L`interesse pubblico nell`esercizio della funzione di indirizzo

Guido Clemente di San Luca
Il confine fra illegittimità amministrativa
ed illecito penale
nell’esercizio delle attività discrezionali della P.A. (∗)
SOMMARIO: 1. Premessa. Delimitazione del tema e indicazione sintetica dei punti salienti per la sua trattazione. – PARTE PRIMA. – 2. Il ‘merito amministrativo’ come spazio che la legge assegna alla P.A. per la
trasformazione della fattispecie astratta codificata nella norma in determinazione concreta. – 2.1. La individuazione in astratto e la determinazione in concreto dell’interesse pubblico. – 2.2. La discrezionalità
amministrativa (anche a contenuto tecnico) e la discrezionalità tecnica. – 2.3. Il merito amministrativo
come comprensivo delle due specie di discrezionalità. – 3. La sottrazione del merito al sindacato giurisdizionale. – PARTE SECONDA. – 4. La illegittimità amministrativa nelle attività discrezionali della P.A.:
l’eccesso di potere. – 5. L’illecito penale nelle attività discrezionali della P.A.: l’abuso d’ufficio. – 5.1.
Fattispecie escluse dal tema. – 5.2. Fattispecie in cui l’illecito penale presuppone o addirittura coincide
con la illegittimità dell’atto amministrativo. – 6. Conclusioni.
1. Premessa. Delimitazione del tema e indicazione sintetica dei punti salienti
per la sua trattazione
Credo che la domanda sottostante al tema oggetto del nostro incontro, in
buona sostanza, sia questa: l’ordinamento affida al giudice – ordinario o amministrativo che sia – la cura del bene comune? La magistratura può svolgere un ruolo
di supplenza della pubblica amministrazione?
Dico subito a chiare lettere che, secondo la mia opinione, la risposta è decisamente no. Nel nostro ordinamento la cura del bene comune è assegnata alla P.A.,
ed il giudice, in uno Stato di diritto democratico di civil law, per definizione, non
può esercitare la funzione di supplenza nei confronti della P.A.; ove lo facesse,
violerebbe il cardine dello Stato di diritto, il principio di separazione dei poteri.
Naturalmente, la P.A. deve attendere a tale cura secundum legem, e non in
modo arbitrario. Ciò significa: a) che i suoi atti devono essere conformi al paradigma normativo che li disciplina, e cioè essere legittimi; e b) che i comportamenti
assunti dalle persone fisiche che pro tempore la incarnano – i suoi dirigenti, i suoi
(∗)
Testo scritto, rivisto dall’A., della lezione tenuta il 14 ottobre 2013 presso la Scuola Superiore della Magistratura.
funzionari, i suoi dipendenti tout court –, nello svolgimento dei compiti relativi
all’attività di ufficio, non possono violare la legge, devono cioè essere leciti.
Il tema che dobbiamo affrontare, allora, è il seguente: in che rapporto stanno
la illegittimità degli atti e la illiceità dei comportamenti, e più specificamente, se la
illiceità dei comportamenti coincida sempre con la illegittimità degli atti. E la questione, a ben vedere, si divide in due: a) se si possa avere un comportamento illecito pur essendo legittimo il correlato atto amministrativo; e b) se ogni atto amministrativo illegittimo implichi un comportamento illecito.
Ciò significa che (nella prima parte), dopo aver chiarito che dal ragionamento sono escluse le attività vincolate della P.A., dobbiamo spiegare che cosa intendiamo per ‘attività discrezionali della P.A.’, quel che, cioè, viene definito – comunemente, ma non sempre con lo stesso significato – come il ‘merito amministrativo’. Dopo di che (nella seconda parte), dobbiamo spiegare, per un verso, in cosa
consiste la ‘illegittimità amministrativa’ nelle attività discrezionali, e cioè riflettere
sul vizio dell’atto denominato ‘eccesso di potere’; e, per altro verso, in cosa consiste l’‘illecito penale’ nelle attività discrezionali, e dunque, segnatamente, quando
ricorre il reato di ‘abuso d’ufficio’.
Il tutto allo scopo ultimo di provare a delineare, appunto, il confine fra illegittimità amministrativa ed illecito penale, e dunque di capire se, ed eventualmente quali limiti, il giudice penale possa sindacare la legittimità degli atti amministrativi discrezionali.
PARTE PRIMA
2. Il ‘merito amministrativo’ come spazio che la legge assegna alla P.A. per la
trasformazione della fattispecie astratta codificata nella norma in determinazione concreta
Il Legislatore può disciplinare l’attività di cura dell’interesse pubblico o in
modo che alla P.A. venga assegnata semplicemente la mera verifica della ricorrenza in concreto delle ‘condizioni’ che lo stesso Legislatore ha già compiutamente
stabilito per comporre gli interessi secondari in gioco con quello primario; oppure
in modo che alla P.A. sia lasciato uno spazio per scegliere come curare l’interesse
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pubblico specifico nel concreto attraverso la mediazione compositiva degli interessi secondari.
È in questa distinzione che sta la differenza fra attività vincolata e attività
discrezionale, differenza che è appunto fondata sulla diversità del rapporto che intercorre tra la legge e l’azione amministrativa. L’attività amministrativa si definisce vincolata quando la legge disciplina in maniera pressoché integrale la materia
rimessa alla cura della P.A., codificando compiutamente tutti gli aspetti
dell’azione, e cioè tanto i suoi presupposti quanto la relativa decisione: solo in questi casi può dirsi, ancor oggi, che alla P.A. sia demandata la ‘mera’ esecuzione in
atto della legge.
Ed invero, oggi non più parlarsi di potere esecutivo, bensì di potere amministrativo, perché alla P.A. compete un’attività, non di mera esecuzione della legge, bensì di cura concreta degli interessi pubblici affidatale da questa.
Viceversa, l’attività amministrativa si definisce discrezionale quando la legge si limita a disciplinare soltanto alcuni aspetti della materia, demandando
all’autorità amministrativa il compito di scegliere la migliore soluzione da adottare,
tra quelle possibili secondo la legge, al fine di realizzare l’interesse pubblico specifico che la legge medesima ha affidato alla sua cura. A connotare la discrezionalità, dunque, è proprio questa – per così dire – ‘libertà vincolata ad uno scopo’,
l’interesse pubblico.
2.1. La individuazione in astratto e la determinazione in concreto
dell’interesse pubblico
È noto che, sul piano giuridico, per interesse pubblico non si intende semplicemente quello proprio della generalità dei consociati, o della collettività. Giuridicamente è pubblico l’interesse che la legge, e più precisamente il sistema delle fonti nel suo complesso, qualifica come tale: a prescindere dalla sua connotazione sostanziale.
È altrettanto noto, inoltre, che la individuazione in astratto non esaurisce il
‘percorso definitorio’ dell’interesse pubblico, richiedendosi ancora la sua determinazione in concreto.
La identificazione in astratto dell’interesse pubblico specifico (IPS), o primario, qualunque sia il livello normativo in cui si esprime, è comunque oggetto di esercizio della funzione politica (gli atti fonte sono atti politici per antonomasia).
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La determinazione in concreto dell’IPS passa, invece, attraverso la decisione
della P.A., alla quale compete di valutare tutti gli interessi in gioco – pubblici e privati – senza arbitrariamente pretermetterne alcuno (imparzialità), e di scegliere, sulla
base della ponderazione comparativa fra questi, la soluzione di contemperamento
capace di coniugare la massimizzazione dell’IPS con il minor pregiudizio possibile
da arrecare agli interessi secondari interagenti con esso (buon andamento).
Sotto il profilo oggettivo, anche l’amministrare implica il compiere una (o almeno una quota di) scelta a contenuto politico. Se, infatti, amministrare è curare
interessi, piuttosto che mera esecuzione della legge, fare amministrazione significa, nella sua intima essenza, fare politica, e dunque la relativa attività non può essere, almeno non del tutto, sottratta alle sedi ove la politica legittimamente si esplica.
La legge può rimettere alla P.A. la scelta della soluzione di mediazione fra
tutti gli interessi in gioco, in buona sostanza riservandole uno spazio, coprendo il
quale essa dovrà spiegare le ragioni in base alle quali ha scelto gli interessi secondari da pregiudicare e da soddisfare (in tutto o in parte); oppure può rimettere alla
P.A. soltanto la verifica della sussistenza dei presupposti, acclarata la quale essa
dovrà assumere un dato provvedimento.
La legge, dunque, quando assegna un potere alla P.A., nel disciplinarlo deve
sempre individuare almeno l’IPS cui detto potere resta funzionalizzato: questo, insomma, rappresenta l’àncora del potere amministrativo, o, se si preferisce, la sua
stella polare.
2.2. La discrezionalità amministrativa (anche a contenuto tecnico) e la discrezionalità tecnica
Possiamo perciò affermare che per attività discrezionale si intende quella attività che non è libera, dovendo comunque essere orientata dalla stella polare
dell’IPS; ma non è nemmeno vincolata, potendo e dovendo spaziare tra le soluzioni
possibili, con lo scopo ineludibile di tradurre il potere in provvedimento in modo
che sia realizzato in concreto quell’IPS (solo astrattamente) individuato dalla legge, senza arbitrariamente sacrificare alcuno degli altri interessi che, nella fattispecie, interagiscono con quello.
