’interesse globale per le proprie risorse energetiche.
52
Già Trattato di Sicurezza Collettiva.
M.J. DENISON, Turkmenistan in Transitino: A Window for EU Engagement?, cit.
54
Ibidem.
55
Peraltro già stretta, visto che l’ex presidente Niyazov aveva siglato un accordo nel 2003 che
prevedeva che gran parte delle esportazioni di gas turkmeno sarebbero state dirette verso la Russia
per i successivi venticinque anni.
56
S. BLAGOV, Russia Presses for More Caspian Cooperation with Turkmenistan, in «Eurasia
Daily Monitor», 30 April 2007.
53
178
6.2 Relazioni clientelari con Mosca? Tagikistan e Kirghizistan
Le repubbliche del Kirghizistan e Tagikistan hanno goduto di spazi di manovra
assai più ristretti rispetto ai vicini. Privi delle riserve di idrocarburi di cui
dispongono Turkmenistan e Kazachstan e dell’importanza strategica
dell’Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan hanno mantenuto un simile
orientamento strategico per gran parte del periodo post-indipendenza.
Le autorità kirghize hanno tradizionalmente guardato alla Russia come lo stato
che garantisce la sicurezza del paese. Mosca non è mai stata percepita come una
minaccia e anzi la Russia è vista come l’unico baluardo contro i percepiti tentativi
di egemonia uzbeka nella regione. Le relazioni con il vicino Uzbekistan sono
invece state piuttosto tese, in particolare a partire dalla fine degli anni Novanta 57 .
Le dispute riguardano questioni territoriali, proprietà, uso e allocazione delle
risorse idriche, pagamenti del gas uzbeko, nonché la situazione della
considerevole minoranza uzbeka nel sud del paese.
La percezione kirghiza della Russia come stato garante della propria sicurezza
spiega molte delle scelte di politica estera di Bishkek dal 1991 ad oggi. Il
Kirghizistan ha fatto parte della maggior parte delle organizzazione regionali sorte
sulle ceneri dell’Urss, dal Tcs alla Sco e l’Eurasec. Buoni rapporti sono rimasti
anche a livello culturale. Nonostante l’emigrazione di migliaia di persone in
quella che è stata una autentica emorragia dal paese della popolazione russofona
negli anni Novanta, la cultura e la lingua russa non sono mai state oggetto di
discriminazione, a differenza del vicino Uzbekistan e del Turkmenistan, dove la
nazionalizzazione della cultura del paese è andata di pari passo con la riduzione
della presenza pubblica del russo. Il russo continua a essere correntemente parlato
nel paese e nel 2000 il suo status di lingua ufficiale è stato finalmente
riconosciuto 58 .
In seguito all’implosione dello stato sovietico, la Russia ha ridimensionato la
propria presenza nel paese, limitando questa al personale stazionato in una piccola
base aerea a Kant dal 2003, quando le autorità kirghize hanno concluso un
accordo con la controparte russa simile a quello precedentemente raggiunto con
gli americani. Con tale mossa l’allora presidente Akaev intendeva rassicurare sia i
russi che le élites kirghize che la concessione della base agli Usa (contestata dalle
élites kirghize pro-russe) non andava interpretata come una volontà di disimpegno
di Bishkek dall’orbita russa.
La dipendenza energetica del paese, la russificazione delle regioni settentrionali e
la presenza di vari lavoratori stagionali provenienti dal Kirghizistan sul territorio
57
N.W. MEGORAN, The Borders of Eternal Friendship? The Politics and Pain of Nationalism
and Identity along the Uzbekistan-Kyrgyzstan Ferghana Valley Boundary 1999-2000, tesi di
dottorato, Cambridge, 2002.
58
Tale status è stato negato all’uzbeko, nonostante sia parlato da quasi un abitante su cinque e da
uno su due nel sud del paese.
179
della Federazione Russa lasciano alle autorità kirghize uno spazio di manovra
assai limitato. Anche in occasione della cosiddetta “rivoluzione dei tulipani”
(marzo-aprile 2005) quando il regime di Akaev fu rovesciato da una coalizione
alquanto eterogenea di élites in rottura con il regime, boss locali di dubbia
reputazione e proteste popolari, il cambiamento di regime a Bishkek non ha
seguito i modelli georgiano e ucraino che in seguito a brogli elettorali nel 2003 e
2004 avevano portato alla fine dei regimi autoritari filo-russi di Shevarnadze e
Kuchma, e a un riorientamento strategico filo-occidentale dei due paesi. Le
questioni di politica estera e alleanze internazionali rimasero estranee alla
“rivoluzione” kirghiza.
Le tensioni con la Cina durante gli anni Novanta (a causa di dispute territoriali) e
una ambivalente relazione con gli Stati Uniti (circa l’uso e in particolare il
pagamento dell’affitto della base) non hanno mai reso credibile la possibilità di un
riallineamento che distanziasse Bishkek dalla zona di influenza russa. Ciò non
significa che Bishkek non abbia cercato di massimizzare i profitti derivanti dalle
necessità logistiche imposte dalla guerra in Afghanistan. Al contrario, la
concessione dell’uso della base di Ganci (presso Manas, vicino alla capitale
Bishkek) alle truppe statunitensi ha portato del contante prezioso nelle esangui
casse del governo kirghizo. Quello che rende il caso kirghizo unico è che le basi
Usa e russe si trovano a pochi chilometri di distanza. La base russa ha però un
valore puramente simbolico dato l’esiguo numero di mezzi e personale che
staziona nella base di Kant.
Nonostante la particolarità della situazione, è probabile che questa non cambi nel
prossimo futuro. Bishkek ha più volte minacciato gli Usa di espulsione, ma il bluff
è stato più volte rivelato da Washington che si rende conto di come la situazione
della base di Manas sia ben diversa dalla situazione di Karshi-Khanabad in
Uzbekistan, allorché gli Usa ricevettero l’ordine da Tashkent di chiudere la base.
Non è negli interessi di Bishkek che gli Usa lascino il paese. Al cuore del
problema c’è molto più semplicemente un tentativo kirghiso di “alzare il prezzo”
della collaborazione di Bishkek. Nonostante il Kirghizistan avesse richiesto il
pagamento di circa 200 milioni di dollari per l’affitto della base, le parti si sono
accordate per una cifra più ragionevole (17 milioni) 59 . A differenza della
situazione di Karshi, la Sco ma anche Cina e Russia non hanno mai esercitato
pressione su Bishkek affinché le truppe americane venissero espulse. Questo
riflette probabilmente lo scarso peso strategico che i vari attori esterni assegnano
al Kirghizistan. La relazione tra Russia e Kirghizistan può per certi versi essere
definita di tipo clientelare in quanto il sostegno economico russo viene scambiato
con un orientamento filo-russo. La liberalizzazione del sistema economico
kirghizo ha attratto un considerevole numero di investitori russi, e l’immancabile
59
Kyrgyzstan Says It Gets $17 Million Rent For US Base, Radio Free Europe/Radio Liberty, 13
February
2007,
http://www.rferl.org/featuresarticle/2007/02/FA73D47E-6BFA-4133-989688A4169F789C.html.
180
Gazprom ha acquisito una quota di maggioranza della compagnia statale kirghiza
di idrocarburi Kyrgyzneftegaz.
Di ancor più stretta dipendenza dalla Russia è la situazione del Tagikistan. La
posizione ai confini di Cina e Afghanistan ha fatto del paese un prezioso partner
strategico sia per la Russia che per gli Usa a discapito dell’isolamento geografico
e della scarsità di risorse naturali del paese (risorse idriche a parte 60 ). Nella fase
terminale del periodo sovietico la repubblica appariva fra quelle più inclini a una
liberalizzazione del sistema politico locale. La guerra civile che ha travolto il
paese (1992-1997) e lo ha reso una sorta di failed state ha interrotto queste
riforme facendo del Tagikistan uno degli stati più poveri al mondo. L’intervento
russo ha giocato un ruolo fondamentale nel porre fine al conflitto. Formalmente
neutrale e presente con forze di peacekeeping, la Russia in realtà non ha mai
nascosto il proprio sostegno politico alla fazione del presidente Rakhmonov e la
contemporanea preoccupazione per il ruolo giocato dalla opposizione (United
Tajik Opposition), una variegata coalizione di forze islamiche, democratiche,
liberali, nonché elementi criminali (peraltro presenti anche nella coalizione progovernativa) 61 .
Di tutte le repubbliche ex sovietiche (forse con l’eccezione della sola Bielorussia),
il Tagikistan è stato l’alleato più fedele di Mosca. Il Tagikistan era fra le
repubbliche che più dipendevano economicamente dai sussidi russi in epoca
sovietica; nel periodo post-sovietico il legame è stato esteso a questioni politiche e
di sicurezza. Senza l’intervento risolutore russo la guerra civile tagika avrebbe
continuato a sconvolgere il paese. L’intervento russo, beninteso, non era guidato
da motivazioni umanitarie, bensì strategiche. Nel momento in cui le altre
repubbliche centroasiatiche sembravano ritagliarsi sfere di autonomia da Mosca
(specialmente Turkmenistan e Uzbekistan, entrambi ai confini con l’Afghanistan),
il Tagikistan costituiva per la Russia un tassello importante per continuare a
presidiare i confini instabili e strategicamente importanti con l’Afghanistan e
mantere di conseguenza una presenza militare in Asia centrale. Il traffico di droga,
armi e la crescente minaccia posta dal radicalismo islamico rendevano il
Tagikistan un alleato strategico importantissimo per Mosca. Di contro, il sostegno
finanziario e soprattutto politico per la coalizione al potere a Dushanbe
apparivano imprescindibili: senza l’appoggio esterno russo l’ordine in Tagikistan
sarebbe crollato in breve tempo. Pur in minor misura se paragonato ai vicini
Uzbekistan e Kirghizistan, anche il Tagikistan ha beneficiato della necessità
statunitense di aver accesso a strutture, aeroporti e basi in Asia centrale
all’indomani degli attacchi dell’11 settembre. Dushanbe decise di non concedere
agli Usa l’uso delle proprie basi (peraltro inadeguate a livello strutturale alle
necessità americane), ma acconsentì alla richiesta dell’uso dell’aeroporto della
60
E. MARAT, Russia and China Unite Forces in “Peace Mission 2007”, in «Central AsiaCaucasus Analyst», 4 April 2007, http://www.cacianalyst.org.
61
K. NOURZHANOV, Saviours of the Nation or Robber Barons? Warlord Politics in Tajikistan,
in «Central Asian Survey», 24, 2005, 2.
181
capitale Dushanbe e alla richiesta di diritto di sorvolo. La collaborazione tagika
venne garantita tramite un corposo programma di assistenza finanziaria 62 .
Beninteso, l’influenza di Mosca non è necessariamente diminuita. Se le truppe di
frontiera russe hanno lasciato il paese nel 2005 e la sicurezza dei confini è ora
gestita dall’esercito tagiko, le autorità locali hanno acconsentito a che Mosca
stabilisse una base militare nella capitale Dushanbe (dove sono di stanza
cinquemila soldati), che in futuro potrebbe essere trasformata in base aerea.
Nemmeno sono cessati il sostegno e i finanziamenti russi. Nel 2004 la Russia ha
cancellato i debiti tagiki per un valore di 330 miliardi di dollari e promesso
investimenti per circa 2 miliardi di dollari 63 . In sostanza la Russia ha fatto uso di
un sostegno sia militare che economico per evitare che il paese cadesse nella zona
di influenza Nato/statunitense. Le autorità tagike da parte loro non hanno mai
negato come la Russia fosse da considerarsi il partner strategico nonché alleato
del Tagikistan.
6.3 Il Kazachstan e la politica multivettoriale
Al pari degli orientamenti internazionali delle altre repubbliche centroasiatiche,
anche la politica estera kazaka non ha contenuti ideologici, ma è definita da una
combinazione di pragmatismo e di desiderio di distogliere l’attenzione dai
problemi interni verso le relazioni internazionali del paese. A livello strategico il
Kazachstan ha intrapreso una “via di mezzo”, autodefinendosi un paese che unisce
est e ovest, ossia un paese “eurasiatico” nel senso letterale del termine. Nazarbaev
enfatizza al tempo stesso le radici turche della popolazione (etnia) kazaka e i
legami con la Russia 64 .
Nel consolidare lo stato kazako Nazarbaev ha fatto uso di strumenti autoritari nel
trattare problemi interni, mentre a livello internazionale lo stato kazako ha
condotto una politica estera “pragmatica” in cui Astana cerca di mantenere
relazioni cordiali con tutti i paesi, confinanti e non 65 . Le autorità kazake hanno
fatto della multivettorialità l’elemento caratterizzante la politica estera del paese.
La natura multivettoriale della politica estera kazaka è dovuta principalmente ai
seguenti fattori 66 . In primo luogo vi è la collocazione geografica del paese nel
cuore della massa eurasiatica, privo di accesso al mare: ciò rende i rapporti di
buon vicinato con Russia e Cina imprescindibili. Inoltre va ricordato come la
62
Questa ammontava a circa 60 milioni di dollari nel 2005 (Dipartimento di Stato Usa,
http://dushanbe.usembassy.gov/pr_012006.html).
63
M. TORFEH, Central Asia: Putin Visit Takes Russian-Tajik Relations to New Level, Radio Free
Europe/Radio Liberty, 20 October 2004, http://www.rferl.org/features/features_Article.aspx?
m=10&y=2004&id=0F926680-1249-4DDA-9CEF-17651746D876.
64
S.N. CUMMINGS, Eurasian Bridge or Murky Waters between East and West? Ideas, Identity
and Output in Kazakhstan’s Foreign Policy, in «Journal of Post-Communist Studies and
Transition Politics, 19, 2003, 3.
65
Ibidem, p. 139.
66
Ibidem, pp. 142-143.
182
leadership del paese fosse alla ricerca di una nuova identità post-sovietica per il
paese. Questa ricerca di una nuova identità è conseguenza di una indipendenza
non cercata ma subita, di un processo di state-building incompiuto, della
collocazione geografica del paese e della composizione multietnica della
popolazione 67 . La comunità kazaka, considerata “nazione titolare” della
repubblica in epoca sovietica, costituiva una semplice maggioranza relativa fino al
crollo sovietico; la presenza di numerose comunità russofone nel paese
(soprattutto nel nord ai confini con la Siberia e nei centri urbani) rendeva di fatto
il Kazachstan uno stato binazionale, dalla identità incerta per molti aspetti, ma
deciso nel non volere (e potere) fare a meno di mantenere buoni rapporti con la
vicina Russia. Infine, gli stessi kazaki si mostravano maggiormente a proprio agio
con espressioni identitarie non etniche. Il paese oscillava in sostanza tra una
identità kazaka entro i propri confini, affermata con sempre maggiore visibilità e
decisione, e una identità kazachstana (non etnica) in campo internazionale. La
flessibilità resa possibile da una politica estera multivettoriale e non ideologica
veniva inoltre utilizzata a fini di politica interna come strumento di legittimazione
del regime al potere. Una politica multivettoriale, sostiene Sally N. Cummings,
indica che l’identità nazionale del paese è debole e racchiude in sé una serie di
contraddizioni 68 . Lo stesso anno in cui il paese aderì a una unione doganale con
Russia e Bielorussia, Astana si mostrò favorevole a una più stretta integrazione
economica su base regionale. La simultanea ricerca di più partner a livello
internazionale genera non solo una politica estera incerta e contraddittoria, ma
indebolisce anche l’identità del paese che più che ancorare oriente e occidente
“galleggia” fra questi 69 .
6.4 L’Uzbekistan e la strategia di omnibalancing
Al pari delle altre repubbliche centroasiatiche (con l’unica eccezione del
Kirghizistan nei primi anni Novanta), l’indipendenza non ha portato a una
liberalizzazione del sistema politico uzbeko né alla introduzione di riforme
democratiche. Le autorità uzbeke hanno introdotto qualche timida riforma che ha
portato alla formazione di un sistema partitico e un (limitato) livello di
competizione elettorale negli anni 1991-1992. Il consolidamento della
opposizione laica al regime di Islam Karimov e l’emergere di una opposizione
islamista nella regione della valle di Ferghana (in cui le sensibilità religiose sono
particolarmente forti) portarono questo breve esperimento a una drastica
conclusione. La formazione di uno stato “forte” e il conseguimento di una
effettiva (e non solo de jure) indipendenza dalla Russia sono stati gli obiettivi
principali del regime di Islam Karimov in Uzbekistan.
67
Peraltro queste sono considerazioni che valgono anche per le altre repubbliche nella regione.
S.N. CUMMINGS, Eurasian Bridge or Murky Waters between East and West? Ideas, Identity
and Output in Kazakhstan’s Foreign Policy, cit.
69
Ibidem, p. 152.
68
183
Karimov ha guidato l’Uzbekistan verso l’indipendenza dalla Russia tramite la
riduzione dell’influenza russa a livello culturale, ma soprattutto distanziando il
paese da Mosca in termini di relazioni politiche e di sicurezza 70 . Ciò non si è
tradotto in una scelta strategica filo-occidentale. Tashkent ha alternato l’adesione
a organizzazioni multilaterali russo-centriche (Csi e Tsc) a una parallela
partecipazione a strutture occidentali. Nonostante l’Uzbekistan avesse aderito
immediatamente alla Comunità di Stati Indipendenti ed avesse firmato il Trattato
di Sicurezza Collettiva a Tashkent nel 1992, la repubblica centroasiatica aderì al
programma Nato Partnership for Peace nel 1994. Le truppe uzbeke entrarono a far
parte del battaglione centroasiatico (Centrazbat) nel 1995. Nel 1999 il paese non
ha rinnovato la propria partecipazione nel Tsc, preferendo invece aderire al Guam
(poi diventato Guuam in seguito alla adesione uzbeka), il forum multilaterale di
cui fanno parte Georgia, Ucraina, Azerbaigian e Moldova, percepito in Russia
come un gruppo esplicitamente anti-russo.
Nonostante questo sia stato letto come un ri-allineamento occidentale del paese, la
strategia uzbeka era invece quella di bilanciare fra loro tutte le potenze esterne ai
fini di mantenere una notevole autonomia. Le relazioni con Mosca si
raffreddarono notevolmente durante gli anni Novanta; questo però non impedì ai
due paesi di collaborare nella prima fase della guerra civile tagika per porre fine al
conflitto (1992-1994) 71 . Le relazioni fra i due paesi si deteriorarono negli anni
seguenti allorché divenne chiaro alle autorità di Tashkent che l’ordine emerso in
Tagikistan alla fine della guerra civile non sarebbe stato favorevole all’Uzbekistan
che aveva tradizionalmente dominato la vita politica della piccola repubblica
montana per l’intero periodo sovietico.
L’attentato al presidente Karimov del febbraio 1998 nel centro di Tashkent e
soprattutto l’intensificarsi delle incursioni da parte di movimenti radicali islamisti
verso la fine degli anni Novanta portarono le élites uzbeke alla consapevolezza
che non sarebbe stato possibile garantire la sicurezza del paese (e della regione)
senza il sostegno esterno di una qualche potenza internazionale. Ciò ha portato a
una prima collaborazione a livello di intelligence tra il paese e gli Stati Uniti, ma
anche a un progressivo miglioramento nelle relazioni con la Russia, in particolare
in seguito alla elezione di Putin a presidente. Nel 2001 Tashkent ha aderito alla
70
Il processo di state-building in Uzbekistan è stato contraddistinto da una graduale, ma decisa
uzbekizzazione del paese anche a livello culturale. L’uso ufficiale della lingua russa è stato ridotto
drasticamente a favore dell’uzbeko che è stato promosso. L’iconografia nelle strade e piazze delle
città dell’Uzbekistan ha visto nel corso degli anni scomparire le scritte in russo e in cirillico a
favore di quelle in uzbeko e in caratteri latini (dal 1993 l’uso dell’alfabeto cirillico è stato
ufficialmente abbandonato, nonostante in pratica sia possibile trovare la lingua scritta in entrambi
gli alfabeti, cosa che crea non poca confusione fra la popolazione). A livello economico invece i
legami tra Russia e Uzbekistan non sono mai venuti meno. La Russia è tradizionalmente la
destinazione principale delle esportazioni uzbeke, mentre il mercato uzbeko è sempre stato
egemonizzato da compagnie e prodotti russi.
71
Sulla guerra civile tagika si veda S. HORSMAN, Uzbekistan’s Involvement in the Tajik Civil
War 1992-1997: Domestic Considerations, cit.
184
Sco, una organizzazione che fa della lotta al terrorismo uno dei propri obiettivi. Il
primo decennio di indipendenza è stato dunque caratterizzato da una totale
concentrazione sul rafforzamento della statualità uzbeka e del regime al potere. La
giustificazione è stata trovata nella minaccia (reale o immaginata) di un pericolo
islamista che minacciava la sicurezza del paese. L’orientamento strategico del
paese è la logica derivazione di due assunti: primo, che il processo di statebuilding doveva passare attraverso il raggiungimento di una totale indipendenza
da Mosca; e secondo, che l’autonomia uzbeka sarebbe stata garantita solo
attraverso una strategia di omnibalancing, ossia evitando di legarsi
eccessivamente ad altri attori. In secondo luogo, quando l’incapacità uzbeka di far
fronte alla minaccia islamista divenne lampante, ciò ha portato ad allacciare più
stretti legami con l’attore esterno (qualunque esso fosse) che sembrava in grado di
garantire la sicurezza uzbeka. Dal 2001 al 2004 gli Usa rappresentavano lo stato
garante della sicurezza uzbeka, mentre negli anni successivi la Russia soppiantò
gli Stati Uniti nel ruolo di partner strategico del paese. L’impatto degli attacchi
dell’11 settembre sull’allineamento strategico uzbeko è oggetto di analisi in una
sezione successiva.
6.5 Sintesi: continuità e discontinuità
Il breve excursus negli orientamenti strategici delle cinque repubbliche
centroasiatiche nel periodo post-sovietico ha evidenziato le seguenti dinamiche.
1. In primo luogo il processo di state-building ha dominato l’agenda delle
cinque repubbliche. Nessuna di queste vantava un precedente di statualità
indipendente. Anzi è solo con la creazione dello stato sovietico e la politica di
delimitazione nazionale (1924-1936) che le repubbliche assumono le sembianze
pseudo-statuali entro i confini attuali 72 . Vennero creati parlamenti nazionali,
costituzioni, bandiere e inni; insomma tutte le vestigia formali della statualità,
tranne ovviamente la sovranità, che rimaneva soggetta a Mosca. Le istituzioni
formali della statualità centroasiatica pre-esistevano dunque al crollo dell’Urss,
ma è solo con il dicembre 1991 che le repubbliche diventarono soggetti di diritto
internazionale. Tutte le repubbliche si mostrarono ben presto assai gelose della
sovranità appena acquisita e assai riluttanti a cederne anche porzioni minime per
dar vita a strutture regionali per far fronte a problemi comuni (questione
ambientale, gestione delle risorse naturali, ma anche della sicurezza).
2. La strenua difesa della propria sovranità si è tradotta, in campo internazionale,
in una riluttanza ad entrare in nuove alleanze con attori esterni alla regione.
Questo contribuisce a far luce sul fallimento di strutture multilaterali e della Csi,
percepite come strumento russo per rinnovare la propria egemonia sulla regione.
Con l’eccezione del Tagikistan, sprofondato nella guerra civile, le altre
72
Cfr. F. HIRSCH, Empire of Nations, Ithaca, 2005 e T. MARTIN, The Affirmative Action
Empire. Nations and Nationalism in the Soviet Union, 1923-1939, Ithaca, 2001.
185
repubbliche si sono ritagliate spazi di autonomia più o meno decisi. Turkmenistan
e Uzbekistan sono stati gli stati più decisi a evitare l’intrappolamento in alleanze,
mentre Kazachstan e Kirghizistan hanno cercato, per pragmatismo più che per
convinzione, di bilanciare la dipendenza dalla Russia in tema di sicurezza con il
sostegno finanziario Usa (specialmente il Kirghizistan).
3. Va inoltre osservato come la situazione strategica nella regione sia cambiato
non una, ma ben due volte dall’11 settembre 2001 a oggi. La presenza e
l’influenza statunitense sono cresciute significativamente dal 2001 al 2004 e le
repubbliche centroasiatiche si sono in varia misura ri-allineate in modo da
beneficiare economicamente (tramite i programmi di assistenza militare e di
sicurezza) e politicamente (tramite il sostegno politico ai regimi al potere) dai
nuovi legami con Washington. Negli ultimi anni, invece, la Russia, forte di una
economia più forte e dunque più attraente e meno preoccupata delle implicazioni
di una strategia volta alla preservazione dello status quo politico, ha soppiantato
gli Usa come partner strategico.
4. Infine l’impatto maggiore dell’11 settembre sulle relazioni strategiche nella
regione e fra le repubbliche centroasiatiche e gli attori esterni è stato l’acuirsi
delle tensioni tra le esigenze di sicurezza e quelle di riforma dei sistemi politici ed
economici nella regione. La sicurezza ha dominato l’agenda delle relazioni tra gli
attori regionali e quelli esterni a discapito della pressione per introdurre riforme e
liberalizzazione politica ed economica.
7. Il ri-allineamento strategico dalla partnership tra Usa e Uzbekistan
consolidamento della Sco
al
Come già notato nella prima parte di questo saggio, la dimensione strategica
dell’Asia centrale nel 2007 appare molto diversa da quella di inizio decennio.
Allora la presenza e l’influenza statunitense erano in visibile crescita, con le
repubbliche centroasiatiche che “offrivano” collaborazione agli Usa (dietro
compenso, ovviamente). Oggi la situazione non potrebbe essere più diversa.
L’influenza statunitense è in declino, mentre Russia e Cina sembrano saldamente
in controllo. Questa sezione esamina il caso studio del ri-allineamento strategico
ai fini di illustrare due tesi:
1. in primo luogo gli allineamenti strategici in Asia centrale sono tuttora
sostanzialmente fluidi, come mostrano la repentina crisi tra Usa e Uzbekistan e il
voltafaccia di Tashkent che nel novembre 2005 ha siglato un trattato di alleanza
con la Russia;
2. in secondo luogo questo repentino cambiamento mostra come il sistema
regionale centroasiatico sia tuttora non consolidato.
186
7.1 Le relazioni tra Stati Uniti e Uzbekistan dalla “illusione della partnership”
alla “crisi della illusione” (2001-2005) 73
Gli attacchi dell’11 settembre hanno costituito un’autentica manna dal cielo per le
autorità uzbeke. Dopo aver lamentato lo scarso sostegno alla propria lotta contro il
terrorismo per anni (in particolare dal 1998 in poi), Tashkent vedeva finalmente
riconosciuta la “bontà” delle proprie tesi. Il radicalismo islamico costituiva una
minaccia non solo per la stabilità statuale uzbeka o regionale, ma per il sistema
internazionale nel suo complesso. Il 5 ottobre 2001 il governo uzbeko acconsentì
alla richiesta Usa di utilizzare la base di Karshi-Khanabad (precedentemente usata
in epoca sovietica dall’Armata Rossa durante la guerra in Afghanistan). La
collaborazione tra Washington e Tashkent diventò sempre più stretta, con
Tashkent che era fra i pochi paesi al mondo a sostenere l’invasione dell’Iraq
mentre al tempo stesso riceveva decine di milioni di dollari in assistenza di varia
natura (militare e non) dagli Usa 74 . Nel marzo del 2002 Karimov e Bush si
ritrovano a Washington per siglare la Partnership strategica fra Usa e Uzbekistan.
In apparenza il documento non faceva altro che conferire ufficialità a una
comunanza di interessi strategici fra i due paesi.
La crisi delle relazioni tra Usa e Uzbekistan non ha origine in un evento preciso,
bensì in una serie cumulativa di processi che hanno reso la partnership
imbarazzante e controproducente per entrambe le parti. I primi segnali di un
deterioramento delle relazioni uzbeko-statunitensi sono datati 2004, allorché il
Dipartimento di Stato americano pubblicò un rapporto critico della situazione
uzbeka in tema di diritti umani e stato delle riforme politiche nel paese 75 . Le
critiche non pervenivano esclusivamente da parte statunitense. I motivi che
avevano spinto le autorità uzbeke (radicalismo islamista; bilanciamento antirusso; comunanza di obiettivi strategici con gli Stati Uniti nella lotta al terrorismo)
non apparivano più validi. La presenza statunitense – contrariamente a quanto
inizialmente sperato, ossia che la collaborazione portasse maggiore sicurezza
all’Uzbekistan – ha peggiorato la situazione. Il ripetersi sempre più frequente di
attentati da parte di organizzazioni clandestine nella primavera ed estate 2004 che
sono poi culminate negli eventi di Andijan nel maggio 2005 hanno portato il
regime di Islam Karimov a percepire la partnership con Washington come una
seconda minaccia alla sicurezza uzbeka, o meglio alla sicurezza del proprio
regime e alla propria sopravvivenza (politica). Questo mutamento di percezioni
aveva luogo proprio mentre le autorità di Tashkent osservavano, con
73
J. HEATHERSHAW, Worlds Apart: The Making and Remaking of Geopolitical Space in the
US-Uzbekistan Strategic Partnership, cit.
74
M. FUMAGALLI, Alignments and Re-alignments in Central Asia: Rationale and Implications
of Uzbekistan’s Rapprochement with Russia, in «International Political Science Review», 28,
2007, 3, p. 267.
75
G. GLEASON, The Uzbek Expulsion of US Forces and Realignment in Central Asia, in
«Problems of Post-Communism», 53, 2006, 2.
187
preoccupazione, le ondate di proteste popolari in Georgia (2003), Ucraina (2004)
e Kirghizistan (2005) che avevano rovesciato i regimi al potere.
La crisi di Andijan, in cui una insurrezione nella città ha portato a degli scontri tra
l’opposizione e le forze di sicurezza uzbeke, conclusa con una repressione
governativa particolarmente dura, rappresenta l’emblema più che la causa o il
fattore catalizzatore della crisi tra Usa e Uzbekistan. La reazione statunitense alla
reazione del governo uzbeko, dopo un primo tentennamento, fu quella di
richiedere una investigazione internazionale e indipendente, richiesta sempre
rifiutata alle autorità uzbeke che vedevano nella cosa un’interferenza nelle proprie
questioni interne e dunque una lesione della propria sovranità. Contrariamente a
quanto Usa, Unione Europea e organizzazioni di diritti umani si aspettavano, la
crisi di Andijan non ha portato all’isolamento internazionale dell’Uzbekistan. Al
contrario Tashkent ricevette un pronto e deciso sostegno da Mosca, Pechino, e
dagli altri paesi della Sco. A quel punto le relazioni con Washington (e Bruxelles)
sono apparse come un peso di cui era possibile fare a meno. Il 29 luglio 2005 le
autorità uzbeke comunicavano alle controparti statunitensi che avrebbero dovuto
lasciare la base di Karshi-Khanabad entro centottanta giorni. Il 12 novembre
2005, mentre a Mosca Putin e Karimov firmavano un trattato di alleanza (dando
vita ad una collaborazione «senza precedenti», secondo le parole di Islam
Karimov 76 ), le ultime truppe americane lasciavano in tono sommesso il territorio
uzbeko.
7.2 L’Organizzazione per Cooperazione di Shanghai
L’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai viene costituita come
organizzazione internazionale intergovernativa nel giugno 2001 con lo scopo di
rispondere ai fenomeni che mettono a repentaglio la pace, stabilità e sicurezza
nella regione centroasiatica 77 . La Sco nasce nell’accordo di cooperazione militare
nelle zone di confine siglato da Russia, Cina, Kazachstan, Kirghizistan e
Tagikistan nel 1996, accordo che aveva dato vita al cosiddetto Gruppo di
Shanghai o Shanghai-5, dalla città in cui era stato firmato. A questo aveva fatto
seguito l’anno seguente un secondo accordo per la riduzione delle forze militari
nelle zone di confine.
Privo di una vera e propria organizzazione e ancora lontano da una vera e propria
istituzionalizzazione, il Gruppo di Shanghai sembrava essere destinato a diventare
l’ennesimo esempio di vacua struttura multilaterale post-sovietica, questa volta
con l’aggiunta cinese. Invece, e con sorpresa di molti, a partire dal 1999 il Gruppo
di Shanghai ha progressivamente ampliato il proprio raggio di azione e i propri
76
«Novosti Uzbekistana», 24 novembre 2005.
Della Sco al momento fanno parte sei stati (Russia, Cina, Uzbekistan, Kazachstan, Tagikistan e
Kirghizistan), mentre Mongolia, Iran, Pakistan e India hanno ottenuto nel corso degli anni lo status
di paesi osservatori.
77
188
obiettivi. La cooperazione tra gli stati membri è stata estesa da quella militare
(prevista negli accordi firmati nel 1996-97), a quella economica e culturale 78 . Gli
obiettivi sono stati estesi a forme di cooperazione in settori “non tradizionali”
come la lotta al terrorismo, al separatismo ed all’estremismo religioso. Questa
nuova e più intensa cooperazione è stata formalizzata tramite
l’istituzionalizzazione del gruppo in una organizzazione internazionale nel 2001.
Tali accordi prevedevano anche la creazione di una Segreteria permanente con
sede a Pechino (a testimonianza dell’importanza conferita dalla Cina alla
organizzazione) e di una struttura regionale per l’anti-terrorismo (Rats), con sede
a Tashkent, in Uzbekistan 79 .
L’ampliamento del raggio d’azione della Sco nasce dalle forti (e crescenti)
preoccupazioni degli stati membri relativamente alla sicurezza. Le incursioni di
militanti islamici nella valle di Ferghana nelle estati del 1999-2000 e nel 20042005 ed il crescente timore dei paesi della regione e di Russia e Cina circa la
crescente minaccia rappresentata da gruppi radicali islamici hanno portato gli stati
membri a coordinare i propri sforzi per far fronte a fenomeni che mettono a
repentaglio la pace, la stabilità e la sicurezza regionale.
Gli obiettivi strategici della Sco sono sostanzialmente due:
1. la già precedentemente citata cooperazione nella lotta al terrorismo, al
separatismo e all’estremismo religioso;
2. la volontà di contenere la presenza e l’influenza degli Stati Uniti nella
regione 80 .
Il primo obiettivo non pone la Sco in opposizione agli Usa, in quanto entrambi gli
attori condividono queste preoccupazioni. Ciò spiega come, all’indomani degli
attacchi dell’11 settembre e durante la prima fase della guerra in Afghanistan, né
la Sco né alcuno dei paesi membri abbia sollevato obiezioni alla presenza
americana nella regione e al ruolo che gli Usa svolgevano nel raggiungere
quell’obiettivo strategico che la Sco si era posto (combattere il terrorismo) senza
raggiungere nessun traguardo di rilievo in proposito. Il secondo obiettivo della
organizzazione pone invece la Sco in radicale contrapposizione alla presenza
statunitense in Asia centrale. La volontà di contenere, se non ridurre, la presenza
statunitense della regione costituisce un forte collante strategico per tutti i paesi
78
Nel 2003 è stato siglato un accordo volto a facilitare gli scambi commerciali al fine di creare una
zona di libero scambio e ad agevolare la cooperazione nel settore energetico. Nel 2006 è stata poi
adottata una risoluzione che istituisce il Business Council e la Interbank Association all’interno del
framework della Sco, cfr. E. CALZA, L’evoluzione della Shanghai Cooperation Organization, in
«Quaderni di Relazioni Internazionali», 2006, 3, p. 94.
79
Originariamente il centro avrebbe dovuto aver sede in Kirghizistan, a Bishkek, ma in seguito
venne deciso di spostarlo a Tashkent, anche alla luce della adesione dell’Uzbekistan, della
rilevanza strategica di questo stato e della priorità che Tashkent conferisce alla lotta contro il
terrorismo.
80
C.P. CHUNG, The Shanghai Cooperation Organization: China’s Changing Influence in Central
Asia, in «The China Quarterly», 2004, 180, pp. 990-993.
189
membri. Risponde sia alle priorità strategiche russe e cinesi, che vedevano la
presenza Usa ai propri confini come una minaccia, che all’istinto di sopravvivenza
delle élites al potere nella regione, che hanno scelto le proprie alleanze in funzione
del sostegno politico ai propri regimi. Qualora questo sostegno fosse apparso in
dubbio, come nel periodo delle rivoluzioni colorate post-sovietiche, i paesi in
questione non avrebbero esitato a compiere un ri-allineamento in favore della
Russia o della Cina. Al fine di evitare che la presenza statunitense nella regione si
traducesse in una realtà permanente, la Sco ha cominciato a chiedere a gran voce,
tramite comunicati ufficiali, che Washington fissasse una data entro la quale gli
Usa si sarebbero ritirati dalla regione. Poiché il motivo dietro l’uso statunitense
della basi era l’appoggio alle operazioni in Afghanistan, il fatto che queste fossero
state dichiarate concluse nel 2003 andava interpretato – secondo Russia e Cina –
come se le condizioni che ne avevano permesso l’uso non fossero più valide. Due
dichiarazioni sono apparse di forte valenza simbolica.
In occasione del summit di Astana nel luglio 2005 la Sco aveva richiesto agli Stati
Uniti di fissare i tempi per il ritiro delle proprie truppe dalle basi nella regione. A
questa dichiarazione aveva poi fatto seguito l’ultimatum uzbeko in cui venivano
concessi centottanta giorni agli Usa per lasciare la base di Karshi-Khanabad. La
seconda (comunicato del 15 giugno 2006) si riallaccia al comunicato del summit
di Astana dell’anno precedente e sottolinea l’efficacia della azione della Sco (nel
ridurre l’influenza di attori esterni nella regione).
Che cosa è (diventata) dunque la Sco? Secondo Chung la Sco costituisce una
partnership, non una alleanza 81 . Una alleanza, sostiene Chung, si definisce per
opposizione ad altri attori (gli Stati Uniti sono il riferimento neanche troppo
velato), mentre invece la Sco è una struttura aperta, un meccanismo che si
propone di creare un clima di fiducia reciproca e cooperazione nella regione. A
controprova di come gli stati membri della Sco percepiscano l’alterità Usa alla
regione, gli Stati Uniti si sono visti negare lo status di paese osservatore, concesso
invece alla Mongolia e al Pakistan.
I paesi membri della Sco fanno proprio quello che viene definito “spirito di
Shanghai” (Shanghai Jingshen) che si fonda sui seguenti principi: «fiducia
reciproca, comunicazione, cooperazione, co-esistenza e comunanza di interessi fra
gli stati membri» 82 . Chung sostiene che la Sco costituisce un nuovo modello di
regionalismo che si pone in antitesi al “vecchio” regionalismo, di cui l’Ue
rappresenta l’esempio più evidente. A differenza del vecchio regionalismo, il
nuovo regionalismo non richiede cessioni di sovranità, ma anzi nasce sul principio
di riconoscimento della sovranità degli stati membri. Questo nuovo tipo di
regionalismo unisce stati dai diversi sistemi politici, con diverse tradizioni
culturali e religiose, ma con interessi comuni. Nel corso degli anni la Sco si è
affermata come una organizzazione di cui fanno parte stati uniti da una
81
82
Ibidem, p. 991.
Ibidem.
190
consonanza normativa, ossia quella che Kimmage definisce una posizione non
conservatrice, ma “conservazionista” (conservationist), orientata al mantenimento
dello status quo 83 . Questo obiettivo è funzionale alle priorità strategiche cinesi e
russe, come agli interessi di autosopravvivenza dei regimi al potere nella regione.
Oltre che consentire il mantenimento dello status quo nell’immediato e di
osteggiare la presenza Usa nella regione, la Sco deve anche essere considerata nel
contesto delle relazioni sino-russe. Le relazioni tra Mosca e Pechino sono
migliorate progressivamente già all’epoca di Gorbachev nella seconda metà degli
anni Ottanta e le due potenze hanno in seguito firmato un accordo di partnership
strategica. Le priorità strategiche dei due paesi convergono al momento, come già
osservato nella prima parte di questo saggio: ridurre la presenza americana ai
propri confini, contenere separatismo, terrorismo e estremismo religioso sono
obiettivi largamente condivisi dai due attori 84 . Entrambi inoltre aspirano alla
costituzione di un mondo multipolare. La Sco sembra essere un meccanismo volto
al raggiungimento di questo obiettivo. A partire dal 2005 Cina e Russia hanno
condotto esercitazioni militari congiunte (Peace Mission 2005 e 2006) che
verranno ripetute nuovamente nella estate del 2007.
Vi sono al tempo stesso alcune osservazioni che suggeriscono alcuni dubbi sulla
lunga durata di questa partnership e sulla identità di vedute tra Russia e Cina 85 . La
Russia considera le repubbliche centroasiatiche parte della propria sfera
d’influenza e la regione un’area in cui esercitare la propria egemonia. Questo
significa che Mosca non desidera che la Cina diventi eccessivamente coinvolta
negli affari della regione. Sinora la Cina ha accettato lo status russo di primus
inter pares, anche in considerazione del fatto che il tempo è tutto dalla parte della
Cina. In prospettiva la ricchezza russa dovuta agli alti prezzi del petrolio
diminuirà, mentre invece l’espansione economica cinese sembra inarrestabile.
Basta solo attendere per vedere le relazioni sino-russe capovolte, con Pechino
nelle vesti di senior partner. Più in generale, come osserva Lo, le economie russa
e cinese non sono per nulla complementari e sono destinate ad entrare in
competizione, come sta già accadendo in Siberia orientale e in prospettiva in Asia
centrale 86 .
7.3 Sintesi: i deficit di legittimità del sistema regionale centroasiatico
La discussione dei due casi studio nelle pagine precedenti ha evidenziato come i
tre deficit di legittimità di cui soffrono i sistemi regionali post-unitari identificati
83
D. KIMMAGE, SCO: Shoring up the Post-Soviet Status Quo, Radio Free Europe/Radio Liberty,
8 July 2005, http://www.rferl.org/features/features_Article.aspx?m=07&y=2005&id= 9A8D1C5FB72B-4A40-AEDC-08ED11AAA34F.
84
G. XING, China and Central Asia, cit., p. 166.
85
B. LO, The Long Sunset of Strategic Partnership: Russia’s Evolving China Policy, in
«International Affairs», 80, 2004, 2.
86
Ibidem.
191
da Colombo (confini, identità degli attori, esistenza del sistema) sono stati una
costante del periodo post-sovietico e sono stati costantemente soggetti a
definizione, negoziazione e contestazione.
Confini
In epoca sovietica il termine “Asia di mezzo” (srednyaya Aziya) veniva utilizzato
per indicare quella parte della periferia sovietica in Asia che comprendeva le
repubbliche di Uzbekistan, Kirghizistan (allora Kirghizia), Turkmenistan
(Turkmenia) e Tagikistan. Il Kazachstan ne era escluso in quanto parte di una
regione stepposa di confine tra l’Asia centrale vera e propria e la Siberia. E’ solo
nel 1992 che il Kazachstan è entrato ufficialmente a far parte dell’Asia centrale
(Tsentral’naya Aziya/O’rta Oziyo). Se i confini della regione appaiono più o meno
definiti a livello geografico (Kazachstan e Turkmenistan possono anche
appartenere alla regione del Caspio), meno certi e sicuramente meno stabili sono
apparsi i confini del sistema regionale centroasiatico. Gli Stati Uniti hanno
articolato la concezione più “elastica” di questi confini. Per gran parte del periodo
post-sovietico gli Stati Uniti hanno promosso una visione di un macro-sistema
regionale i cui confini andavano dal Caucaso al Caspio all’Asia centrale fino ai
confini della Cina (esclusa). Di questa facevano parte attori che centroasiatici non
sono (Georgia, Armenia e Azerbaigian), mentre non vi facevano parte la Cina o
perfino la Russia il cui ruolo nelle dinamiche di sicurezza regionali è rimasto
cruciale nonostante il crollo dell’Urss. In seguito alla guerra in Afghanistan gli
Stati Uniti hanno allargato i confini del sistema regionale verso sud, in modo da
comprendere anche l’Afghanistan (se non pure il Pakistan). La visione del sistema
regionale centroasiatico appare ben più contenuta secondo la visione strategica
della Sco. Del sistema fanno parte quattro repubbliche centroasiatiche
(Turkmenistan escluso), Cina e Russia. Qui le questioni critiche sono due:
l’espulsione degli Usa dal sistema, la cui alterità viene più volte proclamata dalla
Sco, e il ruolo del Turkmenistan, de jure e de facto neutrale, ma che per il peso
nella politica energetica di ogni attore globale risulta difficile escludere da una
strategia per l’Asia centrale.
Numero e identità degli attori
Il numero stesso degli attori rimane incerto. L’incertezza circa i confini dell’Asia
centrale come sistema si riflette sui dibattiti circa il numero e l’identità degli attori
che appartengono a questo sistema. Come già notato la concezione Usa vedeva
includere non solo Washington, ma anche l’Afghanistan (integrando di fatto Asia
centrale e meridionale), la regione del Caspio e il Caucaso meridionale,
aumentando a dismisura il numero di attori. Russia e Cina hanno propeso per una
concezione più “esclusiva” del sistema regionale centroasiatico, escludendo gli
Usa, ma anche l’Afghanistan e cercando di fare a meno del Turkmenistan. Il
Caucaso costituisce un sistema a parte per Mosca mentre risulta di minimo
interesse a Pechino.
192
Esistenza del sistema
Esiste dunque un sistema regionale centroasiatico? Da quanto discusso in
precedenza, appare difficile stabilire se esista o meno un sistema regionale
centroasiatico la cui esistenza sia riconosciuta come legittima da tutte le parti
interessate. Probabilmente ne esiste più di uno, il che mostra come sia impossibile
decretare l’esistenza di un sistema tramite criteri oggettivi. L’esistenza o meno di
un sistema regionale centroasiatico appare piuttosto il prodotto di un processo di
costruzione sociale, soggetto in quanto tale a ridefinizione continua.
8.
Conclusioni
I primi anni del nuovo secolo sono stati contraddistinti da rapidi ri-allineamenti
strategici in Asia centrale. La rapidità e la drammaticità con cui si sono susseguiti
rendono ogni previsione azzardata. Possiamo perciò solo avanzare qualche
riflessione conclusiva. Questo saggio ha mostrato come nessuno degli attori
esterni qui esaminati (Russia, Cina e Stati Uniti) abbia mostrato di avere una
coerente strategia verso l’Asia centrale.
La Russia ha alternato fasi di disimpegno impostole dalla trasformazione postsovietica a tentativi di imporsi come l’egemone “naturale”. Per gli Stati Uniti
l’Asia centrale ha cessato di essere un «collettaneo di “stan” trascurabili» per
diventare uno dei teatri principali nella lotta al terrorismo. Washington ha
ripetutamente oscillato in maniera più che incerta tra tentativi di promuovere
riforme politiche e difendere i propri interessi in politica energetica e politiche
funzionali alla guerra al terrorismo. L’apertura di basi in Uzbekistan e
Kirghizistan all’indomani della guerra in Afghanistan comunicò a Mosca e
Pechino in lettere chiarissime come il mondo fosse radicalmente mutato.
Gradualmente le repubbliche centroasiatiche, pur in diversa misura, hanno
cominciato a vedere nei legami con Washington un peso (liability), invece che un
vantaggio (asset). Il fallimento della gestione post-invasione in Iraq e
l’implosione strategica della amministrazione Bush durante il secondo mandato
hanno indebolito la posizione statunitense al punto che il regime di Islam Karimov
a Tashkent non ha esitato a dare il benservito alle truppe statunitensi e alla
partnership con Washington. Più in generale ciò che è imputabile a Washington è
l’aver fallito nel comprendere il proprio fallimento nella regione.
Il fallimento strategico statunitense in Asia centrale è dovuto da un lato alla
continua incertezza tra gli obiettivi della sicurezza e della democratizzazione,
obiettivi che in questo decennio sono entrati in rotta di collisione. Dall’altro è
dovuto alla mancata capacità americana di rendersi conto di quanto abbia fallito
nel comprendere le dinamiche politiche, sociali e di sicurezza nella regione. Se
dunque una rentreé americana nella regione appare improbabile (e Washington si
accontenterà al momento di mantenere la base in Kirghizistan e coltivare buone
relazioni con il Kazachstan, anche per l’importanza di questo a livello energetico),
193
la fluidità della situazione presenta una opportunità unica a un attore che fino ad
ora è rimasto ai margini delle dinamiche strategiche nella regione: l’Unione
Europea. Il ripensamento in atto circa la strategia da adottare per impegnarsi in
Asia centrale dimostra che l’Ue potrebbe giocare un ruolo di rilievo in futuro 87 .
Tutto sommato, di fronte ai succedanei capovolgimenti che hanno contraddistinto
le relazioni di Mosca e Washington con le repubbliche centroasiatiche, Pechino ha
mantenuto una politica coerente nel corso degli ultimi quindici anni. Al momento
in cui questo saggio viene scritto, i paesi centroasiatici, Cina e Russia condividono
una visione strategica che enfatizza i principi di stabilità, difesa della sovranità
statuale da ogni interferenza straniera, la lotta all’estremismo islamico e il
multipolarismo come strumento antiegemonico (in chiave anti-Usa). La
razionalizzazione nel processo decisionale e l’improvvisa e cospicua disponibilità
finanziaria resa possibile dall’alto costo degli idrocarburi ha permesso alla Russia
di re-imporre la propria egemonia nella regione attraverso una strategia che unisce
l’uso della dipendenza energetica come strumento di politica estera e una politica
di sicurezza che ricompensa un atteggiamento pro-russo e punisce un
orientamento filo-occidentale. La riduzione della presenza occidentale è anche
obiettivo cinese che vede la presenza statunitense ai propri confini come una
minaccia. La Sco esprime questa nuova consonanza strategica fondata sulla difesa
di statualità, sovranità (da interferenze straniere) e in sostanza dello status quo,
definito come sopravvivenza dei regimi al potere. La convergenza normativa ha
contribuito a creare un senso di identità tra i paesi membri. Lo spazio
centroasiatico è diventato, come sostiene Heathershaw, il luogo in cui i principi di
sovranità e autorità (statuale) vengono rispettati e difesi contro tentativi da parte di
potenze esterne. La demarcazione tra interno/esterno (appartenenza/alterità alla
regione) è diventato oggetto di discussione. Essere definiti come esterni alla
regione priva di legittimità le proprie azioni. Russia e Cina hanno insistito sulla
alterità degli Usa nella regione e sui tentativi di penetrarvi ai fini di stabilire la
propria egemonia in “spazi che non competono loro”.
Al momento la situazione appare meno fluida che in tutto il periodo postsovietico. Il saggio sostiene però che è prematuro considerare “chiuso” il capitolo
centroasiatico. Questo perché la regione si trova di fronte a una serie di crocevia
che ne segneranno la traiettoria per i prossimi anni e decenni. Tre mi sembrano di
particolare rilevanza per le implicazioni non solo sulla stabilità statuale, ma
regionale nel suo complesso.
Successione politica
La prima sfida che si presenta riguarda la successione politica. Per questioni
biologiche la questione è inevitabile. Nessuna delle repubbliche centroasiatiche ha
87
Sulla strategia Ue in Asia centrale si vedano A. FERRARI, L’Unione Europea e l’Asia centrale,
«ISPI Policy Brief» n. 52, maggio 2007, http://www.ispionline.it/it/documents/ pb_52_2007.pdf e
N.J. MELVIN, The European Union Strategic Role in Central Asia, «CEPS Policy Brief» n. 128,
March 2007.
194
predisposto meccanismi istituzionali per far fronte a questa evenienza, nel caso di
scomparsa del presidente di turno.
Riforme
Con l’unica eccezione del Kazachstan, la cui situazione economica è
sensibilmente migliorata grazie ai costi degli idrocarburi, la situazione economica
delle altre repubbliche rimane stagnante. Lo stato rimane in controllo
dell’economia e, nei casi in cui non lo è, clan, gruppi regionali e network criminali
competono per spartirsi le poche risorse. Le implicazioni di questa spartizione
iniqua sono politiche in quanto le fazioni escluse dalla ridistribuzione delle risorse
(economiche, ma anche politiche) possono presentare una minaccia alla stabilità
del paese, come già mostrato in occasione della guerra civile tagika, della
“rivoluzione dei tulipani” in Kirghizistan, e delle ripetute lotte di potere in
Uzbekistan.
Radicalizzazione della protesta
Questa possibilità è diretta conseguenza delle prime due questioni. La
centralizzazione del potere in circoli ristretti di élites, il consolidamento
dell’autoritarismo e il procrastinarsi della introduzione di riforme politiche ed
economiche contribuiscono all’acuirsi di malesseri e frustrazioni fra la
popolazione locale. In mancanza di possibilità di dar voce al malcontento alcuni
elementi marginali si sono rivolti a organizzazioni militanti islamiche che nel
corso degli anni sono diventate vieppiù popolari. Questa popolarità è dovuta più
alla carenza di alternative che non a un reale desiderio di sostituire gli attuali
regimi laici con un califfato. Pur tuttavia, la stagnazione protratta non fa altro che
alimentare il malcontento e rendere la possibilità che il conflitto politico diventi
violento sempre più probabile.
Questi cambiamenti profondi toccheranno la dimensione interna, regionale e
statuale. Come i regimi e i popoli della regione affronteranno le sfide e
opportunità che si presentano, dipenderà anche da come le potenze esterne alla
regione (Russia, Cina, Stati Uniti, ma anche l’Unione Europea) sapranno loro
porsi e proporsi.
In conclusione, nonostante i vari ri-allineamenti strategici che si sono ripetuti
negli ultimi quindici e più anni, rimangono, come sostiene Martha Brill Olcott,
fondamentali linee di continuità nella regione. Queste continuità comprendono
irrisolte tensioni tra stato e società, tra élites e resto della popolazione e le rivalità
tra attori regionali e potenze internazionali (e tra queste ultime fra loro). Tali
tensioni, qualora rimangano irrisolte, preannunciano nuove scosse. La chiusura
del sistema politico, le frustrazioni socio-economiche e la gestione della
successione politica ai vari leader/regimi costituiscono alcune tra le sfide che
nessun attore, interno o esterno alla regione, è ancora apparso né in grado né
deciso ad affrontare.
195
CONTINUITÀ POST-SOVIETICA, AUTORITARISMO POLITICO
E DIRITTI UMANI IN ASIA CENTRALE
Fabrizio Vielmini
Introduzione
Con il crollo del sistema sovietico, sull’esempio degli altri paesi già parte del
Patto di Varsavia, le repubbliche d’Asia centrale, hanno intrapreso una serie di
riforme politico-istituzionali aventi l’obiettivo dichiarato d’uniformare i propri
sistemi interni a quelli dei paesi dell’area atlantica. Da parte di questi ultimi vi fu
un’adesione interessata alle richieste provenienti da questi neofiti della scena
internazionale. Le repubbliche dell’Asia centrale vennero allora considerate
terreno d’espansione del modello liberal-democratico.
Tuttavia, l’esperienza degli ultimi 15 anni ha dimostrato la vacuità delle
aspettative iniziali: nonostante innumerevoli sforzi, programmi e iniziative varie
finalizzate all’apertura e alla trasformazione dei sistemi politici centroasiatici
secondo i principi dello stato di diritto, il panorama regionale resta caratterizzato
da pratiche autoritarie e da magistrature corrotte e inefficienti, nel cui quadro il
numero di violazioni quotidiane dei diritti fondamentali dei cittadini si è
mantenuto costante, mentre in una parte considerevole della regione sono venute
allargandosi le zone grigie di non-diritto legate alla deliquescenza delle istruzioni
pubbliche.
A tutt’oggi, il rapporto dei regimi ai programmi di democratizzazione si trova in
una condizione paradossale. Nonostante i dirigenti dichiarino che l’instaurazione
della democrazia rappresentativa e il rispetto delle libertà fondamentali siano
obiettivi delle loro politiche, la realtà di queste ultime testimonia di una precisa
volontà volta a impedire concrete evoluzioni in tale direzione. Negli ultimi anni
tale divergenza è stata giustificata nei termini della costruzione di una cosiddetta
“democrazia guidata” (upravljaemaja demokratija). Pretesa quale via nazionale
alla democrazia, tale formula viene piuttosto intesa quale “democrazia imitata”,
un paravento per regimi non completamente dittatoriali e preoccupati di
mantenere un dialogo con i sistemi considerati autenticamente democratici.
Per indagare le ragioni di questa permanenza dell’autoritarismo nella regione, il
presente studio, piuttosto che sull’enucleazione dei punti in cui la divergenza di
fondo fra teorie delle democratizzazione e pratica politica centroasiatica si
manifesta, si concentra sui motivi che ne stanno alla base. Questi vanno in primo
luogo individuati nell’approccio, normativo e universalistico, delle teorie della
cosiddetta transizione, le quali hanno soprasseduto ai tentativi di cambiamento
196
influenzandone in profondità il percorso, nella complessità dei sistemi sociopolitici centroasiatici, con la loro capacità atipica di far convivere differenti
sostrati culturali, nelle concrete sfide alla tenuta dei regimi posti dalla congiuntura
geopolitica post-sovietica. Quest’ultima in particolare emerge come una
determinante d’ordine principale dato che le fragili repubbliche si sono trovate ad
essere oggetto di una complessa interazione fra potenze esterne volta al controllo
delle loro risorse strategiche.
L’analisi parte da una descrizione delle teorie della democratizzazione e della
transizione nel momento in cui esse intervengono ad occupare il vuoto ideologico
post-comunista. Si allarga quindi ad una panoramica dei percorsi seguiti da
ciascuno dei soggetti statali centroasiatici constatando la vacuità del concetto di
democrazia se applicato a tali esperienze. Spiegazioni per la divergenza vengono
cercate nei precipui caratteri socioculturali che definiscono la politica nella
regione. In tale sezione viene posta la questione di quanto la democrazia
occidentale sia compatibile con lo sfondo storico e antropologico della regione.
Inoltre, alla luce della dissoluzione del regime centroasiatico che più aveva fatto
ricorso alle risorse delle democratizzazione, quello di Askar Akaev in
Kirghizistan, lo studio s’interroga su quanto gli effetti delle pratiche importate
siano benefici per la stabilità e le possibilità di tenuta dei soggetti statali della
regione.
