Dinamiche di diffusione dell`infezione da virus della

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Dinamiche di diffusione dell’infezione
da virus della sindrome riproduttiva
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eventi
sivar
10° Congresso Nazionale Multisala SIVAR - 9-10 Maggio 2008
LAURA BATISTA
DMV, PhD, Centre du Développement du Porc du Québec, Québec, Canada
EPIDEMIOLOGIA
Ad oggi, si ritiene che il PRRSV sia endemico nella maggior
parte delle regioni del mondo che producono suini, ad eccezione di Svezia, Norvegia, Finlandia, Svizzera, Australia,
Nuova Zelanda, Argentina, Brasile e Cuba (Elvander et al.
1997; OIE, 1997; Cannon et al. 1998; Motha et al. 1997;
Gardner et al. 1996).
Non esistono delle stime accurate della prevalenza dell’infezione sostenuta dal ceppo selvaggio del virus in nazioni o
province specifiche, dato che la maggior parte dei dati pubblicati riguarda un ambito limitato e/o non è stata sottoposta a procedure di campionamento della popolazione valide
dal punto di vista statistico. Analogamente, l’esteso impiego
di vaccini avviato nel mondo nel 1994 ha compromesso l’uso di test sierologici per la determinazione dello status di infezione in una regione o una nazione. La densità di popolazione dei suini ha influenzato marcatamente la prevalenza
del PRRSV, sia tra gli allevamenti che tra le regioni. Anche
nella stessa area, le aziende di dimensioni maggiori tendono
ad avere una sieroprevalenza più elevata rispetto a quelle più
piccole (Diosdado et al. 1997).
VIE DI ESPOSIZIONE
I suini sono suscettibili all’infezione da PRRSV attraverso
numerose vie, comprese quella intranasale, intramuscolare,
orale e vaginale. Nei biotest sui suini è stata anche impiegata
l’inoculazione intraperitoneale (Swenson et al. 1994). Yoon
et al. (1999) hanno riferito che la dose necessaria per infettare un suino giovane è appena pari o inferiore a 10 particelle
virali di PRRSV. Yaeger et al. (1993) dimostrarono l’infezione derivante dall’inseminazione artificiale con seme non diluito proveniente da verri infetti (Gradil et al. 1996; Swenson
1995). Furono anche comprovate delle infezioni derivanti da
seme diluito proveniente da verri infetti (Gradil et al. 1996;
Swenson 1995), nonché da seme al quale era stato addizionato PRRSV derivante da colture cellulari (Prieto et al.
1997a; Swenson e Zimmerman 1993). Benfield et al. (2000)
riferirono di non aver osservato alcuna sieroconversione negli animali che avevano ricevuto una dose di 200 TCID50 per
50 ml di seme. Esistono pochissimi articoli sulla trasmissione del PRRSV mediante embryo transfer. Prieto et al. (1996)
conclusero che, in vitro, gli embrioni suini allo stadio di 4-16
cellule non erano suscettibili all’infezione da PRRSV. Smith
et al. (2002) non riuscirono ad individuare il PRRSV in scrofette con infezione acuta 120 ore dopo l’ovulazione. Infine,
Prieto et al. (1997b) segnalarono che l’infezione da PRRSV
non aveva effetto sull’embrione ad inizio gestazione. Tuttavia, il PRRSV potrebbe essere isolato dal 16% degli embrioni al 20° giorno di gestazione.
DIFFUSIONE VIRALE
L’infezione degli animali suscettibili esita nella eliminazione
del virus attraverso la saliva (Willis et al. 1997), le secrezioni
come il latte (Rossow et al. 1994, Benfield et al. 1994; Christianson et al. 1993), l’urina (Willis et al. 1997), il seme
(Swenson e Zimmerman 1994; Swenson et al. 1994) e le secrezioni mammarie (Wagstrom et al. 2001). Le relazioni sulla diffusione fecale sono controverse. Yoon et al. documentarono l’eliminazione attraverso le feci per più di 35 giorni nei
suini giovani. Christianson et al. (1993) riferirono il riscontro di PRRSV da tamponi fecali di scrofe infettate sperimentalmente. In contrasto, Rossow et al. (1994) riscontrarono
<2% di campioni PRRSV-positivi 28 giorni dopo l’inoculazione e Willis (1997) non rilevò PRRSV in campioni fecali 42
giorni dopo l’inoculazione. Infine, Bierk et al. (2001b) studiarono le risposte di 12 scrofe naïve (controlli a contatto)
che erano state introdotte, con la sola separazione di una recinzione che consentiva il contatto naso-naso, in locali dove
si trovavano altrettante scrofe index che 42 e 56 giorni prima
erano state sottoposte all’inoculazione del virus. La diffusione del virus ai controlli a contatto fu riscontrata in 3 delle 12
coppie di animali, nei giorni 49, 56 ed 86 post-inoculazione
delle scrofe index.
