Violenza sulle donne: Parliamo di violenza domestica A cura della dott.ssa Nunziata Verde La violenza1 sulle donne2 non ha tempo né confini, non conosce differenze socio- culturali. Spesso il rischio maggiore per la donna è rappresentato dai familiari, dagli amici, dai vicini di casa, dai conoscenti stretti ed i colleghi. Molte sono le violenze subite all’interno delle mura domestiche. L'Organizzazione mondiale della sanità, definisce la violenza domestica, come: « Ogni forma di violenza fisica, psicologica o sessuale che riguarda tanto soggetti che hanno, hanno avuto o si propongono di avere una relazione intima di coppia, quanto soggetti che all’interno di un nucleo familiare più o meno allargato hanno relazioni di carattere parentale o affettivo. ». 3 Il problema della violenza domestica all’interno della relazione di coppia era stato affrontato fin dagli anni settanta da una letteratura in prevalenza di origine anglosassone e ancor più statunitense. Il testo che rappresentò un punto di partenza per la definizione di maltrattamento fu quello pubblicato da L. Walzer nel 1979, intitolato, The battered Woman, seguito nel 1996 da Abused Con il termine violenza si intende “l’essere violento, ossia ricorrere alla forza per imporre la propria volontà a danno degli altri”o anche un “azione aggressiva, sopraffattrice, esercitata con mezzi fisici e psicologici”1 (Garzanti, 2004). Questa concezione con il passare del tempo e con i cambiamenti che si sono alternati all’interno della società e del sistema legislativo è stata soggetta a numerose eccezioni, infatti molte delle azioni che oggi possiamo definire violenta, non erano considerati tali alcuni decenni fa nel nostro paese, soprattutto per quanto riguardava gli abusi commessi all’interno della famiglia. P. Romito1 ricorda come il “delitto d’onore” è stato abrogato solo nel 1981 che consentiva sconti di pena al marito tradito o presunto tradito e con l’abrogazione del art. 544 del codice Rocco scompare il matrimonio riparatore, susseguente ad uno stupro, con l’effetto di estinguere il reato. Tale articolo viene abrogato con l’art. 1 della Legge 442/1981 . Il passaggio da un regime totalitario d uno democratico si è avuto un’evoluzione della morale e dei costumi e questo ha portato anche un cambiamento nella struttura familiare, c’è stato una progressiva democratizzazione dei rapporti. Al modello tradizionale di famiglia, dove questa era vista come unità produttiva in cui tutti i componenti partecipavano con il loro contributo a soddisfare i bisogni che erano bisogni della famiglia, organizzata e gestita dal capofamiglia, si passa ad un idea di famiglia intesa come nucleo che sviluppa come prioritario il benessere dei singoli individui. Nel 1930 durante il periodo fascista fu realizzato e divulgato il Codice Rocco1 che fu poi modificato a partire dal 1955, per poi essere definitivamente sostituito nel 1989 (Pisani, 2006). 1 Il termine “donna” si riferisce qui a tutte le persone di sesso femminile, indipendentemente dalla loro età e include pertanto anche le ragazze che hanno meno di 18 anni (ONU, 2006). 3 . OMS (1996) “Violence Against Women”. WHO Consultation, 2 1 Women and Survivor Therapy e nel 2000 da The Batter Woman Syndrome4. In questi testi l’autore sottolinea più volte che il maltrattamento non può essere inteso come conflitto tra coniugi perché sono due fenomeni qualitativamente diversi. Il termine maltrattamento indica un atto, effetto del maltrattare e dell'essere maltrattato. Il conflitto viene indicato come, urto violento5. Nel nostro ordinamento giuridico il maltrattamento familiare è registrato tra i reati contro la famiglia (art.572 c.p) e la classificazione giudiziaria, definita dalla dottrina e dalla giurisprudenza, definisce il maltrattamento nel seguente modo: “atti lesivi dell’integrità fisica o psichica, o della libertà o del decoro della vittima, nei