Con altre parole, la ‘discrezionalità amministrativa’ è un’attività, un potere,
di scelta, che si colloca nel momento finale dell’ideale percorso logico che si deve
compiere per conseguire la concretizzazione dell’IPS, sulla linea del traguardo, per
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così dire, del procedimento amministrativo, non influendo (se non in minima parte)
sui momenti precedenti, identificabili, descrittivamente, nella conoscenza e nella
valutazione dei presupposti dell’azione amministrativa.
In definitiva, la discrezionalità amministrativa si identifica con l’ambito di
manovra nell’an, nel quando e nel quomodo dell’azione (se, quando e come agire),
che la norma assegna alla P.A. per la realizzazione concreta di un IPS, nel contemperamento (di mediazione e sintesi) degli interessi secondari.
Diversa dalla discrezionalità amministrativa è la discrezionalità tecnica.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare al primo impatto, la discrezionalità
tecnica non consiste semplicemente nel disporre di una sfera di scelta caratterizzata
dalla presenza della scienza e della tecnica. Scienza e tecnica, nelle attività della
P.A. compaiono spesso, quasi sempre; ma non sempre allo stesso modo, e soprattutto non sempre con le stesse conseguenze giuridiche.
Ed invero, la discrezionalità tecnica deve essere tenuta distinta dalla discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico, giacché le due ipotesi vanno ricondotte a differenti modelli strutturali della previsione normativa che regola la fattispecie.
A) Il primo modello, quello della discrezionalità tecnica, si può schematicamente così sintetizzare: al verificarsi della sussistenza di un dato presupposto, che
si caratterizza per i suoi connotati tecnico-scientifici, ma che in punto di fatto è di
controversa accertabilità, l’autorità deve emanare il provvedimento nel modo in cui
ha stabilito la legge.
In altre parole, l’area discrezionale lasciata alla P.A. dalla legge concerne
soltanto la verifica della effettiva sussistenza di un presupposto tecnico-scientifico
che è di opinabile rilevabilità, allo scopo di assumere poi il provvedimento sul cui
contenuto la legge ha disposto in maniera esauriente.
Non omogenea a questa, almeno sotto il profilo teorico, è la fattispecie normativa che vede la P.A. vincolata nell’accertamento della sussistenza di presupposti tecnico-scientifici posti
dalla legge a fondamento inderogabile della sua azione. In tale ipotesi, quando cioè l’esito della
operazione volta ad acclarare la sussistenza del detto presupposto è certo ed inopinabile (ad es.,
verificare la composizione chimica di una sostanza), siamo di fronte ad un mero ‘accertamento
tecnico’, e cioè ad una attività amministrativa vincolata: deve esser chiaro che, in questo caso,
non è la struttura normativa ad azzerare gli spazi valutativi della P.A., ma la scienza di riferimento richiamata dalla norma, scienza che offre sul punto risposte indiscutibili.
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Laddove la norma assegna alla P.A. il compito di acclarare la sussistenza di
un presupposto di incerta ed opinabile rilevabilità, essa apre lo spazio ad un’attività
di scelta discrezionale, la quale, però, ha un oggetto specifico: non gli interessi,
bensì i criteri tecnico-scientifici per l’accertamento dei presupposti. Il diritto, in
buona sostanza, c’entra poco o niente: si limita a riconoscere alla scienza un ruolo
decisivo in un certo momento della fattispecie giuridica.
D’altra parte, va sottolineato che, sebbene discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa si possano (e perciò si debbano) tenere concettualmente distinte, spesso, sul piano pratico, finiscono per intrecciarsi, restando differenziabili su tale piano soltanto per gli effetti giurisdizionali, giacché la sindacabilità ad opera del giudice amministrativo, nel caso della ‘tecnica’,
pur restando qualitativamente identica, si amplia in maniera direttamente proporzionale alla
maggior quantità di limiti che gravano sull’esercizio concreto della discrezionalità.
B) Il secondo modello strutturale della previsione normativa regolativa della
fattispecie in cui gioca un ruolo la componente tecnico-scientifica è quello della
discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico: acclarata la sussistenza dei presupposti (a prescindere dal fatto che la relativa operazione conduca o meno ad una
loro sicura rilevabilità), l’autorità, in sede di definizione del contenuto concreto del
provvedimento, deve scegliere, fra le diverse soluzioni tecnico-scientifiche, quella
che reputa più idonea alla migliore realizzazione dell’IPS.
La differenza dal primo modello deriva dalla mera constatazione della morfologia della norma che disciplina il procedere dell’azione amministrativa, la quale
in nulla si differenzia da quella che regola l’agire tipicamente discrezionale.
Ed infatti, sempre che, in una data fattispecie concreta, sia stata chiarita la
equivalenza, sotto il profilo scientifico, delle soluzioni tecniche possibili (ciò, peraltro, non significa che sarebbero necessariamente equivalenti le conseguenze che
ciascuna di esse, una volta sussunta nella decisione, sarebbe in grado di produrre
nella vicenda di amministrazione), la valutazione che dovrà orientare la scelta di
una di queste non potrà che tener conto degli interessi secondari sui quali in concreto il provvedimento finirà per incidere, o comunque influire.
Naturalmente, tanto per il primo che per il secondo modello (e cioè, tanto
che si tratti di accertare la ricorrenza di un presupposto tecnico-scientifico
dell’azione, tanto che si tratti di scegliere la migliore soluzione tecnico-scientifica
per la realizzazione dell’IPS), la P.A. dovrà motivare il suo provvedimento più at-
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tentamente, potendo discostarsi da una soluzione per abbracciarne un’altra solo
avendone adeguatamente e razionalmente dimostrato il perché.
In conclusione, possiamo dire che la tecnica influisce sull’azione amministrativa in tre modi diversi, questa potendo esprimersi come: a) mero accertamento
tecnico, b) discrezionalità tecnica, c) discrezionalità amministrativa a contenuto
tecnico. Nei primi due la tecnica entra in gioco nella fase preparatoria del procedimento; nel terzo, invece, in quella decisoria (e quindi nel momento della decisione
‘politica’). Le due discrezionalità hanno in comune la capacità di scelta della P.A.
(la scelta, però, ha ad oggetto, nel primo caso, l’accertamento dei presupposti, e,
nel secondo, la composizione degli interessi): una scelta, quindi, c’è sempre; e la
scelta in quanto tale – come vedremo – è, secondo la giurisprudenza, parte del merito amministrativo.
2.3. Il merito amministrativo come comprensivo delle due specie di discrezionalità
Dobbiamo ora capire se il concetto di merito amministrativo coincida con
quello di discrezionalità amministrativa, ovvero includa anche quello di discrezionalità tecnica. Per rispondere occorre anzitutto tener distinto il merito inteso come
fatto (il merito di una questione) dal merito inteso come diritto (la questione di merito).
Nel diritto amministrativo, quando si usa la locuzione nella prima delle due
accezioni ci si riferisce – alla stessa stregua che nelle altre branche del diritto – agli
elementi fattuali, e non giuridici, di una data fattispecie. Per intendersi, ci si riferisce a quello che, nelle loro sentenze, i giudici illustrano come il ‘fatto’, e cioè la
vicenda concreta dedotta in giudizio (il ‘merito’, appunto, della causa), prima di
trattare dei profili di ‘diritto’, e cioè prima di affrontare la questione giuridica che
in ragione di quel fatto si propone, o, meglio ancora, prima di richiamare ed interpretare la disciplina giuridica in base alla quale quella questione deve essere risolta. Insomma, in questa accezione si distingue la questione di merito dalla questione
giuridica, ad indicare, cioè, la ‘contrapposizione’ fra il fatto ed il diritto.
Quando si usa la locuzione nella seconda accezione, invece, ci si riferisce,
non al fatto sul quale si controverte, ma alla convenienza ed opportunità della scelta di contenuto che, con riguardo a quel fatto, la P.A. è dalla legge chiamata ad effettuare (per realizzare in concreto l’interesse pubblico affidato alla sua cura), in
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modo da poter distinguere questo profilo da quello della legittimità della scelta
medesima.
Sul piano tecnicamente più rigoroso parliamo di merito amministrativo nella
seconda accezione. In questa accezione – è evidente – il merito si ‘contrappone’
alla legittimità: mentre il merito attiene alla opportunità e convenienza della scelta, la legittimità concerne la conformità della scelta al paradigma normativo di riferimento.
Al merito amministrativo si può attribuire un significato più o meno ampio.
È possibile, cioè, che il merito amministrativo venga circoscritto al campo della
discrezionalità amministrativa, ovvero includa anche quello della discrezionalità
tecnica.
In questa seconda ipotesi, naturalmente, l’ambito del merito amministrativo
si presenta più ampio, giacché copre tutta l’area che, in un certo senso, rimane estranea alla legittimità dell’atto: questa consiste nella conformità dell’atto alle
norme che disciplinano il potere del quale dispone l’autorità che lo emana, e cioè
nella corrispondenza tra fattispecie legale astratta e fattispecie concreta; tutto il resto è merito amministrativo.