1. Dietro gli sforzi della democratizzazione: il paradigma della transizione
La congiuntura dell’inizio degli anni Novanta favorì l’applicazione alla regione di
un complesso di dottrine ed idee per essa completamente nuove. Dal punto di
vista centroasiatico, le élite locali si ritrovarono spinte in un’indipendenza che
lungi dall’essere un’aspirazione endogena costituiva una fatalità dovuta alla
volontà d’abbandono della regione da parte del centro moscovita. Non solo esse
dovevano improvvisamente gestire tale nuova situazione e le sue immense sfide,
ma ciò avveniva in un contesto di assoluto vuoto ideale causato dalla parallela
scomparsa del quadro concettuale marxista-leninista. Questi, seppur
profondamente modificato dall’adattamento alla realtà locale, aveva non di meno
costituito l’ideologia alla base del sistema, la fonte dell’universo mentale e
culturale di apparatčiki rigidamente formati per servire il medesimo. Avendo
l’ideologia monopolizzato così a fondo e a lungo il campo della riflessione
politica, si avvertiva un acuto bisogno di modelli alternativi per la gestione della
nuova situazione e la necessaria riforma delle esistenti strutture amministrative.
Mancando una memoria istituzionale precedente all’integrazione imperiale e poi
sovietica, l’adozione dei modelli democratico-liberali dell’Occidente “vincitore”
della guerra fredda, emergeva quasi automaticamente quale una strada obbligata
da percorrere.
Da parte occidentale, una tale impostazione venne accolta con entusiasmo,
soprattutto al centro del campo vincitore, gli Stati Uniti. Qui da oltre un decennio,
197
quale elemento centrale della politica estera globale 1 , si era fatto strada il concetto
di “rivoluzione democratica mondiale”, strumento ideologico adottato dalle
amministrazioni Reagan in contrapposizione all’internazionalismo comunista
usato dell’Urss. Alla base di tale ideologia stava un paradigma teorico a pretesa
scientifica, quello della “transizione alla democrazia”, il quale, in una visione
teleologica, propugnava la possibilità di un percorso lineare di passaggio
dall’autoritarismo alla democrazia, percorso sul quale avrebbe potuto avviarsi
qualsiasi società attraverso l’applicazione di schemi standard, a prescindere dalle
condizioni di partenza e dal suo tipo di struttura interna 2 . In virtù della sua
funzionalità ad una politica estera di superpotenza, tale visione è stata sviluppata
da ampi settori del mondo accademico statunitense che la hanno arricchita di un
discorso articolato su una serie di concetti precipui, fino a influenzare in senso
egemonico il campo degli studi del cambiamento politico. Dopo oltre vent’anni,
tale egemonia è lungi dall’avere esaurito i suoi effetti, contribuendo inoltre a
nascondere gli interessi geopolitici che sin dall’inizio sono stati alla base del suo
sviluppo 3 .
Da parte europea l’approccio è stato più pragmatico. Di fronte ad un interesse
iniziale scarso o inesistente per questi lembi dell’ex Urss, ci si è limitati ad
auspicare trasformazioni in senso democratico quali gli sviluppi le più adatti a
garantire la sicurezza del nuovo ambiente internazionale nonché la stabilità delle
società centroasiatiche. Nondimeno, sotto l’influenza della visione transitologica,
nella prospettiva cosmopolitica kelnesiana di globalismo giuridico dominante
negli anni Novanta, anche gli europei sono convenuti nel considerare il
neoliberalismo e la rappresentazioni ad esso precipue di stato di diritto (Rule of
law) e diritti umani quali principi superiori, fondamenti normativi della legittimità
di qualsiasi governo.
Emergeva così una visione comune occidentale volta a realizzare una “terza
ondata di democratizzazione” così da completare l’uniformazione planetaria sotto
1
Nella visione dei suoi sostenitori, tali principi configurano un diritto universale ad una
governance democratica il quale deve essere protetto da parte di collective international processes.
Cfr. T. FRANCK, The Emerging Right to Democratic Governance, in «The American Journal of
International Law», 86, 1992, 1, pp. 46-91. Si veda N. GUILHOT, The Democracy Makers.
Human Rights and the Politics of Global Order, New York, 2005, per un’analisi del fenomeno
nelle condizioni storiche della sua istituzionalizzazione.
2
T. CAROTHERS, The end of the Transition Paradigm, in «Journal of Democracy», 13, 2002, 1,
p. 6.
3
Si veda le considerazioni elaborate in riferimento all’esperienza egiziana da D. PIOPPI, Il
“paradigma della democratizzazione” e il cambiamento politico in Egitto, in M. TORRI (a cura
di) Il Grande Medio Oriente nell’era dell’egemonia americana, Milano, 2006, pp. 4-21. L’autrice
mette bene in evidenza il parallelo fra il carattere egemonico del discorso della democratizzazione
“transitologica” e altre dottrine prodotte storicamente nell’ambito del mondo accademico allo
scopo di servire quale strumentario teorico d’imprese coloniali.
198
il solo dei possibili sistemi socio-politici 4 .
Tale pulsione è stata applicata all’interno dei confini dell’ex Urss con un’intensità
volontarista particolare, spinta da un vero e proprio trionfalismo 5 , il quale ha
alimentato una convinzione rinnovata dell’inevitabilità del percorso che le
repubbliche avrebbero dovuto seguire per raggiungere il doppio approdo al libero
mercato e alla democrazia e una ancor più ridotta considerazione dei limiti
strutturali dell’esportazione del modello nelle condizioni precipue alla regione.
Va inoltre tenuto presente che, per la realizzazione del proprio disegno nelle
periferie del mondo, di riflesso a quanto avveniva presso lo scomparso avversario
comunista, il paradigma della transizione poteva disporre di un concreto apparato
(democracy-promotion communities), in primo luogo attraverso il sistema
internazionale degli aiuti allo sviluppo rappresentanti dei quali sbarcarono in forze
nella regione. A questa, quale parte del blocco sovietico, vennero applicati gli
stessi schemi utilizzati nell’Europa orientale. Al centro, l’attenzione per le
trasformazioni istituzionali improntate ai principi del buon governo (good
governance) 6 . L’essenza di questi ultimi deriva da un altro elemento chiave del
paradigma della “transizione”, il suo “pregiudizio totalitario”, la convinzione che
alla radice dei presunti mali del sistema sovietico ci fosse uno stato onnipotente,
un Leviatano che andava ora ingabbiato per favorire una idealizzata società civile
e la liberalizzazione dell’economia da esso negate. Di conseguenza, una parte
consistente delle attività implementate dall’apparato internazionale dispiegato
nella regione si è concentrata sugli aspetti formali della definizione della politica
interna, in particolari sui parlamenti e i meccanismi elettorali.
Come vedremo nei dettagli in seguito, tali programmi hanno ricalcato le
esperienze della cooperazione allo sviluppo nel terzo mondo negli anni Sessanta e
Settanta. Come allora, l’adozione formale di leggi e strutture di facciata non ha
potuto interagire con i comportamenti e le pratiche alla base della società e delle
istituzioni realmente definenti il campo politico, le quali, seppur trasformandosi
per rispondere alle sfide del post-indipendenza, sono risultate in definitiva
rafforzate 7 . Le numerose forzature del modello generarono una crescente
resistenza e avversione all’interno della regione, dove si è constatata una non
recepibilità da parte di stati di recente formazione di elementi quali il deperimento
delle specificità nazionali e l’esaurimento del ruolo dello stato.
4
S. HUNTINGTON, The Third Wave: Democratization in the Late Twentieth Century, Norman
(Ok.)/London, 1991.
5
M. LIU, Detours from Utopia on the Silk Road: Ethical Dilemmas of Neoliberal Triumphalism,
in «Central Eurasian Studies Review», 2, 2003, 2.
6
L. DE MARTINO, Désillusions des donateurs? La coopération internationale en Asie Centrale,
in Conference Proceedings: The Illusions of Transition: Which Perspectives for Central Asia and
the
Caucasus?,
CIMERA,
9
December
2004,
pp.
152-161,
http://www.cimera.org/publications/cp6/popup.html.
7
M. BAIMYRZAEVA, Institutional Reforms in Kyrgyzstan, in «Central Eurasian Studies
Review», 4, 2005, 1, pp. 29-35.
199
Nella degradazione delle condizioni generali di vita e dato il fatto che essa
riduceva la democrazia ad una procedura formale, l’ideologia importata della
trasformazione è stata percepita in misura crescente quale sistema concepito non
per lo sviluppo ma piuttosto per l’apertura di queste economie periferiche al
capitale globale 8 , il quale, sempre secondo schemi già consolidati, tramite
l’agenda delle istituzioni finanziarie internazionali può influenzare le politiche
nazionali senza curarsi particolarmente delle popolazioni dei paesi beneficiari.
Un fattore a cui tutti hanno dovuto portare attenzione è che nel trascurare la
dimensione statuale, senza il rafforzamento delle istituzioni e delle autorità
responsabili d’organizzare le elezioni e le giurisdizioni d’applicazione della legge
non sarebbe stato possibile a priori parlare di democrazia, nemmeno nei termini
formali previsti dal “pacchetto standard” della transizione 9 .
Per tutta la seconda metà degli anni Novanta, si consolida così il citato paradosso
per cui, pur a fronte a scarsi o nulli risultati sul terreno, la “transizione” viene
assunta come fenomeno compiuto, a parte qualche “effetto collaterale”
trascurabile, in una sicurezza che tradiva la volontà politica di continuare a dare
definitivamente per scontato l’impossibilità di un modello altro rispetto alla
democrazia liberale di stampo anglosassone, quale punto d’arrivo ineliminabile
del convivere politico delle società umane. Dal canto loro, con il venir meno degli
entusiasmi e delle aspettative proprie al primo periodo post-indipendenza, pur
continuando a dichiarasi a favore di un discorso che costituiva la via obbligata
dell’accesso agli aiuti finanziari internazionali, i dirigenti centroasiatici hanno
iniziato a contrapporre un’argomentazione sottolineante i limiti di una
democratizzazione incondizionata ed a tempi accelerati. Tale argomentazione si
fonda sul particolarismo culturale, sui principi di non ingerenza e sovranità e,
soprattutto, sui rischi che un’apertura incondizionata del campo politico potrebbe
comportare per la stabilità dei giovani stati.
In tal modo, continuava ad essere accettata la visione della transizione così come
l’idea dell’uscita da un passato di totalitarismo, il quale, in virtù delle tracce
profonde da esso lasciate, avrebbe richiesto un lungo periodo d’adattamento alle
politiche di democratizzazione da parte delle realtà locali 10 .
8
Ossia quale «veicolo attraverso cui inglobare i paesi in ritardo di sviluppo nel nuovo progetto di
espansione globale del capitalismo», cfr. M. CERIMELE, A che serve la democrazia? Stato,
mercato e sviluppo nel Kazachstan post-sovietico, in «Meridione. Sud e Nord del Mondo», 5, 2005,
3, pp. 144.
9
O. CAPPELLI, Democratizzazione o state-building? Riletture critiche della transizione
postcomunista, in Oltre la democratizzazione, «Meridione. Sud e Nord del Mondo», 5, 2005, 3,
pp. 5-59.
10
P. GEISS, Political Discourse on Authority Relations in Central Asia. A Sociological
Elucidation, in «Central Asia Monitor», 2000, 6, pp. 1-6.
200
2. Le traiettorie istituzionali delle cinque repubbliche dopo l’indipendenza
Osserviamo ora le esperienze concrete affrontate dalle repubbliche centroasiatiche
dopo l’indipendenza. Vedremo come l’evoluzione dei sistemi politici presenta
caratteristiche tali da configurare la regione quale un blocco omogeneo, così come
già essa si differenziava all’interno del contesto sovietico. Dopo una serie di
iniziali esercizi elettorali relativamente aperti si assiste ad un crescente
accentramento del potere da parte degli apparati presidenziali. Tutte le esperienze
post-sovietiche convergono su scioglimenti dall’alto delle legislature, ripetute
modifiche costituzionali, ricorso allo strumento del referendum per ottenere
conferme plebiscitarie nonché altre misure eccezionali finalizzate a mantenere il
potere presidenziale in una posizione dominante. Nondimeno, è possibile
differenziare le traiettorie seguite dopo il 1991 individuando differenti gradi
differenti di apertura nelle 5 repubbliche. Se esse restano tutte regimi ibridi
mescolanti qualche elemento (per lo più formale) di democrazia con un solido
impianto autoritario, è possibile tuttavia collocare i cinque soggetti in una scala
discendente che va dal quadro di relativa tolleranza del Kazachstan fino
all’impostazione totalitaria del Turkmenistan. In tutti e cinque i casi, caratteri e
personalità dei segretari di partito riciclatisi in presidenti hanno profondamente
influenzato le traiettorie d’evoluzione del sistema politico11 .
2.1
Kazachstan
Il sistema instaurato dal presidente Nursultan Nazarbaev si pone quale effettivo di
“democrazia guidata” 12 o autoritarismo illuminato. Durante tutto il corso della
propria esperienza post-sovietica, la dirigenza si è prestata a vari esperimenti di
transizione istituzionale e state-building, con e senza il supporto di istituzioni
internazionali, senza tuttavia permettere che questi andassero a toccare in
profondità gli equilibri interni del paese.
Dopo le prime, esitanti aperture, con la costituzione del 1995 Nazarbaev fissa le
regole del gioco del sistema ponendo i tre rami del potere sotto il suo saldo
controllo. Reso bicamerale ma privato dell’iniziativa legislativa, il parlamento può
essere sciolto in qualunque momento per decisione presidenziale ed avrà quindi
cura di lavorare conformemente alla sua volontà 13 .
Le vicende parlamentari sono state indicative delle tendenze politiche e del
ricorso sistematico alla manipolazione istituzionale quale forma di legittimazione
del regime. Così, nella stessa occasione, un referendum veniva indetto per
l’estensione del mandato del leader per altri cinque anni. E da quel momento in
11
R. TARAS (ed.), Postcommunist Presidents, Cambridge, 1997.
Secondo le parole dello stesso Nazarbaev, in «Nezavisimaja Gazeta», 12 gennaio 2004, p.1.
13
Per una analisi di questa svolta nella vita politica interna kazaka: B. BALCI, Les élections
législatives de decémbre 1995 au Kazakhstan, in «Bulletin de l’Observatoire de l’Asie centrale et
du Caucase», février 1996, 1, pp. 18-20.
12
201
poi il paese ha conosciuto una lunga serie d’emendamenti costituzionali e
plebisciti volti a modellare il dettato legislativo con l’ordine delle cose e gli
interessi del regime. Questi ha altresì esercitato un’accorta e puntuale rotazione
dei quadri la quale, unita ad una centralizzazione crescente e a rimaneggiamenti
territoriali delle unità amministrative, ha permesso d’instaurare un controllo
effettivo sull’insieme del campo politico.
La forza del sistema di Nazarbaev è stata nell’abilità nel neutralizzare tutte le
potenziali forze antagoniste attraverso metodi differenziati che comprendono sia
la repressione che la cooptazione nei ranghi del potere. Nel corso degli anni,
Nazarbaev ha compiuto altri passi volti ad assicurare al proprio regime il pieno
controllo del potere politico e fissa quest’ordine di cose facendo adottare dal
parlamento la cosiddetta Legge del primo presidente (27 giugno 2000), la quale
garantisce l’immunità perpetua di Nazarbaev e la sua futura influenza sul sistema
politico anche dopo l’uscita formale dalla scena istituzionale.
Regnando su un paese immenso, sottoposto a numerose forze centrifughe,
Nazarbaev ha operato una modifica sapiente del rapporto fra centro e periferie,
dialettica essenziale ereditata dal sistema sovietico. Se il centro ha mantenuto il
controllo diretto tramite la nomina dei governatori regionali (akim), i poteri di
questi ultimi sono rafforzati in modo che essi fungano da garanzia della necessaria
mobilitazione dei votanti in occasione dei numerosi esercizi elettorali e più in
generale della legittimazione del regime a livello regionale. Questa
decentralizzazione de facto deriva anche dal relativo, a confronto dei vicini,
pluralismo partitico, il quale ha permesso ai leader regionali di appropriarsi di
risorse già a disposizione dell’apparato del Pcus, ciò che ne ha ulteriormente
aumentato il potere e il margine di manovra nell’implementazione delle politiche
del centro.
Parallelamente, quale apertura formale alla decentralizzazione, è stato conservato
il principio dell’eleggibilità delle assemblee regionali. Il potere centrale è stato
favorito dalle difficoltà oggettive che incontrava la formazione di una contro-élite
proprio in virtù dell’immensità delle distanze tra i diversi centri urbani, così che
potenziali leader alternativi venivano facilmente cooptati nell’élite o
marginalizzati dall’impossibilità di strutturare reti di supporto su scala nazionale.
Un altro elemento strutturale che va tenuto presente è come il sistema si sia
ristrutturato accentuando il principio etno-nazionalista in nuce nella costruzione
nazionale sovietica. In tal modo l’appartenenza all’etnia kazaka è divenuto un prerequisito importante per trovare lavoro o fare carriera. In un contesto in cui la
nazionalità eponima del paese costituiva solo una risicata maggioranza, tale
situazione ha posto una parte consistente della popolazione in una zona grigia di
non diritto sottolineata dall’ambiguità della definizione ufficiale della cittadinanza,
oscillante fra ius solis e ius sanguinis.
A livello generale, il principale fattore che ha dato forma al sistema è stata la
piena affermazione del controllo del clan presidenziale sulla vita economica del
202
paese. Di fronte alla precarietà della tenuta interna, la chiave del successo di
Nazarbaev in tale impresa è in larga misura risieduta nel bilanciamento delle fonti
di supporto interne con quelle internazionali. Accondiscendendo all’introduzione
di un indirizzo di politica economica generale d’ispirazione liberista, così come
richiesto dal grande capitale transnazionale che si andava allora installando nel
settore energetico del paese, il regime si è assicurato il silenzio dei censori
internazionali della democratizzazione 14 . Allo stesso tempo, il regime ha tratto dal
contesto internazionale solo quegli elementi che potevano essergli utili nell’opera
di consolidamento interno, scartando allo stesso tempo quanto avrebbe rimesso in
gioco rendite e monopoli controllati dall’élite.
Sulla falsariga di quanto avveniva contemporaneamente in Russia, Nazarbaev ha
così eliminato la vecchia guardia contraria alle privatizzazioni e ai programmi del
Fondo Monetario Internazionale (Fmi). A determinare la vita del paese sono
dunque sorti alcuni grandi gruppi finanziari, fra i quali primeggiano quelli
controllati da parenti di Nazarbaev 15 , i quali si sono anche ripartiti i principali
media spingendosi in alcuni casi fino ad operazioni d’ingegneria partitica volte ad
assicurare i loro interessi all’interno delle istituzioni.
Nonostante il fatto che alcuni rappresentanti dei gruppi oligarchici abbiano sfidato
il sistema cercando di creare un’opposizione politica strutturata, Nazarbaev ha
dato finora prova della massima abilità politica riuscendo a neutralizzare le fronde
successive tramite un utilizzo disinvolto della giustizia e di altri strumenti extralegali 16 , ciò che fa giustizia di anni di retorica riformista nel senso dello stato di
diritto.
Ciononostante, all’interno del girone ex sovietico, ma anche al di là di esso, con
gli anni il regime di Nazarbaev è andato acquistando un crescente prestigio frutto
sia del finora riuscito sviluppo economico che della capacità ineguagliata di
soddisfare il capitale internazionale presente nel paese, distribuire risorse per
arricchire la propria sfera famigliare e clientelare, coordinare le spinte centrifughe
ed evitare i nefasti scenari di conflitto che venivano prescritti come quasi
inevitabili nei primi anni d’indipendenza.
14
M. CERIMELE, A che serve la democrazia? Stato, mercato e sviluppo nel Kazachstan postsovietico, cit.
15
EVRAZIJSKIJ CENTR POLITICESKIKH ISSLEDOVANIJ, AGENSTVO “EPICENTR”,
“Gruppy vliyaniya” v vlastno-političeskoj sisteme Respubliki Kazakhstan (I “gruppi d’influenza”
nel sistema politico di potere della repubblica del Kazachstan), 29 noiab’r 2005,
http://www.mizinov.net/articles/10280.
16
In particolare, fra il 2001 e il 2002 quando gli ex uomini del regime Murat Abljazov e Galimžan
Žakjanov vennero arrestati dopo che erano riusciti a riunire i principali oppositori del paese nel
blocco Dvk (Scelta democratica del Kazachstan).
203
2.2
Kirghizistan
A fronte dei successi e dell’equilibrio nell’implementazione delle ristrutturazioni
capitalistiche propri all’esperienza kazaka, quella del Kirghizistan offre l’esempio
di un paese che dal primo momento della scomparsa della struttura federale
sovietica, non ha cessato di oscillare fra differenti esperimenti istituzionali
teoricamente destinate a sviluppo, democratizzazione e effettiva governance ma
portatori nei fatti di profondo disordine, per il paese così come per l’insieme della
regione.
A lungo il Kirghizistan è stato considerato il modello per l’applicazione del
paradigma della transizione alla regione centroasiatica. Anche qui molto è dipeso
dalla figura del primo presidente, Askar Akaev, l’unico leader centroasiatico
all’alba dell’indipendenza a non provenire dalla nomenklatura del Pcus, ma bensì
dal mondo accademico. Cosciente delle simpatie che tale fatto gli procurava in
ambito internazionale, Akaev aveva sognato nella prima metà degli anni Novanta
di fare del suo paese un’“isola di democrazia” sullo sfondo autoritario della
regione. Per qualche anno sembrò funzionare. La prima Costituzione, emanata nel
maggio 1993, era interamente modellata sui principi del liberalismo anglosassone,
con la connessa enfasi sui diritti umani, a cui il paese venne dedicato 17 . Akaev
condannava duramente il “totalitarismo” introducendo le più disparate riforme
con il plauso e l’assistenza di differenti istituzioni sopranazionali. Fra queste, il
Fmi il quale suggerì una riforma d’aggiustamento strutturale con effetti devastanti
per la struttura economica del paese. Su tale sfondo, al centro divenne
rapidamente chiaro che con gli strumenti propri dei regimi liberali non sarebbe
stato possibile governare un paese profondamente diviso da una frattura generale
nord/sud e, all’interno di queste macroregioni, da una struttura clanica
particolarmente frammentata (all’incirca una quarantina di gruppi). In tale
contesto, data la scarsità di risorse materiali e le stridenti contraddizioni regionali,
gli istituti democratici non potevano che risultare un guscio vuoto, secondario
rispetto all’esigenza di assicurare la tenuta del paese nelle frontiere ereditate
dall’Urss. Da un lato, Akaev dovette fare sempre più riferimento ai suoi sponsor
internazionali. A tal punto, in una condizione che perdura ancora oggi, che il
Kirghizistan può essere descritto quale un “protettorato internazionale” 18 . La
differenza rispetto al periodo precedente al 1991 sta nel fatto che invece di doversi
rapportare a un’unica potenza ordinatrice, il paese deve ora far riferimento a
un’insieme di soggetti trans-nazionali (ma in maggioranza anglo-americani),
senza il supporto dei quali lo stato non sarebbe in grado di assicurare le funzioni
più basilari dell’amministrazione pubblica quali l’educazione, le strutture di
sicurezza e la sanità. Tuttavia l’appoggio internazionale da un lato non era
17
Secondo lo slogan “Kyrgyzstan strana prav čeloveka” (Il Kirghizistan paese dei diritti
dell’uomo), cfr. S. ISLAM, Capitalism on the Silk Route?, in M. MANDELBAUM, Central Asia
and the World, New York, 1994, pp. 147-176.
18
B.M. PÉTRIC, Post-Soviet Kyrgyzstan or the Birth of a Globalized Protectorate, in «Central
Asian Survey», 24, 2005, 3, pp. 319-332.
204
sufficiente, dall’altro i suoi referenti interni, la collettività degli operatori delle
Ong create dai programmi di cooperazione, premeva per la continuazione delle
riforme, senza tenere in considerazione gli effetti profondi per la società, per
alcuni in preda ad una sorta di “surriscaldamento da modernizzazione” 19 .
Il regime cominciò dapprima ad applicare pressioni crescenti sui media 20 , poi, con
il crescere dei disastri sociali provocati dal nuovo corso economico e il
conseguente innalzamento del livello delle critiche da parte delle opposizioni,
dovette cercare di ricostruire una linea verticale di potere in grado di mantenere il
contatto fra il centro e le regioni. Akaev cominciò un crescente ricorso allo
strumento referendario, allo scopo di scavalcare il legislativo e poter così
procedere con la linea di transizione prescelta. Sull’esempio di Nazarbaev, mise in
piedi un sistema piramidale al cui vertice stavano i membri ed i prossimi della
famiglia presidenziale i quali a loro volta garantivano il tornaconto di una serie di
clan e gruppi d’interesse economici. Tuttavia, la più elevata frammentazione
interna e povertà rendevano molto più difficile la tenuta interna del sistema. A
poco servì anche fare ricorso ai miti mobilizzatori del nazionalismo i quali
trovarono un’eco soffusa, non sufficiente a superare né la frammentazione clanica
regionale né l’alienazione crescente delle masse rurali sempre più esposte agli
effetti delle ristrutturazioni liberali 21 .
Il sistema di Akaev entrò in crisi con l’avvicinarsi delle elezioni per il rinnovo del
parlamento e della presidenza del 2005. Da un lato, gli interessi consolidatisi
intorno al regime compirono innumerevoli e goffi tentativi volti a mantenere
inalterati i propri privilegi. Dall’altro la lunga serie di scontenti dello stato
corrente delle cose iniziò a uscire dai ranghi. Il risultato finale fu il primo cambio
di regime nell’area centroasiatica. Attori principali ne furono le masse di
diseredati mobilitati verso i palazzi del potere dagli oppositori, contadini o sottoproletari di recente urbanizzazione i quali espressero una sorta di vendetta delle
campagne contro una capitale percepita come indifferente al degrado delle loro
condizioni di vita.
Il successivo evolversi della vita politica del paese ne conferma la crisi strutturale,
frutto in buona parte di un erronea applicazione di schemi alieni alla sua realtà. Il
nuovo regime di Kurmanbek Bakiyev si è rapidamente ritrovato nella condizione
di Akaev.
Le pratiche nepotistiche e la corruzione sono continuate, allargandosi e
corrodendo sempre più l'insieme della cosa pubblica. Al fine di essere eletto senza
complicazioni ed evitare di approfondire le tensioni fra il nord e il sud del paese,
19
Secondo un’espressione dell’ex direttore del Centro di Studi strategici del paese, V.B.
Bogatyrev. Intervista dell’autore, Bishkek, 23 marzo 2007.
20
Sin dal 1994 si segnala il perseguimento giudiziario di giornalisti scomodi al regime. Cfr. B.
PANNIER, Backsliding in Kirgyzstan, in «Transition», 1, 1995, 18, pp. 80-81.
21
E. HUSKEY, An Economy of Authoritarianism? in IDEM (ed.), Power and Change in Central
Asia, London, 2002, pp. 76-96.
205
Bakiyev sottoscrisse un patto pre-elettorale con l’unica altra personalità che
potesse aspirare alla presidenza nel dopo-Akaev, il generale e anch’egli ex
ministro Felix Kulov. Molto dubbio in termini costituzionali, l’accordo riservava a
questi la guida del governo. Nel frattempo il nuovo regime si è trovato a condurre
un costante braccio di ferro con l’opposizione, la quale ha continuato a fare
ricorso alla piazza, paralizzando più volte la vita della capitale. Alla fine del 2006,
Bakiyev aveva accettato di ridurre le prerogative della presidenza con
l’introduzione di una costituzione di stampo parlamentare. Tuttavia, dopo poco
più d’un mese, il presidente ribaltava il compromesso raggiunto e faceva votare
dal parlamento (da lui largamente controllato) una nuova carta fondamentale che
in pratica restaurava l’egemonia della massima carica. A quel punto, dopo un
anno e mezzo d’intesa, Bakiyev ha anche estromesso il Primo ministro facendo in
modo che non venisse riconfermato dal parlamento dopo che Kulov aveva
presentato le dimissioni dell’esecutivo in seguito alla crisi costituzionale. Kulov
ha così raggiunto il fronte delle opposizioni portando ad un confronto ancora in
corso mentre scriviamo. L’accusa principale rivolta al presidente continua ad
essere l’incapacità a portare a termine le riforme. In realtà il problema del
Kirghizistan sta nel fallimento del tentativo di creare un apparato statale
funzionante, ciò che induce una condizione di crisi a carattere endemico
nell’assenza di un élite dirigente e d’una opposizione in grado di avanzare
proposte concrete. Al suo posto troviamo una costellazione frammentata di piccoli
capi regionali e tribali, privi di programmi politici, i quali piuttosto che dirigere
subiscono anch’essi il corso degli eventi. Le richieste di riforme celano con
difficoltà esigenze di redistribuzione di ricchezza e potere mentre i partiti con i
loro programmi politici sono solo un involucro per gruppi d’interesse finanziario
o regionale, in una prospettiva in cui la politica è in primo luogo un’arena in cui si
gioca per inserire i propri rappresentanti all’interno delle strutture di potere in
modo da poter meglio affermare i propri interessi a livello locale.
2.3 Tagikistan
In un’ipotetica graduatoria regionale del grado d’apertura politica, il Tagikistan si
colloca in una posizione intermedia fra la precedente coppia più pluralista e il
blocco autoritario rappresentato da Uzbekistan e Turkmenistan. Il paese si erge
quale esperienza a sé poiché marcata dal conflitto civile che lo ha devastato fra il
1992 e il 1997, un fatto che ha impedito al sistema politico di assumere tratti ben
definiti.
La delimitazione nazionale sovietica degli anni Trenta creò in Tagikistan un
soggetto particolarmente squilibrato, dove il problema principale era il basso
grado di auto-identificazione delle province con il centro 22 . Le rivalità regionali
22
Si veda il numero speciale (Le Tadjikistan existe-t-il?) di «Cahiers d’Etudes sur la Méditerranée
Orientale et le monde Turco Iranien», 18, juillet-décembre 1994.
206
esplosero in conflitto non appena l’improvvisa indipendenza fece venire meno il
fattore esterno che aveva assicurato la tenuta del sistema. Nondimeno, la guerra
civile venne interpretata erroneamente quale un confronto fra forze del vecchio
regime e gruppi d’ispirazione democratica.
La figura di Imomali Rakhmonov, un oscuro quadro di secondo livello, venne
innalzata alla presidenza da parte della coalizione al potere, probabilmente nella
convinzione che, dato il suo basso profilo e l’assenza di una rete strutturata di
supporto a livello nazionale, questi sarebbe stato più facilmente manipolabile in
una fase di passaggio. Al contrario, Rakhmonov è riuscito sorprendentemente a
sopravvivere alle sue eminenze grigie e giostrando fra l’alto livello di
conflittualità all’interno della stessa coalizione governativa, a mantenere il potere
presentandosi quale artefice della riconciliazione nazionale.
La congiuntura successiva alla guerra civile suscitò elevate aspettative fra gli
attori della democratizzazione in Asia centrale. La cessazione delle ostilità si
fondava su un Accordo di riconciliazione nazionale il quale prevedeva
meccanismi istituzionali e pratiche volti ad assicurare l’accesso al potere ai
membri dell’opposizione, per i quali veniva riservato il 30 per cento delle cariche
pubbliche. La singolarità della situazione tagika sta anche nel riconoscimento di
una legittimità politica ai membri dell’opposizione islamista (Partito della
rinascita islamica, Pri), un unicum in una regione in cui le forze rifacentesi
all’islam politico vengono represse in ogni modo in quanto presentate quale
minaccia alle istituzioni laiche.
Se la presidenza è stata in qualche modo costretta a confrontarsi con eletti dal
popolo per la composizione dell’esecutivo, tale situazione è stata più che altro il
portato di un conflitto intestino che ha lacerato il paese senza che nessuna delle
parti fosse in grado di prevalere sugli oppositori. Nella misura in cui la situazione
è andata stabilizzandosi, il regime ha cercato di espellere gli avversari politici
quasi li considerasse un corpo estraneo, così che il paese ha conosciuto una
“normalizzazione” autoritaria, in linea con le più generali tendenze
centroasiatiche 23 . L’élite al potere con Rakhmonov ha continuato a far uso di
strumenti repressivi per affermare ed allargare la propria sfera di controllo tramite
il costante rafforzamento dell’istituto della presidenza. La costituzione in vigore,
che di base è ancora quella adottata nel 1994, ha subito continui rimaneggiamenti
così che contiene numerose contraddizioni. Essa assegna al presidente la nomina
dei sindaci e dei governatori regionali, prerogativa di cui Rakhmonov ha più volte
usufruito per allontanare ex membri dell’opposizione, distorcendo in tal modo il
dettato dell’accordo di riconciliazione nazionale. Il potere giudiziario è dichiarato
indipendente ma il presidente può dimettere e nominare i giudici, oltre che
influenzare la Corte costituzionale tramite il controllo sul parlamento del partito
presidenziale (Partito democratico del popolo). D’altronde, in violazione alla
23
J. GRÄVINGHOLT, Statehood and Governance: Challenges in Central Asia and the Southern
Caucasus, Deutsches Institut für Entwicklungspolitik, «Briefing Paper», February 2007.
207
Legge sull’amnistia parte degli accordi del 1997, molti ex antagonisti del
presidente sono stati portati innanzi alla giustizia per presunti crimini commessi
prima della pacificazione.
La “guerra al terrorismo” ha costituito un’occasione inattesa per Rakhmonov, il
quale ne ha ricavato risorse aggiuntive per consolidare la propria presa sul paese.
Nel 2003, l’attuale presidente ha riguadagnato il distacco dai suoi colleghi
regionali, estendendo il proprio mandato da cinque a sette anni ed introducendo
per se stesso la possibilità di concorrere per due mandati aggiuntivi. Il tutto
tramite un referendum dove i cittadini erano chiamati contemporaneamente ad
esprimersi su un pacchetto di 50 emendamenti costituzionali, le cui modalità
sfidavano qualsiasi decenza internazionale 24 .
Il clima creato nella regione dall’emergenza “anti-terrorista” post-2001 ha
favorito il riemergere di un rinnovato discorso pubblico sulla “minaccia islamica”,
anche questo una costante nei percorsi istituzionali regionali. Rakhmonov ha
comunque cura a bilanciare le proprie mosse liberticide con atti d’apertura,
dovendo tenere in considerazioni che le fonti esterne di finanziamento –
soprattutto quelle destinate al cospicuo terzo settore - restano fra le voci principali
del bilancio nazionale 25 .
Il sistema vanta ancora un certo pluralismo politico ma esso è sempre meno
sostanziale. Esemplare il rapporto del potere con il Partito della rinascita islamica,
il quale, pur avendo perduto presa nel sociale viene mantenuto quale interlocutore
privilegiato, proprio perché inoffensivo nei confronti del regime in forza delle sue
crescenti divisioni interne. In ogni caso, i partiti si sono sempre più svuotati di
senso e gli equilibri dell’élite si determinano facendo affidamento sui legami di
solidarietà e di parentela piuttosto che sulle alleanze politiche 26 .
Negli ultimi due anni, mentre la presidenza ha ulteriormente accentrato la sua
presa su politica ed economia, assorbita dai problemi crescenti nel confinante
Afghanistan, la comunità internazionale è sembrata accettare l’interpretazione che
dipinge Rakhmonov quale principale e unico garante della stabilità e dunque di
una gradualità del cambiamento, che tuttavia non sembra portare ad alcun
sviluppo positivo nell’apertura del sistema politico.
Così, a un decennio dalla firma degli accordi di pace, il paese appare tuttora in
una situazione di stallo, nella quale rimangono aperte le cause da cui la guerra
civile era emersa, con il presidente che a tratti appare inconsapevole della reale
situazione delle periferie, dove cresce alienazione nei confronti dello stato a causa
della corruzione generale e della mancanza d’accesso a cariche e ricchezze
24
Z. ABDULLAEV - S. NAZAROVA, Tajikistan: Referendum Result Controversy, Institute for
War and Peace Reporting, 28 June 2003.
25
M.B. OLCOTT, Central Asia’s Second Chance, Carnegie Endowment for International Peace,
Washington, 2005.
26
INTERNATIONAL CRISIS GROUP, Tajikistan’s Politics: Confrontation or Consolidation,
«Asia Briefing», 19 May 2004.
208
monopolizzate dalla burocrazia centrale.
2.4 Uzbekistan
In virtù della propria posizione centrale e del peso demografico (oltre la metà
della popolazione centroasiatica), l’Uzbekistan influenza in profondità la vita
della regione, tendenze politiche incluse. Dopo l’uscita dalla compagine federale,
l’élite al potere ha effettuato una chiara scelta basata sul ruolo centrale dello stato
nel condurre il passaggio all’indipendenza. Durante il periodo sovietico, lo stato
uzbeko, che quale perno del sistema d’amministrazione dell’Asia centrale aveva
potuto disporre di ingenti risorse economiche nel migliorare le condizioni di vita
delle masse, si è radicato in profondità fra la popolazione.
Benché l’attuale Uzbekistan sia una creatura geopolitica artificiale composta da
territori appartenuti nel corso della storia a differenti formazioni politiche, sul suo
territorio si concentra la memoria storica dei principali sistemi statali preesistenti
l’entrata della regione nella compagine imperiale russa. Il mantenimento della
centralità dell’apparato direttivo burocratico-amministrativo è stato analizzato da
esperti locali alla luce delle considerazioni di Karl Wittfogel sulla permanenza di
tali strutture nelle cosiddette società idrauliche 27 . Tanto è vero che lo stato uzbeko
controlla tuttora il settore agricolo (produzione di cotone) attraverso una rete di
comunità locali (makhalla) integrate nell’amministrazione pubblica come già in
precedenza nel sistema dei kolchoz.
Ad un livello più esteso, la vita politica nazionale si organizza su clan a base
regionale, i cui principali sono quelli di Samarcanda, Ferghana e Bukhara. La rete
dei gruppi politici regionali si collega con gli interessi economici e commerciali
per via del mantenimento del controllo statale sulle principali attività economiche
del paese. L’intreccio di potere politico ed economico esprime un elevato livello
di interdipendenza fra tutte le classi privilegiate e le strutture statali formando la
base di sostegno del presidente Islam Karimov 28 . In uno schema patrimonialista,
la lealtà a Karimov è tradotta in privilegi nella sfera economica, per mantenere i
quali le élite hanno offerto qualsiasi supporto il vertice richiedesse loro.
La forza degli interessi consolidati in tale blocco è stata tale da sabotare i tentativi
di democratizzazione, che aumentando la trasparenza del sistema e la
partecipazione popolare, sarebbero andati ad intaccare privilegi consolidati.
L’accentramento è stato favorito dal contesto dei primi anni d’indipendenza
quando il crollo della situazione di sicurezza in Tagikistan e la degradazione delle
27
K. A. WITTFOGEL, Oriental Despotism. A Comparative Study of Total Power, New Haven,
1957 (tr. it., Il dispotismo orientale, I-II, Firenze, 1968). Per la sua applicazione al contesto uzbeko
post-sovietico Cfr. E. ABDULLAEV, Uzbekistan between Traditionalism and Westernization, in
B. RUMER (ed.), Central Asia at the End of Transition, New York/London, 2005, pp. 267-66.
28
E. AKERMAN, Power & Wealth in Central Asian Politics: Clan Structures versus
Democratisation, The Conflict Studies Research Centre, Royal Military Academy, London, 2002.
209
condizioni di vita presso i vicini per effetto delle “terapie shock” neoliberali
sembravano giustificare il corso politico di Karimov. In parallelo questi ha tratto
un’altra importante risorsa volta al consolidamento del proprio regime dalla
manipolazione storiografica e propagandistica del passato uzbeko. Con
un’intensità a tratti di carattere totalitario, è stata elaborata un ideologia
dell’“indipendenza nazionale” la quale ha ripreso meccanismi della propaganda
sovietica, quali la lotta alle idee “aliene e distruttive” e la glorificazione
dell’autorità presidenziale in un’assimilazione analogica che proietta un’irreale
grandezza passata sul radioso futuro che la guida del leader fornirà al paese al fine
di giustificare tutte le forzature del sistema.
Se il sistema di clientelismo di stato con i suoi meccanismi di propaganda ha
presentato nel corso degli anni Novanta un elevato grado di coerenza, con
l’esaurirsi delle risorse economiche in virtù della forte crescita demografica e del
corso di politica estera improntato all’autarchia e al contrasto con la Russia, le
cose hanno cominciato a deteriorarsi. Le chiusure del sistema hanno cominciato a
costituire un serio freno allo sviluppo delle attività imprenditoriali con la
creazione di contrasti fra i gruppi dediti ai settori rentier dell’economia e quelli
emergenti legati al commercio e alla finanza. La degradazione economica ha dato
un forte impulso alla corruzione. In un contesto di crescente ricorso a misure
coercitive a livello di politica generale, i pubblici ufficiali e le forze dell’ordine
sono stati incoraggiati a comportamenti di tipo predatorio a tutti i livelli.
Soprattutto, il ristagno ha incrinato l’equilibrio fra i principali clan del paese. A
farne le spese è stato quello della valle di Ferghana, il punto più sensibile del
paese dove risiede oltre un terzo della popolazione e si concentrano le principali
attività agricole e industriali. Sempre qui, sono maggiormente marcati i problemi
sociali e demografici che vanno a intrecciarsi con la presa più salda dell’Islam
sulla collettività, una concentrazione di condizioni per lo sviluppo di forme
virulente di protesta che costituisce il maggior motivo di apprensione per le
autorità centrali.
Un’espressione del crescente contrasto fra la valle di Ferghana ed il potere
centrale sono stati i fatti di Andijan 29 , quando sullo sfondo dell’anarchia nel
vicino Kirghizistan, i gruppi economici colpiti dalle manovre del centro non
hanno esitato a manipolare il malcontento popolare per cercare di rafforzare la
propria posizione nei confronti del governo il quale ha risposto con pugno di ferro
alla sfida locale.
I fatti di Andijan hanno indicato come il regime sia sempre più incline ad usare la
violenza quale mezzo di risoluzione delle controversie politiche. Sin dai primi
anni di sovranità, Karimov ha sfruttato a fondo il tema della stabilità politica e
29
Venerdì 13 maggio 2005, in circostanze che restano ancor da chiarire, le forze dell’ordine
uzbeke comandate dal presidente Karimov in persona aprono il fuoco sulla folla radunatisi nella
cittadina di Andijan (valle di Ferghana uzbeka). I resoconti sul numero delle vittime variano dalle
150 alle migliaia.
210
delle minaccia islamista, reale o percepita, incombenti sul paese e di converso
sulla regione tutta. Tali temi sono stati “securitizzati” 30 , ossia sottratti al dibattito
e al campo della politica e volutamente esasperati per giustificare ogni genere di
repressione interna. La sicurezza è assurta a valore assoluto, al quale è stata
sacrificata ogni prospettiva di riforma politica, con un parallelo rafforzamento
delle strutture di sicurezza e una chiusura delle possibilità d’accesso ai vertici
dell’élite. Allo stesso tempo è cresciuta la volontà di controllo totale sulle
organizzazioni sociali e non-governative le quali sono state represse tramite
restrizioni legali, blocchi delle disponibilità finanziarie e varie misure
intimidatorie.
2.5 Turkmenistan
Il Turkmenistan occupa il punto estremo dello spettro politico centroasiatico – in
verità non ampio – avvicinandosi di molto alla definizione di un sistema totalitario.
Va detto che anche prima dell’indipendenza questa era fisicamente e
culturalmente una delle parti più isolate dell’Urss, dove conseguentemente furono
meno avvertiti i rinnovamenti dell’epoca della perestrojka, così che mancava il
materiale sociale attraverso cui tentare una democratizzazione del paese 31 .
Il fattore personale ha giocato un ruolo considerevole nel definire il profilo
politico del Turkmenistan post-sovietico. Per 21 anni, fino alla sua scomparsa nel
dicembre 2006, la vita pubblica è stata dominata dalla figura del presidente
Saparmurat Niyazov. Nominatosi Turkmenbashi (“padre dei turkmeni”), Niyazov
si è differenziato dai suoi colleghi e vicini per una certa onestà intellettuale nei
confronti del discorso della democratizzazione. Pur seguendo le tendenze
regionali volte a creare istituzioni formali sul modello occidentale, l’ex presidente
ha sempre messo in chiaro che l’influenza internazionale sarebbe stata subordinata
alla sua concezione degli interessi nazionali, vantando la necessità di preservare il
carattere “orientale” del paese in quanto maggiormente indicato al carattere ed alle
esigenze della popolazione 32 .
Facendo seguire i fatti alle parole, solo fra tutti gli eredi del sistema sovietico,
Niyazov ha conservato il sistema a partito unico (ribattezzando il Partito
comunista quale Partito democratico), ha organizzato plebisciti referendari per
dapprima estendere e poi promulgare a vita il proprio mandato presidenziale e
introdotto un culto della propria personalità che estremizzava i fasti staliniani.
30
Secondo la terminologia di B. Buzan, che con essa definisce una precisa strategia dei gruppi di
potere volta a definire alcune questioni politiche quali minacce esistenziali per l’ordine pubblico,
da delegare all’ambito esclusivo dell’azione delle forze dell’ordine¸ B. BUZAN, People, States
and Fear, Boulder, 1991.
31
Čto budet v Turkmenistane? (Cosa avverrà in Turkmenistan?), «Carnegie Working Paper»,
Moscow Center, n. 1, 2007.
32
Si veda ad esempio l’intervista concessa dal presidente a «L’Unità» (La democrazia, roba da
Occidente), 2 novembre 1994.
211
Il risultato politico conseguito è una forma estremamente accentrata di potere
patrimoniale personale, definibile quale “sultanistica” in virtù dell’assenza di
strutture d’intermediazione fra il vertice e le masse, in cui l’apparato
amministrativo e militare agiscono quali puri strumenti personali del presidente
sulla base di pulsioni elementari quali il timore della punizione e il desiderio di
ricompensa 33 . Niyazov è riuscito a controllare sapientemente l’equilibrio dei
cinque principali clan del paese e a impedire il consolidamento di poli di potere
alternativi attraverso una rotazione ininterrotta di personalità differenti alle
principali cariche pubbliche.
Sul piano costituzionale, il presidente è contemporaneamente capo dello stato, del
governo e delle forze armate e dispone inoltre di una facoltà illimitata d’emissione
di decreti aventi immediato valore di legge, del diritto esclusivo di nomina dei
magistrati, dei procuratori e di tutte le cariche direzionali regionali. 34 Il potere
legislativo inizialmente rappresentato da un parlamento (Mejlis) di 50 deputati è
stato svuotato di senso tramite l’introduzione di un Consiglio del popolo (Khalq
Maslikhaty) dove si radunano oltre ai normali parlamentari, i rappresentanti dei
distretti e gli hakim nominati dal presidente. Il Consiglio, organo di
rappresentanza suprema ma senza poteri effettivi, presenta similarità con strutture
analoghe del Barhein e della Giordania, ma, data la composizione allargata a 2507
persone e il fatto che sia prevista una sola sessione annua, rappresenta più
un’assemblea tribale che altro 35 .
Niyazov non si è limitato ad estendere il suo controllo a tutti gli ambiti della vita
pubblica e a costruire un culto stalinista della personalità. Nel quadro di una
propaganda massiccia sul suo ruolo nel riportare i turkmeni ad una presunta
perduta grandezza, il presidente aveva, con la pubblicazione del Rukhnama (Libro
dell’anima) nel 2002, tentato di attribuire caratteri sacrali alla propria persona 36 .
L’assiduità con cui questo e un ristretto numero di messaggi decisi dal vertice
bombarda le masse, l’ubiquità della figura del presidente, l’assenza di qualsiasi
contenuto impegnato danno al sistema mediatico turkmeno un carattere surreale,
degno di Orwell.
Va da sé che un tale sistema presenta uno dei peggiori record mondiali in termini
di rispetto dei diritti umani – libertà personali gravemente ristrette, serie
limitazioni alla libertà di movimento sia all’interno che all’estero, negazione dei
diritti delle minoranze etniche e religiose. Prima della scomparsa di Niyazov, la
morte in detenzione della giornalista O. Muradova ha messo in evidenza
33
H.E. CHEHABI - J.J. LINZ, Sultanistic Regimes, Baltimore, 1998. La definizione è di Weber
che in Economia e società (tr. it., Milano, 1957) caratterizzava tali regimi per la loro assenza di
fondamento ideologico e carismatico.
34
Cfr. A. GIROUX, Les Etats d’Asie centrale face à l’indépendance, in «Le courrier des pays de
l’Est», avril 1994, 388, pp. 3-43.
35
Cfr. J. ANDERSON, Authoritarian Political Development in Central Asia: The Case of
Turkmenistan, in «Central Asian Survey», 14, 1995, 4, pp. 509-527.
36
Esiste, ovviamente, anche un sito: http://ruhnama.info.
212
l’isolamento totale del sistema carcerario (con uno dei numeri di detenuti fra i più
elevati al mondo) e l’uso sistematico della tortura per i crimini d’opinione 37 . Il
tutto nell’ambito di uno sforzo sistematico volto a isolare il paese da qualsiasi
influenza proveniente dal resto del mondo – incluse quelle provenienti dalla sfera
religiosa, nella quale il Turkmenistan spicca quale sola repubblica ex sovietica
dove siano stati demoliti luoghi di culto appartenenti a confessioni “aliene”, ossia
tutte quelle al di fuori dell’Islam ufficiale e della Chiesa ortodossa.
La situazione del Turkmenistan induce quindi ad una serie di interessanti
riflessioni a riguardo della tematica della democratizzazione e dell’evoluzione dei
sistemi politici centroasiatici.
Innanzitutto appare evidente come, in presenza di ingenti risorse energetiche, la
comunità internazionale sia incline ad un ampio grado d’indulgenza.
L’autoritarismo dei regimi petroliferi può essere perdonato nel momento in cui
serve ad assicurare uno stabile quadro interno quale precondizione all’entrata del
capitale internazionale.
Ciò pone la questione della coerenza e della reputazione di organizzazioni quale
l’Osce, le quali traggono la propria raison d’être anche dall’essere una comunità
di valori, nei consessi della quale il Turkmenistan ha continuato a sedere senza
che alle critiche verbali seguisse alcun risultato effettivo. Tale contraddizione è
apparsa in maniera stridente nell’inverno del 2002, quando a seguito di un dubbio
attentato contro Niyazov questi scatenò una repressione generale delle rimanenti
sacche di dissenso. Dieci stati partecipanti decisero allora di avviare il cosiddetto
“Meccanismo di Mosca”, prevedente la nomina di una commissione per l’esame
di una situazione attinente a gravi violazioni dei diritti fondamentali. Ma Ashgabat
si limitò a rifiutare di collaborare all’avvio del meccanismo e l’intera questione
cadde nel dimenticatoio con grave danno d’immagine per l’organizzazione di
Vienna 38 .
La situazione turkmena emerge quale particolarmente rilevante dopo la morte
improvvisa di Niyazov, quando viene seguita con attenzione per valutare quali
siano le possibilità di tenuta dei regimi centroasiatici dopo anni di accentramento
dei sistemi attorno alle persone dei presidenti. Nonostante il fatto che tale
elemento con Niyazov avesse raggiunto la massima intensità, ciò che faceva
prevedere scenari di caos e paralisi, il passaggio si è finora svolto in modo
tranquillo, benché la chiusura ermetica del paese agli sguardi esterni impedisca di
valutare esattamente cosa si stia muovendo nei retroscena del potere. L’unica cosa
certa è che il passaggio delle cariche si è svolto in spregio del dettato
costituzionale, che, in caso di scomparsa del presidente, prevedeva che la sua
carica venisse assunta ad interim dal presidente del parlamento. Questi, O. Ataev,
37
INTERNATIONAL CRISIS GROUP, Turkmenistan after Niyazov, «Asia Briefing» n. 60, 12
February 2007, p. 24.
38
E. ATHANASIOU, La dimension humaine de l’OSCE et la lutte contre le terrorisme, in «Droits
fondamentaux», janvier-décembre 2004, 4.
213
è stato al contrario incriminato ed arrestato, mentre lo scettro del potere è passato
a Gurbanguly Berdymukhammedov, un alto funzionario “sopravvissuto” alle
innumerevoli purghe niyazoviane, confermato nella carica da una tipica votazione
plebiscitaria, sullo sfondo di una sostanziale condiscendenza da parte della
comunità internazionale. La rapidità di tale processo fa inoltre sospettare che la
scomparsa del tiranno non sia stata naturale ma che vada piuttosto interpretata
quale effetto di una rivolta di “palazzo”, la quale potrebbe altresì servire da
modello per altre successioni nella regione.
Tutte le ipotesi sul futuro della repubblica restano in ogni caso aperte. Il nuovo
regime si trova di fronte ad enormi problemi, per affrontare i quali sarà
probabilmente costretto ad introdurre mutamenti nel sistema di potere modellato
sulla personalità del defunto presidente .
Va comunque notato che il Turkmenistan è il solo sistema centroasiatico con il
Kazachstan a poter vantare un livello di capacità d’esercizio del potere uniforme
sull’insieme del territorio nazionale, seppure ciò abbia preso la forma di un
sistema poliziesco, tale successo sul piano della creazione delle istituzioni
potrebbe rivelarsi quale il fattore decisivo nel garantire la tenuta del sistema,
nonché un’importante lezione per le altre repubbliche.
3. Problemi nella definizione della sfera politica centroasiatica: sfide interne
Da questa rapida panoramica appare evidente che la vera scelta istituzionale
effettuata dai regimi centroasiatici dopo la fine dell’Urss è stata nel senso di un
sistema di tipo autoritario in cui, pur nel quadro dell’osservanza formale di un
dettato costituzionale, la sede del potere è stata consapevolmente posta al di fuori
degli ambiti normativi.
L’insuccesso degli schemi di democratizzazione applicati all’Asia centrale, così
come le particolarità dello sviluppo politico delle 5 repubbliche, vanno esaminati
comparando le contraddizioni fra i presupposti teorici del paradigma della
transizione e le realtà culturali e politiche della regione. Come già accennato, la
“transitologia” ha comportato un approccio estremamente ideologizzato ai
problemi della regione, in cui ad alcuni fattori veniva assegnata un’importanza
eccessiva mentre altri venivano oltremisura sottostimati 39 . Tra gli elementi
sopravvalutati sicuramente l’impatto “totalitario” del sistema sovietico sulle realtà
locali 40 e la speranza di poter formare una base sociale che si facesse vettore del
cambiamento in alternativa alle piramidi di potere delle presidenze. Tra quelli
sottovalutati, la persistenza di caratteri premoderni nei sistemi di valori locali, la
39
C. POUJOL, How Can We Use the Concept of Transition in Central Asian Post-Soviet History?
An Attempt to Set a New Approach, in Conference Proceedings: The Illusions of Transition:
Which Perspectives for Central Asia and the Caucasus?, cit., pp. 7-19.
40
O. CAPPELLI, Democratizzazione o state-building? Riletture critiche della transizione
postcomunista, cit.
214
specificità e la profondità dell’impresa sovietica di gestione della politica, le
particolarità delle segmentazioni tribali interne. Da quest’insieme di distorsioni
deriva l’inconsistenza degli elementi di democrazia formale introdotti nelle
pratiche di potere post-sovietiche, così come una serie di rischi sulle prospettive
future di tenuta dei sistemi.
3.1
Assenza di ricettori interni, opposizioni e società civile
Fra i principali malintesi derivanti dall’approccio normativo della transizione vi è
stata la pretesa d’individuare delle forze sociali locali pronte a farsi portatrici del
cambiamento in senso democratico, sulla falsariga dell’esperienza in questo senso
nei paesi dell’Europa orientale.
Se le aperture della breve stagione della perestrojka avevano infatti dato origine
anche in Asia centrale a degli abbozzi di “processi endogeni di
democratizzazione” 41 , questi non avevano però in alcun modo rappresentato dei
movimenti popolari di massa paragonabile a quelli sorti nelle sezioni caucasica ed
est-europea della federazione sovietica. Le opposizioni centroasiatiche hanno
preso piede in alcuni settori della vecchia intelligencija sovietica, ossia fra
minoranze urbane educate alla cultura russa e dunque profondamente sradicate
dalla massa della popolazione – a confronto, i quadri dei partiti presidenziali
successori del Pcus, in virtù del loro radicamento nei corpi sociali rurali, hanno
sempre presentato un grado notevolmente più elevato di rappresentatività
popolare. In Uzbekistan era ben visibile come i sedicenti partiti democratici
liquidati da Karimov rappresentassero associazioni socioculturali radicate nei
circoli letterari piuttosto che reali opposizioni politiche operative 42 . La
democrazia appare quindi quale uno slogan tattico utilizzato a fini di lotta politica.
Va infatti notato come sin dai loro esordi, a fianco delle rivendicazioni ecologiche
e della contestazione del ruolo del Pcus, tali opposizioni non avessero esitato a
manipolare slogan di stampo etno-nazionalista la cui evoluzione incontrollata,
sullo sfondo degli scontri interetnici che caratterizzarono la dissoluzione dei
sistemi comunisti, avrebbe potuto causare conseguenze imprevedibili per la
delicata struttura della convivenza interetnica centroasiatica. In ogni caso, i partiti
d’opposizione hanno mantenuto atteggiamenti massimalisti e intransigenti nei
confronti dei regimi, favorendo così la propaganda di questi ultimi volta a bollarli
come pericolosi per la stabilità, fatto di cui si può dubitare dato che tali soggetti si
sono sempre più trovati emarginati, incapaci come sono stati di superare i loro
personalismi e divisioni interne nonché di presentare un discorso pubblico in
grado di trascendere le divisioni interetniche e interregionali tipiche del contesto
centroasiatico.
41
C. POUJOL, Le concept de démocratie est-il applicable à l'Asie centrale post-soviétique?
Réflexions sur la transition démocratique, in «Défense», janvier-février 2001, 91, pp. 32-36.
42
Cfr. S. AKBARZADEH, Nation-Building in Uzbekistan, in «Central Asia Survey», 15, 1996, 1,
pp. 23-32.
