antropologia biblica e counseling pastorale

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ANTROPOLOGIA BIBLICA
E COUNSELING PASTORALE
La questione morale
sul senso del vivere umanamente
Barbara Marchica*
La grande domanda esistenziale che ci accompagna per tutta la vita e che investe prima o poi la coscienza di ogni uomo e di ogni donna, adolescente, giovane, adulto, anziano è proprio quella legata al
senso del vivere umano, al senso delle cose che ci succedono, cose
piacevoli e cose spiacevoli, cose che accadono e cosa previste. Che
senso ha per me? Cosa dice a me quell’evento, quell’incontro, quella
situazione?
La domanda di senso rimanda inevitabilmente alla domanda sul
perché, e in particolare perché a me. La nostra cultura ci ha educato a
ricercare razionalmente sempre una spiegazione oggettiva della realtà, ma la stessa realtà si ribella alla regola della razionalizzazione, non
svelando in prima battuta quel significato tanto ricercato e ambito
dalla mente umana. Le famose idee chiare e distinte rimandano al nostro falso bisogno di controllare la realtà, di controllare gli altri e soprattutto noi stessi. Falso perché resta solo un’idea quella di controllare, un giudizio mentale che ci dà una sorta di virtuale sicurezza nei
confronti della vita stessa. L’esperienza del vivere umano, invece, ci
mette di fronte sia alla fragilità e vulnerabilità dell’esistenza e delle
relazioni interpersonali, sia alla meraviglia e stupore della vita stessa e
delle sue dinamiche con l’ambiente e le persone. Ecco perché non si
* PhD student at the Theological Faculty of Triveneto (Padua).
Professional and Pastoral Counselor.
Estudiante de doctorado en la Facultad de Teología del Triveneto (Padua).
Consejero Profesional y Pastoral.
StMor 54/1 (2016) 107-119
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può controllare l’imprevedibilità dell’esistenza umana, ma solo vivendola passo per passo si può diventare consapevoli della propria
realtà per gestire quel qui e ora, che svela il senso stesso della realtà tra
passato vissuto e futuro atteso.
Sullo sfondo di questa riflessione esistenziale, anche la coscienza
credente pone le sue domande sul senso del vivere ed è chiamata in
causa dagli eventi che succedono; senso che rimanda alla domanda
esistenziale per eccellenza «chi sono io?», perché per potere dare un
senso alla realtà che vivo in prima battuta sono chiamato a rispondere alla domanda su di me. Alla luce di questa premessa, vorrei riflettere con voi sul rapporto – tesi che vorrei verificare – offerto dall’antropologia biblica (1) da una parte e dalla relazione pastorale d’aiuto
dall’altra (2), per poi soffermarmi sull’interazione che le due possono
offrire in una collaborazione sinergica. Difatti entrambe, la riflessione biblica e il pastoral counseling, sembrano occuparsi proprio del senso che la realtà offre al soggetto nel suo vivere e relazionare. Naturalmente, non ho la pretesa di esaurire un discorso così ampio e complesso, semplicemente offrire alcuni spunti di riflessioni sul difficile e
affascinante compito del vivere umano che la coscienza credente vive:
tematica assai cara alla Sacra scrittura e al pastoral counselor nel suo
servizio ecclesiale.
1. La ricerca del senso esistenziale offerto dall’antropologia biblica-teologica
In questo paragrafo vorrei mettere in evidenza sinteticamente alcuni pilastri centrali offerti dal pensiero biblico, utili per comprendere il messaggio esistenziale sotteso all’antropologia cristiana1. È ne-
1
Cf. AA.VV., Un invito alla teologia, Glossa, Milano 1998, 163-179; F. G.