TRASMISSIONE
Il PRRSV è altamente infettivo, per cui l’esposizione dell’animale ad un numero relativamente esiguo di particelle virali
esita nella trasmissione. Yoon et al. (1999) stimarono che l’esposizione intranasale e intramuscolare a 10 o meno particelle virali fosse sufficiente a provocare l’infezione. Tuttavia,
il PRRSV non è altamente contagioso e la trasmissione non
avviene facilmente per il contatto con animali infetti o fomiti contaminati dal virus (Potter 1994).
Il PRRSV si trasmette verticalmente, orizzontalmente ed indirettamente. I dati disponibili indicano che verticalmente il
virus si trasmette per via transplacentare durante l’ultimo
terzo della gestazione (Benfield et al. 1997; Lager et al. 1997;
Christianson et al. 1993; Christianson et al. 1992). Ciò nonostante, esiste una segnalazione di Monitor et al. (2001) secondo la quale la trasmissione si è già verificata a 30 giorni di
gestazione. Orizzontalmente, il PRRSV viene trasmesso me-
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diante contatto diretto fra animali (contatto naso-naso) o
mediante esposizione a liquidi organici contaminati, come il
seme (Christopher-Hennings et al. 1995), il sangue contaminato (Otake et al. 2002a), le secrezioni mammarie (Wagstrom et al. 2001) e la saliva (Bierk et al. 2001b). È stata riferita la trasmissione indiretta mediante fomiti quali tute, stivali e mani. Tuttavia, l’adozione di misure igieniche di base
come la sostituzione delle tute e degli stivali ed il lavaggio
delle mani consente di eliminare la trasmissione (Otake et al.
2002b). Gli stessi autori (Otake et al. 2002a) hanno confermato la propagazione del PRRSV in condizioni sperimentali, da suini infetti a suini non infetti, mediante aghi. Dee et al.
(2002, 2003) hanno accertato che il PRRSV può essere trasferito dai fomiti durante l’inverno (8 volte su 10) e in minor
misura durante l’estate (2 volte su 10), dimostrando l’importanza della temperatura nella sopravvivenza del virus come descritto da Pirtle e Beran (1996). Recentemente, è stato
confermato sperimentalmente (Otake et al. 2002c, 2002d) il
ruolo degli artropodi come le zanzare (Aedes vexans) e le
mosche (Musca domestica) nella trasmissione meccanica del
PRRSV (Otake et al. 2002c, 2002d). Infine, la trasmissione
mediante aerosol è stata oggetto di controversia. Numerosi
ricercatori sono riusciti a diffondere il virus attraverso un aerosol a brevi distanze comprese fra 0,5 e 2,5 m (Lager et al.,
2000; Torremorell et al., 1997; Otake et al., 2002e). Recentemente, Dee et al. (2003) hanno dimostrato la trasmissione
mediante aerosol per 150 m attraverso un tubo in PVC a suini naïve ricoverati all’altra estremità del tubo. Infine, Dee et
al. (2003, 2004, 2005, 2006) e Batista (2006, 2007) hanno dimostrato una trasmissione tramite aerosol per distanze maggiori e l’importanza della filtrazione dell’aria per interrompere la trasmissione del PRRSV.
Una volta che abbia infettato un allevamento, il PRRSV tende a circolare a tempo indefinito (Joo et al. 1993). I fattori
chiave sembrano essere l’infezione persistente da PRRSV,
poiché il virus può persistere ed essere diffuso per più di 86
giorni negli animali adulti (Bierk et al. 2001b), l’introduzione di animali naïve (Willis et al. 1997), il rapido decremento
dell’immunità materna che consente ai giovani suinetti sensibili di essere predisposti all’infezione o alla reinfezione
(Dee et al. 1994) e la presenza di sottopopolazioni naïve suscettibili (Dee et al. 1996). È stata segnalata la trasmissione
fra allevamenti, in particolare nelle aree ad elevata densità
suina (Le Potier et al., 1997; Zhuan et al. 2002). Sono importanti fattori di rischio l’introduzione di capi da riproduzione
contaminati (Dee et al. 1992), seme contaminato (Christopher-Hennings et al. 1995; Le Potier et al. 1997; Mortensen et al. 2002) e vettori come le zanzare e le mosche (Otake
et al. 2002c; Otake et al. 2002d). Dee et al. (2002a e 2002b)
hanno dimostrato la diffusione del PRRSV attraverso la normale attrezzatura (ad es., refrigeratori, cassette metalliche,
scatole di cartone e scatole in plastica per il pranzo) utilizzata nelle aziende suinicole. Infine, è stata proposta come modalità di trasmissione del PRRSV tra allevamenti la diffusione tramite area, intesa come introduzione in modo non accertato del virus in un allevamento in assenza di contatto
animale o umano. Lager (2002) ha documentato la trasmissione del PRRSV in 7 allevamenti, senza alcun denominatore o rapporto comune, in ciascuno dei quali la tipologia del
PRRSV isolato era simile, se non identica. Secondo l’autore,
quest’area rappresentata diffonde senza alcuna trasmissione
diretta da suini, uomo o fomiti.