La semplicità di questa conclusione non deve trarre in inganno: essa infatti è
solo apparente, giacché il parametro di legittimità rappresentato dall’IPS fissato
dalla legge deve essere integrato, in una valutazione di opportunità che
l’ordinamento riserva alla P.A., con quello costituito dagli interessi secondari,
pubblici e privati.
Del resto, il potere che l’ordinamento assegna alla P.A. – lo abbiamo già ricordato – va
correttamente qualificato come ‘amministrativo’, e non semplicemente come ‘esecutivo’.
Laddove la norma attributiva del potere così dispone, quindi, spetta alla P.A.
di decidere se e come realizzare l’IPS in concreto. In ciò consiste il merito delle
sue scelte, il quale investe la sfera che dovrebbe considerarsi ulteriore rispetto a
quella della corrispondenza tra fattispecie legale fissata in astratto dalla legge e fattispecie concreta ‘curata’ dalla P.A.
Il condizionale è d’obbligo, giacché, se non il merito in sé, ma il modo in cui
esso viene esercitato diventa possibile occasione per realizzare una illegittimità.
In altre parole, è vero che la soluzione di sintesi tra tutte le diverse situazioni
giuridiche soggettive coinvolte dall’azione amministrativa, pubbliche e/o private
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che siano, è dalla legge attribuita alla scelta della P.A., e che in questa scelta sta il
merito amministrativo. Ed è vero che dentro l’area del merito dobbiamo includere,
oltre alla discrezionalità amministrativa, anche la discrezionalità tecnica, il sindacato su entrambe essendo precluso al giudice amministrativo. Ma è altrettanto vero
che l’esercizio delle discrezionalità può risultare illegittimo, l’atto relativo integrando il vizio di legittimità dell’eccesso di potere.
Dentro i confini della legittimità, e cioè della conformità alla legge, dunque,
c’è tutto uno campo lasciato all’azione amministrativa. Anche questo campo, però,
è regolato, tant’è che le regole per l’agire discrezionale stabilite dall’art. 97 Cost.
sono talmente pregnanti che addirittura possono fondatamente qualificarsi come
‘definitorie’ della discrezionalità.
Il merito amministrativo è tutto ciò che, nel rispetto di tali regole, spetta
all’autonoma scelta della P.A.: esso si risolve, tanto nella valutazione dei presupposti scientificamente opinabili che la fattispecie normativa prevede siano acclarati
in funzione della decisione, tanto nella scelta che esita alla composizione mediativa
degli interessi, dalla quale deriva la definizione dell’interesse pubblico concreto.
In definitiva, il merito amministrativo costituisce lo spazio di discrezionalità
(a prescindere dall’oggetto e dalla fase procedimentale che caratterizzano i due tipi
di questa) l’‘ampiezza’ del quale è comunque stabilita dalla legge; è bene perciò
sottolineare che non si può parlare di merito amministrativo con riguardo agli atti
integralmente vincolati, e cioè del tutto privi di un margine, anche minimo, di discrezionalità (amministrativa o tecnica).
3. La sottrazione del merito al sindacato giurisdizionale
Da quanto abbiamo illustrato sin qui deriva che l’esercizio del merito amministrativo è insindacabile da parte del giudice (anche amministrativo), se non per i
profili di ‘eccesso di potere’ che i contenuti della scelta provvedimentale potrebbero presentare.
L’unico ‘bene comune’ affidato alla cura dei giudici – bene, peraltro, prezioso, e decisivo per il corretto funzionamento del sistema dello Stato di diritto – è la
verifica della conformità di atti e comportamenti rispetto alle prescrizioni normative.
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Queste possono essere interpretate, ma mai discusse in sede giurisdizionale.
Alla stessa stregua, al giudice è precluso di discutere la qualità – la convenienza, la
opportunità, la bontà – della scelta compiuta con un atto amministrativo. Questa
scelta può – e anzi deve – essere sindacata, ma soltanto nei limiti della sua eventuale difformità dal paradigma normativo di riferimento.
Tranne che nelle circoscritte ipotesi di giurisdizione di merito, definite tassativamente
dalla legge, il giudice amministrativo non può mai entrare nel merito della scelta effettuata dalla
P.A. con il provvedimento. Egli vanta, però, il sindacato di legittimità sull’atto, che è invece precluso al giudice ordinario, il quale può soltanto disapplicare il provvedimento che ha giudicato
illegittimo, ma al solo scopo di poter giudicare sulla controversia come se il rapporto fra la P.A.
ed il suo frontista non fosse stato intermediato dall’atto amministrativo, e dunque come se l’atto
non esistesse, tamquam non esset.
La insindacabilità del merito è un naturale corollario del principio di separazione dei poteri. Del resto, la complessità della realtà implica, di regola, che le soluzioni siano, addirittura ontologicamente, molteplici: perché, allora, ci si dovrebbe
fidare più del giudice che della P.A.?
Il giudice, pertanto, non può mai entrare nel merito della scelta amministrativa, perché ciò è precluso dal principio di separazione dei poteri: l’ordinamento ha
evidentemente assegnato questa scelta al potere amministrativo. Se avesse voluto
fare diversamente, avrebbe consentito al giudice di sindacarne la convenienza ed
opportunità; gli ha invece assegnato soltanto il compito di controllare che la scelta
sia o meno legittima, e cioè conforme o no al paradigma normativo di riferimento.
Il merito amministrativo, dunque, tranne che nelle rarissime ipotesi previste
dalla legge, è sottratto alla giurisdizione del giudice amministrativo. Quando la
legge sceglie di regolare la fattispecie secondo lo ‘schema’ che prevede
l’assegnazione alla P.A. di un margine, più o meno ampio, di discrezionalità, attribuisce alla scelta di questa uno spazio, più o meno significativo, dentro il quale,
secondo l’ordinamento, nessuno può entrare, nemmeno il giudice.
Questo, però, non significa che la P.A. possa fare liberamente quel che crede: deve comunque agire in conformità con i parametri che la legge stabilisce anche per quel che concerne le modalità di esercizio del suo potere di scelta; le scelte
di merito, perciò, pur essendo dall’ordinamento riservate alla P.A., non possono
essere illegittime.
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In definitiva, il merito amministrativo, che consiste nell’ambito di scelta riservato alla P.A., è in quanto tale sottratto – tranne che nelle rare ipotesi previste
dalla legge – al sindacato del giudice amministrativo, ed evidentemente, men che
meno è sottoposto a quello del giudice ordinario, penale o civile che sia.
Il giudice amministrativo, tuttavia, può indagare sul merito, allo scopo di rilevare una eventuale illegittimità nel suo esercizio. Epperò, può indagare, appunto,
sul merito, ma mai entrare nel merito. È questo un limite che appare invalicabile, a
meno di non voler stravolgere fin nel suo intimo l’impianto dell’intero sistema istituzionale.
Naturalmente, l’indagine sul merito non può effettuarsi se non attraverso le
evidenze formali dell’esercizio del potere, e cioè non solo sul provvedimento che
ne costituisce la manifestazione finale, ma anche sul procedimento che segna il
percorso giuridicamente rilevante per pervenire ad esso.
Ora, un provvedimento è legittimo se risulta conforme alle norme che disciplinano il potere esercitato dall’autorità che lo emana, stabilendo il paradigma che
l’atto deve rispettare. Resta allora da spiegare come il giudice è in grado di capire
se, ed in che misura, l’atto integri una deviazione dal fine per il quale il potere è
stato dalla legge assegnato alla P.A., se ed in che misura, cioè, ricorra il vizio di
eccesso di potere. Lo faremo fra breve.
Oltre il sindacato sull’eccesso di potere, però, da parte del G.A. (e a maggior
ragione da parte del G.O.) non pare proprio possibile andare: la sua verifica può, sì,
spingersi fino a scandagliare l’area del merito, ma soltanto per eventualmente rilevarvi una illegittimità, e mai per discutere la scelta della P.A., ciò essendogli radicalmente precluso.
