Materiale ad uso degli studenti Corso di Filosofia dell

Libera Università Maria Santissima Assunta
Dipartimento di Scienze Umane
Cattedra di Filosofia dell’educazione
prof. Cosimo Costa
Materiale ad uso degli studenti
Corso di Filosofia dell’educazione (M-PED/01), CFU 9; 8.
Valido per i corsi di laurea in
Educatori dell’infanzia e dell’integrazione sociale (ex Scienze
dell'educazione e della formazione - L19) e Scienze della formazione
primaria (LM85bis).
Anno accademico 2013-2014
1
PROGRAMMA
Obiettivi formativi
Sensibilizzare alla comprensione dell’agire educativo e alle sue leggi specifiche. Introdurre
alla lettura di pagine significative di grandi autori che, vissuti in differenti epoche storiche, hanno
affrontato problematiche di rilevante significatività per la comprensione del costruirsi dell’umano
nell’uomo.
Contenuti del corso
Analisi dei dinamismi di sviluppo della soggettività, delle dinamiche dell’agire libero e delle
particolari esigenze educative relative alle differenti potenzialità umane. Introduzione alla lettura di
pagine significative di grandi autori del mondo classico e del mondo contemporaneo che hanno
affrontato i temi di cui sopra. Approccio educativo alla realtà dell’agire interiore. Problematiche
circa l’inserimento qualificato nella convivenza. L’amore come forza cosmica. Educazione alla
capacità di amare.
Testi
I testi rispecchiano la suddivisione del corso in due parti; bisognerà studiare rispettivamente,
per la parte istituzionale (A):
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•
•
•
Introduzione metodologica al corso, a cura di C. Costa (di seguito nel presente file);
E. Ducci, Antologia di saggi scelti. Un percorso di filosofia dell'educazione. La riflessione
di Edda Ducci tramite i suoi scritti, a cura di C. Costa (sulla pagina web del docente);
Platone, Apologia di Socrate, qualsiasi edizione (con breve sintesi orientativa e indicazione
di lettura nel presente file);
Platone, Repubblica, 514a-521b - “Mito della caverna”- testo consigliato: Il mito della
caverna, a cura di C. Sini, Edizioni AlboVersorio, Milano 2012 (con breve sintesi
orientativa e indicazione di lettura nel presente file).
per la parte di approfondimento (B):
• Passi scelti sull’amore di alcuni autori dell’umano (si trovano di seguito nel presente file)
• Platone, Simposio 201d-212c / 213b4-222b7, seminario di approfondimento (indicazioni di
studio di seguito nel presente file)
• Sant’Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, Città Nuova, Roma 2005 (i trattati scelti
si trovano di seguito nel presente file)
1. Tema Il discepolo amato: Tr. 1: 4, 5; Tr. 18: 1; Tr. 36: 1; Tr. 61: 4, 5; Tr. 119: 2; Tr.
124: 1, 2, 3, 4, 5; De Consensu Evangelistarum 1, 4.7.
2. Tema L’umiltà dell’amore: Tr. 55: 1, 2, 6, 7; Tr. 56: 4, 5; Tr. 57: 1, 2, 3, 4, 5; Tr. 58: 2,
3, 4, 5; Tr. 59: 1, 2, 3.
• Ortega y Gasset, Saggi sull’amore, SugarCo, Milano 1994 (tutto).
Descrizione della verifica di profitto
Esame finale orale: per tutti, frequentanti e non frequentanti.
Attenzione
A disposizione degli studenti interessati ci sarà a fine corso un CD con tutte le lezioni registrate. Per
informazioni e relativi accordi sul CD, contattare direttamente la libreria caffè Barumba: p.zza delle
Vaschette 15 – 00193 Roma; Tel. 06/45497439 email: [email protected]
2
INTRODUZIONE METODOLOGICA AL CORSO
Iter di svolgimento del corso
Il corso è suddiviso in due parti: una parte istituzionale e una con tematiche di
approfondimento.
Nella prima parte ci fermeremo a riflettere su due aspetti:
1. contesto storico “contemporaneo” della filosofia dell’educazione tramite “Filosofia
dell’educazione. Riflessioni Storico Epistemologiche”; per meglio avvicinarsi al dibattito
che si sta svolgendo in questi anni: determinare una filosofia dell'educazione che sappia
cogliere con coerenza i termini dialettici di un sapere pedagogico che riscuota la propria
autonomia ed, insieme, uno stretto rapporto “interdisciplinare” con le altre scienze
dell'educazione;
2. taglio ducciano alla filosofia dell’educazione mediante l’antologia “Antologia di saggi scelti.
Un percorso di filosofia dell'educazione. La riflessione di Edda Ducci tramite i suoi scritti”.
Inoltre, sarà tramite la nostra Autrice che introdurremo, con originalità e fine sensibilità
educativa, la lettura degli auctores scelti per la seconda parte del corso. La Ducci ha
insegnato per più decenni in questa Università, ed ha dato vita ad un modo originale e tutto
suo di intendere la filosofia dell’educazione. Da lei possiamo attingere un metodo di ricerca
che non ci fa fermare sul già acquisito, ma invoglia a proseguire senza soste nel cammino di
scoperta dell’uomo e della sua educabilità.
Nella seconda parte analizzeremo, attraverso la guida esperta di grandi scandagliatori
dell’umano del passato e più vicini a noi (si veda nel presente file la strutturazione del corso con i
passi scelti degli autori analizzati), i dinamismi profondi che compaginano il costruirsi dell’umano
nell’uomo – le capacità / energie-forze che gli permettono il perfezionamento nel suo divenire.
Criteri di scelta dei testi
Perché i classici?
In una cultura come l’odierna in cui l’uomo tende a vivere solo di presente ed a confrontarsi
solo con l’utile immediato, il rischio di dimenticare il passato da cui viene e di chiudersi alle
prospettive del futuro, diventa sempre più necessario soffermarsi su pagine tra le più belle e sofferte
che la riflessione umana ci offre per dirci qualcosa sul senso dell’uomo e della sua educabilità. Sono
pagine, queste, che hanno attraversato i secoli e oggi si presentano con una attualità sconcertante.
Perché i contemporanei?
Per poter fare una analisi obbiettiva e critica della situazione vissuta dall’uomo di oggi.
Infatti, è tramite gli auctores del mondo moderno che possiamo filtrare e interpretare la perdita dei
principi e dei valori che dovrebbero caratterizzare il giusto uomo e il giusto cittadino. Se quanto
viviamo attualmente, non fosse analizzato tramite il valido aiuto di tali autori potremmo facilmente
cadere in emotive considerazioni, che di certo non aiuterebbero l’uomo “malato” del nostro tempo.
Una necessaria premessa
E’ naturale nutrire aspettative, in maniera più o meno cosciente, ogni qualvolta si dà inizio
ad un nuovo percorso di riflessione. Per questo motivo vedo l’opportunità di chiarire quale è il
guadagno che se ne può ricavare nello specifico e a quali condizioni.
Il corso non mira a garantire saperi pronti all’uso. Ha a che fare con il problema
dell’educabilità umana, non per prescrivere regole che mettono al sicuro l’efficacia dell’azione, ma
per mettere in luce la bellezza, la possibilità e la necessità di educare, e nello stesso tempo la
3
faticosità, il limite, la problematicità. Per acquisire la consapevolezza non basta lo studio ma
occorre essere esistenzialmente coinvolti per capire i complessi dinamismi del divenire umano.
L’atteggiamento con cui si ascolta e si devono leggere gli autori proposti richiede
determinate condizioni. Un’utile raccomandazione circa tali atteggiamenti la offre Nietzsche (F.
Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole, Adelfi, Milano 2006).
Sull’ascolto l’autore scrive:
“[Il mio desiderio, anzi il mio presupposto è] di stare qui in un rapporto spirituale con ascoltatori, i
quali hanno riflettuto sui problemi dell’educazione e della cultura nella stessa misura in cui hanno
l’intenzione di favorire con i fatti ciò che hanno riconosciuto come giusto. E’ solo da tali
ascoltatori che io riuscirò a farmi comprendere […] se in genere essi hanno bisogno , non già di
essere ammaestrati, bensì soltanto di essere stimolati a ricordare”(Sull’avvenire delle nostre
scuole, p.4).
Sulla lettura:
“il lettore da cui mi attendo qualcosa deve avere tre qualità: dev’essere calmo e leggere senza
fretta, non deve far intervenire ogni volta la sua persona e la sua ‘cultura’, e non ha diritto di
attendersi da ultimo – quasi come risultato – dei prospetti” (Sull’avvenire delle nostre scuole,.p. 9).
“Non aver fretta”
“questo libro è destinato a lettori tranquilli, a uomini che ancora non sono trascinati dalla fretta
vertiginosa della nostra epoca, e che ancora non provano un piacere idolatra nell’essere pestati
dalle sue ruote! Costoro peraltro non possono abituarsi a stabilire il valore di ogni cosa in base al
risparmio o alla perdita di tempo; costoro ‘hanno ancora tempo’: a loro è ancora permesso
raccogliere e scegliere , senza dover rimproverare se stessi, le ore buone della giornata e i loro
momenti fecondi e vigorosi, per riflettere sul futuro della nostra cultura. Costoro possono anche
pensare di aver trascorso la loro giornata in un modo veramente profittevole e degno, cioè nella
meditatio generis futuri. Un tale uomo non ha ancora disimparato a pensare quando legge, conosce
ancora il segreto di leggere tra le righe, anzi ha una natura così prodiga, di riflettere ancora su ciò
che ha letto, forse molto tempo dopo di aver deposto il libro. E tutto ciò non per scrivere una
recensione o un altro libro, ma semplicemente per riflettere” (Sull’avvenire delle nostre scuole, p.
9-10).
“Non far intervenire sempre la propria cultura”
“La terza e più importante esigenza consiste infine nel non far intervenire di continuo, alla
maniera dell’uomo moderno, se stesso e la propria cultura, quasi come una sicura misura e un
criterio di tutte le cose. Noi desideriamo piuttosto che egli sia abbastanza colto, da poter valutare
assai poco la propria cultura, anzi da poterla disprezzare. In tal casa egli potrebbe certo
abbandonarsi con la massima fiducia alla guida dell’autore, il quale ardirebbe parlargli
fondandosi unicamente sulla propria ignoranza e sulla coscienza di tale ignoranza. L’autore non
pretende di possedere null’altro se non un sentimento infiammato per l’elemento specifico per la
nostra attuale barbarie tedesca, per ciò che ci differenzia così notevolmente dai barbari di altre
epoche, come barbari del diciannovesimo secolo” (Sull’avvenire delle nostre scuole, 10-11).
4
A.
SINTESI ORIENTATIVA PER LA PARTE ISTITUZIONALE
1.
FILOSOFIA DELL’EDUCAZIONE.
RIFLESSIONI STORICO EPISTEMOLOGICHE.
a cura di Cosimo Costa
La filosofia dell’educazione come insegnamento accademico
legge 19 novembre 1990, n. 341, recante la Riforma degli Ordinamenti didattici
Universitari.
• Aspetti pedagogici e culturali nello studio della Filosofia dell’educazione
• Una disciplina nasce per ragioni interne al sapere di cui fa parte, oppure per ragioni esterne.
• Un'ulteriore motivazione: coscienza che un lavoro in ambito educativo non è fatto solo di
attività.
“Molto [...] in educazione è già il non fare; cioè il non contrariare alla natura [dell'educando];
molto l'adoperarsi perché nessuna cosa la contrari. Ma non basta. Si deve, subito dopo, aiutarla”.
1. 1
•
(Lambruschini R., Della educazione, p. 70)
•
1.2
•
•
•
•
•
•
•
L'educatore: che cosa significa realmente «educare» una persona? Per quali finalità la si
educa? Chi è l'educatore? Può un uomo assumere la responsabilità di «formare» un altro
uomo? In nome di quale concetto di uomo, di quale idea di società e di quale progetto per il
futuro ha senso impegnarsi nella formazione?
Percorsi storici: l’identità della filosofia dell’educazione.
Il secolo in cui nasce la filosofia dell’educazione: l’attivismo.
A partire dalla fine del XIX sec.: movimento pedagogico internazionale
1899  Adolphe Ferrière (1879-1960)  Bureau Internationale des Écoles Nouvelles
(Ufficio Internazionale delle Scuole Nuove)
1921  Congresso di Calais (in Francia)  Ligue Internationale pour l’Éducation Nouvelle
 documento dei Trenta Punti
In questo stesso periodo presenza del forte sviluppo delle scienze umane, in particolare della
psicologia e della sociologia.
Franco Cambi: due aspetti della ricostruzione storica: il primo si riferisce al rapporto tra
educazione e ideologia; il secondo riguarda la filosofia.
È in questo complesso e articolato contesto della pedagogia del Novecento che maturano le
condizioni per la nascita della «filosofia dell'educazione».
Dewey J. e la filosofia dell’educazione: sintesi di teoria e prassi
• La realtà come esperienza e il ruolo del pensiero
"Un'oncia di esperienza è meglio che una tonnellata di teoria, semplicemente perché è soltanto
nell'esperienza che una teoria può avere un significato vitale e verificabile”. (Dewey J., Democrazia e
1.3
educazione, p. 194)
5
 «interazione»  rapporto strettissimo e inseparabile tra elementi opposti: soggetto-oggetto,
pensiero-azione, teoria-prassi, che vengono trasformati reciprocamente dal loro stesso
rapportarsi.
 «filosofia dell'educazione», quale elemento teorico che si rapporta - ovvero si confronta e si
verifica - con la pratica, cioè con l'educazione.
 La filosofia come «teoria generale dell'educazione».