BRAMBILLA, Antropologia Teologica, Chi è l’uomo perché te ne curi?, Queriniana,
Brescia 2005; G. COLZANI, Antropologia cristiana. Il dono e la responsabilità, Edizioni Piemme, Casale Monferrato (AL) 1991; P. GIUSTINIANI, In compagnia dell’uomo. Appunti di antropologia, Edizioni Paoline, Roma 1988; O. H. PESCH, Li-
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cessario partire dal concetto chiave di creazione, ossia dalla dinamica
esistenziale che condiziona la relazione tra l’uomo e Dio. La peculiarità della rivelazione ebraico-cristiana sta appunto nel fatto che non è
l’uomo a cercare di dare senso alla sua esistenza, ma tale senso gli viene offerto proprio nella relazione filiale che Dio vuole istaurare con
l’uomo, aspetto che emerge fin dalle prime battute del testo di genesi. Il cuore dell’antropologia biblica è offerto dal mistero della Grazia, che manifesta un Dio misericordioso e desideroso di creare un’alleanza positiva con l’umanità, alleanza che trova il suo massimo apice
nella persona di Gesù Cristo. Pertanto, l’antropologia cristiana non
può essere ridotta a una serie di contenuti, ma va rintracciata proprio
nella stessa relazione che si crea tra l’uomo e Dio («Rimanete nel mio
amore» Gv 15, 1-17).
Se Dio non ha bisogno del mondo e dell’uomo per esistere, quale
sarà il motivo di tale creazione? Come diceva già Ireneo di Lione2
(130-220), vescovo e teologo romano, la gloria di Dio è l’uomo vivente stesso, ossia la creazione rappresenta la potenza della benevolenza di Dio che lo contraddistingue nel Dio presentato da Gesù. La
fede cristiana, partendo proprio dalla creazione del mondo, attesta
che l’esistere umano trova il suo pieno significato proprio nell’atto
creatore di Dio.
La cultura moderna disgiungerà il tema dell’origine, alienando il
fatto dell’esistere dal suo significato, riducendo il medesimo significato dell’esistenza solo alla libertà umana e consegnando esclusivamente all’indagine scientifica l’origine del mondo. In tal modo, l’esistere diventa un problema nel momento in cui si toglie il suo fondamento ontologico, ossia il suo senso ultimo.
La creazione dell’uomo attorno al tema dell’immagine e somiglianza di Dio indica l’apertura dell’uomo a Dio stesso e la comunioberi per grazia. Antropologia teologica, Queriniana, Brescia 1986; cf. due articoli di
K. RAHNER, Anthropologie (Theologische) e Anthropozentrik in Lexikon für Theologie und Kirche, I, Herder, Freiburg 1957, 618-627 e 632-634; L. SERENTHÀ, Uomo dal punto di vista teologico, in Dizionario Teologico Interdisciplinare, Elledici, Torino 1977, 523-556.
2 Cf. IRENEO DI LIONE, Contro le eresie, Città Nuova, Roma 2009.
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ne in Lui. Tutta la tradizione cristiana dirà dell’uomo come persona
«capace di Dio», capace di relazione con il Signore dell’Esistere nella libertà dei figli di Dio. Il tema della libertà umana, strettamente
connesso al significato dell’esistere, ci mette di fronte ad un’apparente contraddizione: come mai l’uomo è dotato di libero arbitrio, pur
non decidendo di nascere né di morire? Il rischio di ridurre la libertà
esclusivamente sul versante della responsabilità del soggetto, non ci
permette di cogliere il messaggio biblico che tale libertà sottolinea,
ossia che per comprendere appieno la libertà è necessario ritornare al
fondamento dell’esistere umano per coglierne il suo significato essenziale: la libertà umana di una creatura ad immagine di Dio. Di
conseguenza, essa trova il suo senso proprio nella relazione tra l’uomo e Dio. La libertà diventa non un diritto acquisito, ma l’atteggiamento del credente nel convertirsi e decidersi per il Bene. Allora, sull’esempio di Gesù, la libertà trova i contorni di quell’amore agapico,
di quell’amore che dona tutto se stesso, di quell’amore che sceglie di
perdersi per ritrovarsi.