PERSISTENZA
La virulenza di un virus è la sua capacità di indurre malattia in
un ospite. La virulenza dipende da una varietà di fattori del virus e dell’ospite, come dose e via di penetrazione del virus ed
età, sesso, stato immunitario e specie dell’ospite. Man mano
che l’infezione virale procede, il virus incontra una serie di
ostacoli all’interno dell’ospite (Tyler e Nathanson 1978). Alcuni virus causano un danno tissutale situato principalmente vicino alla sede di penetrazione nell’ospite; questo quadro è caratteristico delle infezioni delle vie respiratorie superiori riscontrate in caso di influenza, parainfluenza, rinovirosi e coronavirosi, di quelle gastroenteriche causate da rotavirus e di
quelle cutanee da papillomavirus. In questi casi la diffusione
del virus avviene primariamente come risultato di un’infezione contigua delle cellule adiacenti. I virus che determinano la
comparsa di una malattia sistemica si diffondono tipicamente
dalla loro sede iniziale di ingresso fino a tessuti bersaglio distanti attraverso il flusso sanguigno o all’interno dei nervi (Tyler e Nathanson 1978). In natura, la sopravvivenza del virus richiede la costante infezione di individui suscettibili. I virus
possono causare infezioni acute di breve durata oppure stabilire una persistenza a lungo termine. Durante le infezioni acute, molti di essi inibiscono il metabolismo della cellula ospite
da loro infettata, provocando di conseguenza degli effetti citopatici. In alternativa, i virus possono persistere all’interno di
un singolo individuo ospite per lunghi periodi. Queste infezioni virali iniziano sotto forma di episodi acuti, ma evolvono
in processi latenti o cronici, durante i quali il virus viene trasmesso periodicamente ad organismi ospite nuovi. La capacità
di persistenza in vivo non è confinata ad un gruppo particolare di virus, ed esiste una gran varietà di agenti, sia a DNA che
ad RNA, in grado di determinare l’instaurarsi di infezioni a
lungo termine (Ahmed et al.1997). Le infezioni virali persistenti risultano importanti per diverse ragioni: (a) possono venire riattivate e causare episodi recrudescenti di malattia nel
singolo ospite, (b) possono provocare un’affezione immunopatologica, (c) possono essere associate a neoplasie, (d) possono consentire una sopravvivenza del virus negli animali vaccinati singolarmente e negli allevamenti ed (e) possono avere
un’importanza epidemiologica (Ahmed et al. 1997).
QUADRI DELL’INFEZIONE VIRALE
Le infezioni virali possono essere suddivise in diverse categorie che si basano su quadri e livelli del virus, rilevabili nell’organismo in vari momenti dopo l’infezione. Queste categorie
sono: 1) infezione acuta seguita dalla clearance del virus, dovuta alla risposta immunitaria dell’ospite, 2) infezione acuta
con manifestazione clinica tardiva, nella quale la replicazione
continua del virus responsabile non è coinvolta nella progressione della malattia, 3) infezione acuta seguita da un’infezione latente, nella quale il virus persiste con una forma non infettiva, con periodi intermittenti di riattivazione e diffusione
virale. Questi virus devono essere in grado di determinare
una sottostante infezione produttiva in certe cellule o in certe condizioni, e una sottostante infezione non permissiva in
altre cellule. Il virus infettante non è dimostrabile eccetto
quando si verifica una riattivazione, 4) infezione acuta seguita da un’infezione persistente in cui il virus infettante viene
continuamente eliminato dai tessuti infettati o è presente in
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essi. La presenza del virus è dimostrabile continuamente, indipendentemente dall’esistenza o meno di una malattia in atto. Questa si può sviluppare in seguito, spesso su base immunopatologica o neoplastica e 5) una lenta, progressiva infezione in cui il virus infettante aumenta gradualmente di entità nel corso di una lunghissima fase preclinica, portando ad
una malattia letale lentamente progressiva. Questo quadro si
osserva soltanto nel caso di agenti non convenzionali, come i
prioni nelle encefalopatie spongiformi (Ahmed et al. 1997).
MECCANISMI
DI PERSISTENZA VIRALE
Perché un virus possa persistere a lungo termine all’interno
di un ospite, devono essere soddisfatte tre condizioni generali. In primo luogo, deve essere in grado di infettare le cellule
ospiti senza essere apertamente citolitico. In secondo luogo,
devono sussistere dei meccanismi che consentano di mantenere il genoma virale all’interno della cellula ospite. In terzo
luogo, infine, deve essere in grado di sfuggire all’identificazione ed eliminazione da parte del sistema immunitario dell’ospite (Ahmed 1984).
RESTRIZIONE DELL’EFFETTO
CITOLITICO VIRALE
Un virus può persistere nella cellula ospite soltanto se non
uccide la cellula stessa o l’animale ospite. Pertanto, i virus che
causano infezioni produttive non litiche sono quelli che si
adattano meglio alla persistenza ed hanno maggiori probabilità di causare un’infezione cronica (Buchmeier et al., 1980).
Inoltre, un virus può essere litico per alcuni tipi di cellule, ma
non per altri. Ciò risulta particolarmente importante nel caso della persistenza in vivo, perché nell’animale sono presenti nel complesso molti tipi cellulari differenti (Gartner et al.,
1986; Ho et al., 1986).