"La filosofia è un tentativo di comprendere, cioè di raccogliere insieme i vari particolari del mondo
e della vita in un singolo tutto inclusivo, che o sarà un'unità, o, come nel sistema dualistico, ridurrà
i particolari multipli a un piccolo numero di principi ultimi.”. (J. Dewey, Esperienza e educazione, p. 384)
"Infatti la filosofia non possiede una bacchetta magica con la quale dar vita di punto in bianco ai
valori che costruisce intellettualmente. Nelle arti meccaniche, le scienze diventano metodi per
riorganizzare le cose in modo da utilizzare le loro energie per scopi riconosciuti. Per mezzo delle
arti dell'educazione la filosofia può dar vita a metodi atti a utilizzare le energie di esseri umani
conforme alle concezioni serie e riflessive della vita. L'educazione è il laboratorio nel quale le
distinzioni filosofiche diventano concrete e vengono saggiate”. (Ibid., p. 389)
“La «filosofia dell'educazione» non è un'applicazione esterna di idee già pronte ad un compito
pratico che ha origine e scopo radicalmente diversi; non è che la cosciente formulazione dei
problemi inerenti alla formazione di abitudini mentali e morali giuste, rispetto alle difficoltà della
vita sociale contemporanea”. (Ibid., pp. 390-391)
1.4
•

1.
2.
3.
Gentile e l’identificazione della pedagogia con la filosofia.
Il primato dell'unità e dello svolgimento dello spirito. La concezione dell'individuo e della
filosofia.
tre punti nodali del suo pensiero:
la realtà intesa come «spirito»,
l'uomo inteso come manifestazione «individuale» dello spirito,
la filosofia intesa come «scienza dello spirito».
"Esso [cioè lo spirito] né fu in principio, né sarà alla fine, perché non è mai: diviene. Il suo essere
consiste appunto nel suo divenire, che non può avere né un antecedente né un conseguente, senza
cessare di essere. Ora, questa realtà, che non è né principio né fine di un processo, ma, appunto,
processo, non si può concepire come unità che non sia molteplicità; perché come tale non sarebbe
svolgimento, cioè non sarebbe spirito. La molteplicità è necessaria alla stessa concretezza, alla
stessa realtà dialettica dell'unità. E la sua infinità, che è l'attributo essenziale dell'unità, non è
negata, anzi è confermata o, per meglio dire, si realizza attraverso la molteplicità: la quale ne è
infatti il dispiegamento lungo il cammino in cui l'unità si attua" . (Gentile G., Teoria generale dello spirito
come atto puro, IV, § 4, p. 42)
"Io penso, e pensando realizzo un individuo che è universale, ed è perciò tutto quello che
dev'essere, assolutamente: oltre il quale, fuori del quale non si può cercare altro". (Gentile G., Teoria
generale dello spirito come atto puro, VIII, § 16)
"Quando si sia capito che non c'è psicologia che non sia etica, né etica che non sia psicologia, che
non c'è fatto che non sia l'instaurazione d'un valore, né causa che non sia posta dall'effetto, né
natura che non si spiritualizzi, né necessità che non sia la stessa assoluta autodeterminazione dello
spirito. Allora non c'è più una psicologia e un'etica tra cui scegliere: c'è la filosofia, e s'impone il
concetto che la pedagogia è la filosofia". (Ibid., II, § 10, p. 119)
6
"Ora questo distinguersi intimo della filosofia nel suo svolgimento non è (...) un atto sui generis,
che intervenga ai fastigi supremi dell'esercizio scientifico del pensiero; esso è il ritmo eterno dello
spirito, quale può osservarsi anche nelle forme della nostra vita intcriore che si dicono più
elementari. È il distinguersi stesso che costituisce l'essenza del pensiero: coscienza di sé, onde il
soggetto si oggettiva a se stesso, ed ha perciò coscienza di sé in quanto ha coscienza di qualche
cosa, che è egli stesso". (Ibid., § 7, p. 9)
1.5
•
•
•
•
•
•
Banfi: il problema filosofico e la filosofia dell'educazione.
Concetto di «problematicità»
Il principio «trascendentale» della conoscenza
L'uso «critico» della ragione, ossia l'atteggiamento non dogmatico della filosofia.
Compito della ragione: elaborare una visione non metafisica ma funzionale della realtà.
Filosofia dell'educazione: ricavare la legge unitaria che domina la struttura del piano
educativo, che unifica, in una viva dialettica, attraverso un illimitabile processo.
L'approccio metodologico: fenomenologico.
1.6
Bertin: l’esperienza filosofica della realtà e la filosofia dell'educazione.
"La filosofia dell'educazione, orientata ad un'analisi dell'esperienza educativa in grado di
coglierne le differenti forme strutturali indipendentemente da presupposti e valutazioni particolari,
risponde all'esigenza puramente teoretica della comprensione della esperienza suddetta sul piano
universale delle linee che ne regolano il dinamismo trascendentale. La pedagogia, orientata ad
un'impostazione educativa concreta e determinata, frutto di una scelta e adattata ad una situazione,
risponde all'esigenza propriamente pragmatica di determinare precisi obbiettivi educativi e
corrispondenti metodologie in rapporto a concreti problemi sociali e culturali, insorgenti da un
particolare momento storico; ed è da essi caratterizzata nel senso della problematicità. Tale
impostazione distingue perciò l'universalità della prospettiva filosofica dell'educazione di carattere
problematico - fenomenologico dalla pluralità di tipici sistemi pedagogici”. (Bertin G. M., Introduzione
al problematicismo pedagogico, pp. 61-62)
1.7
Una domanda: Quale filosofia per l’educazione?
“L'espressione «visione generale e complessiva» quale compito della filosofia dell'educazione può
trarre in inganno […] la filosofia dell'educazione è una soltanto delle scienze pedagogiche, ma il
suo compito non l'assolve rovistando tra i materiali delle altre scienze, per manipolarli
ulteriormente senza ricorrere più all'esperienza. La filosofia dell'educazione, proprio limitando il
suo ambito, riesce a essere originale e insostituibile, a illuminare zone umane, che restano
ostinatamente chiuse dinanzi a tentativi conoscitivi di diversa natura”. (F. De Bartolomeis, La pedagogia
come scienza, pp. 38-42)
(Per chi volesse approfondire, il materiale della parte sopra trattata è stato estratto dal testo
di Daniele Loro, Filosofia dell’educazione. Lineamenti per una riflessione epistemologica,
Libreria Universitaria Editrice, Verona 1998, pp. 11-20; 77-120)
7
2.
UN PERCORSO DI FILOSOFIA DELL’EDUCAZIONE.
a cura di Cosimo Costa
2.1
Un rapporto unico: filosofia dell’educazione e filosofia morale
• L’essere umano è caratterizzato dal bisogno di educazione.
> il problema educativo si impone ed esige una risposta da tutti, perché è il problema
dell’uomo nei confronti di se stesso.
> Due atteggiamenti per affrontare la questione:
1. ufficialmente,
2. realmente.
• Cosa si intende per filosofia morale?
> Filosofia morale come riflessione, speculazione sull’agire, sulle azioni per essere giuste,
orientate al bene.
• La filosofia dell’educazione ne individua le strade per la loro operatività e ne traccia le
direzioni.
• Paideia.
• Anthropine sophia (Apologia, 20d).
 Tre accezioni al sapere socratico:
1. dire l’umano
2. misura umana
3. esperire interiore.
2.2
Filosofia poietica
• Erlebnis = esperienza-vita.
 Filosofia poietica: pensare attento sull’uomo per riconoscere e indicare il cammino del
suo umanarsi, servendosi di una vera esperienza umana.
> Derivano tre elementi caratterizzanti il percorso della filosofia dell’educazione:
1. attenzione sull’uomo,
2. esperienza umana,
3. concreto umanarsi.
2.3
•

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
Uno statuto: l’educabilità
Potenziale del singolo  «L’educabilità umana rappresenta il nucleo vivo dell’umano
concreto». (E. Ducci, Educabilita’ umana e formazione, pp. 25-44)
Nucleo vivo.
Umano concreto.
La forza del potenziale.
Poteri individuali e natura relazionale.
La sinergia.
Dimensione spirituale dell’educabilità.
Natura complessa dell’educabilità.
Interrogativi inevitabili.
L’origine e la direzione del potenziale.
Contrasto diritto / dovere dell’educazione.
Accordo tra irrepetibilità del singolo e leggi della convivenza.
8
2.4
Il se dell’educazione
• La forza del «se».
 Il se nel rapporto interpersonale e nella comunicazione.
2.5
Gli strumenti
• Strumentazione soggettiva: sensibilità particolarmente sviluppata per la realtà di cui si
occupa.
 Due esempi di strumentazione soggettiva: Platone: Teeteto (172c - 173c) e Crizia (120e 121c).
2.6
•





2.7
Possibili strane inclusioni
Prendersi primamente cura di ciò che rende umani.
Il termine formazione fa intravedere il più misterioso e ambiguo degli abissi
Privilegiare in paideuo nel senso di nutrire
L’uomo non è autosufficiente nel conseguire la piena realizzazione del proprio essere
Di che si nutre l’anima? Di conoscenze, di insegnamenti!
Il problema riguarda ora l’individuazione dei bisogni dell’anima
Una forma di comunicazione
• Comunicazione > Sapere e Potere
 Comunicante
(Per la parte appena trattata, Un percorso di filosofia dell’educazione, si veda sulla pagina web
del docente: E. Ducci, Antologia di saggi scelti. Un percorso di filosofia dell'educazione. La
riflessione di Edda Ducci tramite i suoi scritti, a cura di C. Costa)
9
3.
PLATONE, APOLOGIA DI SOCRATE
Sintesi orientativa e indicazione di lettura
Accuse


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


Antiche: rende forti le ragioni deboli e deboli le ragioni forti 18 b6, 19 b-c; istruisce dietro
compenso 19 d-e
Recenti: Socrate corrompe i giovani 23 d; introduce nuove e diverse divinità 24 c
Anthropine sophia
… mi sono procurato questo nome per una certa sapienza … quella che viene considerata
sapienza umana … rischia di essere saggio in questa. L’altra non la conosce 20d-e
Dialogo
ha consacrato il dialogo come modo di pensare e di dire l’educativo
Educazione
hanno parlato (gli accusatori antichi) in quella età nella quale più facile è essere convinti 18c
Ignoranza
non presume: quel che non sa, sa di non saperlo 20c – 21b-d
Interesse
non prende soldi dallo svolgimento della missione19d-e
Ironia
sotto la spinta del loro abile parlare, giunsi per un poco a dimenticarmi di me stesso 17a
Legge
alla legge occorre dare ascolto e ci si deve difendere 19a
Maieutica
 Metodo
non si rapporta alla massa anonima ma a uno a uno
 Missione
il “dio” gli impone di render coscienti gli uomini che la sapienza umana sull’uomo è poca e
quasi niente
 Morte
non teme la morte ma soltanto di commettere ingiustizia 30b-c
Nutrimento dell’anima
 Opinione
le antiche sono più terribili, perché hanno tentato di persuadere e accusare molti di loro senza
dire nulla di vero, fin da quando erano fanciulli
 Parola – valore
abuso del potere della parola - intento di persuadere dicendo il falso 17a-d
 Presunzione
aveva la fama di essere sapiente per molti altri e in particolar modo per se stesso, ma in realtà
non lo era 21c
 Scienza
non disprezza la scienza ma non è interessato 19c-d
 Tempo
difficile difendersi in poco tempo 19a
 Verbi
si serve dell’interrogare ogni uomo nell’intento di condurlo alla testimonianza interiore:
Interrogare, indagare, confutare, esaminare, incoraggiare, esortare, mostrare, manifestare, far
conoscere, rivelare, risvegliare, far alzare, destare, rinfacciare, rimproverare, far vergognare,
incitare, provocare, persuadere, convincere, indurre.
10
4.
PLATONE, MITO DELLA CAVERNA
Sintesi orientativa e indicazione di lettura
Nel mito emerge in tutte le sue componenti strutturali la paideia platonica.
Platone, infatti, incastona questa proposta educativa in un visione ampia e unitaria.
La sua paideia si inserisce
in una precisa ontologia (problema dell'uno e dei molti, gradi dell'essere, partecipazione, mimesi),
in una gnoseologia (gradi e modi di conoscere),
nella politica (specificata da una dimensione etica forte).
Documento di eccezione e insolito, problematico ma bello ed efficace
La lettura che ci interessa è fatta dal punto di vista pedagogico - teoretico, angolatura che ci
consente di:
cogliere i passaggi dialettici del processo educativo;
di collocare la prospettiva paideica nella complessità del pensiero platonico: (trascrizione, in
termini pedagogici, del principio di partecipazione con il problema dell'uno e dei molti, del rapporto
tra universale - verità/bene - e particolare - la realtà tutta nelle sue differenti manifestazioni).
Diverse le interpretazioni pedagogiche che di questo mito sono state date.
Importante anche isolare gli aspetti contingenti e storici, e cercare di far emergere le linee
categoriale della paideia nella sua interiorità più profonda.
1. Stadio iniziale o stato pre-educativo
La condizione umana pre-educativa e la situazione di non verità dell'uomo
- E’ tratteggiata mediante la descrizione di una condizione esterna e di un modo di essere
interiore, conseguenza della condizione esterna 514a-b.
- Questa situazione ha avuto inizio fin dalla nascita.
- Se non ricevono la paideia rimarrà per tutta la vita 515b.
- Questo stato, che impedisce ai prigionieri di rendersi conto della loro situazione di nonverità e di disagio, adombra chiaramente una situazione interna, di cui i prigionieri
devengono coscienti solo dopo l’intervento di una forza esterna: Prima essi vedono solo
parvenze, paragonabile a ombre per la loro consistenza fenomenica.
- Di se stesso e degli altri il prigioniero ha solo una conoscenza fenomenica ed estrinseca; il
suo dialogare riflette tale ristrettezza 515a-b.
- “Il soggetto umano, pertanto, sia nel rapporto interiore con se stesso, sia nel suo inserimento
sociale e nel suo inserimento cosmico, si esaurirà in una realtà fittizia, in essa incentrerà il
suo impegno e ad essa si applicherà con tutto il pathos di cui è capace”. L’uomo rischia di
disperdere la sua esistenza nel finito, finendo con il farsi strutturare da essa.