215
Alla luce degli scarsi risultati sul piano partitico e mediatico, le speranze per il
processo di democratizzazione si sono concentrate sulla società civile quale sua
principale forza propulsiva 43 . Concretamente si è trattato qui di rappresentanti del
terzo settore. La presenza di Ong è stata richiesta come obbligatoria per tutta una
serie di programmi d’aiuto delle organizzazioni internazionali che hanno creato
così la domanda per un loro sviluppo. Così come nel resto dello spazio postsovietico, si è formata in Asia centrale una classe di operatori di Ong (npošniki), le
quali, con supporto economico occidentale, si sono impegnate esattamente nelle
funzioni lasciate scoperte dal ritiro della cosa pubblica supportato dallo stesso
committente. Ci si può dunque chiedere quanto una tale classe sarebbe capace di
sussistere in assenza della sua fonte ispiratrice. Nella visione di quest’ultima la
società civile è evidentemente riferita all’eredità della dissidenza al regime
sovietico, e dunque in opposizione allo stato “totalitario” e alla sua sfera d’azione
nel campo economico e politico. Ma proprio una tale nozione di corpo sociale
separato dalle sfere della politica e dell’economia è qualcosa di quanto mai
assente dalla cultura della regione 44 .
Secondo alcuni autori la presenza di una società civile relativamente alla regione
potrebbe dedursi distinguendo al suo interno una componente neo-liberale (ossia il
settore indotto dalla cooperazione internazionale) da una comunitaria precipua a
forme di autorganizzazione sociale riscontrabili in certe tradizioni secolari dei
popoli della regione e esplicantisi in forme di mutuo soccorso (quale la corvée per
la costruzione di piccole infrastrutture, denominata ašar presso i kazaki e i
kirghizi) o di presa di decisioni a livello locale 45 . Tuttavia tali tradizioni informali
sono precipuamente non antagoniste nei confronti del potere e dunque
difficilmente classificabili in una concezione classica di società civile. Sotto tale
categoria restano quindi le sole Ong, i cui leader risultano spesso anch’essi
largamente alieni rispetto alle comunità locali dove si trovano a operare e dunque
dubbi quali reali attori di cambiamenti sostanziali. Al contrario, nella loro totale
dipendenza dai sussidi internazionali, piuttosto che agenti positivi di cambiamento
essi sono stati in misura crescente percepiti dalla popolazione quali vettori di un
modello estraneo e negativo, in un clima di risentimento e apatia che ha portato
alla svalutazione dei valori democratici. Tale percezione si è acuita dopo gli
eventi del marzo 2005 in Kirghizistan, dove gli operatori delle Ong sono apparsi
quale una contro-élite manipolata dall’intervento straniero per determinare la
politica nazionale 46 . In definitiva, appare come buona parte dell’azione
43
Ad esempio J. ANDERSON, Kyrgyzstan. Central Asia’s Island of Democracy, Amsterdam,
1999.
44
B.M. PÉTRIC, Post-Soviet Kyrgyzstan or the Birth of a Globalized Protectorate, cit.
45
B. BABAJANIAN et al., Civil Society in Central Asia and the Caucasus, in «Central Asia
Survey», 24, 2005, 3, pp. 209-224.
46
A. MATVEEVA, Central Asia: A Strategic Framework for Peacebuilding, International Alert,
February 2006.
216
internazionale volta a stimolare la crescita della società civile sia frutto di una
ricerca fuorviante, sovente un modo per spendere i fondi stanziati, ignorando, di
nuovo, la complessa alterità della realtà centroasiatica rispetto alle società
occidentali 47 .
Da notare ancora come questi settori d’opposizione, benché repressi, sono stati
contemporaneamente manovrati dai regimi poiché necessari alla loro legittimità
democratica di fronte all’audience internazionale, così che la presenza di surrogati
d’opposizione con un diritto di partecipazione limitata alla vita pubblica e
funzionanti a finanziamento occidentale ha contribuito a creare il sipario dietro a
cui il potere controlla privatamente le risorse dello stato.
3.2 Il conflitto di valori fra paradigma della transizione e cultura locale
Osservando dall’esterno lo scarto esistente fra i valori dichiarati dai regimi e la
realtà autoritaria dell’esercizio del potere, gli attori occidentali in Asia centrale si
stupiscono di come questo possa venire accettato dai cittadini locali. Non è
possibile spiegare il mantenimento di queste pratiche autoritarie prescindendo
dagli orientamenti culturali precipui delle società centroasiatiche. Uno sguardo in
questa direzione fornisce una prova aggiuntiva di come un’esperienza di adozione
della modernizzazione di matrice occidentale non ha speranza di successo se non
considera i sottili meccanismi interni tramite cui ogni società si pensa e si
riproduce così che la trasformazione possa adattarsi al tipo di rapporti sociali
esistente 48 .
Preannunciando l’argomento del paragrafo successivo, va notato come il
considerevole grado di successo conseguito dalla modernizzazione sovietica nella
regione sia consistito proprio nella sua capacità d’adattamento alle particolarità
delle società locali le quali, sotto la sovrastruttura socialista hanno confermato
elementi profondamente tradizionali e in alcuni casi addirittura definibili quali
“pre-moderni.” Dal canto loro, le società centroasiatiche hanno dimostrato di
avere un’attitudine a mantenere tratti specifici e antichi pur adattandosi a nuove
tendenze, «una capacità speciale di mescolare in maniera abbastanza armoniosa
concetti apparentemente antagonistici» in cui sta una delle chiavi principali per
comprendere la storia della regione nel corso del XX secolo 49 .
Così, nel suo profondo l’Asia centrale è rimasta islamica nei suoi valori e nelle
sue rappresentazioni collettive. Scomparsa la sovrastruttura precedente,
settant’anni di ciò che nel suo impatto per la popolazione locale può essere
assimilato a una sorta di “globalizzazione socialista”, questa, più che sforzarsi nei
47
O. ROY, The Predicament of “Civil Society” in Central Asia and the “Greater Middle East”, in
«International Affairs», 81, 2005, 5.
48
A. CAILLÉ, Critique de la raison utilitaire, Paris, 1989.
49
C. POUJOL, How Can We Use the Concept of Transition in Central Asian Post-Soviet History?
An Attempt to Set a New Approach, cit., p. 18.
217
nuovi standard liberali a pretesa universale, è tornata a riscoprire le proprie
pratiche ancestrali. Tanto più che, complice l’esposizione mediatica in negativo
tipica del primo decennio post-sovietico, l’individualismo e le libertà senza freni
della democrazia occidentale sono stati bollati da molti quali distruttivi per i valori
tradizionali e destabilizzanti per la vita sociale. Da ciò è derivata una nuova
attenzione all’etica della giustizia propria alla tradizione musulmana, dove un
valore più accentuato è dato alla stabilità politica piuttosto che alla libertà di per
sé. In tal senso, come altrove nel mondo, la concezione occidentale dei diritti
umani si oppone alla cultura comunitaria di derivazione islamica la quale, e in
questo in armonia con i valori del periodo socialista, pone l’accento sui doveri di
collaborazione e di identificazione del singolo nella comunità piuttosto che su
diritti individuali pensati in contrapposizione alla sfera collettiva 50 .
Ancora più a fondo dei valori islamici, in terre marcate dalla memoria
dell’appartenenza all’impero mongolo di Gengis Khan, si possono trovare echi del
principio patrimoniale della trasmissione dei feudi (ulus), sulla base di lignaggi
associati a un “mandato dal Cielo”. Da qui una certa percezione sacrale di un
potere a cui gli individui si sottomettono per evitare intromissioni “celesti” nella
loro vita 51 , percezione mantenutasi largamente anche nel periodo comunista data
la carica ideale del sistema e quindi riaffiorata – al massimo, come osservato, in
Turkmenistan.
La capacità dei presidenti a mantenersi in carica non si spiega se non si tiene
conto di queste particolarità antropologiche dell’area centroasiatica. Per la massa
della popolazione, la figura presidenziale è apparsa quale garante dei resti del
welfare socialista e degli argini contro una radicalizzazione di tipo islamico o
etno-nazionalista. Tale elemento è ben evidente nell’esperienza del Kirghizistan
sotto Akaev. A tutti era ben evidente come il presidente fosse un inetto la cui
gestione era responsabile del degrado del paese. Non di meno Akaev poté reggersi
al potere per 15 anni poiché, nelle parole di un analista della regione, la sua figura
veniva “totemizzata” da parte della maggioranza della popolazione (ma in primo
luogo dalle minoranze) che la percepiva quale principale garante della stabilità 52 .
Largamente rilevabile è poi una percezione del potere quale esercizio
incontrastato della forza, necessariamente inflessibile a garanzia del
mantenimento della stabilità. Dopo la scomparsa del sistema sovietico,
quest’ultima è un valore primario. I centroasiatici condividono infatti con i russi la
memoria di una storia millenaria intervallata da invasioni e altri cataclismi epocali.
50
D. ZOLO, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Milano, 1998.
N.N. KRADIN, Èlementy tradicionnoj vlasti v postsovetskoj političeskoj culture:
antropologičeskij podxod (Elementi di potere tradizionale nella cultura politica post-sovietica: un
approccio antropologico), Dumaem.ru, 10 mart 2006. Sull’eredità moderna dell’Impero mongolo dello stesso autore
N.N. KRADIN, Imperia Čingis-khana (L’Impero di Gengis-Khan), Moskva, 2006. Sullo stesso tema cfr. C.
LEMERCIER-QUELQUEJAY, La paix mongole, Paris, 1970.
52
O. BONDARENKO, Razmyšlenija o Kirgizskoj revoljucii.“Sistema Akaeva” i eë mogil’ščiki,
janvar’ 2005, http://www.CentrAsia.org/newsA.php4?st=1106994900.
51
218
Da ciò deriva un bisogno diffuso di sicurezza, il quale dopo essere stato a lungo
soddisfatto dall’appartenenza alla potenza dotata del più forte esercito del mondo,
è riemerso impetuosamente con la scomparsa di quest’ultima causando un
profondo trauma per la società nel suo complesso.
Un’altra caratteristica antropologica basilare delle società centroasiatiche,
altrettanto decisiva nell’influenzare il cambiamento politico, è costituito da
patriarcalismo tanto più solido e radicato procedendo da nord verso sud. Esso
deriva dall’influsso della famiglia allargata, la quale crea un profondo rispetto
della gerarchia e dell’anzianità, il quale si riproduce nella segmentazione sociale
su gruppi di solidarietà. Qui i consigli degli anziani (aksakal) sono venuti
assumendo un peso crescente quali istanze consultative e di arbitraggio dei
conflitti.
Da non trascurare inoltre fattori provenienti dalla dialettica fra il nomadismo delle
steppe e il sedentarismo agricolo del sud, da sempre un filo rosso dell’evoluzione
politica dell’area e come tale uno spartiacque culturale che si riconferma a ogni
svolta storica dei destini locali. Non a caso è stato fra due popoli fuoriusciti dalla
tradizione nomadica, kazaki e kirghizi, che i sistemi politici hanno dato prova di
una più ampia apertura. Fra queste genti vige il cosiddetto principio della öldža,
secondo cui, una volta che un gruppo sociale, tribù o clan, conquista l’egemonia
interna alla collettività, nessuno deve contestare la stessa fino a quando il
dominante sarà in grado d’assicurare l’ordine 53 . Tale principio pone l’obbligo al
dominante di mantenere la lealtà dei subordinati. Non va inoltre dimenticato come,
soprattutto nei contesti urbani, l’Unione Sovietica avesse creato con i suoi
consolidati meccanismi di welfare un elevato livello di civiltà, il quale è andato
seriamente degradandosi dopo il 1991 (con la particolare eccezione del
Kazachstan) e il ricordo del quale mantiene non solo elevate aspettative presso la
popolazione nei confronti dei governi ma anche l’avversione per i principi del
liberalismo economico.
Di fronte a quest’insieme di fattori storici, antropologici e culturali, è evidente
come un percorso d’instaurazione della democrazia debba seguire un approccio
pensato per riflettere gli stessi al suo interno e in alcun modo non possa rifarsi
all’imitazione dell’esperienza delle società occidentali.
3.3
La permanenza dei gruppi informali alla base della struttura del potere in
Asia centrale
Non avendo preso in considerazione gli orientamenti culturali delle società locali,
gli schemi della transizione hanno perseguito la democratizzazione dei sistemi
politici centroasiatici concentrandosi sui loro aspetti formali. Esse concepivano in
53
A. BUISSON, La difficile exportation de la démocratie en Asie centrale, inadaptation du projet
ou extranéité du concept?, juin 2006, http://www.institut-gouvernance.org/fr/dossiers/motcledossiers-24.html.
219
termini weberiani l’esistenza di un autorità razionale e impersonale prendendo
misure per il suo rafforzamento. Ma da quanto osservato deriva che
tradizionalmente le relazioni di potere centroasiatiche si fondano su obbligazioni
di tipo personale e informale le quali trascendono le divisioni amministrative
ufficiali 54 . Questi poteri personali si strutturano su gruppi locali di solidarietà
fondati sul fattore etnico-tribale e/o regionale, componendo le loro differenti
pulsioni in sistemi di favoritismo variamente articolati. Queste reti tradizionali
(diversamente definite a seconda del contesto quali clan o tribù) rappresentano
forme d’interazione sociale basate sulla fiducia e lealtà da cui l’individuo attende
protezione e aiuto. Esse hanno origini diverse a seconda se sorte nel contesto
sedentario o in quello nomadico. Nel primo rappresentano confraternite basate sul
controllo risorse chiave, idriche in primo luogo, e l’osservazione delle pratiche
della sharia (il modello essendo la mahalla uzbeka) 55 , mentre nel secondo
costituivano un mezzo di trasmissione del sapere e di adattamento alla rigidità
della vita di transumanza. Nelle aree sedentarie l’appartenenza ai gruppi di
solidarietà deriva dal luogo di residenza mentre nel secondo da tradizionali legami
tribali e di parentela (autentici o percepiti come tali). Dato il radicamento nel
tessuto sociale, la legittimità del potere in Asia centrale è sempre derivata dal
rispetto dell’autorità delle figure chiave di tali segmentazioni.
La permanenza di tali segmentazioni fino ai giorni nostri aiuta a far luce sulla
natura reale del sistema sovietico a queste latitudini nonché sulla sua pretesa
natura totalitaria. A dispetto della sua capacità di penetrazione e dell’estensione
delle sue funzioni, l’impresa sovietica fu lungi dall’ingabbiare società ed
economia nella cappa oppressiva presupposta da una visione totalitarista. Prima e
dopo gli eccessi staliniani, appare al contrario come essa incontrò sempre enormi
difficoltà ad affermare un controllo monolitico e centralizzato sull’immenso paese.
Sin dall’inizio la terminologia ufficiale riconobbe infatti tale difficoltà quale
mestničestvo, “localismo”, indicando con ciò la «frammentazione del potere
decisionale tra contrapposte alleanze di interessi aggregate in piramidi corporative
la cui influenza giungeva fino al cuore del partito-stato» 56 . Il regionalismo, la
strutturazione verticale dello spazio su unità amministrative in competizione per
l’assegnazione di risorse fu un elemento cardine della politica sovietica di
gestione delle periferie asiatiche 57 . Qui, se da un lato l’ideologia ufficiale
imponeva ai gruppi di solidarietà di uscire dalla sfera pubblica ufficiale, le penurie
54
P.G. GEISS, Demokatisierung und gesellschaftliche Reformen in Zentralasien, Bonn, 2002, pp.
17, http://library.fes.de.
55
P.G. GEISS, Mahallah and kinship relations. A study on residential communal commitment
structures in Central Asia of the nineteenth century, in «Central Asian Survey», 20, 2001, 1, pp.
97-106.
56
O. CAPPELLI, Democratizzazione o state-building? Riletture critiche della transizione
postcomunista, cit., p. 32. L’autore osserva come tale realtà fosse evidente già dagli anni Settanta,
cfr. J.F. LOUGH, The Soviet Union and Social Science Theory, Cambridge (Mass.), 1977.
57
P. JONES LUONG, Institutional Change and Political Continuity in Post-Soviet Central Asia:
Power, Perceptions, and Pacts, New York, 2002, pp. 321.
220
dell’economia mobilizzata mantenevano viva la domanda per la loro funzione di
canali d’allocazione delle risorse, favorendo così le condizioni per una loro
riproduzione all’interno delle strutture collettiviste e di partito 58 . Non potendo
eliminarle, il sistema sovietico si servì delle segmentazioni interne preesistenti a
base clanica o regionalista per costruire un complesso sistema d’equilibri fra
centro e periferia in cui, i confini fra stato e società risultarono confusi. In questo
esso diede prova di una capacità unica di riorganizzare le società locali sulla base
di un esperimento sociale del tutto inedito in cui il modello dello stato nazione
europeo, nella comprensione marxista-leninista, venne impresso sulla realtà
multietnica turco-iranica e musulmana locale integrando le sue segmentazioni
interne su nuove basi 59 .
In definitiva, in quanto principale elemento di continuità con il passato presovietico della regione, la segmentazione della società su gruppi di solidarietà e le
relazioni di potere che da esso emanano costituiscono un elemento essenziale e
strutturale dell’ordine politico e sociale dell’Asia centrale. Queste dunque, lontano
dall’essere trattate quali difetto da superare come nell’approccio “transitologico”,
costituiscono un terreno di confronto obbligato per l’azione di modernizzazione
statale avviata dopo l’indipendenza60 . Tanto più che il fattore clanico e tribale si è
ulteriormente rafforzato dopo la scomparsa dell’Urss. Infatti, con il loro impatto
sulla vita della maggioranza della popolazione, le politiche neoliberali condotte
nel corso anni Novanta hanno ridato nuova linfa al senso dei legami clanici sulla
base dei quali, come negli anni Trenta, le persone hanno costruito nuovi sistemi di
scambio informali per far fronte alle carenze della vita quotidiana. In molte zone
della regione l’appartenenza a un determinato gruppo tribale è divenuta un
importante momento per l’ingresso nel mondo politico ed economico. Più in
generale, lungo tutta la fascia sud dell’ex Urss si assiste tuttora a una complessa
dialettica in cui l’azione statale e quella delle strutture claniche inerenti alle
società indigene interagiscono l’una sull’altra 61 .
Osservando tale stato di cose, si può in particolare comprendere le ragioni
dell’inefficacia dei programmi normativi volti ad affermare nella regione il
concetto di stato di diritto (rule of law). Se il sistema sovietico aveva fondato un
sistema giudiziario di corti formalmente simile a quelli europei, il suo
funzionamento era sottomesso ai meccanismi informali del partito e delle sue
segmentazioni interne. Tuttora, l’influenza del fattore clanico determina una
preferenza diffusa per la risoluzione informale delle dispute piuttosto che per il
loro affidamento alla rigidità della legge. Pratiche che allo sguardo occidentale
appaiono in negativo come corruzione si rivelano, se analizzate in una prospettiva
58
O. ROY, La Nouvelle Asie Centrale ou la fabrication des nations, Paris, 1997.
P. JONES LUONG (ed.), The Transformation of Central Asia. States and Societies from Soviet
Rule to Independence, Ithaca, 2004, pp. 332.
60
P.G. GEISS, Demokatisierung und gesellschaftliche Reformen in Zentralasie, cit.
61
E. SCHATZ, Modern Clan Politics. The Power of “Blood” in Kazakhstan and Beyond,
Seattle/London, 2004, p. 250.
59
221
di antropologia sociale priva di pregiudizi, quale una “cultura del dono” endemica
al vissuto locale 62 . In quanto tale si tratta di uno degli elementi fondanti del
sistema poiché sovrintende al meccanismo di distribuzione delle risorse che
assicura la tenuta della catena d’amministrazione. Così le procedure formali e
democratiche mutuate da Occidente possono intervenire nel mutare gli equilibri
interni, ma in nessun caso risultare decisive per la loro definizione, come
pretendevano i fautori della transizione.
3.4
Gli adattamenti dei sistemi politici al contesto post-sovietico
Alla luce delle caratteristiche sopra enucleate possiamo dunque accingerci
all’analisi del funzionamento della vita politica centroasiatica dopo l’indipendenza.
Il primo elemento da prendere in considerazione è l’estrema difficoltà della
situazione che le élite al governo si sono trovate a gestire avendo a disposizione
risorse drasticamente ridotte. In tali condizioni era naturale che i dirigenti
continuassero a fare ricorso alle tecniche sviluppate durante il periodo sovietico
riciclando le strutture organizzative di partito e sostituendo il marxismo-leninismo
con il nazionalismo.
In generale la precarietà delle entità formatesi dal collasso della struttura unitaria
era tale da far ritenere l’autoritarismo quale sola possibile variante. Seguendo
l’esempio russo, le élite post-sovietiche hanno istituito un quadro istituzionale
dove la forza della presidenza si confronta a parlamenti talmente deboli da
permettere al vertice di dominare completamente la vita pubblica.
Va notato inoltre che l’indipendenza insorse a culmine degli sconvolgimenti della
perestrojka, durante i quali l’amministrazione Gorbachev aveva distrutto
l’integrità dello stato per tentare d’imporre nuove regole senza rispettare quelle
già stabilite alla base della sua autorità. I nuovi presidenti erano quindi
espressione di un patto conservatore fra clan, espressione di un equilibrio
d’interessi che non si poteva permettere di rimettere in discussione tramite
elezioni libere 63 . Conformemente, essi hanno operato per adattare l’architettura di
potere delle reti informali e delle regioni alle nuove condizioni. Di conseguenza,
l’efficienza e il grado di rappresentatività di un presidente centroasiatico si fonda
sulla propria capacità d’assicurare tale equilibrio. Il suo compito è quello di
rinegoziare costantemente i patti informali che determinano la partecipazione e il
grado d’influenza dei differenti gruppi dispensando premi e punizioni ai membri
della clientela. Finalmente egli deve essere summa di tutte le tendenze interne e
fungere da arbitro super partes fra di esse, autentica chiave di volta dell’edificio
politico e del suo funzionamento. L’amministrazione presidenziale è dunque il
vero centro decisionale ed esecutivo del paese, il governo essendo piuttosto un
62
B. PETRIC, Pouvoir, réseaux et don en Ouzbékistan. post-soviétique, Paris, 2002.
S.F. STARR, Clans Authoritarians Rulers, and Parliaments in Central Asia, «Silk Road Paper»,
June 2006.
63
222
gabinetto di tecnici incaricati dell’esecuzione delle decisioni presidenziali. Lo
schema si ripete a livello regionale, dove i capi delle amministrazioni rispondono
al solo presidente del loro operato.
Mancando di una linea di demarcazione fra la sfera pubblica e quella economica,
tale sistema può essere definito quale neo-patrimonialista 64 . Attorno alle
amministrazioni presidenziali, in uno schema piramidale, si collocano a differenti
livelli i differenti gruppi clientelari e regionali in funzione del tipo di legami
personali e del grado di vicinanza al vertice. A seconda delle risorse disponibili,
essi corrispondono a conglomerati economici, sovente controllati da prossimi del
presidente, i quali si dividono l’essenziale della ricchezza del paese. In
Kazachstan la gestione delle risorse petrolifere è stata il fattore principale della
ristrutturazione delle reti clientelari in uno sistema di tipo neo-liberale. In
Turkmenistan e Uzbekistan e, seppur sui generis, in Tagikistan, vi è stato un
grado di continuità più forte con il vecchio regime. Qui lo stato ha mantenuto il
proprio carattere autarchico e ha rinvigorito l’apparto centrale di pianificazione
per resistere contemporaneamente alla penetrazione neo-liberista e all’apertura del
sistema politico.
Di fronte a meccanismi di potere talmente strutturati è ovvio che le istituzioni
formate sui modelli importati da Occidente non rappresentano che strutture
formali sovrapposte ai meccanismi endogeni. I partiti ad esempio esistono nella
misura in cui sono connessi con la stratificazione clanica-patrimoniale su cui
poggia la piramide di potere presidenziale. Essi costituiscono raggruppamenti
politici instabili e momentanei e non potrebbe essere altrimenti dato che la
competizione politica più che fra stato e società avviene all’interno dello stato
stesso.
Le elezioni avvengono per ratificare il corso presidenziale ed esprimono
parlamentari che non rappresentato cittadini individuali ma blocchi e comunità
territoriali. Particolarmente “blindate” sono le elezioni presidenziali dalle quali
non è ragionevole attendersi alcun elemento di cambiamento.
Non di meno i regimi continuano a dichiarare la loro dedizione alle “riforme” per
godere della legittimazione e del sostegno materiale che proviene loro
dall’accettazione sul piano internazionale. A tal fine essi devono conservare una
parvenza democratica, ciò che impone loro uno sforzo costante volto alla
produzione di un pluralismo controllato, che lontano dal rispondere alle esigenze
dei cittadini è in primo luogo atto a placare le pressioni riformatrici provenienti
dall’esterno. Tale sforzo si esprime nella creazione di ulteriori istituzioni formali
quali ombudsman e commissioni varie per il rispetto dei diritti umani, adozione di
testi legislativi e altre regole corrispondenti agli “standard internazionali”,
creazione di surrogati d’organizzazioni politiche e sociali indipendenti, periodiche
64
J. ISHIYAMA, Neopatrimonialism and the Prospects for Democratization in the Central Asian
Republics, in S.N. CUMMINGS (ed.), Power and Change in Central Asia, London, 2002, pp. 4256.
223
dichiarazioni di lotta alla corruzione.
3.5 Rischi per la tenuta dei sistemi
I sistemi politici centroasiatici sono dunque strutture complesse e ricche di
contraddizioni. Tale natura nel contesto di competizione geopolitica in cui l’area
s’è venuta a trovare per effetto del ritiro sovietico presenta seri problemi per la
tenuta complessiva di questi fragili edifici i quali nonostante il loro accentramento,
permangono estremamente fragili. Tale elemento è stato largamente tralasciato dai
programmi internazionali d’assistenza che hanno continuato a insistere per
l’implementazione effettiva del pacchetto di riforme, il quale, come ha dimostrato
nei fatti l’esperienza del Kirghizistan, può aggiungere in molti casi ulteriori
elementi di destabilizzazione fino a portare al crollo complessivo dell’edificio.
Vediamo ora quali fattori oggi nella regione agiscono in questo senso.
Un problema riconosciuto unanimemente da tutti gli osservatori è quello della
successione dei presidenti. Dato che attorno alla loro personalità si è di fatto
costruito l’intero edificio del potere è evidente che una loro repentina scomparsa
potrebbe portare a uno scontro generalizzato fra i vari clan su cui il potere
presidenziale è basato – il criterio di rappresentatività reale del sistema essendo
l’uniforme presenza di clan e regioni all’interno delle istituzioni centrali. Con il
passare degli anni e l’esaurimento delle risorse (o al contrario, come in
Kazachstan, a causa dell’aumento della ricchezza e dunque della posta in gioco) la
“lotta per il trono” è in intensificazione in tutte le repubbliche. La preoccupazione
comune alle élite al governo di tutta la regione è dunque quello
d’istituzionalizzare il carisma personale in stabili meccanismi di potere. In
mancanza di formule di legittimità gradite erga omnes per il passaggio di potere
da una persona all’altra 65 , l’unica soluzione sembra essere nel rafforzamento delle
istituzioni dello stato, un dato il cui banco di prova sarà la tenuta della successione
turkmena, ma che tuttavia è ancora troppo poco preso in considerazione dai
programmi internazionali.
Ne consegue dunque che il problema principale della regione è la degradazione
della cosa pubblica. Nonostante la costante ricerca d’espansione della propria
65
Un modello dinastico – sull’esempio dell’Azerbaigian, dove l’ex presidente già membro del
politburo sovietico, Heydar Aliyev, è riuscito prima del suo decesso a mettere sul trono il figlio
Ilham - sarebbe idealmente considerato quale una variante ottimale dagli attuali inquilini dei
palazzi presidenziali, anche in considerazione della legittimità con cui in definitiva è stato
accettato sia da parte dell’“Occidente” che della Russia, nonostante gli eccessi di repressione delle
opposizioni a cui si è accompagnato. Tale variante viene pubblicamente discussa in Kazachstan
ma sembra che scatenerebbe una reazione incontrollata fra i gruppi oligarchici interni. Il modello
di successione Eltsin-Putin sembra più realistico ma incontra limiti oggettivi nell’assoluta chiusura
dei presidenti, nella loro fobia dei cambiamenti e nell’assenza di figure con il dovuto phisique du
rôle. Resta la variante del colpo di palazzo, la quale non è da escludere sia stata applicata in
Tukmenistan lo scorso dicembre.
224
autorità formale, nei fatti il potere effettivo dei governi è andato ovunque
diminuendo. Il degrado della macchina amministrativa è stato un portato diretto
del venir meno dei precedenti criteri di professionalità nella selezione del
personale. I nuovi vertici hanno selezionato troppi quadri sulla base del solo
criterio della fedeltà personale producendo burocrazie che spiccano per la loro
bassa qualità e lo scollamento dalla realtà e dagli interessi della popolazione. Al di
là del fattore personale va però notato che l’accanimento contro il sistema
sovietico si è risolto anche in un attacco a quello che, pur con tutti i suoi limiti, era
stato un tentativo volto a proiettare nella regione elementi mutuati dal concetto di
servizio pubblico dell’Europa continentale. E ciò che preme notare qui è che
proprio le organizzazioni internazionali hanno favorito questo processo spingendo
per lo smantellamento della sfera pubblica e influenzando il contenuto dei
programmi di formazione (spesso fornita direttamente attraverso innumerevoli
programmi di training) non secondo i bisogni dell’amministrazione ma degli
obiettivi del paradigma della transizione 66 .
Tale sviluppo porta a una crescita eccessiva del fattore clanico. Di fronte
all’aumento dell’incertezza generale, i vari gruppi d’interesse cercano di allargare
i propri margini di manovra al fine di proteggere i propri domini di fronte a
possibili varianti inattese. Sono così aumentate le depredazioni della cosa
pubblica ed è cresciuto il peso di gruppi parassitari, fondati sullo sfruttamento
delle rendite da materie prime e formati da membri dell’élite dirigente in
connessione col vertice del mondo degli affari. Questi nuovi intrecci sono
ovviamente interessati a mantenere minime le capacità dello stato e
contribuiscono così a creare un circolo vizioso. Nonostante il peggioramento delle
condizioni di vita, tali blocchi sono dominati dal timore che l’apertura di nuovi
spazi in campo economico apra la via a gruppi di potere alternativi 67 . Essi sono
così tesi a mantenere a tutti i costi lo status quo impedendo così il trasferimento di
risorse alle esigenze di sviluppo dell’economia reale indispensabili per
stabilizzare la situazione generale sul lungo periodo.
Il potenziale pernicioso di tale situazione è aumentato dal fatto che esso crea
circoli viziosi nelle possibilità di modernizzazione dell’apparto di stato e nella
privatizzazione di risorse che sarebbe indispensabile mettere al servizio dei
bisogni comuni. 68
Fermo restando quanto detto a proposito dell’eccessivo accento sulla corruzione
da parte occidentale, resta che la degradazione delle condizioni di vita e dei
66
R. ABAZOV, The Collapse of Public Service and Kyrgyzstan’s Endemic Instability, in «Central
Asia-Caucasus Analyst», 15 November 2006, http://www.cacianalyst.org/view_article.php?
articleid=4560.
67
E. EFEGIL, Avtoritarnye Konstitucionnye patrimonial’nye režimy v gosudarstvax Central'noj
Azii (I regimi autoritari costituzionali patrimoniali dell’Asia centrale), in «Central'naia Azija i
Kavkaz», 2006, 5, pp. 107-115.
68
A. BUISSON, Clanisme et factionalisme en Asie centrale, in IDEM, La difficile exportation de
la démocratie en Asie centrale, inadaptation du projet ou extranéité du concept?, cit.
225
rapporti sociali ha effettivamente raggiunto livelli preoccupanti e omnipervasivi,
aumentando l’inefficienza generale dei sistemi e un approccio nichilistico verso le
possibilità della cosa pubblica. In particolare tale involuzione è evidente
nell’amministrazione della giustizia, la quale serve essenzialmente potere e
ricchezza aumentando di conseguenza la disaffezione della popolazione verso lo
stato. Di nuovo l’influsso neo-liberale ha giocato un suo ruolo in negativo, dato
che i tagli ai benefici goduti dai funzionari pubblici hanno fatto del ricorso a
pratiche di corruzione una questione di sopravvivenza per questi ultimi.
Un fenomeno preoccupante per il futuro della regione è la crescita
dell’importanza del crimine organizzato. Tale crescita si alimenta dell’aumento
del peso dell’economia nera – si calcola che, mediamente, un terzo delle attività
economiche resti al di fuori delle statistiche 69 – nonché dal fatto che la regione è
divenuta un crocevia fondamentale per il narcotraffico proveniente dal vicino
Afghanistan, intensificatosi in particolare dopo l’intervento anglo-americano nel
paese 70 . Il punto che a noi interessa rilevare alla luce dei citati fenomeni
d’occupazione della sfera pubblica da parte delle fazioni, è che si assiste a una
generale sovrapposizione fra il piano politico e quello criminale. In particolare in
Kirghizistan e Tagikistan, interconnesse con le segmentazioni sociali e in un
contesto di degradazione sociale crescente, le narcomafie vedono loro aperte tutte
le strade per accrescere la propria impresa sulla politica nazionale – tramite
l’acquisto di seggi parlamentari in occasione delle elezioni o delle cariche
pubbliche messe in vendita da ministri corrotti – fino a configurare un assalto allo
stato “dall’esterno”, volto a penetrare le istituzioni e il processo di decisione
politica in modo da fissare le regole più adatte ai propri interessi.
Il rafforzamento del crimine organizzato aumenta la probabilità che consistenti
sezioni del territorio nazionale sfuggano definitivamente al controllo delle capitali,
un rischio di feudalizzazione che è già in nuce e si alimenta in parallelo al
processo di occupazione della cosa pubblica da parte delle fazioni regionali. Da
notare come, solo in parte paradossalmente, l’espansione dell’impresa criminale è
avvenuta più in profondità nelle zone dove è più sentito il bisogno di sicurezza da
parte della popolazione, quali la valle di Ferghana e il Tagikistan, sconvolti o
aventi avuto un assaggio della guerra civile. Come osservato, le società
centroasiatiche nutrono un elevato livello d’aspettativa nella capacità dello stato a
provvedere ai loro bisogni. Nel momento in cui le speranze che la cosa pubblica si
manifesti scompaiono definitivamente, sono gli stessi gruppi criminali, i quali
distribuiscono una parte dei loro profitti per provvedere alle necessità essenziali delle
comunità locali, ad apparire quali un’alternativa al fallimento dello stato71 . Tanto
più che a volte, come dimostrano certe esperienze nella parte kirghiza della valle
69
B. RUMER, Overview, in IDEM (ed.), Central Asia at the End of Transition, New
York/London, 2005, pp. 3-66.
70
ASSESSMENT RISK GROUP, Nelegal’nyj rynok Central’noj Azii (Il mercato illegale dell’Asia
centrale), Almaty, 2005, pp. 330.
71
E. MARAT, The State-Crime Nexus in Central Asia, «Silk Road Paper», October 2006.
226
di Ferghana, questi stessi soggetti si spingono fino a fissare nuove regole di
convivenza intercomunitaria.
A questo proposito va notato come l’insistenza da parte dei donatori internazionali
sullo sviluppo della società civile tramite la crescita del numero delle Ong non
abbia contribuito al miglioramento della situazione, rafforzando in certi casi le
pratiche clientelari e le tendenze centrifughe regionali. Ancora una volta
l’esempio del Kirghizistan fa scuola. Qui, il processo di formazione delle Ong
spesso avviene a cascata a partire da grosse strutture centrali fondate nella capitale
da ex politici di rilievo, i quali si fanno garanti dei finanziamenti internazionali.
Lungi dal crearsi nuove forze sociali, emergono così nuove strutture gerarchiche,
parallele a quelle gestite dallo stato. Nel momento in cui tali organizzazioni si
ritrovano a occuparsi di funzioni vitali per le comunità locali quali la gestione
delle risorse idriche nelle aree rurali, i loro dirigenti (ora rispondenti a
Washington piuttosto che a Bishkek) assumono un potere politico superiore a
quello delle autorità elette 72 . Ecco un’altra dimostrazione di come l’azione
internazionale “destatalizzatrice” crei l’humus per nuovi conflitti.
Le cose sono complicate dal fatto che, in un contesto di crescente distacco dei
regimi dalla società, degradazione delle condizioni di vita e in cui i benefici del
processo di sedicente democratizzazione sono avvertiti solo da una ristrettissima
élite, si assiste ad un crescente ricorso all’uso della forza quale strumento di
regolazione delle questioni politiche. Tale tendenza è stata favorita dal clima di
diffuso consenso “antiterrorista” creato dall’intervento statunitense nella regione il
quale ha permesso ai regimi di estendere l’ambito delle questioni “securitizzate”
nel dibattito pubblico così da intensificare la repressione delle dissidenze. 73 Tale
situazione restringe sempre di più gli spazi leciti di contestazione e questo in un
contesto già caratterizzato dal difetto di organizzazioni politiche in grado
d’incanalare e dar voce pubblica al dissenso.
In tali condizioni, data l’impossibilità d’ottenere qualsiasi cambiamento attraverso
le urne, si stanno sviluppando gruppi antagonisti che si rifiutano apertamente di
partecipare a una vita politica ufficiale in cui i giochi sono largamente
predeterminati al di là degli esercizi elettorali di facciata periodicamente
organizzati dall’élite al potere per soddisfare gli interessi occidentali. In questo
scollamento fra le élite interne va cercata la ragione di base del fenomeno delle
“rivoluzioni colorate” osservato negli ultimi mesi in vari punti dello spazio postsovietico, il quale ha parzialmente toccato anche il Kirghizistan. Qui, come anche
nei fatti uzbeki d’Andijan, è stato possibile vedere come il potenziale
centroasiatico di protesta resta escluso dal campo politico, assumendo al limite
caratteri di jaqueries, destinate in avvenire a manifestarsi in forme sempre più
violente, prive d’obiettivi e di qualsiasi slancio ideale.
Tale discorso pone la questione della crescita dei gruppi islamisti nella regione. Di
72
73
B.M. PÉTRIC, Post-Soviet Kyrgyzstan or the Birth of a Globalized Protectorate, cit.
Cfr. nota 29.
227
per sé l’Islam permane una forza marginale sul piano politico. Anche in
Uzbekistan, lo spazio dove storicamente la sharia aveva messo radici, l’Islam
politico continua a essere irrilevante nei centri decisionali. Per il momento, oltre a
non essere in grado di superare le profonde segmentazioni etniche, sociali e
localiste dello spazio centroasiatico 74 , la presenza dei gruppi islamisti è stata
sfruttata dagli apparati del potere per poter compiere disparate operazioni
politiche altrimenti di difficile esecuzione. Coscienti che le loro mosse avrebbero
trovato un’accoglienza compiaciuta a Mosca in particolare e in Occidente in
generale, i dirigenti locali hanno applicato ampiamente e con disinvoltura
l’etichetta di “estremista” (come sinonimo di fondamentalista islamico) a tutte le
figure per essi politicamente scomode 75 , giustificandone l’eliminazione quale
mossa necessaria della loro lotta a salvaguardia del carattere secolare dei loro
regimi.
La crescita islamista va quindi letta quale fenomeno compensatorio. In primo
luogo del dissenso altrove represso o che i gruppi d’opposizione “democratica”
non sono in grado d’esprimere. In secondo luogo di tutti quei contesti sociali che
sono rimasti a margine dei processi avviati dalla nefasta indipendenza delle
repubbliche. Si tratta in particolare delle zone rurali, sempre più in contrasto con
città che da luoghi di irradiazione del socialismo reale sono divenute i ricettori del
capitalismo più sfrenato, il quale è denunciato dagli islamisti assieme agli altri
aspetti deleteri della modernizzazione occidentale adottati in blocco con il
pacchetto della democratizzazione. L’islamismo si diffonde poi nelle regioni
escluse a livello nazionale dalla redistribuzione del potere. Non a caso nel
contesto kirghizo e uzbeko, esso si sviluppa nella valle di Ferghana, per entrambi
la regione più disgiunta dal centro. E non a caso proprio qui dopo il 1991 si è
assistito al più drammatico degradarsi delle condizioni di vita della maggioranza
della popolazione al quale gli islamisti rispondono assicurando una parte di quei
servizi che nel periodo sovietico erano forniti dallo stato.
La crescita dell’islamismo eversivo va altresì letta quale un effetto del
restringimento progressivo dell’apparato educativo, che unito alla riduzione delle
spese di ricerca ha avviato processi negativi le cui conseguenze saranno
gravissime sul lungo periodo e renderanno presto ancora più avvertibili le carenze
di personale qualificato. Anche qui è avvertibile un effetto dei programmi di
democratizzazione i quali da un lato hanno favorito lo studio di scienze umanitarie,
dall’altro premuto per la derussificazione dell’educazione. Tale fatto ha portato a
indebolire quello che era stato il principale strumento d’accesso al diritto e alla
cultura moderni, essendo quella della Russia l’unica esperienza direttamente
accessibile di trasformazione in tal senso, allontanando contemporaneamente le
74
O. ROY, Evolution dans un environnement complexe, in Ex-URSS: les Etats du divorces, «Les
Etudes de la Documentation française», 1993, p. 144.
75
Cfr. B. BROWN, Post-Soviet States: Central Asia, «Radio Free Europe/Radio Liberty Research
Report», 12 March 1994, p. 14.
228
masse dalla cultura di stampo europeo 76 .
4. Il contesto esterno. La “democratizzazione” nel contesto della competizione
geopolitica regionale. L’effetto delle “rivoluzioni colorate”
Le sorti locali della promozione della democrazia vanno anche analizzate alla luce
delle evoluzioni degli equilibri geopolitici centroasiatici prodotti dall’interazione
delle potenze. Come abbiamo trattato all’inizio di questo studio, la
democratizzazione è un elemento dichiarato della politica seguita dagli Stati Uniti
nella regione, sin dal primo momento dell’instaurazione di relazioni diplomatiche
con le neonate repubbliche indipendenti 77 . Appare come Washington abbia
perseguito in tal modo due obiettivi principali. Da un lato impedire l’integrazione
delle repubbliche all’interno di altri poli regionali, in primo luogo la Russia.
Dall’altro creare le condizioni più favorevoli per la “sovranità del capitale”. In tal
senso, l’azione del principale agente democratizzatore si è accontentata di ridurre
il senso della democrazia al suo valore formale e procedurale, escludendo che essa
comportasse elementi di trasformazione economica e sociale. L’esempio del
Kazachstan dimostra come il rafforzamento dell’autoritarismo del regime sia
andato alimentandosi di pari passo con la penetrazione del settore petrolifero del
paese da parte del capitale globale 78 , il quale ha influito negativamente sulle
riforme politiche esprimendo la propria preferenza per un sistema autoritario in
grado di garantire i propri interessi 79 . In tal modo l’essenziale da parte americana
era fornire un quadro legale a sostegno dell’esistenza di questi deboli soggetti
internazionali, ciò che venne fatto nella misura in cui i regimi, indipendentemente
dalla loro capacità empirica di gestire la sovranità, mostravano la loro aderenza
formale a certe regole internazionali, pur sapendo che non vi era alcuna capacità
di implementare il contenuto degli impegni sottoscritti.
Allo stesso tempo, in un ambiguo rapporto con la diplomazia ufficiale, nella
regione si è dispiegata tutta l’industria statunitense della democratizzazione e del
“cambio di regime” (regime change) 80 , composta da Ong, accademici, giuristi e
altri consultants internazionali. Si tratta in primo luogo dell’Open Society Institute
di George Soros, dello Usaid (agenzia di stato statunitense per la cooperazione allo
sviluppo) e di una serie di organizzazioni emananti dal National Endowment for
Democracy, finanziato dal congresso Usa: in particolare la Freedom House, il
76
E. ABDULLAEV, Uzbekistan between Traditionalism and Westernization, cit.
Un’azione esplicitata dall’adozione di strumenti legislativi quali il Freedom Support Act, votato
dal Congresso già nel 1992 per regolare gli aiuti americani a favore dei paesi dell’area Csi.
78
D. CERIMELE, A che serve la democrazia? Stato, mercato e sviluppo nel Kazachstan postsovietico, cit.
79
E. WEINTHAL - P. JONES LUONG, Energy Wealth and Tax Reform in Russia and
Kazakhstan, in «Resources Policy», 27, 2002, 4, pp. 1-9.
80
Il termine industria non è un’iperbole in quanto gli Stati Uniti spendono mediamente 700 milioni
dollari per l’“esportazione della democrazia”, principalmente tramite Usaid. Cfr. N. GUILHOT,
The Democracy Makers. Human Rights and the Politics of Global Order, cit.
77
229
National Democratic Institute (Ndi, struttura satellite dal Partito democratico) e
l’International Republican Institute (Iri, analogo repubblicano del Ndi) 81 . Queste e
altre numerose organizzazioni, assimilabili nei fatti una sorta di komintern della
democratizzazione, hanno proposto, con slanci al limite del missionario, lezioni di
democrazia per differenti attori sociali locali, cercando di formare un’élite
alternativa a quella dei regimi in carica.
La dinamica dell’azione di queste strutture nelle repubbliche centroasiatiche è già
stata accennata. Allo scollamento progressivo della realtà politica locale dal
dettato teorico, le organizzazioni statunitensi hanno risposto mantenendo
fermezza sull’adesione normativa alla democrazia in sé, non quale processo ma
come totalità da adottare incondizionatamente. Questo ha creato le premesse per
una relazione antagonistica e conflittuale.
Tale evoluzione è segnata dal fatto che l’azione geopolitica statunitense nella
regione è fortemente determinata dalla competizione con la Russia, un confronto
che attraversando le repubbliche ha influenzato anch’esso in maniera decisiva la
natura dei sistemi 82 . Mano a mano che Mosca riprendeva a condurre una linea di
politica estera centroasiatica coerente con i propri interessi nazionali, gli Usa
hanno accentuato le loro pressioni sui regimi, con interventi diretti e dichiarazioni
ufficiali sempre più configurabili quali interferenze negli affari interni delle
repubbliche – come testimoniano le reazioni a seguito delle elezioni presidenziali
svoltesi fra 1999 e 2000 in Kazachstan, Uzbekistan e Kirghizistan – le quali hanno
di conseguenza sempre più percepito la presenza dell’apparato di
democratizzazione quale un elemento destabilizzante. Con l’avvio della cosiddetta
guerra al terrorismo, d’altronde, tale presenza si ritrovò sempre più discreditata.
Gli Usa da un lato hanno promosso con la loro azione pratiche in contrasto con la
concezione dei diritti umani 83 , dall’altro si sono ritrovati quale principale alleato
del campione regionale dell’autoritarismo, l’Uzbekistan (facendo inoltre capire di
essere pronti ad accordarsi anche con il Turkmenistan, se questo avesse prestato il
proprio territorio per il trasferimento delle strutture militari espulse da Tashkent
alla fine del 2005), rendendo così chiaro che il loro sostegno alla
democratizzazione sarebbe stato effettivo fintanto che non in contrasto con i loro
interessi e obiettivi geopolitici nella regione.
Il discredito portato dall’azione americana all’idea di democrazia è divenuto
completo con l’avvio della stagione delle “rivoluzioni colorate” post-sovietiche,
organizzato dalle citate organizzazioni transnazionali del regime change e
inaugurato nel girone post-sovietico dall’impresa di Mikhail Saakashvili in
Georgia alla fine del 2003. Di fronte al crollo a livello mondiale dell’immagine
della diplomazia americana e nel tentativo di calmierare le contraddizioni fra la retorica
81
B. RAMAN, The National Endowment for Democracy of US, South Asia Analysis Group, 13
April 2000, http://www.saag.org/papers2/paper115.html.
82
B. RUMER (ed.), Central Asia at the End of Transition, cit.
83
E. ZHOVTIS, 11th September: Consequences for Human Rights in Central Asia, in «Helsinki
Monitor», 13, January 2002.
230
ufficiale e una pratica sempre più compromessa, l’amministrazione Bush ha ritenuto
conveniente sostenere un rilancio alla grande del tema dell’“estensione della
democrazia”. A quel punto, il Kirghizistan, nel quale nel corso del 2005, a ridosso
degli eventi d’Ucraina, sarebbe dovuto passare attraverso una serie di esercizi
elettorali per il rinnovo dell’intero corpo politico, si presentò quale un terreno di
prova per tentare di estendere l’onda delle “rivoluzioni colorate” e riconfermare il
Kirghizistan quale modello della propria influenza in Asia centrale 84 .
L’ulteriore degradarsi della situazione in Kirghizistan quale effetto del cambio di
regime, e il connesso strascico insanguinato in Uzbekistan dei fatti di Andijan,
hanno avuto precisi effetti negativi sui processi politici dei vicini (Russia inclusa).
Ovunque la lezione imparata è stata che la repressione paga e che la cosa più
importante è di non seguire l’esempio di Akaev. Di conseguenza si è assistito a un
profondo discredito dell’idea stessa di democrazia e ad un’ondata di misure
repressive preventive contro le opposizioni e le organizzazioni finanziate dagli
Usa, in un attacco al terzo settore che dato il suo carattere indiscriminato ha avuto
quale risultato collaterale di fragilizzare ulteriormente la situazione interna dei
regimi. Gli effetti delle “rivoluzioni colorate” sono stati ben evidenti in
Uzbekistan, dove fino a prima del colpo di stato georgiano, Karimov aveva ceduto
ad una serie di pressioni occidentali (allentamento della censura, apertura alle
richieste contro l’applicazione della tortura provenienti dall’Onu, aumento del
numero delle Ong, convertibilità della valuta nazionale) per ritornare rapidamente
sui propri passi sin dalla fine del 2003 85 .
Una digressione va fatta per seguire l’atteggiamento europeo verso questi sviluppi.
Pur seguendo un approccio più equilibrato, sostanzialmente i paesi dell’Unione
Europea sono andati al seguito della politica statunitense per la regione. Difficile
sarebbe stato attendersi un comportamento diverso. Infatti a differenza dei paesi
anglosassoni, quelli europei sono sprovvisti di quadri specializzati sull’Asia
centrale nonché di rappresentanze diplomatiche sul terreno, ciò che ha prodotto
un’azione disordinata e incoerente 86 . Se pur con tutte le contraddizioni a cui
hanno dato adito gli Usa hanno seguito una linea conforme ai loro interessi
geopolitici, gli europei hanno così perso di vista il più ampio contesto in cui le
proprie risorse venivano utilizzate.
Nell’ambito dell’azione europea va anche inquadrata quella dell’Osce,
84
Sebbene il collasso del regime di A. Akaev sia dovuto in primo luogo all’incapacità dello stesso
a gestire il paese, gli Usa hanno indubbiamente accelerato il corso degli eventi tramite il supporto
logistico dell’opposizione e pressioni diplomatiche dirette sull’ex presidente. Sulla questione: P.
ESCOBAR, The Tulip Revolution Takes Root, in «Asian Times», 26 March 2005; R. CAGNAT,
Asie centrale: la poudrière, les allumettes et les apprentis sorciers, in «Défense nationale», juin
2005; e anche il mio (sotto pseudonimo, F. VILLIER) Les États-Unis en Asie centrale: Chronique
d’une défaite annoncée, in «Outre-terre – Revue française de géopolitique», 2006, 17.
85
E. ABDULLAEV, Uzbekistan between Traditionalism and Westernization, cit.
86
INTERNATIONAL CRISIS GROUP, Central Asia: What Role for the European Union?, «Asia
Report» n. 113, 10 April 2006.
231
organizzazione che ha occupato un ruolo importante fra gli attori della
democratizzazione in virtù della propria presenza sul terreno in tutte le
repubbliche e dell’accesso diretto ai massimi vertici delle stesse. Se l’Osce ha
fornito un importante piattaforma di dialogo fra Europa e Asia centrale, essa si è
altresì trovata in seria difficoltà nella comprensione della realtà locale, stretta fra il
particolarismo di quest’ultima e l’universalismo della concezione normativa dei
diritti dell’uomo, mancando di una strategia atta al dialogo interculturale e
all’integrazione di norme derivanti da differenti universi interpretativi 87 . Tale
contraddizione è evidente nel contrasto a riguardo della richiesta del Kazachstan
di presiedere l’Organizzazione, le tergiversazioni sulle quali hanno approfondito
le linee di frattura interne alla stessa. Con la crescita della carica “missionaria”
dell’azione internazionale statunitense, l’Osce è stata inoltre percepita quale uno
strumento aggiuntivo dell’agenda geopolitica regionale degli Usa volta a utilizzare
strumentalmente i processi di democratizzazione a fini geopolitici 88 . Sia verso
l’Osce che l’Ue i regimi centroasiatici esprimono una crescente frustrazione
derivante dall’essere sotto scrutinio senza che corrispondenti attenzioni vengano
rivolte alle involuzioni all’interno dell’area atlantica nella sfera dei diritti
fondamentali, involuzioni acceleratisi dopo l’apertura della “guerra al terrorismo.”
Soprattutto alla luce degli sviluppi degli ultimi mesi, quando si riscontra una
crescita dell’interesse europeo per la regione giustificato nei termini esclusivi
della sicurezza energetica, ciò che ha portato in più di un’occasione a
soprassedere sull’importanza dei principi democratici per accordarsi con i regimi
dotati di materie prime, l’Europa ha visto sgretolarsi la propria presunta
superiorità morale. L’atteggiamento paternalista e la politica dei due pesi e due
misure hanno aumentato la disillusione sia fra le élite che fra la massa della
popolazione centroasiatica nei confronti della democratizzazione mettendo allo
stesso tempo i regimi ancora di più sulla difensiva 89 .
Dagli insuccessi dell’azione occidentale è emersa una crescente gravitazione delle
repubbliche verso Russia e Cina, le quali, sullo sfondo delle “rivoluzioni colorate”,
si sono mosse sulla base di una percezione del processo di democratizzazione
quale tentativo diretto a espellere la loro influenza da questi paesi 90 .
Per effetto della pressione occidentale, la Russia è apparsa quale un modello
antropologicamente più vicino sul piano politico, sulla base dei valori comuni
quali la tolleranza religiosa e il multi-culturalismo su cui si fondano storicamente
le formazioni politiche eurasiatiche. Da notare come vi siano anche stati tentativi
di avanzare concezioni specifiche dei diritti umani, sulla base di una declinazione
87
A. KREIKEMEYER, Learning by Doing – The OSCE in Central Asia, «NIASnytt», 2, 2004
http://nias.ku.dk/nytt.
88
P. DUNAY, The OSCE in Crisis, «Chaillot Paper» n. 88, April 2006,
http://www.iss.europa.eu/public/content/chaile.html.
89
A. MATVEEVA, EU stakes in Central Asia, «Chaillot Paper» n. 91, July 2006,
http://www.iss.europa.eu.
90
Come nuovamente riconosciuto dagli stessi autori del paradigma della transizione, cfr. T.
CAROTHERS, The Backlash Against Democracy Promotion, in «Foreign Affairs», 85, 2006, 2.
232
del concetto meno individualista e universalista e associata alla comprensione
precipua di esso all’interno di altre civiltà, tentavi di cui ad esempio si è fatta
interprete la Chiesa ortodossa. 91 La dottrina della “democrazia sovrana” è poi
divenuta un elemento di strutturazione alleanze nel campo ex sovietico in
particolare fra Russia e Kazachstan, specialmente nel contesto delle polemiche
sulla candidatura della repubblica alla presidenza dell’Osce 92 .
Se la Russia resta un riferimento obbligato per le repubbliche locali, è
sorprendente notare come l’aggressività della democratizzazione sia stata tale da
spingere prepotentemente i centroasiatici in direzione della Cina, un processo
esemplificato dal voltafaccia strategico dell’Uzbekistan da “partner strategico” di
Washington ad alleato di punta di Pechino. Nel complesso, la dinamica dei
rapporti sino-centroasiatici testimonia della profonda disillusione nei confronti
della retorica democratica occidentale, una disillusione diffusa a tutti i livelli delle
società centroasiatiche che sembra oggi persino in grado di superare la secolare
diffidenza storica nei confronti del grande vicino orientale. 93 La Cina è divenuta
un alleato nella difesa del principio di non interferenza negli affari interni e con
essa si è formata una concezione comune di “sicurezza ideologica”, basata sulla
convinzione che qualsiasi tentativo d’installare nella regione strutture sociali e
politiche avulse dal suo percorso d’evoluzione storica non potrà che risolversi nel
crollo del fragile equilibrio centroasiatico. L’esperienza kirghiza ha rafforzato
questa persuasione agli occhi dei più.
Allo stesso modo, in parallelo al rifiuto dei modelli destabilizzanti di derivazione
occidentale, è cresciuta l’interazione con altri poli delle relazioni internazionali quali
l’India, l’Iran, la stessa Turchia, portatori di differenti modelli di statualità e convivenza
civica.
Tali sviluppi rivestono oggettivamente un’importanza enorme, pari solo alla
trascuratezza con cui sono stati recepiti e commentati in Europa, il che denota la
profondità dell’incomprensione con cui nel nostro continente si guarda a quanto si
svolge sulla scena regionale. Ciò è particolarmente evidente osservando come la
politica europea abbia seguito per inerzia la linea anti-russa statunitense
tralasciando di considerare come ciò abbia contribuito a recidere arterie vitali con
i processi democratici che hanno continuato a operare in Russia, la quale non può
essere sostituita quale motore di democratizzazione effettiva della regione.
91
Si veda per esempio un’intervista al metropolita Kirill in «Rossijskaja Gazeta», 21 april 2006.
D. SATPAEV, Duèt medvedja i barsa (Il duetto dell’orso e del ghepardo), «Nezavisimaja
Gazeta», 11 decab’r 2006.
93
Una buona analisi di questo sviluppo fondamentale per la geopolitica regionale nello sguardo di
un osservatore indiano: M.K. BHADRAKUMAR, Foul Play in the Great Game, in «Asia Times»,
12 July 2005.
92
233
5.