INFEZIONE DI CELLULE
NON PERMISSIVE
I virus rimangono in uno stato di latenza, ovvero restringono
l’espressione virale del gene, fino al momento in cui vengono
indotti a riattivarsi da perturbazioni dell’ambiente della cellula
ospite, come un danno o una differenziazione cellulare, che sono in grado di convertire, almeno temporaneamente, tipi di cellule non permissive in altri che consentono la replicazione virale (Wang et al, 1987; Schwarz et al. 1985). Un’osservazione interessante a proposito della persistenza del citomegalovirus
(CMV) è che vi sono alcuni riscontri che indicano che la differenziazione di monociti in macrofagi può convertire l’infezione
non produttiva in una produttiva (Taylor-Weidman et al. 1994).
INFEZIONE “SMOLDERING”
DI UN NUMERO LIMITATO
DI CELLULE PERMISSIVE
Studi sulle infezioni persistenti di cellule in coltura hanno dimostrato che i virus litici possono anche persistere in vitro in
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condizioni in cui solo una piccola frazione della totalità delle cellule viene infettata in un dato tempo. In queste colture
cellulari portatrici, i pochi elementi infetti rilasciano il virus
e sono uccisi, ma i virus progenie infettano di nuovo soltanto un piccolo numero della totalità delle cellule, mentre la
maggior parte di esse resta non infetta. Si ritiene che questa
restrizione derivi dal fatto che in un dato momento esiste
soltanto un numero limitato di cellule suscettibili o che nel
mezzo di coltura vi siano degli inibitori solubili come l’interferon (Walker 1964; Walker 1968). Questo tipo di infezione,
cosiddetta “smoldering” (letteralmente, “che cova sotto la cenere”) o ciclica, è stato implicato nella persistenza del virus
della latticodeidrogenasi nei topi e degli adenovirus nell’uomo (Mahy 1985; Ahmed 1994).
EVOLUZIONE
DELLE VARIANTI VIRALI
La responsabilità dell’avvio di infezioni persistenti in vitro è
stata attribuita a numerosi tipi di varianti virali, come i ceppi mutanti sensibili alla temperatura, quelli a piccole placche
e le particelle in vitro difettive-interferenti (Ahmed et al.
1997). Studi sulla persistenza dei reovirus hanno dimostrato
che la mutazione negli specifici geni virali è cruciale per stabilire e mantenere le infezioni persistenti nelle cellule L929
(Ahmed et al. 1980; Ahmed et al. 1982). Inoltre, esiste anche
una possibilità di ottenere varianti della cellula ospite. Numerosi articoli hanno descritto la selezione di cellule mutanti durante un’infezione persistente di linee cellulari in coltura. Una coltura di cellule con infezione persistente dtermina
la formazione di un ambiente dinamico e nel corso di un’infezione persistente nei reovirus nelle cellule L è stata descritta una evoluzione concomitante delle cellule ospiti e del virus. In un’infezione persistente, sono state selezionate le cellule L mutanti che sono estremamente resistenti alla lisi da
parte dei reovirus ed a ciò ha fatto seguito una selezione di
reovirus alterati che crescevano molto meglio in queste cellule (Ahmed et al. 1981; Dermody et al. 1993). Tuttavia, è
probabile che nelle infezioni in vivo quelle cellule subiscano
una limitazione della loro potenziale capacità di attuare questo tipo di evoluzione.
Come già ricordato, il secondo requisito per la persistenza virale è un meccanismo di mantenimento del genoma virale
nelle cellule con infezione persistente. Se la cellula ospite si
sta dividendo, si deve verificare contemporaneamente la replicazione del genoma virale, in modo tale che non venga diluito all’interno delle cellule figlie. L’integrazione nel cromosoma ospite è di gran lunga il meccanismo più efficiente per
mantenere il genoma virale, dal momento che la replicazione del DNA del virus è ora intrinsecamente legata a quella
del DNA dell’ospite (Ahmed et al.1994). In alternativa, il
DNA virale può anche essere mantenuto in molecole episomali circolari. Questo fenomeno si riscontra in numerosi virus a DNA persistenti, come i papillomavirus (Schwartz et al.
1985). I DNA virus possono mantenere i loro genomi nella
cellula ospite in una forma integrata, oppure come plasmide
extracromosomiale. In alcune circostanze, il genoma virale
può resistere in assenza di qualsiasi proteina virale, poiché la
cellula ospite è in grado di portare a termine i processi necessari per propagare il DNA virale. Al contrario, la cellula
ospite non è in grado di svolgere da sola le funzioni necessa-
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rie per la replicazione dell’RNA virale. Di conseguenza, le vere infezioni latenti risultano più comuni nei virus a DNA,
mentre l’espressione continua delle proteine virali necessarie
alla replicazione ed il mantenimento del DNA virale caratterizza la persistenza dei virus a RNA.