L’identità offerta da Dio ad ogni uomo e ogni donna rischia di essere minacciata dalla rottura del peccato. Tutta la tradizione cristiana
– ma anche le tradizioni religiose autentiche o le filosofie di vita – insiste sulla pericolosità del peccato che come autodeterminazione del
soggetto, nei suoi tratti egocentrici ed edonistici, dimentica il rapporto stretto tra creatura e Creatore, portando la persona in una sorta di autoreferenzialità dannosa per il soggetto stesso. Il peccato rappresenta l’esperienza di non-amore che si vive nei confronti di Dio,
degli altri e di noi stessi. La dinamica del non-amore, tipica della nostra natura umana, rischia di essere pericolosa in primis per lo stesso
soggetto, portandolo all’autodistruzione di sé perché bloccato nel
guscio dell’egoismo. La Scrittura afferma che il peccato appare radicalmente presente nella persona, indipendentemente dalle sue scelte
personali. Difatti, Agostino tematizzerà il tema del cosiddetto peccato originale, già presente nella Bibbia (Gb 14, 4; Sal 51, 7; Rm 5, 12).
Per poter cogliere davvero il senso del peccato originale diventa fondamentale raccordarlo non alla storia umana (Adamo), bensì alla grazia che salva (Cristo). Si tratta di collocare il peccato (personale e originale), senza banalizzarlo, nel quadro della speranza offerta da Cri-
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sto. Tutta la Scrittura è un ricordare che l’ultima parola spetta a Dio
e al Dio presentato da Gesù Cristo.
Ecco il tema centrale che sorregge tutta l’antropologia biblica: la
grazia, cioè l’iniziativa libera di Dio, capace di trasformare intimamente l’uomo per renderlo a sua volta capace di corrispondergli. In
questo atto di grazia, che ha i tratti della riconciliazione e della misericordia oltre misura, la persona vive l’esperienza della santificazione,
ossia della trasformazione della propria vita in linea con il Dio tre
volte Santo (Col 1, 22):
[…] l’esperienza della grazia deve fondarsi su una retta fede e cioè nel
dono dello Spirito, nella presenza di Dio stesso a noi: certo non può
essere esperienza di Dio in se stesso ma di quella «vita spirituale» attorno a cu viene radunata e organizzata l’esperienza del mondo. In
forza della grazia il credente impara a guardare a Dio come Padre, a
vedere in ogni uomo un fratello e a riorganizzare l’aggressività del desiderio e l’adeguarsi agli schemi sociali attorno alla libertà interiore.
In questo l’esperienza della grazia incontra e valorizza lo sforzo
umano di vivere e di dare significato al mondo e alla storia: realizza
un’esperienza di vita che porta a maturità la libertà umana orientandola a Dio3.
Tutta l’azione salvifica di Dio si esprime nella categoria evangelica
del Regno di Dio, venuto a prendersi cura dei malati, ossia di tutta l’umanità peccatrice, che si incontra e scontra con la dinamica del nonamore (Mc 2, 17); azione salvifica che trova la sua massima espressione in Cristo morto e risorto per noi. Il senso ultimo della salvezza
proposta da Dio, pertanto, chiama il credente ad essere riconciliato
con Lui per essere al suo servizio; ecco per il cristiano un nuovo ethos,
ossia la vita secondo lo Spirito. Vita che offre al credente di scoprire
la verità ultima di se stesso, all’interno della dinamica del dono dello
Spirito, che rimanda all’immagine cristocentrica dell’uomo. La fede
in Cristo Gesù, quindi, offre alla persona di intravvedere il senso del
3
COLZANI, Antropologia cristiana, 31.
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proprio esistere: fare esperienza della propria identità, dotata di storia
(hic et nunc) e di libertà (scelgo dunque sono).