confronti della quale viene posta in atto una condotta di sopraffazione sistematica e programmatica”, mentre nei reati contro la persona e il patrimonio sono inserite le percosse (art. 581 c.p), le lesioni personali (art 582 c.p), l’ingiuria (art. 594 c.p) e la violenza privata. Queste norme che tutelano il cittadina/no indipendentemente dalla sua collocazione nella struttura familiare prevedono come circostanza aggravante l’aver commesso il fatto”con abuso di autorità, di relazioni domestiche, di uffici, di coabitazione di ospitalità”. Qual è l’intento dell’autore della violenza? È quello di distruggere la vittima, agendo sulle strutture del suo pensiero e con un lavoro metodico e programmato, giorno dopo giorno va a stravolgere i valori, la visone del mondo e la visione che la persona ha di se stessa. Nessuno nasce vittima, tutti possono diventarlo con il trattamento giusto. L'aspetto prevalente del maltrattamento ad opera del partner è senza dubbio la ripetitività. 6 T. Bruno7 scrive che il maltrattamento fa parte di una serie di strategie per tenere “in pugno” qualcuno usando la paura, il ricatto emotivo, l’isolamento e la svalorizzazione . In questo modo la vittima si trova a sperimentare un continuo senso di disorientamento e diventando facilmente manipolabile. La vittima arriva a dubitare perfino delle proprie capacità critiche, lentamente le convinzioni della vittima entrano in crisi. La lettura della realtà avviene attraverso i nuovi paramentri introdotti dall’abusante. A causa di questo plagio, che F. Sironi chiama effrazione8, ciò che la vittima percepisce, sente e pensa è legato alla maniera in cui l’altro lo ha pensato, che si riflette in autosvalutazione, paura di parlare, di chiedere qualcosa, di offendere di deludere etc.; 4 . L. Walzer, The Battered Woman, Harper & Row, New York 1979. Abuses Women and Survivor Therapy, American Psicologycal Association, Washington, DC 1996. The Batter Woman Sindrome, Springer Publishing Company, New York 2000 5 . Dizionario italiano, Zanichelli. 6 . A. Saponaro "Vittimologia: Origini, Concetti, Tematiche", Giuffrè, 2004. . T. Bruno, Violenza intrafamiliare e maltrattamento sulla donna, in <<il seme e l’albero>>, anno VI, n.2-3, 1998, p.16. 8 . F. Sironi, Persecutori e vittime- Strategie di violenza, Feltrinelli, Milano 2001, p. 61 7 2 questo pensiero altrui rimane nell’ombra ma onnipresente, e acquisisce una densità psichica, ostacolando dunque il vero percorso del pensiero proprio. A parlare è “l’altro” interiorizzato. Quando l’abusato si trova ad aver interiorizzato l’abusante e il suo punto di vista sulla realtà, si trova nella condizione in cui non riesce ad entrare in contatto con i propri sentimenti e i propri desideri e quindi di riconoscerli, scambiando per i propri desideri e propri sentimenti i desideri e i sentimenti del partner. Lo stereotipo9 culturale sulla violenza sembra definire come violenza, l’aggressione fisica, come per dire che la violenza è tale solo se è visibile. In realtà molte donne che si rivolgono ai Centri Antiviolenza sostengono di non essere mai state vittime di violenza fisica ma solo terrorizzate dalle minacce dei loro partner (minaccia di botte, ferite, di morte). In verità il maltrattamento comprende una vasta gamma di comportamenti, di cui i ceffoni, i lividi e le ferite sono solo una parte. La maggior parte delle volte neanche le vittime realizzano di subire un maltrattamento. Per chi è nella posizione della vittima è difficile accorgersi della violenza subita, perché in certe situazioni si sviluppano meccanismi psicologici per non vedere la realtà, quando questa risulta troppo sgradevole. Il fatto di accettare di essere vittime di una situazione di maltrattamento psicologico, probabilmente da parte di una persona che si stima, comporta un enorme carico di ansia che non è facile metabolizzare. Tali aggressioni, non agiscono