La conclusione trova conferma anche nella giurisprudenza del G.O. Di recente le Sezioni
Unite della Cassazione civile (17/2/2012, n. 2312) – dopo aver ricordato che nella potestà giurisdizionale del Consiglio di Stato deve ritenersi compresa, «nell’ottica del sindacato sull’eccesso
di potere, la valutazione incidentale dei fatti emergenti dal pregresso rapporto da porre a raffronto con le ragioni addotte a fondamento della decisione di non proseguirlo o di non rinnovarlo»; e
che «è approdo indiscutibile nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite (S.U. 137 del 1999,
19604 del 2003, 28263 del 2005, 9443 del 2011 e 23302 del 2011)» l’assunto per cui «la eventuale sostituzione da parte del giudice amministrativo della propria valutazione a quella riservata
alla discrezionalità della amministrazione» costituisce «ipotesi di “sconfinamento” vietato della
giurisdizione di legittimità nella sfera riservata alla P.A., quand’anche l’eccesso in questione sia
compiuto da una pronunzia il cui contenuto dispositivo si mantenga nell’area dell’annullamento
dell’atto» – hanno affermato che «il parametro di inattendibilità – adottato per individuare, sulla
base delle risultanze della CTU, valutazioni tecniche inaccettabili (perché affette da pretesi errori
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madornali secondo l’espressione utilizzata dal Consiglio di Stato nella nota sentenza 601 del
1999), parametro da queste Sezioni Unite (S.U. 14893 del 2010) ritenuto certamente rispettoso
dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa nel sindacato delle valutazioni concorsuali
delle commissioni esaminatrici – appare non poco inappropriato ove utilizzato nello scrutinio di
legittimità di scelte ad alto tasso di “soggettività”». I supremi giudici hanno chiarito, in particolare, che «La evidenza dell’errore è un criterio certamente suggestivo per la sua astratta attitudine
selettiva ma, altrettanto certamente, è criterio aperto ad una lettura soggettiva che ne sconsiglia
la utilizzabilità come sintomo del censurabile eccesso di potere le volte in cui l’ambito valutativo
riservato alla P.A. non sia segnato da regole tecniche delle quali sia possibile controllare la coerenza e la adeguatezza, ma sia qualificato da evidenti riserve di soggettività della scelta (come
nel caso del più volte citato deficit di fiducia delineato del D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 38, comma 1, lett. F), riserve il cui rispetto è limite anche all’esercizio della giurisdizione», precisando
che «Il sindacato sulla motivazione del rifiuto deve, pertanto e specularmente, essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi
di fatto esibiti dall’appaltante come ragioni del rifiuto e non può avvalersi, onde ritenere avverato il vizio di eccesso di potere, di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità
della valutazione stessa (ove si recepiscano, come ha fatto il giudice amministrativo, le considerazioni esposte dal consulente). L’adozione di siffatti criteri di non condivisione, infatti, nella
parte in cui comporta una sostituzione nel momento valutativo riservato all’appaltante, determina
non già un mero errore di giudizio (insindacabile in questa sede) ma uno sconfinamento
nell’area ex lege riservata all’appaltante stesso e quindi vizia, per ciò, solo, la decisione, tale
sconfinamento essendo ravvisabile secondo la più qualificata dottrina e la giurisprudenza delle
Sezioni Unite, anche assai lontana nel tempo, anche quando il giudice formuli direttamente e con
efficacia immediata e vincolante gli apprezzamenti e gli accertamenti demandati
all’amministrazione (S.U. n. 2525 del 1964)». Per concludere che «è indiscutibile […] la piena
inclusione – nella potestà di esercitare il sindacato dell’eccesso di potere – della scelta di accertare pienamente i fatti, anche avvalendosi di un consulente», e tuttavia, «poiché il quadro normativo sul quale doveva esercitarsi il doveroso controllo di non pretestuosità assegna alla stazione
appaltante la facoltà di determinare essa stessa il punto di rottura dell’affidamento nel contraente,
una decisione che […] non accerti l’inesistenza di alcuna ragione giustificante o la esistenza indiscutibile di ragioni dissimulate ma valuti solamente la insufficienza dei dati addotti a sostenere
come plausibile il superamento di quel punto di rottura, incorre, all’evidenza, nel denunziato
vizio di eccesso di potere cognitivo ai danni dell’amministrazione» (i corsivi sono di chi scrive).
PARTE SECONDA
4. La illegittimità amministrativa nelle attività discrezionali della P.A.:
l’eccesso di potere
La illegittimità di un atto amministrativo, e cioè la sua difformità dal paradigma normativo, può concernere uno qualunque degli elementi costitutivi
dell’atto. Solo per due di questi – il soggetto e la finalità – l’ordinamento configura
un vizio ad hoc: la ‘incompetenza’ (che indica la violazione della competenza, ap-
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punto, e perciò attiene all’elemento soggettivo dell’atto, all’organo che lo emana),
e l’‘eccesso di potere’ (che indica la violazione della finalità, e perciò attiene
all’elemento funzionale dell’atto, alla realizzazione illegittima dell’IPS).
Qualunque altro tipo di vizio viene configurato in via residuale sotto la denominazione di (verrebbe di dire: mera) ‘violazione di legge’. È evidente che anche i primi due integrino violazioni di legge. È la legge che stabilisce il soggetto
competente ad emanare l’atto e la finalità che l’atto deve realizzare in concreto.
Appare chiaro che l’unico vizio che interessa nel ragionamento che stiamo
svolgendo è l’eccesso di potere, il tipico vizio dell’atto discrezionale. Ebbene, delle
due forme in cui questo vizio si presenta – il vero e proprio ‘sviamento di potere’ e
l’‘eccesso di potere rilevabile per figure sintomatiche’ – solo il secondo merita di
essere oggetto di riflessione.
Invero, quando ricorre un vero e proprio sviamento, l’esercizio del potere
amministrativo si rivela illegittimo senza alcuna particolare attività di indagine:
l’atto è stato esplicitamente emanato per un fine diverso da quello prescritto dalla
norma; la sua illegittimità è palese e facilmente rilevabile, alla stessa stregua di una
incompetenza o di una mera violazione di legge.
Il problema si pone quando si tratta di sindacare la legittimità di un atto che,
almeno apparentemente, ha realizzato il fine per il quale l’ordinamento ha assegnato il relativo potere. Tuttavia, ad una verifica che va oltre le apparenze, è possibile
che, sulla base di una serie di comprovati elementi sintomatici, il giudice si convinca che l’atto abbia comunque ‘tradito’ la sua funzione, non abbia effettivamente
raggiunto la sua finalità, non abbia legittimamente perseguito l’interesse pubblico
specifico assegnato dalla norma alla cura di quella autorità amministrativa: in una,
sia illegittimo per una violazione della legge consistente nel mancato perseguimento della finalità.
Insomma, l’atto è illegittimo quando realizza in concreto un fine diverso da
quello per il perseguimento del quale il potere è stato dalla norma attribuito alla
P.A. Il fine, però, per definizione, può essere realizzato in diversi modi: in ciò sta
la complessità di rilevazione in concreto del vizio in esame: allorché si tratti di verificare se un atto abbia o no in concreto realizzato il fine per il quale l’autorità è
attributaria del relativo potere, occorre necessariamente ragionare sul merito; ma
senza poter entrare nel merito.
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Il giudice, pertanto, se non può sostituire la sua scelta a quella della P.A.,
può, però, indagare su tale scelta allo scopo di scoprire se il merito di essa sia affetto da un vizio di legittimità. Per ciò si dice che l’eccesso di potere cammina sul
sottilissimo confine che segna la distinzione tra legittimità e merito: è indiscutibilmente un vizio di legittimità che, però, si manifesta nell’area del merito amministrativo.
L’eccesso di potere – l’abbiamo appena ricordato – si può manifestare in due
forme: il vero e proprio sviamento di potere, ovvero l’eccesso di potere che si rileva mediante le ccdd. ‘figure sintomatiche’.
L’eccesso di potere come sviamento. La prima ipotesi ricorre quando la P.A.
esercita il potere che le è stato assegnato per raggiungere, in maniera palese, un
fine diverso da quello previsto dalla legge.
Si pensi, ad esempio, al caso (oggi, peraltro, meno frequente) del provvedimento di trasferimento del dipendente negligente o infedele giustificato per esigenze organizzative, laddove,
invece, si sarebbe dovuta legittimamente intraprendere la strada del procedimento disciplinare,
utilizzando così un potere diverso da quello organizzatorio: l’uso di quest’ultimo per realizzare
un fine disciplinare, infatti, è illegittimo, l’atto relativo risultando affetto dal vizio di sviamento
di potere.
L’eccesso di potere rilevato attraverso le figure sintomatiche. È molto più
frequente che il fine istituzionale non venga ‘tradito’ dall’atto in maniera palese.
L’atto, cioè, apparentemente consegue l’obiettivo prefissato dalla legge, ma lo fa
ugualmente in maniera illegittima, perché in realtà comunque realizza un fine diverso da quello. Si tratta, però, di dimostrarlo, e non è affatto semplice.
La P.A., invero, deve giustificare nella motivazione dell’atto (ex art.3, L.
241/1990) il percorso logico-concettuale che ha seguito per raggiungere il fine:
tanto più deve farlo, quanto più tale percorso sia complesso ed articolato.
Il giudice amministrativo, non potendo – come abbiamo detto – entrare nel
merito, così esprimendosi sulla convenienza ed opportunità della scelta effettuata
dalla P.A., può, però, valutare se gli argomenti da questa posti a fondamento della
scelta (formalmente espressi nella motivazione dell’atto) siano convincenti quanto
a logicità, congruità, ragionevolezza.
Si rende, perciò, necessaria una indagine assai più sofisticata, volta a ricavare la eventuale sussistenza del vizio di eccesso di potere dai ‘sintomi’ rivelatori
della ‘malattia’ dell’atto. La strada per delineare le modalità di siffatta indagine è
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stata tracciata, attraverso un secolo di elaborazione, dalla giurisprudenza amministrativa, che ha enucleato, appunto, una serie di figure sintomatiche dell’eccesso di
potere.
Dobbiamo, però, fare molta attenzione. Quando parliamo di sintomi non
stiamo automaticamente parlando del vizio. In altre parole, se il vizio c’è sicuramente nel caso dello sviamento di potere, non altrettanto si può dire nel caso
dell’eccesso di potere rilevabile attraverso le figure sintomatiche.