Ultimo aspetto che desidero richiamare in questo breve excursus
antropologico è legato all’azione dell’uomo nuovo, ossia del credente
che vive secondo lo Spirito, come sottolineano le lettere paoline. A
sostegno di tale cammino, le virtù teologali rappresentano la bussola
che orienta il credente. Evitando di ridurre le virtù ad una sorta di
perfezionismo spirituale o una sorta di abitudine consolidata, vorrei
richiamare qui il carattere prezioso delle virtù: esse mobilitano il credente a rispondere (responsabilità) del proprio agire davanti a Dio,
instradando la libertà umana alla fedeltà nella grazia di Cristo. Ecco
perché mi sembra utile sottolineare come le virtù vadano collocate in
relazione alla vita di grazia e non alla legge. Le virtù ci ricordano che
esiste un appello di Dio (chiamata) e una risposta dell’uomo (responsabilità). Ci vuole coraggio a decidersi per Cristo, che rappresenta il
modello di ogni virtù. Tutta la Scrittura documenta l’importanza delle virtù teologali: fede, speranza, carità (1Cor 13, 13; 1Ts 1, 3; Gal 5,
5-6; Col 1, 4-5). Proprio perché la vita di fede è un continuo trasformare se stessi attraverso la sequela Cristi, chiede al soggetto di scegliere (libertà) nel proprio presente, ossia di assumersi la propria responsabilità e il proprio impegno a favore del Vangelo. Il sì della persona
a Cristo rappresenta l’escatologia, cioè quella pienezza di vita che dà
senso all’essere e al fare. Il cosiddetto compimento escatologico indica che tutta la storia è orientata verso un telos che trova in Cristo il
suo culmine. La presenza di Gesù nella storia anticipa la vicinanza di
Dio all’uomo nella logica della misericordia e della grazia. E tutto ciò
genera quella “promessa”, che indica un già e non ancora, capace di
muovere nell’uomo quella speranza, in grado a sua volta di leggere e
interpretare la presenza di Dio nella storia personale e cosmica. Così
la fede in Cristo genera affidamento al Signore dell’Esistere, desiderio di contribuire al Bene e impegno individuale e comunitario.
Alla luce di questa panoramica, offerta dall’antropologia biblica,
emerge un soggetto alla ricerca di un senso del vivere (Perché esisto?);
senso che trova il suo significato proprio tornando al fondamento ontologico dell’esistere: l’Assoluto. Essendo la persona protagonista
della sua vita, e non semplice spettatore, è fondamentale rispettare il
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gioco delle libertà, anche davanti al compimento escatologico che
non annulla la persona nella sua dinamica di libertà umana, ma la
rende partecipe della pienezza di Cristo. Dunque, possiamo affermare che il cristianesimo non aggiunge nulla all’umano, anzi porta a
compimento quell’umanesimo, proprio nella comunione con il Risorto, offrendo così il senso ultimo dell’esistere e le istruzione su come vivere e relazionare in modo squisitamente cristiano.
2. La ricerca del senso esistenziale offerto
dal Counseling pastorale
In questo secondo paragrafo vorrei soffermarmi con voi sulla pratica ecclesiale offerta dal pastoral counseling in relazione alla domanda
esistenziale sul senso del vivere. Purtroppo, una traduzione italiana
pertinente che renda l’idea del termine inglese «counseling» non esiste.
Il sostantivo counseling deriva dal verbo inglese to counsel, che risale
a sua volta dal verbo latino consulere, traducibile in consultare, consigliare, confortare. La traduzione italiana di counseling con il termine «consulenza» è discutibile in quanto un altro termine, consulting, ha in inglese il medesimo significato. Anche la traduzione con il sostantivo
«consiglio» diventa problematica, perché c’è differenza tra il consigliare/suggerire e l’attività di counseling che si svolge con un esperto.
Difatti, mentre la prima può avvenire all’interno di una qualsiasi relazione paritaria, l’attività di counseling è finalizzata a rendere la persona maggiormente consapevole di sé e delle sue scelte. Ecco perché, in
generale, si preferisce utilizzare il termine inglese «counseling», senza forzare la traduzione in italiano che non riesce a trovare un termine appropriato per dire tale relazione d’aiuto4.
Il termine che più si avvicina all’idea di counseling pastorale è quello offerto dall’espressione «relazione d’aiuto pastorale», proprio perché tale ministero ecclesiale si pone come accompagnamento della
4
B. MARCHICA, Teologia Morale e Counseling Pastorale, Edizioni Messaggero,
Padova 2014, 16.
