ROCCE e CORTECCE

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G. Sini, Agosto 2009
Art. A 4
ROCCE e CORTECCE
Qualcosa da osservare in un bosco
Questo articolo non vuole essere una rassegna di belle foto. Tutt’altro.
Vuole solo mostrare qualche esempio di campioni naturalistici raccolti nei boschi del
Trentino, durante le normalissime gite di un turista pensionato. Campioni di dimensioni spesso
microscopiche, fotografati “così come sono”, senza manipolazioni, illuminati più o meno come
avviene all’aperto, in episcopia, con la sorgente dalla stessa parte dell’occhio dell’osservatore o
dell’obbiettivo.
Anche se per molti oggetti, come il legno, l’osservazione sarebbe più proficua in sezione
sottile, illuminandoli per trasparenza, le foto che seguono sono state riprese su oggetti allo stato
naturale, con tutte le loro irregolarità.
In particolare, gli oggetti qui illustrati provengono dai boschi del Trentino, in cui le essenze
arboree principali sono l’abete rosso o “peccia” (Picea excelsa) ed il larice (Larix decidua), e che
si estendono dai 500 ai 2.000 m.s.m., all’incirca. Le rocce di base sono spesso cristalline (graniti
e scisti granitici), a volte calcaree (calcari del Brenta, ad es.).
Le foto sono state riprese con tre strumenti principali:
− fotocamera digitale (Canon 350 D, a volte con lente addizionale + 8 D (f = 125 mm),
oppure Nikon Coolpix L5);
− stereomicroscopio Zeiss Jena, mod. Technival, senza oculare, con sovrapposta la fotocamera Canon sopra indicata (vedi l’articolo n° 12, “La fotografia con lo stereomicroscopio”, in
questo stesso sito);
− Microscopio episcopico per fondo chiaro e fondo scuro, mod. “Jenatech” della casa Zeiss
di Jena. Tale strumento è stato usato quasi sempre in episcopia in fondo scuro. L’indicazione
“Pol +” contrassegnerà le poche foto eseguite in fondo chiaro con polarizzatori incrociati.
Le manipolazioni elettroniche sono state ridotte al minimo, spesso per correggere i limiti del
metodo fotografico. Molte delle immagini riportate erano, all’osservazione visuale, tanto ricche
di dettagli, di contrasti e colori da far credere che valesse proprio la pena di riprenderle. Poi,
appena staccati gli occhi dagli oculari e rivolti all’immagine sullo schermo del PC, quanta
delusione! A parte le difficoltà obbiettive e l’incapacità del fotografo, il fatto è che il nostro
occhio è assai più flessibile di qualunque sensore fotografico e dietro di esso c’è un cervello che,
pur con tutte le sue deficienze, si comporta assai bene nell’interpretazione e nella ricostruzione
mentale delle immagini. Inoltre, nell’osservazione, c’è la risorsa inesauribile della continua
focheggiatura, che consente di esplorare e ricostruire nella terza dimensione qualunque
profondità dell’oggetto, anche molto irregolare. È ben vero che l’osservazione episcopica
permette l’osservazione di oggetti senza alcuna preparazione, nel loro stato naturale, ma nessun
sistema fotografico consente l’esplorazione del rilievo: la profondità di fuoco non basta mai.
È anche vero che esistono programmi capaci di fondere una serie di foto in diverse
condizioni di fuoco in un’unica immagine contenente solo le parti più nitide (“Helicon focus” e
simili), ma questa strada non è stata seguita, sia per l’analfabetismo informatico e la pigrizia
dell’autore, sia per mostrare le cose così “come si vedono”, al di là delle alchimie elettroniche.
Per quanto riguarda l’ingrandimento delle singole foto, è ormai impossibile indicare il
rapporto di scala (n : 1), cioè il rapporto dimensionale fra l’immagine sullo schermo e l’oggetto
corrispondente. Troppi fattori variabili intervengono: il sistema ottico, la focale ed il fattore di
zoom dell’apparecchio fotografico, il successivo ingrandimento a software, il processo di
1
presentazione (comando “Ritaglia”, ad es.), le dimensioni dello schermo, ecc.
Sarà quindi indicata volta per volta la lunghezza, nel piano oggetto, corrispondente al lato
lungo della foto, espressa in millimetri (“ℓ = ##”). Questa indicazione rimane valida comunque
varino i fattori appena elencati.
In qualche caso, accanto alla foto “principale”, verrà mostrato un dettaglio, a maggiore
ingrandimento, per evidenziare qualche particolare di maggior interesse.
Ad ogni foto seguirà una didascalia mirata a chiarire, sia pure succintamente, la natura ed il
significato naturalistico dell’oggetto, e si tratterà spesso di oggetti poco noti, fuori dall’esperienza comune. Lo scopo è di aprire una finestra su quel mondo che ci circonda, e che ha il torto
principale di essere fuori dal potere risolutivo del nostro occhio. Ma la colpa non è sua.
NB: nel testo che segue si farà spesso riferimento alle piante “inferiori” o Crittogame. Per
non perdere tempo in spiegazioni, preghiamo il lettore di riferirsi ad alcuni testi presenti in
questo sito, in particolare ai capitoli del gruppo “Crittogame”, oppure, ancora meglio, ad un
trattato di botanica. Si veda anche l’art. n° 8: “L’osservazione in episcopia nel campo delle
scienze naturali” (nella sezione “Microscopia ottica”).
LE ROCCE
Prima che intervenga la degradazione meteorica e la roccia si trasformi in detrito, il che può
avvenire in tempi lunghissimi − ma la natura non ha fretta − , spesso le rocce affiorano nel loro
stato originario, duro e compatto. La superficie di tali rocce può apparire inospitale per
qualunque forma di vita: spesso del tutto arida, senza spazio per qualunque radice, senza terriccio
che possa fornire qualunque tipo di nutrimento. Un piccolo deserto.
Ma … Ovunque vi sia la minima possibilità fisica di vita, prima o poi qualche specie vi si
adatta e può anche prosperarvi, magari in gran numero di individui; è il “principio degli ambienti
difficili”: poche specie, ma molto prolifiche, se non altro per la mancanza di competitori.
Le prime specie che attecchiscono sulla superficie esposta delle rocce sono vegetali, alghe,
licheni e muschi soprattutto. Si chiamano “specie pioniere”. Alcune sono molto astute; vi sono
alghe “endolitiche” (dal greco: “dentro la roccia”), diffuse sulle rocce calcaree (notoriamente
assai solubili nell’acqua resa acidula dall’ac. carbonico, che si forma per reazione coll’anidride
carbonica). Tali alghe, trasudando minime tracce di soluzioni acide, si scavano una microscopica
nicchia o galleria nella roccia, dove vivono riparate senza rinunciare alla luce solare. Anche certi
licheni scelgono questa strada, ed i calcari che li ospitano si riconoscono per essere finemente
bucherellati.
Altri licheni scelgono una via più comoda: nelle rocce cristalline, ricche di mica, le soluzioni
acide avrebbero poca efficacia, ma le miche tendono spontaneamente a sfaldarsi in sottili lamelle
trasparenti ed in queste fessure naturali si annidano certi licheni. Si tratta di spazi ristretti, ma
protetti meccanicamente dalla lamina di mica sovrastante, e protetti in parte anche dal
disseccamento; e ciò in piena luce, per essere in genere la mica assai trasparente. Una specie di
micro-serra.