Sebbene la giurisprudenza amministrativa spesso si limiti, forse un po’ pigramente, a sentenziare la sussistenza del vizio per il solo fatto di aver accertato la
sussistenza del sintomo, la logica che è propria del sintomo esclude un siffatto automatismo. Il diagnosta inferisce, sì, la sussistenza della malattia dalla accertata
presenza di sintomi; ma non può ricavare le sue conclusioni meccanicamente, perché, per definizione, un sintomo rappresenta solo un elemento indiziario.
Non è affatto detto, insomma, che, pur sussistendo un sintomo, debba necessariamente esserci la ‘malattia’, la deviazione dell’atto dall’alveo del fisiologico
esercizio del potere che in esso si manifesta. Il giudice, pertanto, una volta verificata la sussistenza di una figura sintomatica, può tanto convincersi della effettiva deviazione che ne consegue, e in questo caso annullerà l’atto perché illegittimo;
quanto considerare quei sintomi insufficienti a determinare la illegittimità dell’atto,
e perciò il suo annullamento.
Si pensi, ad esempio, al caso del provvedimento che sia in contrasto con una norma interna, ovvero con una prassi amministrativa consolidata: la P.A. ben può dimostrare in giudizio che
la scelta di provvedere derogando al disposto dalla norma interna, o discostandosi dalla prassi
consolidata, sia legittima, perché, sebbene la motivazione difetti di una esplicita dichiarazione in
tal senso, è comunque giustificata dalle esigenze di pubblico interesse in essa manifestate. Naturalmente, il caso dell’esempio va tenuto distinto da quello della cd. ‘integrazione postuma’ della
motivazione in sede giurisdizionale, che la giurisprudenza amministrativa pacificamente considera illegittima, sebbene di recente il Consiglio di Stato abbia ‘temperato’ l’affermazione con
riguardo al caso specifico della comunicazione di avvio del procedimento (art. 21-octies, L.
241/90), per il quale la integrazione postuma della motivazione è ammessa dalla legge, affermando che «il principio postulante la inammissibilità della integrazione postuma della motivazione in giudizio, ha sofferto di qualche temperamento nella giurisprudenza più recente di questo
Consiglio di Stato, anche in relazione al sopravvenuto disposto del comma 2 dell’art. 21 octies
legge 15/2005». Ed infatti, benchè l’obbligo di motivazione costituisca «presidio essenziale del
diritto di difesa», ad avviso del Collegio il relativo vizio viene correttamente dequotato «tutte le
volte in cui la omissione di motivazione successivamente esternata non abbia leso il diritto di
difesa dell’interessato, e comunque in fase infraprocedimentale fossero state percepibili le ragioni sottese all’emissione del provvedimento gravato» (Sez. IV, 7/6/2012, n. 3376).
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In definitiva, il giudice amministrativo – e a maggior ragione il giudice ordinario, civile o penale che sia – non può mai entrare nel merito, ma può rilevare un
vizio di legittimità che attiene al merito, ponendo sotto osservazione il campo di
esercizio di questo; e può concludere per la illegittimità concernente il merito di un
atto soltanto se, dalla accertata sussistenza di una o più figure sintomatiche, si convince della deviazione del corso naturale del potere.
5. L’illecito penale nelle attività discrezionali della P.A.
L’ultimo profilo che dobbiamo affrontare è quello relativo alle fattispecie
normative che configurano la illegittimità dell’atto come un reato, evidentemente
laddove detta illegittimità, non si risolve in una ‘mera’ violazione di legge, o in una
incompetenza, e nemmeno in uno sviamento di potere – che sono tutti vizi rilevabili senza significative incertezze –, ma consiste in un eccesso di potere rilevabile
tramite le figure sintomatiche.
5.1. Fattispecie escluse dal tema
Restano pertanto escluse dal tema che stiamo trattando le fattispecie in cui
l’illecito penale prescinde dalla illegittimità dell’atto amministrativo e quindi dalla
accertata sussistenza di questa.
Si pensi a quei casi in cui il procedimento ed il conseguente provvedimento siano pienamente legittimi, e tuttavia il funzionario ‘concuta’ uno o più soggetti interessati, ovvero si faccia
corrompere da questi, lasciandogli intendere che ‘manipolerà’ l’esercizio del potere per favorirli,
sebbene ciò non sia necessario perché l’esito del procedimento risulterebbe comunque loro favorevole. Va tuttavia considerato che il rapporto che lega la illegittimità dell’atto e la illiceità del
comportamento non è il medesimo che lega l’altra forma di invalidità dell’atto amministrativo, la
nullità, e la illiceità del comportamento: al riguardo è interessante ricordare una non molto risalente sentenza del Consiglio di Stato, il quale ha dichiarato la nullità delle concessioni edilizie
rilasciate da un Sindaco condannato per abuso di ufficio proprio per il loro rilascio. Ad avviso
del Collegio, il fatto che «la formazione della volontà dell’allora sindaco era avvenuta in modo
non libero e spontaneo ma in ambiente collusivo penalmente rilevante», reca come conseguenza
la «non riferibilità delle relative concessioni all’Amministrazione comunale per interruzione del
relativo rapporto organico», configurandosi così la nullità delle concessioni per mancanza di uno
degli elementi essenziali ex art. 21-septies, L. 241/1990 (Sez. V, 4/3/2008, n. 890).
In secondo luogo, restano fuori dal tema le fattispecie in cui l’illecito penale
dipende dalla illegittimità di un atto amministrativo vincolato, o comunque quelle
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per le quali la illegittimità si presenta rilevabile senza doversi effettuare alcuna particolare indagine.
Si pensi alle fattispecie previste dal Codice Penale all’art. 235 («Espulsione od allontanamento dello straniero dallo Stato», il cd. ‘Foglio di via obbligatorio’), o all’art. 650 («Inosservanza dei provvedimenti dell’autorità»), ovvero a quelle dei ccdd. ‘reati edilizi’ (D.P.R.
380/2001): tutte queste, per le ragioni appena espresse, sono fuori dal tema, giacché si tratta di
casi in cui il potere amministrativo viene esercitato, in buona sostanza, nelle forme dell’attività
vincolata, e/o comunque la rilevazione della illegittimità del suo esercizio non richiede indagini
particolarmente ‘sofisticate’.
5.2. Fattispecie in cui l’illecito penale presuppone o addirittura coincide con la
illegittimità dell’atto amministrativo
L’unica vera ipotesi da prendere in considerazione è quella dell’art. 323
C.P., secondo cui «Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico
ufficiale o l’incaricato di pubblico sevizio che, nello svolgimento delle funzioni o
del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo
di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli
altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio
patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da
uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità».
Gli spunti di riflessione offerti dall’art. 323 C.P. sono davvero tanti. Al riguardo la giurisprudenza della Cassazione penale non esibisce un orientamento
pacifico. Schematizzando, possiamo riassumerla individuando tre filoni di sentenze: quelle che ammettono il sindacato sullo sviamento di potere; quelle che lo estendono all’eccesso di potere tout court, fino a sindacare il rispetto del principio
di imparzialità di cui all’art. 97 Cost.; e quelle che escludono una tale estensione.
Prima di esaminare i detti tre filoni, però, e pur senza poterci soffermare sul
punto, è opportuno sottolineare, per un verso, che ai fini della configurazione concreta del reato è necessario il dolo (elemento soggettivo del reato), che deve essere
intenzionale (inteso, cioè, come volontà diretta a quel determinato fine vietato dalla
norma). Ciò che, insomma, il giudice penale deve sempre, in ogni caso, provare è
la «intenzionalità» del «vantaggio procurato» e/o del «danno procurato».
Ed infatti, come è stato del tutto condivisibilmente sostenuto, «la vicenda amministrativa
singolarmente considerata, anche se manifestamente viziata, non può essere sufficiente a confi-
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gurare un abuso penalmente rilevante, richiedendosi qualcosa di più, per l’appunto il dolo specifico, la volontà di arrecare un vantaggio o un danno ingiusto […] sarebbe errato pretendere che
l’intenzionalità caratterizzata da favoritismo o da prevaricazione emerga oggettivamente ed esclusivamente dal provvedimento amministrativo e dal suo iter […]. In realtà l’orientamento
soggettivo illecito non sempre si riverbera sul provvedimento amministrativo. È allora necessario
ricostruire l’intero percorso e il giudice penale non deve soffermare la sua attenzione esclusivamente sugli atti e provvedimenti, ma anche sui comportamenti materiali, le omissioni, gli atti
interni del procedimento, gli atti di diritto privato e in genere tutti gli elementi rilevanti indicativi
di quella intenzionalità criminosa, prescindendo dai loro caratteri formali. Soltanto
un’esplorazione profonda dell’attività amministrativa […] porterà a far emergere in modo attendibile quella diversa e dominante finalità privata che contrassegna la fattispecie di cui all’art. 323
c.p.» (così F. NAPOLEONE, L’abuso d’ufficio tra legittimità ed illegittimità dell’attività amministrativa, in Dir. Pub., 1997, pp. 107 ss., 111-112).