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persona credente – laica o consacrata – all’interno di una condivisa
antropologia biblica-teologica.
In generale, il counselor si occupa di problemi contestualmente circoscritti (famiglia, lavoro, scuola), legati al qui e ora del cliente. La
relazione d’aiuto alla persona, non essendo un lavoro terapeutico come quello svolto da psicologi e psicoterapeuti, prevede tempi, metodi e obiettivi differenti dall’attività clinica.
Per quanto riguarda la specificità del pastoral counseling, vorrei brevemente provare a rispondere a tre domande cruciali: Qual è lo scopo del pastoral counseling? Chi è il pastoral counselor? A chi si rivolge
l’attività del pastoral counseling?
Senza esaurire in poche battute un tema assai ampio e inedito per
l’Italia e per la Chiesa italiana, possiamo affermare che scopo dell’attività del counseling pastorale è aiutare la persona a riscoprire e potenziare la sua dimensione interiore per vivere e relazionare alla luce
della visione cristiana; il counselor pastorale può essere laico, religioso
o sacerdote, competente in ambito teologico e biblico e competente
nelle cosiddette abilità della relazione d’aiuto (empatia, capacità di
ascolto, comunicazione efficace, tecniche e pratiche del counseling…).
L’attività di counseling si rivolge a tutte le persone – laiche o consacrate, giovani o adulti – desiderose di acquisire una maggior consapevolezza di se stessi e delle loro scelte, all’interno di una condivisa visione di fede cristiana.
L’obiettivo, pertanto, di un incontro di counseling – individuale o attraverso il lavoro di gruppo – è quello di sostenere la persona credente nel suo presente, armonizzando le sue scelte esistenziali e relazionali alla luce del Vangelo per potenziare sempre di più l’unificazione della persona nel suo rapporto tra vita e fede, tra azione e valori.
L’attività di counseling pastorale – consolidata ed attiva ormai da
decenni nella realtà ecclesiale americana ed europea, inedita invece
per l’Italia5 – si pone in un continuum con la direzione spirituale e il
sacramento della riconciliazione, all’interno di una sinergia offerta
5
Cf. Cenni storici del pastoral counseling in MARCHICA, Teologia morale e Counseling Pastorale, 14.
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dai differenti ministeri ecclesiali, pronti a sostenere e accompagnare
la coscienza credente nel suo percorso di vita e di fede6.
Dopo questa sintetica descrizione sulla figura della relazione
d’aiuto pastorale, mi interessa comprendere in quale misura essa offra al soggetto credente quel percorso identitario tale per cui, recuperando e riappropriandosi della propria soggettività (coscienza), il
soggetto (Io) è in grado di fare esperienza di sé (chi sono) all’interno
della dinamica offerta dal Vangelo (fede).
Come già accennato, scopo dell’attività del counseling è sostenere e
accompagnare la persona nel suo percorso di consapevolezza e autoconsapevolezza nel qui e ora. Per fare ciò il counselor può condurre la
persona a fare esperienza di sé mediante due passaggi centrali: la conoscenza di sé e l’accettazione di sé. La conoscenza di sé, di cui già gli
antichi parlavano, non è tanto una consapevolezza intellettualistica,
ossia mentale, bensì un fare esperienza di sé, recuperando la visione
olistica della persona umana che si manifesta in mente, corpo e anima. Il motto «conosci te stesso» ha i tratti di una conoscenza che il
soggetto fa esperendo se stesso attraverso il corpo, luogo teologico
per eccellenza dove il soggetto incontra se stesso e incontra l’altro;
luogo dove vive, sceglie, soffre e ama. La persona fa esperienza di sé,
grazie alla connessione che crea con il proprio corpo, la propria mente e la propria anima. Crea così un’auto-connessione con sé.
L’accettazione, secondo passaggio fondamentale, non è mai rassegnazione, bensì trasformazione di sé. Non posso conoscere se non
accetto e se non accetto non posso conoscere. L’accettazione ha i
tratti della consapevolezza del reale (dello storico personale e comunitario) che permette al soggetto di essere ben radicato nel suo presente reale, evitando i due estremi pericolosi: astrattismo o idealismo
da una parte e materialismo o edonismo dall’altra.