Infine, il terzo requisito per la persistenza virale è la capacità
di sfuggire al sistema immunitario. I virus hanno sviluppato
varie strategie per evitare la sorveglianza immunologica (Ahmed 1994; Marrack e Kappler 1994). Gli anticorpi possono
riconoscere i virus liberi o le cellule da essi infettate. Controllano le infezioni virali neutralizzando le particelle virali e
uccidendo le cellule infette attraverso la citotossicità mediata
dal complemento o la citotossicità cellulo-mediata dipendente da anticorpi. Le proteine virali critiche riconosciute
per questi processi sono le glicoproteine di superficie o le
proteine del capside. Al contrario degli anticorpi, le cellule T
riconoscono gli antigeni virali soltanto se sono associati al
complesso maggiore di istocompatibilità (MHC). Pertanto,
le cellule T non sono in grado di riconoscere i virus liberi, e
le loro attività antivirali sono limitate alle cellule infette.
I virus impiegano varie strategie per eludere il sistema immunitario. La restrizione dell’espressione del gene virale riduce il potenziale litico del virus e inoltre fornisce un meccanismo semplice ed altamente efficace mediante il quale le
cellule infette sfuggono all’identificazione da parte del sistema immunitario dell’ospite. Il sistema più ampiamente analizzato è l’infezione latente dei neuroni da parte dell’herpesvirus umano (HSV), in cui l’espressione genica del virus è
completamente arrestata, ad eccezione della trascrizione di
una regione del genoma. Non risulta esserci alcuna proteina
virale espressa nel neurone infettato. Di conseguenza, il virus
diventa “invisibile” per il sistema immunitario in quanto
l’immunità è diretta verso proteine estranee e non esiste alcun messaggio che consenta di distinguere tra proteine “self ”
ed “estranee” (Stevens 1989; Stevens 1994).
Un’altra strategia utilizzata dai virus è l’infezione di tessuti
e tipi cellulari che non sono facilmente accessibili al sistema
immunitario (Barker et al. 1977). Alcuni siti sono preferiti
da molti virus persistenti, come il sistema nervoso centrale
(SNC), i reni, le superfici epiteliali delle ghiandole secretorie o escretorie, tutte sedi che limitano l’accesso alle cellule
T e/o alla circolazione di linfociti (Joly et al. 1991; Oldstone et al. 1986).
È stata ben documentata la comparsa di varianti virali durante la persistenza del virus stesso. I virus, in particolare
quelli con genomi ad RNA, possono andare incontro a mutazioni con un elevato tasso di frequenza (Holland et al.
1982; Steinhauer et al. 1987). Questa capacità di mutare rapidamente può fornire un mezzo per sfuggire sia all’immunità da cellule T che da cellule B. L’esempio classico è dato da
shift e drift antigenici rilevati fra i virus influenzali (Palese e
Young 1982; Webster et al. 1982).
Infine, la tolleranza immunologica è lo strumento più efficiente per stabilire e mantenere un’infezione persistente, attraverso una neutralizzazione selettiva del sistema effettore
responsabile dell’eliminazione del virus. Un esempio classico
è la soppressione delle risposte da CTL specifiche del virus
della coriomeningite linfocitaria (LCMV) in topi carrier con
infezione congenita. I topi adulti infettati da LCMV sviluppano un’energica risposta cellulare ed umorale nei confronti
del virus e debellano l’infezione entro due settimane. In contrasto con il processo acuto riscontrato negli adulti, i topi in-
fettati da LCMV alla nascita o in utero vanno incontro ad
un’infezione cronica, presentando una viremia che dura tutta la vita. Questa persistenza è dovuta alla mancanza della risposta immunitaria al virus da parte delle cellule T. Questi
topi con infezione persistente non mostrano una soppressione immunitaria generalizzata e rispondono normalmente ad
altri antigeni. Non rispondono a LCMV perché hanno subito all’interno del timo una delezione clonale della capacità di
rilevare l’antigene (Ahmed 1984; Buchmeier et al. 1980; Lehman-Grube et al. 1983).
PERSISTENZA DEL PRRSV
Il PRRSV determina nei suini un’infezione persistente, replicandosi nelle cellule suscettibili dei soggetti infetti per parecchi mesi. La persistenza di un’infezione viene definita come
“la continua presenza di un virus in un ospite per periodi di
tempo prolungati dopo un’infezione” (Ahmed et al. 1996;
Ahmed et al. 1997). I virus ad RNA come il PRRSV non tornano agli stadi inattivi post-infezione (pi), ma piuttosto continuano a replicarsi ad un certo livello entro alcune sedi dell’organismo (Ahmed et al. 1996; Ahmed et al. 1997; Allende
et al. 2000). Il meccanismo con cui il PRRSV persiste in presenza di una risposta immunitaria attiva non è noto. Alcune
ipotesi prospettano che l’immunità venga elusa mediante
una continua mutazione in vivo. Ciò nonostante, Chang et
al. (2002) hanno dimostrato che la mutazione compare con
frequenze molto basse negli animali infettati permanentemente. Allende et al. (2000) hanno descritto la persistenza
del PRRSV come di un’infezione “smoldering”, in cui il virus
è presente a bassi livelli, che diminuiscono nell’animale con
il tempo. Gli autori concludono che l’infezione persistente da
PRRSV sia un riflesso della capacità del virus di evitare il sistema immunitario, piuttosto che un evento in funzione dell’età dell’animale al momento dell’infezione. Esperimenti
che prendevano in considerazione altri elementi legati alla
persistenza, come differenze fra gli isolati virali (Mengeling
et al., 1995; Mengeling et al., 1996), età al momento dell’infezione, stress (Christopher-Henning et al., 1995; Bierk et al.