direttamente sul piano fisico come uno schiaffo, una spinta, un calcio, ma giorno dopo giorno, creano un clima invivibile ad attuano un processo di distruzione psicologica. L’abuso psicologico si realizza attraverso affermazioni terse a svilire, minacce velate, critiche e derisioni indirizzate all’aspetto fisico della vittima, alle sue iniziative e alla sua personalità, accuse e via dicendo, il tutto nascosto sotto atteggiamenti affettuosi volti a disorientare la vittima. L’aggressore nega l’aggressione10; se la vittima si lamenta con il persecutore, di quanto alcuni suoi atteggiamenti la facciano soffrire, l’aggressore si rifiuta di parlare di ciò che non funziona nella coppia; questo rifiuto paralizza la vittima e le impedisce di trovare una soluzione. il problema, dunque, viene scaricato tutto sulla vittima, considerata pazza, isterica o depressa. La psichiatria definisce questa violenza come “perversa”, una vera e propria distruzione, molto insidiosa perché indiretta L’aggressore scarica sugli altri le proprie frustrazioni, evitando così ogni responsabilità e conflitto interiore. E umilia chi ha vicino. L’obiettivo, dunque, è l’occultamento della propria incompetenza e debolezza. La cosa che più colpisce è che tale fenomeno inizia non appena chiuso l’uscio di casa, laddove “si dice”, ognuno dovrebbe godere di maggiore sicurezza, cioè in famiglia. Violenze subdole 9 . Il termine stereotipo, all'interno delle scienze sociali, fu promosso da Walter Lippmann intorno al 1920, nei suoi studi sul pregiudizio. Si tratta di un concetto astratto e schematico che rispecchia talvolta l'opinione di un gruppo sociale riguardo ad altri gruppi. Lo stereotipo è considerato da molti come una credenza indesiderabile che può essere cambiata tramite l'educazione e/o la familiarizzazione. 10 . M.F.Hirigoyen: Molestie morali. Einaudi.Torino. 2000 3 consumate nell’intimo delle mura domestiche, che non lasciano segni sul corpo ma che feriscono profondamente l’anima, la personalità e la dignità rendendo la vita impossibile. Altre strategie di controllo e di violenza consistono nel fare in modo di isolare la persona dal suo contesto sociale e affettivo, o controllarla costantemente. Sono molte le donne che sostengono di poter uscire solo in coppia perché il partner non vuole farla uscire con le amiche. Molti partner non rispettano quasi mai gli accordi presi con la compagna, non si scusano quasi mai. Le donne che vivono in questi scenari imparano a servirsi di sotterfugi e a misurare le parole per non far aumentare la tensione con il partner. Le strategie di controllo e violenza passano anche attraverso altri modi e altre situazioni. Il controllo economico è uno di queste. Molte donne sono costrette dai loro partner a versare tutto il loro guadagno su un conto cointestato, e non possiedono ne libretti di assegni ne carte di credito. Alcune devono consegnare tutto il loro guadagno nelle mani del marito, che gestisce le spese di bolletta di affitto o di mutuo. Molte donne non dicono il reale costo di un prodotto o di un vestito perché hanno paura che i propri mariti, gli rinfacciano che sono spese superflue. Molte sono le donne che subiscono violenza sessuale all’interno delle quattro mura domestiche e non denunciano. Perché non denunciano? Una delle spiegazioni trovate per spiegare questa difficoltà della donna11 a denunciare è che la donna soffrirebbe di una vera e propria sindrome: sindrome della donna maltrattata12 In particolare, il primo stadio di questa sindrome sarebbe rappresentato dalla Negazione. Le donne negherebbero agli altri, e prima ancora a loro stesse, di essere vittime di violenza, giustificando il comportamento del partner con delle scuse, per esempio: lui lavora tanto…le cose sul lavoro non vanno tanto bene…quando torna vorrebbe che io fossi più accogliente…in fondo è una brava persona, solo che a volte perde le staffe. Per