6
Per ulteriori approfondimenti: A. BRUSCO, Il counseling pastorale, in Evangelizzare, Marzo 2011, 410-415; B. MARCHICA, Teologia morale e Counseling Pastorale, 21-28; A. MONTANARI, La «relazione di aiuto»: un confronto con la tradizione cristiana antica, in G. MAZZOCATO (ed), Scienze della psiche e libertà dello spirito. Counseling, relazione di aiuto e accompagnamento, Edizioni Messaggero, Padova 2009.
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Solo la relazione tra questi due momenti, la conoscenza di sé e
l’accettazione di sé, offrono la strada per la consapevolezza del soggetto. Tale relazione è possibile all’interno di una qualità centrale che
va sotto il nome di benevolenza. Come diceva già il noto teologo Romano Guardini:
C’è sapere solo dove c’è amore. Dell’uomo non c’è alcuna conoscenza
fredda. Né alcuna conoscenza nella violenza. Bensì solo in quella magnanimità e libertà che si chiama amore. Ma l’amore ha inizio in Dio:
nel fatto ch’Egli mi ama e che io divengo capace di amarlo; e che Gli
sono grato per il suo primo dono che m’ha fatto, ossia: me stesso7.
Interessante la riflessione di Guardini che sostiene appunto che il
primo dono che Dio offre alla sua creatura è proprio data dalla singolarità del soggetto, l’essere se stessi, che non è individualismo, ma riconoscimento e valorizzazione della propria unicità, della propria individualità come dono di Dio.
L’essere se stessi diventa il compito più impegnativo per il soggetto, compito che investe l’agire e la libertà. La domanda esistenziale
chi sono io? cessa di suscitare inquietudini nel momento in cui sospendo il tentativo razionale di spiegare me stesso a partire dai presupposti socio-culturali-biologici, perché qui la domanda su di me ha i tratti di una questione ontologica. In altre parole, possiamo dire che non
posso spiegare me stesso razionalmente, bensì posso solo accettarmi
attraverso quel processo di conoscenza di me che chiede a me stesso
il coraggio di impegnare la mia libertà, ossia di mettermi in gioco, diventando così protagonista del mio esistere.
Esistere che mi mette di fronte al fatto decisivo, cioè che alla radice della mia esistenza non sta una decisione personale, bensì sta
Qualcuno che ha dato me a me stesso, ossia Dio8. Ritornando così al
principio dell’atto creatore di Dio, ritorniamo al motivo centrale e
peculiare del senso dell’esistere: il disegno biblico di benevolenza,
grazia e salvezza che Dio ha pensato per ogni uomo e ogni donna.
7
8
R. GUARDINI, Accettare se stessi, Morcelliana, Roma 1992, 30.
GUARDINI, Accettare se stessi, 13.
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Alla luce della benevolenza elargita da Dio, posso sviluppare benevolenza verso me stesso, e quindi favorire il percorso di conoscenza
di me, accettando anche quelle parti di me che non mi piacciono, nella logica del miglioramento che la stessa accettazione permette; posso sviluppare benevolenza verso gli altri, imparando ad accettare e rispettare la sacralità di chi mi sta di fronte, testimoniando l’amore incondizionato di Dio.
Tutto questo è possibile proprio perché in primis faccio esperienza
dell’amore agapico di Dio, di quell’amore che tutto copre e supporta,
di quell’amore talmente misericordioso da offrirmi l’unificazione interiore, favorendo in tal modo quel processo identificativo che mi
permette di conoscermi e di accettarmi, di diventare consapevole della mia realtà per agire responsabilmente alla luce del Vangelo.
L’attività di counseling pastorale, pertanto, favorisce quella consapevolezza (mente-corpo-anima) utile alla coscienza credente per scegliere in maniera coerente e autentica tra dinamiche esistenziali-psicologiche e valori religiosi.