2001b) e fattori genetici (Christopher-Hennings et al., 2001;
Halbur et al., 1998) hanno ottenuto risultati variabili e, ad
oggi, questi elementi non si sono dimostrati influire su diffusione o persistenza.
La persistenza dell’infezione è stata documentata in numerosi studi sulla trasmissione e anche attraverso l’individuazione
del virus in animali con infezione persistente. Zimmerman et
al. (1992) hanno segnalato la trasmissione di PRRSV a sentinelle suscettibili da una scrofa infettata 99 giorni prima. Albina et al. (1994) hanno inoculato scrofe a 90 giorni di gestazione e poi seguito la progenie nel tempo. La trasmissione positiva ai contatti è stata riconosciuta all’età di 22 settimane.
Christopher-Hennings et al. (1995) hanno inoculato 4 verri
con VR 2332 ed hanno riscontrato il PRRSV nella ghiandola
bulbouretrale di uno di essi sacrificato al giorno 101 post-infezione. Willis et al. (1997) hanno recuperato il PRRSV vitale
a 157 giorni post-infezione dal tessuto tonsillare dei suini in
accrescimento. Benfield et al. (2000) hanno isolato il virus
dalle tonsille e dai linfonodi della progenie di scrofe inoculate con PRRSV a 90 giorni di gestazione fino a 132 e 260 giorni dopo il parto. Bierk et al. (2001a) hanno condotto recentemente un’indagine diagnostica sull’infezione cronica da
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PRRSV in una popolazione di campo con un’infezione endemica. I dati diagnostici ottenuti da 60 suini da riproduzione
adulti (45 scrofe e 15 verri) hanno indicato che il 2% circa
della popolazione campionata ospitava il PRRSV. Bierk et al.
(2001b) hanno anche dimostrato l’infezione persistente e la
disseminazione del PRRSV da scrofe sperimentalmente infette a soggetti di controllo a contatto con esse in scrofe non gravide, da 49 ad 86 giorni post-infezione. Horter et al. (2002)
hanno individuato il PRRSV infettivo sia mediante isolamento del virus che con il saggio biologico dei suini compresi fra
63 e 105 giorni post-infezione.
Sfortunatamente, nelle condizioni di campo con il test diagnostico disponibile in commercio risulta difficile individuare i portatori di PRRSV. Secondo quanto segnalato da
Horter et al. (2002) in un lavoro in cui non è stato possibile
trovare differenze significative nella risposta anticorpale ELISA fra portatori e non portatori, non esiste alcuna correlazione diretta fra gli anticorpi ELISA anti-PRRSV. Anche Kleiboeker et al. (2002), in uno studio di campo, hanno rilevato
che i sieri provenienti da scrofe risultate positive al raschiato
orofaringeo per l’individuazione del PRRSV mediante PCR
sono risultati negativi sia alla PCR che all’isolamento del virus. Perciò, ancora, anche se il PRRSV persiste sia nelle tonsille che nei linfonodi, ad oggi non esiste alcuna tecnica diagnostica pratica, accurata ed economicamente conveniente
per l’identificazione dei portatori. Non esistono neppure delle precise stime pratiche della percentuale di animali con infezione persistente all’interno della popolazione, o della probabilità di trasmissione in una popolazione stabilita.
VARIAZIONE GENETICA
Nel corso delle lunghe serie di cicli di replicazione che si riscontrano quando i virus sono trasmessi da ospite ad ospite,
vengono generati dei ceppi mutanti spontanei dovuti a errori nella duplicazione degli acidi nucleici virali. Alcuni di questi mutanti sono differenti dai virus da cui derivano. Fortunatamente, la maggior parte di queste mutazioni risulta letale perché il virus mutato ha perso parte delle informazioni
vitali e non può replicarsi più a lungo o competere con il virus del tipo selvaggio. Una mutazione non letale specifica sopravvive se la conseguente modificazione fenotipica nel suo
prodotto genetico è svantaggiosa, neutra o offre al virus mutante alcuni vantaggi selettivi. Esistono diversi tipi di mutazione, secondo il tipo di variazione che comportano nel genoma virale o il tipo di cambiamento che producono nelle
proprietà del virus o nell’infezione che esso causa (Domingo
1989; Gibbs et al. 1995).