A parte queste astuzie particolari, molti licheni attecchiscono direttamente sulla superficie
della roccia, per semplice adesione. Di licheni parleremo con qualche dettaglio più avanti, ma
essi, con i loro residui, e trattenendo altri detriti vegetali come gli aghi morti delle conifere,
preparano un primo sottile strato di terriccio su cui poi attecchiscono meglio i muschi ed in
seguito altre piante, quelle “superiori”, come tante graminacee.
Vediamo qualche esempio.
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Superficie esposta di un blocco di scisto cristallino. A parte il deposito di aghi morti di larice e qualche ciuffo di
muschi, la superficie è coperta da varie specie di licheni. Parleremo ancora di questi strani vegetali, ma va notato che
la loro crescita è lentissima ed una superficie nuda impiega decenni per “maturare” nello stato qui illustrato.
I vari “talli” lichenici si contendono lo spazio e non si trova una superficie scoperta. I talli in alto, color giallo
limone (Lecidea geographica), sono tipici ed esclusivi delle rocce “acide”, ricche in silice (Val di Sole).
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Le prime due foto mostrano licheni “eteromeri”, cioè a struttura complessa, che descriveremo più avanti; ma vi
sono anche licheni “omomeri”, senza struttura, di aspetto polverulento, come quelli qui rappresentati, proliferanti su
roccia calcarea (Brenta settentrionale).
IL TERRICCIO
Quel misto di rocce disgregate e resti vegetali che chiamiamo “terreno” può rappresentare un substrato più
facile per molti licheni, ma anche per muschi ed altre piante non così resistenti come i licheni.
Un lichene omomero, diffusissimo su legno morto, cortecce, terriccio umido ed anche rocce umide. Della sua
struttura parleremo ancora. Qualcuno dice: sembra una muffa … ma è tutt’altra cosa.
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Su terriccio, cortecce o legno morto è facile vedere delle strane piantine striscianti, ramificate, simili a muschi:
sono le Epatiche, strette parenti dei muschi, dal corpo vegetativo assai semplice. Le loro foglie sono spesso formate
da un unico strato di cellule; i fusticini non posseggono né legno né corteccia, ecc.
Bastano pochi ingrandimenti per mostrare le singole cellule di questi primitivi vegetali, veri “fossili viventi”.
CORTECCE
Quando una pianta arborea supera i primi anni di vita, il tronco appare fasciato da una “corteccia”, uno strato
protettivo da cui sono scomparsi i tessuti della “struttura primaria” (epidermide, ecc,) e che risulta costituito in
prevalenza dal sughero, un tessuto meccanicamente e chimicamente assai resistente, anche se spesso non così
elastico come nella quercia da sughero.
Sia per la presenza di fessure e porosità, sia perché si tratta pur sempre di materiale organico, la corteccia
rappresenta un buon substrato su cui si annidano facilmente piante ed animali di ogni genere, soprattutto Crittogame,
insetti, acari, ecc. Un vero e proprio ecosistema, con caratteristiche peculiari.
Raramente si vedrà la superficie pulita del sughero, come nella foto seguente; più spesso si osserverà una
miriade di strutture macro- e microscopiche.
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Il sughero è un tessuto morto, con cellule vuote dalla parete fortemente ispessita. Un ottimo isolante termico,
perfettamente impermeabile.
Nel caso del larice, il sughero assume un notevole spessore e non riesce a seguire lo sviluppo del tronco. Si
frammenta perciò in blocchi, lasciando ampi ed irregolari solchi, ottima base per l’impianto di complesse biocenosi.
Ed allora esaminiamo alcuni esempi di questa microfauna e microflora.
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INSETTI
Un piccolo Liposcelide (ordine Psocotteri). Un gruppo numeroso di insetti atteri (senza ali) che vivono in
ambienti naturali ed artificiali, purtroppo anche in depositi alimentari. Un’altra specie nota è la “pulce dei libri”.
Un piccolo coleottero, dalle corte elitre. Gli insetti si riconoscono per avere, salvo rarissimi casi, sei zampe
articolate.
Pol +
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L’Anthrenus verbasci è un piccolo coleottero (fam.
Dermestidi) dalla testa quasi invisibile perché nascosta
sotto il pronoto (il dorso del primo segmento toracico).
Anche questa famiglia comprende molte specie con
preferenze alimentari assai varie, spesso nemiche delle
derrate alimentari. La specie qui presente vive su resti
vegetali.
A maggiore ingrandimento, si constata che
l’esoscheletro è nero ma coperto da scaglie colorate, come
quelle delle ali delle farfalle. Altri coleotteri, zanzare, ecc.
possiedono scaglie simili.
(Pol +)
Ma, avendo sottomano un microscopio episcopico,
come resistere alla tentazione di guardare proprio le ali di
qualche farfalla? Sospendiamo per un momento
l’osservazione della microfauna delle cortecce, e
tuffiamoci nell’oceano dei colori della Vanessa urticae, la
comune Vanessa delle ortiche.
Ad occhio nudo, oltre ai colori di base, si notano solo
delle macchioline celeste-iridescenti lungo il bordo
esterno. Ma basta una lente d’ingrandimento per capire
molto di più.
Intanto, si osservi che le sfumature macroscopiche di
colore sono dovute solo alla mescolanza di scaglie di
diverso colore, sì, ma ogni scaglia è omogenea, d’un solo
colore.
Poi, si vadano a vedere
le citate macchioline azzurrognole e si noteranno delle
strane iridescenze.
Si tratta di colori “da
diffrazione”. Molti esperti
usano il termine “colori
fisici”, che è molto generico
e dice poco (mica esistono i
“colori chimici”!).
Il fatto è che le
scagliette delle farfalle sono
costituite da due sottili
lamine parallele, tenute a
piccola distanza da minuscole colonnine, perpendicolari alle lamine stesse.
Lo spazio fra le colonnine è vuoto.
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Le colonnine sono allineate fittamente secondo file parallele e ciò costituisce un “reticolo” in cui qualcosa
(l’indice medio di rifrazione) varia secondo uno schema a righe parallele (vedi il manuale: “Problemi Tecnici della
Microscopia Ottica”, Cap. 18.5 e l’art. O8 “La diffrazione”). Ciò decompone la luce bianca nei colori elementari e
l’oggetto appare di colore variabile a seconda dell’incidenza della luce e della direzione d’osservazione.
Per dimostrare la dipendenza
del colore dall’incidenza della
luce, basta modificare, con
qualche schermo disposto presso
il diaframma d’apertura dell’illuminatore, la direzione del fascio
illuminante. Una scaglietta dall’aspetto metallico può diventare
completamente nera.
Pol+
Ai fenomeni di diffrazione si
sommano però i fenomeni
d’interferenza “da strati sottili”
(quelli che danno il colore alle
bolle di sapone). Infatti, le due
lamine sottili di cui è formata
ogni scaglietta possono avere
spessore tale da simulare, per
doppio riflesso, un interferometro
di Pérot e Fabry (vedi l’art. O9
“L’interferenza”).
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Torniamo allora agli
insetti microscopici che
vivono sulle piante.
Si possono osservare
delle cocciniglie (Emitteri), come si vede qui a
fianco, in un esemplare
circondato
da
sottili
scagliette di cera da esso
stesso secrete.
Più frequenti sono gli
Afidi (altri Emitteri), come
i “gorgoglioni delle rose”.