3. Il rapporto edificante tra antropologia biblica
e counseling pastorale
In sintesi, abbiamo cercato di rintracciare, prima nell’antropologia
biblica e poi nella pratica della relazione d’aiuto pastorale, quel nesso
esistenziale che muove entrambe nell’accompagnare, istruire e sostenere la coscienza credente nel difficile compito del vivere e relazionare con se stessi, gli altri e Dio.
L’antropologia biblica offre quella struttura fondamentale per
comprendere l’umano alla luce della Parola, mentre il counseling, attento alla dimensione pastorale, ossia alla pratica della fede, offre
quella prassi che permette di vivere ed esperire quell’antropologia
rintracciata e consegnata dalla Bibbia. Intuiamo l’importanza di una
sinergia tra antropologia biblica e pratica pastorale, tra teoria e prassi, tra vita e fede.
Per evitare la dicotomia del soggetto, auspicando invece la sua
piena unificazione in Cristo, è necessario accompagnare il credente
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nel suo percorso di conoscenza e accettazione di sé alla luce del Vangelo (counseling pastorale) per vivere e trasformare se stessi alla luce
della fede (antropologia biblica). Pur nella differenza sostanziale delle due, entrambe – lo studio dell’antropologia biblica e la pratica
d’aiuto pastorale – sembrano poter collaborare in maniera edificante
nel cammino del credente, offrendo così una buona conoscenza dell’umano (chi sono), che trova il suo compimento di verità nell’antropologia teologica offerta dalla Sacra Scrittura (perché esito). Attraverso la consapevolezza di sé, la coscienza risponde in maniera personale e autentica all’appello di Dio, che in forza della propria singolarità (espressa dall’originalità del proprio nome) chiede al soggetto di
collaborare attivamente al Regno di Dio, scegliendo di assumersi la
responsabilità del proprio agire davanti agli altri e a Dio stesso.
Infine, il compito del vivere umano resta un tema complesso e difficile, che chiede al soggetto una continua riflessione davanti al
dramma della vita che, – come descrive molto bene la Bibbia – è fatto di conflitti relazionali e presenza del male nella storia. Certi però
della presenza benevola e salvifica di Dio nella propria storia e nella
storia del mondo, possiamo osare camminare nella fede in Gesù Cristo, che istruisce e accompagna la coscienza a mettere in pratica il
monito evangelico per eccellenza: «convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1, 15), ricordando a cosa siamo chiamati «perché la mia gioia
sia con voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15, 11).
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SUMMARIES
The moral question on the sense of living calls into question both the study of
biblical anthropology and the practice of pastoral counseling (pastoral relationship help) to support and instruct the believing conscience. Despite the difference of the two, both – the biblical anthropology and pastoral counseling –
seem to be working synergistically and in an uplifting way in the path of faith,
offering to consciousness a good theological knowledge that reveals how
Christianity does not add anything to humanism, but brings it to fulfillment, respecting the human freedom and the commitment of the subject.
***
El problema moral sobre el sentido de la vida, implica tanto el estudio de la antropología bíblica como la práctica de la consejería pastoral, cuando se trata
de formar e instruir la conciencia del creyente. Pese a su diferencia fundamental, parece que la antropología bíblica y la consejería pastoral pueden
contribuir de manera sinérgica y laudable en el camino de la fe, ofreciendo así
a la conciencia un buen conocimiento teológico que muestra cómo el cristianismo no añade nada al humanismo, sino que lo lleva a realizarse en el respeto de la libertad humana y del compromiso del individuo.
***
La questione morale sul senso del vivere chiama in causa sia lo studio dell’antropologia biblica sia la pratica del pastoral counseling (relazione d’aiuto pastorale) nel sostenere ed istruire la coscienza credente. Pur nella differenza sostanziale delle due, entrambe – l’antropologia biblica e il pastoral counseling –
sembrano poter collaborare in maniera sinergica ed edificante nel cammino
credente, offrendo così alla coscienza una buona conoscenza teologica che
svela come il cristianesimo non aggiunga nulla all’umanesimo, bensì lo porti a
compimento, nel rispetto della libertà umana e dell’impegno del soggetto.
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