Conclusioni
Le vicende della democratizzazione in Asia centrale forniscono dunque un quadro
frammentato e contraddittorio. Oltre quindici anni di sforzi in questa direzione hanno
finora prodotto risultati estremamente limitati. Di fronte al quadro di crisi offerto dal
Kirghizistan, piuttosto che una tendenza verso maggiore apertura nella regione si è
registrato una diffusa aspettativa per un forte potere e carismatico, in grado d’imporre
delle regole a società fortemente destrutturate. In Kazachstan è evidente come,
accompagnandosi a distruzioni e saccheggi, i fatti d’Uzbekistan e Kirghizistan abbiano
avuto l’effetto di rafforzare i sentimenti conservatori dei cittadini: molti dei
rappresentanti della nascente classe media che prima desideravano l’attuazione di
riforme politiche in tempi stretti temono ora che un’eventuale forzatura della mano del
regime possa ripercuotersi sul proprio livello di vita.
A livello regionale, l’autoritarismo connesso a queste tendenze è percepito dalla
maggioranza quale precondizione necessaria per la tenuta dell’economia e in ogni caso
quale male minore di fronte alla prospettiva crescente di un’“afghanizzazione” della
sicurezza regionale. Tale prospettiva è in effetti pericolosamente reale. La tendenza
all’utilizzo della violenza da parte dei regimi e dei loro oppositori conserva tutta la sua
attualità. Per quanto ci si possa attendere una certa liberalizzazione, indispensabile dopo
gli eccessi dell’epoca di Niyazov, l’evoluzione del Turkmenistan resta un’incognita
dalla quale sembra ragionevole attendersi l’esercizio di un’influenza regressiva sulle
tendenze regionali. In Kazachstan, nonostante i brillanti risultati dell’economia
degli ultimi anni, l’aumento della ricchezza ha significato anche un’impennata del
livello dello scontro fra élite, il quale può anch’esso produrre risultati
imprevedibili al momento dell’uscita di Nazarbaev dalla scena politica.
Il quadro generale è dunque quello di una crisi sistemica dei sistemi politici regionali,
dove élite dirigenti e opposizioni sono assorbiti nella lotta per il potere e sempre più
distanti dalla gente comune. Sul piano esterno è chiaro che le repubbliche postsovietiche rimangono oggetti più che soggetti della vita internazionale, incapaci nel
complesso a smarcarsi dalle reti d’influenze esterne interessate a controllarne la
posizione strategica.
Vi è quindi indubbiamente un ruolo per un’assistenza internazionale all’evoluzione dei
panorami politici interni. E’ però essenziale ripensare le basi intellettuali di tale ruolo.
Le tendenze regressive aperte dagli eventi del 2005 segnalano l’esistenza di una
deviazione sistematica nel modello di sviluppo finora applicato. Sono necessarie
nuove chiavi di lettura e paradigmi d’interpretazione della realtà regionale in
modo da uscire dalla gabbia interpretativa e dal peso ideologico del paradigma della
transizione. Lo stesso concetto di “democratizzazione” resta un termine incerto
nella sua applicazione alla regione. Il concetto di modernizzazione appare in
questo senso più appropriato e in ogni caso viene meglio percepito a livello locale,
dove costituisce il minimo comune denominatore di consenso fra i regimi e la
massa della popolazione a proposito di ciò che si cerca di raggiungere attraverso
gli sforzi di riforma. Parlare di democrazia, di conformità a standard
234
internazionali, impostare sulla loro presenza o meno l’analisi dei fenomeni è
fuorviante: vi sono come vi erano elementi d’apertura, ma il problema principale è
come utilizzare questi elementi nella (ri)costruzione delle istituzioni che devono
assicurare il funzionamento del sistema e imporre la legalità indispensabile a
proteggere i diritti umani. I tentativi di riforma concentrati sugli aspetti formali
delle istituzioni sono destinati a fallire poiché da un lato, si rifiutano di prendere
in considerazione i potenti aspetti informali della vita politica locale mentre
dall’altro vengono realizzati da strutture che al momento vengono percepite come
estranee da parte delle comunità dove la loro azione si esplica 94 .
La prima priorità è dunque quella di concentrare gli sforzi sulla ricostituzione di
un servizio pubblico efficiente in grado di far fronte all’instabilità cronica delle
regioni periferiche agendo concretamente per il rispetto dei diritti fondamentali. A
tal fine, l’attenzione va portata, piuttosto che sulla delegazione del potere e
l’espansione del terzo settore, sul rafforzamento della catena di comando e
l’interazione fra centro e periferia, principio su cui si è costruita nel periodo
sovietico l’amministrazione pubblica, la quale oggi va riportata sotto controllo
effettivo. Affermare l’effetto stabilizzante del centro è indispensabile per evitare
le derive anarchiche di cui si possono osservare i risultati in Tagikistan e
Kirghizistan. Importante è anche rivedere i principi di formazione dei funzionari
statali, la quale oggi è frammentata in differenti programmi internazionali e va
riportata sotto l’alveo di istituti pubblici nazionali, coadiuvati eventualmente da
consigli in cui le istanze internazionali siano rappresentate.
In secondo luogo, è necessario riprendere il cammino dell’assistenza nella
coscienza che questo potrà seguire innumerevoli vie, senza percorsi “necessari” e
lineari. I requisiti dei sistemi istituzionali locali non possono essere definiti in
base a valori assoluti ma devono essere valutati sulla base delle esperienze
concrete, dell’assenza storica di pratiche democratiche e del fatto che l’applicazione
delle leggi è qui sottomessa a regole informali, in un contesto dove i concetti stessi della
democratizzazione sono lungi dall’essere percepiti quali legittimi.
E’ quindi necessario rompere con l’universalismo e il determinismo astratto della
razionalità utilitarista che ha sovrinteso finora agli sforzi dell’assistenza
internazionale. L’esperienza dimostra che strategie di successo sono solo quelle
capaci di fondersi con le strutture informali preesistenti in un modo
complementare e consensuale integrando differenti approcci, antropologici e
sociologici. Nelle parole di Jaques Sapir, «il successo di qualsiasi strategia di
modernizzazione passa attraverso l’attitudine a riutilizzare le forme tradizionali e
non attraverso la proiezione e l’applicazione, diretta e integrale, dell’insieme delle
forme reputate moderne, direttamente prese in prestito da società considerate
come più avanzate» 95 .
94
M. BAIMYRZAEVA, Institutional Reforms in Kyrgyzstan, cit.
J. SAPIR, La guerre civile et l’économie de guerre, origines du système soviétique, in «Cahiers
du monde russe et soviétique», 1997, p. 11.
95
235
Una premessa indispensabile è quella di re-inventare le forme tradizionali, di
pensare la gestione della diversità locale senza negare la portata universale di certi
avanzamenti economici e giuridici. Le strategie di sviluppo devono basarsi su
ricerche sulle strutture effettive di legittimità proprie al contesto centroasiatico in
modo da elaborare un’equazione dell’esercizio del potere che prenda in
considerazione i meccanismi tradizionali di selezione delle élite. Tutto ciò
richiede non solo l’effettuarsi dell’emancipazione degli individui ma una sapiente
opera d’adattamento ai meccanismi tradizionali inerenti alle società eurasiatiche.
Come dimostra l’esperienza del Giappone, un nuovo ed efficace ordine normativo
può solo emergere dall’interpenetrazione fra gli orientamenti culturali comunitari
e le innovazioni politico-economiche della modernità. Una via da percorrere è
sicuramente quella che cerca di rendere espliciti i legami informali sottesi alle
architetture tribali e ai gruppi di solidarietà. Se effettivamente la presenza di tali
segmentazioni pone una sfida all’ordine delle società centroasiatiche, le istituzioni
devono affrontare la stessa ingaggiandosi nella gestione di queste divisioni, dando
forma al loro significato e al ruolo che possono giocare nella vita pubblica
contemporanea, attraverso la creazione di soluzioni istituzionali in grado di
riflettere e gestire il pluralismo culturale. Uno sforzo rivolto in questo senso può
risultare più effettivo nel preservare la stabilità sociale nonché nell’aumentare la
rappresentatività delle forme di governo, piuttosto che un approccio volto a negare
questi fenomeni secondo paradigmi che prevedono l’inevitabile assimilazione
delle particolarità nell’alveo della cultura ufficiale promossa dallo stato 96 .
Analoghe considerazioni dovrebbero sovrintendere a una “gestione” dell’Islam, il
quale, in qualità di fattore strutturante le reti di solidarietà, dà forma alle
aspettative individuali a riguardo della legittimità dell’ordine politico. Anche qui,
un’evoluzione effettiva e stabilizzante dei sistemi politici locali richiede quindi
un’integrazione selettiva di elementi della cultura giuridica islamica nei diritti
nazionali – questo è vero principalmente in Tagikstan e Uzbekistan, dove la
sharia era stata integrata dalle formazioni statali precedenti l’arrivo dei russi nella
regione.
In definitiva è necessario pensare un quadro istituzionale che si misuri
direttamente con le peculiarità della regione, che se ne avvalga selettivamente al
posto di stigmatizzarle, riflettendole nella sfera pubblica in modo da introdurre
un’effettiva trasparenza. Un tale approccio può disinnescare in modo molto più
effettivo il potenziale esplosivo delle segmentazioni interne alle società
centroasiatiche, che rimane nella misura in cui esse sono negate e relegate nel
sottosuolo.
E’ necessario infine introdurre cambiamenti nel modello di sviluppo economico,
dato che non è verosimile attendersi reali cambiamenti delle istituzioni senza una
corrispondente attivazione delle dinamiche sociali a supporto degli stessi.
In tale complesso percorso, l’Europa potrebbe avere un ruolo decisivo da giocare.
96
E. SCHATZ, Modern Clan Politics. The Power of “Blood” in Kazakhstan and Beyond, cit..
236
Nella competizione geopolitica in atto, essa potrebbe affermarsi quale forza
moderante e per l’affermazione di valori quale la cooperazione e il
multilateralismo, in cui l’apertura reale e il pluralismo restano quale una visione
di lungo periodo. Tuttavia, dal punto di vista europeo, tale evoluzione richiede:
− una valutazione più adeguata del significato strategico dell’area centroasiatica
sulla scena internazionale, evitando cioè di considerare la regione dal solo punto
di vista delle sue materie prime;
− un’uscita dalla visione securitaria che ha portato a distogliere risorse reali
verso i programmi militari a partire dall’11 settembre;
− la consapevolezza che sarà possibile giocare un ruolo effettivo e costruttivo in
una regione di talmente difficile accesso solo in cooperazione con la Russia.
237
L’ISLAM IN ASIA CENTRALE TRA RECUPERO DELLA TRADIZIONE
E MOVIMENTI RADICALI: IL CASO UZBEKO
Paolo Sartori
Introduzione
Fondamentalismo e radicalismo islamico sono comunemente considerati due dei
maggiori ostacoli posti sulla strada verso la democratizzazione delle repubbliche
ex sovietiche dell’Asia centrale e comprensibilmente suscitano particolare
interesse in chi si interroga sul futuro di questi paesi. L’attenzione accordata dagli
analisti alle espressioni radicali riferibili alla cultura islamica di questa regione
non è, però, un fenomeno post-sovietico. Già negli anni Ottanta, di fronte agli
insuccessi dell’Armata rossa in Afghanistan, alcuni avvertivano che un’ondata
islamista avrebbe travolto il socialismo sovietico partendo proprio dall’Asia
centrale. Contrariamente a tale previsione, ai popoli che abitavano la regione è
bastato un referendum per conquistare – almeno formalmente – l’indipendenza da
Mosca senza scomodare i locali imam; infatti, con la sola eccezione del
Tagikistan dove un partito islamico è parte integrante della compagine di governo,
in Asia centrale l’Islam fondamentalista e radicale non è riuscito a mobilitare le
masse verso un percorso politico alternativo a quello praticato dagli attuali regimi.
Ciononostante il timore dell’islamismo radicale centroasiatico resta; se non altro
perché, 11 settembre a parte, imperversa la guerra al terrorismo nel vicino
Afghanistan e perché le notizie ufficiali che giungono dalla regione ci avvertono
della presenza di gruppi islamisti, più o meno legati ad al-Qaeda. L’ultima
eclatante manifestazione di tale sinistra presenza risale a non molto tempo fa. Il 13
maggio 2005 in Uzbekistan, ad Andijan, le forze armate spararono su una
manifestazione anti-governativa uccidendo un numero di civili ad oggi
imprecisato e impossibile da verificare. La protesta era avvenuta in seguito a un
assalto del carcere cittadino da parte di un commando armato che aveva liberato
alcune centinaia di prigionieri. Tra questi figuravano ventitré imprenditori locali
che attendevano di essere giudicati per fondamentalismo e separatismo sulla base
di legami con l’Akromiya, considerata dalle autorità uzbeke un’organizzazione di
matrice islamista.
Non tutti, però, concordano con tale versione dei fatti. Chi critica la posizione
governativa sostiene che l’Akromiya sia solo una rete composta da individui
reciprocamente solidali che, probabilmente grazie ai proventi dell’elemosina
238
rituale, assiste l’imprenditoria locale 1 – fatto non eccezionale in Asia centrale – e
che l’accusa di fondamentalismo mascheri invece una lotta tra il potere centrale e
alcuni gruppi locali per il controllo delle risorse finanziarie e delle attività
commerciali 2 . Come dunque definire l’Akromiya, un’organizzazione radicale o
un gruppo filantropico? Sulla base di fonti ufficiali si è ripetutamente detto che
essa è un’organizzazione nata da una costola del ben più noto Hizb ut-Tahrir alIslami (Il partito della liberazione islamica) 3 , che predica l’eversione del regime
uzbeko e la costituzione di un califfato. A leggere Iymonga yo’l 4 (La via alla fede),
considerato il pamphlet dell’organizzazione, possiamo con sufficiente certezza
affermare che tali idee brillano per la loro assenza: evidentemente l’opera di un
autodidatta nelle scienze islamiche tradizionali, il testo si limita a esortare i
musulmani a riscoprire il Corano e le tradizioni profetiche proponendo il primato
della fede sull’etica islamica 5 ; elementi che non possono che suggerire un
ragionevole dubbio sull’orientamento radicale del gruppo che si ispira a tale testo6 .
A nostro parere i dubbi sorti sulla natura dell’Akromiya rappresentano
eloquentemente lo stato della ricerca sul fondamentalismo e sul radicalismo
islamico d’Asia centrale: ad oggi bisogna ammettere che più che le caratteristiche
di tali fenomeni, si conoscono le iniziative assunte dai governi centroasiatici per
“contenere” qualsivoglia istanza politica di natura islamica. In condizioni di
diffusa repressione l’accesso alle fonti, sia scritte che orali, resta di primaria
importanza; se non altro per verificare l’attendibilità delle argomentazioni usate
dalle autorità governative in Asia centrale per rappresentare la minaccia islamista.
1
OSCE, Preliminary Findings on the Events in Andijan, Uzbekistan, 13 May 2005, Warsaw, 20
June 2005, p. 9, http://www.osce.org/item/15234.html.
2
Sul tema, da ultimo, s.v. M. FUMAGALLI, State Violence and Popular Resistance in
Uzbekistan, in «ISIM Review», (2006), 18, pp. 28-29.
3
Partito politico e movimento transnazionale fondato a Gerusalemme nel 1953 che si prefigge
attraverso il proselitismo l’organizzazione di una società islamica organizzata secondo le regole
della sharia, condizione necessaria per la costituzione di un califfato islamico, cfr.
http://www.hizb-ut-tahrir.org/index.php/EN/def. Per un ragguaglio sull’attività di tale partito in
Asia centrale s.v. M. FUMAGALLI, Un califfato in Ferghana? L’islamismo centroasiatico
continua a sognare, in «Limes», 2002, 3, pp. 133-142.
4
I termini uzbeki si riproducono secondo una trascrizione semplificata dell’odierno alfabeto.
Quindi si avrà il grafema “kh” in luogo di “x”.
5
Cfr., per chi non leggesse l’uzbeko, la traduzione inglese di Iymonga yo’l offerta da A.J. FRANK
- J. MAMATOV (eds.), Uzbek Islamic Debates. Texts, Translations, and Commentaries,
Springfield, 2006, in specie le pp. 372-374. È bene ricordare che in passato anche figure autorevoli
dell’erudizione islamica d’Uzbekistan avevano apertamente criticato l’Akromiya; allora, però, le
argomentazioni in sfavore di tale gruppo non venivano dalla sua pretesa natura radicale, bensì dal
fatto che un gruppo o un partito potesse costituire un motivo di scissione, cioè di “eresia”,
all’interno della comunità dei fedeli musulmani. Le critiche venivano soprattutto dall’imam della
moschea To’khtaboy di Tashkent, Obidkhon-Qori, cfr. Ibidem, pp. 146-150; sulle accuse di
“eresia” mosse da Shaykh Muhammad-Soqid Muhammad-Yusuf ad Akram Yo’ldoshev si veda I.
ROTAR,
What
is
known
about
Akramia
and
the
uprising?,
http://www.forum18.org/Archive.php?article_id=586.
6
Sulla questione s.v. A. KHALID, Islam after Communism. Religion and Politics in Central Asia
Today, Berkeley, 2007, p. 194.
239
A tal proposito dobbiamo purtroppo constatare che la letteratura prodotta da
individui e da gruppi che in modo e a titolo diverso sono stati considerati
rappresentativi dell’islamismo radicale centroasiatico resta accessibile quasi
esclusivamente agli studiosi locali 7 ; quand’anche questa fosse reperibile,
accertarne la diffusione e la percezione tra le diverse comunità musulmane
dell’Asia centrale è per ora al di fuori delle possibilità di chi indaga su questo
campo 8 . Non deve dunque stupire se in generale si ha una conoscenza assai
approssimativa del pensiero dei più autorevoli rappresentanti dell’islamismo
radicale regionale e se non si riesce a quantificare la consistenza di tale
fenomeno 9 .
Tali considerazioni hanno necessariamente influenzato l’elaborazione di questo
contributo conducendola verso una discussione attorno a ciò che in Asia centrale,
e nello specifico in Uzbekistan, occupa effettivamente lo spazio compreso tra la
“tradizione” e il “radicalismo islamico”, estremi solo apparentemente opposti
della medesima cultura. In questo modo la nostra attenzione si è rivolta verso ciò
che è autorevole e, di conseguenza, rilevante per i musulmani d’Uzbekistan,
ovvero verso ciò che possiede la capacità di influire direttamente sul modo di
concepire e di rappresentare l’Islam da parte della comunità dei fedeli musulmani.
Per tale ragione presenteremo le principali e più autorevoli correnti di pensiero
che riteniamo particolarmente caratterizzanti la storia della cultura islamica
centroasiatica nonché utili per orientarci nell’interpretazione dell’attualità. Da qui
proseguiremo esaminando le fasi diverse delle trasformazioni istituzionali
islamiche avvenute in epoca sovietica prestando particolare attenzione alle diverse
voci dell’autorità religiosa islamica. Indi prenderemo in esame la fase di reislamizzazione e la comparsa di un ambiente fondamentalista chiamato
mujaddidiyya; concluderemo con alcune osservazioni sulla predicazione odierna
nelle moschee di Tashkent e sull’attività giurisprudenziale online di un autorevole
esponente dell’Islam uzbeko.
1. Alcuni elementi caratteristici dell’Islam in Asia centrale
Ancora oggi in Italia, come altrove in Occidente, l’Asia centrale resta una terra
dai tratti distintivi ancora piuttosto incerti, spesso confusa tra regioni limitrofe più
facilmente identificabili. Rispetto alla storia di queste ultime l’Asia centrale viene
7
A titolo esemplificativo s.v. B. BABAJANOV - M. BRILL OLCOTT, The Terrorist Notebooks,
in «Foreign Policy», March/April 2003, 135, pp. 31-40; N. ALNIAZOV, La communauté
musulmane du Kazakhstan, acteurs officiels et groups officieux, in M. LARUELLE - S.
PEYROUSE (sous la direction de), Islam et politique en ex-URSS (Russie d’Europe et Asie
centrale), Paris, 2005, pp. 297-308.
8
Cfr., da ultimo, E. KARAGIANNIS, Political Islam in Uzbekistan: Hizb ut-Tahrir al-Islami, in
«Europe-Asia Studies”, 58, 2006, 2, pp. 261-280.
9
Si consideri la lezione tenuta recentemente da Igor Rotar alla Jamestown Foundation sul tema
The Future of Islamic Radicalism and Religious Freedom in Central Asia,
http://www.jamestown.org/events_details.php?event_id=23.
240
comunemente considerata meno civilizzata – ad esempio se confrontata con le
culture sedentarie dell’antichità persiana e cinese – o meno conforme a una
determinata fede – sia questa all’occorrenza il socialismo sovietico, la
democratizzazione post-sovietica o l’Islam medio-orientale 10 .
A dispetto del luogo comune ereditato dalle rappresentazioni coloniali che vuole i
territori caratterizzati dal nomadismo pastorale islamizzati più recentemente e più
tiepidamente di altri, l’Asia centrale, pur nella sua eterogeneità geografica e nella
stretta interdipendenza di culture sedentarie e nomadi, viene considerata (almeno
dai musulmani) uno dei centri storici di elaborazione in materia di giurisprudenza
islamica (fiqh) 11 , di irradiazione del pensiero sufi (tasavvuf) e di produzione
libresca 12 . Anzi, proprio la memoria della conversione all’Islam gioca ancora oggi,
come nel passato 13 , un ruolo di primissimo piano nelle strategie di legittimazione
che alcune comunità musulmane centroasiatiche adottano per rinegoziare la
propria identità allorquando devono fare fronte a trasformazioni politiche e
istituzionali che potrebbero portare a un loro depotenziamento 14 .
Un impulso decisivo alla diffusione della religione islamica in Asia centrale non
fu dato dalle conversioni forzate dai conquistatori arabi, bensì dalla corrente di
pensiero chiamata murji‘a. Durante l’epoca formativa dell’Islam tale termine
venne impiegato per designare una categoria di musulmani contraddistinti da una
posizione neutrale nei confronti della lotta per il potere. Più tardi il suo utilizzo fu
associato ad una serie di scuole dogmatiche che identificavano la fede (imān)
10
Devo questa riflessione a S.A. DUDOIGNON, Central Eurasian Studies in the European
Union: A Short Insight, in S.A. DUDOIGNON – H. KOMATSU (eds.), Research Trends in
Modern Central Eurasian Studies (18th-20th Centuries). A Selective and Critical Bibliography of
Works Published Between 1985 and 2000, Part 1, Tokyo, 2003, p. 158. Sovente, infatti, meraviglia
l’interlocutore non appassionato di cose orientali scoprire che Samarcanda o Bukhara si trovano in
Uzbekistan; come se tali sofisticati esempi della civiltà islamica non potessero trovare una
collocazione naturale in una regione frontaliera situata ai margini delle – e in parte inglobante le –
steppe dell’Eurasia abitate un tempo dai pastori nomadi.
11
Non meravigli dunque ritrovare opere manoscritte dedicate alla prosopografia dei dottori della
legge islamica di Bukhara del XIII sec. redatte tra i secoli XIV e XIX tra Egitto e Siria, cfr. A.
MUMINOV, Le rôle et la place des juristes hanafites dans la vie urbane de Boukhara et de
Samarcande entre le XIe et le début du XIIIe siècle, in «Cahiers d’Asie centrale», 9, 2001, p. 131.
12
Attività questa, non disgiunta da quella dei giuristi e dei sufi. I conventi (khānqāh) di dervisci,
ad esempio, furono tra i luoghi più importanti per la riproduzione del patrimonio manoscritto, cfr.
L. DODKHUDOEVA, La bibliothèque de Khwâja Muhammad Pârsâ, in «Cahiers d’Asie
centrale», 5-6, 1998, pp. 125-132.
13
D. DEWEESE, Islamization and Native Religion in the Golden Horde. Baba Tükles and
Conversion to Islam in Historical and Epic Tradition, University Park, 1994, pp. 516-532; A.J.
FRANK, Muslim Religious Institutions in Imperial Russia. The Islamic World of Novouzensk
District & the Kazakh Ineer Horde, 1780-1910, Leiden, 2001, pp. 274-278.
14
Si consideri, ad esempio, il caso dei “Qoja” del Kazachstan – discendenti diretti di ‘Ali e quindi
degli arabi dei Quraysh –, B.G. PRIVATSKY, ‘Turkistan Belongs to the Qojas’: Local Knowledge
of a Muslim Turkistan, in S.A. DUDOIGNON (ed.), Devout Societies vs. Impious States?
Transmitting Islamic Learning in Russian, Central Asia and China, through the Twentieth
Century, Berlin, 2004, pp. 161-212; S. ABASHIN, The Logic of Islamic Practice: A Religious
Conflict in Central Asia, in «Central Asian Survey», 25, 2006, 3, pp. 267-286.
241
soltanto con una professione verbale (ikrār; tasdīq bi’l-qawl) indipendentemente
dalle azioni (‘amal) dell’individuo. Alla fine del secolo VII i murji‘iti ricoprirono
un ruolo politico di grande rilievo nel Khurasan e nella Transoxiana, in particolare
nella lotta delle popolazioni non arabe locali convertite all’Islam (mawāli) per
essere esenti dalla tassa (jizya) imposta ai non musulmani dall’élite araba che
rappresentava il potere del califfato umayyade. In ambito dottrinale l’istanza delle
popolazioni indigene faceva leva sulla tesi murji‘ita che, come si è detto,
considerava la professione di fede di per sé sufficiente perché un individuo fosse
considerato un musulmano a tutti gli effetti. Per ovvie ragioni, ciò aveva
un’immediata ricaduta nella sfera del giuridico, visto che l’indigeno convertitosi
all’Islam sarebbe stato sollevato dall’onere del pagamento dell’imposta. Benché le
comunità arabe utilizzassero qualsiasi pretesto per ostacolare la popolazione
locale nel processo di conversione all’Islam, l’islamizzazione dell’Asia centrale
ebbe successo appunto perché strettamente legata alla murji‘a: la tesi della
divisione tra fede e pratica rese possibile alla popolazione locale di accogliere
l’Islam senza eccessive complicazioni, di conquistare pari diritti all’interno delle
comunità di nuova formazione e, infine, di mantenere il proprio status pur non
dominando del tutto la lingua araba 15 . Non è questo un elemento di poco conto se
consideriamo che all’inizio del Novecento, quando si disputava sulla possibilità
che il sermone del venerdì (khutba) venisse pronunciato in turco in luogo
dell’arabo considerate le difficoltà di comprensione manifestate dalla comunità
dei fedeli 16 , un’associazione di giuristi musulmani di Tashkent indicò quale
modello di tolleranza il generale arabo Qutayba ibn Muslim (m. 715) il quale,
divenuto governatore per i califfi umayyadi del Khurasan, aveva fondato moschee
aperte alla preghiera in persiano 17 .
Caduta l’Urss, si è riscoperto che l’opera di proselitismo (da‘wa) favorita dai
murji’iti ebbe un ruolo significativo per favorire la diffusione dell’Islam nella
regione. Sembra testimoniare tale riscoperta il fatto che negli anni Novanta a
Tashkent gli imam mettevano in guardia i fedeli dall’eventualità che i fanciulli
studiassero «sui libri di storia [scritti] da bugiardi, dai russi e dai miscredenti
(yolghonchi, uruscha, kofircha tarikhlar), che sostengono che l’Islam fu diffuso in
Asia centrale dagli arabi con la forza» 18 .
La storia dell’Islam d’Asia centrale fu profondamente influenzato dalla scuola
giuridica (madhhab) hanafita. Tale dottrina nacque in Iraq, a Kufa, verso la metà
dell’VIII sec., cioè in un’epoca travagliata da polemiche, spesso violente, nei
confronti delle Tradizioni (sunna) del Profeta. Rispetto alle altre scuole giuridiche,
15
Islam na territorii byvšej Rossiskoj imperii. Ênciklopedičeskij slovar’, vypusk 4, Moskva, 2003,
s.v. «al-Murdji’a» [S. KUTLU].
16
Turkī khutba ūqūmak khusūsinda, in «al-Islāh», 1916, 10, p. 305; NAMANGĀNLĪ KHWĀJA
JAHĀNGĪR MUFTĪ, Turkī khutba khusūsinda, in «al-Islāh», 1916, 13, pp. 420-423.
17
HAY’AT-I TAHRĪRĪYYA, Maslak wa maqsad, in «Izhār al-Haqq», 1918, 8, pp. 7-8.
18
OBIDKHON-QORI, Musulmon-arablar bosqinchmi?, http://muslimuzbekistan.net/uz/special/
audio/detail.php?ID=3344.
242
il madhhab hanafita lascia una maggiore autonomia nella risoluzione di questioni
giuridiche, che non sono documentate nei testi sacri. Il principio (asl)
caratteristico dell’esercizio giurisprudenziale nel milieu hanafita è sempre stato il
ragionamento analogico (qiyās), che favorisce al dottore della legge islamica il
pronunciamento su casi non evidentemente contemplati dal Corano o dalla sunna
o per il quale non vi sia un manifesto consenso (ijmā‘) dei giurisperiti. L’opera dei
giuristi hanafiti d’Asia centrale sta alla base della nota tolleranza verso le pratiche
devozionali o costumi religiosi (‘urf wa ‘ādat) pre-islamici, assimilati durante la
conversione delle popolazioni locali all’Islam.
Lo sforzo di razionalità della scuola hanafita si fonda su uno studio rigoroso delle
Tradizioni del Profeta. Essa nasce da un’attenzione del tutto particolare per la
raccolta e la sistematizzazione dei detti e dei fatti (hadith) del Profeta, che va
riconosciuta agli eruditi musulmani locali, e si accompagna allo sviluppo di grandi
centri di riproduzione del sapere islamico (madrasa) nelle regioni centromeridionali dell’Asia centrale. Sviluppo che – è bene ricordare – inizia con i
Karakhanidi (999-1212), cioè nel momento in cui, per la prima volta dopo la
prima ondata di conquistatori arabi, il Mawarannahr entra a far parte dei domini di
uno stato tribale che comprende anche le regioni a nord e a est dell’attuale Asia
centrale, fortemente eterogenee quanto a grado di islamizzazione. L’acquisizione
di importanza da parte delle madrasa è favorita dal fatto che il sistema di governo
in uso nello stato karakhanide era fondato sulla divisione in appannaggi. Fatto che
aveva incoraggiato uno sviluppo più spontaneo dei centri urbani e sostenuto il
processo di potenziamento indipendente dei centri locali di scienze musulmane. I
giuristi hanafiti, che erano gli eredi della scuola murji‘ita e che appoggiavano la
conversione all’Islam, esercitavano una grande influenza nelle città del
Mawarannahr. Essi ebbero a cuore la difesa degli interessi della popolazione, ed
essendo appunto a questa integrati provenendo dalla classe media, divennero
progressivamente i capi spirituali dei cittadini: portatori della legge sacra della
nuova religione, e disposti a rendere il messaggio di quest’ultima comprensibile
alla gente. Per questo durante il secolo XI non furono rari i conflitti tra il sovrano
karakhanide di Bukhara e la gilda dei giurisperiti hanafiti della città operavano in
difesa degli interessi della popolazione 19 ; al contempo andò consolidandosi la
tendenza a trovare nel controllo e nella protezione delle istituzioni giuridiche
islamiche un potente strumento di legittimazione del potere 20 .
Caratterizza ulteriormente l’Islam centroasiatico la pluralità di letture e risposte
elaborate dai musulmani nei confronti di governi non islamici. Rispetto alla
dominazione della regione da parte di poteri che esprimevano una cultura allogena
conosciamo esempi di resistenza sia violenta che passiva. Per quanto riguarda i
primi, si tenga presente la sollevazione capeggiata da un maestro della
19
Per alcuni esempi in proposito si veda A. MUMINOV, Le rôle et la place des juristes hanafites
dans la vie urbane de Boukhara, cit., pp. 133-134.
20
Si leggano in questo modo anche alcune forme di mecenatismo come l’istituzione a Bukhara di
una biblioteca pubblica destinata all’uso dei giuristi musulmani della città, cfr. ibidem, p. 136.
243
confraternita sufi naqshbandiyya – Duchi Ishon – nel 1892 e l’attività di resistenza
armata alla sovietizzazione (il cosiddetto basmachestvo), un fenomeno che
impegnò militarmente l’autorità sovietiche sul largo fronte centroasiatico (valle di
Ferghana e regione di Bukhara) per più di un decennio (1918-1930). Vanno poi
tenuti in debito conto anche i fenomeni di resistenza passiva alla campagna di
forzata secolarizzazione – denominata “assalto” (hujūm) – che prevedeva, ad
esempio, manifestazioni pubbliche in cui le donne venivano “liberate” dal velo
islamico. In proposito vanno rilevati i risultati di uno studio recente che mette in
luce come una resistenza all’abbandono del velo o di altri costumi come il
pagamento della dote da parte della famiglia della sposa (mahr/qalim) a quella
dello sposo si registrasse anche presso attivisti comunisti centroasiatici, vale a dire
all’interno di quegli ambienti che avrebbero dovuto facilitare sul campo la
realizzazione di tale progetto di emancipazione femminile 21 . Nei diversi casi di
resistenza attiva e passiva i dottori della legge islamica e, in più in generale, le
autorità religiose sembrano avere occupato solo ruoli marginali o tutt’al più
strumentali. Ad esempio, alla politica di chiusura dei tribunali islamici e di lotta al
“tradizionalismo” islamico intrapreso nella seconda metà degli anni venti, alcuni
gruppi di ulema reagirono – beninteso laddove essi disponevano ancora di un
auditorium – esortando la popolazione a contrastare la trasformazione della
società musulmana, a unirsi in una guerra santa per la creazione di uno stato
islamico (musulmānābād) 22 . Allo stesso modo vanno letti i casi in cui le autorità
religiose islamiche fiancheggiarono la resistenza dei Basmachi, emettendo delle
fatwa in favore della guerra contro il governo sovietico.
Se restiamo all’ambito delle istituzioni e della cultura islamica dominato dai
giurisperiti, dobbiamo registrare una tendenza di lunga durata al pragmatismo che
si declina, da un lato, nel tentativo di armonizzare la sharia a sistemi di diritto
allogeni e, dall’altro, nell’evitare uno scontro diretto con l’invasore di altra fede
(ghayr dīn) qualora esso si dovesse risolvere a detrimento dei musulmani.
Portiamo qualche esempio: tra le cronache della conquista russa dell’Asia
centrale, la Storia dei Sultani Manghit occupa un posto degno di menzione. Il suo
autore, Mīrzā ‘Abd al-‘Azīz Sāmī, storiografo alla corte dell’emiro Muzaffar
(1860-1885), racconta i giorni successivi all’avvicinamento del sovrano bucariota
a Samarcanda, interessato a sfruttare il consolidamento delle posizioni dei russi a
Tashkent e nei territori limitrofi per guadagnare terreno sul rivale khan di Kokand.
L’arresto di un ambasciatore del governatore russo Kaufman, la successiva
21
C. DE SANTI, Cultural Revolution and Resistance in Uzbekistan during the 1920s. New
Perspectives on the Woman Question, in P. SARTORI - T. TREVISANI (eds.), Patterns of
Transformation In and Around Uzbekistan, Reggio Emilia, 2007, pp. 40-76, i.c.s. Per ulteriori
approfondimenti su questo ed altre aspetti della “questione femminile” nell’Uzbekistan sovietico
s.v. M. KAMP, The New Woman in Uzbekistan. Islam, Modernity, and Unveiling Under
Communism, Seattle, 2006.
22
P. SARTORI, The Taškent ‛Ulamā’ And the Soviet State. A Preliminary Research Note Based
on NKVD Documents, in P. SARTORI - T. TREVISANI (eds.), Patterns of Transformation In and
Around Uzbekistan, cit., pp. 143-166 i.c.s.
244
chiamata al jihād (guerra santa) contro i “cristiani” e le sollevazioni delle madrasa
di Samarcanda vengono descritte come i frutti della scelleratezza e del fanatismo
delle guardie dell’emiro e dei mullā locali. All’evidente inutilità di tali azioni
l’autore della cronaca contrapponeva l’opinione di un saggio dignitario bucariota,
il quale, posto di fronte all’ipotesi di un confronto armato, suggeriva di stringere
un accordo di pace (sulh) coi russi visto che l’esercito bucariota non aveva mai
incontrato prima di allora un nemico così forte, non disponeva di armi al pari dei
“cristiani” (nasārā) e sarebbe stato inevitabilmente sconfitto 23 . Simili gli
argomenti di un erudito musulmano originario di Tashkent – Muhammad Yunus
Khwaja (n. 1830) – che all’indomani della conquista russa lasciò l’Asia centrale
per l’India perché «la fonte della sharia si era estinta». Tornato a Kokand –
probabilmente dopo avere osservato gli effetti delle controversie attorno alle
rivolte musulmane contro i britannici nell’India settentrionale 24 – si dedicò alla
compilazione di un testo in persiano in cui si dice che nei territori dell’Asia
centrale conquistati dai russi era ancora possibile giudicare e dirimere questioni
secondo la “nobile legge” (shar‘-i sharif), condizione sufficiente per considerare
la regione una “casa dell’Islam” (dār al-Islām). L’autore proseguiva mettendo in
guardia i funzionari dei tribunali islamici che sottrarsi ai propri compiti avrebbe
indotto l’amministrazione coloniale ad adottare misure tali da contrastare l’Islam.
In questo modo l’Asia centrale sarebbe diventata una “casa della guerra” (dār alharb), fatto che avrebbe gettato i musulmani nella sedizione (fitna) 25 . Tali temi –
l’inferiorità militare dei musulmani e la possibilità per questi di assolvere ai propri
obblighi religiosi pur essendo assoggettati a un potere allogeno non islamico–
verranno recuperati dai giurisperiti musulmani nei primi anni di dominio sovietico
dell’Asia centrale. Essi, infatti, servirono a giustificare gli accordi di
collaborazione tra i dottori della legge islamica e i sovietici quando in Asia
centrale imperversava la resistenza armata dei Basmachi.
23
Mīrzā ‘Abd al-‘Azīz Sāmī, Tārīkh-i salātin-i manghitiyya, izdanie teksta, predislovie, perevod i
primečanija L.M. Epifanovoj, Moskva, 1962, pp. 60; 68; 72. Per ulteriori riflessioni attorno a
quest’opera e al suo autore s.v. J.A. GROSS, Historical Memory, Cultural Identity, and Change:
Mirza ‘Abd al-‘Aziz Sami’s Representations of the Russian Conquest of Bukhara, in D.R.
BROWER - E.J. LAZERINI, Russia’s Orient. Imperial Borderlands and Peoples, 1700-1917,
Bloomington/Indianapolis, 1997, 203-226.
24
B. BABADJANOV, Russian Colonial Power in Central Asia as Seen by Local Muslim
Intellectuals, in B. ESCHMENT - H. HARDER (eds.), Looking at the Coloniser. Cross-Cultural
Perceptions in Central Asia and the Caucasus, Bengal, and Related Areas, Würzburg, 2004, p. 78,
n. 10.
25
Cfr. MUHAMMAD YŪNUS KHWĀĞA B. MUHAMMAD AMĪN-KHWĀĞA (TĀ’YB), Tuhfai Tā’yb, podgotovka k izdaniju i predislovie B.M. Babadžanova, Š.Ch. Vachidova, H. Komatcu,
Islamic Area Studies Project – Central Asian Research Series n. 6, Tashkent/Tokyo, 2002, folia
36a/b.
245
2. L’Islam in Asia centrale durante l’epoca sovietica
2.1
La prima fase sovietica (1917-1938): dalla “collaborazione” alla “deislamizzazione”
A cambiare notevolmente il volto dell’Islam centroasiatico contribuirono in
misura di gran lunga maggiore della rivoluzione bolscevica le politiche di azione
affermativa (1923-1932) e il Grande Terrore staliniano (1937-1938). Gli anni
Venti si aprirono con molte incertezze: in Asia centrale il potere sovietico era
ancora molto debole, istanze autonomiste erano state soffocate nel sangue nel
1918 e da quegli eventi era nata una resistenza armata; il panorama istituzionale e
culturale di riferimento era ancora precipuamente islamico: al codice sovietico e
all’autorità dei tribunali rivoluzionari spesso si preferiva la sharia o il diritto
consuetudinario (‘ādat), i curricula scolastici restavano quelli della tradizione
islamica, non veniva diversamente regolamentata la frequentazione delle moschee,
dei conventi per sufi e il pellegrinaggio a luoghi santi. Per favorire l’avvio delle
campagne di promozione delle culture nazionali e di realizzazione dei progetti di
trasformazione istituzionale elaborati da Mosca, all’inizio venne favorito
l’accesso dei “comunisti musulmani” al potere, cioè a incarichi all’interno dei vari
commissariati del popolo e degli uffici politici. Per costruire un consenso tra la
popolazione musulmana ciò non bastava. Per tale motivo venne riconosciuto de
jure l’esercizio del diritto islamico, disciplinata l’autorità giuridica dei tribunali e
degli organi giuridici collegiali islamici (mahkama-i shar‘iyya); e al contempo si
decise in favore della restituzione delle proprietà del waqf (fondazioni pie) e la
creazione di una Direzione generale del waqf incaricata della loro gestione.
L’esistenza di tribunali islamici, di waqf, e di madrasa nell’Asia centrale sovietica
presupponeva una “collaborazione” tra i dottori della legge islamica 26 e le autorità
sovietiche. Gli intellettuali musulmani non svolgevano solo la funzione di
mediatori tra il potere centrale e la popolazione della periferia, non erano passivi
esecutori di direttive dall’alto in cambio dei privilegi che accordava loro
l’amministrazione sovietica. Essi avevano un comune interesse: la riforma della
società islamica, non solo in senso progressista, ma anche rispetto a un recupero
dei valori della tradizione in modo conforme alle esigenze dell’epoca. In pratica
ciò si traduceva in una critica feroce a costumi religiosi e a forme di pietismo
assai diffuse tra la popolazione musulmana locale quali, ad esempio, l’elargizione
di danaro a figure d’autorità (shaykh) ai quali di solito si chiedeva di intercedere
presso i santi, o a prezzolati predicatori apologeti (maddoh e qalandar) che si
davano alla questua nei luoghi pubblici come il bazar; al contempo si biasimava
esplicitamente l’attività di alcuni maestri sufi (ishon) itineranti che reclutavano
discepoli e invocavano il pellegrinaggio (ziyorat) a tombe dei santi in cambio di
26
Per ulteriori approfondimenti sul tema si veda il mio Tashkent 1918, giurisperiti musulmani e
autorità sovietiche contro “i predicatori del bazar”, in «Annali di Ca’ Foscari», 2006, Serie
Orientale 37, XLV/3, pp. 113-139.
246
danaro. Intellettuali e ulema giudicavano tali manifestazioni della religiosità
popolare alla stregua di “biasimevoli innovazioni e superstizioni” (bid‘at wa
khurofot). Il che offriva un punto di saldatura con la critica degli ideologi sovietici
alle superstizioni e alle sopravvivenze religiose pretese pre-islamiche.
Tale collaborazione era destinata a una brevissima durata: la realizzazione delle
campagne più aggressive per la modernizzazione del paese, l’incalzare
dell’ateismo militante e l’attività repressiva della polizia politica misero in moto
un processo di progressiva de-islamizzazione della sfera pubblica in Asia centrale
che si tradusse nella chiusura delle madrasa, nell’eliminazione dei tribunali
islamici a partire dal 1927, e nella definitiva nazionalizzazione del waqf nel 1930.
Si tenga presente che, mentre venivano prese tali misure, procedeva il flusso
migratorio – peraltro iniziato all’inizio degli anni Venti – degli ulema dall’Asia
centrale verso l’India, la Turchia e l’Arabia Saudita e si succedevano le ondate di
arresti che culminarono con le operazioni di massa tra ’37 e ’38 27 .
2.2
Il secondo dopoguerra e la creazione della nomenklatura islamica
Il 1943 fu l’anno che segnò la svolta nelle relazioni tra lo stato e le comunità
musulmane dell’Urss, incluse quelle dell’Asia centrale. Stalin, pare su iniziale
richiesta del muftì di Ufa Abdurrahman Rasulev che mirava a normalizzare i
rapporti tra il governo sovietico e l’Islam 28 , permise la creazione di quattro
direttorati spirituali per le maggiori comunità musulmane dell’Urss
(Transcaucasia, Caucaso settentrionale e Daghestan, Russia europea e Siberia,
Asia centrale e Kazachstan).
Dopo la morte di Stalin, prese lentamente avvio il processo di riabilitazione dei
molti ulema arrestati dalla polizia politica e condannati ai lavori forzati durante gli
anni Trenta o spediti al fronte durante la seconda guerra mondiale. In generale si
tratta di individui che, per il fatto di essere tra i pochi ad avere avuto una
formazione classica all’interno delle madrasa e a dominare le lingue orientali in
caratteri arabi, vennero assunti per svolgere mansioni all’interno degli Istituti di
Studi Orientali, a Dushanbe e Tashkent, quando iniziò l’opera di catalogazione dei
fondi manoscritti delle filiali tagika e uzbeka dell’Accademia delle Scienze.
Tra gli ulema scampati alle purghe alcuni furono scelti per coniugare la propria
competenza in materia di diritto islamico alle politiche di ingerenza dello stato
sovietico nell’ambito confessionale. È il caso degli ulema reclutati all’interno
dell’Amministrazione spirituale dei musulmani dell’Asia centrale, istituzione nota
con l’acronimo russo Sadum (Sredneaziatskoe duchovnoe upravlenie musul’man)
27
O. HLEVNJUK, Les mécanisme de la «Grande Terreur» des annés 1937-1938 au
Turkménistan, «Cahiers du monde russe», 39, 1998, pp. 197-208.
28
J.A. GROSS, The Polemic of Official and “Unofficial” Islam: Sufism in Soviet Central Asia, in
F. DE JONG - B. RADTKE (eds.), Islamic Mysticism Contested: Thirteen Centuries of
Controversies and Polemics, Leiden, 1999, p. 524.
247
che gestiva i rapporti tra il Consiglio per gli affari dei culti religiosi e la
popolazione musulmana centroasiatica 29 . In pratica, esso costituiva uno strumento
utilizzato dallo stato per controllare e monitorare l’Islam. Al Sadum facevano
capo le due uniche madrasa esistenti in Asia centrale situate una a Tashkent,
l’altra a Bukhara. Esso assegnava gli imam-khatib alle moschee ufficialmente
registrate presenti sul territorio repubblicano e trasmetteva loro le direttive che
giungevano “dall’alto” sulla gestione dei luoghi di culto. I contenuti dei sermoni e
dei discorsi degli imam-khatib delle moschee registrate dovevano attenersi
all’agenda dal Sadum, le fatwa – opinioni autorevoli in materia di giurisprudenza
islamica – che il muftì, capo del Sadum, aveva facoltà di emettere. In questo
modo, le moschee registrate fungevano da ripetitori del “discorso islamico”
ufficiale elaborato dal Sadum che, a sua volta, veniva direttamente influenzato
dalle indicazioni che giungevano dal Comitato per gli affari religiosi e del culto.
La consulta del Sadum rappresentava l’apice di un’organizzazione gerarchica 30 ,
una sorta di «nomenklatura clericale» 31 , istituzione evidentemente non conforme
alla concezione non verticistica che nell’Islam si ha dell’autorità. Essa era
costituita da una “direzione” (upravlenie/hay’at) e da una commissione di
revisione (taftish hay’ati) composte rispettivamente da undici e cinque membri.
L’Amministrazione spirituale dei musulmani dell’Asia centrale era suddivisa in
alcune sezioni, tra le quali ricordiamo, ad esempio, quelle dedicate alle fatwa 32 e
all’attività delle moschee. Ciascuna delle cinque repubbliche ospitava una
qoziyyat, un ufficio in cui operava un “giudice”, senza però che questi avesse
riconosciuta l’autorità vincolante in materia giuridica di cui solitamente dispone
chi porta tale titolo nel mondo musulmano. Nel 1968 prese avvio la rivista
ufficiale del Sadum, «I musulmani dell’Oriente sovietico» (Sovet sharqi
musulmonlari), in cui si pubblicavano le fatwa e le ordinanze emesse dalla
direzione, nonché i commenti ai decreti emanati dalle autorità governative aventi
qualche relazione con la vita religiosa dei musulmani.
Dal 1943, anno di fondazione del Sadum per decreto della corte suprema
dell’Urss, fino al 1989 tale istituzione venne diretta dalla famiglia Bobokhonov 33 .
Il primo a essere eletto a capo del Sadum fu Ishon-Khon Bobokhonov (18561957), discendente da una famiglia di “dignitari” (kho’ja) sayrami, legata a una
genealogia di maestri sufi della confraternita yasawiyya. Era una delle personalità
29
Y. RO’I, Islam in the Soviet Union. From the Second World War to Gorbachev, New York,
2000, pp. 11-12.
30
Cfr. B. BABADJANOV, Sredneaziatskoe duchovnoe upravlenie musul’man: predystorija i
posledstvija raspada, in Mnogomernye granicy Central’noj Azii, Moskva, 2000, p. 56.
31
B. BABADJANOV, Islam officiel contre Islam politique en Ouzbékistan aujourd’hui: la
Direction des Musulmans et les groupes non-hanafî, «Revue d’études comparatives Est-Ouest»,
31, 2000, 3, p. 161.
32
Nel 1948 venne anche istituito un collegio di giurisperiti incaricato di dare responsi a questioni
in materia di diritto islamico provenienti dalla popolazione.
33
Islam na territorii byvšej Rossiskoj imperii. Ênciklopedičeskij slovar’, vypusk 4, s. v.
«Babachanovy» [B. BABADJANOV].
248
più note – certamente non la più autorevole – tra gli ulema di Tashkent, avendo
svolto saltuariamente la funzione di cadì nel quartiere Sibzar di Tashkent tra gli
anni 1899 e 1916. Successivamente il posto di muftì, capo del Sadum, venne
ereditato di padre in figlio fino al 1989. In questo modo si succedettero
Ziyavuddin-Khan Bobokhonov (1908-1982) e suo figlio Shamsuddin-Khan
Bobokhonov (1937), ritiratosi in seguito ad una manifestazione di piazza
organizzata a Tashkent contro l’establishment religioso il 3 febbraio 1989. Perché
i Bobokhonov furono scelti quali interlocutori del governo sovietico e
rappresentanti dell’Islam centroasiatico? A nostro avviso il rapporto tra i
Bobokhonov e lo stato era caratterizzato da più elementi. Anzitutto Ishon-Khon
era stato, si dice, uno dei più disponibili tra i muftì e i giurisperiti musulmani di
Tashkent all’adattamento del diritto musulmano alla nuova condizione
istituzionale prodottasi in Asia centrale dopo la rivoluzione bolscevica e la
costituzione del potere sovietico nel 1918. In secondo luogo, i Bobokhonov
furono negli anni Trenta confidenti della polizia politica 34 .
Veniamo all’attività dei Bobokhonov all’interno del Sadum. A fianco dell’opera
di costituzione stessa dell’Amministrazione spirituale dei musulmani dell’Asia
centrale, Ishon-Khon Bobokhonov diede inizio all’emissione di fatwa “su
richiesta” (po zakazu) del Comitato per gli affari religiosi. Si tratta di opinioni
autorevoli perlopiù conformi alle campagne di modernizzazione culturale lanciate
dallo stato sovietico. Nel 1947, ad esempio, egli emise una fatwa sulla non
obbligatorietà dell’uso del velo (paranja) per le donne, apparentemente un
tentativo di coinvolgere le autorità musulmane nella realizzazione del progetto di
emancipazione femminile iniziato negli anni Venti; nello stesso anno venne
pubblicata un’altra fatwa che invitava a ignorare la celebrazione della conclusione
del mese dedicato al pellegrinaggio alla Mecca con la “festa del sacrificio”
(qurbon hayit) – che notoriamente è, assieme a quella in cui si festeggia la rottura
del digiuno (ramazon hayit), una delle “due feste” (al-‘īdān) per eccellenza del
calendario islamico 35 .
Il lascito di Ziyovuddin-Khon è, per il ristretto ambito giurisprudenziale e di
conseguenza per la storia del pensiero islamico centroasiatico, di grande interesse.
Anzitutto si tenga presente che, oltre ad avere appreso le scienze religiose dal
padre e nelle madrasa tashkenite Baraq-khon e Kukaldosh, egli fu uno dei
discepoli di Sa‘id ibn Muhammad ibn ‘Abd al-Wahid ibn ‘Ali al-‘Asali atTarablusi al-Shami al-Dimashqi, meglio conosciuto in Uzbekistan con il
soprannome Shomi Domlo (o Shami Domulla), un teologo di origine siriana,
istallatosi a Kashghar tra il 1901 e il 1904 in seguito ad una condanna di
34
Per qualche informazione in più si veda P. SARTORI, La sovietizzazione e l’Islam in Asia
centrale: gli ulema d’Uzbekistan in prospettiva storica, in: M. NORDIO (a cura di), Sguardo a
Oriente. Asia centrale, Pakistan, Afghanistan, Turchia, Venezia, 2006, p. 93.
35
Questi due documenti sono reperibili in Qurbānlīqning wājib imāslīgī haqīda 1947nči yil 20nčī
yānwār tārīkhlī 2nčī plīnūm qārārī; Faranjīning majbūrī īmasligī haqīda, in «Ūrtā Asiyā wa
Qāzāghistān musulmānlārīnīng dīniyya nazārat zhūrnālī», 5-6, 1947, pp. 5 e 8-10.
249
wahhabismo venuta dal sovrano ottomano Abdulhamid II 36 . Compiuti viaggi
attraverso il Turkestan orientale e la Cina, da Pechino Shomi Domlo giunse a
Tashkent il 13 febbraio nel 1919 dove rimase, ospite di diverse famiglie, fino al
1932, allorquando, accusato di spionaggio al servizio della Gran Bretagna, si darà
alla fuga; arrestato, morirà in carcere nello stesso anno. Agli inizi degli anni Venti
Shomi Domlo diventò una delle maggiori autorità religiose a Tashkent, dopo
avere dimostrato pubblicamente la sua eccellenza sulla scienza degli hadith. In
quegli anni, a dispetto delle sue inclinazioni fondamentaliste, egli fu il principale,
se non addirittura, l’unico interlocutore delle autorità sovietiche durante le
discussioni sull’armonizzazione del diritto islamico a quello sovietico e sulla
riforma dell’ordinamento dei tribunali islamici. L’intensa attività pedagogica di
Shomi Domlo a Tashkent portò alla creazione di una vera e propria scuola di
pensiero – la jamā‘at ahl al-hadith – all’interno del dominio delle scienze
religiose islamiche, fondata sul recupero della conoscenza delle tradizioni del
Profeta, quale principio essenziale per l’orientamento del giudizio su temi non
menzionati dal Corano o discussi in modo divergente dalle scuole giuridiche.
Ziyovuddin Bobokhonov, dopo aver studiato nella celebre madrasa cairota alAzhar nel 1947 e compiuto un pellegrinaggio alla Mecca nello stesso anno,
inizierà a mettere in pratica gli insegnamenti degli ahl al-hadith: la lotta contro i
costumi e le pratiche rituali locali, denunciate come non islamiche. Si leggano,
alla luce di tale formazione religiosa, le fatwa emesse da Ziyovuddin contro il
pellegrinaggio alle tombe dei santi e dei maestri sufi, nonché quelle che
consideravano illegali le pratiche taumaturgiche e di divinazione. Tali opinioni
autorevoli sono state commentate in diversi modi. In esse alcuni hanno
rintracciato, come nel caso di quelle emesse dal padre, la sottomissione del muftì
alle autorità sovietiche e un’esplicita aderenza alle campagne ideologiche contro
le sopravvivenze pre-islamiche; altri, invece, hanno visto l’influenza del periodo
trascorso in Arabia Saudita e i successivi contatti con i teologi provenienti dal
Maghreb (durante le conferenze e gli incontri ufficiali) 37 . In particolare, si è
scritto che le sue fatwa contrarie alle pratiche devozionali locali erano basate su
una letteratura giuridica non conforme a quella della tradizione del diritto hanafita
locale, ma sulle opere di Taqi ad-Din Ahmad ibn Taymiyya (1263-1328)38 . Per le
36
Laddove non specificatamente annotato, le notizie sulla vita di Shomi Domlo provengono da A.
MUMINOV, Chami-Damulla et son rôle dans la constitution d’un “Islam soviétique, in M.
LARUELLE - S. PEYROUSE (sous la direction de), Islam et politique en ex-URSS (Russie
d’Europe et Asie centrale), cit., pp. 241-61.
37
Islam na territorii byvšej rossiskoj imperii. Ênciklopedičeskij slovar’, vypusk 4, s. v.
«Babachanovy» [B. BABADJANOV].
38
B. BABADJANOV, Islam in Uzbekistan : From the Struggle for « Religious Purity » to
Political Activism, in B. RUMER (ed.), Central Asia: A Gathering Storm?, New York/London,
2002, p. 305; B. BABADJANOV, Islam et activisme politique. Le cas Ouzbek, in «Annales.
Histoire, Sciences Sociales», 59, septembre-décembre 2004, 5-6, p. 1144. Non è chiaro se tra le
opinioni autorevoli espresse da Ziyovuddin Bobokhonov, a riferirsi alle opere di Ibn Taymiyya sia
una sola fatwa, che condanna esplicitamente l’adesione alle confraternite sufi, cfr. B.
BABADJANOV, O fetvakh SADUM protiv “neislamskikh obychaev”, in M. BRILL OLCOTT -
250
sue posizione esplicitamente critiche nei confronti delle pratiche religiose tollerate
dalla dottrina hanafita, Ziyovuddin Bobokhonov è ancora oggi considerato da
alcuni in Uzbekistan il primo muftì “wahhabita” del periodo sovietico 39 .
Dobbiamo osservare che, a dispetto di tale accusa, la maggior parte delle fatwa
contrarie ai costumi religiosi locali si basa sui testi più noti e diffusi della
produzione giudica hanafita 40 .