A volte, gli Afidi si
fabbricano uno scudo, una
specie di carapace, con
evidenti funzioni difensive. La loro forma appiattita favorisce il loro genere
di vita, che consiste nello
strisciare alla superficie
delle piante per succhiarne
la linfa attaccando i tessuti
più teneri.
Più frequenti sono gli
ACARI che si distinguono bene dagli insetti per
avere 8 zampe e sono parenti stretti dei ragni (Aracnidi).
Essi vivono in tutti gli ambienti come vegetariani,
parassiti, saprofiti, ecc.
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A volte si trovano sulle cortecce e nel terreno
delle ANGUILLULE, minuscoli vermetti
cilindrici (Nematodi), dai vivaci movimenti
contorsionistici.
Anche le anguillule si trovano in tutti gli
ambienti ed esistono specie che si nutrono di ogni
pensabile alimento.
Esse sono molto resistenti ad innumerevoli
fattori ambientali poiché sono in grado di produrre
“cisti”, cioè forme di vita latente, in grado di
sopravvivere senza nutrirsi per tempi lunghissimi
(vedi gli artt. A 15 “Noi e loro” ed A 17 “Letargo e
vita latente”).
Ed ora passiamo alla microflora.
LE ALGHE
Come è noto, le alghe sono
piante filogeneticamente primitive,
dalla
struttura
semplice,
in
prevalenza marine. Molte specie si
sono adattate all’acqua dolce, ma
pochissime all’ambiente aereo. Se
ne trovano sulle rocce umide, sul
terreno, sulle cortecce.
L’incontro più frequente è con
una patina verde, verde brillante se
l’ambiente è molto umido, pulverulenta, in cui ad occhio nudo non
si distingue nulla.
Si tratta di alghe unicellulari,
sferoidali, piccolissime (pochi µ),
che si riproducono agamicamente
(senza fenomeni sessuali). Appartengono in prevalenza al gruppo
delle Protococcali (Cloroficee).
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Ecco
singoli individui, in fase
vegetativa, accatastati disordinatamente,
senza formare
strutture particolari.
(obb. 50/0,85)
Alghe del genere vivono anche
all’interno del legno morto più o
meno imputridito, il quale apparirà
allora di colore verdastro.
Ed anche qui occorrerà un
forte ingrandimento per individuarle.
È sempre una sorpresa scoprire
“quanta gente” può vivere dentro o
sopra un pezzo di legno marcio o su
un pizzico di terriccio.
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Lungo i torrenti o su pietre
vicine ai torrenti non è raro
osservare delle patine con varie
sfumature di rosso, all’apparenza
pulverulente. Si tratta di alghe
capaci di attecchire sulla nuda
roccia (come la Trentepohlia),
costituite da brevi filamenti di
poche cellule, dotate di una spessa
parete trasparente che consente loro
di resistere al disseccamento anche
per mesi. Il citoplasma è invece
rosso vivo. Trattandosi di alghe
fotosintetiche, è ovvio che possiedono clorofilla, ma gli altri
pigmenti mascherano il colore
verde di quella.
Alghe del genere andrebbero
osservate in trasparenza ma,
volendo rispettare la consegna di
mostrare solo osservazioni in
episcopia, possiamo dire che la
struttura di queste alghe è
comunque ben visibile (qui è stato
usato un obbiettivo 50× / 0,85).
Dopo
pochi
mesi
di
disseccamento,
queste
alghe
perdono i loro pigmenti e diventano
grigiastre. Una delusione.
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Altre volte la patina è arancione
ed appare feltrosa.
Ecco qui altre due specie di
Trentepohlia, dai filamenti più lunghi.
Sempre sulle pietre vicino a zone
umide.
Qui i filamenti sono più lunghi (sopra ed a
sinistra).
Si tratta ancora di quelle poche specie di
alghe che si sono adattate all’ambiente subaereo ed al pericolo del disseccamento.
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Altre alghe che prosperano sulle
rocce nude, sempre in luoghi umidi, sono
unicellulari e non formano filamenti. È il
caso del Porphyridium cruentum, che
forma sottili patine pulverulente e
discontinue, di colore rosso abbastanza
carico. Anche queste alghe resistono,
anche per mesi, al disseccamento, ed ogni
anno subiscono sbalzi termici fortissimi:
se la roccia che le ospita rimane al sole
d’estate anche per poche ore, la
temperatura locale può superare 40° C;
d’inverno si può scendere sotto i − 20° C.
Questa specie, in particolare,
conserva i suoi colori anche dopo anni di
disseccamento.
Alle alghe fotosintetiche, come a tutte
le piante verdi, per vivere basta un po’
d’umidità, un po’ di luce e qualche sale
minerale. Tutti gli altri esseri viventi
campano alle loro spalle.
Molte volte, le alghe non sono sole in
quest’opera di colonizzazione delle rocce
ed in genere delle superfici spoglie; hanno
per compagni licheni, funghi (sempre
microscopici), forme filamentose giovanili di muschi (“protonemi”), ecc. Le
cenosi, le associazioni di specie diverse,
che si presentano sono innumerevoli.
Ecco qui un misto di alghe
unicellulari (verdi), soredi di licheni (vedi
oltre, grigiastri) e sottili catenelle di
cellule scure fungine.
Certe immagini, che si osservano qua
e là sul terriccio umido, sui tronchi, sul
legno imputridito, danno proprio l’idea
dell’incessante sovrapporsi di specie
viventi assai diverse.
Qui si vedono i conidiofori (ife
portatrici di spore àgame), di un
Ficomicete, miste ad alghe unicellulari e
talli lichenici in formazione.
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A maggiore ingrandimento, si
distinguono le singole cellule.
Anche qui, con un obbiettivo
50 × / 0,85.
La profondità di fuoco in
queste condizioni è spesso minore
di 1 µ e la fotografia è sempre
deludente. Meglio l’osservazione
diretta, dove la nostra mente può
fondere molte immagini successive
focalizzate su piani diversi.
I FUNGHI
A livello microscopico, il mondo dei funghi è sconfinato. Essendo saprofiti o parassiti (non possiedono
clorofilla), prosperano ovunque vi sia materiale organico vivo o morto. Spesso sono piccolissimi e si presentano
essenzialmente come corpo vegetativo (“micelio”) formato da un intreccio di filamenti (ife) dati da catene di cellule,
e da una miriade di corpi riproduttori. Spesso si tratta di spore agame (derivanti da divisione semplice delle cellule
del micelio), a volte spore sessuate, derivanti dalla fusione di due cellule con funzione di gameti, a volte diverse
forme di spore che si susseguono durante il ciclo riproduttivo. Le spore dei funghi sono sempre piccolissime, come
quelle dei muschi, a differenza di quelle delle felci, che sono assai più grandi.
Vediamo qualche esempio.
Con molta fantasia, si possono
includere nei funghi anche i
MIXOMICETI,
strani
esseri
formati da aggregati di cellule
ameboidi con parete di composizione simile a quella dell’esoscheletro degli insetti (chitina).
Quando gli ammassi ameboidi
sono maturi producono spesso degli
strani corpi sporigeni a forma di
spillo, pronti a disseminare le loro
minuscole spore.
A
volte,
i
Mixomiceti
attaccano il legno umido, anche
quello delle costruzioni, ricoprendolo di una patina gelatinosa.
Si parla perciò di “funghi
mucillaginosi”.