- L’inizio della formazione umana non può realizzarsi in maniera spontanea, ma necessità di
una forza esterna al soggetto.
2. Passaggi dialettici del processo educativo
-
-
La coartazione della realtà esterna e della ignoranza interiore in cui si trova il prigioniero
esigono una scossa, un essere posti in uno stato di disagio interiore per accorgersene
dell’una e dell’altra; 515c.
La prima coartazione gli impediscono di voltarsi con tutta l’anima verso l’ideale
trascendente, ma non viene avvertita nella sua natura di legame perché l’occhio dell’anima è
impedito dall’ignoranza.
11
-
-
La forza che può scuotere il soggetto è esterna rispetto al soggetto stesso, ma deve essere
capace di penetrare nelle profonde strutture del suo animo ed avere una efficace
risonanza nella sua interiorità, risvegliare nell’uomo il dubbio che insegna a inquietarsi per
se stessi.
La scossa deve avere proporzioni e caratteristiche proprie per ciascun uomo – passaggio dal
plurale al singolare. Ha un fine completo e totale: indurre il singolo a porsi in uno stato
opposto al precedente = passare dalla considerazione del non essere alla contemplazione
dell’essere.
 Anankazoito 515c6 costringere
Oggetto e fine di tale costrizione > passaggio dalla prima alla seconda (liberante)
 Sforzo > dialettica naturale ma faticosa;
entrambi, educatore ed educando devono essere attivi;
perché esige sforzo;
passaggio da passività ad attività,
lo sforzo è solo iniziale
 I verbi attivi, di movimento
Si potrebbero forse intendersi come le quattro categorie originarie dell’atto educativo
nella puntualità del suo dinamismo. I quattro verbi sono concatenati tra di loro da un
profondo nesso logico, tutti derivanti dall’anankazo.
1. anistasthai > alzarsi
Passaggio da uno stato di riposo o di una o di visione spontanea, ad uno stato di attività
Uscire dalla pseudo-attivita > distacco dalle ombre
2. periaghein > girare la testa
Cambiare mentalità, il suo modo di considerare la realtà e il suo inserimento in essa
Esige l’avvenuto cambiamento nell’educatore
Situazione di rischio
3. badizein > camminare
Avvicinamento graduale all’oggetto
Con tutta la persona
4. anablepein > levare lo sguardo
Momento conclusivo
Sguardo sinottico
 Insoddisfazione e disagio 515c
Sofferenza per l’abbaglio
Incredulità per la difficoltà a distinguere
Processo graduale di adattamento dell’occhio
Sguardo sinottico
Contenuto del parlare dei compagni
Derisione e persecuzione
- di duplice natura:
o da prima rispetto alla realtà che permane – risolto positivamente
o in seguito rispetto alla fenomenicità del mondo sensibile – rimane problematico
515c, 515e, 518a-b;
- il rapporto educativo si inscrive in una situazione di rischio
12
 La presenza dell’organo
- la possibilità di operare mediante mozione interiore è in funzione della presenza di un
organo che ha come oggetto suo proprio l’essere
- Il voltarsi con tutta l’anima, lento e doloroso, fino al movimento totale, è condizionato ed
esigito da questa capacità insita nell’animo umano. La scossa provocata dall’educatore non è
da paragonarsi all’immissione di contenuto, ma all’attuarsi di una capacità.
- Naturalità di questa paideia; non spontaneità per la necessità di una scossa.
 L'esistenza di un oggetto
- Verità / Bene atto a soddisfare questa capacità infinita
- La possibilità di rapportarsi in maniera assoluta presuppone qualcosa di assoluto a cui
rapportarsi; simboleggiata dal sole nel suo essere causa delle cose, delle stagioni e delle
ombre stesse della caverna
- Intrecci: singoli / universale – consistenza e valore dei particolari
- Nessun disprezzo del particolare ma esigenza dei molti di rapportarsi all’uno.
- Dialettica educativa > esigenza metafisica e possibilità di libertà originaria; rapporto
assoluto all’Assoluto e momento esistenziale / totalità del soggetto e totalità dell’oggetto
58**
- scossa provocata da una forza che attinga l'interiorità dell'altro

-
Segnavie > categorie
Capacità insita in ogni soggetto di rapportarsi in maniera assoluta
Necessità di una relazione interpersonale
Problema: porre queste categorie a servizio della temporalità
13
B.
SINTESI ORIENTATIVA PER LA PARTE DI APPROFONDIMENTO
Si può inquadrare l’amore come un rapporto che non annulla ma rinforza le realtà individuali tra
cui avviene: per cui è reciproco, concreto, umano, finito; è unione ma mai unità e ha molte forme
determinate irriducibili. Ma l’amore può anche essere visto come unità assoluta o infinita,
fenomeno cosmico o natura fondamentale del Principio Primo o Realtà Suprema; le vicende umane
vengono così ritenute importanti solo in quanto infinitizzate, poiché in quanto umane sono destinate
allo scacco. L’amore che educa l’uomo nel rapporto, è la grande valenza che unisce le prospettive
appena dette.
Di seguito si troveranno secondo un ordine temporale, alcuni passi scelti di autori dell’umano. Tra
gli aforismi si incontreranno le indicazioni di studio per i testi ufficiali del programma: Platone e il
suo Simposio, secondo lo svolgimento avuto nel seminario di approfondimento del corso, Trattati
scelti di Agostino e brevissimi indicazioni di lettura del testo Sull’amore, di Ortega. Quindi,
l’ordine temporale, dai presocratici ai nostri giorni, vuole evidenziare significati e condizionamenti
attribuiti al concetto di amore durante il trascorrere del tempo.
I PRESOCRATICI
Secondo Aristotele (Met. I, 4, 984b 25 e segg.), Esiodo e Parmenide furono i primi a suggerire che
l’Amore è la forza che muove le cose e le porta e le mantiene insieme. Empedocle riconobbe poi
nell’Amore la forza che tiene uniti i quattro elementi e nella discordia la forza che li separa: il regno
dell’Amore è lo sfero, la fase culminante del ciclo cosmico, nella quale tutti gli elementi sono legati
nella più completa armonia, in questa fase non c’è altro che un tutto uniforme, una divinità che gode
della sua solitudine (Fr. 27, Diels).
ESIODO
Dunque, per primo fu Caos, e poi
Gaia dall’ampio petto, sede sicura per sempre di tutti
gli immortali che tengono la vetta nevosa d’Olimpo
e Tartaro nebbioso nei recessi della terra dalle ampie strade,
poi Eros, il più bello fra gli immortali,
che rompe le membra, e di tutti gli dèi e di tutti gli uomini
doma nel petto il cuore e il saggio consiglio1.
PARMENIDE
Primo di tutti gli dei essa creò l’Amore2.
1
Teogonia, vv. 116-199,
In I Presocratici. Testimonianze e frammenti, vol. I, Editori Laterza, Bari 2002, pp. 278 - 279. Fr. 13.
[Aristotele, metaph. A4. 984b 23] Qualcuno potrebbe dire che tale causa l’ha ricercata per primo Esiodo, e
chiunque altro abbia posto tra gli enti l’amore o il desiderio come principi, così come fa anche Parmenide.
Questi infatti, delineando la genesi del tutto: «Primo – disse - … di tutti». Plutarco, amat. 13, p. 756 F.
Perciò Parmenide dichiara l’Amore la prima delle opere di Afrodite, scrivendo nella cosmogonia:
«Primo…». Simplicio, phys. 35, 18 [dopo B 12, 3]. E questa anche dice causa degli dei, con queste parole:
«Primo … » e che spinge le anime talora dal visibile all’invisibile, talora all’inverso.
2
14
Penso che per ben commentare l’amore nel pensiero di Parmenide, sia utile riportare il passo
seguente della Metafisica di Aristotele.
«Si potrebbe supporre che Esiodo abbia ricercato per primo tale <causa>, anche se qualcun
altro pose negli enti l’amore o il desiderio come principio: per esempio, anche Parmenide.
Questi, infatti, disegnando la generazione del tutto disse «come primo fra tutti gli dei, <la
dea> ebbe in mente amore», ed Esiodo «da principio fra tutti <gli dei> venne all’essere caos,
poi di seguito la terra dall’ampio seno, e amore, il quale risplende fra tutti gli immortali», in
base alla convinzione che negli enti debba sussistere una qualche causa che muoverà e
adunerà le cose»3.
ALLEGATO ai Presocratici
Le maschere di Eros
a) Taluni dicono che Eros, uscito dall’uovo cosmico, fu il primo degli dei, perché senza di lui
nessuno degli altri sarebbe potuto nascere; sostengono dunque che egli fu coevo della Madre Terra
e del Tartaro, e negano che egli avesse un padre e una madre, a meno che non fosse sua madre la
dea della nascita, Ilizia;
b) altri dicono che egli nacque da Afrodite e da Ermete, o da Ares o dal padre stesso di Afrodite,
Zeus, oppure che fosse figlio di Iris e del Vento dell’Ovest. Eros era un fanciullo ribelle, che non
rispettava né l’età né la condizione altrui, ma svolazzava con le sue ali d’oro scoccando frecce a
caso e infiammando i cuori con le sue terribili frecce.
(da R. Graves, I miti greci, fr. 15, Nascita di Eros, Milano, Longanesi, 1983, p. 48)
PLATONE
La giusta maniera di procedere da sé o di essere condotti da un altro nelle cose d’amore è questa:
prendendo le mosse dalle cose belle di quaggiù, al fine di raggiungere il Bello, salire sempre di più,
come procedendo per gradini, da un solo corpo bello a due, e da tutti i corpi belli alle belle attività
umane, e da queste alle belle conoscenze, e dalle conoscenze procedere fino a che non si pervenga
a quella conoscenza che è conoscenza di null’altro se non del Bello stesso, e così, giungendo al
termine, conoscere ciò che è il bello in sé.
(Da Platone, Simposio, 211 b-c.)
Il seminario di approfondimento sull’amore in Platone ha seguito lo schema che segue.
Testo scelto: Platone, Simposio, qualsiasi edizione, 201d -212c / 213b4 - 222b7.
Il Simposio o sull’amore
Analisi di alcuni brani del Simposio utili per una lettura sollecitata ed attenta ai problemi
dell’educativo, enucleati dall’interrogativo socratico : “chi sa cosa rende migliore l’uomo e il
cittadino?”
3
Aristotele, Metafisica, libro I, 984b 24-30.
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Sintesi introduttiva sul dialogo: Eros e il concetto di Bello (174 a8):
“mi sono fatto così bello, per andare bello da uno che è bello”.
Riferimenti ai discorsi di Fedro:
concetto di Eros come dio
importanza socio politica di Eros
concetto di amante e amato
superiorità dell’amante rispetto all’amato
Pausania:
due forme di Eros, volgare e celeste
Eros celeste per crescere in virtù e sapienza
Erissimaco:
dimensione cosmica dell’Eros e i vari piani della realtà in cui si manifesta Eros come
espressione di sanità, bellezza, positività e armonia
Agatone:
Eros come dio felice bello e buono
Eros sottrae dalla tirannia di Ananche (necessità)
Connotazioni di Eros : giustizia, fortezza e sapienza
Eros secondo Socrate
Demone mediatore
messaggio di Socrate espresso mediante la sacerdotessa Diotima
Iniziazione ai misteri delle cose d’amore
Il mito di Penia e Poros
Natura di Eros e sua forza
Eros come tendenza a procreare nel Bello e aspirazione all’immortalità
Eros come atto di fecondazione reciproca per esprimere il meglio di sé
Paideia, concetto di educazione platonica, come atto di amore
Discorso di Alcibiade
Eros e Verità: eros come via per raggiungere la propria originalità
Dall’amore dei corpi alla contemplazione della bellezza in sé
Il capovolgimento dei ruoli dell’amante e dell’amato
ARISTOTELE
Amore e amicizia
E i giovani poi sono portati all’amore erotico: infatti la maggior parte di tale amore avviene
secondo la passione e a causa del piacere: perciò essi amano e rapidamente smettono, mutando
sentimento più volte nello stesso giorno. Ed essi vorrebbero passare tutto il giorno insieme e fare
vita in comune: infatti sorge per essi ciò che è conforme all’amicizia. L’amicizia perfetta è quella
dei buoni e dei simili nella virtù. Costoro infatti si vogliono bene reciprocamente in quanto sono
buoni, e sono buoni di per sé; e coloro che vogliono bene agli amici proprio per gli amici stessi
sono gli autentici amici (infatti essi sono tali di per sé stessi e non accidentalmente); e quindi la
loro amicizia dura finché essi sono buoni, e la virtù è qualcosa di stabile; e ciascuno è buono sia in
senso assoluto sia per l’amico.
(Da Aristotele, Etica Nicomachea, libro VIII, 5b 1-13.)
16
CRISTIANESIMO
SAN MATTEO
Ama il tuo nemico
Avete udito che fu detto: «Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico». Ma io vi dico: «Amate i
vostri nemici e pregate per i vostri persecutori affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il
quale fa sorgere il suo sole sopra i cattivi e sopra i buoni e manda la sua pioggia sopra i giusti e
sopra gli ingiusti. Che se voi amate soltanto quelli che vi amano, quale ricompensa ne avrete? Non
fanno forse lo stesso anche i pubblicani? E se salutate soltanto i vostri fratelli che fate di
straordinario? Non fanno forse lo stesso anche i pagani? Voi dunque siate perfetti come è perfetto
il vostro Padre che è nei cieli».
(Da San Matteo, 5, w. 43-8.)