In proposito non è inutile ricordare una sentenza del 2008 della sesta Sezione
della Cassazione penale, nella quale si afferma che «l’abuso d’ufficio, con la novella del 1997, ha assunto le caratteristiche di “reato di evento” e si configura –
nella formulazione della fattispecie incriminatrice con l’avverbio “intenzionalmente” – là dove l’evento sia la conseguenza immediatamente voluta dall’agente. Ne
discende, pertanto che il reato – nonostante la violazione di legge che, peraltro,
potrebbe costituire un indice rivelatore della rappresentazione e volontà della condotta – non si configura allorché risulti che la condotta sia espressione di una
volontà volta a realizzare altro e diverso interesse collettivo e risulti così smentita l’esclusiva e diretta “intenzione” del soggetto agente, investito del pubblico servizio, di arrecare un danno ingiusto ai destinatari dell’atto. In altri termini, nel delitto di abuso d’ufficio, per la configurabilità dell’elemento soggettivo è
richiesto che l’evento – costituito dall’ingiusto vantaggio patrimoniale o dal danno
ingiusto – sia voluto dall’agente e non semplicemente previsto e accettato come
possibile conseguenza della propria condotta, per cui deve escludersi la sussistenza
del dolo, sotto il profilo dell’intenzionalità, qualora risulti, con ragionevole certezza, che l’agente si sia proposto il raggiungimento di altro fine pur apprezzabile sotto il profilo collettivo» (Sez. VI, 27/6/2008, n. 33844).
Per altro verso, va sottolineato, quanto alla condotta (elemento oggettivo del
reato), che la legge richiede come necessaria la «violazione di norme di legge o di
regolamento», così sembrando ancorare il reato ad una attività illegittima della
P.A. (sia giuridica che materiale).
E veniamo all’esame dei tre filoni rinvenibili nella giurisprudenza della Cassazione penale.
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A) Mette conto di riferire anzitutto quello – che appare del tutto condivisibile
– in base al quale la Corte ritiene rilevabile ad opera del giudice penale la illegittimità dell’atto amministrativo per ‘sviamento di potere’ ai fini dell’accertamento
della «violazione di norme di legge o di regolamento».
In una sentenza del 2001, ad esempio, si fa riferimento ai «lavori preparatori», dai quali la Corte esplicitamente dichiara di ricavare che «l’art. 323 c.p., nel
prevedere che la condotta del pubblico ufficiale si caratterizzi per la violazione di
norme di legge o di regolamento, ha voluto evitare, quanto al controllo del giudice
penale, che questi, ispirandosi ad esigenze di giustizia espresse da principi quali
l’eguaglianza, l’imparzialità, il buon andamento, possa sindacare i comportamenti
che rientrano nell’ambito di discrezionalità del pubblico ufficiale, o sovrapponendo
alle scelte dell’amministratore proprie scelte che ritiene più rispettose di canoni
fondamentali, o apprezzando in via sintomatica la violazione di legge, valendosi
dei tradizionali strumenti del sindacato di eccesso di potere, quali
l’irragionevolezza della motivazione addotta, l’inadeguatezza dell’istruttoria, la
disparità di trattamento e via dicendo». Nel proseguire il ragionamento la Corte
precisa, tuttavia, che ciò «non esclude che il medesimo giudice si valga, per accertare una violazione di norme di legge, di tutti gli strumenti ermeneutici coessenziali
alla sua funzione. La dizione “violazione di norma di legge”, insomma, se,
nell’alludere alla tripartizione classica dei vizi dell’atto amministrativo, pare impedire la rilevanza penale del merito amministrativo nonché del vizio di eccesso di
potere, non circoscrive però al solo tenore letterale, logico o sistematico della disposizione di riferimento il contrasto tra quanto posto in essere e la legge». Se ne
deriva che «tale dizione implica che la violazione possa riguardare anche
l’elemento teleologico della norma e possa valutarsi anche sotto il profilo finalistico», per cui, «se l’infedeltà allo specifico fine indicato dal legislatore si realizza
con “svolgimenti della funzione o del servizio” che trasmodano da ogni possibile
opzione che è stata commessa al pubblico ufficiale per realizzare tale fine, è del
tutto corretto da parte del giudice penale concludere che nella specie la norma di
legge è stata violata» (Sez. VI, 10/12/2001, n. 1229).
L’orientamento è confermato da numerose altre sentenze della stessa sesta
Sezione. Nel 2005, infatti, si afferma che «Il reato di abuso di ufficio connotato da
violazione di legge è configurabile anche in caso di sviamento di potere, cioè
quando il comportamento dell’agente, pur formalmente corrispondente alla norma
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che regola l’esercizio dei suoi poteri, è tenuto in assenza delle ragioni d’ufficio che
lo legittimerebbero e produce intenzionalmente un danno alla persona offesa» (Sez.
VI, 11/3/2005, n. 12196 – Fattispecie relativa a procedure di identificazione, ispezione e fotosegnalazione condotte da agenti di polizia senza reale necessità ed a
ritenuti fini di vessazione).
Quest’ultima affermazione viene più volte ribadita successivamente. Nel
2006: «Il reato di abuso di ufficio, connotato da violazione di norme di legge o di
regolamento, è configurabile non solo quando la condotta tenuta dall’agente sia in
contrasto con il significato letterale, logico o sistematico della disposizione di riferimento, ma anche quando la stessa contraddica lo specifico fine perseguito dalla
norma, concretandosi in uno “svolgimento della funzione o del servizio” che oltrepassa ogni possibile opzione attribuita al pubblico ufficiale o all’incaricato di
pubblico servizio per realizzare tale fine» (Sez. VI, 18/10/2006, n. 38965 – In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto configurabile il suddetto reato in
capo ai pubblici amministratori addetti al controllo di una fondazione ex art. 25
cod. civ., allorquando il potere loro affidato per assicurare l’aderenza dell’operato
dell’ente alle finalità previste dall’atto costitutivo sia esercitato in modo da ignorare tali obiettivi e al solo fine di procacciare vantaggi patrimoniali agli amministratori).
Nel 2009: «Il delitto di abuso d’ufficio è configurabile non solo quando la
condotta si ponga in contrasto con il significato letterale, o logico-sistematico di
una norma di legge o di regolamento, ma anche quando la stessa contraddica lo
specifico fine perseguito dalla norma, concretandosi in uno “svolgimento della
funzione o del servizio” che oltrepassa ogni possibile scelta discrezionale attribuita al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio per realizzare tale
fine» (Sez. VI, 25/9/2009, n. 41402 – In applicazione di tale principio, la S.C. ha
ravvisato il predetto reato in relazione alla illegittima composizione numerica delle
commissioni permanenti di lavoro formate dal presidente e dai consiglieri di una
circoscrizione comunale in violazione dell’art. 39, comma quarto, del regolamento
comunale sul decentramento amministrativo, in modo da ottenere la liquidazione di
un maggior numero di gettoni di presenza alle sedute delle relative commissioni).
Nel 2011: «Il delitto di abuso d’ufficio è configurabile non solo quando la
condotta si ponga in contrasto con il significato letterale, o logico-sistematico di
una norma di legge o di regolamento, ma anche quando la stessa contraddica lo
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specifico fine perseguito dalla norma attributiva del potere esercitato, per realizzare uno scopo personale od egoistico, o comunque estraneo alla P.A., concretandosi in uno “sviamento” produttivo di una lesione dell’interesse tutelato
dalla norma incriminatrice» (Sez. VI, 5/7/2011, n. 35597 – Fattispecie in cui un
carabiniere aveva imposto a delle cittadine extracomunitarie l’obbligo di esibizione
dei documenti di soggiorno, ingiungendo loro di attendere l’arrivo di una pattuglia
dei carabinieri esclusivamente per finalità ritorsive e vessatorie).
Nel corso dello stesso anno, poi, l’orientamento trova definitiva affermazione in una sentenza delle Sezioni Unite: «Ai fini della configurabilità del reato di
abuso d’ufficio, sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la
condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano
l’esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione
di legge poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne
legittima l’attribuzione». La Corte spiega che «Per qualsivoglia pubblica funzione autoritativa, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo pubblico in funzione del quale è attribuita la potestà, che del potere costituisce la condizione intrinseca di legalità»,
ricordando che «Secondo la giurisprudenza nettamente prevalente di questa Corte,
si ha pertanto violazione di legge, rilevante a norma dell’art. 323 c.p., non solo
quando la condotta di un qualsivoglia pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con
le norme che regolano l’esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche
quando difettino le condizioni funzionali che legittimano lo stesso esercizio del
potere (profilo dell’attribuzione), ciò avendosi quando la condotta risulti volta alla
sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito», e concludendo che «Anche in questa ipotesi si realizza un vizio della funzione legale, che è denominato sviamento di potere e che integra violazione di
legge perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l’attribuzione (in termini analoghi, tra le tante, Sez. 6,
n. 5820 del 09/02/1998, Mannucci, Rv. 211110; Sez. 6, n. 28389 del 19/05/2004,
Vetrella, Rv. 229594; Sez. 6, n. 12196 dell’11/03/2005, Delle Monache, Rv.