Ma passiamo ora ai “veri
funghi”.
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Sarà capitato a tutti di osservare
foglie di piante erbacee o arboree coperte
di una patina grigia polverulenta, quasi
uno schizzo di fango secco. Vale la pena
di ingrandire.
Sicuramente, la superficie della foglia
apparirà coperta da un intreccio di
filamenti bianchi, apparentemente senza
alcuna struttura. Si tratta di un micelio. E
può darsi che non si veda altro.
Ma, sotto il feltro delle ife, si
potrebbero indovinare dei corpiccioli
rotondi, variamente colorati a seconda
dello stadio di maturazione.
Cercando meglio, si può trovare un
micelio abbastanza diradato da mostrare
nitidamente quei corpiccioli: sono i
“periteci”, delle specie di sporangi
contenenti gli “aschi”, le caratteristiche
vescichette con quattro od otto spore
sessuate.
Si tratta di organi di
riproduzione svernanti,
un caso particolare di
“forme resistenti”.
Questi
funghetti
appartengono
alle
Erisifacee (Ascomiceti),
a volte comprese in un
gruppo speciale (Perisporiali). Sono tutte
parassite. Fra di loro si
annovera, per esempio,
l’oidio della vite.
Le loro ife spingono dei sottili prolungamenti (austori) nelle
cellule epidermiche dell’ospite e si nutrono a
loro spese.
Il parassitismo non
è una prerogativa solo
umana.
Pol +
17
I periteci delle Erisifacee possono essere molto
eleganti, mentre aspettano il momento buono per
disseminare le loro spore.
La riproduzione di questi funghi ha dunque una
fase sessuata, quella che produce le ascospore, ma la
moltiplicazione numerica è affidata soprattutto a
spore agame (conidi) che maturano in gran numero
all’estremità di certe ife erette, che si distaccano dal
micelio basale.
Nella foto sotto, appare un micelio, sparso di
spore ovali trasparenti: le conidiospore. Sulla destra
della foto, i puntini chiari sono le cime di ife erette (il
micelio sotto di esse appare sfocato) dalla cui
sommità si sono staccate le conidiospore. Tali spore
sono spesso disposte in catenelle, parecchie per ogni
ifa.
Pol +
Pol +
Nell’osservazione al microscopio, almeno in episcopia a
fondo scuro, ife e spore appaiono
trasparentissime, come se fossero
di vetro: nessuna foto può rendere
questo spettacolo.
La natura non ha bisogno di
mostre d’arte e chiacchiere di
critici per costruire le sue opere.
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Altro gruppo di funghi
microscopici,
purtroppo
assai
diffusi per essere anch’essi tutti
parassiti, sono le Uredinali, che
però fanno parte dei Basidiomiceti
(cui appartengono in maggioranza i
funghi mangerecci). Ad esse
appartengono molti agenti di
malattie delle piante chiamate
“ruggini” per il colore degli
ammassi di spore.
Anche le Uredinali mostrano
un ciclo riproduttivo assai complesso, con varie generazioni di
spore agame ed una di spore
sessuate, le teleutospore. Spesso,
l’ospite non è uno solo ed il fungo
sviluppa le varie fasi del suo ciclo
su due o più piante diverse.
Per es., la “ruggine” del grano
ha come ospite intermedio il
crespino.
Molto comune nei boschi di
conifere, sull’abete rosso, è la
Chrysomyxa Rhododendri, che ha
per ospite intermedio il rododendro. Su certi aghi della peccia,
ben visibili per essere ingialliti (foto
in alto), è facile osservare delle
puntine biancastre. Sono gli ecìdi,
delle specie di sporangi, inizialmente gonfi come palloncini pronti
a scoppiare.
A maturità, gli ecidi si
allungano, la pellicola biancastra si
apre ed escono miriadi di spore
color melone.
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Se siete fortunati, potrete
vedere su qualche ago d’abete un
bruchetto paffuto; se lo trovate con
la testa affondata in un ecidio vi
verrà il sospetto che stia preparandosi ad un lauto pranzetto a base
di spore.
Sotto le foglie del rododendro,
potreste trovare delle pustole
giallastre, un’altra fase del ciclo
della Chrysomyxa.
Ovviamente, la polverina
gialla che si sparge tutto intorno, e
che il vento può trasportare in giro
per il mondo, è costituita da spore.
Una specie molto simile, che
preferisce però l’abete bianco
(Abies alba) è la Calyptospora
Goeppertiana,
il
cui
ospite
intermedio è il mirtillo rosso
(Vaccinium vitis-idaea, Ericacee).
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Questa è un’altra Uredinale,
parassita della rosa selvatica; qui si
vedono le spore agame (arancione)
miste alla prime spore sessuate
(teleutospore) nerastre.
Ora, un’occhiata ad un organo riproduttivo tipico dei funghi Ascomiceti: l’apotecio.
Si tratta di un dischetto di
tessuto compatto formato da un fitto
intreccio di ife. Il dischetto è
normalmente incavato e rialzato sui
bordi a formare una scodelletta. Sul
fondo della scodelletta si trova uno
strato
di
tessuto
sporigeno
(“imenio”) costituito da una palizzata di corti filamenti, tutti paralleli
fra loro e perpendicolari alla superficie dell’imenio.
I filamenti sono di due tipi: le
“parafisi”, che provvedono alla
maturazione ed alla nutrizione degli
altri, e gli “aschi”, lunghe cellule a
forma di clava in cui si formano le
spore sessuate aploidi (a corredo
cromosomico dimezzato): generalmente otto spore per asco.
A volte, gli apoteci sono
richiusi verso l’alto come un fiasco
e si chiamano “periteci”, come si è
visto a proposito delle Erisifacee.
L’apotecio è frequentissimo
fra i licheni, per la buona ragione
che il tallo lichenico ha come
struttura portante proprio un
micelio fungino, un Ascomicete. Il
fungo contenuto nel lichene si
riproduce per conto suo e quindi si
sente in dovere di produrre i rituali
apoteci.
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A volte gli apoteci non sono alla
superficie del tallo (cioè non sono
“sessili”), ma sono portati da un lungo
peduncolo, in modo da favorire la
dispersione delle spore.
La forma globale è di spillone e
l’imenio è generalmente convesso.
Nei funghi, i fenomeni sessuali sono
ridotti all’osso e non mostrano organi
specializzati a livello macroscopico. Si tratta in
sostanza di fusione fra cellule, fra ife, o
addirittura semplicemente fra nuclei cellulari.
Ad un esame diretto, si può solo sperare di
identificare qualche cellula a parete ispessita,
generalmente pigmentata, e si tratterà dello zigote, il
risultato della fusione fra due gameti di sesso opposto
(figura a lato).
È venuto ora il momento di accennare allo
sconfinato mondo dei
L I C H E N I . Un caso singolare ed
emblematico di simbiosi, una convivenza stretta fra
due specie assai diverse, con rapporti strettissimi sia
dal punto di vista strutturale che funzionale. Una
convivenza da cui sembra che ognuno dei due termini
tragga vantaggio; che il vantaggio ci sia lo dimostra il
fatto che i licheni, come abbiamo visto all’inizio,
sono capaci di sopravvivere in condizioni estreme e
colonizzare ambienti assai “difficili”, come la
superficie delle rocce nude.