SAN PAOLO
Il primato della carità
Se parlo le lingue degli uomini e quelle degli angeli, ma non la carità, sono un bronzo che risuona
ed un cembalo che tinnisce. E se ho la profezia e conosco tutti i misteri e tutta la scienza, e se ho
intera la fede da spostare le montagne, ma non ho la carità, nulla io sono. E se uso per sfamare
tutte le mie proprietà, se consegno il mio corpo per essere bruciato, e non ho la carità, nulla mi
giova. La carità è generosa, la carità è servizievole, non è ambiziosa; la carità non si vanta, non è
tronfia, non si comporta indecorosamente, non cerca il proprio tornaconto, non si irrita, non si
considera il male, non gioisce nell’ingiustizia ma gioisce della verità. Tutto sostiene, tutto crede,
tutto spera, tutto sopporta... Ora permangono fede, speranza, carità, tutt’e tre; ma più grande di
tutte è la carità.
(Da San Paolo, Lettera I ai Corinti, 13, w 1-13.)
AGOSTINO
Agostino - Amore e piacere
Se sono i corpi a piacerti tu ringraziane Dio e raddrizza il tuo amore rivolgendolo al loro artefice:
evita che nel tuo piacere sia tu a spiacere. Se a piacerti sono le anime, amale in Dio, perché anche
loro sono mutevoli e in lui si fissano e sono fatte stabili: altrimenti se ne andrebbero a morire. Tu
dunque amale in lui e strappale con te verso di lui, più numerose che puoi e di’ loro: «Lui, Lui
bisogna amare: Lui ha fatto tutto questo, e non è lontano. Non se ne è andato dopo averle fatte, ma
vengono da Lui e in Lui sussistono».
(Da Sant’Agostino, Confessioni, libro IV, vv. 12-8.)
17
Dal libro di Sant’Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, Città Nuova, Roma 2005, si
sono scelti due temi, affrontati tramite i trattati (o omelie) che seguono.
1. Tema: Il discepolo amato
Tr. 61, 4  Il discepolo era Giovanni, autore di questo Vangelo
4. Ora uno dei suoi discepoli, quello che Gesù amava, era adagiato a mensa sul seno di Gesù. Cosa
intenda l'evangelista per seno, lo precisa più avanti, dicendo: sul petto di Gesù. Il discepolo era
Giovanni, autore di questo Vangelo, come esplicitamente vien detto più tardi (cf Io 21,20-24). Era
costume di quelli che ci hanno trasmesso le sacre Lettere, quando qualcuno di loro narrava la storia
divina cui egli stesso aveva preso parte, parlare di sé in terza persona, inserendosi nel contesto della
narrazione come storico anziché come apologista di se stesso. Così fa san Matteo che, giunto nel
testo della sua narrazione a parlare di sé, dice: Gesù vide, seduto al banco della dogana, un certo
pubblicano, di nome Matteo, e gli dice: Seguimi (Mt 9, 9). Non scrive: Mi vide e mi disse. Così fa
anche il beato Mosè, che nell'intera sua opera parla di sé in terza persona, scrivendo: Il Signore
disse a Mosè (Es 6, 1). E così fa, in maniera ancora più insolita, l'apostolo Paolo, non nella parte
storica, in cui spiega i fatti che narra, ma nelle sue lettere. Parlando di se stesso egli dice: So di un
uomo in Cristo, il quale quattordici anni fa - se col corpo o fuori del corpo non so, Iddio lo sa - fu
rapito al terzo cielo (2 Cor 12, 2). Ora, se anche qui il beato evangelista non dice: Io ero adagiato a
mensa nel seno di Gesù, ma dice: uno dei suoi discepoli era adagiato a mensa (Gv 13, 23), anziché
meravigliarci, teniamo conto del costume dei nostri autori. Si nuoce forse alla verità se, nel
raccontare un fatto veramente accaduto, si evita la vanagloria nel modo di raccontarlo? Ciò che egli
raccontava, infatti, tornava a sua massima lode.
Tr. 61, 5  È dal cuore di Cristo che si attinge la sapienza
5. Ma che vuol dire: quello che Gesù amava? Come se Gesù non amasse gli altri, di cui pure il
medesimo Giovanni ha detto: li amò sino alla fine (Gv 13, 1). E il Signore stesso dice: Nessuno ha
maggior amore di questo: che dia la sua vita per i suoi amici (Gv 15, 13). E chi potrebbe citare
tutte le testimonianze delle pagine divine, in cui si dimostra che il Signore Gesù ama non soltanto
Giovanni e i discepoli che allora erano con lui, ma anche tutte le future membra del suo corpo, cioè
tutta la sua Chiesa? Piuttosto qui c'è qualcosa che non risulta chiaro, ed è il seno nel quale era
adagiato colui che ha scritto queste cose. Che s'intende per seno, se non una cosa intima e segreta?
C'è però un altro passo che si presta meglio per dire, con l'aiuto del Signore, qualcosa di più intorno
a questo segreto.
Tr. 18,1  Attingeva i segreti più profondi dall'intimo del suo cuore
1. L'evangelista Giovanni, tra i suoi compagni e colleghi Evangelisti, ha ricevuto dal Signore - sul
cui petto stava appoggiato nell'ultima cena (cf. Io 13, 25), a significare con ciò che attingeva i
segreti più profondi dall'intimo del suo cuore - il dono precipuo e singolare di annunciare intorno al
Figlio di Dio verità capaci di stimolare le intelligenze dei semplici, forse attente ma non ancora
preparate a riceverle pienamente. Alle menti alquanto mature e che interiormente hanno raggiunto
una certa età adulta, con le sue parole egli offre uno stimolo e un nutrimento.
18
Tr. 119, 2  Gesù nutriva per Giovanni un affetto tutto particolare
2. C'è qui un insegnamento morale. Egli stesso [Gesù] fa ciò che ordina di fare, e, come maestro
buono, col suo esempio insegna ai suoi che ogni buon figlio deve aver cura dei suoi genitori. Il
legno della croce al quale erano state confitte le membra del morente, diventò la cattedra del
maestro che insegna. E' da questa sana dottrina che l'Apostolo apprese ciò che insegnava, dicendo:
Se qualcuno non ha cura dei suoi, soprattutto di quelli di casa, costui ha rinnegato la fede ed è
peggiore di un infedele (1Tim 5, 8). Chi è più di casa dei genitori per i figli, o dei figli per i
genitori? Il maestro dei santi offrì personalmente l'esempio di questo salutare precetto, quando, non
come Dio ad una serva da lui creata e governata, ma come uomo alla madre che lo aveva messo al
mondo e che egli lasciava, provvide lasciando il discepolo quasi come un altro figlio che prendesse
il suo posto. Perché lo abbia fatto viene spiegato da ciò che segue. Infatti l'evangelista dice: e da
quel momento il discepolo la prese in casa sua. E' di sé che egli parla. Egli è solito designare se
stesso come il discepolo che Gesù amava. E' certo che Gesù voleva bene a tutti i suoi discepoli, ma
per Giovanni nutriva un affetto tutto particolare, tanto da permettergli di poggiare la testa sul suo
petto durante la cena (cf. Gv 13, 23), allo scopo, credo, di raccomandare a noi più efficacemente la
divina elevazione di questo Vangelo che egli avrebbe dovuto proclamare
De consensu Evangelistarum 1, 4.7
4.7 I tre primi evangelisti si sono diffusi a narrare di preferenza le cose compiute da Cristo
nell'ordine temporale mediante la sua carne umana. Giovanni al contrario si volge soprattutto alla
divinità del Signore per la quale egli è uguale al Padre. Questa divinità si propose d'inculcare con la
massima cura nel suo Vangelo, e vi si dedicò nella misura che ritenne sufficiente agli uomini.
Pertanto egli si leva molto più in alto che non gli altri tre. Ti par di vedere i tre primi quasi
trattenersi sulla terra con Cristo uomo, lui invece oltrepassare le nebbie che coprono la superficie
terrestre e raggiungere il cielo etereo, da dove con acutissima e saldissima penetrazione della mente
poté vedere il Verbo che era in principio, Dio da Dio, ad opera del quale tutte le cose furono fatte.
Lo osservò anche fatto carne per abitare in mezzo a noi, precisando che egli prese la carne, non che
si sia mutato in carne. Se l'incarnazione infatti non fosse avvenuta conservando il Verbo immutata
la sua divinità, non si sarebbe potuto dire: Io e il Padre siamo una cosa sola. Non sono infatti una
cosa sola il Padre e la carne. Ed è ancora lo stesso Giovanni che, unico fra gli evangelisti, ci riporta
questa testimonianza del Signore nei riguardi di se stesso: Chi ha visto me ha visto anche il Padre,
e: Io sono nel Padre e il Padre è in me, e: Che essi siano una cosa sola come io e tu siamo una cosa
sola, e: Tutto ciò che fa il Padre, questo stesso lo fa ugualmente i Figlio. Queste parole e le altre, se
ce ne sono, che designano a chi le capisce debitamente la divinità di Cristo nella quale è uguale al
Padre è Giovanni che, esclusivamente o quasi, le ha poste nel suo Vangelo. Egli aveva bevuto più
copiosamente e in certo qual modo più familiarmente il mistero della divinità di Cristo, attingendolo
dallo stesso petto del Signore sul quale nella cena gli fu consentito di reclinare il capo.
Tr. 36,1  Giovanni è paragonato all'aquila per la sua intelligenza delle cose spirituali
1. Fra i quattro Vangeli, o meglio fra i quattro libri dell'unico Vangelo, il santo apostolo Giovanni,
giustamente paragonato all'aquila per la sua intelligenza delle cose spirituali, più degli altri tre ha
elevato il suo annuncio ad altezze vertiginose, deciso a trascinare nel suo volo anche i nostri cuori.
Gli altri tre evangelisti, infatti, hanno seguito il Signore nella sua vita terrena considerandolo quasi
solo nel suo aspetto di uomo ed hanno detto poco della sua divinità; mentre questi, quasi sdegnasse
di camminare sulla terra - come subito ci appare dalle prime battute - di colpo si sollevò al di sopra
19
della terra e degli spazi celesti, al di sopra delle stesse schiere angeliche e di tutti gli ordini delle
potenze invisibili, e pervenne a colui per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose dicendo: In
principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Questo era in principio presso
Dio. E ancora: Tutto è stato fatto per mezzo di lui e niente senza di lui è stato fatto (Gv 1, 1-3). A
tale sublimità di esordio adeguò tutto il Vangelo, e come nessun altro parlò della divinità del
Signore. Con profusione comunicò ciò che aveva bevuto alla fonte. Non per nulla si dice di lui in
questo medesimo Vangelo che nell'ultima Cena stava appoggiato sul cuore del Signore (cf. Gv 13,
23): da quel cuore segretamente attinse e, ciò che segretamente aveva attinto, pubblicamente
proclamò, affinché fosse nota a tutti i popoli non solo l'incarnazione del Figlio di Dio, la sua
passione e risurrezione, ma altresì ciò che era prima dell'incarnazione: Unigenito del Padre, Verbo
del Padre, coeterno a colui che lo generò, uguale a colui che lo mandò, ma diventato inferiore nella
medesima missione affinché il Padre risultasse maggiore di lui.
Tr. 1, 4, 5 Giovanni è un monte
4. Quanto a coloro che hanno ricevuto la pace per annunciarla al popolo, essi hanno contemplato la
Sapienza stessa, per quanto almeno è concesso al cuore dell'uomo di raggiungere ciò che occhio
non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore di uomo. Ma se questa sapienza mai entrò in cuore
di uomo, come poté raggiungere il cuore di Giovanni?
Forse che Giovanni non era un uomo? Oppure diremo, non che la sapienza raggiunse il cuore di
Giovanni, ma che fu il cuore di Giovanni a raggiungerla? Ciò che infatti sale al cuore dell'uomo, è
più in basso rispetto all'uomo, mentre ciò a cui il cuore dell'uomo si eleva è all'uomo superiore.
Credo, o fratelli, che possiamo esprimerci anche in questo modo: che salì nel cuore di Giovanni, in
quanto egli stesso non era uomo. Ma che cosa vuol dire "non era un uomo"? In quanto, cioè, egli
aveva incominciato ad essere angelo; poiché tutti i santi sono angeli, in quanto sono messaggeri di
Dio.
5. Dunque, fratelli, uno di questi monti era Giovanni, quel Giovanni che proclamò: In principio era
il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Questo monte aveva accolto la pace,
contemplava la divinità del Verbo. Come era questo monte? Quanto alto? Superava tutte le vette
della terra, si elevava oltre ogni confine dello spazio, al di sopra di ogni stella più alta, al di sopra
dei cori e delle legioni degli angeli. Se non avesse superato ogni cosa creata, non sarebbe giunto
fino a colui per mezzo del quale tutte le cose furono fatte. [...]. Ora, se disse e furono fatte, è per
mezzo del Verbo che furono fatte; e se tutto fu fatto per mezzo del Verbo, la mente di Giovanni non
avrebbe potuto raggiungere quel vertiginoso mistero che egli rivela proclamando: In principio era il
Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio, se non si fosse elevato al di sopra di tutte le
cose che per mezzo del Verbo furono fatte. Di che genere è questo monte, quanto santo, quanto
elevato tra quei monti che accolsero la pace per il popolo di Dio, affinché i colli potessero ricevere
la giustizia?