Queste variazioni possono essere genotipiche, coinvolgendo
mutazioni puntiformi, rappresentate da sostituzioni di singoli nucleotidi. Le mutazioni possono anche coinvolgere delezioni o inserzioni di nucleotidi nella misura di uno singolo
o blocchi di piccole o grandi dimensioni (Morse 1991). Esistono anche espressioni fenotipiche di mutazione, come i
mutanti a placche, che producono un tipo diverso di placca
in un monostrato cellulare; alcuni possono diventare resistenti agli anticorpi di neutralizzazione prodotti contro il virus del ceppo selvaggio (mutanti “escape”). Un altro tipo di
mutazione fenotipica è rappresentata dai mutanti letali condizionali, che crescono sotto alcune condizioni permissive
ma non potranno crescere in condizioni restrittive o speri-
289
mentali. Il tipo più comune di queste mutazioni sono i mutanti a specificità d’ospite, la cui replicazione è bloccata in
certe cellule ospiti, e quelli termosensibili, per i quali la condizione selettiva è la temperatura di incubazione della cellula infetta (Murphy et al. 1999).
TASSI DI MUTAZIONE
Il tasso di mutazione è la proporzione degli eventi di errata
incorporazione durante la sintesi degli acidi nucleici, espressa come sostituzione per nucleotide per serie di copiatura
dello stampo (Holland et al., 1982). Il proofreading è il meccanismo che corregge gli errori durante la replicazione del
DNA cellulare in una cellula eucariota. I virus a DNA che replicano nel nucleo sono soggetti allo stesso meccanismo di
revisione; tuttavia, i loro tassi di mutazione sono probabilmente simili a quelli del DNA della cellula ospite, 10-10 e 1011
per nucleotide incorporato (Murphy et al. 1999). Per contro, si determina un’assenza di proofreading nella sintesi dell’RNA, che determina la comparsa di percentuali di errore
molto più elevate di quelle del DNA virale. I tassi di errata incorporazione misurati in vitro possono essere influenzati da
molte condizioni ambientali, e sono difficili da mettere in relazione con le effettive misurazioni in vivo. In vitro le misurazioni hanno dimostrato che le frequenze di errore probabilmente non sono uniformi lungo il genoma virale ed alcuni tipi di sostituzione risultano più probabili di altri (Fry e
Loeb 1986; Holland et al. 1992). È anche stato osservato che
i genomi mutanti, campionati secondo un criterio di casualità da popolazioni virali diverse, mostrano un’idoneità decrescente in relazione al genoma parentale. Questa frequenza di sostituzione è circa un milione di volte più elevata della frequenza media del DNA delle cellule eucariote (Domingo et al. 1978; Holland et al. 1991).
QUASI SPECIE VIRALI
Una quasispecie virale è una popolazione di sequenze strettamente correlate, ma eterogenee, che costituiscono delle varianti di una sequenza genica dominante (Bukh et al. 1985).
Le quasispecie virali sono genomi mutanti e ricombinanti
strettamente correlati, soggetti a continue variazioni, competizioni e selezioni genetiche (Domingo et al. 1998). Questa
eterogeneità può causare un’infezione persistente, che deriva
dalla selezione di mutanti che sfuggono agli anticorpi neutralizzanti o ai linfociti T citotossici (CTL, cytotoxic T
limphocytes), o come conseguenza di particelle difettive
(Duarte et al. 1994; Ahmed 1996; Domingo et al. 1998). Un
aumento del riscontro indica che l’evoluzione delle quasispecie può portare alla selezione di virus virulenti e all’emergere di nuovi agenti patogeni (Lederberg et al. 1992).
EVOLUZIONE E VARIAZIONE
GENETICA DEL PRRSV
Anche se tutti i ceppi di PRRSV identificati nel mondo causano nel suino una malattia simile, si vanno raccogliendo
sempre più dati che indicano che questi ceppi differiscono
per virulenza e caratteristiche biologiche ed antigeniche. Due
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Dinamiche di diffusione dell’infezione da virus della sindrome riproduttiva e respiratoria del suino
distinti genotipi di PRRSV si sono evoluti indipendentemente in Europa e Nord America (Meng et al. 1995; Murtaugh et
al. 1995; Nelsen et al. 1999). Nei confronti fra le sequenze genomiche intere e parziali, è stato riscontrato che gli isolati del
Nord America presentavano un’omologia, rispettivamente,
dell’87-97% e dell’88-96% nelle loro sequenze nucleotidiche
ed aminoacidiche, ma erano simili solo al 64-67% rispetto
agli isolati europei (Meng et al. 1994; Mardassi et al. 1995;
Allende et al. 1999). Nelsen et al. (1999) rilevano che la maggior parte delle differenze aminoacidiche fra VR-2332 (prototipo del Nord America) e il virus Lelystad (prototipo europeo) sono collocate nella sequenza leader 5’ ed ORF 1a, in
particolare nelle regioni che codificano gli Nsps e la proteina
carbossiterminale.
Lavori recenti indicano che esistono differenze significative
nella gravità delle affezioni cliniche respiratorie, delle temperature rettali, delle lesioni macroscopiche microscopiche del
polmone derivanti da infezioni da ceppi differenti di PRRSV
(Halbur et al. 1995; Halbur et al. 1996). I ceppi di PRRSV
possono anche variare in virulenza per la loro capacità di
provocare insuccessi riproduttivi. Mengeling et al. (1996)
hanno dimostrato che gli effetti del PRRSV sull’efficienza riproduttiva erano dipendenti dal ceppo. Ohlinger et al.