La compenetrazione fra un micelio
fungino (generalmente Ascomicete) ed una
fitta popolazione di alghe unicellulari dette
“gonìdi”
(generalmente
Cloroficee
e
Cianoficee) costituisce una struttura basilare, il
soredio. Si tratta di un semplice gomitolo di ife
al cui interno sono alloggiate, o prigioniere,
alcune alghe unicellulari. Vedi la foto alla
destra.
Ma qui occorre fare una distinzione. In
molti licheni più primitivi, detti omomeri, e
negli stadi iniziali dei licheni più complessi
(eteromeri), non vi è alcuna differenziazione
del tallo in strati cellulari, tessuti od organi. Si
vede solo un ammasso irregolare di quelle
unità elementari che abbiamo chiamato soredi;
nessuna struttura riconoscibile. È quello che
basta ad un lichene per crescere e riprodursi:
un gomitolo di ife e di alghe.
22
Le specie di funghi e di alghe coinvolte
nella simbiosi lichenica sono molte e molte
sono le associazioni che ne derivano. Anche a
livello microscopico, le immagini che si
presentano sono molto varie.
Questa struttura a gomitoli fa pensare che vi
siano rapporti molto stretti fra ife e gonìdi: le ife
circondano ed a volte penetrano nelle alghe. Poiché i
fughi non sono fotosintetici ma i licheni riescono a
vivere in ambienti molto sterili, vuol dire che i funghi
lichenici traggono nutrimento dalle loro ospiti verdi.
Ebbene, questi talli omomeri, molto
frammentati e sottili, ricoprono molte superfici
su rocce, legno, cortecce, terriccio, purché in
ambiente umido. Si riconoscono come una
pàtina polverosa di colore dal bianco
all’azzurro al verdastro, talvolta al giallo
intenso.
Càpita, alla svolta di un sentiero, di rimanere
sorpresi nel vedere un pietrone o un tronco d’albero
con grandi chiazze gialle che fanno pensare ad uno
spruzzo di vernice.
Ma basta una lente d’ingrandimento …
23
Un genere comune di licheni omomeri è il
Calicium, di colore dal verdastro al giallo
limone, produttore di apoteci peduncolati di
uno o pochi mm di altezza.
Veniamo ora ai licheni eteromeri, più
comuni. Il loro tallo è differenziato in vari
strati: un cortex superiore, compatto e tenace,
formato da un fittissimo intreccio di ife
fungine. Una specie di robusta epidermide.
Sotto, uno strato di poche ife lasse e molte
alghe (gonidi): lo strato gonidiale.
Sotto ancora, uno spesso strato di ife
lasse, solo ife: la medulla, come si vede nella
foto qui sotto. A volte, un cortex inferiore.
La medulla si presenta come un feltro
candido.
Sembra che anche i licheni eteromeri inizino
la loro esistenza dall’incontro casuale fra un
micelio fungino e le alghe opportune, quindi da
una struttura omomera simile ad un ammasso di
soredi. Col tempo, si formano gli strati
differenziati sopra visti e compaiono i cortex. Il
tallo diventa compatto e la sua superficie liscia e
lucida.
Ecco qui la compresenza delle due forme
di tallo: la massa omogenea a sinistra
(eteromero) e la spruzzata incoerente di soredi
a destra (omomero).
24
Molti licheni aderiscono strettamente al
substrato e sembrano dipinti sulla roccia. In questi
casi, manca di solito il cortex inferiore, ma rimane
la struttura eteromera.
Per accertarlo, basta sfiorarne la superficie con
una lametta affilata in modo da creare una sezione
tangenziale, e si vedrà comparire, sotto al cortex
superiore, che in questo caso appare biancastro, lo
strato gonidiale pieno di puntini verdi: le alghe.
Nei licheni crostosi più ricchi di apoteci, lo
stesso taglio tangente alla superficie mostrerà
nell’orlo delle scodelline la stessa successione di
strati. In questa foto il taglio ha interessato solo una
parte della periferia dell’apotecio.
Ed a maggiore ingrandimento si potranno
distinguere le singole alghe.
Il tessuto bruniccio al centro dell’apotecio è
l’imenio.
25
Questo lichene foglioso, molto comune, che
vive su molti diversi substrati, produce degli
apoteci molto larghi ed appiattiti, senza orlo in
rilievo. Tali apoteci, ai bordi del tallo, sono rivolti
verso l’alto e ripiegati a mo’ di semicilindro.
Questa forma degli apoteci giustifica (in parte) il
nome di “dente di cane” dato a questo lichene, la
Peltigera canina.
Il colore di questo tallo è assai variabile: dal
grigio, al viola, al verde. Dipende dall’età e
dall’idratazione.
L’apotecio della Peltigera mostra una
superficie brunastra, liscia e compatta: è l’imenio.
Ma sembra privo di struttura.
Se però si dispone di un buon obbiettivo
piuttosto forte (un 50/0,85, in questo caso), sarà
possibile vedere la sommità dei singoli aschi che
affiorano dalla superficie dell’imenio.
Abbiamo detto che il fungo lichenico, un
Ascomicete quasi sempre, si riproduce per conto
proprio, con apoteci ed aschi. L’alga (la singola
cellula) si divide semplicemente, senza fenomeni
sessuali.
Ma il lichene nel suo complesso, come colonia
composta, si può riprodurre per via vegetativa
frammentandosi e disperdendo quelle unità elementari che abbiamo chiamato “soredi”.
Anche i talli eteromeri possono produrre ed
espellere questi gomitolini da ogni forellino del
cortex oppure da apposite aperture, generalmente ai
bordi del tallo, dette sorali. A lato, un piccolo tallo
con grumi di soredi emergenti da un soralio
marginale.
26
A proposito di soredi, un numeroso genere di
licheni eteromeri (Cladonia) nasce come tallo
crostoso strisciante ma rapidamente produce
strutture verticali caratteristiche (podezi) a forma di
colonnina, a volte ramificata, a volte allargata in
alto. Qui si vede la Cladonia pixidata (il nome è
significativo) che emerge da un tappeto di aghi
morti di larice.
Dopo lo sviluppo dei podezi, il tallo originario
si riduce o scompare.
Sull’orlo dei podezi si formano, a volte, degli
apoteci convessi, di vario colore (qui è la Cladonia
coccifera). Ma non basta.
Più da vicino, si vedrà l’intera superficie del
podezio ricoperta di polverina. Vogliamo guardarci
meglio?
Ecco la superficie di un podezio di C. pixidata
in piena produzione di soredi, e questa funzione
vegetativa viene svolta anche dalla superficie
interna del podezio.
Ecco che il podezio svolge la funzione
clorofilliana, la riproduzione vegetativa del tallo
(soredi) e la funzione sessuale dell’Ascomicete
(apoteci ed aschi).
Vediamo ora un comunissimo lichene
cespuglioso (Pseudoevernia) il cui tallo ramificato
sembra una carta vetrata. La sua superficie presenta
innumerevoli piccole spine, dette isidi, che, quando
sono secche, si staccano al minimo urto e possono
venir disseminate dal vento, dall’acqua, ecc.
Che abbiano una funzione riproduttiva?
27
Proviamo ad eseguire su questo tallo il taglio
tangenziale già usato sopra per gli apoteci, in modo
da troncare un certo numero di isidi.
Nella loro sezione, si vedrà il cortex e,
all’interno, lo strato gonidiale.
Dunque l’isidio è semplicemente un pezzo del
tallo eteromero, completo dei vari strati, e non
quella struttura indifferenziata che sono i soredi.