231194; Sez. 6, n. 38965 del 18/10/2006, Fiori, Rv. 235277; Sez. 6, n. 41402 del
25/09/2009, D’Agostino, Rv. 245287; Sez. 5, n. 35501 del 16/06/2010, De Luca,
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Rv. 248496; Sez. 6, n. 35597 del 05/07/2011, Barbera)» (Sez. Un., 29/9/2011, n.
155 – Fattispecie relativa alla omessa riunione di trentacinque procedure esecutive
complessivamente identiche quanto ai soggetti ed all’oggetto, in ciascuna delle
quali partecipavano in forma di intervento le medesime trentacinque associazioni
pignoranti, con conseguente abnorme lievitazione delle spese processuali liquidate
dal Giudice dell’esecuzione in favore delle associazioni creditrici facenti capo al
coimputato, che agiva in proprio, quale difensore, e a nome delle predette associazioni di cui era rappresentante e titolare).
Come è ovvio, l’orientamento viene confermato anche successivamente. Nel
2012: «Ai fini della configurabilità del reato di abuso d’ufficio, sussiste il requisito
della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia
svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche
quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente
con quello per il quale il potere è attribuito, configurandosi in tale ipotesi il vizio
dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poiché lo stesso non
viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l’attribuzione» (Sez.
VI, 16/10/2012, n. 42182 – Fattispecie relativa alla condanna di quattro agenti di
polizia per quanto accaduto in seguito ad un controllo eseguito con modalità violente).
B) Il secondo filone rinvenibile nella giurisprudenza della Cassazione si caratterizza per affermare che il giudice penale, ai fini dell’accertamento della «violazione di norme di legge o di regolamento», possa rilevare la illegittimità dell’atto
amministrativo ricavandola anche dal vizio di eccesso di potere per figure sintomatiche, e segnatamente dalla violazione del principio di imparzialità ex art. 97 Cost..
La stessa sesta Sezione, infatti, nel 2011 sostiene che «In tema di abuso
d’ufficio, il requisito della violazione di norme di legge può essere integrato anche
solo dall’inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della P.A., per
la parte in cui esprime il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi che
impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola
di comportamento di immediata applicazione» (Sez. VI, 17/2/2011, n. 27453).
Poi, ancor più chiaramente, in due sentenze del giugno 2012, secondo la
prima delle quali «il legislatore della novella non ha inteso limitare la portata applicativa dell’art. 323 c.p. ai casi di violazione di legge in senso stretto, avendo voluto far rientrare anche le altre situazioni che integrano un vizio dell’atto ammini-
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strativo: dunque, anche le ipotesi di eccesso di potere, configurabili laddove vi sia
stata oggettiva distorsione dell’atto dal fine di interesse pubblico che avrebbe dovuto soddisfare; e quelle di sviamento di potere, riconoscibili se il potere pubblico
è stato esercitato al di fuori dello schema che ne legittima l’attribuzione». Nella
stessa pronuncia significativamente si afferma che «il requisito della violazione di
norme di legge ben può essere integrato anche solo dall’inosservanza del principio
costituzionale di imparzialità della Pubblica Amministrazione, per la parte in cui
esprime il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi ed impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione. Anche nell’art. 97 Cost. “che pur detta principi
di natura programmatica”, è individuabile un residuale significato precettivo relativo all’imparzialità dell’azione amministrativa e, quindi, un parametro di riferimento per il reato di abuso d’ufficio». Fino ad affermarsi espressamente (ma – va evidenziato – non senza una qualche imprecisione tecnica, giacché si mostra di confondere il principio di imparzialità con quello di uguaglianza formale di cui all’art.
3, co. 2, Cost.) che «L’imparzialità a cui fa riferimento l’art. 97 Cost. consiste,
infatti, nel divieto di favoritismi, nell’obbligo cioè per la Pubblica Amministrazione di trattare tutti i soggetti portatori di interessi tutelati alla stessa maniera, conformando logicamente i criteri oggettivi di valutazione alle differenziate
posizioni soggettive. In sostanza, il principio d’imparzialità, se riferito all’aspetto
organizzativo della Pubblica Amministrazione, ha certamente una portata programmatica e non rileva ai fini della configurabilità del reato di abuso d’ufficio, in
quanto detto principio generale deve necessariamente essere mediato dalla legge di
attuazione; lo stesso principio, invece, se riferito all’attività concreta della Pubblica
Amministrazione, che ha l’obbligo di non porre in essere favoritismi e di non privilegiare situazioni personali che confliggono con l’interesse generale della collettività, assume i caratteri e i contenuti precettivi richiesti dall’art. 323 c.p., in quanto
impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola
di comportamento di immediata applicazione” (così Sez. 6, n. 27453 del
17/02/2011, Acquistucci, Rv. 250422; conf. Sez. 2, n. 35048 del 10/06/2008, Masucci, Rv. 243183; Sez. 6, n. 25162 del 12/2/2008, Sassara, Rv. 239892)» (Sez. VI,
12/6/2012, n. 25180).
A distanza di un paio di giorni, la medesima Sezione afferma nuovamente
che «In tema di abuso di ufficio, il requisito della violazione di legge può consiste-
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re anche nella inosservanza dell’art. 97 della Costituzione, nella parte immediatamente precettiva che impone ad ogni pubblico funzionario, nell’esercizio delle
sue funzioni, di non usare il potere che la legge gli conferisce per compiere deliberati favoritismi e procurare ingiusti vantaggi ovvero per realizzare intenzionali vessazioni o discriminazioni e procurare ingiusti danni» (Sez. VI, 14/6/2012, n.
41215).
Fino alla più recente pronuncia del 2013, con la quale, dopo aver ripetuto
che «il legislatore della novella non ha inteso limitare la portata applicativa
dell’art. 323 c.p. ai casi di violazione di legge in senso stretto, avendo voluto far
rientrare anche le altre situazioni che integrano un vizio dell’atto amministrativo:
dunque, anche le ipotesi di eccesso di potere, configurabili laddove vi sia stata oggettiva distorsione dell’atto dal fine di interesse pubblico che avrebbe dovuto soddisfare; e quelle di sviamento di potere, riconoscibili se il potere pubblico è stato
esercitato al di fuori dello schema che ne legittima l’attribuzione (in questo senso
Sez. U, n. 155 del 29/09/2011, Rossi, Rv. 251498)», la Sezione ribadisce a chiare
lettere che «il requisito della violazione di norme di legge ben può essere integrato
anche solo dall’inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della
Pubblica Amministrazione, per la parte in cui esprime il divieto di ingiustificate
preferenze o di favoritismi ed impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione.
Anche nell’art. 97 Cost., “che pur detta principi di natura programmatica, è individuabile un residuale significato precettivo relativo all’imparzialità dell’azione amministrativa e, quindi, un parametro di riferimento per il reato di abuso d’ufficio».
Confermando di accogliere un’accezione della imparzialità che non appare condivisibile: «L’imparzialità a cui fa riferimento l’art. 97 Cost. consiste, infatti, nel divieto di favoritismi, nell’obbligo cioè per la Pubblica Amministrazione di trattare tutti i soggetti portatori di interessi tutelati alla stessa maniera, conformando
logicamente i criteri oggettivi di valutazione alle differenziate posizioni soggettive.
In sostanza, il principio d’imparzialità, se riferito all’aspetto organizzativo della
Pubblica Amministrazione, ha certamente una portata programmatica e non rileva
ai fini della configurabilità del reato di abuso d’ufficio, in quanto detto principio
generale deve necessariamente essere mediato dalla legge di attuazione; lo stesso
principio, invece, se riferito all’attività concreta della Pubblica Amministrazione,
che ha l’obbligo di non porre in essere favoritismi e di non privilegiare situazioni
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personali che confliggono con l’interesse generale della collettività, assume i caratteri e i contenuti precettivi richiesti dall’art. 323 c.p., in quanto impone al pubblico
ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento
di immediata applicazione” (così, tra le molte, Sez. 6, n. 25180 del 12/06/2012,
D’Emma, Rv. 253118; Sez. 6, n. 27453 del 17/02/2011, Acquistucci, Rv. 250422;
Sez. 2, n. 35048 de. 10/06/2008, Masucci, Rv. 243183; Sez. 6, n. 25162 del
12/2/2008, Sassara, Rv. 239892)» (Sez. VI, 26/6/2013, n. 34086).
C) Il terzo filone sembra in qualche modo contraddire il secondo: con queste
sentenze, invero, la Cassazione pare proprio escludere che il giudice penale, ai fini
dell’accertamento della «violazione di norme di legge o di regolamento», necessario perché sia sussistente il reato di cui all’art. 323 C.P., possa rilevare la illegittimità dell’atto amministrativo anche mediante il sindacato sull’eccesso di potere
attraverso le figure sintomatiche, ovvero sulla violazione del principio di imparzialità ex art. 97 Cost.
In una più risalente sentenza della terza Sezione, la Corte aveva affermato
addirittura che «In tema di abuso d’ufficio, l’art. 1 della legge 16 luglio 1997, n.