Shamsuddin-Khon Bobokhonov, terzo muftì del Sadum, combinò una formazione
al contempo sovietica e islamica: studiò nella moschea cairota di al-Azhar negli
anni 1962-1966, specializzandosi in filologia araba e poi difese una tesi di
dottorato nella stessa disciplina all’Istituto moscovita di orientalistica nel 1972.
Nel 1982 in mancanza di reali alternative e grazie al sostegno del padre, egli salì
alla guida della Direzione spirituale del musulmani dell’Asia centrale. Una
conoscenza assai limitata delle scienze religiose e comportamenti non sempre
conformi al contegno richiesto a una personalità così importante per la comunità
musulmana della regione furono tra i motivi principali che intaccarono l’autorità
di Shamsuddin-Khon presso i fedeli musulmani dell’Asia centrale. La
liberalizzazione della politica religiosa negli anni della perestrojka permisero ai
detrattori di Bobokhonov di avere la sua destituzione dal posto di muftì nel 1989.
Fino al 1993 lavorò come consulente presso l’Istituto di orientalistica uzbeko.
3. L’Islam non ufficiale
La creazione di una “nomenklatura islamica”, direttamente assoggettata al
Comitato per gli affari religiosi e del culto, costituì il primo passo verso la
divisione in Asia centrale tra i rappresentanti di un Islam ufficiale, espressione
moderna ed emancipata dal tradizionalismo e dal fanatismo grazie al contributo
decisivo del socialismo reale, e di un Islam non ufficiale, altrimenti detto “Islam
parallelo” 41 . Nella letteratura specialistica sull’Islam in Urss prodotta in
Occidente durante la guerra fredda, alla categoria “Islam non ufficiale” –
beninteso descrittiva e non analitica – è stata fatto frequente ricorso per designare
diversi fenomeni, pertinenti alla gestione del sacro nella sfera pubblica
musulmana d’Asia centrale, caratteristici di spazi istituzionali non ufficiali.
Anzitutto tale espressione è stata e viene tuttora usata per designare in modo assai
generico le attività di imam, predicatori, e insegnanti di scienze religiose svolte da
individui non ufficialmente abilitati dal Comitato per gli affari religiosi allo
A. MALASHENKO (eds.), Islam na postsovetskom prostranstve: vzgliad iznutri, Moskva, 2001,
pp. 172-173.
39
B. BABADJANOV, Islam in Uzbekistan: From the Struggle for «Religious Purity» to Political
Activism, cit., p. 306.
40
Cfr. Š. BABACHANOV, Muftij Zijavuddinchan Ibn Êshon Babachan. Žizn i dejatelnost’,
Tashkent, 1999, pp. 203-213.
41
Per l’uso della categoria “Islam parallelo” come sinonimo di “sufismo s.v. A. BENNIGSEN Ch. LEMERCIER-QUELQUEJAY, L’Islam parallelo, Genova, 1990.
251
svolgimento di tali funzioni. L’espressione “Islam non ufficiale” rimanda anche a
luoghi, diversi da quelli occupati dalla moschee registrate e dalle madrasa
ufficiali, dedicati alla celebrazione di rituali e di insegnamenti religiosi; si dà il
caso di comunità di quartiere (mahalla) che, non avendo la propria moschea,
usavano il cortile domestico per riunire i fedeli nella preghiera del venerdì, oppure
per celebrare funerali e feste per la circoncisione (khatna-to’y) in occasione delle
quali la comunità musulmana si adunava alla presenza di un mullā non ufficiale
chiamato a guidare la preghiera non rituale (du‘ā/duo). Visto che lo svolgimento
di cerimonie non organizzate dalla Direzione spirituale era illegale, tali attività
erano considerate un fenomeno clandestino, underground.
Se inizialmente tali manifestazioni di religiosità islamica erano considerate
“popolari”, dalla seconda metà degli anni Settanta in poi, tanto in Urss quanto in
Occidente, andò sempre più consolidandosi l’idea che l’Islam non ufficiale fosse
cresciuto e maturato nell’alveo delle confraternite sufi (tariqa). L’Islam parallelo
dei sufi diventò, e per molti ancora rimane, un fenomeno confessionale e politico
provvisto di una propria ideologia e di una rete di gruppi reciprocamente solidali
impenetrabili a chi non fosse adepto di una certa tariqa 42 . Benché tali idee fossero
evidentemente frutto della macchina ideologica sovietica, esse fornirono le
argomentazioni per fare dell’Islam non ufficiale il probabile antagonista del potere
sovietico in Asia centrale e per individuare nel sufismo, prima ancora del
fontamentalismo, la corrente di pensiero che avrebbe ispirato una politica
alternativa a quella socialista. Nel 1983, ad esempio, uno dei più autorevoli esperti
in materia scriveva:
The political and religious activity of the Sufi brotherhoods does present a serious
threat to the Soviet system for two reasons. First, Sufi groups form small
decentralized, closed societies, bound by a rigorous discipline. They exist more or
less completely outside the official system. Their very existence serves as proof that
other models of communal life are possibile outside the Soviet one, models based
on Islam instead of Marxism. This is, in itself, an intolerable crime to the authorities.
Second, the tariqa represents the hard-core of anti-Russian and anti-communist
sentiments. Their adepts conduct permanent intense religious and nationalistic
propaganda, numerous example of which are given in the Soviet press. In Central
Asia they are probably the only outspoken adversaries of the communist regime 43 .
Meraviglia come allora la difficoltà di reperire fonti di prima mano inducesse
alcuni studiosi a considerare in quegli anni la stampa sovietica, sulle cui note
funzioni propagandistiche qui non insisteremo, una fonte sufficientemente
affidabile per dare una rappresentazione inequivocabile della potenzialità eversiva
del sufismo centroasiatico. La relazione tra Islam non ufficiale e sufismo è stata
utilizzata per suffragare improbabili ipotesi. Taluni hanno addirittura cercato di
42
Per queste ed ulteriori osservazioni in proposito s.v W. MIYER, Islam and Colonialism.
Western Perspectives on Soviet Asia, London/New York, 2002, pp. 180-181.
43
Ch. LAMERCIER-QUELQUEJAY, Sufi Brotherhoods in the USSR: A Historical Survey,
«Central Asian Survey», 2, 1983, 4, p. 29.
252
rintracciare nel passato la pericolosità delle confraternite, riesumando
pretestuosamente gli episodi di resistenza e di ribellione armata all’impero zarista
guidate da maestri sufi nel Caucaso e nell’Asia centrale; altri hanno visto un filo
rosso “islamista” percorrere la storia della regione e unire i Basmachi, l’Islam
parallelo e i mujāhidīn afghani degli anni Ottanta 44 .
Ad ogni modo, va riconosciuto che dei rapporti tra l’establishment religioso
musulmano ufficiale e le personalità autorevoli dell’Islam non ufficiale in Asia
centrale si conosce ancora molto poco. Solo occasionali erano infatti le notizie che
riuscivano a filtrare dalle maglie della censura sulla circolazione di letteratura
religiosa illegale, samizdat e materiale audio islamico, confiscato dalla polizia 45 .
Tra i fenomeni a noi noti da mettere in relazione all’Islam non ufficiale,
probabilmente il più rilevante è quello comunemente chiamato khujra, termine
con il quale si denota un metodo itinerante illegale di insegnamento delle scienze
religiose islamiche. Esso apparve già alla fine degli anni Trenta a Tashkent e nelle
maggiori città della valle di Ferghana (Uzgent, Osh, Namangan) in reazione alla
chiusura completa di maktab e madrasa. A quei tempi gli insegnanti che si
dedicavano a tale attività erano generalmente individui di riconosciuta autorità
religiosa che, per nascondersi alla polizia politica, cercavano un rifugio
provvisorio presso famiglie – solitamente si trattava di gruppi che vantavano una
genealogia profetica o alide (riconoscibili da termine kho’ja, to’ra, miyon) 46 –
svolgendo all’interno di queste le comuni funzione del precettore. Allora il
numero dei partecipanti alle lezioni dei maestri (domulla/domlo) itineranti erano
assai ridotti per il comprensibile timore di delazioni. La partecipazione a tali
gruppi di studio crebbe considerevolmente durante la perestrojka. Il programma
dei corsi dipendeva dalla preparazione del maestro. Alcuni si limitavano alla
lettura del Corano e alle lezioni elementari di grammatica araba; altri inserivano
un corso superiore di morfologia e sintassi dell’arabo, scienza degli hadith,
dogmatica, etica e diritto islamico. Fu tale sistema di insegnamento, alternativo a
quello impartito nelle madrasa ufficiali, che permise al pensiero legale hanafita
tradizionale di sopravvivere, in particolare agli attacchi che venivano
dall’establishment religioso ufficiale e dalle fatwa di Ziyovuddin Bobokhonov.
La figura più importante legata all’attività della khujra e, per questo, spesso messa
in relazione al cosiddetto Islam non ufficiale, è stata Muhammadjon Rustamov
detto Hindustani (1892-1989) 47 . Egli nacque nel villaggio di Chorbogh, nella
provincia di Kokand, nella famiglia di Rustam hojji Kokandi, un giurista (faqīh)
44
M. BROXUP, Islam in Central Asia since Gorbachev, in «Asian Affairs», 18, 1987, 3, pp. 28393.
45
H.B. PAKSOY, The Deceivers, in «Central Asiatic Journal», 3, 1984, 1, pp. 123-132.
46
Da una conversazione dell’autore con uno studioso tagiko, il cui apprendistato negli studi
islamologici venne fatto in una khujra.
47
Per ulteriori notizie su Hindustani s.v. Islam na territorii byvšej Rossiskoj imperii.
Ênciklopedičeskij slovar’, tom I, Moskva, 2006, s.v. «Chindustani» [B. BABADJANOV]; M.
BRILL OLCOTT, Roots of Radical Islam in Central Asia, «Carnegie Paper» n. 77, 2007, pp. 1113.
253
di fama regionale; la formazione di Hindustani iniziò presso alcuni insegnanti di
Kokand e dal 1913 si svolse a Bukhara, nella madrasa situata presso il convento
sufi (khānqāh) di Ishan Sayahsin, e poi presso l’erudito di Balkh, in Afghanistan,
Muhammad Gaws Sayyid-zāda. Sopraggiunta la morte di questi nel 1921, egli
continuò i propri studi in una madrasa, detta Usmaniyya, nel Kashmir; da qui il
suo soprannome – Hindustani – l’“Indiano”. Nel 1928 compì il pellegrinaggio alla
Mecca e fece ritorno in patria solo l’anno successivo; dal 1933 al 1953 venne
arrestato tre volte e spedito in confino in varie regioni dell’Urss. Servì l’Armata
rossa per circa un anno, dal 1943 al 1944, fino al momento in cui fu ferito vicino a
Minsk. Dalla metà degli anni Cinquanta fino a quasi la fine dei suoi giorni egli
svolse le funzioni di imam della moschea Maulano Yaqub Charkhi a Dushanbe.
Dopo la morte di Stalin, Hindustani venne collocato nell’Istituto di studi orientali
di Dushanbe, come insegnante di urdu e per dedicarsi alla catalogazione di
manoscritti. Si dice che verso la fine degli anni Cinquanta abbia iniziato a
dedicarsi all’insegnamento illegale (khujra) e, al contempo, alla redazione di
alcuni trattati, alcuni di genere mistico (Isharat al-Sabba’a; Pand-nama-i Hazrat-i
Mawlawi); la più importante tra le sue opere è la traduzione uzbeka e commento
(tafsir) del Corano in sei volumi, completata nel 1984. L’ultimo decennio della
sua vita è di straordinario interesse per la storia del pensiero islamico in Asia
centrale e in Uzbekistan in particolare. Sono celebri le critiche che lui mosse nel
contesto di dibattiti pubblici contro le azioni e le opinioni di alcuni imam delle
moschee della valle di Ferghana che – secondo Hindustani – allontanavano la
comunità dei fedeli dalla dottrina hanafita. Si tratta, in particolare, di alcune
abitudini diffuse presso le comunità musulmane locali durante la preghiera rituale
collettiva. Ad esempio egli sosteneva la necessità di pronunciare solo
internamente (makhfi) l’amen alla fine della preghiera, e non ad alta voce (jahri)
come invece invitavano a fare i suoi oppositori, oppure si batteva perché alcune
pratiche devozionali locali come quella di recitare alcuni versetti del Corano e
altre preghiere (du‘ā) in favore di un ammalato, per reclamare l’intercessione
favorevole di un santo o durante i funerali, fossero considerate conformi alla
tradizione islamica.
4. Dalla perestrojka all’indipendenza: l’epoca della re-islamizzazione
Gli anni della perestrojka furono caratterizzati in Asia centrale dall’affermazione
di istanze identitarie di matrice nazionalista e dalla progressiva liberalizzazione
del culto islamico. La funzione di controllo e di manipolazione dell’opinione
pubblica in materia religiosa svolta dal Sadum aveva dimostrato alla fine degli
anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta di non essere efficace. Anzitutto, tra le
persone che in tutta autonomia continuarono a coltivare l’erudizione islamica in
Uzbekistan maturò una crescente insofferenza per l’inattualità delle posizioni
dottrinarie assunte dal Sadum, insofferenza che sfociò a volte in manifesto
254
dissenso 48 . Non va dimenticato che la mancanza di un profilo etico esemplare da
parte del vertice della “nomenklatura clericale” e lo scollamento tra i vertici del
Sadum e la base sociale che costituiva la comunità dei fedeli musulmani dell’Asia
centrale provocarono a Tashkent nel 1989 proteste pubbliche che portarono, come
si è detto, alle dimissioni del muftì Shamsuddin Bobokhonov 49 .
In seguito a tali proteste, alla guida del Sadum venne eletto Muhammad Sodiq
Muhammad Yusuf. Nato nel 1952 nella provincia di Andijan, maturò la sua prima
formazione religiosa presso il padre Muhammad Yusuf Qori, incaricato dal
Sadum nel 1953 a svolgere funzioni di shaykh-guardiano principale del mausoleo
di Bahā ad-Dīn Naqshband a Bukhara. Dopo avere terminato le scuole medie
Muhammad Sodiq Muhammad Yusuf venne accolto nella madrasa Mīr-i ‘Arab di
Bukhara e proseguì i suoi studi religiosi nell’Istituto superiore islamico al-Bukhāri
di Tashkent. Tra il 1975 e il 1976 svolse la funzione di redattore presso la rivista
Sovet Sharqi Musulmonlari. Non diversamente dai suoi predecessori, la
formazione di Muhammad Sodiq beneficiò dei rapporti tra l’Urss e alcuni paesi
del Medio Oriente; nel 1976, infatti, entrò alla facoltà di propaganda islamica (alda‘wa al-islāmī) dell’Università nazionale di Libia. Nel 1980 prese servizio
presso il Sadum al Dipartimento di relazioni internazionali e al contempo iniziò a
insegnare all’Istituto al-Bukhari, di cui, dopo circa due anni, divenne vicedirettore. Nel marzo del 1989 al congresso (qurultoy) straordinario del Sadum
Muhammad Sodiq Muhammad Yusuf venne eletto muftì; nello stesso anno
divenne membro del Soviet supremo dell’Urss. Occupando tali posizioni, egli
iniziò progressivamente a liberare l’istituzione dallo stretto controllo degli organi
governativi, in particolare dalle pretese del Comitato per gli affari religiosi presso
il Consiglio dei ministri dell’Urss di correggere le fatwa emesse dal Sadum,
promovendo al contempo il recupero della tradizione della popolazione
musulmana locale. Grazie ai suoi contatti personali con Gorbachev egli riuscì a
favorire un’apertura al pellegrinaggio alla Mecca dei musulmani dell’Urss,
nonché alla fondazione di nuove moschee e di istituti di insegnamento islamici.
La liberalizzazione della politica religiosa durante la perestrojka contribuì alla
ricomparsa di svariate pratiche devozionali, cui Muhammad Sodiq Muhammad
Yusuf reagì emettendo una serie di ordinanze mirate alla loro limitazione. In
proposito, va considerato che l’amministrazione spirituale si dimostrò
immediatamente insofferente nei confronti della comparsa di alcuni rituali quali,
ad esempio, l’accensione di candele o lumini presso le tombe dei santi, oppure
quella di cospargersi il capo e il viso della polvere delle stesse tombe. Per questo
48
A. ABDUVAKHITOV, Islamic Revivalism in Uzbekistan, in D.F. EICKELMAN (ed.), Russia’s
Muslim Frontiers. New Directions in Cross-Cultural Analysis, Bloomington/Indianapolis, 1993,
pp. 79-97; B. BABADJANOV, Debates over Islam in Contemporary Uzbekistan. A View from
Within, in S.A. DUDOIGNON (ed.), Devout Societies vs. Impious States? Transmitting Islamic
Learning in Russia, Central Asia and China, through Twentieth Century, Berlin, 2004, pp. 39-60.
49
M. BRILL OLCOTT, Islam and Fundamentalism in Indipendent Central Asia, in Y. Ro’i (ed.),
Muslim Eurasia. Conflicting Legacies, London, 1995, p. 26.
255
motivo in quell’epoca presso ogni considerevole mausoleo venne posto
ufficialmente un imam, incaricato dal Sadum di spiegare quelle norme che il
fedele fosse tenuto a seguire durante il pellegrinaggio (ziyorat) a tali siti.
La posizione occupata da Muhammad Sodiq si complicò notevolmente
all’indomani dell’indipendenza acquisita dall’Uzbekistan nel settembre 1991 e
durante la guerra civile in Tagikistan. Benché riconosciuto e apprezzato dai
governi per essere un rappresentante dell’Islam moderato e privo di ambizioni
politiche, Muhammad Sodiq dovette scontare la contiguità con le autorità
religiose della valle di Ferghana – in specie quelle di Namangan che erano
apertamente polemiche verso l’operato del presidente Islam Karimov – e con
Turajon-zoda, cadì (qozi) del Tagikistan in epoca sovietica e leader del Partito
della rinascita islamica (Hizbi nahzoti Islomi) 50 .
In quegli stessi anni Muhammad Sodiq tentò anche di svolgere il ruolo di
mediatore tra i difensori dell’ortodossia hanafita e nuove figure d’autorità
religiosa seguaci di una corrente di “rinnovamento” della fede e dell’etica
islamica chiamata mujaddidiyya.
5. Mujaddidiyya e vahhobiylar
Considerata la diffusione degli scritti e delle registrazioni dei suoi maggiori teorici,
la mujaddidiyya ha costituito il fenomeno culturale islamico più rilevante
dell’Asia centrale tardo-sovietica che, non senza una certa approssimazione,
possiamo definire fondamentalista. Per mujaddidiyya oggi 51 in Uzbekistan e nei
paesi limitrofi si intende una corrente di pensiero rappresentata da un gruppo di
ulema della valle di Ferghana, critico nei confronti dei costumi religiosi assimilati
dalla dottrina hanafita e incline a sviluppare tendenze riformatrici basate sul
rigorismo nell’ambito del culto e dell’etica islamica 52 . I rappresentanti di tale
50
M. BRILL OLCOTT, The Roots of Radical Islam in Central Asia, cit., pp. 19-27.
Il termine mujaddid (innovatore) è nell’ambito delle scienze islamiche assai evocativo, visto che
si riferisce alla credenza secondo la quale all’inizio di ogni secolo del calendario islamico verrà
mandata una persona incaricata di “rinnovare” l’Islam. Dall’epoca moderna l’utilizzo di tale
termine è legato ad Ahmad Sirhindi (m. 1624), il rinnovatore del secondo millennio (mujaddid-i
alf-i thānī), un teologo musulmano naqshbandi di origine indiana che riconciliò il misticismo con
la stretta osservazione della sharia. Le critiche alle pratiche devozionali sufi, oggi comunemente
considerate l’espressione del “sufismo popolare”, ebbero origine in Asia centrale a partire dal
XVIII sec., con il costituirsi di una corrente chiamata naqshbandiyya-mujaddidiyya a Bukhara che
ebbe notevole diffusione nella regione fino all’inizio del Novecento e che si fondava sulla
rielaborazione del pensiero di Sirhindi e dei suoi epigoni riformatori. Su questo punto cfr. S.
ABASHIN, Le soufisme “populaire” en Asie centrale, in M. LARUELLE - S. PEYROUSE (sous
la direction de), Islam et politique en ex-URSS (Russie d’Europe et Asie centrale), cit., p. 318; P.
SARTORI, Tashkent 1918: giurisperiti musulmani e autorità sovietiche contro i “predicatori del
bazar”, «Annali di Ca’ Foscari», Serie orientale 37, 45, 2006, 3, p. 130, passim.
52
Altrimenti detto “neo-hanbalita” da S.A. DUDOIGNON, Islam d’Europe? Islam d’Asie? En
Eurasie centrale (Russie, Caucase, Asie centrale), in A. FEILLARD (sous la direction de),
L’Islam en Asie, Paris, 2001, p. 49.
51
256
corrente predicavano la purificazione dell’Islam da alcuni costumi religiosi
largamente diffusi tra la popolazione come il pellegrinaggio ai luoghi santi o la
recitazione del Corano accanto ai defunti; al contempo essi accusavano di
“idolatria” (shirk) i “tradizionalisti” hanafiti, inclini invece a preservare tali
costumi. Paradossalmente ciò produsse una convergenza di interessi tra i
rappresentanti della mujaddidiyya, il Sadum e i funzionari sovietici propensi ad
estirpare le pretese sopravvivenze pre-islamiche nella regione. Dall’altro lato,
probabilmente in concomitanza con l’invasione sovietica dell’Afghanistan, alcuni
imam del Ferghana iniziarono a contestare il quietismo politico e
l’accondiscendenza di Hindustani nei confronti delle autorità sovietiche. In
particolare essi sono noti per avere predicato in favore della “guerra santa” (jihād),
che loro consideravano un dovere collettivo della comunità musulmana dell’Asia
centrale, da ottemperare combattendo contro il governo sovietico allo scopo di
costituire uno “stato islamico” (musulmonobod) 53 . Hindustani, che considerava un
favore divino l’attenuazione della repressione religiosa dell’era brezhneviana e
della perestrojka, accusò i suoi detrattori di essere dei “wahhabiti” (in uzbeko
vahhobiy), cioè dei fanatici, argomentando che nel periodo zarista simili
atteggiamenti di manifesta ostilità nei confronti dei russi avevano prodotto esiti
assai infausti per i musulmani 54 .
Ma chi sono i rappresentanti della mujaddidiyya? Colui che oggi viene
considerato la figura di riferimento per il pensiero riformatore della mujaddidiyya
è Hakimjon-Qori, nato nel 1898 e famoso a Margilan per avere insegnato in una
khujra vicino al bazar principale della città. Fuggito col padre a Uzgent, fece
ritorno a Margilan solo nel secondo dopoguerra. Attorno al 1960 si unì al gruppo
di studio di Hindustani, ma senza successo: i due entrarono immediatamente in
conflitto, fatto che condusse all’inevitabile loro divisione. Non si sa quali siano
stati i testi che influenzarono il pensiero di Hakimjon-Qori; si dice che alla base
delle sue sferzanti critiche nei confronti della dottrina hanafita vi sia stata certa
letteratura saudita che entrava in Uzbekistan con i pellegrini di ritorno dalla
Mecca, in particolare testi di Ibn Taymiyya e un commentario (tafsir) al Corano di
53
In evidente continuità con gli ulema di Tashkent perseguitati dalla polizia politica negli anni
trenta.
54
B. BABADJANOV - M. KAMILOV, Muhammadjan Hindustani (1892-1989) and the
Beginning of the “Great Schism” Among the Muslims of Uzbekistan, in S.A. DUDOIGNON - H.
KOMATSU (eds.), Islam in Politics in Russia and Central Asia (Early Eighteenth to Late
Twentieth Centuries), London/New York, 2001, pp. 210-219. Per alcuni anni si è detto che
Hindustani fosse stato il primo a usare il termine “wahhabi” (uzb. “Vahhobiylar”) per designare gli
ulema critici nei confronti dei costumi religiosi locali. Ulteriori studi hanno dimostrato come il
termine fosse già in uso a Tashkent prima del 1917, in specie da Nordikhon Domlo (1899-1975),
un erudito musulmano tashkenita, tra i più anziani fondatori del Sadum nonché incaricato della
redazione delle prime fatwa emesse da tale istituzione. Sull’uso del termine “vahhobiy” s.v. B.
BABADJANOV, Debates over Islam in Contemporary Uzbekistan, cit., pp. 39-60; la biografia di
Nodirkhon-Domlo è reperibile in Islam na territorii byvšej Rossiskoj imperii. Ênciklopedičeskij
slovar’, tom I, Moskva, 2006, s.v. «Nodirchon-domla» [N.R. MIRMAKHMUDOV].
257
Ibn al-Kathir 55 ; ipotesi che, in assenza di suoi scritti e di registrazione dei suoi
sermoni, pare piuttosto concessiva.
Tra i più autorevoli rappresentanti della mujaddidiyya meritano di essere
annoverati Rahmatulloh-Qori Alloma (1950-1981) e Abduvali Qori Mirzoyev
(1952- scomparso all’aeroporto di Tashkent nel 1995, dopo essersi imbarcato su
un volo per Mosca). Il primo, originario di Kokand e studente nella khujra di
Hindustani, fu accusato da quest’ultimo di essere un vahhobiy e ripudiato durante
un pubblico anatema (duoi bad) 56 ; il secondo, nato ad Andijan, fu discepolo di
Hakimjon-Qori a Margilan e per qualche tempo fece parte della khujra di
Hindustani a Dushanbe. Tenendo conto di alcune testimonianze che sono giunte
sino ai nostri giorni, pare che entrambi avessero partecipato a gruppi di studio non
ufficiali organizzati da studenti di scambio egiziani a Tashkent alla fine degli anni
Settanta; inoltre si sostiene fossero particolarmente influenzati dal trattato
sull’unità divina al-Tawhīd del teologo settecentesco hanbalita ‘Abd al-Wahhab e
da due intellettuali fondamentalisti contemporanei, l’egiziano Sayyid Qutb e il
pakistano Abū’l-‘Alā Mawdūdī 57 .
Alla fine degli anni Settanta Rahmatulloh-Qori e Abduvali-Qori polemizzarono
col maestro Hindustani in materia di giurisprudenza islamica. Di qui l’idea dello
studioso uzbeko Bobojonov che tali polemiche abbiano costituito la premessa al
“grande strappo” tra hanafiti tradizionalisti – rappresentati da Hindustani – e i
seguaci dei due suddetti riformisti della mujaddidiyya.
Con l’implosione dell’Urss Abduvali-Qori – nel frattempo divenuto imam presso
la maggiore moschea di Andijan – e i vahhobiy crebbero in numero e
aumentarono la propria influenza. All’inizio degli anni Novanta l’autorità del
primo raggiunse un punto apicale, tanto che sembrò in lizza per il posto di muftì, a
capo del Sadum. Nel 1993 egli sostenne, assieme all’ex muftì Shamsuddin
Bobokhonov, le accuse di corruzione indirizzate a Muhammad Sodiq Muhammad
Yusuf. Tra questi e Abduvali-Qori non correva buon sangue: nel 1990 il muftì
aveva tentato di conciliare le conseguenza dello “scisma” e i ripetuti confronti tra
i gruppi della mujaddiddiyya e i radicali hanafiti.
L’acquisizione dell’indipendenza da parte dell’Uzbekistan, e il consolidamento
della posizione di Islam Karimov alla guida del paese a detrimento dei partiti che
avevano costellato lo scenario politico uzbeko scoraggiarono Abduvali-Qori
dall’esprimere qualsivoglia ambizione politica e dal condannare apertamente
l’attuale regime. Della sua popolarità cresciuta a dismisura tra la comunità dei
fedeli uzbeki restano numerosissime tracce. In larga misura le più importanti sono
costituite da una serie considerevole di registrazioni audio. Queste sono divise in
55
M. BRILL OLCOTT, The Roots of Radical Islam in Central Asia, cit., p. 13.
A. MUMINOV, Theological Schools in Central Asia, in L. JONSON - M. ESENOV (eds.),
Political Islam and Conflict in Russian and Central Asia, Stockholm, 1999, p. 109, nota 14.
57
M. BRILL OLCOTT, The Roots of Radical Islam in Central Asia, cit., p. 14. Su queste due
figure s.v., in italiano, M. CAMPANINI, Il pensiero islamico contemporaneo, Bologna, 2005.
56
258
tre gruppi. Il primo raccoglie le registrazioni di tafsir del Corano; il secondo
lezioni (darslar) e discorsi (nuqtlar, beninteso diversi dai sermoni – khutba)
pronunciati di venerdì in moschea; il terzo è un commento (sharh) agli hadith
raccolti dall’erudito damasceno Nawawi Imam Muhi al-Din Abu Zakariya Yahya
Damashqi (1233-1277) nella celebre opera Riyādh al-Sālihīn 58 . Tutto questo
materiale audio, che si vuole registrato nel 1992 e solo successivamente raccolto e
sistematizzato in Arabia Saudita 59 , è reperibile direttamente sul web, da siti
uzbeki fondamentalisti 60 .
Nelle sue lezioni si individuano immediatamente i temi cari alla mujaddidiyya,
quali, ad esempio, la necessità del recupero della conoscenza dei fondamenti
dell’Islam come le tradizioni del Profeta 61 , e la trattazione dell’idolatria (shirk).
Per avere un esempio di come l’erudito di Andijan fosse solito presentare il
decadimento dello studio degli hadith nell’Asia centrale sovietica, si consideri la
lezione Sulla storia degli hadith e dell’Islam d’Uzbekistan (Hadis va
O’zbekistondagi Islom tarixi haqida) in cui si afferma:
[Per noi] è un vanto che la maggior parte di questi eruditi [muhaddith – i
raccoglitori delle Tradizioni del Profeta] si formarono in questo nostro paese.
Queste collezioni di hadith resteranno la base dell’insegnamento islamico in tutto il
mondo fino al giorno del Giudizio. È proprio un peccato [riconoscere] che, pur
essendo i maestri (ustozlar) degli hadith vissuti qui, negli ultimi tempi questo paese
sia tra quelli meno osservanti. Ciò è vero e non è un caso. Gli acerrimi nemici
dell’Islam hanno voluto in poco tempo sbarazzarsi dei più brillanti maestri prodotti
da questo paese nell’ambito della sharia, individui eccellenti che avevano saputo
scuotere il mondo intero quanto a conoscenze scientifiche. L’effetto è stato notevole.
Al posto degli ulema rimasero vive solo persone comuni; solo quelli che Iddio, sia
lodato e glorificato, fece salvi. Ecco fu questa la ragione per cui alla gente comune
fu impedito di osservare l’Islam vero (haqiqiy Islom). Il risultato di tale grande
pressione fu il divieto nel nostro paese di osservare la sunna e il Libro che sono i
fondamenti del vero Islam (haqiqiy Islomning asosi). I nemici dell’Islam
approfittarono dell’assenza degli ulema per stampare libri stranieri, in turco; il
58
La traduzione uzbeka in caratteri cirillici è stata recentemente ripubblicata, cfr. ABU
ZAKARIYO YAHYO IBN SHARAF NAVAVIY, Riyozus-Solihiyn (Solihlar gulshani), Tashkent
2006.
59
M. BRILL OLCOTT, The Roots of Radical Islam in Central Asia, cit., p. 18.
60
http://www.islomyoli.com/audio/uzbek/Abduwali/default.htm;http://www.islamnuri.com/audio/
index.html; http://muslimuzbekistan.net/uz/special/audio/detail.php?ID=3540. Cinque lezioni
(darslar) di Abduvali-Qori sono reperibili in trascrizione conforme all’attuale alfabeto uzbekolatino e in traduzione inglese in A.J. FRANK - J. MAMATOV (eds.), Uzbek Islamic Debates, cit.,
pp. 9-94.
61
Con tutta probabilità questo costituisce il motivo per cui lo studioso uzbeko Ashirbek Muminov
distingue nella mujaddidiyya due maggiori direttrici, rappresentante dai Ahli Hadis cioè da chi,
come Hakimjon-Qori e Abduvali-Qori, ha insistito sul primato dello studio della sunna rispetto
alla tradizionale letteratura giuridica afferente alla dottrina hanafita, e dai Ahli Qur’on, ovvero da
chi incoraggiava la diretta consultazione del Libro e della sunna rifiutando di riconoscere l’autorità
delle scuole giuridiche (mazhab), cfr. A.J. FRANK - J. MAMATOV (eds.), Uzbek Islamic
Debates, cit., p. xi.
259
risultato è la diffusione di hadith deboli. Orbene fratelli, gli hadith deboli sono una
cosa; ma essi inserirono anche quelli falsi nei nostri libri, cioè tradizioni riguardanti
il Messaggero di Dio (la pace sia su di lui) completamente inventate. Il risultato è
che la nazione (millat) è stata privata dei suoi ulema, gli uomini chiamati a
distinguere gli hadith veri dell’Islam in favore della gente; è stata privata dei suoi
martiri (shahidlar), e le persone che non conoscevano il vero Islam iniziarono a
poco a poco a riportare hadith assolutamente infondati 62 .
Nelle lezioni di Abduvali-Qori riecheggiano spesse volte le accuse di miscredenza
(kufr). Se alcune di queste sono indirizzate verso coloro che in generale
dileggiano l’Islam 63 , altre – quelle più frequenti – sono associate agli idolatri
(mushriklar): «Iddio ha premiato l’uomo con un culto giusto (shar’iy ibodat); il
giorno del Giudizio colui che avrà rifiutato tale culto sarà condannato. Tale [culto]
esige la sottomissione volontaria nella vita a Dio, sia lodato e glorificato. In
questo ambito l’uomo si divide in due gruppi (ikki toyfa). Credenti e miscredenti.
Tra questi ultimi si contano gli idolatri e gli atei (zindiq)» 64 . Secondo AbduvaliQori l’idolatria va distinta in «maggiore e minore» (katta va kichik), ed egli
sostiene che pratiche devozionali quali fare offerte alle tombe dei santi, richiedere
la mediazione di uno shaykh presso lo spirito di un morto 65 , sacrificare animali o
pregare presso le tombe 66 sono azioni che non verranno perdonate. Considerato il
grande attaccamento delle comunità musulmane dell’Asia centrale a tali costumi
religiosi è comprensibile che le posizioni di Abduvali-Qori – per la verità alcune
volte esplicitamente estreme, come la condanna della musica 67 – possano avere
prestato l’occasione per dibattiti e polemiche tra i suoi seguaci e gli hanafiti
radicali, nonché l’attenzione degli apparati di sicurezza governativi uzbeki 68 .
Un’altra figura di riconosciuta autorità intellettuale nella sfera dell’erudizione
islamica in Uzbekistan è Obidkhon-Qori Nazarov (n. 1968), originario di
Namangan. Identificato anch’egli come uno dei rappresentanti eccellenti della
mujaddidiyya essendo stato discepolo di Rahmatulloh Alloma 69 , Obidkhon-Qori
fu incaricato nel 1991 dal Sadum al posto di imam della moschea To’khtaboy di
Tashkent, luogo di preghiera situato a ridosso del mercato centrale (Chorsu
bozori) e frequentato assiduamente dalla comunità musulmana cittadina. La fama
di Obidkhon-Qori crebbe a dismisura tra il 1990 e il 1991 grazie alla conduzione
di programmi televisivi e radiofonici strutturati attorno alla discussione di
62
Cfr. A.J. FRANK - J. MAMATOV (eds.), Uzbek Islamic Debates, cit., pp. 88-92.
Cfr. il discorso Alloh Allohning oyatlari Rasul va uning sunnatlarini maskhara qilishlik kufrdur
[Dileggiare Dio, i suoi versetti, il Profeta e la sua sunna è miscredenza], scaricabile da
http://www.islomyoli.com/audio/uzbek/Abduwali/qo'shimcha.htm.
64
Cfr. A.J. FRANK - J. MAMATOV (eds.), Uzbek Islamic Debates, cit., pp. 10, 35.
65
Ibidem, p. 56
66
Ibidem, p. 79.
67
Ibidem, p. 79.
68
La scomparsa di Abduvali-Qori all’aeroporto di Tashkent nell’agosto del 1995 è ammantata di
mistero. Per un quadro generale della vicenda s.v. HUMAN RIGHTs WATCH, Creating Enemies
of the State. Religious Persecution in Uzbekistan, 2004, pp. 23-24.
69
A.J. FRANK - J. MAMATOV (eds.), Uzbek Islamic Debates, cit., p. 5.
63
260
tematiche religiose. Nel 1996 fu accusato dalla Direzione dei musulmani
dell’Uzbekistan (O’zbekiston Musulmonlar Idorasi) – l’istituzione succeduta al
Sadum nel 1993 che dispone dell’autorità religiosa sul solo territorio uzbeko – per
avere assunto delle posizioni in contrasto con le linee guida sulla predicazione
emanate della Direzione stessa 70 . Obidkhon-Qori fuggì nel marzo del 1998;
accusato in contumacia per gli attentati terroristici del 1999 e considerato ad oggi
uno degli ideologi della pretesa corrente wahhabita (vahhobiylik) in Uzbekistan 71
è tuttora ricercato 72 . Recentemente ha ricevuto lo stato di rifugiato politico dalle
Nazioni Unite e da un paio d’anni vive in Europa 73 .
Benché accomunato ai teorici della mujaddidiyya, il pensiero di Obidkhon-Qori
difficilmente può essere considerato simile a quello di Abduvali-Qori. Anzitutto
va considerato che nelle registrazioni audio delle prediche e delle lezioni del
primo il tema dell’idolatria (shirk) e la conseguente critica diretta ai costumi
religiosi locali occupano uno spazio di gran lunga ridotto rispetto a quello
occupato nei discorsi del secondo. Bisogna poi tenere conto del fatto che la
predicazione di Obidkhon-Qori è in generale più moderata rispetto a quella di
Abduvali-Qori. Così sembra dall’ascolto di una parte considerevole delle
registrazioni dei suoi interventi, in cui egli risponde a delle domande poste
dall’auditorio della moschea dopo il sermone del venerdì. Portiamo qui qualche
esempio per dimostrare come Obidkhon-Qori fosse evidentemente favorevole al
recupero e alla ri-definizione di un’etica islamica (axloq), ma come fosse al
contempo sensibile al rischio che i fedeli percepissero solo il carattere normativo
dei suoi responsi. Interpellato sull’eventualità che una donna debba divorziare da
una marito che si dà alla vodka Obidkhon-Qori risponde:
Ora, la regola … questa è una questione delicata; suggerirti di fare immediatamente
questa o quella cosa non va bene (yaramaydi). Un dottore non prescrive delle cure
senza aver prima esaminato il paziente. […] Il dottore lo esaminerà, gli misurerà la
febbre e farà e misurerà altre cose; gli tasterà il collo, misurerà la pressione del
sangue, e solo allora, su questa base, farà una diagnosi e gli darà delle medicine.
Allo stesso modo, uno non può risolvere qualsiasi problema immediatamente in
modo generico. “Separati! Non lo fare!” Uno non può rispondere in questo modo.
70
HUMAN RIGHTs WATCH, Creating Enemies of the State. Religious Persecution in
Uzbekistan, cit., p. 24. Secondo tale fonte, l’incompatibilità tra la Direzione dei musulmani
dell’Uzbekistan e Obidkhon-Qori Nazarov avrebbe solo fornito un pretesto per il suo
allontanamento dal posto di imam, voluto dalle autorità governative allorquando Obidkhon-Qori,
in odore di elezione all’incarico di muftì, si rifiutò di collaborare con i servizi segreti.
71
Da un comunicato della versione uzbeka di Radio Free Europe/Radio Liberty – Ozodlik Radiosi,
Obidxon qori – Ozodlik radiosi lavhasi-1 (03-04-2006), cfr. http://muslimuzbekistan.net/uz/
special/audio/detail.php?ID=3393.
72
Sulle pareti degli uffici governativi la sua foto segnaletica figura tra quelle dei ricercati dalla
Direzione generale del ministero degli Affari Interni della città di Tashkent per reati contro la
Costituzione della Repubblica d’Uzbekistan (Toshkent shahar Ichki ishlar Bosh Boshqarmasi
tomonidan O’zbekiston Respublikasi Konstitutsiyaviy tuzumiga qarshi qaratilgan jinoyatlarni
sodir etganlar qidirilmoda).
73
http://uzbek.ferghana.ru/article.php?id=311.
261
Perciò ognuno deve osservare la situazione, considerare le circostanze; essere cauto.
Quello che chiamiamo “separazione” è una brutta cosa. È l’ultima cosa da farsi 74 .
Interrogato sulla possibilità che siano uomini a lavorare nei reparti di maternità
degli ospedali l’imam risponde:
È lecito se necessario; si dice che è permesso. Fondamentalmente sono gli uomini a
dover curare gli uomini e così le donne dovrebbero prestare cura alle donne. Ciò
vale anche per i dottori; ma se le circostanze lo impongono gli uomini possono
prendersi cura delle donne e il contrario 75 .
La questione dell’obbligatorietà del velo viene discussa da Obidkhon-Qori in
modo del tutto particolare, dimostrando di prestare attenzione non solo ai principi
fondamentali che devono orientare il comportamento dei musulmani, ma anche
alla contingenza sociale che caratterizza la vita del fedele. In questo modo si
spiegano le opinioni conciliatorie espresse dall’imam sulla liceità per le donne di
un hijāb nero:
Uno ha il diritto di vestire ciò che vuole; noi non stiamo dicendo nulla a coloro che
si oppongono al velo! In linea di massima essere contrari al velo è cosa contraria
anche all’Islam. Intendo andare in giro scoperti. Vanno in giro vestite in questo o
quest’altro modo; non una cosa si dice in proposito. Perché devono godere di tale
diritto? Hanno il diritto di andare in giro mezze nude, vestite di giallo, di rosso o
piene di gioielli; perché dunque una non dovrebbe avere il diritto di vestirsi di nero?
Questa è incoscienza, è un’ingiustizia. Orbene fratelli, non va bene. Voi occupate lo
stesso mondo che occupano gli altri; che lo vogliate o no. Ora [ci] dovete tollerare,
almeno un po’. E noi tollereremo voi. Le osserviamo camminare mezze nude per le
strade; e se ne vanno in giro come se si stessero mostrando al bazar; camminiamo
accanto a quelli che vendono vodka senza proferir parola. Insomma loro fanno ogni
sorta di cosa e noi non diciamo niente: stiamo in silenzio, pazienti, tolleranti; ma
siate anche voi tolleranti! Se voi diventerete intolleranti, allora non noi, bensì
qualcuno da qualche altro paese risponderà a tale forma di intolleranza; che Dio ce
ne scampi! Non è necessario. Quindi la buona condotta (yaxshi yo’l) va bene;
predicare va bene; spiegare va bene; [quindi] se [qualcosa] non dovesse piacervi,
spiegatelo con belle parole, dite che non vi piace. Tuttavia se non dovessero piacere,
la risposta è chiara: “ora non mi sta bene quello che fate voi”. Cosa farai? Io non ho
intenzione di combattere contro di voi. Se non ti sta bene che io mi vesta di nero,
allora nemmeno a me piace che tu vada in giro mezza nuda. Questa è la natura delle
cose; il mondo è vario. Anzi, al mondo si trovano pietanze per tutti i gusti. […]
Perciò di per sé non è giusto dire che il velo nero non va bene, che bisogna fare
74
Cfr.
Savollarga
javoblar
in
http://www.islamnuri.com/audio/index.html;
http://www.islomyoli.com/audio/uzbek/Obid/aralash.htm; A.J. FRANK - J. MAMATOV (eds.),
Uzbek Islamic Debates, cit., pp. 131-132; 152-153.
75
Cfr.
Savollarga
javoblar
in
http://www.islamnuri.com/audio/index.html;
http://www.islomyoli.com/audio/uzbek/Obid/aralash.htm; A.J. FRANK - J. MAMATOV (eds.),
Uzbek Islamic Debates, cit., pp. 137; 158.
262
questa o quest’altra cosa. Ci si metta quel che si vuole: l’uomo è libero; è venuto al
mondo libero; che viva libero l’uomo e si vesta come vuole 76 .
Gli intellettuali e le figure d’autorità religiosa – ufficiale e non – vicini ai circoli
della mujaddidiyya sono spesso accusati, non solo dalle autorità governative ma
anche dalle gente comune, di essere dei wahhabiti. Come è già stato detto tale
termine fu inizialmente usato da Hindustani per accusare alcuni suoi studenti di
rigorismo e di opinioni divergenti da quelle della consolidata tradizione hanafita.
Una testimonianza dell’utilizzo pretestuoso del termine “wahhabita” per reprimere
moschee e imam non ossequiosi nei confronti del governo viene da ObidkhonQori. In una pubblica audizione – la relativa registrazione pare sia del ’92 –
l’imam sostenne che:
il termine vahhobiy si incontra presso tra chi, attaccandosi alla propria scuola
giuridica, anche a quello hanafita, intende diffamare chi opera in modo conforme
alla sharia e chi a volte vive in stretto accordo con la religione. Ciò avviene, però,
soprattutto per incoscienza e ingiustizia 77 .
In seguito, dai primi anni Novanta in poi, vahhobiy fu assunto nel linguaggio delle
autorità politiche uzbeke per caratterizzare negativamente i movimenti e i gruppi
islamisti che mostrarono di nutrire aspirazioni politiche ed elaborare programmi
alternativi a quelli degli attuali regimi. È il caso, ad esempio, di un gruppo
chiamato Islom lashkarlari (Milizie dell’Islam), che in pratica costituì un’agenzia
di vigilantes nella città di Namangan. La sua base era localizzata nella moschea
Otavalixon To’ra, il cui imam, Abdulahat, era stato studente di Rahmatulla
Alloma, uno dei più feroci oppositori di Hindustani. Il gruppo venne
immediatamente identificato dal Sadum come vahhobiy e accusato di avere
legami economici con i Sauditi.
6. Uno sguardo alla predicazione e all’Islam online
6.1
In moschea
Frequentare oggi una moschea a Tashkent significa anzitutto osservare la
progressiva riappropriazione della dimensione pubblica del “sacro” da parte delle
varie componenti della società musulmana. Non raramente si incontrano in
moschea persone adulte contente di potere esprimere apertamente la propria
devozione in pubblico, senza i timori e le inquietudini che in epoca sovietica tale
esibizione portava con sé; dall’inizio degli anni Novanta le moschee uzbeke non
76
Cfr.
Savollarga
javoblar
in
http://www.islamnuri.com/audio/index.html;
http://www.islomyoli.com/audio/uzbek/Obid/aralash.htm; A.J. FRANK - J. MAMATOV (eds.),
Uzbek Islamic Debates, cit., pp. 136-137; 157-158.
77
Cfr.
Savollarga
javoblar
in
http://www.islamnuri.com/audio/index.html;
http://www.islomyoli.com/audio/uzbek/Obid/aralash.htm; A.J. FRANK - J. MAMATOV (eds.),
Uzbek Islamic Debates, cit., pp. 142, 164.
263
hanno conosciuto solo dispute islamologiche e la repressione degli apparati
governativi; esse hanno anche testimoniato il complesso processo di
ricomposizione della società musulmana, diventando il luogo dedicato alle
riconciliazioni famigliari, al recupero della coesione nella sfera del simbolico da
parte del gruppo.
Certo, non deve essere dimenticato che la predicazione nelle moschee registrate
esprime il pensiero di un’autorità religiosa ufficiale – l’Ufficio dei musulmani
dell’Uzbekistan – che, a sua volta, risponde alle istanze e alle sollecitazioni del
Comitato per gli affari religiosi – un organo di controllo istituito presso il
Consiglio dei ministri. In questo modo i contenuti della predicazione sono
inevitabilmente influenzati, per non dire suggeriti, dalle autorità religiose. Fatto
che, per ovvie ragioni, non sempre suscita approvazione nell’auditorium delle
moschee uzbeke. Tuttavia, sarebbe assai riduttivo affermare che gli imam in
Uzbekistan fungono da portavoce del governo nelle moschee; essi, oltre a tenere
conto delle indicazioni che vengono dall’alto, sono chiamati dalla popolazione
della moschea a svolgere più di una funzione: “predicare il bene e proibire il
male”, a definire un’etica esemplare, e a offrire consolazione a chi la chiede.
Quindi essi rispondono del proprio operato tanto al governo quanto ai fedeli.
Annoverato tra i più apprezzati giovani imam della parte antica, a stragrande
maggioranza musulmana, di Tashkent è Isohjon Domlo. Nato ad Andijan e
formatosi a Tashkent, dopo brevi esperienze di studio nel Medio Oriente arabo,
Isohjon Domlo è stato assegnato al posto di imam della moschea To’khtaboy. Lì,
data la grande frequentazione, capita sovente che durante la preghiera di
mezzogiorno (peshin) i fedeli debbano prendere posto sui marciapiedi, lungo la
strada, perché non c’è posto all’interno. I ristoranti vicino alla moschea
rimangono chiusi al pubblico durante la preghiera; di norma lì si servono solo
pietanze permesse (halol), non si bevono alcolici né si può fumare.
Isohjon Domlo è giovane, ha trentacinque anni, e le sue prediche, spesso urlate,
sono particolarmente apprezzate dai giovani; si esprime nel dialetto uzbeko di
Tashkent sottolineando la corretta pronuncia dei termini di origine araba,
fenomeno comune a molti giovani imam uzbeki. I suoi sermoni del venerdì
vengono regolarmente registrati in audiocassette e rivenduti, assieme ad altri,
davanti alla moschea. Tra quelle che abbiamo raccolto 78 due ci sono parse
particolarmente interessanti. Esse contengono due sermoni, il primo registrato il 3
marzo 2006, il secondo l’11 agosto dello stesso anno. Proprio quest’ultimo è stato
letto in preparazione alla festa dell’indipendenza (mustaqillik) dell’Uzbekistan (1
settembre). Ne riportiamo qui un brano:
Certo è possibile che molti si sentano in qualche modo offesi quando noi diciamo
che la libertà è un favore divino. E certamente è anche possibile che molti abbiano
pensato male quando abbiamo detto che avremmo discusso del tema
dell’indipendenza, dicendo che questa è un’eccelsa manna. Però colui che è
78
Quattro registrazioni che vanno da marzo a settembre 2006.
264
provvisto di vera fede e che ha completamente appreso le nozioni sciaraitiche mai
potrà disprezzare l’indipendenza, né potrà mai disprezzare la libertà (ammo haqiqiy
chin e’tiqod bilan shar’i ma’lumotlar to’liq urganib chikkan ilmli-ma’rifatli inson
hech qachon mustaqillikni qoralaolmaydi hech qachon ozodlik hurriyatni
qoralaolmaydi). Perciò [va considerato che] uno dei primi comandi introdotti dalla
religione islamica è stato l’annientamento della schiavitù; nella religione islamica si
è iniziato a curarsi della schiavitù e a combattere i suoi regimi in modo tale che
secondo la nostra legge liberare uno schiavo è un modo per espiare i peccati. Ad
esempio, se un signore insulta il proprio schiavo oppure lo colpisce di proprio
pugno, la sharia ha disposto che la pena corrispondente deve essere la liberazione
dello schiavo. Forse questo testimonierà in favore del contributo dell’eccelsa sharia
alla libertà e alla condizione di indipendenza di ogni uomo. Se voi rompete il
digiuno di proposito, dovreste liberare uno schiavo; anche se commettete atti impuri
dovreste dare la libertà a uno schiavo; insomma detto in breve secondo la nostra
legge la maggior parte delle colpe si espia proprio dando la libertà a uno schiavo; e
se la sharia ha imposto di riconoscere a una persona che è schiava il diritto alla
libertà, allora considereremo un favore divino il fatto che ogni uomo possa godere
del diritto di una vita libera, indipendente. […] È anche possibile che tra di noi
siano sedute persone – molte delle quali fanatiche o [influenzate] da erronee
convinzioni – che danno da intendere che l’indipendenza non sia un favore divino,
bensì una sventura che ci è finita sulla testa. Ecco a queste persone noi ripetiamo
che è Dio che fa questa grazia e che se noi non pregheremo soltanto Iddio, allora
egli ci toglierà di mano questo favore e ci priverà della grazia della libertà; […]
Adesso dobbiamo capire che, Dio volendo, noi possiamo starcene qui in moschea a
pregare in libertà grazie a questa indipendenza. Questo non è l’elogio di una
qualche personalità, né di un certo regime: dobbiamo intendere correttamente che
ciò è [l’applicazione di] un vero comando sciaraitico (bu haqiqiy shar’iy bir hukm
ekanligini to’g’ri tushunub yetishimiz kerak). Se in seguito all’indipendenza sono
occorse alcune situazioni negative, non è colpa questa dell’indipendenza, divino
favore; dovete invece capire che semmai è colpa di qualcuno.
L’obiettivo di questo sermone è evidente: presentare “l’indipendenza” come una
cosa “giusta” dal punto di vista islamico in ossequio a direttive che con tutta
probabilità vengono dall’alto, dalle autorità governative, e in modo conforme alle
indicazioni che, sul tema, provengono dall’Ufficio dei musulmani
dell’Uzbekistan. Insomma si tratta di un sermone letto “su richiesta” (po zakazu).
Rispetto a questo, il sermone sul tema delle «malevoli innovazioni e delle
superstizioni che hanno danneggiato la fede islamica» (sof islomiy e’tiqodni har
xil bid’atu xurofotlar wa islomi i’tiqodga zarar qiltirilgan aziatlar) offre lo spazio
a ulteriori osservazioni. In questo caso l’imam identifica la superstizione con
l’attività di astrologi (folbin; munajjim) e di predicatori semi-analfabeti (chalasavod duokashlar). Contro tali figure, peraltro tuttora assai diffuse nella regione,
Isohjon-Domlo lancia il proprio anatema. Il sermone inizia mettendo in guardia i
fedeli che si tratta di attività esistenti alla Mecca ai tempi degli idolatri arabi (arab
mushriklar), prima del Profeta; indi procede sostenendo che la rivelazione
islamica e l’insegnamento di Maometto hanno portato una cura (muolaja) per il
malanno procurato dalle suddette superstizioni; infine Isohjon-Domlo chiude con
265
una considerazione sull’epoca attuale, osservando che nel XXI secolo non si fa
nulla se non consultando gli oroscopi. Per l’imam questo è un segno di
inequivocabile ritorno all’epoca dell’ignoranza (johiliyyat), cioè all’epoca
precedente alla rivelazione islamica.
Questo sermone rende più complessa l’interpretazione del pensiero di IsohjonDomlo e la sua eventuale collocazione nella storia dell’autorità religiosa in
Uzbekistan. Si tenga presente che in Asia centrale tutte le pratiche legate alla
divinazione, all’esorcismo, alla guarigione dal malocchio o dalla possessione
degli spiriti – appunto materia di individui chiamati folbin/tabib, è stata
fortemente contrastata in epoca sovietica dalla propaganda ateista, dagli ulema
ufficiali e da quelli della mujaddidiyya. Con l’indipendenza e il consolidamento
del processo di re-islamizzazione iniziato con la perestrojka tali attività hanno
conosciuto una riscoperta – si dice anche – favorita dal recupero delle svariate
rappresentazioni del folklore considerate parti integranti dell’eredità culturale
nazionale 79 . Ciò considerato, parrebbe che Isohjon-Domlo fosse – beninteso
limitatamente a questo tema – vicino alle opinioni di chi in passato contrastava le
superstizioni religiose, cioè i cosiddetti “fondamentalisti”, rappresentati da alcuni
ulema del Sadum e da quelli della mujaddidiyya ferghanese.
6.2
Giurista in internet
Una delle novità nell’attuale panorama islamico d’Uzbekistan è la presenza a
Tashkent di Shaykh Muhammad Sodiq Muhammad Yusuf e la crescente influenza
che in tutta evidenza egli esercita in seno alla comunità nazionale musulmana.
Ritornato in patria dopo un volontario esilio durato più di otto anni – nel 1993
andò in Libia a causa delle crescenti pressioni da parte governativa –, egli non
occupa una posizione all’interno dell’Ufficio dei musulmani dell’Uzbekistan. Egli
non fa parte ufficialmente dell’establishment religioso, ma è unanimemente
considerato il più autorevole rappresentante dell’Islam d’Uzbekistan 80 .
Il ritorno dell’ex muftì non sembra però casuale, bensì fortemente favorito dal
governo. Oggi infatti l’assoluto assoggettamento dell’Ufficio dei musulmani
dell’Uzbekistan all’apparato governativo costituisce un fattore che contribuisce
fortemente ad aumentare insofferenza e indifferenza verso l’operato del muftì e
dei suoi collaboratori. A questo si aggiunga che è asseverato il valore puramente
amministrativo della loro produzione giuridica che non riesce a riattivare in alcun
79
Per uno studio in proposito esemplare s.v. K. KEHL-BODROGI, Religiöse Heilung und Heiler
in Choresm, Uzbekistan, «Max Planck Institute for Social Anthropology Working Papers» n. 73,
2005, scaricabile dal sito http://www.eth.mpg.de/pubs/wps/pdf/mpi-eth-working-paper-0073.pdf.
80
Per uno studio preliminare su Muhammad Sodiq, apparentemente troppo incline a considerare il
supporto di questi a Karimov, s.v. E.M. McGLINCHEY, Islamic Leaders in Uzbekistan, in «Asia
Policy», January 2006, 1, pp. 134-140.