Dal frammento di isidio, se l’ambiente è
favorevole, si può riformare un nuovo tallo.
(In mezzo agli isidi troncati, non poteva
mancare qualche ifa scura di un fungo saprofita).
Un’altra forma di tallo lichenico è quella
filamentosa, che spesso vive sugli alberi e pende
verso il basso in modo da giustificare il nome di
“barba di bosco”.
Sul tallo di questa Usnea barbata si possono
formare degli apoteci discoidali, ma vogliamo
osservare la struttura interna dei singoli filamenti.
Basta formare fra le dita un fascetto di
filamenti e tranciarli con una lametta o addirittura
con un paio di forbici.
Disponendo di un medio ingrandimento (basta
un obbiettivo 5:1), si vedrà il cortex esterno,
grigiastro, lo strato gonidiale verde e, sotto, uno
spesso strato di medulla, bianco e feltroso. In
questo caso però, al centro del filamento, si vedrà
un cordone compatto, poco distinguibile perché è
grigiastro anch’esso, formato da un fitto intreccio di
ife, che fa da armatura al tallo.
28
Per non dilungarci troppo sul capitolo licheni,
diamo un’ultima occhiata ad uno strano lichene,
sottilissimo, che vive su certe cortecce, ma non di
conifere. È la Graphis scripta, di colore grigiastro,
che sfugge ad uno sguardo frettoloso poiché ricalca
fedelmente la forma della corteccia su cui vive.
La sua presenza si rivela poiché esso produce
degli strani apoteci a forma di fessura, con gli orli
leggermente in rilievo; si tratta di fessure ricurve e
ramificate, che somigliano a caratteri della scrittura
ebraica, da cui il nome del lichene.
I MUSCHI
Sarebbe fuori luogo illustrare qui il mondo dei
muschi, che rientra nell’esperienza di qualunque
persona. Purtroppo, il ciclo biologico dei muschi, al
solito, è ben diverso da quello delle piante superiori
e non tutti sanno che la piantina verde che tutti
conoscono rappresenta la generazione sessuale
aploide (a corredo cromosomico dimezzato), che
produce i gameti. Su questa, come parassita, cresce
la generazione produttrice di spore, diploide,
costituita da un filamento (“seta”) con, in cima, una
specie di sporangio (“urna”).
La struttura dell’urna è assai complessa e
variabile, ma un esame superficiale può almeno
rivelarci il sistema di espulsione delle spore: un
anello di fori detto “peristoma”, spesso circondato
da una o due corone di dentelli.
Prima di maturare, il peristoma è spesso
chiuso da un opercolo, che cade al momento giusto.
Ancora prima, l’urna immatura è coperta dai
resti dell’archegonio (l’organo femminile), sotto
forma di cuffia fibrosa (“caliptra”), che cade prima
della maturazione dell’urna stessa.
29
Le foglioline del muschio hanno una struttura
assai più semplice delle foglie delle piante
superiori. Spesso sono formate da un solo strato di
cellule e le si osserva bene in diascopia (che
peccato esserci imposti di presentare solo immagini
in episcopia!).
Ma, a volte, le foglioline sono filiformi e
fanno somigliare i muschi a certe alghe.
Del resto, il primo stadio di sviluppo dei
muschi è il “protonema”, fatto di filamenti verdi
ramificati, proprio come un’alga filamentosa.
Se poi cercate bene, non è escluso che, fra le
foglioline di qualche muschio, possiate trovare
qualche tallo lichenico in formazione, sotto forma
di una spruzzata di soredi.
LE FELCI
Le felci vere e proprie fanno parte, assieme ai
Licopodi, Equiseti, Selaginelle, Isoeti, ecc., delle
Pteridòfite, piante senza fiori né semi, ma con una
struttura già differenziata in veri organi (cormo).
A livello microscopico, sono curiose le
Selaginelle, dai sottili fusticini striscianti. A
maturità, alcuni fusticini si raddrizzano e le loro
foglioline, da normali (“nomofilli”), diventano
portatrici di sporangi (“sporofilli”). Uno sporangio
alla base di ogni fogliolina, a volte a sessi separati
in quanto possono esistere spore maschili e
femminili assai diverse (eterospore).
La Selaginella helvetica, fra le più comuni, ha
una disposizione caratteristica delle foglioline,
disposte in quattro file lungo il fusticino: due file
lateralmente, più grandi; due file sopra, più piccole
ed erette, di orientamento alternato, una a destra ed
una a sinistra.
30
In molte felci comuni, come la “felce
maschia” (Dryopteris filix−mas), tutte le fronde1
portano inferiormente dei dischetti, che appaiono
bianchicci all’inizio del loro sviluppo. Sono i sori.
Ogni lobo della fronda ne porta un numero
variabile, anche in doppia fila.
Il colore bianchiccio dei sori immaturi è
dovuto ad una copertura formata da un sottile strato
di cellule non colorate: è l’indusio. Attraverso di
esso, si indovinano gli sporangi, chiari all’inizio,
scuri quando maturano.
Questo fatto non è generale: molte felci
formano sori nudi, privi di indusio.
Rapidamente, l’indusio si secca e si
accartoccia, scoprendo un folto gruppo di sporangi,
dalla forma caratteristica. Ogni sporangio è
sostenuto da un sottile e flessibile peduncolo.
La parete dello sporangio, per la maggior
parte, è sottile e trasparente ma, lungo un
meridiano, è visibile una catena di cellule grosse e
colorate (annulus).
Mentre si seccano, le cellule
dell’annulus si contraggono, dapprima
lentamente (nel giro di un secondo); in
questo modo l’annulus si porta dietro la
parete dello sporangio, che si lacera e libera
le spore.
1
Per i muschi e le felci è bene non usare il termine “foglie”, poiché le foglie delle piante superiori hanno una struttura diversa.
Meglio parlare di “fronde”.
31
Ora avviene un fenomeno strano, che si
osserva facilmente mentre si osserva un soro alla
luce della microlampada dello stereoscopico; il
calore della lampada è sufficiente a completare il
disseccamento dell’annulus e questo si comporta
come certi giocattoli a forma di rana, con una
lamina d’acciaio sotto la pancia: l’annulus esce da
una condizione di stabilità e scatta bruscamente
(l’occhio non riesce a seguire il movimento, tanto è
rapido); le spore residue vengono sparate a grande
distanza e si può osservare al massimo una residua,
lenta, contorsione dell’annulus.
Alla fine, si vede solo l’annulus più o meno
ricurvo con qualche brandello della parete dello
sporangio sui lati.
Questa struttura dello sporangio e questo
metodo di dispersione delle spore sono comuni a
moltissime felci.
Le spore di queste felci sono molto più grandi
di quelle dei muschi e dei funghi, e generalmente
sono ovali e colorate.
LE FOGLIE
Non rientra nei fini di questo testo descrivere
l’anatomia delle piante o delle foglie ma, seguendo
l’intenzione dichiarata, è opportuno accennare ad
alcune osservazione possibili sulle foglie delle
piante superiori (Fanerogame) sempre, rigorosamente, in episcopia.
La prima cosa da osservare sono gli stomi,
specie nella pagina inferiore, dove sono assai più
numerosi. Si scelgano le foglie glabre, prive o quasi
di peluria.
Qui si tratta di maggiociondolo (Laburnum
vulgare − Papilionacee).