molto tempo, gli effetti del maltrattamento e le reazioni delle donne che ne derivano, venivano viste come caratteristiche psicologiche non collegate all’abuso domestico, pertanto la responsabilità dei disturbi veniva attribuito alla vittima, e questo rafforzava il loro senso di colpa. Molte ricerche13 fatte nel corso del tempo hanno rivelato che, la presenza di patologie antecedenti alla violenza, nelle donne è rivelabile solo in un numero piccolo dei casi presi in esame. Mentre, si è visto come, a volte, i fattori predisponesti alla violenza sono i processi di vittimizzazione14 subiti nell’infanzia, questi sono capaci di alterare la soglia delle percezioni e di sviluppare comportamenti disfunzionali appresi dai modelli genitoriali. Quando la violenza avviene in una relazione affettiva e familiare, la donna che subisce violenza, si trova invischiata in una situazione ambigua, dove il piano dell’abuso . Il termine “donna” si riferisce qui a tutte le persone di sesso femminile, indipendentemente dalla loro età e include pertanto anche le ragazze che hanno meno di 18 anni (ONU, 2006). 12 . G. S. Manzi, Attention for Victim of Crime, Congresso AviCri, Roma 2/3.3.2009. 13 . ISTITUTO NAZIONALE DI STATISTICA: http://www.istat.it. 14 . Il concetto di victimology, la nuova disciplina che assume il punto di vista della vittima, nasce negli Stati Uniti alla fine degli ann‘60, dove si diffondono nello stesso periodo le prime indagini di vittimizzazione. 11 4 e quello affettivo si confondono e in cui essa sperimenta una percezione contrastante che oscilla dall’immagine che lei ha di sé e del mondo a quella diversa che le rimanda e impone il maltrattante e che lei fa sua per sopravvivere. Una famiglia disfunzionale15 o violenta crea un modello vissuto come normale, una madre che subisce maltrattamenti presenterà alla figlia un modello con cui dovrà fare i conti e lo stesso vale per un figlio con un padre maltrattante. I figli possono giurare che mai saranno come il padre o la madre, ma allo stesso modo la violenza entra nel loro mondo interno fin dall’infanzia come un modello ingiusto e doloroso ma allo stesso tempo concepibile e familiare16. Sul tema dell’ambiguità, uno studio abbastanza interessante è stato fatto da S. Amati-Saas17 i suoi studi, condotti con persone che, hanno vissuto in prima persona delle esperienze traumatiche, hanno messo in luce il ruolo dell’ambiguità e della vergogna in situazione di estrema vittimizzazione (questo autore ha lavorato anche con persone che hanno sperimentato i lager nazisti). Saas sostiene che, l’ambiguità in situazioni traumatiche, diventa l’arma per sopravvivere ed è caratterizzata dalla “ adattabilità, malleabilità, permeabilità, e non conflittualità che porta, con il tempo, alla difficoltà di differenziarsi, separarsi, e individuarsi. Egli definisce l’ambiguità come “uno stato di non definizione, disorientamento e confusione” (questo lo troviamo anche nelle donne, vittime di maltrattamento). Saas vede l’ambiguità come una difesa, sviluppata dalla vittima di fronte a traumi prolungati. Uno degli effetti di situazioni traumatiche è il ritiro emotivo, il congelamento dei sentimenti a scopo difensivo. In queste situazioni le donne, molte volte, mostrano un atteggiamento distaccato, un viso inespressivo e una voce povera di inflessioni. Espongono episodi di violenza inumana in una maniera distaccata e fredda, a volte sorridendo (altra difesa sviluppata) con una specie di blocco corporeo, quasi come se avessero paura di spezzarsi. Il DSM-IV18 parla di “paralisi psichica o anestesia emozionale”. L’individuo che ha subito un abuso sessuale o fisico, violenza domestica, hanno sperimentato situazioni stressanti e traumatiche, hanno come conseguenza non solo una compromissione della modulazione affettiva, ma anche una diminuzione delle prospettive future, maggiore rischio di disturbo di panico e agorafobia, disturbi d’ansia di depressione, disturbi alimentari, possono presentare dei comportamenti autolesivi, sintomi dissociativi e lamentele somatiche19 . . R. Luberti, I generi della violenza – Tipologie di violenza contro donne e minori e politiche di contrasto, Franco Angeli, Milano 2001. 