266
modo un dibattito religioso capace di coinvolgere “l’opinione pubblica” 81 . Inoltre
i fedeli, allorquando interpellati sulle figure che rappresentano l’Ufficio dei
musulmani dell’Uzbekistan, non esitano a discutere il profilo intellettuale degli
ultimi due muftì. Il timore che un malcontento strisciante potesse in qualche modo
favorire la coagulazione di un consenso attorno a nuove figure d’autorità religiosa
apertamente critiche nei confronti del governo uzbeko non deve essere stato un
elemento secondario nella valutazione che presso le alte sfere governative ha
favorito il rientro di Muhammad Sodiq. In cambio il governo ne trae un
consistente vantaggio. Si tenga anzitutto presente che Muhammad Sodiq
Muhammad Yusuf rappresenta agli occhi della popolazione musulmana una
figura religiosa di conclamata erudizione, la cui autorità nel campo delle scienze
islamiche viene riconosciuta e apprezzata da diversi gruppi della popolazione. Più
e più volte, almeno a Tashkent, il nostro interesse per Muhammad Sodiq
Muhammad Yusuf è stato accolto da un moto di emozione e dall’approvazione da
parte della gente. Proprio in virtù di tale popolarità, l’ex muftì viene impiegato dal
governo per calmierare il crescente bisogno di manifestazione del religioso nella
sfera pubblica. Non si spiega altrimenti come i suoi scritti – beninteso tutti
pubblicati con il permesso del Comitato per gli affari religiosi 82 , quindi con
l’approvazione del governo – siano reperibili quasi ovunque, nei grandi magazzini,
per strada di fronte alla moschea; sorprendentemente, benché apparentemente si
tratti di cultura alta, la gente comune consuma le opere di Muhammad Sodiq
Muhammad Yusuf, soprattutto quelle dedicate alla giurisprudenza. Va
letteralmente a ruba una serie di libretti intitolati Zikr Ahlidan So’rang
(Chiedetelo ai sapienti), in cui si pubblicano i responsi di Muhammad Sodiq a
svariate questioni di giurisprudenza.
Benché si tratti di un fenomeno assai limitato, che dipende cioè da un pubblico
perlopiù giovane e ristretto agli individui che hanno la disponibilità economica di
accedere a internet, la popolarità dell’attività di giurisperito di Muhammad Sodiq
si coglie immediatamente consultando il web. Dal 2004 egli effettivamente svolge
la funzione di giurista gestendo una pagina di “domande e risposte”, oggi
chiamata Zikr ahlidan so’rash … Shaykh Muhammad Sodiq Muhammad Yusuf
savol-javoblari sahifasi, all’interno di una sezione di un sito internet uzbeko
dedicato a vari forum sull’Islam 83 .
Le questioni cui Muhammad Soqid è chiamato a rispondere sono di varia natura.
La maggior parte rappresenta eloquentemente le dinamiche della re81
B. BABADJANOV, Islam officiel contre Islam politique en Ouzbékistan aujourd’hui, cit., p.
163.
82
Sui libri e i cd che contengono le sue opere si legge: O’zbekiston Republikasi Vazirlar
Mahkamasi huzuridagi Din ishlari qo’mitasi […] chop etildi.
83
http://forum.islom.uz/smf/index.php. La sezione dedicata alle fatwa è stata strutturata all’interno
di questo sito solo attorno alla fine dello scorso dicembre. Prima Shaykh Muhammad Soqid
Muhammad Yusuf svolgeva la stessa funzione all’interno del portale islamico
http://www.islam.uz, oggi versione russa di http://www.islom.uz.
267
islamizzazione della società uzbeka. Infatti sono numerose le questioni relative
alla corretta esecuzione di un rituale (ibodat) quale l’abluzione o la preghiera, e
che dimostrano come una conoscenza ancora approssimativa dell’Islam sia tuttora
diffusa tra i giovani musulmani utenti della rete; fatto che non scoraggia
Muhammad Sodiq a prodigarsi in consigli e a esortare alla lettura dei testi
necessari ad approfondire la conoscenza in materia.
Spesso si è indotti a pensare alla re-islamizzazione come un fenomeno che
caratterizza precipuamente la vita spirituale di chi “consuma” cultura islamica,
vale a dire dei fedeli. La re-islamizzazione, invece, coinvolge anche
l’establishment religioso, cioè chi è ufficialmente incaricato di ri-produrre e di
diffondere la cultura islamica. Capita sovente, infatti, che a Muhammad Sodiq
venga chiesto quali debbano essere le qualità di un buon imam 84 , visto che quelle
dell’individuo che guida la preghiera nella moschea del quartiere o del villaggio
lasciano un po’ a desiderare. Con tutta probabilità, a distanza di tempo dal crollo
dell’Urss e dell’entusiastica riscoperta del religioso, non è diminuito il numero di
mullā autodidatti, spesso persone cresciute nelle scuole sovietiche e che, dopo
l’indipendenza dell’Uzbekistan, hanno recuperato un’identità islamica solo
formale 85 . Similmente compaiono questioni che toccano ancora la religiosità
popolare, le cui pratiche, come già si è detto, restano ancora particolarmente
legata a figure religiose di dubbia formazione, per le quali Muhammad Sodiq
dimostra di nutrire insofferenza: «L’individuo che lei chiama domla, maestro non
è. […]. Quello che fa non è giusto»86 .
Numerosissime restano le questioni attorno alla liceità sciaraitica di certi
comportamenti come, ad esempio, sedersi a una tavola imbandita in cui trovano
posto bevande alcoliche 87 , oppure dedicarsi all’allevamento di maiali che saranno
venduti a non musulmani 88 . Questioni solo apparentemente banali che indicano,
invece, quanto duraturi sono gli effetti della russificazione: come cent’anni fa 89 ,
durante l’epoca zarista, così ancora oggi l’allevamento del maiale – in verità
perlopiù gestito dalla minoranza coreana – e l’utilizzo di prodotti suoi
84
MUHAMMADBOBUR, Kimlar? Imom bulishga haqqli?, 15 febbraio 2007,
http://forum.islom.uz/smf/index.php?topic=3855.0.
85
B.-M. PETRIC, Pouvoir, don et réseaux en Ouzbékistan post-soviétique, Paris, 2002, pp. 227229.
86
Sheruz, Hozirgi kundagi domlalarning jamiyatdagi o’rni, 26 dicembre 2006,
http://forum.islom.uz/smf/index.php?topic=3225.0.
87
Dasturxonda
turli
spiritli
ichimliklar
bor
edi,
13
gennaio
2007,
http://islom.uz/index.php?option=com_content&task=view&id=62&Itemid=36.
88
ABU MUSLIM, Cho’chqani g’ayridinlarga sotsa bo’ladimi?, 8 gennaio 2005; ABDULAZIZ,
G’ayridinga cho’chqa yetishtirib sotsa bo’ladimi?, 10 gennaio 2005, http://www.islam.uz/fatvo/,
visitato il 28 novembre 2006.
89
Per un raffronto s.v. P. SARTORI, Note sui tribunali islamici nel Turkestan russo (1865-1918),
in G. GIRAUDO - A. PAVAN (a cura di), Atti del convegno “Integrazione, assimilazione,
esclusione e reazione etnica” del Centro di studi balcanici (Cesbi) e dell’Associazione per lo
Studio in Italia dell’Asia centrale e del Caucaso (asiac), Università di Ca’ Foscari, Venezia (22-26
novembre 2006), Napoli, 2007, i.c.s.
268
succedanei 90 costituiscono un’ossessione per il musulmano che ha a cuore un
comportamento conforme alle prescrizioni islamiche. Accanto a queste assumono
particolare rilevanza le questioni sull’elemosina rituale (zakot) 91 , sull’istituzione
di fondazioni pie (vaqf) e sulla possibilità di eseguire transazioni attraverso istituti
di credito islamici, comportamenti impensabili in epoca sovietica e che oggi
diventano la principale fonte di sussistenza laddove spadroneggia il neopatrimonialismo dei gruppi di potere.
Da una panoramica delle questioni prospettate a Muhammad Sodiq emerge in
tutta evidenza un dato: la cultura islamica che oggi caratterizza la società uzbeka
non è solo espressione di una cultura periferica, relegata tra i confini della regione
centroasiatica. Al persistere di fenomeni come il pagamento del mahr, il prezzo
della sposa – pratica tradizionale che, come l’uso del velo, fu fortemente
contrastata all’inizio del periodo sovietico per promuovere spesso con la forza
l’emancipazione femminile 92 –, si intrecciano le storie di famiglie travagliate da
conversioni alle chiese cristiane 93 – fenomeno da non sottovalutare in Asia
centrale. Parimenti contribuiscono alla definizione di Islam uzbeko anche le
esperienze che pervengono dall’emigrazione, nonché dalle rappresentazioni che
dell’Islam si danno a livello globale. Se, da un lato, Muhammad Sodiq è chiamato
a rassicurare l’Uzbeko della diaspora preoccupato dall’impurità dei piatti della
mensa usati dai colleghi non musulmani 94 , dall’altro, nulla oggi ostacola il
musulmano uzbeko a sentirsi parte dell’ecumene islamica e a sollecitare
Muhammad Sodiq a esprimere indignazione per l’esecuzione di Saddam Hussein
avvenuta in coincidenza con la celebrazione della “festa del sacrificio” 95 .
Nel gennaio del 2005 un tale da Margilan pose a Muhammad Sodiq le seguenti
questioni:
Mi meraviglia una cosa, ovvero che ultimamente siano aumentate fatwa di vario
tipo; nulla di male se ce ne sono tante, ma cosa fare se una contraddice l’altra? Di
chi sono le fatwa che vanno osservate? Chi ha il diritto di emettere una fatwa? Se
alcune fatwa sono in contraddizione l’una con l’altra cosa dobbiamo fare?.
90
FARHOD,
Cho’chqa
terisidan
ishlangan
qiyimlar,
15
dicembre
2004,
http://www.islam.uz/fatvo/, visitato il 28 novembre 2006.
91
QORAKA,
Sadaqai
Joriya
yoki
Zakot?,
3
febbraio
2007,
http://forum.islom.uz/smf/index.php?topic=3673.0. Per farsi un’idea sulla rilevanza dell’elemosina
rituale nell’ambito rurale s.v. H. FATHI, Islamisme et pauvreté dans le monde rural de l’Asie
centrale post-soviétique. Vers un espace de solidarité islamique?, «Documents du programme de
l’UNRISD, Société civile et mouvements sociaux», novembre 2004, 14, pp. 26-30.
92
R.M. SANJAR, Mahr haqida, 9 febbraio 2007, http://forum.islom.uz/smf/index.php?topic=
3762.0.
93
JAFAR, Oli imron surasi 55 oyat, 15 febbraio 2007, http://forum.islom.uz/smf/index.php?
topic=3810.0.
94
ANSORIY, Halol yoki harom?, 12 febbraio 2007, http://forum.islom.uz/smf/index.php?topic=
3798.0.
95
HANIF, Saddam qatli haqida, 16 gennaio 2007, http://forum.islom.uz/smf/index.php?topic=
3289.0.
269
L’ex mufti rispose anzitutto che di norma si chiede una fatwa a una persona
sapiente, devota e giusta (ilmli, taqvoli va adolatli kishi); nel caso in cui più
persone corrispondessero a tale profilo – continuava la risposta del giurista – nulla
vieta il richiedente di rivolgersi a chi meglio crede 96 .
Se fosse così come sostiene Muhammad Sodiq, allora che rimarrebbe dell’autorità
dell’Ufficio dei musulmani dell’Uzbekistan? La possibilità di interpellare
direttamente una qualsiasi figura autorevole nell’ambito della giurisprudenza
islamica, di conclamata devozione e di comprovata giustizia, ma che non fosse
assoggettata al governo uzbeko, farebbe di quest’ultima un’effettiva alternativa
all’Ufficio dei musulmani dell’Uzbekistan, il cui capo/muftì, come si è detto, è
per legge l’unico individuo a godere dell’autorità necessaria ad emettere delle
fatwa. Muhammad Sodiq costituisce dunque un’alternativa all’odierno mufti?
Solo apparentemente. Per ora Muhammad Sodiq si limita a rappresentare un
pensiero islamico moderato e fortemente critico delle alternative politiche
islamiste 97 e del radicalismo 98 così come piace al governo e, in sostanza, in modo
non diverso da quello dell’Ufficio dei musulmani. A questo si aggiunga che il
servizio svolto sul web da Muhammad Sodiq propone un Islam secolarizzato e
saldamente ancorato alla tradizione e all’eredità (meros); fattori che in Uzbekistan
contribuiscono a mantenere l’Islam come un elemento caratteristico della cultura
nazionale 99 . Al contempo, però, la diffusa accessibilità del web nonché
l’immediata funzionalità di forum e siti costruiti sulla formula dialogica
“domanda-risposta” (savol-javoblar) veicola una definizione dell’identità islamica
in modo diverso da come ciò avviene nella madrasa, nella moschea o all’interno
della comunità di quartiere. Non solo il web esalta l’esperienza religiosa
individuale a sfavore di quella collettiva 100 , ma tende necessariamente anche a
ridurre la cultura islamica a un sistema normativo, nonché a promuovere una
conoscenza della dottrina basata quasi esclusivamente sulla distinzione tra ciò che
è lecito e ciò che non lo è.
96
MARG’ILONIY, Kimning fatvosiga…, 6 gennaio 2005, http://www.islam.uz/fatvo/, visitato il
28 novembre 2006.
97
Cfr. le critiche recentemente mosse all’Hizb ut-Tahrir in SHAYKH MUHAMMAD SODIQ
MUHAMMAD YUSUF, Din nasihatdir, Tashkent, 2006, pp. 50-94.
98
Cfr. SHAYKH MUHAMMAD SODIQ MUHAMMAD YUSUF, Vasatiya – hayot yo’li,
Tashkent, 2006, in specie i capitoli che biasimano le accuse di miscredenza e il terrorismo, pp.
227-230; 226-275.
99
Sul tema s.v. A. KHALID, A Secular Islam: Nation, State, and Religion in Uzbekistan, in
«International Journal of Middle Eastern Studies», 35, 2003, p. 579; S.A. DUDOIGNON,
Djadidisme, Mirasisme, Islamisme, in Le réformisme musulman en Asie Centrale: du «primier
renouveau» à la soviétization, 1788-1937, in «Cahiers du Monde Russe», 37, 1996, 1-2, pp. 13 e
14.
100
Come descritto da O. ROY, Globalized Islam. The Search for a New Ummah, New York, 2004,
pp. 183-184.
270
7. Conclusioni
Il frequente ricorso al termine haqiqiy (“vero, genuino”) che riecheggia dai media
e per strada – risuonano spesso espressioni quali “vera fede”, “vero credente” e
“vero Islam” (haqiqiy imon, haqiqy mo’min, haqiqiy islom) – uniforma – e in
larga misura anche appiattisce – i discorsi che, a vario livello, si elaborano
sull’Islam in Uzbekistan. Senza dubbio tale fenomeno testimonia, ancora una
volta, come l’Uzbekistan sia uno spazio in cui è in atto una contesa per la
definizione dell’Islam fra attori molto diversi. Se un secolo fa la definizione del
capitale culturale islamico era l’esclusivo oggetto del contendere degli ambienti
intellettuali e dei gruppi che dominavano la riproduzione del sapere, oggi
reclamano il diritto di rappresentare l’Islam il governo, i rappresentanti dell’Islam
ufficiale, le figure d’autorità religiose che stanno al di fuori dell’Ufficio dei
musulmani e la stessa comunità dei fedeli. Tali attori si proclamano – beninteso a
diverso titolo – difensori dei comuni fondamenti dell’Islam nazionale: la dottrina
hanafita con la sua tradizione giuridica, la cultura del misticismo, le pratiche
devozionali e i costumi religiosi popolari. Fatto che inevitabilmente porta ad
occasionali dispute sulla conformità o meno di una certa idea alla tradizione e
causa la divisione della comunità dei fedeli tra “tradizionalisti” e
“fondamentalisti/wahhabiti”.
Ciò avviene perché, secolarizzazione e nazionalizzazione a parte, l’esperienza
sovietica sembra avere lasciato in eredità un complesso di inferiorità nei confronti
dell’Islam arabo, percepito come affidabile interprete del messaggio divino, ma anche
una diffusa insofferenza per ciò che potrebbe in qualche modo inquinare la genuinità
dei prodotti tipici. Non meravigli dunque se in Uzbekistan basta un libro di un
qualche autore arabo – non fa poi tanta differenza che sia un razionalista alla
Muhammad ‘Abduh o un fondamentalista alla Sayyid Qutb - per essere accusati di
sostenere l’Islam politico 101 , mentre la gente comune continua ad andare in moschea
dove, tra le altre cose, si ripropone il pensiero dei tele-predicatori arabi come Amr
Khaled102 o frequenta i siti islamici ufficiali uzbeki per conoscere le opere di Yusuf
al-Qaradhawi103 - famoso giurista nonché rettore dell’università islamica del Qatar –
tradotte in uzbeko da Shaykh Muhammad Sodiq Muhammad Yusuf104 .
101
Cfr. B. BABADJANOV - M. BRILL OLCOTT, Sécularisme et Islam politique en Asie
centrale, in M. LARUELLE - S. PEYROUSE (sous la direction de), Islam et politique en ex-URSS
(Russie d’Europe et Asie centrale), cit., p. 329.
102
Dal sermone Gunohdan saqlanish (Preservare dal peccato) pronunciato da Yorqinjon-Qori,
imam della moschea Balandmasjid di Tashkent, disponibile in audio-cassetta e scaricabile anche
da http://www.uzislam.com/forum/index.php?topic=1830.msg%25msg_id%25. Per un recente
approfondimento sulla figura di Amr Khaled in italiano s.v. S. SHAPIRO, Il volto dell’islam, in
«Internazionale», 22 giugno 2006, 12, pp. 30-37; E. MARIANI, Dal Corano al web. La carriera
mediatica di Amru Khaled, in «Meridiana», 52, 2005, pp. 117-138.
103
http://forum.islom.uz/smf/index.php?topic=1839.msg21842#msg21842.
104
Si tratta del testo Islomda halol va harom (Lecito e illecito nell’Islam) scaricabile dal sito
http://www.islom.uz.
271
LE RISORSE ENERGETICHE E LE ECONOMIE CENTROASIATICHE
Silvia Tosi
Introduzione
La regione centroasiatica si è imposta negli ultimi anni all’attenzione
internazionale grazie alla crescente importanza strategica da essa rivestita
nell’ambito di quella che spesso viene definita come una “riedizione” del Grande
Gioco che nel corso del XIX secolo ha visto confrontarsi la Russia zarista e la
Gran Bretagna imperiale. All’inizio del XXI secolo, la posta in gioco in questa
partita è costituita in buona misura dalla possibilità di accedere ai vasti giacimenti
di idrocarburi di cui alcuni paesi della regione sono ricchi.
Questo paper analizza la dimensione energetica del Grande Gioco centroasiatico
esaminando le performance economiche dei singoli paesi dell’area soprattutto in
riferimento allo sviluppo del loro settore energetico, le diverse opportunità di
esportazione delle risorse in relazione agli ostacoli che esse incontrano e ai diversi
soggetti interessati ad averne il controllo, e infine le diverse posizioni assunte dai
paesi della regione all’interno delle dinamiche internazionali che contribuiscono a
definire i contorni del Great Game energetico.
1. La transizione economica post-sovietica
L’analisi dell’evoluzione post-sovietica delle economie centroasiatiche deve
inevitabilmente tenere conto della difficoltà di reperire statistiche attendibili
riguardanti le performance economiche recenti dei singoli paesi, soprattutto in
riferimento a Turkmenistan e Uzbekistan. Nel complesso è comunque possibile
fare alcune considerazioni, generalmente valide per i paesi dell’Asia centrale
come per tutte le repubbliche un tempo appartenenti all’Unione Sovietica.
In epoca sovietica le economie dell’Asia centrale dipendevano dai generosi
sussidi concessi dal governo centrale, beneficiavano di costi artificialmente bassi
per le materie prime e le risorse energetiche e potevano contare sulla
pianificazione centralizzata della direzione degli scambi commerciali all’interno
dell’Urss, tutti fattori che favorivano la produzione industriale locale. Come era
prevedibile, le conseguenze della dissoluzione dell’Urss sulle performance
economiche delle repubbliche centroasiatiche sono state particolarmente gravi,
avviando una fase recessiva prolungata (con l’eccezione dell’Uzbekistan) che ha
coinvolto tutti i settori economici e ha avuto effetti drammatici sulla produzione
272
interna, sulla dotazione di infrastrutture e, nel complesso, sui livelli di vita della
popolazione. Se il Pil pro capite cominciò a ridursi già alla fine degli anni Ottanta,
a causa della crescente incertezza politica ed economica 1 , la rottura dei legami
commerciali tra le repubbliche sovietiche ha poi privato le economie dell’Asia
centrale del proprio principale mercato di esportazione, esponendole ai meno
favorevoli prezzi del mercato mondiale e rivelandone l’assoluta mancanza di
competitività. L’interruzione dei flussi commerciali ha anche escluso i cinque
paesi dall’accesso alle proprie principali fonti di approvvigionamento di materie
prime e/o risorse energetiche, provocando una grave crisi che ha influito
negativamente sulla produzione industriale. Allo stesso modo, anche il settore
agricolo si è trovato in difficoltà, principalmente a causa della riluttanza con cui
gli Stati post-sovietici hanno intrapreso radicali riforme della proprietà terriera,
che avrebbero potuto risollevare la bassa produttività del settore.
TASSO DI CRESCITA PIL REALE (%)
1996
2006
2004
vs.
1989
9,7
10,6
2,4
7,1
-0,2
2,7
-15,8
10,2
10,6
6,7
7,0
-47,2
0,3
3,3
4,5
6,0
6,0
-9,8
4,2
4,4
7,7
7,0
7,2
19,5
9,0
6,4
7,1
8,3
n.d.
n.d.
0,1
10,0
5,1
4,7
7,3
7,2
6,4
6,6
-17,5
6,3
8,3
6,1
8,4
10,1
n.d.
n.d.
-23,9
1990 1991
1992
1993
1994 1995
1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005
Kazachstan
-1,0
-11,0
-5,3
-9,2
-12,6
-8,2
0,5
1,7
-1,9
2,7
9,8
13,5
9,8
9,3
9,4
Kirghizistan
4,8
-7,9
-13,8 -15,5 -20,1
-5,4
7,1
9,9
2,1
3,7
5,4
5,3
0,0
7,0
Tagikistan
0,2
-8,5
-32,3 -16,3 -21,3 -12,4 -16,7
1,7
5,3
3,7
8,3
10,2
9,5
Turkmenistan
1,8
-4,7
-15,0
1,5
-17,3
-7,2
6,7
-11,4
7,1
16,5
5,5
4,3
Uzbekistan
-0,8
-0,5
-11,1
-2,3
-5,2
-0,9
1,7
5,2
4,4
4,4
4,0
4,5
Totale Asia centrale
-0,2
-7,4
-10,6
-7,2
-12,1
-6,0
1,2
1,8
1,5
4,8
7,1
Federazione Russa
-3,0
-5,0
-14,5
-8,7
-12,7
-4,1
-3,6
1,4
-5,3
6,4
Csi (senza Fed. russa)
-3,4
-8,1
-12,9 -11,8 -17,7
-9,1
-3,3
1,5
1,5
2,6
Fonte: UNECE, EIU
1
J. FALKINGHAM, The End of the Rollercoaster? Growth, Inequality and Poverty in Central
Asia and the Caucasus, in «Social Policy and Administration», 39, 2005, 4, p. 341.
273
TASSO DI CRESCITA PIL REALE (% )
20,0
10,0
0,0
1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006
-10,0
-20,0
-30,0
-40,0
-50,0
Armenia
Kirghizistan
T urkmenistan
Uzbekistan
T agikistan
Fonte: UNECE; per il 2005 e 2006: EIU
A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, tuttavia, tutte e cinque le
economie hanno cominciato a sperimentare tassi di crescita generalmente positivi
– pur con una flessione tra il 1997 e il 1998, dovuta alla crisi finanziaria che ha
investito la Russia e più in generale l’Asia in tale periodo – e nel 2004 il Pil
complessivo dei cinque paesi ha raggiunto i livelli del 1989 (dati Unece, vedi
tabella) 2 . Ciononostante, tale dato, in apparenza incoraggiante, maschera una
situazione ben più eterogenea: con l’eccezione dell’Uzbekistan (il cui Pil, secondo
i dati dell’Unece, nel 2004 superava del 19,5 per cento il Pil del 1989) e del
Kazachstan (+2,4 per cento rispetto al 1989), nel 2004 il Pil delle altre economie
centroasiatiche era ancora ben lontano dai livelli degli ultimi anni del periodo
sovietico (-47,2 per cento nel caso del Tagikistan). Per avere un’idea delle
prospettive di sviluppo economico dell’Asia centrale è quindi opportuno
soffermarsi sull’andamento delle singole economie nazionali dopo l’indipendenza.
Prima dell’indipendenza il Kazachstan era, tra i paesi centroasiatici, quello
economicamente più legato alla Russia, che assicurava input e risorse energetiche
a basso costo indispensabili per lo sviluppo della base industriale kazaka (i cui
settori principali erano costituiti dall’industria metallurgica e da quella estrattiva).
Oltre a ciò, l’economia kazaka era caratterizzata anche da un ampio settore
agricolo, dominato dalla coltivazione di cereali (frumento in particolare) destinati
alla distribuzione all’interno dell’Unione Sovietica. Non sorprende quindi che con
la scomparsa dell’Urss il Kazachstan abbia dovuto affrontare una grave recessione
(con una contrazione del Pil reale pari al 36 per cento tra il 1990 e il 1995,
mediamente il 7 per cento annuo) caratterizzata da un vero e proprio crollo della
produzione industriale (la quota del settore industriale rispetto al Pil totale è
2
UNITED NATIONS ECONOMIC COMMISSION FOR EUROPE, Economic Survey of Europe
2005 n. 2. Statistical Appendix, Geneva, 2005, pp. 70 e ss.
274
passata dal 31 per cento nel 1992 al 21 per cento nel 1996)3 . A partire dal 1999
l’economia kazaka ha iniziato a registrare stabilmente tassi di crescita del Pil reale
positivi, sostenuti in particolare dall’alto prezzo del petrolio: a partire dal 2000 il
comparto industriale è tornato a essere la voce più importante del Pil (33 per
cento) e il Pil reale è cresciuto a un ritmo annuo superiore al 9 per cento (le stime
relative al 2006 indicano una crescita annua del 10,6 per cento).
Il merito di tali performance positive è da attribuire indubbiamente alla ricca
dotazione di idrocarburi del paese: secondo le stime Bp il Kazachstan possiede a
fine 2006 riserve di petrolio pari a 39,8 miliardi di barili, il 3,3 per cento delle
riserve mondiali, e riserve di gas naturale pari a 3.000 miliardi di metri cubi, l’1,7
per cento delle riserve mondiali. Per quanto non sia ancora autosufficiente a
livello energetico, soprattutto a causa di una rete di infrastrutture di distribuzione,
risalente all’epoca sovietica, obsoleta e in parte in stato di abbandono, il paese
centroasiatico si sta avviando a diventare un produttore importante sul mercato
mondiale. Il boom petrolifero degli ultimi anni è stato trainato e sostenuto da una
rapida crescita degli investimenti (che nel 2006 sono cresciuti del 19 per cento
rispetto all’anno precedente e hanno costituito il 26 per cento del Pil), che ha
avuto ricadute positive anche su altri settori, quali il settore delle costruzioni
(soprattutto di infrastrutture destinate al settore degli idrocarburi), che nel periodo
gennaio-settembre 2006 ha registrato una crescita del 35 per cento rispetto allo
stesso periodo del 2005, e quello dei servizi (anche in questo caso collegato
all’esplorazione e allo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi). Lo sviluppo del
settore petrolifero ha anche consentito al Kazachstan di avere il reddito pro capite
più alto di tutti i paesi della Csi, dopo la Federazione Russa. Il motore del boom
petrolifero è costituito indubbiamente dagli investimenti diretti esteri effettuati
soprattutto da compagnie occidentali, che al momento producono più dell’80 per
cento del greggio del paese: dall’indipendenza, il settore petrolifero kazako è
riuscito ad attrarre oltre l’80 per cento di tutti gli Ide destinati all’Asia centrale, e
circa il 10 per cento degli Ide destinati ai paesi dell’ex Unione Sovietica.
L’afflusso di Ide occidentali non accenna a diminuire nonostante l’atteggiamento
non sempre favorevole da parte del governo kazako: soprattutto a seguito del
continuo rialzo del prezzo del petrolio il governo ha infatti iniziato a chiedere con
sempre maggiore insistenza di rinegoziare i contratti di esplorazione e
sfruttamento stipulati con gli investitori stranieri, come nel caso della nuova legge
sui production sharing agreements (Psa), approvata nel 2004, che ha fissato per i
nuovi progetti di esplorazione una quota di partecipazione obbligatoria del 50 per
cento per la compagnia petrolifera statale Kazmunaigaz.
Il settore petrolifero domina anche la struttura del commercio con l’estero: gli
idrocarburi costituiscono oltre il 70 per cento delle esportazioni kazake e sono
principalmente destinati ai mercati occidentali (anche se la Russia rappresenta per
3
I dati statistici relativi all’economia del Kazachstan sono tratti da ECONOMIST
INTELLIGENCE UNIT, Country Profile Kazakhstan, London, July 2006 e da IDEM, Country
Report Kazakhstan, London, January 2007.
275
il paese il terzo mercato di esportazione), mentre più del 40 per cento delle
importazioni del paese è costituito da macchinari destinati all’industria estrattiva,
importati prevalentemente dalla Russia (che fornisce al Kazachstan il 38 per cento
delle sue importazioni ed è tuttora il fornitore principale anche per quanto
riguarda i beni di consumo, la cui domanda non può essere soddisfatta dalla
fragile industria manifatturiera locale).
Anche il Turkmenistan possiede una significativa dotazione di petrolio e gas
naturale, tanto che sin dall’indipendenza si è assistito a un massiccio spostamento
della base industriale del paese dal settore manifatturiero ad alta intensità di
lavoro al settore degli idrocarburi. Tuttavia, l’esistenza di generosi sussidi statali e
lo stato di decadenza in cui versano gli impianti produttivi e le infrastrutture di
trasporto hanno reso il settore degli idrocarburi vittima di sprechi e inefficienze.
In particolare, poiché circa l’85 per cento della produzione di gas del paese viene
prodotto dalla compagnia statale Turkmenneftegaz, la crescita economica del
paese ha finito per dipendere, sin dai primi anni successivi all’indipendenza,
dall’abilità del governo di Ashgabat di assicurare al gas turkmeno nuovi mercati
di esportazione. L’attuale forte presenza statale nel settore degli idrocarburi è
coerente con la scelta fatta dal paese all’indomani dell’indipendenza, in favore del
mantenimento di un sistema di pianificazione economica di stampo sovietico:
unico paese della Csi a non aver avviato un programma di sviluppo in
collaborazione con il Fondo monetario internazionale (Fmi), il Turkmenistan si è
affidato, per il proprio sviluppo, a un programma di industrializzazione basato
sulla sostituzione delle importazioni, con piani di crescita pluriennali, scarse
privatizzazioni (nel 2005 il contributo del settore privato al Pil era stimato intorno
al 25 per cento, il livello più basso di tutta la regione centroasiatica 4 ), forniture
gratuite dei servizi (comprese le forniture energetiche), meccanismi di controllo
dei prezzi, restrizioni agli investimenti stranieri.
La dotazione di risorse energetiche del paese, insieme alla costante priorità
assegnata dal governo allo sviluppo del settore, ha consentito al Turkmenistan di
beneficiare di una crescita sostenuta negli ultimi anni: nonostante i dati ufficiali
relativi alla crescita del Pil reale siano scarsamente attendibili, le stime
dell’Economist Intelligence Unit (Eiu) valutano il tasso di crescita annua del Pil
reale per il 2005 e il 2006 intorno al 6 per cento. Tuttavia, è bene notare che nel
periodo gennaio-luglio 2006 in termini di volumi la produzione di gas naturale del
paese è cresciuta solo del 2 per cento, mentre la produzione di petrolio si è
addirittura ridotta del 13 per cento: alla luce di questi dati è evidente come la
crescita economica turkmena sia più che altro effetto degli alti prezzi delle
esportazioni di risorse energetiche. E’ probabile che questa tendenza non cambi
nei prossimi anni, anche alla luce dell’accordo firmato con la Russia alla fine del
2006, in base al quale è stato rinegoziato il prezzo delle importazioni russe di gas
4
I dati statistici relativi all’economia turkmena sono tratti da ECONOMIST INTELLIGENCE
UNIT, Country Profile Turkmenistan, London, August 2006 e IDEM, Country Report
Turkmenistan, London, January 2007.
276
naturale turkmeno (rialzato da 65 dollari a 100 dollari per mille metri cubi; la
Russia si è anche impegnata ad acquistare una maggiore quantità di gas in termini
di volumi: 50 miliardi di metri cubi all’anno, contro 42 miliardi negli anni
precedenti). I dati relativi alla struttura del commercio con l’estero confermano il
predominio del settore degli idrocarburi nell’economia turkmena: nonostante i
dati ufficiali più recenti disponibili siano relativi al 2001, l’Eiu stima che nel 2005
le esportazioni di idrocarburi (dirette principalmente verso l’Ucraina, attraverso la
rete di distribuzione russa) costituissero circa il 90 per cento delle esportazioni
totali del paese, mentre le importazioni di beni capitali destinati allo sviluppo
dell’industria petrolifera e gasifera (provenienti tradizionalmente dalla Russia,
anche se nell’ultimo biennio gli Emirati Arabi Uniti hanno acquisito maggiore
importanza come paese fornitore, in virtù degli investimenti effettuati dalla
compagnia Dragon Oil nell’esplorazione dei giacimenti petroliferi turkmeni nel
Caspio) nello stesso anno rappresentavano circa il 60-70 per cento delle
importazioni totali.
Lo sviluppo del settore energetico nazionale, tuttavia, continua a risentire in
maniera accentuata di alcuni ostacoli strutturali. Il livello degli Ide è rimasto
molto basso negli ultimi anni (circa 350 milioni di dollari nel 2004 e circa 300
milioni di dollari nel 2005, secondo le stime della Banca Europea per la
Ricostruzione e lo Sviluppo, un livello molto inferiore a quello degli Ide effettuati
nell’altro paese centroasiatico ricco di risorse energetiche, il Kazachstan, che nel
periodo 2001-2005 ha ricevuto una media di 2,7 miliardi di dollari all’anno sotto
forma di Ide). Lo scarso interesse mostrato finora dagli investitori stranieri nei
confronti del Turkmenistan è principalmente dovuto al clima degli affari poco
favorevole che caratterizza il paese. Oltre a questo, la capacità di esportazione del
paese è piuttosto limitata e dipende quasi esclusivamente dall’ormai obsoleto
sistema di gasdotti russo 5 , per l’accesso al quale il Turkmenistan deve competere
con gli altri produttori regionali di gas naturale (Federazione Russa, Kazachstan e
Uzbekistan).
Sebbene le sue riserve di idrocarburi non siano sufficienti a sostenere
un’esportazione su larga scala, anche l’Uzbekistan possiede una discreta
dotazione di gas naturale, secondo le stime più o meno equivalente all’1 per cento
delle riserve mondiali. Dopo l’indipendenza lo sviluppo del settore degli
idrocarburi è stato una priorità per il governo di Tashkent, impegnato a
raggiungere l’autosufficienza energetica, tanto che negli ultimi anni il paese è
divenuto anche un esportatore regionale di gas naturale (verso Russia,
Kirghizistan e Tagikistan). Ciononostante, la principale risorsa naturale del paese
centroasiatico è costituita dai suoi giacimenti auriferi, le cui riserve sono stimate
5
Il Turkmenistan esporta il proprio gas anche attraverso il sistema di distribuzione iraniano e
Tehran si sta sempre più imponendo come partner importante anche per quanto riguarda le (per ora
scarse) esportazioni petrolifere turkmene, grazie alla conclusione di oil swaps tra i due paesi.
277
intorno alle 2.100 tonnellate (l’Uzbekistan è il sesto paese al mondo) e la cui
produzione è pari all’incirca al 3 per cento della produzione mondiale 6 .
Nel complesso l’economia uzbeka è ancora fortemente legata al settore agricolo,
che nel 2004 costituiva il 31 per cento del Pil ed è tuttora dominato dalla
coltivazione del cotone, che costituisce anche la voce principale delle esportazioni
(22 per cento nel 2003). Il settore industriale viceversa costituiva, sempre nel
2004, il 25,2 per cento del Pil: al suo interno, il settore energetico costituisce la
componente principale (24 per cento), mentre l’oro è la seconda componente
principale delle esportazioni del paese (13,5 per cento). All’indomani
dell’indipendenza, i dati ufficiali (sulla cui attendibilità, come si è accennato, è
peraltro lecito nutrire qualche dubbio) hanno registrato una recessione più
contenuta rispetto alle altre economie dell’Asia centrale: questo è da attribuire in
gran parte agli alti prezzi mondiali dell’oro e del cotone, che hanno contribuito in
misura determinante a sostenere le esportazioni. A sua volta la possibilità di
beneficiare di una bilancia commerciale in attivo ha disincentivato l’adozione di
riforme strutturali e l’avvio di un programma di privatizzazioni: dopo il crollo
dell’Unione Sovietica l’Uzbekistan si è orientato infatti verso politiche di sviluppo
guidate dallo stato, basate in particolare sulla promozione dell’industrializzazione
attraverso la sostituzione delle importazioni e sull’adozione di misure
protezionistiche attraverso barriere tariffarie e non tariffarie. Lo scarso sviluppo
del settore privato e la presenza pervasiva dello stato in tutti i settori produttivi
non solo ha reso particolarmente difficili i rapporti con le istituzioni finanziarie
internazionali, Fmi in primis, ma ha anche creato un clima degli affari
particolarmente ostile agli investimenti stranieri: secondo il rapporto Doing
Business 2007 della Banca Mondiale, l’Uzbekistan occupa la 147° posizione su
175 paesi, la posizione più arretrata tra tutti i paesi dell’ex Urss 7 .
Gli alti tassi di crescita del Pil reale registrati dal paese negli ultimi anni (dal 2004
il Pil reale è cresciuto a un tasso vicino o superiore al 7 per cento annuo)
sembrano quindi essere sostenuti da una combinazione di alti prezzi delle
esportazioni, politiche di “compressione” delle importazioni e ampi investimenti
statali per lo sviluppo delle infrastrutture nel settore degli idrocarburi, finanziati
con i ricavi derivanti dall’esportazione di oro e cotone da parte di imprese statali.
Accanto alla tradizionale riluttanza del governo a cedere il controllo sulle attività
ritenute di importanza “strategica” (come appunto oro, cotone e idrocarburi) si è
assistito più recentemente a una maggiore disponibilità ad attirare Ide soprattutto
nel settore energetico e soprattutto provenienti dalla Federazione Russa: la Russia
è tra l’altro il tradizionale partner commerciale del paese, assorbendo il 22 per
6
I dati statistici relativi all’economia uzbeka sono tratti da ECONOMIST INTELLIGENCE
UNIT, Country Profile Uzbekistan, London, April 2006; IDEM, Country Report Uzbekistan,
London, December 2006 e IDEM, Country Report Uzbekista. Update, London, February 2007.
7
WORLD BANK, Doing Business 2007. Economy Rankings, Washington D.C., 2007,
http://www.doingbusiness.org/EconomyRankings.
278
cento delle esportazioni – e il 70 per cento delle esportazioni di gas naturale – e
fornendo il 26,8 per cento delle importazioni del paese (dati relativi al 2004).
La crescente attenzione riservata allo sfruttamento delle risorse energetiche della
regione ha progressivamente marginalizzato le due economie che di tali risorse
sono sostanzialmente prive, Kirghizistan e Tagikistan.
Nel primo paese, nei primi quattro anni dopo l’indipendenza il Pil reale ha subito
una contrazione complessiva del 50 per cento; a partire dal 1996 il paese ha
sperimentato tassi di crescita del Pil positivi, soprattutto grazie all’esplorazione e
allo sfruttamento del giacimento aurifero di Kumtor, che è stimato l’ottavo
giacimento mondiale. L’estrazione dell’oro ha sostenuto la crescita economica del
paese (tanto che nel 2005 tale settore costituiva il 40 per cento della produzione
industriale e il 35 per cento delle esportazioni) e contrastato il declino del settore
manifatturiero. Ciononostante l’economia del paese centroasiatico è ancora
fortemente dipendente dal settore agricolo (che sempre nel 2005 costituiva il 34
per cento del Pil), caratterizzato soprattutto da agricoltura di sussistenza, e lo
stesso sviluppo del settore estrattivo resta vulnerabile, come dimostrato dalla
contrazione della produzione verificatasi nel 2005 e 2006 (-15,6 per cento e -12,8
per cento rispettivamente) a causa dell’adozione di misure legislative a tutela dei
lavoratori osteggiate dalla compagnia canadese Centerra Gold, che possiede la
licenza per lo sfruttamento del giacimento di Kumtor 8 .
In seguito all’indipendenza, il Kirghizistan si è impegnato a perseguire un
programma di ristrutturazione economica in collaborazione con le istituzioni
finanziarie internazionali, ma le dispute interne hanno rallentato l’adozione di
adeguate misure di riforma, con il risultato che il processo di privatizzazione è
stato lento e insufficiente – a causa dell’opposizione interna alla cessione delle
attività economiche gestite dallo stato e della sostanziale mancanza di interesse da
parte degli investitori stranieri – e soprattutto a partire dalla fine degli anni
Novanta il paese si è trovato gravato da un pesante debito detenuto nei confronti
tanto delle istituzioni multilaterali, quanto di creditori bilaterali. L’afflusso di Ide
nel paese, dopo aver segnato qualche anno di crescita positiva grazie agli
investimenti effettuati per lo sviluppo della miniera di Kumtor, a partire dal 1999
ha subito un brusco declino, per poi recuperare lievemente negli ultimi anni, pur
rimanendo sempre a livelli molto bassi (gli Ide netti ammontavano a 42,6 milioni
di dollari nel 2005). Nonostante gli sforzi delle autorità volti a migliorare il grado
di apertura economica del paese (il Kirghizistan è stato il primo paese dell’ex
Unione Sovietica a entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, nel
1998) e sebbene il clima degli affari sia nel complesso migliore rispetto ai suoi
vicini Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan (nel rapporto Doing Business 2007,
il Kirghizistan figura in 90° posizione, dietro al Kazachstan – 63° – ma meglio
8
I dati statistici relativi all’economia del Kirghizistan sono tratti da ECONOMIST
INTELLIGENCE UNIT, Country Profile Kyrgyz Republic, London, September 2006 e IDEM,
Country Report Kyrgyz Republic, London, February 2007.
279
della Federazione Russa – 96°) 9 , per il momento la quasi totalità degli Ide
effettuati nel paese proviene da soggetti che hanno una certa “familiarità” con
l’economia kirghiza, in particolare Federazione Russa e Kazachstan. La Russia è
anche il principale partner commerciale del paese, fornendo il 34,2 per cento delle
importazioni e assorbendo il 20 per cento delle esportazioni kirghize (dati relativi
al 2005). Un possibile miglioramento per quanto riguarda la situazione degli Ide
(il cui incoraggiamento costituisce una priorità per il governo di Bishkek)
potrebbe derivare dall’approvazione da parte del Fmi, a fine marzo 2007, della
richiesta delle autorità di Bishkek di entrare a far parte del programma del Fmi per
i paesi fortemente indebitati (Hipc): per quanto stia crescendo all’interno della
classe politica del paese l’opposizione al programma Hipc, l’adesione a esso
comporterebbe per il Kirghizistan la necessità di rispettare una serie di
condizionalità molto più rigide rispetto al tradizionale Poverty Reduction and
Growth Facility, favorendo forse l’adozione di riforme difficili.
In epoca sovietica il Tagikistan era una delle repubbliche più povere dell’Unione
e beneficiava dunque di un livello particolarmente alto di trasferimenti dal
governo centrale: con il crollo sovietico questi trasferimenti sono venuti a
mancare, e la guerra civile che ha devastato il paese dal 1992 al 1997 ha
ulteriormente aggravato la recessione economica, provocando una contrazione
annua del Pil reale mediamente pari al 17 per cento tra il 1991 e il 1996 10 . Nel
1992 il Pil reale era già sceso al 60 per cento dei livelli del 1989, e tra il 1992 e il
1996 si è verificata un’ulteriore contrazione complessiva del 50 per cento, mentre
la produzione industriale si è ridotta del 70 per cento tra il 1990 e il 1997. A
partire dal 1998 il paese ha iniziato a registrare tassi di crescita del Pil sostenuti
grazie alla relativa stabilità politica del paese, al recupero di alcuni settori
industriali e alla forte crescita delle rimesse dei lavoratori tagiki emigrati
soprattutto nella Federazione Russa (che secondo le stime Eiu nel 2005
costituivano più del 20 per cento del Pil): nonostante il tasso di crescita annua del
Pil reale tra il 2000 e il 2005 sia stato mediamente del 9 per cento, nello stesso
2005 il livello del Pil tagiko era ancora all’incirca la metà del livello del 1989.
L’agricoltura resta ancora un settore importante dell’economia tagika, costituendo
all’incirca un quarto del Pil (24,2 per cento; dati relativi al 2004) e assorbendo i
due terzi della forza lavoro, prevalentemente impiegata nella coltivazione del
cotone. Il settore industriale, che costituisce il 28 per cento del Pil (dati 2004) è
dominato dall’estrazione e lavorazione dell’alluminio (che costituisce più del 40
per cento della produzione industriale). Insieme, cotone e alluminio
rappresentavano nel 2005 il 77,7 per cento delle esportazioni del paese: gli alti
prezzi mondiali dell’alluminio negli ultimi anni hanno sostenuto la crescita
facendo crescere le esportazioni, ma hanno anche ridotto gli incentivi alla
9
WORLD BANK, Doing Business 2007. Economy Rankings, cit.
I dati statistici relativi all’economia tagika sono tratti da ECONOMIST INTELLIGENCE UNIT,
Country Profile Tajikistan, London, April 2006 e IDEM, Country Report Tajikistan, London,
December 2006.
10
280
diversificazione delle esportazioni e mantenuto il paese in una condizione di
vulnerabilità rispetto alle fluttuazioni dei prezzi mondiali delle materie prime. Va
detto che la crescita dei consumi nel paese ha beneficiato non solo della crescita
marcata delle rimesse dall’estero, ma è stata sostenuta anche dai crescenti proventi
del traffico internazionale di droga, all’interno del quale il Tagikistan è un
importante paese di transito.
Il governo si è potuto dedicare all’avvio di riforme strutturali solo al termine della
guerra civile, ma tali riforme hanno proceduto lentamente e con risultati deludenti,
soprattutto per quanto riguarda le privatizzazioni (l’industria dell’alluminio, la più
importante del paese, è ancora nelle mani dello stato), con il risultato che il paese
dipende tuttora fortemente dagli aiuti internazionali e beneficia di uno dei più
bassi livelli di Ide di tutta l’Asia centrale. Nel 2003 l’afflusso di Ide ammontava a
soli 32 milioni di dollari, mentre l’anno successivo sono aumentati a 272 milioni
di dollari, pressoché esclusivamente a causa di un debt-for-equity swap stipulato
con la Russia, che ha cancellato circa 300 milioni di dollari di debito detenuto da
Dusanbe nei confronti di Mosca in cambio della cessione di attività nel comparto
energetico. Proprio gli investimenti russi nel settore energetico tagiko potrebbero
contribuire a sviluppare il vasto potenziale idroelettrico del paese (che è sfruttato
ora solo al 5 per cento proprio a causa della mancanza di investimenti) e a ridurre
la dipendenza del Tagikistan dalle importazioni di petrolio e gas provenienti da
Kazachstan, Turkmenistan e Uzbekistan.
281
PRINCIPALI PARTNER COMMERCIALI (%)
Esportazioni
Kazachstan (2005)
Svizzera
19,8
Italia
15,0
Russia
10,5
Francia
9,6
Cina
8,7
Kirghizistan (2005)
Emirati Arabi
25,8
Russia
20,0
Kazachstan
17,3
Svizzera
15,5
Tagikistan (2004)
Paesi Bassi
41,4
Turchia
15,3
Uzbekistan
7,2
Lettonia
7,1
Svizzera
6,9
Turkmenistan (2001-2003)
Ucraina
49,0
Italia
18,0
Iran
11,0
Russia
6,0
Turchia
5,0
Uzbekistan (2004)
Russia
22,0
Cina
14,7
Turchia
6,4
Tagikistan
6,1
Kazachstan
4,2
COMMERCIO ESTERO PER SETTORE (%)
Importazioni
Russia
Germania
Cina
Stati Uniti
Ucraina
38,0
7,5
7,2
6,9
4,9
Russia
Kazachstan
Cina
Stati Uniti
34,2
16,3
9,3
6,1
Russia
Kazachstan
Uzbekistan
Azerbaigian
Stati Uniti
24,2
15,2
12,3
6,3
5,8
Russia
Ucraina
Turchia
Emirati Arabi
Germania
21,0
15,0
9,0
8,0
4,0
Russia
Corea del Sud
Stati Uniti
Germania
Kazachstan
26,8
12,6
8,0
7,7
6,3
Esportazioni
Kazachstan (2005)
Idrocarburi
Metalli
Prodotti chimici
Alimentari
Kirghizistan (2005)
Metalli e pietre preziose
Prodotti minerari
Tessile
Tagikistan (2005)
Alluminio
Cotone
Energia elettrica
Turkmenistan (1999-2001)
Gas naturale
Petrolio
Uzbekistan (2003)
Cotone
Oro
Risorse energetiche
Fonte: EIU
Fonte: EIU
282
Importazioni
73,8
15,9
3,3
2,4
Macchinari
Metalli
Idrocarburi
Prodotti chimici
43,8
14,7
13,4
11,5
35,1 Idrocarburi
14,4 Macchinari
11,5 Prodotti chimici
27,9
13,1
10,9
61,9 Allumina
15,8 Petrolio
5,8 Energia elettrica
27,2
9,5
4,3
57,0 Macchinari
26,0 Alimentari
60,0
15,0
22,4 Macchinari
13,5 Materie plastiche
9,8 Alimentari
44,4
12,8
9,9
2. Le risorse energetiche centroasiatiche: entità e localizzazione
Fonte: EIA, Le Monde diplomatique
I paesi dell’Asia centrale negli ultimi anni hanno attirato l’attenzione
internazionale in misura crescente in virtù delle risorse energetiche (petrolio e gas
naturale) da esse possedute in misura consistente, soprattutto nell’area del bacino
del Mar Caspio. Merita tuttavia sottolineare che non sono disponibili statistiche
ufficiali relative alle riserve e alla produzione di idrocarburi del bacino del Caspio,
e anche le stime esistenti variano considerevolmente. Tanto in Russia quanto in
Iran (due dei cinque stati rivieraschi) lo sfruttamento delle risorse situate nel
bacino del Caspio è stato finora relativamente ridotto: la quasi totalità della
produzione di idrocarburi della regione proviene infatti dalle repubbliche un
tempo appartenenti all’Unione Sovietica, che nel complesso possiedono riserve
petrolifere stimate tra i 17 e i 48 miliardi di barili, equivalenti circa a un sesto
delle riserve dei paesi non appartenenti all’Opec, e nel 2006 secondo i primi dati
hanno prodotto quasi 2 milioni e 300mila barili di petrolio al giorno, pari
283
all’incirca al 5 per cento della produzione non-Opec 11 . Secondo gli analisti nel
2010 la produzione petrolifera della regione dovrebbe assestarsi tra i 2 milioni e
mezzo e i 6 milioni di barili al giorno (superiore nel complesso alla produzione
del Venezuela, il principale produttore petrolifero dell’America latina) 12 .
Tra i paesi centroasiatici, il Kazachstan è indubbiamente quello con le più vaste
riserve petrolifere, stimate tra i 9 e i 40 miliardi di barili (all’incirca pari
rispettivamente a quelle di Algeria e Libia, entrambi membri dell’Opec), che sono
concentrate principalmente in quattro enormi giacimenti – Tengiz, lungo la costa
nordorientale del Caspio, Karachaganak, nel nord del paese vicino al confine con
la Russia, Kashagan, giacimento offshore nel nord del Mar Caspio, nonché,
secondo le stime del consorzio Agip KCO che sta conducendo le attività di
esplorazione, il più grande giacimento situato al di fuori del Medio Oriente e il
quinto giacimento mondiale, e Kurmangazy, situato anch’esso offshore, al confine
tra Russia e Kazachstan 13 – ne fanno l’undicesimo paese al mondo 14 . La
produzione petrolifera kazaka, pari a oltre 1,4 milioni di barili al giorno nel 2006,
costituisce quasi i due terzi dell’intera produzione petrolifera della regione:
Kazachstan e Azerbaigian insieme producono attualmente quasi il 90 per cento
del petrolio proveniente dal bacino del Caspio 15 . Da solo, il Kazachstan produce
nel complesso all’incirca i due terzi degli idrocarburi prodotti nell’intera regione
del Caspio 16 : tale performance produttiva è stata possibile soprattutto grazie ai
massicci investimenti americani di cui ha beneficiato il settore a partire
dall’indipendenza del paese, per un totale di 20 miliardi di dollari. In effetti più
del 60 per cento degli investimenti nel settore degli idrocarburi del paese è stato
effettuato da compagnie americane (Chevron Texaco in testa): Chevron Texaco ed
Exxon Mobil detengono nel complesso il 75 per cento (50 e 25 per cento
rispettivamente) delle quote di partecipazione al consorzio internazionale che nel
1993 ha iniziato l’esplorazione e lo sfruttamento del giacimento (sia di petrolio
che di gas) di Tengiz, il principale giacimento onshore del paese, mentre la stessa
Exxon Mobil insieme a Conoco Phillips fa parte di un secondo consorzio
internazionale (di cui fra l’altro l’italiana Eni costituisce l’operatore unico, dopo
che la britannica British Gas ha ceduto la propria quota ai partner nel 2004)
11
BP, Statistical Review of World Energy 2007, London, 2007, pp. 6-8 e 22-24,
http://www.bp.com, e UNITED STATES ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION,
Country Analysis Brief. Caspian Basin, Washington D.C., January 2007, http://www.eia.doe.gov.
12
Ibidem.
13
UNITED STATES ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION, Country Analysis Brief.
Kazakhstan, Washington D.C., October 2006, http://www.eia.doe.gov.
14
UNITED STATES CENTRAL INTELLIGENCE AGENCY, CIA World Factbook 2007,
https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/docs/rankorderguide.html.
15
BP, Statistical Review of World Energy 2007, cit., p. 8.
16
R. WINSTONE - R. YOUNG, The Caspian Basin, Energy Reserves and Potential Conflicts,
cit., p. 38.
284
costituito per lo sfruttamento del giacimento (sia di petrolio che di gas) di
Kashagan, il principale giacimento offshore 17 .
Per quanto la regione centroasiatica stia diventando un importante fornitore di
petrolio sul mercato mondiale, ancora più rilevante è il potenziale dell’area per
quanto riguarda il gas naturale. Le riserve di gas di Kazachstan, Turkmenistan e
Uzbekistan ammontano (secondo le statistiche di Bp e dell’Energy Information
Administration americana – Eia, relative al 2006) a circa 7.730 miliardi di metri
cubi, più o meno equivalenti a quelle dell’Arabia Saudita (il quarto paese al
mondo per riserve di gas) e pari all’incirca al 4 per cento delle riserve mondiali 18 .
Turkmenistan e Uzbekistan sono i principali produttori di gas della regione: il
primo ha sviluppato il proprio settore gasifero soprattutto a partire dal 2000, dopo
l’entrata in vigore di un accordo con la Russia che ha posto fine alla disputa
esistente tra i due paesi sul prezzo di esportazione del gas turkmeno (che dipende
quasi esclusivamente dalla rete di gasdotti gestita dalla russa Gazprom per
raggiungere i mercati internazionali) e ha permesso al paese centroasiatico di
diventare nel 2006 l’undicesimo produttore mondiale di gas, con una produzione
di 62,2 miliardi di metri cubi, pari al 2,2 per cento della produzione mondiale
(poco più del vicino Uzbekistan, che nello stesso anno ha prodotto 55,4 miliardi di
metri cubi di gas) 19 . Nonostante nel paese siano presenti alcuni dei più vasti
giacimenti del mondo (in particolare Dauletabad e Shatlyk), essi sono stati
sfruttati sin dagli anni Settanta e tendono quindi inevitabilmente ad esaurirsi:
questo, unito alla mancanza di statistiche indipendenti sull’effettiva entità delle
riserve di gas turkmene, getta non poche ombre sulle prospettive future del
Turkmenistan come importante fornitore di gas naturale per il mercato
internazionale, soprattutto in riferimento alla validità economica di alcuni nuovi
progetti infrastrutturali per l’esportazione del gas turkmeno.
Diversamente dal Turkmenistan, l’Uzbekistan ha mantenuto livelli produttivi
piuttosto alti anche durante gli anni Novanta (superiori ai 40 miliardi di metri cubi
annui) concentrandosi sulla produzione per il mercato interno e per l’esportazione
verso i propri vicini Kirghizistan, Kazachstan e Tagikistan. Le sue vaste riserve
(1.870 miliardi di metri cubi nel 2006) sono distribuite in 52 diversi giacimenti
situati principalmente nel bacino del fiume Amu Darya (uno dei due affluenti del
Lago d’Aral) e nelle regioni sudorientali del paese20 . Il loro sfruttamento tuttavia
è minacciato dalla scarsa disponibilità di investimenti stranieri nel settore, dopo
che nel 2005 la compagnia statale Uzbekneftegaz ha sciolto il primo e unico
production sharing agreement stipulato con una compagnia occidentale (la
britannica Trinity Energy): al momento le uniche compagnie straniere impegnate
17
Ibidem, p. 21.
BP, Statistical Review of World Energy 2007, cit., p. 22 e UNITED STATES CENTRAL
INTELLIGENCE AGENCY, World Factbook 2007, cit.
19
BP, Statistical Review of World Energy 2007, cit., p. 24.
20
Ibidem, p. 22.
18
285
nelle attività di esplorazione e sviluppo dei giacimenti uzbeki sono le russe
Gazprom e Lukoil 21 .
Le riserve gasifere del Kazachstan sono più vaste di quelle turkmene e uzbeke
(con 3mila miliardi di metri cubi nel 2006 il Kazachstan è l’undicesimo paese al
mondo per riserve di gas, il secondo tra i paesi dell’ex Unione Sovietica dopo la
Russia), ma sono composte prevalentemente da gas associato, e quindi sono state
sfruttate relativamente poco visto che spesso il gas è stato reiniettato nel
sottosuolo per facilitare l’estrazione del petrolio. Il paese è infatti divenuto un
esportatore netto di gas naturale solo nel 2005, con una produzione annua di 23,3
miliardi di metri cubi (23,9 miliardi di metri cubi nel 2006), meno della metà della
produzione dei suoi due vicini centroasiatici 22 .