234, che ha sostituito l’art. 323 cod. pen., ha ancorato la configurabilità della condotta materiale alla violazione di leggi o di regolamenti, così da circoscrivere univocamente in ambiti definiti i presupposti del comportamento punibile. Ne consegue che, mentre nel sistema previgente, nel silenzio della legge assumevano rilievo, ove la condotta si fosse estrinsecata nell’adozione di provvedimenti amministrativi illegittimi, sia l’incompetenza, sia l’eccesso di potere, sia la violazione di
legge, nell’attuale sistema ai fini della condotta di abuso rilevano soltanto la violazione di norme di legge o di regolamento e l’inosservanza del dovere di astensione
in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi
prescritti (quindi, al di là della violazione di leggi o di regolamenti ora vigenti)»
(Sez. III, 1/9/1999, n. 11831).
Successivamente la sesta Sezione ha chiarito, meno drasticamente, che «Non
è configurabile il reato di abuso di ufficio in presenza di un mero addebito di “eccesso di potere”» (Sez. VI, 16/12/2002, n. 1761 – In applicazione del principio, la
Corte ha ritenuto insussistente l’ipotesi delittuosa a carico del capo di un ente pubblico economico il quale, non potendo stipulare contratti di lavoro a tempo indeterminato, si era avvalso dei rinnovi di contratti di lavoro a tempo determinato,
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condotta sintomatica, sotto il profilo amministrativistico, del vizio di “eccesso di
potere”).
E poi che «Non è idonea a rendere configurabile la violazione di legge rilevante ai fini dell’integrazione del delitto di abuso d’ufficio la sola inosservanza di
norme di principio o di quelle genericamente strumentali alla regolarità dell’azione
amministrativa» (Sez. VI, 11/10/2005, n. 12769 – Nella specie, in applicazione di
tale principio, la Corte, in un caso in cui all’imputato erano stati contestati i reati di
falso e di abuso d’ufficio per avere alterato la copia di una circolare al fine di danneggiare un dipendente, ha escluso che, una volta ritenuta l’insussistenza del primo
di detti reati, potesse affermarsi la sussistenza del secondo, con riferimento alla
dedotta violazione, in particolare, dell’art. 97 Cost.).
E ancora, richiamando un arresto della seconda Sezione, che «“A seguito
della nuova formulazione della fattispecie di abuso di ufficio ad opera della L. 16
luglio 1997, n. 234, che ha novellato l’art. 323 c.p., il reato in questione non può
configurarsi se non in presenza di una ‘violazione di norma di legge o di regolamento’ (ovvero di una omissione del dovere di astenersi ricorrendo un interesse
proprio dell’agente o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti). Ne consegue che è stata espunta dall’area della rilevanza penale ogni ipotesi di abuso di
poteri o di funzioni non concretantesi nella formale violazione di norme legislative
o regolamentari o del dovere di astensione, negandosi al giudice penale la possibilità di invadere l’ambito della discrezionalità amministrativa che il legislatore ha ritenuto, anche per esigenze di certezza del precetto penale, di sottrarre a tale
sindacato” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 37515 del 29/04/2004 Ud. (dep. 23/09/2004)
Rv. 229715; Corsi)» (Sez. VI, 30/5/2007, n. 26633).
Nello stesso anno, poco dopo, la terza Sezione della Corte così si esprime:
«la giurisprudenza prevalente ha ritenuto che gli atti amministrativi che rimuovono
un ostacolo al libero esercizio dei diritti (nulla osta, autorizzazioni) o che costituiscono diritti in capo a soggetti privati (concessioni), se illegittimi, non possono essere disapplicati dal giudice penale a meno che la disapplicazione non trovi fondamento in una esplicita previsione legislativa ovvero nel generale potere del giudice di interpretare la norma penale nei casi in cui l’illegittimità dell’atto amministrativo si configuri essa stessa come elemento essenziale della fattispecie penale
(Sez. Un., 31 gennaio 1987, n. 3, Giordano, n. 176304 e 175115), ovvero quando
l’atto amministrativo, per essere frutto di collusione tra amministratori e soggetti
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interessati, non possa essere oggettivamente riferito alla sfera del lecito giuridico
(Sez. 3, 18 novembre 1987, n. 673/88, Forlani, m. 177439), o quando sia privo di
uno dei suoi requisiti essenziali (forma, volontà, contenuto), oppure provenga da
organo assolutamente privo del potere di adottarlo, o sia frutto di attività criminosa
del titolare del potere, mentre per tali atti la disapplicazione non è consentita quando sia viziato il procedimento amministrativo che ha preceduto il provvedimento, e
cioè il modo in cui il potere è stato esercitato, giacché in tal caso il difetto non attiene all’esistenza dell’atto finale, ma alla legittimità del complessivo comportamento tenuto dall’autorità (Sez. 6, 31 agosto 1995, n. 2378, Barillaro, n. 202581)».
E, dopo aver ricordato che «Alcune decisioni, poi, hanno sostenuto in genere che
l’illegittimità dell’atto amministrativo può essere sindacata in via incidentale dal
giudice penale solo se sia “macroscopica” (ex plurimis Sez. 3, 24 gennaio 1996,
n. 4421, Oberto, n. 204885) o “eclatante” (Sez. 3, 23 dicembre 1997, n. 11988,
Controzzi, n. 209194). In ogni caso, anche quelle pronunce che sostengono la sindacabilità della illegittimità (oltre che della illiceità) degli atti amministrativi escludono, in modo espresso o tacito, che il giudice penale possa sindacare il merito amministrativo del provvedimento», conclude che «stante la mancata indicazione dello specifico vizio che renderebbe l’atto illegittimo, effettivamente sorge
il sospetto che in realtà i giudici del merito abbiano sindacato la correttezza e completezza del procedimento seguito o abbiano ritenuto un vizio più attinente al merito, ossia ai profili discrezionali e valutativi della opportunità, della completezza
istruttoria e della ponderazione degli interessi coinvolti, che non ad aspetti di mera
legittimità del provvedimento» (Sez. III, 6/6/2007, n. 34899).
Da ultimo si deve menzionare una pronuncia del 2009 nella quale, risolutamente, si afferma che «In tema di abuso d’ufficio, il requisito della violazione di
norme di legge non può essere integrato dall’inosservanza delle norme di
principio poste dall’art. 97 Cost.» (Sez. VI, 18/2/2009, n. 13097 – Fattispecie relativa a favoritismi nell’assunzione di dipendenti di una società di natura privata):
con il che la Corte – com’è di tutta evidenza – manifesta una certa qual contraddittorietà rispetto alle conclusioni cui perviene in altre circostanze (ne abbiamo riferito) con riguardo alla verifica del rispetto del principio di imparzialità.
6. Conclusioni
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Sembra doversi concludere, allora, che se, da un canto, appare pienamente
condivisibile ricomprendere sotto la dizione «in violazione di norme di legge o di
regolamento» di cui all’art. 323 tutte le ipotesi in cui l’atto amministrativo sia illegittimo, e cioè non conforme alla legge, e dunque, non solo quelle in cui si realizza
una ‘mera’ violazione di legge, ma anche quelle in cui si realizza una incompetenza ed uno sviamento di potere. D’altro canto, resta fortemente dubbioso che si possa dire altrettanto per le ipotesi in cui la illegittimità derivi da un eccesso di potere
rilevabile dalla sussistenza di figure sintomatiche, e segnatamente dalla violazione
dell’art. 97 Cost.
Ed invero – lo abbiamo chiarito – in tali ipotesi, pur senza entrare nel merito,
si tratta pur sempre di sindacare sul merito della scelta amministrativa, sebbene
soltanto allo scopo di rilevare una eventuale illegittimità del suo esercizio (qual è,
nella massima estensione possibile del sindacato del G.A., la manifesta irragionevolezza dello svolgimento procedimentale e/o del contenuto provvedimentale).
Questo significherebbe rimettere al G.P. uno spazio di ‘manovra’ su un oggetto – la procedura di valutazione e composizione degli interessi in gioco al fine
di realizzare l’interesse pubblico – la competenza a giudicare sul quale richiede
una peculiare cultura giuridica che non sembra essere nel suo tradizionale patrimonio di conoscenze; un oggetto che, per la sua estrema rilevanza nei delicati equilibri fra i poteri (controlli e bilanciamenti reciproci), sembra preferibile restargli sottratto.
La conclusione del ragionamento volto a delineare il confine fra illegittimità
amministrativa ed illecito penale nell’esercizio delle attività discrezionali della
P.A., pertanto, può rassegnarsi con le parole di una, non recentissima ma assai pertinente, decisione del Consiglio di Stato (Sez. IV,16/10/1998, n. 1306), secondo cui
«in relazione agli atti amministrativi può parlarsi di illegittimità, ma non di illiceità: quest’ultima attiene ai comportamenti umani, e ove in esecuzione di una attività
illecita vengano posti in essere atti amministrativi, questi sono pur sempre illegittimi, sotto il profilo dell’eccesso di potere per sviamento, vale a dire del cattivo uso
del potere pubblico».
Ciò che sembra sovvertire la logica: mentre, ove risulti provato l’abuso, si
può inferire la sussistenza di un eccesso di potere; viceversa, ove pure sia rinvenibile un eccesso di potere, non è affatto detto che sussista anche un abuso, e anzi, in
via fisiologica, e ‘virtuosamente’, dovrebbe ritenersi che non sussista.
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