16 . R. Luberti, I generi della violenza – Tipologie di violenza contro donne e minori e politiche di contrasto, Franco Angeli, Milano 2001. 17 . S. Amati Saas, Ambiguità as moute to shame, in Int. J. Psyco-Anal., (1922) 72, pp. 329-330 18 . DSM-IV, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson, Milano, Parigi, Barcellona 1996, p. 469-470. 19 . http://www.eurowrc.org/01.eurowrc/07.eurowrc_it/IT_ITALY/La%20Violenza%20Domestica.pdf 15 5 Quando le donne raccontano episodi di maltrattamento spesso la rabbia è assente. Perché è assenti la rabbia? C’è da dire che nel bagaglio culturale di molte donne, la rabbia non sembra avere una connotazione positiva, infatti una delle capacità attribuite al genere20 femminile è quella di evitare i conflitti non appena si presentano21. Nella nostra cultura, la donna è per natura accogliente e non aggressiva, questo è uno stereotipo tradizionalmente si diceva che la donna era “il focolare della famiglia”. H. Lerner,22 sottolinea come le donne siano spesso delle vere e proprie “vigilatrici di pace” senza mettere in conto i costi personali e i sacrifici fatti per tenere in “equilibrio” le vari situazioni. A. Marranca,23 scrive: “ quando il rapporto è insoddisfacente, la donna se ne attribuisce la colpa, trasforma la rabbia in autoaccusa e questo meccanismo la rende insicura, sfiduciata, senza valore per se stessa.” Se quindi questo atteggiamento24 è già presente nel mondo interiore femminile come eredità culturale, lo è molto di più nelle donne in cui la violenza ha provocato effetti ancora maggiori di sfiducia, insicurezza e scarso valore di sé. Spesso le donne sperimentano fin dall’infanzia la percezione della rabbia come elemento “pericoloso” che può provocare l’allontanamento o perdita della figura affettiva di riferimento. In età “adulta”25 a queste persone può essere diagnosticato un disturbo dipendente di personalità26. Le donne con questo tipo di disturbo, tendono ad impegnarsi in legami simbiotici. Questo tipo di legame si sviluppa molto rapidamente, è un tipo di legame in cui i ruoli vittima-aggressore si alternano, creando rapporti che molto spesso si spezzano in modo improvviso. L’abuso a lungo termine porta come conseguenza, delle grandi difficoltà relazionali. Molte donne donne abusate non hanno la percezione dei confini del proprio Sé e tendono o a confondersi in un modello fusionale o a diffidare, aggredire con la stessa modalità difensiva usata per tenersi al riparo dalla violenza. L’Iosé della donna abusata27 è un sé, danneggiato e frammentato dagli effetti dei traumi subiti, per . Il concetto di genere viene introdotto dalla femminista Gayle Rubin, con questo termine ella indica l’insieme di processi, adattamenti e di rapporti con i quali la società converte la sessualità biologica in prodotti dell’attività umana organizzando la divisione dei compiti degli uomini e delle donne. 21 . l’identità di genere si indicano i tratti sociali e culturali che qualificano il comportamento e i ruoli della persona in termini si mascolinità e femminilità. 22 . H. Lener, la danza della rabbia, TEA, Milano 1998 23 . A Marranca, Soggetti narrati, Armando editore, Roma 2002, p.86. 24 . Con il termine atteggiamento si indica la disposizione di ogni persona di produrre risposte, determinate dall'ambiente familiare o sociale, riguardo a situazioni, gruppi o oggetti. 25 . Adulto: essere umano che ha concluso la crescita, ed esprime compiutamente le proprie potenzialità interne. 