I dati presentati fanno riferimento alle statistiche disponibili per le riserve
accertate di idrocarburi nell’Asia centrale e nel bacino del Caspio: tuttavia il
potenziale energetico della regione sembra essere molto maggiore, dato che molti
dei giacimenti non sono ancora stati completamente esplorati. Le stime dell’Eia
per il bacino del Caspio (che tuttavia non includono l’Uzbekistan) fissano le
riserve petrolifere probabili a circa 184 miliardi di barili, che potrebbero portare le
riserve complessive a un livello cinque volte maggiore di quello attuale e di poco
inferiore alle attuali riserve dell’Arabia Saudita (che è il primo paese al mondo e
possiede il 15 per cento delle riserve mondiali), mentre le riserve probabili di gas
naturale della regione sono stimate intorno agli 8.400 miliardi di metri cubi, e
porterebbero le riserve complessive a oltre il doppio del livello attuale23 .
RISERVE DI PETROLIO (dati alla fine del 2006):
miliardi di
quota sul
barili
totale (%)
Azerbaigian
7,0
0,6
Federazione Russa
79,5
6,6
Iran
137,5
11,4
Kazachstan
39,8
3,3
Turkmenistan
0,5
<0,1
Uzbekistan
0,6
<0,1
Totale ex-Unione Sovietica
128,2
10,6
Totale ex-Urss (esclusa Russia)
48,7
4,1
Totale Medio Oriente
742,7
61,5
Totale OPEC
905,5
74,9
Totale non-OPEC
174,5
14,4
TOTALE MONDIALE
1200,7
100,0
rapporto riserve/
produzione (anni)
29,3
22,3
86,7
76,5
9,2
13,0
28,6
n.d.
79,5
72,5
13,6
40,6
Fonte: BP 2007
21
UNITED STATES ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION, Country Analysis Brief.
Central Asia, Washington D.C., September 2005, http://www.eia.doe.gov.
22
BP, Statistical Review of World Energy 2007, cit., p. 22 e 24.
23
UNITED STATES ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION, Caspian Sea Region:
Survey of Key Oil and Gas Statistics and Forecasts, Washington D.C., July 2006.
286
RISERVE DI GAS NATURALE (dati alla fine del 2006):
miliardi di metri
quota sul
cubi
totale (%)
Azerbaigian
1350
0,7
Federazione Russa
47650
26,3
Iran
28130
15,5
Kazachstan
3000
1,7
Turkmenistan
2860
1,6
Uzbekistan
1870
1,0
Totale Europa e Eurasia
64130
35,3
Totale Medio Oriente
73470
40,5
TOTALE MONDIALE
181460
100
rapporto riserve/
produzione (anni)
> 100
77,8
> 100
> 100
46,0
33,7
59,8
> 100
63,3
Fonte: BP 2007
PRODUZIONE PETROLIO (migliaia di barili al giorno):
Azerbaigian
Federazione Russa
Iran
Kazachstan
Turkmenistan
Uzbekistan
Totale ex-Unione
Sovietica
Totale ex-Urss
(esclusa Russia)
Totale Medio Oriente
Totale OPEC
Totale non-OPEC
TOTALE
MONDIALE
2001
2002
2003
2004
2005
2006
301
7056
3794
836
162
171
311
7698
3543
1018
182
171
313
8544
4183
1111
202
166
315
9287
4248
1297
193
152
452
9552
4268
1356
192
126
654
9769
4343
1426
163
125
quota sul totale
(%, dati 2006)
0,8
12,3
5,4
1,7
0,2
0,1
8660
9533
10499
11407
11840
12299
15,3
1604
1835
1955
2120
2288
2530
3,1
23107
30857
44075
21642
29031
45466
23395
30884
46172
24764
33175
47068
25352
34068
47183
25589
34202
47461
31,0
41,9
58,1
74932
74496
77056
80244
81250
81663
100,0
Fonte: BP 2007
PRODUZIONE DI GAS NATURALE (miliardi di metri cubi):
Azerbaigian
Federazione Russa
Iran
Kazachstan
Turkmenistan
Uzbekistan
Totale Europa e Eurasia
Totale Medio Oriente
TOTALE MONDIALE
2001
2002
2003
2004
2005
2006
5,2
542,4
66,0
10,8
47,9
53,6
967,7
224,8
2482,1
4,8
555,4
75,0
10,6
49,9
53,5
989,1
244,7
2524,6
4,8
578,6
81,5
12,9
55,1
53,6
1024,7
259,9
2614,3
4,7
591,0
91,8
20,6
54,4
55,8
1055,6
290,7
2703,1
5,3
598,0
100,9
23,3
58,8
55,0
1060,0
317,5
2779,8
6,3
612,1
105,0
23,9
62,2
55,4
1072,9
335,9
2865,3
Fonte: BP 2007
287
quota sul totale
(%, dati 2006)
0,2
21,3
3,7
0,8
2,2
1,9
37,3
11,7
100,0
3. L’esportazione delle risorse: vincoli geografici, esigenze economiche e
obiettivi politico-strategici
Se è vero che le risorse energetiche centroasiatiche hanno attirato l’attenzione
internazionale negli ultimi anni, la questione chiave da risolvere in questo
particolare contesto riguarda la necessità di individuare corridoi e infrastrutture in
grado di far arrivare efficacemente tali risorse sui mercati internazionali. La
questione dell’esportazione delle risorse energetiche situate in una regione priva
di sbocchi diretti sui mari aperti è infatti cruciale per la soluzione del problema
della sicurezza energetica, intesa come possibilità di avere «accesso a una quantità
sufficiente di risorse energetiche a costi ragionevoli per il prossimo futuro, senza
gravi rischi di interruzione delle forniture» 24 .
Tradizionalmente, gli idrocarburi provenienti dall’Asia centrale sono stati
trasportati per mezzo del sistema di oleodotti e gasdotti russo, costruito in epoca
sovietica e controllato dalle compagnie statali Transneft e Gazprom. Si tratta di
una rete di trasporto che risente pesantemente dell’eredità sovietica, caratterizzata
da un sistema “imperiale” che imponeva alle risorse energetiche provenienti dal
Caspio e dalle repubbliche periferiche il transito attraverso il territorio russo, per
poi raggiungere i terminali situati sul Baltico e sulle coste ucraine del Mar Nero,
oppure collegarsi all’oleodotto Druzba, il principale canale di esportazione del
petrolio russo verso l’Europa. In mancanza di gasdotti e oleodotti che collegassero
direttamente il bacino del Caspio ai mercati di esportazione, la Russia ha quindi
per lungo tempo mantenuto il controllo sul trasporto del gas e del petrolio al di
fuori dell’ex-Unione Sovietica, e in particolare verso Occidente 25 . Tuttora la
compagnia russa Gazprom detiene un sostanziale monopolio sull’esportazione del
gas centroasiatico (kazako, turkmeno e uzbeko), che viene convogliato verso nord
attraverso i due rami del vecchio Central Asia-Center Pipeline – costruito nel
1974 – per poi immettersi nella rete di distribuzione russa e dirigersi in Ucraina.
Un dato innegabile tuttavia riguarda lo stato di obsolescenza della rete russa di
oleodotti e gasdotti: all’incirca i tre quarti delle condotte ha più di vent’anni e
quasi la metà ne ha più di trenta, richiedendo quindi nel complesso una vasta e
costosa opera di manutenzione e riparazione della rete esistente, nonché
l’elaborazione di progetti di costruzione di nuove infrastrutture in grado di
assorbire l’incremento produttivo derivante dal crescente sfruttamento delle
risorse estratte dal Caspio 26 .
24
G. BAHGAT, Central Asia and Energy Security, in «Asian Affairs», 37, 2006, 1, p. 1.
S.F. STARR - S.E. CORNELL, The Politics of Pipelines: Bringing Caspian Energy to Markets,
in
Saisphere
2005,
Washington
D.C.,
2005,
http://www.saisjhu.edu/pubaffairs/publications/saisphere/winter05.
26
H.A. SADRI - A.Y. VOLKOV, The Russian Pipeline System: Between Globalization and
Localization, in «East European Quarterly», 38, 2004, 3, pp. 383-384.
25
288
Fonte: EIA
289
3.1
La sicurezza energetica europea e le risorse centroasiatiche
Con riferimento alle risorse centroasiatiche, la questione della sicurezza
energetica viene in effetti generalmente intesa in termini europei e più in generale
occidentali, come necessità di diversificare le fonti di approvvigionamento
energetico dei paesi europei, alleviando la loro dipendenza dalle risorse
provenienti dal Golfo Persico e da quelle che transitano sul territorio russo. In
questo senso l’importanza delle risorse del Caspio risiede non tanto e non solo
nella loro entità, indubbiamente notevole ma non certo in grado di modificare in
misura sostanziale la dipendenza energetica globale dal Medio Oriente, ma nella
possibilità che esse raggiungano il mercato mondiale restando complessivamente
sotto il controllo delle compagnie internazionali che hanno investito nella regione
e degli stati esportatori, grazie a un adeguato livello di investimento non soltanto
nello sviluppo delle risorse e della capacità produttiva, ma anche nella costruzione
delle relative infrastrutture di trasporto in grado di evitare i cosiddetti chokepoints,
le “strozzature” geografiche costituite in particolare dagli Stretti del Bosforo e dei
Dardanelli tra Mar Nero e Mediterraneo, che rallentano il transito delle petroliere
verso i mari aperti, e dall’altro le aree a maggiore rischio di instabilità politica 27 .
Un primo passo verso l’acquisizione di una maggiore indipendenza degli
approvvigionamenti energetici europei dal vecchio sistema di trasporto sovietico è
stato compiuto nel 2001, con l’inaugurazione dell’oleodotto Caspian Pipeline
Consortium (Cpc). Lungo 1.510 kilometri, da Tengiz, sulla costa orientale del
Mar Caspio, fino a porto russo di Novorossijsk, sulla sponda nordorientale del
Mar Nero, l’oleodotto Cpc è stato realizzato come strumento principale per il
trasporto del petrolio estratto dai giacimenti kazaki di Tengiz, di cui l’americana
Chevron Texaco costituisce il principale operatore, sui mercati internazionali, con
una capacità iniziale di 560mila barili di greggio al giorno. La decisione di
esportare attraverso questo oleodotto anche il petrolio di altri giacimenti kazaki, in
particolare di Karachaganak, ha fatto sì che negli ultimi anni esso trasportasse fino
a 700mila barili al giorno, e la sempre crescente produzione petrolifera kazaka ha
spinto alcuni membri del consorzio che gestisce l’oleodotto a proporre un
ulteriore ampliamento della sua capacità fino a raggiungere 1,3 milioni di barili al
giorno entro il 2015 28 . Si tratta naturalmente di un primo passo molto parziale
verso l’indipendenza dal controllo russo, dato che l’oleodotto transita comunque
sul territorio della Federazione Russa e lo stesso governo di Mosca possiede il 24
per cento delle quote di partecipazione all’interno del consorzio incaricato della
sua gestione. Tuttavia va detto che l’oleodotto Tengiz-Novorossijsk è stato il
primo, nella regione, gestito da un consorzio internazionale istituito tramite un
vero e proprio trattato multilaterale tra i governi di tre stati (Federazione Russa,
27
G. BAHGAT, Central Asia and Energy Security, cit., pp. 2-3
Caspian/Iraq Export Pipelines, in «Middle East Economic Survey», 49, 2006, 52,
http://www.mees.com.
28
290
Kazachstan e Oman) e otto compagnie petrolifere private (Chevron Texaco è la
principale e detiene il 15 per cento delle quote del consorzio) 29 .
Tra l’altro, l’oleodotto Cpc resta ancora il principale canale di esportazione del
petrolio kazako: la questione dell’espansione della sua capacità per la verità ha
finora incontrato l’opposizione del governo russo, che ha condizionato il suo
consenso all’aumento delle tariffe di transito e alla partecipazione dei membri del
Cpc al progetto dell’oleodotto che dal porto bulgaro di Burgas sul Mar Nero
dovrebbe estendersi fino alla città greca di Alexandroupolis (oleodotto Bap). Nel
settembre 2006 Russia, Bulgaria e Grecia hanno firmato un memorandum d’intesa
per raggiungere una decisione finale entro il 2007 sulla costruzione dell’oleodotto,
che dovrebbe iniziare nel 2009-2010 e costare 1,3 miliardi di dollari, per una
capacità iniziale di 700mila barili di greggio al giorno. Il progetto fa parte anche
dell’Interstate Oil and Gas Transport to Europe (Inogate), il programma finanziato
dall’Unione Europea per promuovere l’integrazione regionale dei sistemi di
trasporto delle risorse energetiche e facilitarne il transito all’interno delle
repubbliche ex sovietiche e verso i mercati europei 30 . In effetti la costruzione
dell’oleodotto Bap come prosecuzione dell’oleodotto Cpc sull’atra sponda del
Mar Nero, pur non risolvendo il problema del transito del petrolio kazako su
territorio russo, potrebbe costituire una valida opportunità in quanto risolverebbe
almeno il problema del transito attraverso gli Stretti turchi.
Una via alternativa verso ovest per il petrolio kazako è costituita dalla possibilità
di esportare il greggio attraverso il Caucaso grazie all’oleodotto Baku-TbilisiCeyhan (Btc), che dal luglio 2006 scarica il petrolio azero ai terminali del porto
turco direttamente sul Mediterraneo. In effetti, dopo ripetuti annunci in questo
senso da parte del presidente kazako Nazarbaev, nel giugno 2006 il governo di
Astana ha firmato un accordo che prevede il trasporto di 53 milioni di barili
all’anno via nave fino al terminale azero di Sangachal, da cui poi il petrolio
kazako dovrebbe raggiungere il Mediterraneo proprio attraverso il Btc 31 . Per il
momento il Kazachstan si è impegnato a costruire una nuova flotta di petroliere
destinate al trasporto del greggio attraverso il Caspio nell’ambito del TransCaspian Crude Oil Export System (o Kazakhstan-Caspian Transportation System,
Kcto), un progetto di rete di trasporto multimodale destinata a collegare
Kazachstan, Azerbaigian e Georgia e finanziata nell’ambito del programma
Inogate. Questo sistema multimodale dovrebbe secondo le previsioni raggiungere
la piena operatività tra il 2009 e il 2010, in coincidenza con l’avvio della
produzione petrolifera nel giacimento di Kashagan, e potrebbe raggiungere una
29
M. BRILL OLCOTT, Kazmunaigaz: Kazakhstan’s National Oil and Gas Company. Appendix
II, James A. Baker III Institute for Public Policy of Rice University, Houston, March 2007, p. 75.
30
INTERSTATE OIL AND GAS TRANSPORT TO EUROPE, INOGATE Developments 20012004 and New Perspectives, Kiev, June 2004, p. 19, http://www.inogate.org/inogate/en/
resources/publications.
31
M. DENISON, Kazakh Decision to Join BTC Pipeline May Alter Delicate Regional Dynamics,
in «Central Asia-Caucasus Analyst», 28 June 2006, http://www.cacianalyst.org.
291
capacità di trasporto massima di 500mila barili al giorno. La possibilità di
esportare il petrolio kazako attraverso l’oleodotto Btc, che si estende per 1.760
kilometri con una capacità attuale di 500mila barili al giorno (destinata a
raddoppiare tra il 2008 e il 2009), sembra essere fondamentale anche per la
validità economica dello stesso oleodotto caucasico, costato quasi quattro miliardi
di dollari (un miliardo in più del previsto): dati la dimensione e il ritmo di
sfruttamento dei giacimenti di Azeri-Chirag-Gunashli, le prospettive di lungo
periodo dell’oleodotto dipendono dalla possibilità di trasportare anche il petrolio
kazako proveniente dai giacimenti di Kashagan, al fine di evitare il rischio di un
prematuro esaurimento delle riserve petrolifere azere. Non deve sorprendere
quindi che quattro compagnie petrolifere impegnate nello sfruttamento del
giacimento di Kashagan (Eni, Total, ConocoPhilips e Inpex possiedono all’incirca
il 55 per cento delle quote dell’Agip Kazakhstan North Caspian Operating
Company) possiedano anche il 15 per cento delle quote dell’Aioc, il consorzio che
gestisce l’oleodotto Btc. Il petrolio di Kashagan in definitiva potrebbe anche
costituire la variabile determinante per l’eventuale realizzazione di un vero e
proprio oleodotto transcaspico, proposto da più parti, che sarebbe sostenibile sul
piano economico solo nel caso in cui il volume del petrolio kazako trasportato
giornalmente attraverso il Caspio superasse i 500mila barili – e per il quale,
comunque, sarebbe necessario anche il consenso di Mosca, che finora si è sempre
opposta alla sua realizzazione, ufficialmente adducendo ragioni di sostenibilità
ambientale 32 .
L’idea di esportare il petrolio kazako tramite l’oleodotto Btc ha ricevuto
naturalmente il forte appoggio occidentale, degli Stati Uniti in particolare: non
solo infatti, come si è detto, la validità dell’intero progetto Btc dipende dalla
possibilità che a esso partecipi anche il Kazachstan, ma anche per il paese
centroasiatico (e, soprattutto, per le compagnie petrolifere occidentali che operano
nel paese) diventa sempre più pressante l’esigenza di trovare canali di trasporto
alternativi in grado di assorbire l’incremento produttivo atteso nei prossimi anni,
dato che l’oleodotto Cpc non sembra avere capacità sufficiente per esportare il
petrolio proveniente dal più vasto giacimento del bacino del Caspio, quando esso
avrà raggiunto la piena operatività. E in questo senso, un sistema transaspico che
colleghi i ricchi giacimenti kazaki direttamente al Mediterraneo attraverso
Azerbaigian Georgia e Turchia – con il non trascurabile doppio pregio, tra l’altro,
di evitare la “strozzatura” costituita dagli Stretti turchi del Bosforo e dei
Dardanelli e di essere sottratto al capriccioso e imprevedibile controllo russo –
rappresenta una pedina fondamentale nel complesso della strategia centroasiatica
di Washington, di cui la questione della sicurezza energetica europea è parte
integrante 33 . Tale strategia, attraverso la creazione di un corridoio di trasporto
delle risorse energetiche sviluppato lungo la direttrice est-ovest, libero da
32
Caspian/Iraq Export Pipelines, cit.
A. COHEN, U.S. Interests and Central Asia Energy Security, The Heritage Foundation,
Washington D.C., November 2006.
33
292
interferenze russe e in grado di negare all’Iran la possibilità di proporsi come rotta
di transito per gli idrocarburi del Caspio verso l’Oceano Indiano, mira a creare
uno spazio continuo dalla Turchia attraverso l’Asia centrale fino ai confini con la
Cina che garantirebbe agli Stati Uniti quell’accesso diretto all’heartland
centroasiatico indispensabile in vista di una possibile presenza americana di lungo
periodo nell’area 34 . Nell’ambito di questa visione strategica, la minaccia più
preoccupante, oltre a quella di un incremento degli oil swaps per mezzo dei quali
il Kazachstan invia per ora modeste quantità di petrolio attraverso il Caspio fino al
porto iraniano di Neka, è evidentemente costituita dalla possibilità, ventilata dal
governo di Tehran e dalla compagnia francese Total e ben vista dallo stesso
governo di Astana, che il sistema multimodale transcaspico sia esteso anche alle
sponde settentrionale e meridionale del Caspio, a comprendere quindi anche
Russia e Iran 35 .
Viceversa, il naturale completamento del corridoio energetico est-ovest costituito
dal Kcts-Btc all’interno della strategia americana per la sicurezza energetica
europea potrebbe essere la realizzazione di un gasdotto transcaspico che facesse
confluire il gas centroasiatico nel gasdotto parallelo all’oleodotto Btc (South
Caucasus Pipeline, Scp), completato alla fine del 2006, che con una capacità
prevista di 20 miliardi di metri cubi di gas all’anno (8 miliardi di metri cubi
all’anno come capacità iniziale) dal 2007 porta il gas naturale estratto dal
giacimento azero di Shah Deniz fino alla città turca di Erzurum, dalla quale poi il
gas confluirebbe nella rete di distribuzione del paese 36 . Nel corso degli anni
Novanta la compagnia Shell aveva compiuto alcuni studi volti alla realizzazione
di un gasdotto tra Turkmenistan e Azerbaigian, inevitabilmente accantonati a
causa dell’atteggiamento di chiusura del governo di Ashgabat nei confronti delle
compagnie petrolifere occidentali. Tuttavia nel 2006 l’idea è stata riesumata da
Stati Uniti e Unione Europea, con la differenza che a essere collegati al gasdotto
Scp attraverso il Caspio sarebbero non i giacimenti turkmeni ormai vecchi e di
incerta entità, ma quelli apparentemente più promettenti del Kazachstan, paese
indubbiamente anche meglio disposto nei confronti degli investimenti
occidentali 37 . L’eventuale realizzazione di un gasdotto transcaspico collegato al
Scp sarebbe senza ombra di dubbio il naturale punto di partenza di un sistema che,
collegandosi al progettato gasdotto Nabucco, possibile chiave di volta della
politica energetica dell’Unione Europea, porterebbe il gas del bacino del Caspio
attraverso il Caucaso meridionale, Turchia, Bulgaria, Romania, Ungheria e
34
V. MACHAVARIANI, U.S. Policies and Russian Responses to Developing the East-West
Transportation Corridor, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 18 June 2003,
http://www.cacianalyst.org.
35
M. DENISON, Kazakh Decision to Join BTC Pipeline May Alter Delicate Regional Dynamics,
cit.
36
Caspian/Iraq Export Pipelines, cit.
37
Ibidem.
293
Austria fino al cuore dell’Europa continentale, garantendo almeno nelle intenzioni
la sicurezza energetica del Vecchio Continente nel medio-lungo periodo38 .
3.2
“Going East”: le risorse dell’Asia centrale e i mercati asiatici
Questa visione sostanzialmente eurocentrica della sicurezza energetica deve però
necessariamente essere rivista tenendo conto dell’esistenza di altri potenziali
mercati di esportazione delle risorse del bacino del Caspio, costituiti dai paesi
asiatici: secondo le previsioni infatti nel 2015 la domanda di risorse energetiche
dei paesi non appartenenti all’Ocse supererà la domanda dei paesi Ocse, e di tale
incremento saranno in gran parte responsabili proprio i paesi asiatici, la cui
domanda di energia è destinata a triplicare entro il 203039 . In particolare, Cina e
India vedranno aumentare le proprie importazioni di idrocarburi per sostenere la
propria crescita economica; già nel 2004 la stessa Cina aveva sorpassato il
Giappone come secondo consumatore mondiale di petrolio, alle spalle degli Stati
Uniti.
E’ quindi naturale che Pechino guardi agli idrocarburi del Caspio e dell’Asia
centrale come a una riserva particolarmente rilevante per la propria sicurezza
energetica, costituita da risorse non appartenenti a paesi Opec, situate in una
regione direttamente confinante con le province occidentali del paese e quindi
trasportabili in modo relativamente sicuro via terra. Inizialmente l’approccio
cinese al “Grande Gioco” per le risorse del Caspio è stato caratterizzato da
un’enfasi sui legami bilaterali con i singoli paesi asiatici. Tuttavia la forte e
ingombrante presenza russa nella regione centroasiatica ha spinto Pechino a
cambiare strategia, impostando un approccio multilaterale e sostenendo una
politica di cooperazione energetica nell’ambito della Shanghai Cooperation
Organisation (Sco), di cui fa parte anche la Federazione Russa 40 . Parte di questa
politica dovrebbe essere anche lo studio di proposte volte alla costruzione di
oleodotti e gasdotti che colleghino i vari membri della Sco. Già dal XVI
Congresso del Partito comunista cinese, tenutosi nel 2002, in effetti Pechino ha
iniziato a sviluppare una strategia energetica diretta verso occidente,
impegnandosi in discussioni con le varie repubbliche centroasiatiche per la
costruzione di condotte per il trasporto degli idrocarburi e per la conduzione di
operazioni di esplorazione e sfruttamento in questi stessi paesi. I principali
benefici che Pechino cerca di ottenere grazie alla propria politica di investimenti
38
B. O’ROURKE, Caspian: EU Invests in New Pipeline, in «News and Analysis», Radio Free
Europe/Radio Liberty, 27 June 2006, http://www.rferl.org; INTERSTATE OIL AND GAS
TRANSPORT TO EUROPE, INOGATE Developments 2001-2004 and New Perspectives, cit., p.
12.
39
UNITED STATES ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION, International Energy
Outlook 2006, Washington D.C., 2006.
40
S. BLANK, China’s Emerging Energy Nexus with Central Asia, in «China Brief», 6, 2006, 15,
pp. 8-10.
294
nel settore energetico dei paesi centroasiatici sono principalmente connessi da un
lato alla possibilità di ridurre la dipendenza energetica del paese dalle forniture
energetiche provenienti dal Golfo Persico, dall’altro lato alla minore vulnerabilità
che il trasporto via terra attraverso il continente asiatico presenterebbe nei
confronti della proiezione di potenza globale perseguita da Washington
soprattutto per mezzo della propria flotta militare.
La strategia cinese verso l’Asia centrale e le sue risorse energetiche ha finora
colto discreti successi: in buona misura il merito dell’accoglienza positiva che le
repubbliche ex sovietiche hanno riservato alle iniziative di Pechino è senza dubbio
da attribuire al fatto che gli investimenti effettuati nel settore degli idrocarburi
dalla China National Petroleum Corporation (Cnpc), la compagnia petrolifera di
stato, rappresentano un’opportunità importante per gli esportatori della regione
centroasiatica per diversificare le direttrici del proprio export energetico. Dal
punto di vista cinese, una componente importante nella strategia centroasiatica
della Repubblica popolare (che condivide circa tremila kilometri di confine con
Kazachstan, Kirghizistan e Tagikistan) è inoltre rappresentata dalla necessità di
favorire il mantenimento della stabilità al di là dei propri confini occidentali,
esigenza fondamentale per la sicurezza nazionale cinese soprattutto in
considerazione della difficile situazione di instabilità politica presente nelle
regioni occidentali del paese, caratterizzate da spinte centrifughe 41 . Il governo di
Pechino ha quindi un forte interesse a garantire la stabilità e la continuità dei
regimi esistenti nelle repubbliche centroasiatiche, per quanto autoritari.
Nell’ambito della propria politica energetica verso l’Asia centrale, Pechino ha
individuato il Kazachstan come interlocutore privilegiato. Sin dalla seconda metà
degli anni Novanta gli investimenti cinesi nel paese hanno subito un forte
incremento: nel 1997 Cnpc ha avviato le prime attività di esplorazione petrolifera,
attraverso l’acquisizione di una parte della compagnia locale Aktobemunaigaz,
che gestisce le attività di esplorazione e sfruttamento dei giacimenti petroliferi
situati nella regione centrale di Aktobe; nel 2003 Sinopec e Cnooc (China
National Offshore Oil Corporation) hanno cercato di intensificare la presenza
cinese nel settore degli idrocarburi kazako offrendosi di rilevare la quota detenuta
da British Gas all’interno del consorzio di sfruttamento del giacimento misto di
Kashagan (tentativo fallito a causa dell’opposizione degli altri membri del
consorzio); due anni più tardi, nel 2005, Cnpc ha rilevato la compagnia kazakocanadese PetroKazakhstan, acquisendo i diritti di sfruttamento dei giacimenti
petroliferi di Kumkol, nel Kazachstan centrale, e del bacino del fiume Turgai, nel
Kazachstan occidentale, e il controllo congiunto (insieme a Kazmunaigaz) del
complesso di Shymkent, il principale impianto di raffinazione del paese 42 .
41
X. GUO, The Energy Security in Central Eurasia: The Geopolitical Implications to China’s
Energy Strategy, in «China and Eurasia Forum Quarterly», 4, 2006, 4, p. 134,
http://www.cacianalyst.org.
42
M. BRILL OLCOTT, “Friendship of Nations” in the World of Energy, in «Pro et Contra», 10,
2006, 2-3, pp. 7-8.
295
La pedina fondamentale della politica energetica cinese è però costituita
dell’oleodotto sino-kazako, lungo oltre 3000 kilometri, che una volta completato
collegherà il terminale di Atyrau, sulla costa settentrionale del Mar Caspio, alla
città di Alashankou, nello Xinjiang cinese 43 . La realizzazione del progetto
prevede tre fasi: la prima, completata nel 2003, ha collegato Kenkyiak, nella
regione di Aktobe, dove Cnpc dirige le attività di sfruttamento di alcuni
giacimenti, al terminale di Atyrau tramite un oleodotto lungo 450 kilometri e con
una capacità di 12mila barili al giorno. La seconda fase è stata completata nel
dicembre 2005 con l’inaugurazione di un oleodotto lungo 1.200 kilometri che si
estende da Atasu, nell’ovest del paese, ad Alashankou, poco oltre il confine cinese.
L’oleodotto è divenuto operativo nel luglio 2006 e attualmente ha una capacità di
200mila barili al giorno: al momento il petrolio esportato in Cina attraverso questa
condotta proviene principalmente dai giacimenti del Turgai e di Kumkol, di cui
come si è detto Cnpc è la compagnia operatrice. Tuttavia si tratta di giacimenti di
dimensioni relativamente ridotte rispetto ai giacimenti situati nel bacino del
Caspio, tanto che per poter sfruttare appieno il potenziale dell’oleodotto, almeno
fin tanto che non sarà completata anche la terza fase, si rende necessario
individuare fornitori alternativi: a questo proposito nel corso del 2006 la
compagnia russa Rosneft ha esternato in più occasioni il proprio interesse a
esportare il petrolio russo verso la Cina attraverso il Kazachstan, più precisamente
attraverso l’oleodotto di epoca sovietica che collega Omsk a Pavlodar, nel
Kazachstan settentrionale, e infine ad Atasu, da dove confluirebbe nel nuovo
oleodotto sino-kazako. I vertici di Rosneft hanno in effetti sostenuto che la
compagnia russa potrebbe fornire alla Cina attraverso l’oleodotto AtasuAlashankou poco più di 51 milioni di barili di petrolio nel 2007 44 . Tuttavia questa
ipotesi incontra alcuni ostacoli, legati in primo luogo alla necessità di
ammodernare e in gran parte ricostruire l’oleodotto sovietico, e in secondo luogo
alla sostanziale diffidenza con la quale Mosca guarda alla politica di
differenziazione dei mercati di esportazione perseguita da Astana come strumento
per accrescere la propria indipendenza economica dall’ex madrepatria. La terza e
ultima fase del progetto sino-kazako prevede la costruzione, a partire dal 2011, di
un oleodotto tra Kenkiyak e Atasu, che dovrebbe collegare i giacimenti di Aktobe
al complesso di Shymkent e ai giacimenti di Kumkol – raddoppiando anche la
capacità di trasporto dell’intera infrastruttura, che dovrebbe raggiungere i 400mila
barili al giorno – ma soprattutto creerebbe un unico corridoio continuo dai più
ricchi giacimenti del Caspio direttamente fino al confine cinese. Anche in questo
caso, come per il progetto Btc, la validità e sostenibilità economica del progetto
sino-kazako sembra dipendere dalla possibilità che una parte del petrolio di
Kashagan prenda la via della Cina; non a caso il completamento dell’oleodotto e il
raddoppio della sua capacità sono previsti non prima del 2011, in coincidenza cioè
43
Caspian/Iraq Export Pipelines, cit.
Russian Oil Transit via Kazakhstan to China to Hit 51 mln bbl in 2007, RIA Novosti Business,
http://en.rian.ru/business/20061031/55263095.html.
44
296
con l’avvio delle attività di estrazione e di sfruttamento commerciale del più
grande deposito petrolifero offshore del Kazachstan.
Il naturale complemento dell’oleodotto Atyrau-Alashankou è costituito dal
progetto di costruzione di un gasdotto che dovrebbe collegare Kazachstan e Cina.
Nell’agosto 2005 Cnpc e Kazmunaigaz hanno firmato un accordo per la sua
realizzazione: il percorso del gasdotto non è ancora stato precisato, mentre la sua
capacità iniziale dovrebbe essere di circa 10 miliardi di metri cubi annui, destinata
a triplicare una volta che il gasdotto avrà raggiunto la sua piena operatività 45 .
Un discorso analogo a quello appena descritto per la sicurezza energetica cinese
può essere fatto anche per l’India, la cui economia è destinata a crescere
rapidamente nei prossimi anni, sostenendo a sua volta la crescita della domanda di
risorse energetiche del paese. Lo stesso Primo ministro indiano Manmohan Singh
dichiarava nel 2005 che «la sicurezza energetica nella nostra scala di priorità è
seconda solo alla sicurezza alimentare» 46 . Come la Cina, anche l’India è dunque
45
UNITED STATES ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION, Country Analysis Brief.
Kazakhstan, cit.
46
Citato in S. BLANK, India’s Energy Offensive in Central Asia, in «Central Asia-Caucasus
Analyst», 9 March 2005, http://www.cacianalyst.org.
297
interessata a ridurre la propria dipendenza dalle riserve energetiche del Medio
Oriente e, soprattutto, dell’Iran, anche nel contesto della partnership che Nuova
Delhi sta sviluppando con Washington. E’ questa esigenza di diversificazione
delle fonti energetiche che determina l’interesse indiano per le risorse
centroasiatiche, interesse peraltro rafforzato da considerazioni di ordine diverso:
nella possibilità di avere accesso al forziere energetico dell’Asia centrale Nuova
Delhi ravvisa infatti l’opportunità di stabilire legami con i paesi dell’area allo
scopo di rafforzare la propria sicurezza interna contro la minaccia costituita dal
radicalismo islamico, di sfruttare il potenziale di nuovi mercati di sbocco per la
propria produzione e più in generale di espandere la propria influenza in un’area
strategica per gli equilibri globali, in linea con la propria parabola di ascesa al
rango di potenza mondiale.
In questo contesto l’interesse indiano si è concretizzato in particolare
nell’appoggio a un progetto tanto innovativo e ambizioso, quanto fantasioso e
azzardato, quel progetto di gasdotto transafghano (Trans-Afghan Pipeline, Tap)
destinato a portare il gas turkmeno fino all’Oceano Indiano. L’idea di costruire un
gasdotto attraverso Turkmenistan, Afghanistan e Pakistan risale già alla metà
degli anni Novanta, ma l’instaurazione del regime talebano a Kabul e il
conseguente clima di ostilità internazionale e instabilità interna ne hanno
inevitabilmente causato il preventivo accantonamento. La caduta dei talebani e il
cambio di regime nell’Afghanistan occupato dalle forze internazionali hanno
condotto alla riesumazione dell’ambizioso disegno, e nel dicembre 2002 il
presidente afghano Hamid Karzai e i suoi omologhi del Pakistan Pervez
Musharraf e del Turkmenistan Saparmurat Niyazov hanno firmato l’accordo che
prevede la costruzione del Tap per un costo complessivo di 3,5 miliardi di dollari,
sottolineando l’importanza vitale di tale opera per dare slancio alle economie della
regione. Per quanto l’effettiva realizzazione del progetto sia inevitabilmente
pregiudicata dal permanere di una situazione di diffusa instabilità regionale, esso è
stato salutato con un certo entusiasmo tanto dai governi dei paesi interessati
quanto dalle istituzioni finanziarie multilaterali, in particolare l’Asian
Development Bank (Adb) e la Islamic Development Bank, che hanno concesso
generosi finanziamenti, mentre nel 2005 il governo indiano ha espresso
ufficialmente l’intenzione di partecipare al progetto. Nel 2005 è stato anche
completato il relativo studio di fattibilità, commissionato dall’Adb, che ha
proposto la costruzione di un gasdotto lungo quasi 1.700 kilometri con una
capacità di circa 33 miliardi di metri cubi all’anno, che dal giacimento turkmeno
di Dauletabad dovrebbe dirigersi a sud, attraversare l’Afghanistan passando per
Herat e Kandahar e il Pakistan passando per Quetta e Multan, per giungere infine
alla città indiana di Fazilka, poco distante dal confine indo-pakistano. In effetti
dallo studio dell’Adb emerge chiaramente la necessità di coinvolgere anche
298
l’India affinché l’intero progetto Tap possa considerarsi economicamente valido e
sostenibile nel medio-lungo periodo 47 .
Tuttavia, nonostante il diffuso entusiasmo e nonostante il cambiamento avvenuto
negli ultimi anni nell’orientamento degli Stati Uniti, ora favorevoli alla
realizzazione del gasdotto soprattutto in contrapposizione alla possibile alternativa
costituita da un gasdotto dal Turkmenistan al Pakistan attraverso l’Iran, il progetto
Tap è rimasto finora niente più di un’ipotesi suggestiva. Sulla sua costruzione
pesa soprattutto l’instabilità afgana, ma va detto che la stessa India, nonostante il
recente miglioramento nei rapporti bilaterali, è piuttosto riluttante ad affidare nelle
mani del Pakistan il proprio approvvigionamento di gas proveniente dall’Asia
centrale 48 . Su tutto poi incide anche l’incognita relativa all’impossibilità di
conoscere con relativa sicurezza e attraverso analisi indipendenti l’entità delle
riserve del Turkmenistan, che dovrebbero fornire il gas destinato a transitare nel
Tap, e le reali capacità produttive del paese.
3.3
La posizione della Russia tra politica di influenza e monopolio energetico
Oltre ai mercati europei e a quelli asiatici, spesso si dimentica che sempre più
negli ultimi anni anche la Federazione Russa ha acquisito importanza come
importatore, e non solo come paese di transito e concorrente nell’esportazione,
delle risorse energetiche centroasiatiche. Quello russo non è solo un generico
interesse a mantenere (o recuperare) spazi di influenza in quello che considera il
proprio “estero vicino”, nel cui contesto il controllo su un settore vitale per le
economie delle repubbliche di nuova indipendenza rappresenta uno strumento
utilizzato per legare a Mosca i regimi locali e un complemento della politica di
presenza politica e militare impostata dal Cremlino per mantenere la stabilità
dell’area. A ben vedere per Gazprom la possibilità di importare gas naturale dai
paesi centroasiatici è fondamentale per sopperire al declino produttivo atteso nei
giacimenti siberiani, molti dei quali sono in via di esaurimento, e per garantire le
forniture energetiche all’Europa mantenendo la propria posizione di sostanziale
monopolio.
A tale scopo la Russia ha proceduto a stipulare una serie di nuovi accordi e a
rinnovare (e rafforzare) quelli già esistenti con i singoli paesi centroasiatici, in
particolare Uzbekistan, Turkmenistan e Kazachstan. Al primo dei tre,
all’indomani degli eventi di Andijan Mosca ha promesso ingenti investimenti nel
settore energetico, parallelamente a un trattato di reciproca assistenza militare che
ha consentito alla Russia di riempire prontamente il vuoto lasciato dagli Stati
Uniti, espulsi dalla base di Karshi-Khanabad. Con il Kazachstan, nell’ottobre
2006 la Russia ha creato una nuova joint venture per processare il gas estratto dal
47
S. BLANK, India’s Continuing Quest for Central Asian Energy, in «Central Asia-Caucasus
Analyst», 13 July 2005, http://www.cacianalyst.org.
48
Ibidem.
299
giacimento kazako di Karachaganak presso un impianto della Russia meridionale,
assicurandosi quindi che una porzione rilevante del gas kazako venga poi
esportata attraverso il proprio territorio (a un prezzo superiore di quello
precedente: tra i 100 e i 140 dollari per 1000 metri cubi, contro i 47 dollari pagati
precedentemente). Con il Turkmenistan, lo scorso settembre Gazprom ha infine
raggiunto un accordo per l’importazione di 50 miliardi di metri cubi annui di gas
per il triennio 2007-2009, dovendo però cedere alle richieste di Ashgabat di
aumentare il prezzo del gas importato da 65 a 100 dollari per mille metri cubi
(comunque meno della metà del prezzo al quale Gazprom rivende il gas ai paesi
europei). Infine, durante una visita ufficiale in Kazachstan e Turkmenistan, nel
maggio 2007 Putin, Nazarbaev e il neo-presidente turkmeno Berdymukhammedov
hanno raggiunto un accordo preliminare per l’ampliamento e l’ammodernamento
del Central Asia-Center Pipeline, il gasdotto di epoca sovietica che dal
Turkmenistan e dall’Uzbekistan attraverso il Kazachstan si collega al sistema di
distribuzione russo e che tutt’ora costituisce il pressoché esclusivo canale di
esportazione del gas centroasiatico; il presidente russo, insieme con i suoi
omologhi di Astana e Ashgabat, ha poi annunciato, in occasione della stessa visita,
l’intenzione, già ventilata in passato ma finora mai rispettata, principalmente a
causa dell’atteggiamento capriccioso dell’ex presidente turkmeno Niyazov, di
costruire un nuovo gasdotto lungo le coste del Mar Caspio, che dovrebbe far
confluire in Russia volumi crescenti di gas turkmeno e kazako.
Se finora Mosca ha cercato di perseguire i propri obiettivi in materia energetica
attraverso il rafforzamento dei legami bilaterali con i paesi della regione, le
ambizioni russe si indirizzano in realtà verso lo sviluppo di forme di cooperazione
energetica multilaterale. A questo proposito nei disegni russi la Sco riveste
un’importanza del tutto particolare, e potrebbe diventare il nucleo di una sorta di
Opec del gas che abbia in Mosca il suo centro, un nuovo “club dell’energia” che
consentirebbe alla Russia non solo di influire sul prezzo mondiale del gas, ma
anche di esercitare un’influenza dominante sulle politiche energetiche degli altri
produttori centroasiatici 49 . Le aperture lasciate intravedere da Mosca verso
un’eventuale partecipazione iraniana a pieno titolo alla Sco (ora Tehran partecipa
al Gruppo di Shanghai con lo status di osservatore) possono intendersi anche
come funzionali a contrastare il progetto, sostenuto da Washington, di gasdotto
trans-afghano e a sostenere viceversa l’ipotesi di realizzare un corridoio
energetico lungo la direttrice nord-sud diretto come il Tap verso Pakistan e India,
ma attraverso l’Iran. La costruzione di un simile gasdotto non solo costituirebbe
una delle opere infrastrutturali più grandiose all’interno dell’ambizioso disegno
russo, ma permetterebbe anche a Gazprom di avere accesso ai lucrosi mercati
dell’Asia meridionale.
49
S. BLANK, The Shanghai Cooperation Organisation as an “Energy Club”, Portents for the
Future, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 4 October 2006, http://www.cacianalyst.org.
300
4. Le repubbliche centroasiatiche all’interno
allineamenti e politiche multivettoriali
della
partita
energetica:
La complessa partita internazionale per l’accesso alle risorse energetiche dell’Asia
centrale e il loro controllo ha inevitabilmente finito per inserire i paesi
centroasiatici all’interno di queste difficili dinamiche regionali, obbligandoli a
districarsi tra le diverse e a volte contrastanti esigenze di sviluppo economico,
indipendenza politica, stabilità interna ed equilibrio regionale. All’interno di
questo contesto le repubbliche ex sovietiche hanno assunto atteggiamenti e
impostato politiche diverse, ma tutte tese, almeno nelle intenzioni, a massimizzare
i benefici derivanti dal crescente interesse internazionale per le risorse da essi
possedute. I diversi gradi con cui questi paesi hanno saputo finora seguire
politiche multi-vettoriali hanno determinato quanto ciascuno di essi ha potuto
effettivamente trarre vantaggio dalla propria posizione di produttore ed
esportatore di idrocarburi e in quale misura, viceversa, è stato “risucchiato”
nell’orbita di questa o quella potenza.
Sin dal 2001 l’Uzbekistan ha cercato di sviluppare una politica di apertura verso
l’Occidente, presentandosi come partner strategico degli Stati Uniti nella guerra
contro il terrorismo: come risultato di questo avvicinamento, volto a consentire al
paese di recuperare una maggiore autonomia nei confronti di Mosca, alcune
compagnie petrolifere britanniche avevano potuto entrare in joint ventures con la
compagnia petrolifera statale e firmare production sharing agreements per
l’esplorazione e lo sfruttamento di alcuni giacimenti del paese. Tuttavia gli eventi
di Andijan del 2005 e soprattutto le critiche piovute sul governo di Tashkent dalle
cancellerie occidentali hanno indotto il presidente Karimov a temere per la
stabilità del proprio regime e a compiere una brusca inversione di rotta. Tashkent
ha quindi ristrutturato la propria politica estera con un deciso riavvicinamento a
Mosca e, in misura minore, Pechino, tanto che alla fine del 2005 Russia e
Uzbekistan hanno siglato un trattato di assistenza militare che di fatto ha
imbrigliato la politica estera uzbeka all’interno di uno stretto allineamento con
Mosca. Al paese, quindi, è rimasto poco spazio di manovra anche nel settore
energetico, privato ormai degli investimenti occidentali, ancora poco interessante
per quelli cinesi (che si sono concentrati finora nel più ricco Kazachstan) e
dominato inevitabilmente dalla presenza crescente delle russe Gazprom e Lukoil.
Il tutto a scapito dell’ambizioso disegno di Karimov di fare del paese lo snodo
fondamentale per il transito delle risorse energetiche all’interno della regione
centroasiatica 50 .
Diverso destino, ma non per questo più favorevole, ha incontrato il tentativo
spesso incoerente del Turkmenistan di sviluppare diverse alternative per
l’esportazione del proprio gas per alleggerire la necessità di dover esportare quasi
esclusivamente attraverso la Federazione Russa. Ashgabat ha quindi esplorato
50
D. KIMMAGE, Central Asia: The Fate of the Multivector Model, Radio Free Europe/Radio
Liberty, 2 June 2006, http://www.rferl.org.
301
«tutte le possibili rotte per portare le risorse energetiche sui mercati
internazionali» 51 , compreso il già citato gasdotto trans-afghano e un possibile
gasdotto trans-caspico verso l’Azerbaigian e la Turchia, nonché un gasdotto
attraverso l’Uzbekistan e verso la Cina. Proprio con il governo cinese Niyazov ha
firmato nell’aprile 2006 un accordo per l’esportazione di 30 miliardi di metri cubi
di gas all’anno a partire dal 2009 e per i successivi trent’anni, attraverso un
gasdotto ancora da costruire (ma che l’ex presidente turkmeno prevedeva di poter
completare proprio entro il 2009). Il percorso di tale gasdotto è ancora
indeterminato, e sembra anche destinato a incontrare non pochi ostacoli, dato che i
due paesi che esso dovrebbe attraversare prima di giungere al confine cinese
(Uzbekistan e Kazachstan) sono entrambi concorrenti del Turkmenistan. Tuttavia
la firma di un accordo che impegna Ashgabat e Pechino in tal senso è una chiara
indicazione della volontà turkmena di giocare la carta energetica per massimizzare
la propria libertà di azione in campo internazionale e al contempo rafforzare la
propria posizione nei confronti di Mosca. Una strategia, peraltro, che sembra
essere portata avanti anche dal nuovo presidente Gurbanguly
Berdymukhammedov, che ha ribadito nel gennaio scorso l’intenzione di
proseguire sulla strada per la Cina, ma ha altresì salutato con favore, quattro mesi
più tardi, l’accordo con Vladimir Putin relativo all’ampliamento e
ammodernamento del Central Asia-Center Pipeline e alla costruzione del nuovo
gasdotto lungo le coste del Caspio, attraverso cui dovrebbe transitare una porzione
consistente del gas estratto dai giacimenti turkmeni. Semmai, l’incognita
principale per il paese centroasiatico riguarda la reale entità delle sue riserve di
idrocarburi e la sua effettiva capacità di far fronte a tutti gli impegni presi dalla
compagnia di stato Turkmenneftegaz con i diversi paesi importatori. In effetti, se
si considera che nel 2005 il Turkmenistan ha prodotto poco meno di 59 miliardi di
metri cubi di gas, è lecito nutrire qualche dubbio sulla possibilità che, senza una
maggiore apertura agli investimenti esteri, il paese possa realmente fornire nel
corso dei prossimi anni 50 miliardi di metri cubi di gas all’anno alla Russia (e
indirettamente all’Europa), 30 miliardi di metri cubi alla Cina e altrettanti ai
mercati dell’Asia meridionale attraverso il Tap, e 8 miliardi di metri cubi all’Iran
attraverso il già operativo gasdotto Korpezhe-Kurt Kui.
Nel complesso, il Kazachstan sembra l’unico paese ad aver perseguito una politica
multivettoriale in campo energetico con un discreto successo. Ne è la prova il
fatto che Astana è riuscita a non compromettere le relazioni con Mosca, che in
precedenza era il suo unico interlocutore per quanto riguarda l’esportazione degli
idrocarburi della repubblica centroasiatica. Anzi, in numerose dichiarazioni
ufficiali il presidente kazako Nazarbaev ha ribadito la priorità assegnata al
mantenimento di relazioni amichevoli con la vicina Russia52 . All’interno di queste
51
Riportato in D. KIMMAGE, Analysis: Turkmen Government Steps up Gas Diplomacy, Radio
Free Europe/Radio Liberty, 2 February 2006, http://www.rferl.org.
52
2005 in Review: The Geopolitical Game in Central Asia, Radio Free Europe/Radio Liberty, 29
December 2005, http://www.rferl.org.
302
relazioni amichevoli naturalmente una posizione importante è rivestita dalla
comune intenzione di sostenere l’ampliamento del Central Asia-Center Pipeline e
la costruzione del nuovo gasdotto lungo il Caspio, ma anche dalla necessità di
trovare un compromesso tra la volontà di Astana di ampliare la capacità
dell’oleodotto Cpc e le pressioni russe nella direzione dell’ammodernamento e
dell’ampliamento del vecchio oleodotto sovietico Atyrau-Samara. Il dato di fatto
resta comunque la quantità di petrolio kazako che, nonostante i tentativi di
diversificazione delle rotte di esportazione, ogni anno viene ancora esportato
attraverso il territorio russo, superiore ai due terzi della produzione petrolifera
totale (nel 2005 circa 45 milioni di tonnellate di greggio sono state esportate
attraverso gli oleodotti Cpc e Atyrau-Samara, su una produzione di circa 63
milioni di tonnellate 53 ) e destinata a crescere a seguito degli ampliamenti e
ammodernamenti previsti. Questo dato è indicativo della gradualità con cui il
paese ha cercato di sviluppare rotte alternative per le proprie esportazioni
petrolifere, parallelamente all’espansione della propria capacità produttiva, al fine
di ridurre il rischio da un lato di un’indesiderata eccessiva dipendenza dalla
Russia e dall’altro di un sovrainvestimento in una specifica direzione. La strategia
kazaka ha in definitiva permesso al paese di proporsi come punto di partenza di
quattro diverse direttrici di esportazione: non solo verso (e attraverso) la
Federazione Russa, ma anche verso la Cina per mezzo del nuovo oleodotto AtasuAlashankou (e in futuro per mezzo del suo prolungamento fino ad Atyrau), verso
il Mediterraneo attraverso il sistema transcaspico e il Btc e verso l’Iran grazie alla
stipulazione di oil swap agreements (per la verità di entità piuttosto limitata).
Nell’ambito di questa strategia l’abilità kazaka è consistita finora principalmente
nell’utilizzo di una efficace politica di “pesi e contrappesi”, che ha visto il paese
aprirsi agli investimenti cinesi offrendo al contempo alle compagnie russe la
possibilità di partecipare al progetto di oleodotto sino-kazako, e occhieggiare
all’Europa e agli Stati Uniti appoggiando i progetti transcaspici ma solo a
condizione che si trovi un accordo tra tutti e cinque gli stati rivieraschi.
L’evoluzione della politica energetica kazaka sembra dimostrare che la scelta di
un’equilibrata strategia multidirezionale che tenga realisticamente conto dei
vincoli geopolitici che determinano le dinamiche regionali può arrecare benefici
tanto ai paesi produttori di risorse energetiche quanto ai potenziali mercati di
destinazione. Di certo il grado di apertura economica superiore rispetto agli altri
paesi dell’area e il migliore clima per gli investimenti si è rivelato indispensabile
affinché il Kazachstan potesse efficacemente coltivare diverse opzioni in maniera
funzionale al proprio sviluppo economico. Si tratta dunque di una lezione
importante anche per gli altri produttori dell’Asia centrale, le cui prospettive di
sviluppo economico riposano sulla capacità di sfruttare il proprio potenziale
energetico: alla luce di questo, è quanto mai indispensabile che essi individuino
strategie nazionali solide e coerenti che permettano loro di inserirsi nel “Grande
53
Kazakhstan: China Pipeline Boosts Multivector Option, in «Oxford Analytica», 6 June 2006,
http://www.oxan.com.
303
Gioco” dell’Asia centrale e, soprattutto, di presentarsi come interlocutori
affidabili nei confronti dei soggetti interessati ad avere accesso alle risorse
energetiche della regione.
304
L’UNIONE EUROPEA E L’ASIA CENTRALE
Aldo Ferrari
Introduzione
Dopo Moldavia, Bielorussia, Ucraina, Georgia, Armenia ed Azerbaigian, che nel
2004 sono state inserite nella Politica Europea di Vicinato (European
Neighbourhood Policy, Enp), la Ostpolitik dell’Unione Europea comincia a
riguardare anche le cinque repubbliche dell’Asia centrale post-sovietica. Un passo
fondamentale in questa direzione è stata la nomina di un Rappresentante Speciale
per l’Asia centrale nel luglio 2005, ma con la presidenza tedesca l’Unione
Europea ha ulteriormente intensificato il suo interesse per la regione. Nel suo
discorso del 17 gennaio al Parlamento Europeo di Strasburgo, in cui ha reso note
le priorità della presidenza tedesca dell’Unione Europea 1 , il cancelliere Angela
Merkel ha compiuto un passo ulteriore e molto significativo nei confronti
dell’Asia centrale, parlando di una possibile estensione ad essa della Politica di
Prossimità. Secondo il Cancelliere tedesco, infatti, «The EU has to show a greater
will to shape events in its neighbourhood, for we cannot always comply with the
desire of many countries to join the EU. Neighbourhood policy is the sensible and
attractive alternative. We intend to develop such a neighbourhood policy
particularly towards the Black Sea region and Central Asia during our
Presidency» 2 .
Sulla base di questo orientamento generale, è attualmente in preparazione il
documento che definirà la nuova strategia europea nei confronti di questa regione
per il periodo 2007-2013. Il documento finale, che sarà ultimato nel giugno 2007,
1
Tra l’altro la Germania è particolarmente indicata a svolgere questo ruolo di spinta verso l’Asia
centrale, in quanto è l’unico stato europeo che possiede un’ambasciata in tutte e cinque le
repubbliche della regione. Cfr. A. SCHMITZ, A Political Strategy for Central Asia, in V.
PERTHES - S. MAIR (eds.), European Foreign and Security Policy. Challenges and
Opportunities for German EU Presidency, «SWP Research Paper» n. 10, October 2006,
http://www.swp-berlin.org/common/get_document.php?asset_id=3366.
2
Speech by Angela Merkel, Chancellor of the Federal Republic of Germany, to the European
Parliament
in
Strasbourg
on
Wednesday,
17
January
2007,
si
http://www.eu2007.de/en/News/Speeches_Interviews/January/Rede_Bundeskanzlerin2.html;
veda anche il commento di A. LOBJAKAS, Merkel Sets out Vision for EU Presidency, 17 January
2007, Radio Free Europe/Radio Liberty, http://www.rferl.org/featuresarticle/2007/01/6e348993cd44-4034-a294-df9a1e16685c.html.
305
dovrebbe segnare un notevole mutamento dell’approccio dell’Unione Europea
verso la regione centroasiatica 3 .
L’Asia centrale è costituita nella sua accezione più comune dalle cinque
repubbliche di Kazachstan, Kirghizistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Tagikistan,
sorte in epoca sovietica sul territorio dell’antico Turkestan e divenute indipendenti
nel 1991. Si tratta di una regione molto vasta, relativamente poco popolata, ricca
di risorse naturali, in primo luogo petrolio e gas. Questo territorio, abitato quasi
esclusivamente da popoli musulmani, prevalentemente di lingua turca, ha
costituito in effetti l’ultima frontiera dell’espansione imperiale russa, quella alla
quale è più corretto applicare l’epiteto di coloniale 4 . Una situazione che, mutatis
mutandis, si è protratta anche in epoca sovietica. Dopo la dissoluzione
dell’Unione Sovietica, in tutti questi paesi il potere è rimasto sostanzialmente in
mano all’antica classe dirigente comunista, riciclatasi nel nuovo contesto politico
con modalità di governo di tipo clanico e autoritario 5 . Negli ultimi anni, tuttavia,
l’evoluzione del Kazachstan verso un maggior pluralismo politico e sociale, la
caduta del presidente kirghizo Akaev nel 2005 e la morte del presidente-dittatore
turkmeno Niyazov alla fine del 2006, sembrano aprire importanti prospettive di
cambiamento e possono favorire una più attiva politica europea nell’intera
regione 6 .
Geograficamente e storicamente, ma anche per quel che riguarda le dinamiche
politiche, sono strettamente collegati all’Asia centrale anche paesi cruciali
nell’odierna scena internazionale come l’Iran, l’Afghanistan ed il Pakistan. Un
rapporto particolare ha poi con l’intera regione la Federazione Russa, erede
dell’Urss, che considera questi paesi parte del proprio “estero vicino”. Come
anche nel Caucaso, la presenza russa è stata ed è minacciata dalla penetrazione
strategica degli Stati Uniti, particolarmente interessati al controllo delle risorse
energetiche dell’area. La rivalità post-sovietica tra Washington e Mosca ha fatto
parlare di una riedizione del “Gran Gioco” di ottocentesca memoria, un paragone
suggestivo che non deve però essere utilizzato acriticamente 7 . Occorre tener
presente che dopo la gravissima crisi seguita alla dissoluzione dell’Unione
Sovietica, da alcuni anni Mosca sta invertendo questa tendenza negativa grazie
3
A. LOBJAKAS, Central Asia: EU to Unveil “Strategy” Aimed at Wooing Region, 14 February
2007, http://www.rferl.org/featuresarticle/2007/02/9bb37852-b0ff-4ce9-bbf7-e53275c297c6.html.