Tr. 124, 1, 2  Voglio che rimanga finché io venga
1. Perché il Signore, quando si manifestò per la terza volta ai discepoli, disse all'apostolo Pietro: Tu
seguimi, mentre riferendosi all'apostolo Giovanni disse: Se voglio che lui rimanga finché io venga,
a te che importa? Non è una questione da poco. Al suo esame e, nella misura che il Signore ci
concede, alla sua soluzione dedichiamo l'ultimo discorso di questa nostra trattazione. Dopo aver
dunque predetto a Pietro con qual genere di morte avrebbe glorificato Dio, il Signore gli dice:
20
Seguimi. Pietro, voltatosi, vede venirgli appresso il discepolo che Gesù amava, quello che nella
cena si chinò sul suo petto e disse: Signore, chi è che ti tradisce? Pietro dunque vedendolo, dice a
Gesù: Signore, e lui? Gesù gli risponde: Se voglio che lui rimanga finché io venga, a te che
importa? Tu seguimi. Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto;
ma Gesù non gli disse: non muore, ma: se voglio che rimanga finché io venga, che t'importa (Gv
21, 19-23). Ecco in quali termini il Vangelo pone questa questione, la cui profondità impegna non
superficialmente la mente di chi la consideri. Perché a Pietro, e non agli altri che si trovavano
insieme con lui, il Signore dice: Seguimi? Senza dubbio anche gli altri discepoli lo seguivano come
maestro. Che se poi si dovesse intendere che Gesù volesse riferirsi al martirio, forse fu soltanto
Pietro a patire per la verità cristiana? Non c'era forse tra quei sette l'altro figlio di Zebedeo, il
fratello di Giovanni, che dopo l'ascensione del Signore fu ucciso da Erode (cf. At 12, 2)? Si potrà
osservare che, siccome Giacomo non fu crocifisso, giustamente soltanto a Pietro il Signore dice:
seguimi, in quanto egli ha affrontato non solo la morte, ma, come Cristo, la morte di croce.
Accettiamo questa interpretazione, se non è possibile trovarne una migliore. Ma perché, riferendosi
a Giovanni, il Signore dice: Se voglio che lui rimanga finché io venga, a te che importa? e poi
ripete: Tu seguimi, quasi non voleva che anche l'altro lo seguisse, in quanto voleva che restasse fino
al suo ritorno? Come interpretare queste parole in modo diverso da come le hanno interpretate i
fratelli allora presenti, che cioè quel discepolo non sarebbe morto, ma sarebbe rimasto in questa vita
fino al ritorno del Signore? Tuttavia, lo stesso Giovanni rifiuta questa conclusione, dichiarando
apertamente che non era questo il pensiero del Signore. Perché infatti avrebbe soggiunto: Gesù non
gli disse: non muore, se non perché non rimanesse nel cuore degli uomini una errata
interpretazione?
2. Ma chi vuole può insistere nel dire che è vero quanto dice Giovanni, che cioè il Signore non
aveva affermato che quel discepolo non sarebbe morto, ma che, tuttavia, tale è il senso delle parole,
che, come narra l'evangelista, Gesù disse a Pietro. Chi dice questo arriva a sostenere che l'apostolo
Giovanni vive tuttora, e che, nella sua tomba che si trova ad Efeso, egli giace addormentato, non
morto. Costoro adducono come prova il fatto che in quel luogo la terra si solleva insensibilmente, e
sembra quasi ribollire, e con sicurezza e ostinazione sostengono che tale fenomeno è dovuto al suo
respiro. Non manca chi lo crede, come non manca chi sostiene che anche Mosè vive tuttora[...].
Tuttavia, se taluni, come dicevo, affermano che Mosè vive ancora, sebbene la Scrittura, che pure
dice che non si conosce il luogo della sua tomba, attesti chiaramente che egli morì, è tanto più
comprensibile che, basandosi su queste parole del Signore: Voglio che lui rimanga finché io venga,
qualcuno creda che Giovanni non è morto ma dorme sotto terra. Qualcuno giunge a dire (come si
legge in certi scritti apocrifi) che l'evangelista si fece costruire una tomba, e, quando, pur essendo
egli in perfetta salute, la fossa fu scavata e la tomba preparata con ogni cura, egli vi si adagiò come
in un letto, e subito spirò. Sarà per questo che quanti interpretano così le parole del Signore,
ritengono che non sia morto, ma si sia adagiato come un morto, e, considerato morto, sia stato
sepolto mentre dormiva, e così rimanga fino al ritorno di Cristo; e che egli sia rimasto vivo ne
sarebbe prova il movimento della terra, che, a quanto si dice, si solleva dal profondo fino alla
superficie del tumulo, sotto l'effetto della sua respirazione. Non è il caso di stare a combattere
questa credenza; quelli che conoscono il luogo vadano ad accertarsi se la terra si solleva realmente
da se stessa, oppure per effetto di qualche altra causa: la verità è che questo fatto mi è stato riferito
da persone attendibili.
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Tr. 124, 3, 4, 5  Pietro e Giovanni rappresentano due vite, una nella fede, l'altra nella visione
3. Lasciamo per ora questa opinione, che non possiamo confutare con prove sicure, per evitare, se
non altro, che ci venga chiesto perché la terra sembra in qualche modo vivere e respirare sopra un
cadavere sepolto. [...] Se invece - ciò che è più credibile - san Giovanni fa notare che il Signore non
disse: non morirà, proprio perché non gli si attribuisse una simile interpretazione delle parole del
Signore; e se il suo corpo giace esanime nella tomba come quello di tutti gli altri morti, e se
risponde a verità la notizia che la terra sulla sua tomba si solleva e si abbassa, rimane da decidere se
tale fenomeno si verifica per onorare la morte gloriosa, in quanto essa non è stata resa gloriosa dal
martirio (Giovanni infatti non fu ucciso dai persecutori per la sua fede), oppure per qualche altro
motivo che a noi sfugge. Rimane tuttavia da chiarire la ragione per la quale il Signore, riferendosi
ad un uomo che sarebbe morto, disse: Voglio che rimanga finché io venga.
4. Ma chi non sentirà il bisogno di chiedersi, a proposito di questi due apostoli, Pietro e Giovanni,
come mai il Signore prediligeva Giovanni, dal momento che era Pietro ad amare di più il Signore?
Ogni qualvolta infatti Giovanni parla di sé, tace il proprio nome, e per far capire che si tratta di lui,
mette questa indicazione: il discepolo che Gesù amava, come se Gesù amasse lui solo, per
distinguersi con questa indicazione dagli altri, tutti certamente da Gesù amati. Che altro vuol farci
intendere, con questa espressione, se non che egli era il prediletto? Lungi da noi ogni dubbio circa
tale affermazione. E, del resto, quale maggiore prova poteva Gesù dare della sua predilezione
all'uomo che insieme agli altri condiscepoli era partecipe della grazia sublime della salvezza, se non
quella di concedergli di riposare sul petto del Salvatore stesso? Quanto al fatto che l'apostolo Pietro
abbia amato Cristo più degli altri, ci sono molte prove che lo dimostrano. Senza andarle a cercare
troppo lontano, risulta in modo abbastanza evidente nel discorso precedente, allorché il Signore gli
rivolse la domanda: Mi ami più di questi? (Gv 21, 15). Il Signore certamente lo sapeva, e tuttavia
glielo domandò, in modo che anche noi, che leggiamo il Vangelo, conoscessimo, attraverso la
domanda dell'uno e la risposta dell'altro, l'amore di Pietro per il Signore.
Ebbene, ci domandiamo quale sia il migliore tra questi due apostoli?
5. Cercherò dunque, contando sulla misericordia manifesta di colui la cui giustizia è così nascosta,
di risolvere una questione tanto ardua con le forze che egli stesso vorrà concedermi. [...]
Considerato nella sua persona, Pietro per natura, era soltanto un uomo, per grazia era un cristiano,
per una grazia speciale era un apostolo, anzi il primo tra essi. [...] La Chiesa, che è fondata su
Cristo, ha ricevuto da lui nella persona di Pietro le chiavi del regno dei cieli, cioè la potestà di
legare e di sciogliere i peccati. Ciò che la Chiesa è in Cristo in senso proprio, Pietro lo è, in senso
figurato, nella pietra; per cui, in senso figurato, Cristo è la pietra, e Pietro è la Chiesa. Questa
Chiesa, quindi, rappresentata da Pietro finché vive in mezzo al male, amando e seguendo Cristo
viene liberata dal male; benché lo segua di più nella persona di coloro che combattono per la verità
fino alla morte. Tuttavia seguimi (Gv 21, 19) è l'invito rivolto alla totalità della Chiesa, a quella
totalità per la quale Cristo patì; per cui lo stesso Pietro dice: Cristo patì per noi, lasciandoci
l'esempio affinché seguiamo le sue orme (1 Pt 2, 21). Ecco perché il Signore gli dice: seguimi.
Esiste però un’altra vita, immortale, libera da ogni male: lassù vedremo faccia a faccia ciò che qui si
vede come in uno specchio e in maniera oscura (cf. 1 Cor 13, 12), anche quando si è fatta molta
strada verso la visione della verità. La Chiesa conosce due vite, che le sono state rivelate e
raccomandate da Dio, delle quali una è nella fede, l’altra nella visione; una appartiene al tempo
della peregrinazione, l'altra all'eterna dimora; una è nella fatica, l'altra nel riposo; una lungo la via,
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l'altra in patria; una nel lavoro dell'azione, l'altra nel premio della contemplazione; una che si tiene
lontana dal male e compie il bene, l'altra che non ha alcun male da evitare ma soltanto un grande
bene da godere; una combatte con l'avversario, l'altra regna senza contrasti; una è forte nelle
avversità, l'altra non ha alcuna avversità da sostenere; una deve tenere a freno le passioni della
carne, l'altra riposa nelle gioie dello spirito; una è tutta impegnata nella lotta, l'altra gode tranquilla,
in pace, frutti della vittoria; una chiede aiuto nelle tentazioni, l'altra, libera da ogni tentazione, trova
il riposo in colui che è stato il suo aiuto; una soccorre l'indigente, l'altra vive dove non esiste alcun
indigente; una perdona le offese per essere a sua volta perdonata, l'altra non subisce offese da
perdonare, né ha da farsi perdonare alcuna offesa; una è colpita duramente dai mali affinché non
abbia ad esaltarsi nei beni, l'altra gode di tale pienezza di grazia ed è così libera da ogni male che
senza alcuna tentazione di superbia aderisce al sommo bene; una discerne il bene dal male, l'altra
non ha che da contemplare il Bene. Quindi una è buona, ma ancora infelice, l'altra è migliore e
beata. La prima è simboleggiata nell’apostolo Pietro, l’altra in Giovanni. La prima si conduce
interamente quaggiù fino alla fine del mondo, quando avrà termine; il compimento dell'altra è
differito alla fine del mondo, ma, nel mondo futuro, non avrà termine. Perciò a Pietro il Signore
dice: Tu seguimi. A proposito invece dell'altro: Se voglio che lui rimanga finché io venga, a te che
importa? Tu seguimi (Gv 21, 22). Che significa questo? Per quanto so e posso capire, ecco il senso
di queste parole: Tu seguimi, sopportando, come ho fatto io, i mali del tempo presente; quello
invece resti finché io venga a rendere a tutti i beni eterni. In modo più esplicito si potrebbe dire:
L'attività perfetta mi segua ispirandosi all'esempio della mia passione; la contemplazione già
iniziata attenda il mio ritorno, perché quando verrò essa raggiungerà il suo compimento. La
religiosa pienezza della pazienza segue Cristo fino alla morte, la scienza invece resta finché verrà
Cristo, perché solo allora si manifesterà la sua pienezza. Qui nella terra dei mortali, noi sopportiamo
i mali di questo mondo; lassù, nella terra dei viventi, contempleremo i beni del Signore. Però la
frase: Voglio che lui rimanga finché io venga, non è da intendere nel senso di continuare a stare, o
di dimorare qui, ma nel senso di aspettare e di sperare, perché la vita eterna, che in Giovanni viene
simboleggiata, non raggiunge ora il suo compimento, ma lo raggiungerà quando sarà venuto Cristo.
Ciò che viene raffigurato, invece, per mezzo di Pietro, al quale vien detto: Tu seguimi, se non si
compie nel tempo presente, non si raggiunge ciò che si spera. In questa vita attiva quanto più
amiamo Cristo, tanto più facilmente veniamo liberati dal male. Ma Cristo ci ama meno nelle
condizioni in cui siamo ora, e perciò ce ne libera affinché non abbiamo ad essere sempre così. Nello
stato in cui saremo allora, ci amerà di più, perché in noi non vi sarà più niente che gli sia sgradito, e
che egli debba allontanare da noi. Qui in terra il suo amore tende a guarirci e a liberarci da ciò che
egli in noi non ama. Quindi ci ama meno qui, perché non vuole che qui rimaniamo; ci ama di più
lassù, perché vuole che là andiamo, e da dove vuole che mai ci allontaniamo. Amiamo Cristo come
Pietro, per essere liberati da questa condizione mortale; chiediamo di essere da Cristo amati come
Giovanni, per ricevere la vita immortale.
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2. Tema: L’umiltà dall’amore
La rilettura agostiniana della lavanda dei piedi
Tr. 55, 1  «Ecce Pascha, ecce transitus»
1. La cena del Signore narrata da Giovanni merita di essere col suo aiuto spiegata e commentata con
particolare cura. Noi cercheremo di farlo secondo la capacità che il Signore stesso ci avrà concesso.
Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al
Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (Gv 13, 1). Pasqua,
fratelli, non è, come alcuni ritengono, una parola greca, ma ebraica; ma è sorprendente la
coincidenza di significato nelle due lingue. Patire, in greco, si dice pasxein, per cui si è creduto che
Pasqua volesse dire Passione, come se questa parola derivasse appunto da patire; mentre nella sua
lingua, l'ebraico, Pasqua vuol dire "passaggio", per la ragione che il popolo di Dio celebrò la Pasqua
per la prima volta allorché, fuggendo dall'Egitto, passò il Mar Rosso (cf. Es 14, 29). Ora però quella
figura profetica ha trovato il suo reale compimento, quando il Cristo come pecora viene immolato
(cf. Is 3, 7), e noi, segnate le nostre porte col suo sangue, segnate cioè le nostre fronti col segno
della croce, veniamo liberati dalla perdizione di questo mondo come lo furono gli Ebrei dalla
schiavitù e dall'eccidio in Egitto (cf. Es 12, 23); e celebriamo un passaggio sommamente salutare,
quando passiamo dal diavolo a Cristo, dall'instabilità di questo mondo al solidissimo suo regno. E
per non passare con questo mondo transitorio, passiamo a Dio che permane in eterno. Innalzando
lodi a Dio per questa grazia che ci è stata concessa, l'Apostolo dice: Egli ci ha strappati al potere
delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio dell'amor suo (Col 1, 13). Sicché, interpretando
la parola Pasqua, che, come si è detto, in latino si traduce "passaggio", il santo evangelista dice:
Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al
Padre. Ecco la Pasqua, ecco il passaggio! Passaggio da che, e a che cosa? Da questo mondo al
Padre. Nel Capo è stata data alle membra la speranza certa di poterlo seguire nel suo passaggio.