I filamenti bianchi sono ife della solita
Erisifacea parassita (funghi).
32
Le epidermidi delle foglie, meglio osservabili
sulla pagina superiore, possono mostrare la strana
disposizione delle cellule epidermiche, a contorno
frastagliato come i tasselli di un puzzle.
Pol +
Vi sono poi i peli, che non sono sempre dei sottili
filamenti uni- o pluri-cellulari, ma possono mostrare strane
trasformazioni.
In certe piante, come il Verbascum
thapsiforme (Scrofulariacee), essi sono fortemente
ramificati … (a destra)
… senza escludere la presenza in mezzo a
loro, ben mimetizzati, dei soliti conidi di funghi
parassiti (qui sotto).
Altre piante possiedono dei peli discoidali, espansi
come una frittella, che possono coprire l’intera pagina
della foglia e darle un colore particolare. Qui si vede la
pagina inferiore della foglia del Rhododendron
ferrugineum (Ericacee) che prende il colore (ed il nome)
proprio dallo strato di peli discoidali rossicci, qui
parzialmente asportati per chiarezza.
Anche sul frutto, e relativi peduncoli, il
rododendro non rinuncia al suo rivestimento di peli
discoidali, sia pure meno colorati (sotto).
Pure la lucentezza delle foglie dell’olivo
(pagina inferiore) è dovuta a peli discoidali.
E non parliamo dei peli d’ortica poiché sono
fin troppo noti.
33
Ma il caso più stupefacente di peli trasformati
è quello di quasi tutte le Labiate (Origano, Basilico,
Menta, Lavanda, Maggiorana, ecc.).
In genere, i peli vegetali nascono dalla crescita
particolare di una cellula epidermica. Tali cellule,
nelle Labiate, diventano cellule secernenti,
ghiandolari, il cui citoplasma, lentamente, produce
e si trasforma del tutto in un liquido oleoso ricco di
sostanze aromatiche. Aromi diversi per ogni specie
e per ogni popolazione. La membrana di queste
cellule ghiandolari è molto sottile e si rompe al
minimo urto: ecco perché si apprezza l’aroma di
queste piante strofinandone le foglie o altre parti.
Qui vediamo i fiori della Salvia glutinosa,
notevoli per avere gli stami a bilancia, che si
abbassano sulla schiena dell’insetto impollinatore
appena questo s’infila nella corolla (provare con un
fuscello).
Sulla corolla, i peli sono normali, ma sul
calice, sui peduncoli ed anche sui rami, il pelo si
allunga e poi si allarga alla sommità in una
gocciolina di liquido appiccicoso.
In questo caso, la funzione di questo liquido
non è tanto quella di diffondere aromi, ma di
invischiare i piccoli insetti che dovessero sfiorare i
peli. Accarezzando l’infiorescenza o i rami più
sottili di questa pianta con la mano, si avrà
l’immediata dimostrazione del potere adesivo dei
suoi peli.
Che poi questi peli servano a catturare
moscerini ed affini, appare evidente osservando con
cura un certo numero di piante: non sarà difficile
vedervi incollate svariate carcasse delle vittime.
Quest’attività predatoria della S. glutinosa
sarebbe collegata alla capacità dei suoi peli di
secernere enzimi proteolitici e poi assimilare i
prodotti della digestione.
Siamo di fronte ad una pianta carnivora, cui
non basta la fotosintesi poiché questa non è capace
di sintetizzare sostanze azotate come le proteine,
presenti invece in gran copia nei tessuti animali.
34
A parte questo raro caso di peli con funzione
trofica (alimentare), la funzione più comune dei
peli ghiandolari è quella di secernere sostanze
protettive, contro i microrganismi, contro i
parassiti, ecc. Una specie di disinfettante o antibiotico naturale, nonché mezzo di allontanamento
per le piante vicine (guerra chimica). Perché a noi
queste sostanze appaiano gradevoli, forse bisognerebbe chiederlo al Dr. Darwin, il quale
parlerebbe di evoluzione adattativa.
Vediamo qui una diffusa Labiata, il timo
serpillo (Thymus serpyllum), strisciante sui pendii
soleggiati, in una fioritura eccezionalmente
esuberante.
Inferiormente le sue foglie, assai piccole, sono
glabre e mostrano senza difficoltà i ricchi stomi.
Qua e là appaiono però delle strane palline
trasparenti. Focheggiando, si avverte alla loro base
una corona di strutture radiali: cellule di appoggio,
infossate rispetto all’epidermide circostante, che si
osservano bene focheggiando.
Inclinando opportunamente la foglia, non è
difficile osservare il profilo di queste “palline”, che
sono in realtà di forma schiacciata, appressata
all’epidermide. Sono grosse cellule ghiandolari,
gonfie di aromi.
Fra i loro prodotti vi è un solido cristallino,
che è il principale responsabile dell’odore caratteristico di questa pianta: l’acido timico, un potente
antisettico.
Mettere le foglie del timo dentro i panini,
durante una gita, rappresenta un economico sistema
di godere delle (poche) gioie della vita.
A maggiore ingrandimento (obbiettivo
50/0,85) si potrà apprezzare l’altissima densità
degli stomi presenti su queste foglie, che sono
piccole (pochi millimetri), ma non sembrano aver
nulla da invidiare rispetto alle consorelle di altre
piante.
35
Esaminando la superficie di molte foglie,
cortecce ed altri substrati, specialmente dopo le
piogge di Primavera, non sarà impossibile
osservare delle strane chiazze bianchicce, a prima
vista simili ai miceli di tanti Ascomiceti o
Basidiomiceti parassiti, descritti sopra.
Ma siamo probabilmente in un bosco di
Conifere. E allora?
Basterà aumentare l’ingrandimento per
accorgersi che si tratta di granuli, strane vescichette
a forma di fagiolo, con le estremità rigonfie. Sono
granuli di polline di qualche conifera. Poiché queste
piante sono “anemòfile”, cioè si servono del vento
per la diffusione del polline, hanno tutto interesse a
prolungare la permanenza del loro polline nell’aria.
A questo fine, hanno pensato bene di munire ogni
granulo di due piccole vele, due vescichette vuote,
esilissime e leggerissime, sporgenti sui lati.
Anche questi oggetti andrebbero studiati in
trasparenza, ma vogliamo rimanere fedeli alla
consegna: solo episcopia.
IL LEGNO
Un altro oggetto da studiare in sezione sottile,
in trasparenza, sarebbe il legno. Però …
Dato un blocchetto di legno, con un buon
taglierino è facile ricavarne la tre classiche sezioni:
− trasversale, − longitudinale radiale (passante per
l’asse del tronco) e − longitudinale tangenziale,
tangente alla superficie di quello. Con l’aiuto di
qualche trattatello, è bene informarsi sulla struttura
del legno, che è assai più complessa di quanto si
creda, in particolare riguardo alla struttura dei
“raggi midollari”, i fasci radiali che ben poco hanno
a che fare con il midollo.
In sezione radiale (a destra, asse del tronco
verticale), si vede la struttura a “tracheidi”, i vasi
tipici delle conifere, di sezione abbastanza uniforme. A sinistra della foto, il legno primaverile,
con vasi più grossi; a destra. il legno estivo, più
compatto. Si vedono anche due fasci radiali, con
vasi disposti orizzontalmente.