4
Cfr. A. KAPPELER, La Russia. Storia di un impero multietnico, ed. it. a cura di A. FERRARI,
Roma, 2006, pp. 190-191.
5
Su questo tema è di particolare interesse il recente studio di S.F. STARR, Clans, Authoritarian
Rulers, and Parliaments in Central Asia, «Silk Road Paper», June 2006,
http://www.silkroadstudies.org/new/docs/Silkroadpapers/0605Starr_Clans.pdf. Si veda anche J.
KOHLER - Ch. ZURCHER, Conflict and the State in the Caucasus and Central Asia: An
Empirical Research Challenge, Institut der Freien Univesität, Berlin, 2004, soprattutto pp. 56-67.
6
Cfr. N.J. MELVIN, Building Stronger Ties, Meeting New Challenges: The European Union’s
Strategic Role in Central Asia, «CEPS Policy Brief», 28 March 2007.
7
A questo riguardo si veda l’articolo di M. EDWARDS, The New Great Game and the New Great
Gamers: Disciples of Kipling and Mackinder, in «Central Asian Survey», 22, 2003, 1, pp. 83-102.
306
all’accorta dirigenza di Putin e soprattutto all’alto costo di petrolio e gas, dei quali
la Russia è tra i maggiori produttori mondiali. Nell’Asia centrale come nel
Caucaso questo ritorno in forze di Mosca sembra oggi essere in grado di
contrastare efficacemente quella “transizione egemonica” a favore degli Stati
Uniti che solo pochi anni fa appariva ineluttabile. Anzi, in Asia centrale più
ancora che nel Caucaso, gli Stati Uniti stanno perdendo terreno, nella sfera
politica come in quella militare 8 , mentre la Russia riconquista rapidamente
importanti posizioni politiche, economiche e strategiche 9 . In Asia centrale la
Russia collabora in maniera proficua con la Cina, in particolare nell’ambito della
Shanghai Cooperation Organization (Sco). In tutta la regione, tuttavia, il ruolo di
Pechino sembra destinato a crescere rapidamente nei prossimi decenni.
1.
L’Unione Europea e la “Nuova via della seta”
La complessità geopolitica dell’area, la lontananza dell’Europa, la sostanziale
mancanza di consolidati rapporti politici e culturali, nonché l’assenza di paesi
membri particolarmente interessati all’inserimento delle repubbliche dell’Asia
centrale all’interno delle strutture dell’Unione Europea, hanno limitato l’azione di
Bruxelles nella regione per oltre un decennio dopo la dissoluzione dell’Unione
Sovietica.
Nei primi anni post-sovietici l’Asia centrale non costituiva una priorità per
l’Europa, che tuttavia era naturalmente molto interessata alle enormi ricchezze
energetiche presenti in quest’area. Per più di dieci anni l’azione europea nella
regione è stata dunque essenzialmente “petrocentrica”, priva cioè di un meditato
approccio politico 10 . Tale interesse si è espresso principalmente attraverso il
colossale progetto di un nuovo asse geoeconomico, noto con l’immaginifica
denominazione di “Via della seta del XXI secolo”. Questo progetto è stato portato
avanti attraverso l’ambizioso programma interstatale noto come Traceca
(Transport Corridor Europe Caucasus Asia), il cui obiettivo dichiarato è lo
sviluppo politico ed economico della vasta area che va dal Mar Nero al Caucaso
all’Asia centrale attraverso la creazione di una nuova rete di trasporti
internazionali 11 . Gli obiettivi di questo programma sono stati fissati sin dal 1993 a
Bruxelles dalla Commissione Europea e dai governi di Armenia, Azerbaigian,
Georgia, Kazachstan, Kirgizistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. In
8
Cfr. S. BLANK, Beyond Afghanistan: The Future of American Bases in Central Asia, in «Central
Asia-Caucasus Analyst», 26 July 2006, http://www.cacianalyst.org/view_article.php?
articleid=4349.
9
Cfr. S. BLANK, America Strikes Back? Geopolitical Rivalry in Central Asia and Caucasus, in
«Central Asia-Caucasus Analyst», 17 May 2006, http://www.cacianalyst.org/view_article.php?
articleid=4233.
10
Cfr. F. VIELMINI, Parigi-Berlino-Mosca. Prove d’intesa in Asia centrale, in «Limes. Rivista
italiana di geopolitica», 2004, 6, p. 272.
11
Si veda il sito ufficiale di questo programma – http://www.traceca.org – invero un po’
trionfalistico e auto-promozionale.
307
seguito, tra il 1996 ed il 1998, anche Ucraina e Moldavia entrarono a far parte del
programma, quindi – nel 2000 – fu la volta di Bulgaria, Romania e Turchia. Il
programma Traceca – che comprende quindi cinque stati europei, tre caucasici e
cinque centroasiatici – è stato concepito ufficialmente come uno strumento per
l’integrazione e lo sviluppo economico dei paesi coinvolti all’interno dei mercati
mondiali. Non si può tuttavia non osservare che tale progetto tendeva non solo a
ridurre o eliminare del tutto il tradizionale ruolo di controllo economico esercitato
dalla Russia nella regione, ma anche a escludere la partecipazione di paesi “non
graditi” come Iran e Siria, mentre l’Armenia – che pure fa parte del Traceca, ma
costituisce il più fedele alleato di Mosca nella regione – è stata aggirata dai
principali gasdotti e oleodottipresenti nel corridoio 12 .
Il documento fondamentale del Progetto Traceca (Basic Multilateral Agreement,
Mla) fu sottoscritto al summit “Restoration of the Historic Silk Route", che si
svolse nel 1998 a Baku, in Azerbaigian, mentre nel 2000 venne creata a Tbilisi, in
Georgia, la Intergovernmental Commission (Igc). Gli obiettivi del programma
Traceca sono dunque i seguenti:
- stimolare la cooperazione tra gli stati membri in tutte le materie concernenti lo
sviluppo del commercio nella regione;
- promuovere l’integrazione ottimale del corridoio Traceca nelle reti di
trasporto trans-europee;
- individuare problemi e debolezze dei sistemi di trasporto e di commercio nella
regione;
- promuovere i diversi progetti Traceca come strumenti per attrarre
finanziamenti, partner di sviluppo e investitori privati;
- definire contenuti e tempi di un Programma di assistenza tecnica da finanziare
attraverso la Commissione europea.
L’assistenza tecnica fornita dal programma Traceca ha aiutato la raccolta di
investimenti da diversi partner di sviluppo. Tra questi la European Bank for
Reconstruction and Development (Ebrd), che ha fornito fondi per grandi progetti
riguardanti porti, ferrovie e strade lungo la direttrice Traceca; la World Bank
(Wb), che ha finanziato importanti progetti stradali in Armenia and Georgia; la
Asian Development Bank (Adb), che ha investito notevoli fondi destinati al
miglioramento di strade e autostrade; e anche la Islamic Development Bank (Idb),
che ha investito nello sviluppo del settore dei trasporti nei paesi che aderiscono al
Traceca. Oltre a ciò, alcuni investitori privati dell’Unione Europea stanno
costituendo joint ventures con compagnie di trasporti appartenenti a paesi del
Caucaso e dell’Asia centrale. L’Unione Europea sostiene il programma Traceca
insieme ad altri progetti europei miranti a sviluppare ulteriormente la
12
Cfr. M.O. ZARDARJAN, Velikij šelkovyj put’: istorija, kon’junktura, perspektivy (La grande
via della seta: storia, congiuntura, prospettive), in «Central’naja Azija i Kavkaz», 5, 1999, 4, pp.
175-183, http://www.ca-c.org/journal/cac-05-1999/st_29_zardaryan.shtml.
308
cooperazione e la sostenibilità economica della regione, quali il Southern Ring Air
Routes Project e l’Oil and Gas Pipeline Project (Inogate) 13 .
Dal 1996 al 2006 il programma Traceca ha sostenuto 61 Progetti di assistenza
tecnica e 15 Progetti di investimento, per una spesa totale di circa 160 milioni di
euro. Tutti questi progetti sono stati individuati, elaborati e sviluppati nell’ambito
degli Action Programmes e in accordo con le regole ed il ciclo di
programmazione Tacis (Technical Assistance to the Commonwealth of
Indipendent States), che riguardava tutti i paesi ex sovietici 14 . Gli stati
centroasiatici che sono divenuti membri di questo programma lo considerano di
fondamentale importanza strategica per raggiungere i mercati europei e integrarsi
nel commercio globale. Anche l’Europa, del resto, è ovviamente interessata ad
avere un collegamento funzionale con i paesi del programma Traceca, la maggior
parte dei quali non ha sbocchi sul mare, per incrementare gli scambi commerciali.
Una politica comune di trasporti e facilitazioni commerciali può migliorare in
effetti non solo le prospettive economiche, ma anche la sicurezza dell’intera
regione. Il Traceca è in effetti la direttrice orientale-occidentale di terra più breve
e potenzialmente più economica, ma non certo l’unica 15 . In effetti questo
programma ha determinato l’avvio di un processo di cooperazione e dialogo tra i
governi coinvolti e gli imprenditori dei trasporti per mantenere basse le tariffe di
transito e semplificare le procedure di attraversamento dei confini. Inoltre, le
nuove richieste di adesione, la frequente organizzazione di conferenze e seminari
regionali, la stretta interazione con altri programmi europei, l’aumento degli
investimenti e l’utilizzo crescente del corridoio testimoniano la rilevanza del
Traceca.
Occorre tuttavia rilevare i risultati ottenuti sinora da questo programma risultano
inferiori alle speranze. In effetti sì è riusciti solo in parte a migliorare il sistema di
trasporti e servizi della regione Mar Nero-Caucaso-Asia centrale dopo la grave
crisi sopraggiunta negli anni successivi alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.
Questo parziale fallimento deriva soprattutto dal fatto che il programma Traceca
risente di alcune debolezze strutturali, derivanti proprio dalla sua impostazione di
base. Non si tratta solo della «tortuosità del percorso (richiedente numerosi
passaggi mare-terra con ripetuti scambi di vettore) e della strutturale incapacità ad
13
L’Inogate riunisce 21 paesi in una serie di accordi sull’integrazione dei sistemi di trasporto di
gas e petrolio. In Asia centrale questo progetto comprende il controllo tecnico delle pipelines, la
riabilitazione dei sistemi di trasporto di gas e il coordinamento delle politiche energetiche
nazionali. Anche questo programma, come il Traceca, esclude la Russia. Cfr. A. MATVEEVNA,
EU Stakes in Central Asia, in «Chaillot Papers» n. 91, July 2006, pp. 86-87, n. 241.
14
Si veda il sito http://www.ec.europa.eu/comm/external_relations/ceeca/tacis/index.htm
15
Sulla problematica politica ed economica dei corridoio di trasporto cfr. F. VIELMINI, I corridoi
di trasporto trans-eurasiatici: non solo economia, «ISPI Policy Brief» n. 28, dicembre 2005,
http://www.ispionline.it/it/documents/pb_28_2005.pdf. Per la variante russa, “settentrionale”, di
questo progetto si veda anche il mio articolo La Russia come «ponte eurasiatico» tra l’Europa e il
Pacifico. Un progetto alternativo di sviluppo, in G. JANNINI (a cura di), Cina e Russia. Due
transizioni a confronto, Milano, 2005, soprattutto pp. 57-62.
309
intendersi tra loro dei molti (per alcuni troppi) paesi attraversati», ma anche del
fatto che «l’implementazione del progetto è infatti ostacolata dai paesi rimasti
tagliati fuori, in primo luogo la Russia» 16 .
Si tratta di un punto molto importante. Per rendere più funzionale il programma
Traceca, ma questo vale per tutta l’azione europea in Asia centrale, Bruxelles
dovrebbe cioè coordinarlo maggiormente con i progetti analoghi portati avanti
dagli altri grandi attori locali, in particolare dalla Russia, superando in questo
modo l’impostazione degli anni Novanta che sottovalutava le potenzialità di
questo paese e tendeva comunque a ridimensionarne il ruolo. Gli eventi degli
ultimi anni mostrano invece che Mosca è destinata a rimanere anche nei prossimi
decenni non solo la principale fornitrice di risorse energetiche, ma più un generale
un partner politico e strategico fondamentale dell’Unione Europea 17 .
2.
Altri accordi di cooperazione
Oltre al programma Traceca, negli anni Novanta la pur limitata politica
dell’Unione Europea nei confronti dell’Asia centrale ha condotto anche alla
stipula di altri accordi di cooperazione con i paesi della regione. Vanno ricordati
in particolare gli Accordi di partenariato e cooperazione (Partnership and
Cooperation Agreements, Pca) con Kazachstan, Kirghizistan, Uzbekistan e
Turkmenistan 18 . Questi accordi, stipulati nel 1996, sono entrati in vigore nel 1999
e scadranno nel 2009. L’Accordo di partenariato e cooperazione con il
Turkmenistan, peraltro, non è mai entrato in vigore; le procedure sono state
congelate, soprattutto a causa della particolare situazione politica del paese
nell’era del presidente Niyazov, da poco scomparso. Le conseguenze della guerra
civile degli anni Novanta hanno invece impedito la stipula di questo accordo con
il Tagikistan, le cui relazioni con l’Unione Europea sono dunque limitate al più
ristretto Accordo di commercio e cooperazione (Trade and Cooperation
Agreement, Tca) 19 . Come è noto, gli Accordi di partenariato e cooperazione sono
riservati ai cosiddetti “paesi in via di transizione” e denotano un impegno limitato
da parte dell’Unione Europea, senza costituire cioè un quadro di riferimento
strategico. Tuttavia, nel periodo 1991-2004 l’Unione Europea è stata il principale
donatore della regione, fornendo 1.132 milioni di euro, 516 dei quali nell’ambito
Tacis 20 .
16
Cfr. F. VIELMINI, I corridoi di trasporto trans-eurasiatici: non solo economia, cit.
Si veda a questo riguardo lo studio a cura di A. ROSATO, La Sicurezza energetica nella
relazioni tra Unione Europea (Italia) e Federazione Russa, ricerca CeMiSS 2006,
http://www.difesa.it/backoffice/upload/allegati/2007/{3A6111B0-76E4-4617-8D56F62D3EA798E3}.pdf.
18
Si veda il sito http://www.ec.europa.eu/comm/external_relations/ceeca/pca/index.htm
19
Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 85.
20
Cfr. http://www.europa.eu.int/comm/external_relations/kyrgyz/intro/index.htm
17
310
L’Unione Europea ha avviato anche altri programmi di minore rilevanza con
alcuni paesi dell’Asia centrale. In particolare, il Tagikistan e il Kirghizistan sono
stati assistiti con un programma di sicurezza alimentare (Food Security
Assistance) e di riduzione della povertà (Poverty Reduction Strategy). Il
Tagikistan, il più povero tra i paesi ex sovietici, ha ricevuto dal 1992 al 2002 350
milioni di euro, mentre tra il 1997 ed il 2004 74,5 milioni di euro sono stati
erogati al Kirghizistan, che ha ricevuto anche aiuti dalla Iniziativa europea su
democrazia e diritti civili (European Iniziative on Democracy and Civil Rights,
Eidhr), volti a sviluppare principalmente i media e la società civile. Nonostante il
suo profondo isolamento politico, anche il Turkmenistan ha ricevuto aiuti europei,
di circa 2 milioni di euro l’anno sino al 2004, mentre in seguito sono raddoppiati21 .
Si tratta tuttavia di progetti di portata limitata, che non hanno consentito un reale
sviluppo di questi paesi, che invece avrebbero un estremo bisogno di essere aiutati
ad accedere più facilmente al mercato europeo 22 .
E’ molto importante, inoltre, che il sostegno europeo alle asfittiche economie
della regione avvenga senza creare strutture parallele ai già deboli governi centroasiatici, per non minarne l’autorità. Occorrerebbe cioè agire in stretta
collaborazione con le autorità locali, ma questo è sinora risultato estremamente
problematico a livello tanto politico quanto tecnico. Vi è infatti una reale
difficoltà da parte dei governi centroasiatici a orizzontarsi tra le numerose e
complesse procedure per l’accesso ai finanziamenti internazionali ed europei in
particolare. L’ufficio di cooperazione EuropAid ha iniziato ad affrontare la
questione con un seminario organizzato a Almaty nell’ottobre 2005, ma il
problema è di difficile soluzione. Al di là di queste problematiche tecniche ed
informative, occorre anche tener presente che esiste in tutta l’Asia centrale un
problema particolarmente grave di corruzione, che non costituisce solo un
ostacolo allo sviluppo economico, ma pone anche seri problemi di sicurezza,
soprattutto quando si annida negli apparati di polizia. Il miglioramento, se non la
soluzione, di questo problema costituisce evidentemente una priorità per l’Unione
Europea, che ha messo in atto un progetto sui “passi fondamentali” legislativi
miranti a eliminare o ridurre le opportunità di corruzione 23 .
Nonostante tutte queste difficoltà, l’Unione Europea continuerà anche in futuro a
sostenere progetti di cooperazione con i paesi dell’Asia centrale, ma su basi
differenti rispetto al passato. A partire dal 2007, infatti, il finanziamento non
avverrà più sulla base del Programma di azione Tacis, che è scaduto nel 2006, ma
adeguandosi ai recenti cambiamenti nell’erogazione dei fondi europei.
21
Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 86.
Cfr. A. SCHMITZ, A Political Strategy for Central Asia, cit.
23
Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 105.
22
311
3.
La questione della sicurezza
Se nei primi anni post-sovietici l’interesse dell’Unione Europea per l’Asia
centrale è stato rivolto prevalentemente agli aspetti energetici e alla cooperazione
allo sviluppo, soprattutto a partire dall’11 settembre 2001 Bruxelles ha iniziato a
dedicare una crescente attenzione alle questioni riguardanti la sicurezza della
regione 24 .
L’Asia centrale costituisce per l’Unione Europea un capitolo aperto soprattutto
riguardo ai seguenti punti:
− la stabilizzazione della regione, con particolare riferimento alla debolezza
politica degli stati locali e al pericolo del terrorismo;
− la lotta al crimine organizzato, soprattutto nell’ambito del traffico di armi e
stupefacenti.
− il sostegno alle azioni militari nel vicino Afghanistan.
Da molti punti di vista, in effetti, la stabilità della regione centroasiatica è solo
apparente e potrebbe venir improvvisamente meno. Il problema della debolezza
interna di questi stati deve in effetti essere tenuto presente. Con la parziale
eccezione del Kazachstan, le altre repubbliche centroasiatiche non hanno avuto
sinora molto successo nell’impresa di state-building e continuano a presentare una
realtà di declino delle infrastrutture e degli indicatori sociali. Lo sviluppo degli
stati post-sovietici della regione è inoltre pregiudicato dagli alti livelli di
corruzione e criminalità 25 . Il rafforzamento degli stati centro-asiatici è dunque una
priorità per l’Unione Europea. L’eventualità di nuovi disordini, come quelli
avvenuti di recente in Uzbekistan e Kirghizistan, potrebbe riproporsi e l’Unione
Europea deve essere preparata per saperla eventualmente fronteggiare. Sino ad ora,
tuttavia, la sua capacità di monitoraggio e analisi politica dell’area è stata alquanto
limitata. Uno sviluppo di queste capacità è ovviamente indispensabile per una
crescita del ruolo politico dell’Unione Europea in Asia centrale.
In caso di crisi lo strumento da utilizzare sarebbe naturalmente la Politica Europea
di Sicurezza e Difesa (Pesd), ovviamente in collegamento con il Rappresentante
Speciale per l’Asia centrale. Anche l’Osce, che è impegnata in Kirgizistan in un
programma di riforma delle forze di polizia, potrebbe peraltro avere un suo ruolo
in tale eventualità. Un altro strumento potenzialmente applicabile nella regione
sarebbero le Squadre di risposta alle crisi (Crisis Response Teams, Crts), ma solo
in caso di crisi acuta. La Commissione potrebbe affrontare una situazione di
emergenza anche per mezzo del Meccanismo di reazione rapida (Rapid Reaction
Mechanism, Rrm), istituito nel 2001, che – differenza del Tacis – può erogare
24
Cfr. A. SCHMITZ, A Political Strategy for Central Asia, cit.
Si veda al riguardo lo studio di E. MARAT, The State-Crime Nexus in Central Asia: State
Weakness, Organized Crime and Corruption in Kyrgyzstan and Tajikistan, Central Asia-Caucasus
Institute, «Silk Road Paper», October 2006, http://www.silkroadstudies.org/new/docs/
Silkroadpapers/0610EMarat.pdf.
25
312
fondi con grande rapidità. Questo è avvenuto, tra l’altro, in occasione
dell’assistenza elettorale in Kirghizistan nel 2005, che aveva carattere di
urgenza 26 .
Per conseguire tali obiettivi, l’Unione Europea ha istituito diversi programmi in
collaborazione con gli stati centroasiatici. Il primo a essere attuato è stato il
Programma di assistenza droga in Asia centrale (Central Asia Drug Assistance
Programme, Cadap), istituito sulla base della convinzione che il traffico di droga
attraverso i paesi centroasiatici costituisse una minaccia particolare per l’Unione
Europea e i cui primi passi sono stati mossi già nel 1996. Il suo funzionamento
reale è tuttavia iniziato solo nel 2001, mentre nel 2002 è stato firmato il Piano di
azione sulle droghe (Action Plan on Drugs, Apd) tra l’Unione Europea e quattro
dei paesi della regione (ad eccezione del Turkmenistan). In seguito, collegato al
Cadap, ma con obiettivi più vasti, soprattutto in conseguenza dell’11 settembre
2001, è partito il Programma di gestione delle frontiere in Asia centrale (Border
Management Programme in Central Asia, Bomca), per una spesa complessiva di
44 milioni di euro nel quinquennio 2004-2009 27 . Il suo obiettivo è quello di
assistere i paesi della regione a rendere sicuri i loro confini, in particolare quello
con l’Afghanistan. Non era invece prevista nessuna cooperazione con le forze
russe impegnate nella sorveglianza delle frontiere del Tagikistan. Dopo la
partenza delle forze russe dal confine afghano-tagiko, tuttavia, il Bomca si è fatto
carico anche di questo settore 28 .
Il problema principale di Cadap e Bomca, entrambi attuati attraverso il
Programma di sviluppo delle Nazioni Unite (Undp), sembra essere il loro carattere
squisitamente tecnico, in assenza di una chiara strategia politica da parte
dell’Unione Europea. In particolare, soprattutto a causa della ristrettezza dei tempi
a disposizione, la Commissione europea non ha negoziato con i governi
centroasiatici i termini e le obbligazioni reciproche. Questo ha ovviamente
limitato l’efficacia dei programmi, soprattutto nell’ambito della lotta alla
corruzione 29 .
La questione della sicurezza è troppo delicata per essere gestita dall’Unione
Europea soltanto in termini tecnici e finanziari, ma richiede una precisa volontà
politica che l’Unione Europea fatica a darsi, in particolare in Asia centrale. In
primo luogo perché il Bomca è gestito dalla Commissione e risente quindi del suo
indebolimento dopo il fallimento della costituzione europea. In questo momento
la Commissione ha difficoltà a gestire in proprio i programmi legati alla sicurezza
nella regione e tende ad affidarli a una agenzia esterna come l’Undp. Si tratta di
un problema che condiziona tutta la strategia europea di sicurezza, al cui interno
continua a esistere una notevole distanza tra gli obiettivi dichiarati e il loro
26
Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., pp. 100-101.
Si veda il sito ufficiale di questo programma: http://www.bomca.eu.org
28
Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 89.
29
Ibidem, p. 90.
27
313
conseguimento. Come è naturale, la politica di sicurezza dell’Unione Europea in
Asia centrale risente di tali difficoltà, ma proprio questa regione potrebbe
costituire un importante banco di prova per le potenzialità di sviluppo di una
strategia europea di sicurezza 30 .
Un punto di fondamentale importanza appare il collegamento tra l’assistenza
finalizzata alla sicurezza e quella rivolta più in generale allo sviluppo dei paesi
della regione. Oltre al rafforzamento del controllo sui confini per prevenire la
minaccia terroristica e il traffico di armi e stupefacenti, occorre cioè che Bruxelles
individui e metta in atto misure volte a elevare il livello di vita delle popolazioni
locali. Un approccio di questo tipo è stato sinora portato avanti in un’area
particolarmente critica come la valle di Ferghana, nella quale l’Unione Europea ha
avviato un programma di alleviamento della povertà in considerazione sia
dell’elevata densità della popolazione che dei rilevanti danni economici provocati
dalla comparsa, dopo la dissoluzione dell’Urss di frontiere interstatali che
dividono territori strettamente collegati tra loro. L’idea guida di questo progetto
era di stabilizzare una regione strategicamente molto delicata, ma i violenti
disordini scoppiati nel 2005 a Andijan – di carattere peraltro più politico che
economico – hanno dimostrato quanto sia difficile ottenere risultati concreti.
Lo stesso discorso può essere fatto nell’ambito della lotta alla coltivazione ed al
traffico di droga. Tali attività appaiono derivare infatti in primo luogo dalla
povertà delle popolazioni locali, che ne ricavano importanti fonti di reddito. La
semplice repressione poliziesca è dunque insufficiente se le operazioni di polizia
anti-droga non sono integrate da misure di sostegno e sviluppo dell’economia di
queste regioni post-sovietiche, che sono tra l’altro particolarmente depresse.
Poiché il narcotraffico fornisce importanti entrate al radicalismo islamico e al
terrorismo, l’Unione Europea – dalla quale, per inciso, giunge la maggior
domanda della droga prodotta nella regione – dovrebbe pertanto impegnarsi
intensamente nella lotta a tale commercio31 .
Una ragione sempre più fondamentale dell’impegno dell’Unione Europea in Asia
centrale è la vicinanza della regione all’Afghanistan, con il quale confinano
direttamente Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan. Occorre tuttavia considerare
che, sebbene diversi paesi europei abbiano schierato forze militari in Afghanistan
nell’ambito Nato/Isaf, questo paese non è ancora chiaramente collegato all’Asia
centrale nelle strategie e nelle strutture europee. Invece, in vista della probabile
lunga durata della missione militare in Afghanistan, appare quanto mai opportuno
stabilire una stabile cooperazione militare e di sicurezza con i paesi centroasiatici.
Questo richiederebbe naturalmente anche una solida cooperazione politica, che
attualmente non esiste ancora, soprattutto con Turkmenistan e Uzbekistan.
30
Ibidem, pp. 97-98.
Cfr. Z. BARAN et al., Islamic Radicalism in Central Asia and the Caucasus: Implications for
the EU, Central Asia-Caucasus Institute, «Silk Road Paper», July 2006,
http://www.silkroadstudies.org/new/docs/Silkroadpapers/0607Islam.pdf
31
314
Quest’ultimo paese, anzi, ha informato il governo tedesco che potrebbe perdere
l’uso della base di Termez se non interverrà con sostanziosi investimenti per
migliorarne le infrastrutture 32 . Ovviamente non si tratta tanto di una questione
economica, quanto politica. Come la maggior parte dei paesi europei la Germania
ha una posizione estremamente critica nei confronti del governo di Tashkent,
soprattutto dopo il massacro di Andijan del maggio 2005 33 . In effetti la
concezione autoritaria e repressiva della sicurezza che caratterizza i governi
centroasiatici sembra difficilmente compatibile con le nozioni europee di una
sicurezza “comprensiva” e “umana”. In questa ottica, un analista come N.J.
Melvin ritiene che «In its dialogue with the authorities in Central Asia, the EU
must move beyond narrow definitions of security and not be constrained by the
anti-terrorism agenda promoted by many of the security services in the region.
The EU should seek though dialogue to broaden concepts of security in Central
Asia and also to strengthen cooperation in the area of regional security and
conflicts prevention activities» 34 .
Il punto è che alla luce delle esigenze militari in Afghanistan, l’Unione Europea si
trova nella necessità di sviluppare una strategia regionale efficace, e questo
nonostante le evidenti divergenze politiche con i governi centroasiatici. La
questione è complicata anche dal fatto che l’atteggiamento di Bruxelles nei
confronti del radicalismo islamico in Asia centrale è condizionata dalla difficile
lettura di questo fenomeno e dei suoi rapporti con la minaccia terrorista. Il
problema principale sembra essere rappresentato a questo riguardo dalle crescenti
tendenze autoritarie dei governi regionali, che appaiono a loro volta destinate a
determinare un’opposizione sempre più radicale e principalmente legata
all’opzione islamista 35 .
Proprio per cercare di spezzare questo circolo vizioso, l’Unione Europea dovrebbe
tentare di sostenere una svolta nella politica interna dei paesi centroasiatici, al fine
di migliorare sensibilmente la situazione economica e la diffusa sensazione di
ingiustizia socio-politica. E questo senza alienarsi definitivamente le simpatie dei
governi locali, ben poco favorevoli a pressioni dall’esterno in questo ambito. Si
tratta invero di un compito non agevole.
32
Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 117.
Su questi eventi si veda l’articolo di F. INDEO, Urzbekistan e diritti umani: la questione dei
rifugiati di Andijan, in «Medeura. Rivista di Relazioni Internazionali», 2, dicembre 2005, 7,
http://www.relint.org/public/medeura/MEDEURA-2005-7.pdf.
34
N.J. MELVIN, Building Stronger Ties, Meeting New Challenges: The European Union’s
Strategic Role in Central Asia, cit.
35
Cfr. Z. BARAN et al., Islamic Radicalism in Central Asia and the Caucasus: Implications for
the EU, cit.
33
315
4.
Quale strategia europea per l’Asia centrale?
Come è accaduto anche nel Caucaso, che pure è geograficamente e culturalmente
assai meno remoto, l’impegno politico dell’Unione Europea in Asia centrale ha
risentito negativamente dell’assenza di paesi sponsor che ne favorissero
l’avvicinamento. Negli ultimi anni, tuttavia, il cambiamento della situazione
politica internazionale ha indotto Bruxelles a intensificare il suo impegno nella
regione.
Oltre alla questione della sicurezza, divenuta più rilevante dopo l’11 settembre
2001 e ancora ben lontana dall’essere risolta in Afghanistan, la situazione ha
iniziato a cambiare con l’accresciuta attenzione da parte dell’Europa nei confronti
della turbolenta evoluzione politica in Kirghizistan e Uzbekistan. Per evitare che
l’isolamento e il degrado economico rendano più instabile l’intera regione,
l’Unione Europea si sta ora impegnando per tentare di inserirla maggiormente
nella vita politica ed economica internazionale 36 . Ma per spiegare l’accresciuta
rilevanza dell’Asia centrale nell’agenda europea occorre considerare un altro
aspetto estremamente importante, vale a dire il complicarsi della questione
energetica negli ultimi anni. In particolare, il conflitto sul gas esploso all’inizio
del 2006 tra Russia e Ucraina ha infatti sicuramente contribuito in misura
rilevante a indurre l’Unione Europea ad accrescere il suo interesse per la regione.
L’Asia centrale è ormai divenuta un’area quanto mai rilevante per quel che
riguarda la sicurezza energetica, in particolare nell’ambito di una maggiore
diversificazione delle fonti energetiche e delle rotte di trasporto verso i mercati
europei. In questa ottica la collaborazione con i paesi dell’Asia centrale ha
evidentemente acquisito una crescente importanza. Tuttavia appare imprudente
riporre eccessive speranze sulla possibilità che in questo modo l’Europa possa
effettivamente ridurre la sua dipendenza energetica dalla Russia, che a sua volta
dipende ampiamente dalla produzione centroasiatica per soddisfare la domanda
europea e deve di conseguenza difendere con fermezza i propri interessi nella
regione 37 .
Alla luce di questa situazione non è certo facile per Bruxelles impostare una
politica centroasiatica davvero efficace, soprattutto dopo che il limitato impegno
del periodo precedente ne ha fortemente limitato la presenza e la visibilità. La
Commissione europea ha una limitata rappresentanza in Asia centrale, costituita
dalle Delegazioni di Almaty (destinata tuttavia a trasferirsi ad Astana), Bishkek e
Dushanbe. Queste ultime due hanno un capo-delegazione non residente, ma è
previsto che nel 2007 quella di Bishkek diventi una Delegazione a pieno titolo.
Gli eventi di Andijan hanno fatto abbandonare il progetto di costituire una
Delegazione europea in Uzbekistan. A Tashkent esiste soltanto una “Europa
House”, che però non rappresenta ufficialmente l’Unione Europea 38 . La visibilità
36
Ibidem.
Cfr. A. SCHMITZ, A Political Strategy for Central Asia, cit.
38
Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 87.
37
316
locale dell’Unione è quindi alquanto scarsa. Per anni, inoltre, sono completamente
mancati incontri di vertice con i presidenti delle repubbliche centro-asiatiche ed i
contatti politici si sono limitati a sporadici incontri a livello ministeriale. Ha in
effetti costituito un’eccezione il coinvolgimento nella crisi del Kirghizistan del
2005 di Javier Solana, Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza
Comune (Pesc) che chiamò il ministro degli esteri Rosa Utumbaeva poco dopo gli
avvenimenti di marzo e incontrò in seguito il nuovo presidente, Bakiyev 39 .
Per tentare di superare questa situazione, già nel 2004 la presidenza olandese
promosse una politica di dialogo tra l’Unione Europea e i paesi dell’Asia centrale
al fine di creare un clima di fiducia al cui interno sia più agevole sviluppare i
programmi europei. Gli obiettivi primari di questo dialogo sono quattro:
1. aiutare i paesi della regione a delineare i problemi comuni e contribuire
all’instaurazione di un clima di reciproca fiducia;
2. sostenere la strategia di assistenza regionale della Commissione;
3. rispondere al desideri dei paesi centroasiatici di stabilire legami più intensi
con l’Unione Europea;
4. completare e rinforzare le relazioni bilaterali tra i paesi dell’Unione Europea e
quelli centroasiatici, in particolare quelli con cui sono già stati sottoscritti Accordi
di partenariato e cooperazione.
A tale scopo sono stati organizzati tre incontri: a Bishkek nel dicembre 2004, a
Bruxelles nel giugno 2005 e ad Almaty nell’aprile 2006. Nel corso di tali incontri
sono stati discussi prevalentemente temi di cooperazione commerciale ed
economica, di giustizia, emigrazione, sicurezza e gestione delle risorse idriche. In
questa fase, tuttavia, il dialogo è sembrato essere ancora più procedurale che
sostanziale, in attesa che la Commissione dell’Unione Europea chiarisse le linee
della nuova strategia di assistenza per il periodo 2007-2013.
Nel frattempo, tuttavia, un segnale particolarmente chiaro dell’intensificarsi della
politica europea nei confronti della regione è stata la nomina nel luglio 2005 di un
Rappresentante Speciale per l’Asia centrale nella persona del diplomatico
slovacco Jan Kubiś, sostituito nell’ottobre 2006 dal francese Pierre Morel. Il
mandato del Rappresentante Speciale dell’Unione Europea (Eusr) per l’Asia
centrale prevede: «To follow political developments in Central Asia by
developing and maintaining close contacts with governments, parliaments,
judiciary, civil society and mass media; encourage the countries to cooperate on
regional issues of common interest, develop contacts and cooperation with the
main interested actors in the region, contribute, in close cooperation with the
OSCE, to the conflict prevention and resolution by developing contacts with the
authorities and other local actors; promote overall coordination of the Union in
Central Asia and ensure consistency of the external action of the Union without
39
Ibidem, p. 91, n. 254.
317
prejudice to Community competence; assist the Council in further developing a
comprehensive policy toward Central Asia» 40 .
Anche la presidenza austriaca (primi sei mesi del 2006) è stata molto attiva verso
l’Asia centrale, focalizzando la sua attenzione soprattutto sul Kazachstan, che
sembra essere stato individuato come il più valido referente regionale dell’Unione
Europea 41 . Nel frattempo il numero delle ambasciate di paesi europei aperte nelle
repubbliche dell’Asia centrale è aumentato notevolmente, mentre Bruxelles ha
cominciato a cooperare più efficacemente con gli Stati Uniti e l’Osce nella
regione. Anche se nel complesso la regione è ancora meno attivamente coinvolta
dalle attività europee di quanto non sia il Caucaso meridionale, nel 2006
l’impegno economico dell’Unione Europea nelle diverse repubbliche dell’Asia
centrale ha raggiunto la cifra considerevole di 66 milioni di euro 42 .
Lo scorso autunno, il commissario per le relazioni esterne della Commissione
europea, Benita Ferrero-Waldner ha pronunciato un discorso all’università della
capitale kazaka, Astana, in cui ha illustrato i pilastri della cooperazione in Asia
centrale: energia, lotta al traffico di droga e all’Aids, politica di sicurezza e
riforme democratiche 43 . E, come si è già visto, la presidenza tedesca ha dato
nuovo impulso in questa direzione. Il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter
Steinmeier, lo scorso novembre, ha effettuato un lungo viaggio in tutte le
repubbliche, proprio in preparazione del semestre di presidenza del suo paese,
prima tappa di un impegno che sino alla fine di giugno vedrà una serie di
appuntamenti tra le autorità europee ed i massimi esponenti politici di tutte le
repubbliche centroasiatiche.
Nonostante queste iniziative, le strategie adottate da Bruxelles non sono
egualmente condivise dagli stati membri, alcuni dei quali antepongono gli
interessi nazionali a una politica estera comune. Tra l’altro occorre tener presente
che non certo tutti i paesi europei sono interessati nella stessa misura all’Asia
centrale né tutti hanno la possibilità concreta di intervenirvi. In questo senso
l’esistenza di un Rappresentante Speciale dell’Unione Europea per la regione può
aiutare gli stati membri ad articolare i loro interessi 44 .
L’intensificazione dei rapporti politici di Bruxelles con i paesi centroasiatici si è
in effetti dimostrata faticosa, soprattutto con l’Uzbekistan. La nomina del
rappresentate speciale dell’Unione Europea per l’Asia centrale avvenne in un
momento particolarmente delicato per la regione, poco dopo la caduta del
40
Appointing a Special Representative pf the EU for Central Asia, Council Joint Action L
199/100, 2005/544CFSP, in «Official Journal of the European Union», 29 July 2005.
41
Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 91; N.J. MELVIN, Building Stronger
Ties, Meeting New Challenges: The European Union’s Strategic Role in Central Asia, cit.
42
Cfr. R. WELTZ, Can the EU Resolve the Uzbekistan Dilemma in 2007?, in «Central AsiaCaucasus Analyst», 24 January 2007, http://www.cacianalyst.org/view_article.php?articleid=4680.
43
Cfr. http://www.europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=IP/06/1420&format=HTML
&aged=0&language=EN&guiLanguage=en.
44
Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 121.
318
presidente Akaev in Kirghizistan e in corrispondenza con la violenta repressione
dei disordini scoppiati nel maggio 2005 a Andijan, in Uzbekistan. Per oltre un
anno l’Unione Europea ha fatto pressione sul presidente di questa repubblica,
Karimov, perché consentisse l’instaurarsi di una inchiesta internazionale
indipendente su tali fatti, giudicati assai gravi da Bruxelles. In mancanza di
risposte adeguate da parte delle autorità dell’Uzbekistan, l’Unione Europea prese
la decisione inconsueta di sospendere almeno parzialmente gli Accordi di
partenariato e cooperazione siglati nel 1999 con il governo di Tashkent 45 . Nel
novembre 2005 si giunse anche ad un embargo europeo sulla vendita di armi a
questo paese – reso peraltro del tutto inefficace dalla possibilità di acquistare armi
dalla Russia e dalla Cina –, al congelamento del Patto di partenariato e
cooperazione, al blocco dei visti per diversi funzionari uzbeki ritenuti coinvolti
nella repressione. Come ritorsione il governo di Tashkent decise di proibire lo
spazio aereo e l’uso delle basi uzbeke ai militari europei impegnati in Afghanistan.
Inoltre vennero chiuse una decine di Ong occidentali operanti nel paese. Non si
arrivò tuttavia a una sospensione completa dei rapporti dell’Unione Europea con
l’Uzbekistan che, insieme al Kazachstan, è il paese più importante della regione 46 .
Nel novembre 2006 le sanzioni europee sono state parzialmente attenuate.
Ciononostante, il contrasto tra Bruxelles e Tashkent resta elevato ed esemplifica le
difficoltà politiche dell’Unione Europea in Asia centrale 47 . Gli stati della regione
sono infatti dei partner difficili. Si tratta in effetti di paesi ancora lontani
dall’essere delle democrazie reali e delle economie di mercato in senso pieno.
Inoltre, le élites dominanti hanno sfruttato la crescente importanza strategica
dell’area per rafforzarsi al potere con metodi sempre più autoritari in nome della
“sicurezza nazionale” o della “lotta al terrorismo”. Il modello politico
potenzialmente alternativo rappresentato dalle rivoluzioni colorate in Georgia e
Ucraina – che nella primavera 2005 sembrò raggiungere anche l’Asia centrale –
ha amplificato queste tendenze, culminate nel massacro di Andijan 48 . Occorre
tener presente che in questa svolta autoritaria i paesi centroasiatici possono
agevolmente appoggiarsi alla Russia, a sua volta orientata in senso analogo e che
negli ultimi anni ha riconquisto importanti posizioni nella regione attraverso
politiche di cooperazione economica e di sicurezza sia bilaterali sia nelle strutture
regionali. E lo stesso discorso vale per la Cina. Al tempo stesso, l’evoluzione del
Kazachstan ed i cambiamenti in corso in Kirghizistan e Uzbekistan potrebbero
delineare scenari differenti. L’intensificazione della politica europea nella regione
avviene dunque in un momento cruciale dell’evoluzione dell’Asia centrale, in
bilico tra una recrudescenza di tendenze autoritarie e repressive (soprattutto in
45
Cfr. http://www.ue.eu.int/ueDocs/cms_Data/docs/pressData/en/gena/86441.pdf
Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 93.
47
Di recente Tashkent sembra però lanciare segnali postivi in questa direzione. Cfr. A.
LOBJAKAS, EU Gets Rights Pledges from Taskent, in «Central Asia Report», 7, March 2007, 3,
http://www.rferl.org/reports/FullReport.aspx?report=568#592858.
48
Cfr. A. SCHMITZ, A Political Strategy for Central Asia, cit.
46
319
Uzbekistan e Tagikistan ) e la timida comparsa di prospettive contrarie negli altri
tre paesi 49 .
In una situazione così complessa e ancora in assenza di una chiara strategia
europea, il compito del Rappresentante Speciale dell’Unione in Asia centrale
incontra inevitabilmente molti ostacoli. In particolare non ci si deve attendere
troppo dalle collaborazioni bilaterali con i singoli stati centroasiatici, che sono
assai spesso guidati da calcoli di breve termine, soprattutto di carattere interno. In
effetti la politica europea nella regione è ancora intralciata dalla loro definizione
di “paesi in transizione”, che è stata coniata negli anni Novanta del XX secolo per
designare gli stati dell’Europa orientale, ma si mostra sostanzialmente
inconsistente se riferita a diverse repubbliche post-sovietiche, in particolare a
quelle dell’Asia centrale. In questa regione, infatti, è molto dubbio che si possa
descrivere il processo politico di questi anni come una “transizione” verso il
modello politico, economico e sociale occidentale 50 . Occorre piuttosto pensare
questi paesi in un’ottica simile a quella che si usa per studiare i loro vicini
regionali, quali l’Iran o il Pakistan. Inoltre, la stessa percezione dell’Asia centrale
come una “regione” con valori comuni e strutture unitarie è in un certo senso
fuorviante. Le repubbliche centroasiatiche, infatti, hanno sinora mostrato una
limitata tendenza verso la cooperazione e l’integrazione regionale 51 . In questo
senso il desiderio dell’Unione Europea di interagire con una realtà regionale
integrata e omogenea rischia seriamente di scontrarsi con una situazione assai
differente. Pertanto, pur rimanendo auspicabile e forse realizzabile nel lungo
periodo, l’approccio “regionale” di Bruxelles all’Asia centrale deve essere
ridefinito, adeguandolo maggiormente alla concreta realtà locale. Una realtà nella
quale, inoltre, esistono inoltre diverse strutture regionali al cui interno il ruolo
della Russia è forte o dominante – in particolare l’Organizzazione del Trattato di
Sicurezza Collettiva (Collective Security Treaty Organization, Csto) e
l’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai (Shanghai Cooperation
Organization, Sco) – e che dovrebbero essere tenute in maggiore considerazione
di quanto sia avvenuto sinora 52 . E’ cioè necessario che l’Unione Europea fissi
un’agenda realistica della sua azione in Asia centrale, valutando esattamente la
situazione dei paesi della regione e i propri interessi. Solo in questo caso l’attuale
fase che la vede coinvolta essenzialmente in progetti di tipo tecnico potrà essere
superata nel senso di un intervento più accentuatamente politico.
Secondo alcuni osservatori, in Asia centrale l’Unione Europea gode di una
notevole libertà di azione in quanto agiscono nella regione meno attori
49
Cfr. N.J. MELVIN, Building Stronger Ties, Meeting New Challenges: The European Union’s
Strategic Role in Central Asia, cit.
50
Si vada questo riguardo quanto scrive Th. CAROTHERS, The End of the Transition Paradigm,
in «Journal of Democracy», 13, 2002, 1, p. 9.
51
Cfr. R. ALLISON, Regionalism, Regional Structures and Security Management in Central Asia,
in «International Affairs», 80, 2004, 3, pp. 463-483.
52
Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 106.
320
internazionali di quelli presenti, per esempio, nel Caucaso meridionale 53 . Questa
considerazione può essere in parte corretta, ma al tempo stesso c’è da dubitare che
l’Unione Europea riesca ad agire in Asia centrale con maggiore efficacia di
quanto possano fare attori più prossimi alla regione e più attrezzati politicamente e
militarmente come Russia, Cina e Stati Uniti. Per questa ragione sembra invece
auspicabile che l’Unione Europea eviti di partecipare alla rivalità geopolitica che
investe la regione, mirando piuttosto a salvaguardare i propri interessi per mezzo
di una politica di cooperazione multilaterale e di interdipendenza. In particolare
sarebbe opportuno che Bruxelles si impegnasse a convincere anche gli altri attori,
locali e non, della convenienza – almeno nel lungo periodo – della politica di
cooperazione rispetto a quella di competizione. In questo senso l’Unione Europea
dovrebbe sforzarsi di coinvolgere non solo gli Stati Uniti e la Russia, ma anche la
Cina, l’India e il Giappone in un dialogo politico capace di instaurare una solida
stabilità regionale. Un dialogo di questo tipo può essere impostato a partire dagli
interessi condivisi, in particolare quelli economici e di sicurezza, per poi
espandersi ad altri aspetti, inclusi quelli politici e sociali.
E’ ovvio che tale approccio richiede pazienza e soprattutto l’instaurazione di
regole precise che invece sono ancora di là da venire 54 . Occorre anche tener
presente che i paesi centroasiatici tendono a vedere nell’Unione Europea
essenzialmente una fonte di sostegno finanziario, ma non gradiscono che
intervenga nei loro affari interni, soprattutto in materia di diritti civili. Il suo ruolo
deve dunque essere almeno per il presente alquanto prudente, essenzialmente
rivolto alla non semplice opera di costruzione dei canali sui quali impostare una
proficua collaborazione politica con questi paesi.
5. L’Unione Europea e la società civile in Asia centrale
Da questo punto di vista la questione della democrazia e dei diritti umani
costituisce tanto una chance quanto un ostacolo. Gli Accordi di partenariato e
cooperazione siglati tra l’Unione Europea e gli stati della regione includono
numerosi riferimenti al consolidamento della democrazia, dei diritti umani,
dell’indipendenza dei media e del rispetto delle minoranze etniche. Tuttavia questi
richiami devono necessariamente fare i conti con una realtà che sembra assai
restia ad adeguarvisi e da questo punto di vista gli stati centroasiatici sono dei
partner effettivamente difficili. Anche se da più parti si insiste sulla necessità che
l’Unione Europea si mantenga credibile sul piano dei valori democratici, occorre
considerare che in Asia centrale i richiami a una democrazia pluralistica o
all’indipendenza dei media sono assai poco realistici e una eccessiva insistenza su
di essi rischia di rivelarsi controproducente, limitando le possibilità di intervento
concreto nella regione. Come hanno dimostrato gli eventi del 2005, i governi
53
54
Ibidem, p. 95.
Cfr. A. SCHMITZ, A Political Strategy for Central Asia, cit.
321
centroasiatici non esitano a porre restrizioni all’attività delle Ong e dei media
indipendenti 55 . Inoltre occorre ricordare che in questi paesi sta crescendo
un’ondata di generale risentimento anti-occidentale, rivolto principalmente contro
gli Stati Uniti, ma che coinvolge anche le Ong, le attività di monitoraggio
elettorale dell’Osce e le prescrizioni dell’Ifi.
Anche per la sua limitata visibilità nella regione, l’Unione Europea non è ancora
divenuta oggetto di tale risentimento, tuttavia è opportuno che Bruxelles tenga ben
presente una situazione nella quale il fatto che istituzioni finanziate dall’esterno
svolgano spesso attività di opposizione politica non le rende certo popolari agli
occhi delle autorità della regione, che le considerano spinte da ambizioni neocoloniali mascherate da slogan umanitari. Inoltre, le persone che lavorano in
queste istituzioni possono trovarsi anche in situazioni difficili e spesso sono
costrette ad abbandonare i loro paesi. Alla luce di tale situazione, c’è da chiedersi
se sia opportuno continuare a finanziare strutture che vengono ampiamente
percepite come eterodirette e quindi ostacolate nella loro azione dai governi della
regione. Sarebbe invece preferibile sostenere strutture e persone meglio inserite
nella società locale, anche se più controllate dalle autorità locali. Questo
renderebbe naturalmente più lenti i tempi dell’auspicata evoluzione politicosociale, ma la renderebbe con ogni probabilità più attuabile 56 . Più in generale, la
situazione politica della regione rende poco praticabile l’insistenza europea (ma
anche statunitense) sulle questioni riguardanti i diritti umani, l’indipendenza dei
media e così via, in quanto i governi autoritari dell’Asia centrale possono
facilmente voltare le spalle all’Unione Europea (oltre che a Washington) per
instaurare una collaborazione preferenziale con Russia e Cina, già fortemente
presenti nella regione e assai meno sensibili a tali istanze. In particolare, le istanze
occidentali di democrazia e diritti civili sono molto lontane dalla realtà politica
locale e l’insistenza preliminare su di esse rischia di essere controproducente,
soprattutto se alimentata attraverso l’azione di Ong finanziate dall’esterno e
percepite dalle autorità locali come vettori di sovversione politica. In questo senso
è molto importante che l’azione dell’Unione Europea nella regione sia il più
possibile realista, evitando un approccio astrattamente moralistico, che viene
sovente interpretato come espressione di una nuova e subdolamente coloniale
“ideologia occidentale” 57 . In questo senso, le pur comprensibili rimostranze sulla
insufficiente attenzione europea nei confronti della questione dei diritti umani in
Asia centrale, in particolar modo per quel che riguarda l’Uzbekistan 58 , non
possono dettare l’agenda della politica di Bruxelles nella regione. L’Unione
Europea deve invece trovare il modo di collaborare con i governi locali e con i
55
Si veda al riguardo l’articolo di V. KASYMBEKOVA - Ch. OROZOBEKOVA, Central Asia
NGOs Under Fire, in «Reporting Central Asia», 439, 18 March 2006,
http://iwpr.net/?p=rca&s=f&o=260432&apc_state=henirca2006.
56
Cfr. A. MATVEEVNA, EU Stakes in Central Asia, cit., p. 108.
57
Ibidem, p. 122.
58
Cfr. The EU Isn’t Taking Sanctions against Uzbekistan Seriously, in «Eurasia insight», 6
February 2007, http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/eav020607a.shtml.
322
partiti legalmente riconosciuti per sostenere un’evoluzione graduale ma
percorribile sulla base di obiettivi limitati. Tra questi obiettivi possono essere
indicati i seguenti:
− incoraggiare i contatti tra i partiti politici locali e quelli europei;
− organizzare contatti diretti tra i parlamenti dei paesi centroasiatici e quelli
europei;
− osservare e promuovere la regolarità dello svolgimento delle elezioni, in
particolare di quelle parlamentari 59 .
6. Conclusioni
L’Unione Europea si trova dunque in una situazione quanto mai complessa nei
confronti dell’Asia centrale. Il suo peso nella regione è ovviamente limitato dalla
distanza geografica e dalla scarsa quantità e qualità dei rapporti tradizionali,
nonché dall’assenza di stati europei che si propongano come sponsor nei confronti
di quelli locali. Al tempo stesso, tuttavia, l’Unione Europea ha forti e crescenti
interessi economici in Asia centrale, soprattutto per quel che riguarda la necessità
di trovare forniture energetiche alternative. Di grande rilievo sono anche le
questioni di sicurezza, riguardanti in primo luogo il vicino Afghanistan, nonché le
dinamiche terroristiche, il traffico di armi e stupefacenti e così via. La crescita di
interesse dell’Unione Europea verso l’Asia centrale manifestatasi negli ultimi anni
e ulteriormente rafforzata dalla presidenza tedesca ha quindi pienamente ragion
d’essere. Tanto più che l’Unione Europea può sfruttare il vantaggio di essere
percepita come portatrice di aspirazioni egemoniche assai meno di quanto
avvenga per stati come Russia, Cina e Stati Uniti. In Asia centrale come in altre
parti del mondo, in particolare di quello islamico, l’Unione Europea viene infatti
largamente percepita come un modello “occidentale”, cioè avanzato dal punto di
vista politico e economico, ma meno aggressivo di quello statunitense e quindi per
molti aspetti più attraente. Si tratta in effetti di un vantaggio notevole, ma non
semplice da gestire. Le repubbliche post-sovietiche dell’Asia centrale hanno
infatti dinamiche politiche e sociali molto particolari, che li distaccano
completamente dal paradigma dei “paesi in transizione” dell’Europa orientale e li
avvicinano per certi aspetti piuttosto ad altri stati asiatici e musulmani come il
Pakistan o l’Iran. Da questo punto di vista è molto importante che l’Unione
Europea riesca in tempi brevi ad aumentare sensibilmente la propria capacità di
analisi politica e culturale, oltre che economica, di una regione così complessa 60 .
Occorre soprattutto che Bruxelles individui con attenzione i suoi concreti interessi
strategici, che devono per quanto possibile raccordarsi e non porsi in contrasto
con quelli di altri attori che agiscono nella regione. Con gli Stati Uniti,
59
Cfr. S.F. STARR, Clans, Authoritarian Rulers, and Parliaments in Central Asia, cit.
Cfr. Z. BARAN et al., Islamic Radicalism in Central Asia and the Caucasus: Implications for
the EU, cit.
60
323
naturalmente, ma anche con la Russia, che ha superato la devastante crisi postsovietica che l’aveva attanagliata negli anni Novanta e si pone invece adesso
come indispensabile referente politico ed economico in Asia centrale. E ancora
con la Cina, il cui ruolo nella regione è destinato a crescere, e che per molti aspetti
sta trovando un linguaggio comune con Mosca. Il punto cruciale è quindi che
l’Unione Europea in Asia centrale si ponga non come competitore geopolitico –
un ruolo al quale non è attrezzata in assoluto e tanto meno in questa regione –
quanto come fattore di cooperazione ed integrazione tra i diversi attori esterni ed
interni.
In attesa che la strategia europea venga completamente e ufficialmente delineata,
occorre basarsi sulla versione preliminare per individuarne gli obiettivi e le
modalità. Questo documento spiega preliminarmente la necessità di rafforzare i
legami con l’Asia centrale con il fatto che le dinamiche strategiche, politiche ed
economiche della regione la stanno sempre più avvicinando all’Unione Europea.
L’interesse, viene anche sottolineato, riguarda in larga misura l’opportunità di
rafforzare in questo modo la sicurezza energetica dell’Europa. Il documento
individua anche i passi fondamentali che dovrebbero essere compiuti per
rafforzare la stabilità della regione, promuovere il commercio e gli investimenti.
E’ anche sottolineata la necessità che la politica dell’Unione Europea verso l’Asia
centrale sia portata avanti in collaborazione con le altre entità statuali attive nella
regione (soprattutto Usa, Russia, Cina e Giappone) e con le varie organizzazioni
regionali, in particolare quella di Shanghai. Dal punto di vista operativo il
documento insiste sulla necessità di elevare il profilo e la visibilità della presenza
europea nella regione, essenzialmente sulla base di incontri regolari di alto livello
che dovrebbero iniziare a svolgersi due volte l’anno. Al tempo stesso si può
osservare come alcuni passaggi di questo testo lascino perplessi riguardo alla
comprensione europea delle dinamiche della regione. Una certa astrattezza, ma si
potrebbe parlare anche di retorica eurocentrica, si legge in espressioni come
«nothing will be possibile in Central Asia states without the consolidation of
stable, just and open societies, moving gradually towards European norms», sia
pure con l’aggiunta «taking into account historical specificities of each country».
Questo genere di retorica non è molto produttivo, soprattutto in un’area come
l’Asia centrale. Le repubbliche di questa regione, infatti, non solo sono assai
lontane da valori e norme europei, ma possono contare su partner come Russia e
Cina, più vicine non solo geograficamente, ma anche politicamente e
culturalmente.
In conclusione, la capacità di individuare una strategia efficace, quindi realista e
concreta, verso l’Asia centrale costituisce un importante ma non semplice banco
di prova delle potenzialità dell’Unione Europea come attore internazionale capace
di operare nelle aree più difficili del globo.
324
IL GRUPPO DI RICERCA
Aldo Ferrari insegna Lingua e Letteratura armena presso l’Università Ca’
Foscari di Venezia ed è responsabile del Programma di Ricerca Caucaso-Asia
centrale dell’Ispi.
Carlo Frappi è dottorando in Storia Internazionale presso l’Università degli Studi
di Milano.
Matteo Fumagalli è Postdoctoral Fellow presso la School of Social and Political
Studies dell’Università di Edimburgo, Regno Unito.
Paolo Sartori insegna all’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Silvia Tosi è ricercatrice presso l’Ispi.
Fabrizio Vielmini è ricercatore associato presso l’Ispi.
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