Che sarà dunque degli infedeli e di tutti coloro che sono estranei a questo Capo e al suo corpo? Non
passano forse anch'essi, dal momento che non rimangono qui? Passano, sì, anch'essi; ma una cosa è
passare dal mondo e un'altra è passare col mondo, una cosa passare al Padre e un'altra passare al
nemico. Anche gli Egiziani infatti passarono il mare, ma non lo attraversarono per giungere al
regno, bensì per trovare nel mare la morte.
Tr. 55, 2  L'amore lo condusse alla morte
2. Dunque, sapendo Gesù che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo
amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Sì, li amò perché anch'essi, da questo
mondo dove si trovavano, passassero, in virtù del suo amore, al loro Capo che da qui era passato.
Che significa infatti sino alla fine se non fino a Cristo? Cristo - dice l'Apostolo - è il fine di tutta la
legge, a giustizia di ognuno che crede (Rm 10, 4). Cristo è il fine che perfeziona, non la fine che
consuma; è il fine che dobbiamo raggiungere, non la fine che corrisponde alla morte. E' in questo
senso che bisogna intendere l'affermazione dell'Apostolo: La nostra Pasqua è Cristo che è stato
immolato (1 Cor 5, 7). Egli è il nostro fine, e in lui si compie il nostro passaggio. Mi rendo conto
che questa frase del Vangelo può anche essere interpretata in senso umano, nel senso cioè che
Cristo amò i suoi fino alla morte, credendo che questo sia il significato dell'espressione: li amò sino
alla fine. Questa è un'opinione umana, non divina: non si può dire infatti che ci amò solo fino a
questo punto colui che ci ama sempre e senza fine. Lungi da noi pensare che con la morte abbia
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finito di amarci colui che non è finito con la morte. Se perfino quel ricco superbo ed empio anche
dopo la morte continuò ad amare i suoi cinque fratelli (cf. Lc 16, 27-28), si potrà pensare che Cristo
ci abbia amato soltanto fino alla morte? No, o carissimi, non sarebbe, col suo amore, arrivato fino
alla morte, se poi con la morte fosse finito il suo amore per noi. Forse l'espressione li amò sino alla
fine va intesa nel senso che li amò tanto da morire per loro, secondo la sua stessa dichiarazione: Non
c'è amore più grande, che dare la vita per i propri amici (Gv 15, 13). L'espressione dunque li amò
sino alla fine, può avere questo senso: fu proprio l'amore a condurlo alla morte.
Descrizione del rito della lavanda dei piedi
Tr. 55, 6, 7  Giuda venditore del Redentore  La sua passione per la nostra purificazione
6. Sapendo dunque tutte queste cose, si alza da tavola, depone le vesti, prende un panno e se ne
cinge. Poi, versa acqua nel catino e si mette a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli col panno
di cui si era cinto. Dobbiamo, o carissimi, considerare diligentemente l'intenzione dell'evangelista.
Accingendosi a parlare della profonda umiltà del Signore, ha voluto prima richiamare la nostra
attenzione alla sua grandezza. E' per questo che dice: Sapendo che il Padre gli aveva dato tutto
nelle mani e che egli era venuto da Dio e a Dio ritornava. Avendogli dunque il Padre dato tutto
nelle mani, egli si mette a lavare, non le mani ma i piedi dei discepoli: pur sapendo di essere venuto
da Dio e di tornare a Dio, compie l'ufficio non di Dio Signore ma di uomo servo. Era con
l'intenzione di sottolineare l'umiltà di Cristo che l'evangelista ha voluto parlare prima del suo
traditore, che era venuto avendo già quel proposito ben conosciuto dal Signore; e questo particolare
mostra come il Signore sia giunto al massimo dell'umiltà, non disdegnando di lavare i piedi a colui
le cui mani già vedeva impegnate in sì grande delitto.
7. Ma perché meravigliarsi che si sia alzato da tavola e abbia deposto le vesti colui che, essendo
nella forma di Dio, annientò se stesso? E che meraviglia se prese un panno, e se ne cinse, colui che
prendendo la forma di servo è stato trovato come un uomo qualsiasi nell'aspetto esterno (cf. Fil 2, 67)? Che meraviglia se versò acqua nel catino per lavare i piedi dei discepoli colui che versò il suo
sangue per lavare le sozzure dei peccati? Che meraviglia se col panno di cui si era cinto asciugò i
piedi, dopo averli lavati, colui che con la carne di cui si era rivestito sostenne il cammino degli
Evangelisti? Per cingersi di un panno depose le vesti che aveva; mentre, per prendere la forma di
servo, quando annientò se stesso, non depose la forma che aveva ma soltanto prese quella che non
aveva. Si sa, che per esser crocifisso fu spogliato delle sue vesti e, morto, fu avvolto in un lenzuolo;
e tutta la sua passione è la nostra purificazione. Nell'imminenza quindi della passione e della morte,
ha voluto rendere questo servizio, non solo a quelli per i quali stava per morire, ma anche a colui
che lo avrebbe tradito per farlo morire. Tanto importante è per l'uomo l'umiltà, che la divina maestà
ha voluto raccomandarla anche con il suo esempio. L'uomo superbo si sarebbe perduto per sempre,
se Dio non fosse venuto a cercarlo umiliandosi. E' venuto infatti il Figlio dell'uomo a cercare e a
salvare ciò che era perduto (Lc 19, 10). L'uomo si era perduto per aver seguito la superbia del
tentatore; segua dunque, ora che è stato ritrovato, l'umiltà del Redentore.
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Dialogo di Gesù con Pietro
Tr. 56, 4  La lavanda dei piedi
4. Ma perché questa frase? che vuol dire? e perché è necessario ricercarne il significato? E' il
Signore che così si esprime, è la verità che parla: anche chi è pulito ha bisogno di lavarsi i piedi. A
che cosa vi fa pensare, fratelli miei? A che cosa se non a questo, che l'uomo nel santo battesimo è
lavato tutto intero compresi i piedi, tutto completamente; ma siccome poi deve vivere nella
condizione umana, non può fare a meno di calcare con i piedi la terra? Gli stessi affetti umani, di
cui non si può fare a meno in questa vita mortale, sono come i piedi con cui ci mescoliamo alle cose
terrene; talmente che, se ci dicessimo immuni dal peccato, inganneremmo noi stessi e la verità non
sarebbe in noi (cf. 1 Io 1, 8). Ogni giorno ci lava i piedi colui che intercede per noi (cf. Rm 8, 34); e
ogni giorno noi abbiamo bisogno di lavarci i piedi, cioè di raddrizzare i nostri passi sulla via dello
spirito, come confessiamo quando nell'orazione del Signore diciamo: Rimetti a noi i nostri debiti,
come noi li rimettiamo ai nostri debitori (Mt 6, 12). Se infatti - come sta scritto - confessiamo i
nostri peccati, colui che lavò i piedi ai suoi discepoli senza dubbio è fedele e giusto da rimetterceli
e purificarci da ogni iniquità (1 Io 1, 9), cioè da purificarci anche i piedi con cui camminiamo sulla
terra.
Tr. 56, 5  Cristo purifica la sua Chiesa
5. La Chiesa dunque, che Cristo purifica con il lavacro dell'acqua mediante la parola, è senza
macchia e senza rughe (cf. Ef 5, 26-27) in coloro che subito dopo il lavacro di rigenerazione
vengono sottratti al contagio di questa vita, cosicché, non calpestando la terra, non hanno bisogno di
lavarsi i piedi; non solo: lo è pure in coloro ai quali la misericordia del Signore ha concesso di
emigrare da questo mondo anche con i piedi lavati. Ma anche ammesso che la Chiesa sia pura in
coloro che dimorando in terra vivono degnamente, questi tuttavia hanno bisogno di lavarsi i piedi,
non essendo del tutto senza peccato. Perciò il Cantico dei Cantici dice:Mi son lavati i piedi; dovrò
ancora sporcarmeli? (Ct 5, 3). La Sposa dice così in quanto, per raggiungere Cristo, deve
camminare sulla terra. Si presenta qui un'altra difficoltà. Cristo non è forse lassù in alto? Non è
forse asceso in cielo, dove siede alla destra del Padre? Non esclama l'Apostolo: Se siete risuscitati
con Cristo, cercate le cose che stanno in alto, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; abbiate
la mente alle cose dell'alto, non a quelle della terra (Col 3, 1-2)? Come mai allora, per raggiungere
Cristo, siamo costretti a camminare coi piedi in terra, dal momento che occorre piuttosto avere il
cuore in alto verso il Signore, per poter essere sempre con lui? Vedete bene, o fratelli, che oggi non
abbiamo il tempo per affrontare con calma una tale questione. Anche se voi non ve ne rendete
conto, io vedo che occorre un serio approfondimento. Perciò vi chiedo di rimandarla piuttosto che
trattare la questione con fretta e superficialmente, non defraudando ma rinviando la vostra attesa. Il
Signore, che oggi ci fa vostri debitori, ci concederà di pagare il debito.
Tr. 57, 1, 2, 3  La paura di sporcarsi i piedi
1. Memore del mio debito, credo sia venuto il momento di pagarlo. Mi conceda di pagarlo colui che
mi ha concesso di contrarlo. Chi mi ha donato la carità della quale sta scritto: Non abbiate debiti
verso nessuno, se non quello dell'amore scambievole (Rm 13, 8), mi conceda altresì il dono della
parola di cui mi riconosco debitore verso quelli che amo. Sì, ho tenuto sospesa la vostra aspettativa
per spiegarvi, come mi è possibile, in che modo si possa andare a Cristo camminando per terra,
mentre ci viene comandato di cercare le cose che stanno in alto, non quelle della terra (cf. Col 3, 126
2). Cristo infatti è in alto, assiso alla destra del Padre; ma è certo che egli è anche qui in terra, per
cui disse a Saulo, che in terra infieriva: Perché mi perseguiti? (At 9, 4). Ci siamo posti questo
problema osservando che il Signore lavò i piedi ai discepoli, benché i discepoli fossero puliti e non
avessero bisogno che di lavarsi i piedi. In quel fatto ci sembrava di dover capire che mediante il
battesimo viene lavato, sì, l'uomo tutto intero; ma, siccome poi deve vivere in questo mondo
calcando quasi la terra con gli affetti umani, quasi fossero piedi, - e ciò avviene in ogni momento
della sua vita - ne contrae quei debiti per cui deve supplicare: Rimetti a noi i nostri debiti (Mt 6, 12).
E così viene purificato da colui che lavò i piedi ai suoi discepoli (cf. Gv 13, 5), e che mai cessa di
intercedere per noi (cf. Rm 8, 34). A questo punto ci sono venute in mente le parole che dice la
Chiesa nel Cantico dei Cantici: Mi son lavati i piedi; come potrò ancora sporcarmeli? (Ct 5, 3):
parole che essa dice quando vuole andare ad aprire al più bello tra i figli degli uomini, che è venuto
da lei e bussa chiedendo che gli si apra la porta (cf. Sal 44, 3). Di qui è nata la questione che non
abbiamo voluto sciupare trattandola con troppa fretta e che perciò noi abbiamo differita; la
questione cioè come la Chiesa possa temere, camminando per raggiungere Cristo, di sporcarsi i
piedi che ha lavato col battesimo di Cristo.
2. Dice la sposa: Io dormo, ma il mio cuore veglia. Sento il mio diletto che bussa alla porta. Si
sente la voce dello sposo, che dice: Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba, mia perfetta; ho
la testa pregna di rugiada, i riccioli zuppi di gocce notturne. E lei risponde: Ho svestito la tunica;
come indossarla ancora? mi son lavati i piedi; come sporcarmeli di nuovo? (Ct 5, 2-3). Mirabile
arcano, sublime mistero! Dunque essa teme di sporcarsi i piedi, andando ad aprire a colui che ha
lavato i piedi ai suoi discepoli? Sì, ha paura, perché deve camminare sulla terra per andare a lui, che
ancora sta in terra non avendo abbandonato i suoi che qui sono rimasti. Non ha detto egli stesso:
Ecco, io sono con voi sino alla fine dei secoli (Mt 28, 20)? E non ha detto anche: Vedrete i cieli
aperti, e gli angeli di Dio salire e discendere sopra il Figlio dell'uomo (Gv 1, 51)? Se salgono verso
di lui perché è su in alto, come potrebbero poi a lui discendere se non fosse anche qui in terra? Dice
perciò la Chiesa: Mi son lavati i piedi; dovrò ancora sporcarmeli? Ella parla così in coloro che,
purificati d'ogni macchia, possono dire: Desidero di essere sciolto da questo corpo ed essere con
Cristo; d'altra parte rimanere nella carne è più necessario per voi (Fil 1, 23-27). Parla così in
coloro che predicano Cristo e gli aprono la porta, affinché, per mezzo della fede, egli abiti nel cuore
degli uomini (cf. Ef 3, 17). Parla così in quanti esitano a lungo prima di assumere un ministero che
non si reputano sufficientemente idonei a svolgere senza pericolo di colpa, nel timore che, dopo
aver predicato agli altri, vengano riprovati essi stessi (cf. 1 Cor 9, 27). E' infatti più sicuro ascoltare
la verità che predicarla; perché, quando si ascolta si custodisce l'umiltà, mentre quando si predica è
difficile che non si insinui in chiunque quel tanto di vanagloria che basta a sporcare i piedi.