26 . Disturbo dipendente di personalità: gli individui con tale disturbo tendono a ricercare qualcuno che li protegga, che si prenda cura di loro, che prenda per loro tutte le decisioni, sentendosi incapaci di affrontare da soli il mondo. Tali individui presentano un timore eccessivo di separarsi dalle figure di riferimento e un ‘insicurezza diffusa in molti ambiti della propria vita; ricercano costantemente consigli e rassicurazioni per poter prendere qualunque decisione, sono disposti a tutto pur di ottenere protezione ed essere accuditi, sono fragili, spesso passivi, con una bassa autostima e sono incapaci di agire autonomamente. Per questo delegano agli altri la responsabilità della propria vita e sono incapaci di esprimere adeguatamente sentimenti di rabbia e di dissenso per la paura di essere poi abbandonati. 27 . D. Kalsched nel suo libro “Il mondo interiore del trauma” (1996) sostiene che i traumi paralizzano l’attività mentale, cancellano la capacità di narrarsi. Disumanizzano perché spezzano il senso di coerenza della propria storia personale ed il proprio potenziale interno. 20 6 questo percepisce i legami come pericolosi e inaffidabili, ed è sempre a caccia del colpevole. Il legame è percepito come qualcosa che è sia temuto che desiderato. Il maltrattamento conduce ad una perdita del proprio punto di vista su se stesse e sul mondo, e l’allontanamento dal piano di realtà, la donna inizia a pensare che solo il partner sia il detentore della verità e questo significa indebolire la propria identità28, la persona diventa insicura e questo conferisce all’altro un potere smisurato. In situazioni come queste la donna non vede nessuna possibilità di uscita dalla situazione in cui si trovano, hanno tante paure (paura che il marito gli tolga i figli, paura di essere uccise, paura di non riuscire a sopravvivere da sola..etc..). Ecco perché il sostegno dei gruppi dei gruppi di autoaiuto è fondamentale. I gruppi di Auto aiuto affiancati ai percorsi personali, sono un valido strumento per l’elaborazione e l’uscita da una situazione di violenza. Esso costituisce un valido strumento di lavoro, riduce l’isolamento delle donne e favorisce l’istaurarsi di legami sociali . La solidarietà e la condivisione con altre donne riduce il senso di vergogna e di inadeguatezza. In questo modo il gruppo diventa uno spazio sicuro per sviluppare legami che consentono alle donne di parlare di quello che gli è accaduto. I G. A.A favoriscono l’emersione delle risorse personali, e la modificazione costante e progressiva di situazioni vissuti, relazioni e stili di vita, attraverso il confronto con altri punti di vista. L’energia e la forza del gruppo, nella soluzione dei problemi è senz’altro maggiore di quella che viene espresso nel singolo individuo. Attraverso gli sforzi e i successi conseguiti nel gruppo la persona ha la possibilità concreta di aumentare la propria autostima e credere nelle proprie risorse. 28 . Il primo studioso che ha offerto una valida sistematizzazione del concetto di identità personale in psicologia è stato William James, il quale nel celebre Principles of Psycology (1890) ed in seguito nel saggio Il flusso di coscienza (1892) ha espresso per primo quelle che tuttora sono considerate le principali caratteristiche strutturali e fenomenologiche dell'identità personale. L'identità personale, difatti, per James aveva due fondamentali funzioni: 1) costituire un senso di continuità nel tempo del Sé indipendentemente dalle variazioni e fluttuazioni degli stati di coscienza (cicli veglia/sonno; variazioni umorali; processi di crescita e maturazione biologica; ecc.); 2) fondare la base di una individualità che possa permettere ad un soggetto di definirsi separato e differenziato da qualsiasi altro. Questa definizione, pur mantenendosi inalterata fino ad oggi, nel tempo ha acquisito maggiore complessità ed articolazione incorporando le proposte teoriche delle correnti di pensiero e delle discipline che via via hanno preso parte al dibattito. 7