(1992) e Van Alstine (1992) hanno segnalato la presenza di
isolati di campo di ceppi non patogeni di PRRSV, dimostrando che differiscono per virulenza. Infine, in una grave
epizoozia acuta ed atipica riportata negli Stati Uniti, è stato
dimostrato che il ceppo isolato in questo caso era più virulento di quelli isolati in precedenza (Botner et al. 1997; Lager
et al. 1998; Mengeling et al. 1998; Osorio et al. 1998).
Vi sono anche molti lavori che documentano le differenze
biologiche fra isolati di PRRSV. Una importante, fra queste,
è la suscettibilità all’attività ADE (antibody dependent enhancement) (Yoon et al. 1996; Yoon et al. 1997). L’alterata capacità ad infettare i macrofagi può essere dovuta alla selezione
di varianti che possono facilitare l’infezione mediante ADE.
Wensvoort et al. (1992) e Wensvoort (1993) dimostrarono
che gli isolati di PRRSV europei si propagavano meglio nelle colture di PAM (porcine alveolar macrophage), in confronto a quelle di CL2621, MARC-145 e CRL11171 (Benfield et
al. 1992; Collins et al. 1992).
Secondo quanto riportato da Wensvoort et al. (1992) e Wensvoort (1993), variazioni antigeniche fra isolati di PRRSV
hanno dimostrato che quattro isolati europei erano strettamente simili fra loro, ma differivano dagli isolati degli Stati
Uniti con i quali erano stati confrontati. È interessante notare che i tre isolati degli Stati Uniti erano anche differenti fra
loro. In un altro studio, isolati del Nord America risultarono
sierologicamente più correlati fra loro rispetto a quelli europei (Frey et al. 1992). È stata anche riportata una reattività
differenziale dei Mabs (anticorpi monoclonali, monoclonal
antibodies) con differenti PRRSV. Due anticorpi diretti nei
confronti della proteina N riconoscevano un epitopo conservato sia negli isolati degli Stati Uniti che in quelli europei, ma
quattro altri Mabs verso la proteina N reagirono soltanto con
gli isolati degli Stati Uniti (Nelson et al. 1993). In più, è stata
dimostrata una variazione antigenica tra un isolato e la sua
progenie ottenuta dopo passaggi in vivo, il che indica che vi
può essere una frequenza di mutazione elevata durante la replicazione del PRRSV nell’ospite (Le Gall et al. 1997). Tuttavia, con un esperimento diretto Chan et al. (2002) hanno
evidenziato una frequenza di mutazione bassa.
Il PRRSV risulta geneticamente eterogeneo; sono state rilevate estese differenze di sequenza tra gli isolati Europei e degli
Stati Uniti (Mardassi et al. 1994; Meng 1994; Murtaugh et al.
1995). L’identità della sequenza dei nucleotidi tra gli isolati LV
(ceppo europeo Lelystad) e quelli degli Stati Uniti è del 6567% in ORF2, 61-64% in ORF3, 63-66% in ORF4 e 61-63% in
ORF5 (Meng et al. 1995). I geni ORF6 e 7 risultano relativamente conservati sia negli isolati degli Stati Uniti che in quelli
europei. Tuttavia, Meng et al. rilevarono un’estesa variazione
dei geni ORF6 e 7 negli isolati degli Stati Uniti ed in quelli europei messi a confronto (Meng et al. 1995). Studi sulla variazione del PRRSV all’interno dei ceppi del Nord America hanno stabilito che il virus è estremamente diverso sia antigenicamente (Yoon et al. 1999) che geneticamente (Meng et al. 1995;
Kapur et al. 1999). Il gene ORF7, che codifica la proteina del
nucleocapside (N) risulta invariato nell’ambito dei principali
genotipi, in confronto con il principale prodotto genetico dell’envelope (GP5) di ORF5, che mostra una sostanziale diversità genetica. Sembra che la variazione di PRRSV sia guidata
dall’accumulo di mutazioni e ricombinazioni casuali. Rowland et al. (1999) e Chang et al. (2002) dimostrarono entrambi una mutazione di PRRSV in vivo in suini infettati in utero
e seguiti per 132 giorni, nonché in passaggi sequenziali da suino a suino. È interessante notare che la frequenza di variazione riportata in questi esperimenti fu dell’1% o meno. In ultimo, Kapur et al. (1996) e Murtaugh et al. (1997) dopo aver
confrontato la sequenza di ORF2 e 7 di numerosi isolati, suggerirono che la ricombinazione intragenica contribuisce ad
una variazione genetica relativamente rapida fra PRRSV, con
l’eccezione di ORF6. Ciò nonostante, Yuan et al. (1999) e Murtaugh et al. (2002a) produssero PRRSV ricombinante in vitro
ma non in vivo, quando le cellule di MA104 vennero infettate
con due ceppi differenti di PRRSV, suggerendo che quella ricombinazione non dovrebbe essere molto comune nel campo.
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