A maggiore ingrandimento, lungo le tracheidi
primaverili, si vedono le “punteggiature”. In tutte le
piante legnose, i vasi di qualunque tipo comunicano
fra loro tramite forellini nelle pareti, generalmente
molto piccoli. Nelle conifere, le punteggiature sono
più grandi e, dalle due parti della parete che esse
attraversano, è presente una calotta forata al centro,
che fa da vestibolo alla punteggiatura stessa, e si
chiama areola.
La funzione di questa calotta è di regolare il flusso di liquido fra vasi contigui, ma per noi la presenza delle
“punteggiature areolate” è prova sicura che si tratta di legno di conifere (in questo caso, abete bianco).
La forma delle areole è varia, e può bastare a riconoscere la specie vegetale cui appartiene quel campione di
legno. Nel caso di campioni piccolissimi (restauro di oggetti antichi in legno, indagini criminalistiche, ad es.),
l’esame microscopico del legno può essere essenziale.
36
Se la sezione da noi eseguita comprende uno
dei fasci radiali, si può osservare che le
punteggiature fra questi fasci e le tracheidi verticali
sono più piccole e di forma ellittica.
In sezione tangenziale (questa volta l’asse del
tronco è orizzontale), si vedono, in mezzo ai fasci
di tracheidi, delle strisce più scure che sono le
sezioni dei fasci radiali sopra citati.
Si noti il grande numero di questi fasci radiali,
che conferiscono al legno una compattezza che non
potrebbe venirgli solo dai vasi longitudinali.
Il campione qui raffigurato è legno morto,
come è indicato dal colore.
E finora era legno “fresco”, inalterato. Ma
molti funghi e batteri sono in grado di digerire i
principali componenti chimici del legno: cellulosa e
lignina. In seguito a questi attacchi, anche se molto
lenti, il legno va incontro al disfacimento. Si parla
spesso di “carie” del legno.
Una carie molto comune, specialmente nel
legno delle conifere, è la “carie cubica” o “carie
scura”, che porta alla fessurazione del legno
secondo tre piani ortogonali, in modo da
suddividerlo in piccoli parallelepipedi.
La carie cubica, in particolare, conserva la
struttura fine originale del legno, anche quando la
“digestione” è molto avanzata ed il legno diviene
leggerissimo per la perdita graduale dei suoi
componenti.
Qui si vede la sezione trasversale di un legno
in disfacimento, sezione non artificiale in quanto
rappresenta solo la superficie spontaneamente
formatasi di un piccolo parallelepipedo della carie
cubica, proveniente dal campione della foto
precedente. Si vedono bene gli anelli alternati di
legno primaverile (più chiaro) ed estivo (sottile e
scuro).
37
A maggiore ingrandimento, è chiara la
differenza fra le due fasi di accrescimento del
legno, e si noti come la carie cubica non ha alterato
nemmeno il colore del campione.
La striscia scura verticale al centro rappresenta
la transizione autunno−primavera, durante la quale
non vi è formazione di legno nuovo.
Un’altra faccia del parallelepipedo di cui sopra
mostra una sezione radiale (l’asse del tronco è
orizzontale) con i fasci radiali (qui in posizione
verticale) ben distinguibili.
I MINERALI
Anche le rocce nude hanno qualcosa di
interessante?
L’analisi microscopica può dirci molto sulla
loro natura e la loro origine, ovvero aiutarci a
ricostruire il “paleo-ambiente” in cui esse si sono
formate.
Mostriamo solo due esempi caratteristici.
Una roccia formata da un impasto di cristalli
ben stipati fra loro fa subito pensare ad una roccia
“vulcanica” (nata da magmi solidificati),
“intrusiva” (solidificata a forte profondità, in tempi
lunghissimi, in modo da consentire la formazione di
cristalli macroscopici).
Inoltre, la struttura lamellare della roccia e
l’orientamento sub-parallelo dei singoli cristalli fa
pensare ad una roccia “metamorfica”, che è stata
sottoposta a forti pressioni ed alte temperature
durante i movimenti tettonici.
Le chiazze rossastre indicano la presenza di
minerali di ferro.
Invece una roccia grigiastra e compatta, che
produce schiuma appena tocca un qualunque acido,
è sicuramente “carbonatica”, ricca in carbonato di
calcio.
Tali rocce sono “sedimentarie”, cioè formate
dall’accumulo di materiali sul fondo del mare,
materiali provenienti da resti di organismi
contenenti scheletri, gusci o conchiglie ricche in
carbonato. Si tratta di calcari e dolomie.
38
Oltre al deposito “organogeno”, contribuiscono ai calcari certi depositi chimici, es. limo
carbonatico da precipitazione chimica, dovuto alla
concentrazione del carbonato in clima caldo ed
acque basse, soggette a rapida evaporazione.
Il limo carbonatico è sottoposto al moto
ondoso (abbiamo già capito che si trattava di mare
basso) e quindi tende a formare delle sferette (come
fanno certe alghe) che, col tempo, si cementano
poiché altro limo penetra fra gli interstizi delle
sferette e le salda.
Conclusione: sembra una ricostruzione di
fantasia? Ma osserviamo il campione di cui sopra:
non si vede la struttura a sferette?
Per la somiglianza con gli ammassi di uova dei
pesci, si parla di “calcari oolitici”.
Se poi un frammento di questo calcare viene
esposto, per anni o decenni, agli agenti atmosferici,
le sferette si sciolgono più in fretta del cemento ed
appaiono incavate.
Ecco come, da un sassolino, si può capire che
in quel posto, forse 100 o 200 milioni di anni fa,
c’era un mare caldo e di bassa profondità e che
c’erano molti organismi contenenti carbonato di
calcio (alghe coralline, madrepore, molluschi,
foraminiferi microscopici, ecc.).
Si ricostruisce così anche il “paleo-clima”.
Se poi siete fortunati, a maggiore
ingrandimento, vi potrà accadere di vedere, in
mezzo alle “ooliti” del calcare, qualche piccolo
fossile, come questo foraminifero.
Pol +
I CRISTALLI
Visto che parliamo di rocce e minerali,
vogliamo cercare nel bosco anche qualche cristallo?
Naturalmente microscopico. Le acque di superficie,
pioggia, sorgenti e ruscelli, conterranno pure
qualche minerale che si è sciolto a partire dalle
rocce di superficie o di profondità. Inoltre, molti
sali vengono prodotti dalle piante o dal loro
disfacimento.
39
Ed allora, cercando bene, può capitare qualche
campione come questo, magari nelle fessure di
qualche lichene. Druse di cristalli aghiformi.
Ne valeva la pena?
CONCLUSIONE
Troppe foto, forse, e pure brutte. Troppi esempi, nonostante che la flora e la fauna di un
bosco siano inesauribili.
Ma, almeno, sufficienti a dimostrare che il mondo in cui viviamo è assai più complesso di
quanto immaginiamo, di quanto i nostri occhi siano capaci di mostrarci e di quanto i libri possano
illustrare. Ogni ciuffo di muschio, ogni pezzo di legno, ogni sasso, possono insegnarci molto.
O almeno possono offrirci l’occasione di capire qualcosa di più.
Osservare, dunque, con qualunque mezzo, e non fermarsi lì.
Il piacere, almeno quello dell’intelletto, non viene dall’osservare, ma dal capire.
Anche se non si mangia, non si vende, non ci si guadagna nulla.
Il nostro cervello è fatto per essere usato, non per essere venduto.
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