3. Teniamo conto, dunque, dell'esortazione dell'apostolo Giacomo: Sia ognuno pronto ad ascoltare,
tardo a parlare (Gc 1, 19). A sua volta, un altro uomo di Dio dice: Fammi udire la tua lieta e
gioconda parola, ed esulteranno le ossa da te fiaccate (Sal 50, 10). E' quanto vi dicevo prima:
Quando si ascolta la verità, si custodisce l'umiltà. E un altro ancora dice: L'amico dello sposo, che
gli sta vicino e lo ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo (Gv 3, 29). Gustiamo il piacere che
proviamo nell'ascoltare la Verità che parla dentro di noi senza strepito alcuno. E così, quando la
Verità risuona esteriormente attraverso la voce del lettore o del predicatore, di chi la proclama o la
spiega, attraverso l'insegnamento, l'incoraggiamento e l'esortazione di chi ne ha l'incarico, come
anche attraverso i canti ed i salmi, tutti coloro che attendono a queste diverse mansioni stiano attenti
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a non sporcarsi i piedi con il desiderio della lode umana, cercando di piacere agli uomini. Chi,
invece, volentieri e religiosamente li ascolta, non è tentato di vantarsi delle fatiche altrui, e, lungi
dal gonfiarsi d'orgoglio, gode di ascoltare la voce della verità del Signore con una gioia che è
propria solo all'umiltà. E' nella persona di quanti volentieri e umilmente amano ascoltare, e
conducono una vita tranquilla dedita a dolci e salutari occupazioni, che la santa Chiesa trova le sue
delizie e dice: Io dormo, ma il mio cuore veglia. Che vuol dire: io dormo, ma il mio cuore veglia, se
non, mi riposo per ascoltare? il mio tempo libero non è destinato a coltivare la pigrizia, ma a
raggiungere la sapienza. Io dormo, ma il mio cuore veglia: mi tengo libero da ogni preoccupazione
per contemplarti come mio Signore (cf. Sal 45, 1). La sapienza dello scriba si deve al suo tempo
libero; e chi non si disperde nell'azione diventa saggio (Sir 38, 24). Io dormo, ma il mio cuore
veglia, cioè sospendo le occupazioni ordinarie e la mia anima s'immerge nell'amore divino.
Tr. 57, 4, 5  La voce di Cristo bussa alla porta
4. Se non che, mentre nella persona di quanti così soavemente e umilmente riposano la Chiesa gusta
le sue delizie, ecco che bussa colui che dice: Ciò che io vi dico nelle tenebre, voi ditelo in piena
luce; e ciò che ascoltate all'orecchio, predicatelo sopra i tetti (Mt 10, 27). La sua voce bussa alla
porta gridando: Aprimi, sorella mia, mia amata, colomba mia, perfetta mia; ho la testa piena di
rugiada, i miei riccioli di gocce notturne. Come a dire: Tu riposi e la porta è chiusa dinanzi a me, tu
godi nella quiete riservata a pochi mentre, per il moltiplicarsi dell'iniquità, la carità di molti si
raffredda (cf. Mt 24, 12). La notte è immagine dell'iniquità; la rugiada e le gocce notturne sono
coloro che si raffreddano e cadono, facendo raffreddare capo del Cristo, cioè impediscono che Dio
sia amato: Dio, infatti, è il capo di Cristo (cf. 1 Cor 11 3). Costoro vengono portati sui capelli, cioè
sostenuti solo con i sacramenti visibili senza giungere ad una partecipazione profonda e piena. Egli
bussa per scuotere dalla loro quiete gli uomini santi dediti alla meditazione, e grida: Aprimi, tu che,
in virtù del sangue che ho versato per te, sei mia sorella, in forza dell'unione che ho realizzato con
te sei la mia amata, grazie al dono dello Spirito Santo sei la mia colomba, in virtù della mia parola
che con maggior pienezza hai ascoltato nella tua meditazione sei la mia perfetta: aprimi e
predicami. Come potrò entrare in coloro che mi hanno chiuso la porta, se non c'è chi mi apre? E
come potranno udire, se non c'è chi predica? (cf. Rm 10, 14).
5. E così coloro che prediligono la calma meditazione delle cose divine e rifuggono dalla fatica e
dalle difficoltà dell'azione, non ritenendosi capaci di esercitare il ministero attivo in modo
irreprensibile, vorrebbero, se fosse possibile, che i santi Apostoli e gli antichi predicatori della
verità risuscitassero per affrontare ancora l'iniquità dilagante, a causa della quale si è raffreddato il
fervore della carità. Ma, a nome di coloro che già sono usciti dal corpo e si sono spogliati della
tunica della carne (benché da essa non siano separati per sempre), la Chiesa risponde: Ho deposto la
tunica, come posso rimettermela? Un giorno essa riprenderà questa tunica, e, in coloro che ne sono
stati spogliati, la Chiesa si rivestirà della carne; non però adesso, adesso che occorre riscaldare
coloro che sono freddi; ciò accadrà soltanto quando risorgeranno i morti. Trovandosi perciò in
difficoltà per mancanza di predicatori, e ricordando quei suoi membri, sani nella dottrina e santi nei
costumi ma ormai spogli del loro corpo, la Chiesa geme e dice: Ho deposto la tunica, come posso
rimettermela? Come possono, ora, rivestirsi della carne di cui sono state spogliate quelle mie
membra che, annunciando fervidamente il Vangelo, riuscirono ad aprire la porta a Cristo?
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Discorso di Gesù rivolto a tutti i presenti
Tr. 58, 2  L’esempio di imitare
2. Quando, dunque, ebbe lavato i loro piedi e riprese le sue vesti e si fu adagiato di nuovo a mensa,
disse loro: Comprendete ciò che vi ho fatto? (Gv 13, 12). E' giunto il momento di mantenere la
promessa che aveva fatto a san Pietro e che aveva differita quando, a lui che si era spaventato e gli
aveva detto: Non mi laverai i piedi in eterno, il Signore aveva risposto: Quello che io faccio tu
adesso non lo comprendi: lo comprenderai, però, dopo (Gv 13, 7). Questo momento è giunto: è
tempo che gli dica ciò che prima ha differito. Il Signore, dunque, si è ricordato che aveva promesso
di rivelare il significato del suo gesto così inatteso, così straordinario, così sconvolgente, che se egli
non li avesse spaventati tanto, non avrebbero mai permesso che il loro maestro e maestro degli
angeli, il loro Signore e Signore dell'universo, lavasse i piedi dei suoi discepoli e servi. Ora, per
l'appunto, comincia a spiegare il significato del suo gesto, come aveva promesso dicendo: Lo
capirai dopo.
Tr. 58, 3  Giova a noi servire la verità
3. Voi mi chiamate - egli dice - Maestro e Signore, e dite bene, perché lo sono (Gv 13, 13). Dite
bene perché dite la verità; sono infatti ciò che dite. All'uomo è stato rivolto l'ammonimento: Non ti
lodi la tua bocca, ma ti lodi la bocca del tuo prossimo (Prv 27, 2). E' infatti pericoloso compiacersi,
per chi deve stare attento alla superbia. Ma chi sta al di sopra di tutte le cose, per quanto si lodi non
può innalzarsi più di quello che è: non si può certo accusare Dio di presunzione. E' a noi, non a lui,
che giova conoscere Dio; e nessuno può conoscerlo, se lui, che si conosce, non si rivela. Se, per non
apparire presuntuoso, avesse taciuto la sua lode, ci avrebbe privato della sua conoscenza. Nessuno,
certo, può rimproverargli di essersi chiamato maestro, neppure chi lo considera soltanto un uomo;
perché ognuno che sia esperto in una qualsiasi materia, si fa chiamare professore, senza che per
questo venga considerato presuntuoso. Il fatto però che egli si chiami il Signore dei suoi discepoli,
che anche di fronte al mondo sono uomini liberi, come si può tollerare? Ma qui è Dio che parla.
Non corre nessun pericolo di elevarsi in superbia una tale altezza, non corre nessun pericolo di
mentire la Verità. E' per noi salutare sottometterci a così eccelsa grandezza ed è utile servire alla
Verità. Il fatto che egli si chiami Signore non costituisce una colpa per lui, ma è un vantaggio per
noi. Si lodano le parole di quell'autore profano, che dice: Ogni arroganza è sempre odiosa, ma
l'arroganza dell'ingegno e dell'eloquenza è insopportabile (Cicerone, in Q. Caecilium); e tuttavia lo
stesso autore profano così parla della sua eloquenza: Se la giudicassi così, direi che è perfetta;
senza timore di presunzione, perché è la verità(Cicerone, in Oratore). Se dunque quel maestro di
eloquenza non doveva temere di essere arrogante nel dire la verità, come potrebbe avere questo
timore la stessa Verità? Dica il Signore di essere il Signore, dica la Verità di essere la verità: se egli
non dicesse ciò che è, io non potrei apprendere quanto mi è utile sapere. Il beatissimo Paolo che non
era certo il Figlio unigenito di Dio, ma il servo e l'apostolo del Figlio unigenito di Dio, e che non
era la verità ma solamente partecipe di essa, con franchezza e sicurezza dice: Se volessi vantarmi,
non sarei insensato perché direi solo la verità (2 Cor 12, 6). Perché non è in se stesso, ma nella
verità, a lui superiore, che umilmente e sinceramente si vanta, secondo quanto egli stesso
raccomanda: Chi si vanta, si vanti nel Signore (cf. 1 Cor 1, 31). Ora, se un uomo che ama la
sapienza, non teme di essere insensato gloriandosi in essa, dovrà forse temere di essere insensata la
Sapienza stessa nel manifestare la sua gloria? Se non ebbe timore di essere arrogante colui che
disse: Nel Signore si vanterà l'anima mia (Sal 33, 3), dovrà temere di esserlo la potenza del Signore,
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in cui l'anima del servo si vanta? Voi mi chiamate - dice - Signore e Maestro; e dite bene, perché lo
sono. Appunto dite bene, perché lo sono; infatti se io non fossi ciò che voi dite, direste male anche
lodandomi. Come può la Verità negare ciò che affermano i discepoli della Verità? Come può negare
ciò che hanno appreso proprio da essa? Come può la fonte smentire ciò che proclama chi ad essa
beve? Come può la luce nascondere quanto viene manifestando a chi vede?
Tr. 58, 4, 5  Serviamoci vicendevolmente
4. Se dunque - egli aggiunge - io, il Signore e il maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete
lavarvi i piedi a vicenda. Vi ho dato, infatti, un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto
io (Gv 13, 14-15). Questo, o beato Pietro, è ciò che tu non comprendevi, quando non volevi lasciarti
lavare i piedi. Egli ti promise che l'avresti compreso dopo, allorché il tuo Signore e Maestro ti
spaventò affinché tu gli lasciassi lavare i tuoi piedi. Abbiamo appreso, fratelli, l'umiltà
dall'Altissimo; rendiamoci reciprocamente, e con umiltà, il servizio che umilmente ha compiuto
l'Altissimo. E' un grande esempio di umiltà, il suo. A questo esempio si ispirano i fratelli che
rinnovano anche esternamente questo gesto, quando vicendevolmente si ospitano; è molto diffuso
questo esercizio di umiltà che così efficacemente viene espressa in questo gesto. E' per questo che
l'Apostolo, presentandoci la vedova ideale, sottolinea questa benemerenza: essa pratica l'ospitalità,
lava i piedi ai santi (1 Tim 5, 10). E i fedeli, presso i quali non esiste la consuetudine di lavare i
piedi materialmente con le mani, lo fanno spiritualmente, se sono del numero di coloro ai quali nel
canto dei tre giovani vien detto: Benedite il Signore, santi e umili di cuore (Dn 3, 87). Però è
meglio, e più conforme alla verità, se si segua anche materialmente l'esempio del Signore. Non
disdegni il cristiano di fare quanto fece Cristo. Poiché quando il corpo si piega fino ai piedi del
fratello, anche nel cuore si accende, o, se già c'era, si alimenta il sentimento di umiltà.
5. Ma, a parte questa applicazione morale, ricordiamo di aver particolarmente sottolineato la
sublimità di questo gesto del Signore, che, lavando i piedi dei discepoli, i quali già erano puliti e
mondi, volle farci riflettere che noi, a causa dei nostri legami e contatti terreni, nonostante tutti i
nostri progressi sulla via della giustizia, non siamo esenti dal peccato; dal quale peraltro egli ci
purifica intercedendo per noi, quando preghiamo il Padre che è nei cieli che rimetta a noi i nostri
debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori (cf. Mt 6, 12). Vediamo come si concilia questo
significato con le parole che egli aggiunge per motivare il suo gesto: Se, dunque, io, il Signore e il
maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi a vicenda. Vi ho dato, infatti, un
esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io. Dobbiamo forse dire che anche il fratello può
purificare il fratello dal contagio del peccato? Certamente; questo sublime gesto del Signore
costituisce per noi un grande impegno: quello di confessarci a vicenda le nostre colpe e di pregare
gli uni per gli altri, così come Cristo per tutti noi intercede (cf. Rm 8, 34). Ascoltiamo l'apostolo
Giacomo, che ci indica questo impegno con molta chiarezza: Confessatevi gli uni agli altri i peccati
e pregate gli uni per gli altri (Gc. 5 16). E' questo l'esempio che ci ha dato il Signore. Ora, se colui
che non ha, che non ha avuto e non avrà mai alcun peccato, prega per i nostri peccati, non dobbiamo
tanto più noi pregare gli uni per gli altri? E se ci rimette i peccati colui che non ha niente da farsi
perdonare da noi, non dovremo a maggior ragione rimetterci a vicenda i nostri peccati, noi che non
riusciamo a vivere quaggiù senza peccato? Che altro vuol farci intendere il Signore, con un gesto
così significativo, quando dice: Vi ho dato un esempio affinché anche voi facciate come ho fatto io,
se non quanto l'Apostolo dice in modo esplicito: Perdonatevi a vicenda qualora qualcuno abbia di
che lamentarsi nei riguardi dell'altro; come il Signore ha perdonato a voi, fate voi pure (Col 3,
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13)? Perdoniamoci a vicenda i nostri torti, e preghiamo a vicenda per le nostre colpe, e così, in
qualche modo, ci laveremo i piedi a vicenda. E' nostro dovere adempiere, con l'aiuto della sua
grazia, questo ministero di carità e di umiltà; sta a lui esaudirci, purificarci da ogni contaminazione
di peccato per Cristo e in Cristo, e di sciogliere in cielo ciò che noi sciogliamo in terra, cioè i debiti
che noi avremo rimesso ai nostri debitori.
Tr. 59, 1  Maestro di umiltà con la parola e l’esempio
1. Abbiamo ascoltato nel santo Vangelo le parole del Signore: In verità, in verità vi dico: un servo
non è più grande del suo padrone, né un apostolo è superiore a chi lo ha mandato. Sapendo queste
cose, beati sarete se le mettete in pratica (Gv 13, 16-17). Disse questo perché, avendo lavato i piedi
dei discepoli, si era dimostrato maestro di umiltà con la parola e con l'esempio. Potremo ora, con il
suo aiuto, esaminare meglio le cose che presentano qualche difficoltà, se non ci soffermeremo in
quelle che sono chiare. Dopo aver detto dunque queste parole, il Signore aggiunse: Non parlo di
tutti voi: io conosco quelli che ho eletti; ma si deve adempiere la Scrittura: Uno che mangia il pane
con me, leverà il calcagno contro di me (Gv 13, 18). Cioè: mi calpesterà. L'allusione era evidente:
si riferiva a Giuda il traditore. Il Signore dunque non lo aveva eletto, dato che con questa
dichiarazione lo distingue da quelli che aveva eletti. Dicendo:Beati voi se mettete in pratica queste
cose; non parlo di tutti voi, implicitamente dice che c'è tra loro chi non è beato e che non metterà in
pratica queste cose. Io conosco quelli che ho eletti. E chi sono costoro se non quelli che saranno
beati col mettere in pratica quanto ha ordinato e confermato con l'esempio colui che può rendere gli
uomini beati? Giuda il traditore, egli dice, non è stato eletto. Come si spiega allora l'affermazione
altrove riportata: Non vi ho io scelto tutti e dodici, eppure uno di voi è un diavolo (Gv 6, 71)?
Oppure anch'egli è stato scelto per un compito per il quale era necessario, ma non per la beatitudine
della quale egli dice: Beati voi se metterete in pratica queste cose? Questo non lo dice di tutti; egli
infatti conosce quelli che ha eletti a partecipare a questa beatitudine. Di essi non fa parte colui che
mangiando il pane del Signore, ha levato contro di lui il suo calcagno. Gli altri mangiavano il pane
nutrendosi del Signore, Giuda mangiava il pane del Signore contro il Signore: quelli mangiavano la
vita, questi la sua condanna.Chi mangia indegnamente - dice l'Apostolo - mangia la propria
condanna (1 Cor 11, 29). Ve lo dico fin d'ora, prima che accada - continua il Signore - affinché,
quando sarà accaduto, crediate che io sono (Gv 13, 19); che, cioè, io sono colui del quale
profetizzò la Scrittura, laddove dice: Uno che mangia il pane con me, leverà il calcagno contro di
me.
Tr. 59, 2  Io e il Padre siamo una cosa sola
2. E prosegue: In verità, in verità vi dico: Chi accoglie colui che io manderò accoglie me, e chi
accoglie me accoglie colui che mi ha mandato (Gv 13, 20). Egli vuole forse farci intendere con
queste parole che tra lui e quello che egli manda, c'è la medesima distanza che esiste tra lui e Dio
Padre? Se così intendiamo le sue parole, non so quanti gradini dovremo ammettere seguendo, Dio
non voglia, gli ariani. Essi infatti, ascoltando o leggendo queste parole del Vangelo,
immediatamente si affrettano a fare quei gradini della loro dottrina, che certo non li conducono alla
vita ma li precipitano nella morte. Subito dicono: Benché il Figlio abbia detto: Chi accoglie colui
che io manderò, accoglie me, tra l'apostolo del Figlio e il Figlio esiste la stessa distanza che c'è tra il
Figlio e il Padre, quantunque egli abbia detto: Chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato.
Ma se dici così, o eretico, hai dimenticato i tuoi gradini. Se infatti, basandoti su queste parole del
Signore, tra il Figlio e il Padre poni la medesima distanza che poni tra l'apostolo e il Figlio, dove
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metterai lo Spirito Santo? Hai dimenticato che siete soliti metterlo dopo il Figlio? Si verrà dunque a
trovare tra l'apostolo e il Figlio; e allora il Figlio finirà col distare dall'apostolo molto più di quanto
non dista dal Padre. O forse, pe mantenere la medesima distanza tra il Figlio e l'apostolo, e tra il
Padre e il Figlio, dirai che lo Spirito Santo è uguale al Figlio? Ma questo non volete ammetterlo. E
allora, dove lo metterete, se tra il Figlio e il Padre voi ponete la medesima distanza che c'è tra
l'apostolo e il Figlio? Vogliate dunque reprimere questa vostra temeraria audacia, e smettetela di
appoggiarvi su queste parole per sostenere che tra il Figlio e l'apostolo c'è la medesima distanza che
esiste tra il Padre e il Figlio. Ascoltate piuttosto quanto dice lo stesso Figlio: Io e il Padre siamo
una cosa sola (Gv 10, 30). Con questa affermazione la Verità non vi lascia alcuna possibilità di
pensare che ci sia distanza tra il Padre e l'Unigenito. Con questa affermazione Cristo elimina tutti i
vostri gradini, la Pietra manda in frantumi le vostre scale gerarchiche.
Tr. 59, 3  Il Padre e il Figlio sono della medesima natura
3. Ma ora che abbiamo respinto l'insinuazione degli eretici, in che senso dobbiamo intendere queste
parole del Signore: Chi accoglie colui che io manderò, accoglie me, e chi accoglie me, accoglie
colui che mi ha mandato? Se noi intendiamo le parole: Chi accoglie me, accoglie colui che mi ha
mandato nel senso che il Padre e il Figlio sono della medesima natura, logicamente, dato il
parallelismo delle due frasi, dovremo intendere anche le altre parole: chi accoglie colui che io
manderò, accoglie me nel senso che anche l'apostolo ha la stessa natura del Figlio. E' possibile
anche questa interpretazione, e non è sconveniente, considerando che il campione lieto di
percorrere la sua via (cf. Sal 18, 6) è in possesso dell'una e dell'altra natura, dato che il Verbo si è
fatto carne (cf. Gv 1, 14), cioè Dio si è fatto uomo. Si potrebbe quindi supporre che il Signore abbia
detto: Chi accoglie colui che io manderò, accoglie me in quanto era uomo; e abbia detto: Chi
accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato in quanto era Dio. Con queste parole non voleva
richiamarsi all'unità di natura, ma piuttosto affermare l'autorità di colui che manda in colui che è
mandato; di modo che ciascuno accolga colui che è stato mandato, considerando in lui chi lo ha
mandato. Così, se tu consideri Cristo in Pietro, vi troverai il maestro del discepolo; se invece
consideri il Padre nel Figlio, troverai il Genitore dell'Unigenito, e accoglierai, senza timore di
sbagliare, colui che manda in colui che è mandato. Le parole del Vangelo che vengono dopo, non
possono essere coartate nella ristrettezza del tempo che ci rimane. Perciò, o carissimi, se quanto
avete ascoltato lo ritenete un sufficiente nutrimento per le anime fedeli, cercate di gustarlo e di
trarne profitto; se lo trovate scarso, ruminatelo col desiderio di un nutrimento più abbondante.
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SAN FRANCESCO D’ASSISI
L’amore per il creato
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale a le tue creature dai sostentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora acqua,
la quale è molto utile et humile
et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu
per lo quale ennallumini la notte;
ed elio è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra madre terra,
la quale ne sustenta et governa et produce diversi fructi,
con coloriti fiori et herba.
(Da San Francesco d’Assisi, Cantico di frate sole.)
DANTE
«Amor, che a nullo amato amar perdona»
Noi leggevamo un giorno per diletto
Di Lancilotto, come amor lo strinse:
Soli eravamo e senza alcun sospetto.
Per più fiate gli occhi ci spinse
Quella lettura, e scolorocci il viso:
Ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
Esser baciato da cotanto amante,
Questi, che mai da me non fia diviso,
La bocca mi baciò tutto tremante:
Galeotto fu il libro e chi lo scrisse:
Quel giorno più non vi leggemmo avante.
(Da Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, V, w. 127-38.)
CARTESIO
Il «tutto» e la «parte»
Une émotion de l’âme causée par le mouvement des esprits qui l’incite à se joindre de volonté aux
objets qui paraissent lui être convenables. (Se joindre de volonté = imaginer un tout dont on est
seulement une partie, et que la chose aimée en est une autre).
«Un'emozione dell’anima causata dal movimento degli spiriti che la incita a congiungersi di
volontà con gli oggetti che paiono convenirle (congiungersi di volontà = immaginare un tutto di cui
si è soltanto una parte e di cui la cosa amata ne è un’altra)».
(Da R. Descartes, Passions de l’âme, II, w. 79-81.)
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PASCAL
Le ragioni del cuore
Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce: lo si osserva in mille cose. Io sostengo che il
cuore ama naturalmente l’essere universale, e naturalmente se medesimo, secondo che si volge
verso di lui o verso di sé; e che s’indurisce contro l’uno o contro l’altro per propria elezione. Voi
avete respinto l’uno e conservato l’altro: amate forse voi stessi per ragione?
(Da B. Pascal, Pensieri, fr. 146.)
LEOPARDI
La vigilia
Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio, stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave.
(Da G. Leopardi, Il sabato del villaggio, w. 38-51.)
SCHOPENHAUER
Inevitabilità del dolore
Gli incessanti sforzi di bandire il dolore non servono che a mutarne l’aspetto. Questo è dapprima
mancanza, bisogno, ansia per la conservazione della vita. Quando sia riuscito, il che è assai
difficile, lo scacciare il dolore in questa sua forma, ecco che tosto si ripresenta in mille altre,
variando secondo età e circostanze, come istinto sessuale, appassionato amore, gelosia, invidia,
odio, paura, ambizione, avarizia, infermità, ecc. E se finalmente non riesca a trovar via in
nessun’altra forma, viene sotto la malinconica, grigia veste del tèdio e della noia, contro cui si
tentano rimedi variati. Quando poi si pervenga da ultimo a distaccare anche quelli, sarà difficile
che accada senza riaprire con ciò la via del dolore in una delle precedenti forme, e ricominciar
così il ballo dal principio.
(Da A. Schopenhauer, II mondo come volontà e rappresentazione.)
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NIETZSCHE
La delusione
Il vostro concludere matrimoni: badate che non sia un cattivo chiudere! Avete chiuso troppo
presto: perciò ne consegue la rottura del matrimonio, l’adulterio. È meglio ancora rompere il
matrimonio che piegare il matrimonio, fingere il matrimonio! Così mi disse una donna: «Certo, io
ho rotto il matrimonio; ma, prima ancora, il matrimonio ruppe me!».
Ho sempre trovato che le coppie male assortite sono quelle più desiderose di vendicarsi: esse fanno
scontare al mondo intero di non poter più andare ciascuno per proprio conto. Per questo io voglio
che le persone oneste dicano l’una all’altra: «Noi ci amiamo: vediamo, se possiamo continuare ad
amarci! O la nostra promessa ha da essere un errore?».
(Da F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Parte III, fr. 24.)
FROMM
L’amore produttivo
Quel che conta è la particolare qualità dell’amore, non l’oggetto. Amore è esperienza di solidarietà
umana con il nostro prossimo, e ciò nell’amore erotico tra uomo e donna, nell’amore della madre
per il suo bambino, anche nell’amore per se stessi in quanto creature umane, nell’esperienza
mistica di unione. Nell’atto amoroso io sono con tutti, e tuttavia sono me stesso, un essere umano
unico, separato, limitato, morale. Infatti, proprio nella polarità tra separazione e unione, l’amore
nasce e rinasce.
(Da E. Fromm, Psicoanalisi della società contemporanea, Milano, Mondadori, 1960, p. 39.
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ORTEGA
"Sull'amore"
di Ortega Y Gasset
Ortega, con questa raccolta di saggi ha "dipinto" un bel quadro, ma il vero capolavoro di esso è
nella cornice: anziché decorativa, essa è essenziale: un ulteriore dipinto perimetrico che canta una
delle più vibranti apologie della donna, di una donna in particolare - Victoria Campo. Il succo di
tale raccolta possiamo estrarlo proprio da tale cornice aurea:
" A mio parere questa è la missione suprema della donna sulla terra: esigere,
esigere la perfezione dell'uomo".
E con ciò si apre una spirale di perfezione che mai potrà avere fine e in cui, secondo il nostro
intento, l’educazione avrà una parte da non sottovalutare. Lo sottolinea la stessa raccolta, che
comincia con un doveroso prologo, ma termina con un paradossale prologo, quello a Da Francesca
a Beatrice (opera di Victoria Ocampo), scritto dallo stesso Ortega negli anni venti, dopo avere
conosciuto l'autrice ed esserne rimasto affascinato. L'amore, se ben diretto, promuove la perfezione
della specie umana attraverso la donna ispiratrice, la quale oltre che madre fisica, diviene anche
madre spirituale di ogni progresso a tutti i livelli. Niente epilogo, dunque, ma un prologo ad ogni
inizio e ad ogni fine innamoramento. Tutte queste cose non crediamo siano casuali. La mente,
l'intelletto, quando ricamano scelgono geometrie e armonie che non sono racchiese solo nelle
parole, ma anche nel simbolismo dello scritto o del parlato: per l'artista vero, quello che riesce ad
attingere ai cieli dell'intuizione, un fiore non vuol dire soltanto fiore, ma molto di più.
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