Guido Clemente di San Luca Il confine fra illegittimità amministrativa ed illecito penale nell’esercizio delle attività discrezionali della P.A. (∗) SOMMARIO: 1. Premessa. Delimitazione del tema e indicazione sintetica dei punti salienti per la sua trattazione. – PARTE PRIMA. – 2. Il ‘merito amministrativo’ come spazio che la legge assegna alla P.A. per la trasformazione della fattispecie astratta codificata nella norma in determinazione concreta. – 2.1. La individuazione in astratto e la determinazione in concreto dell’interesse pubblico. – 2.2. La discrezionalità amministrativa (anche a contenuto tecnico) e la discrezionalità tecnica. – 2.3. Il merito amministrativo come comprensivo delle due specie di discrezionalità. – 3. La sottrazione del merito al sindacato giurisdizionale. – PARTE SECONDA. – 4. La illegittimità amministrativa nelle attività discrezionali della P.A.: l’eccesso di potere. – 5. L’illecito penale nelle attività discrezionali della P.A.: l’abuso d’ufficio. – 5.1. Fattispecie escluse dal tema. – 5.2. Fattispecie in cui l’illecito penale presuppone o addirittura coincide con la illegittimità dell’atto amministrativo. – 6. Conclusioni. 1. Premessa. Delimitazione del tema e indicazione sintetica dei punti salienti per la sua trattazione Credo che la domanda sottostante al tema oggetto del nostro incontro, in buona sostanza, sia questa: l’ordinamento affida al giudice – ordinario o amministrativo che sia – la cura del bene comune? La magistratura può svolgere un ruolo di supplenza della pubblica amministrazione? Dico subito a chiare lettere che, secondo la mia opinione, la risposta è decisamente no. Nel nostro ordinamento la cura del bene comune è assegnata alla P.A., ed il giudice, in uno Stato di diritto democratico di civil law, per definizione, non può esercitare la funzione di supplenza nei confronti della P.A.; ove lo facesse, violerebbe il cardine dello Stato di diritto, il principio di separazione dei poteri. Naturalmente, la P.A. deve attendere a tale cura secundum legem, e non in modo arbitrario. Ciò significa: a) che i suoi atti devono essere conformi al paradigma normativo che li disciplina, e cioè essere legittimi; e b) che i comportamenti assunti dalle persone fisiche che pro tempore la incarnano – i suoi dirigenti, i suoi (∗) Testo scritto, rivisto dall’A., della lezione tenuta il 14 ottobre 2013 presso la Scuola Superiore della Magistratura. funzionari, i suoi dipendenti tout court –, nello svolgimento dei compiti relativi all’attività di ufficio, non possono violare la legge, devono cioè essere leciti. Il tema che dobbiamo affrontare, allora, è il seguente: in che rapporto stanno la illegittimità degli atti e la illiceità dei comportamenti, e più specificamente, se la illiceità dei comportamenti coincida sempre con la illegittimità degli atti. E la questione, a ben vedere, si divide in due: a) se si possa avere un comportamento illecito pur essendo legittimo il correlato atto amministrativo; e b) se ogni atto amministrativo illegittimo implichi un comportamento illecito. Ciò significa che (nella prima parte), dopo aver chiarito che dal ragionamento sono escluse le attività vincolate della P.A., dobbiamo spiegare che cosa intendiamo per ‘attività discrezionali della P.A.’, quel che, cioè, viene definito – comunemente, ma non sempre con lo stesso significato – come il ‘merito amministrativo’. Dopo di che (nella seconda parte), dobbiamo spiegare, per un verso, in cosa consiste la ‘illegittimità amministrativa’ nelle attività discrezionali, e cioè riflettere sul vizio dell’atto denominato ‘eccesso di potere’; e, per altro verso, in cosa consiste l’‘illecito penale’ nelle attività discrezionali, e dunque, segnatamente, quando ricorre il reato di ‘abuso d’ufficio’. Il tutto allo scopo ultimo di provare a delineare, appunto, il confine fra illegittimità amministrativa ed illecito penale, e dunque di capire se, ed eventualmente quali limiti, il giudice penale possa sindacare la legittimità degli atti amministrativi discrezionali. PARTE PRIMA 2. Il ‘merito amministrativo’ come spazio che la legge assegna alla P.A. per la trasformazione della fattispecie astratta codificata nella norma in determinazione concreta Il Legislatore può disciplinare l’attività di cura dell’interesse pubblico o in modo che alla P.A. venga assegnata semplicemente la mera verifica della ricorrenza in concreto delle ‘condizioni’ che lo stesso Legislatore ha già compiutamente stabilito per comporre gli interessi secondari in gioco con quello primario; oppure in modo che alla P.A. sia lasciato uno spazio per scegliere come curare l’interesse 2 pubblico specifico nel concreto attraverso la mediazione compositiva degli interessi secondari. È in questa distinzione che sta la differenza fra attività vincolata e attività discrezionale, differenza che è appunto fondata sulla diversità del rapporto che intercorre tra la legge e l’azione amministrativa. L’attività amministrativa si definisce vincolata quando la legge disciplina in maniera pressoché integrale la materia rimessa alla cura della P.A., codificando compiutamente tutti gli aspetti dell’azione, e cioè tanto i suoi presupposti quanto la relativa decisione: solo in questi casi può dirsi, ancor oggi, che alla P.A. sia demandata la ‘mera’ esecuzione in atto della legge. Ed invero, oggi non più parlarsi di potere esecutivo, bensì di potere amministrativo, perché alla P.A. compete un’attività, non di mera esecuzione della legge, bensì di cura concreta degli interessi pubblici affidatale da questa. Viceversa, l’attività amministrativa si definisce discrezionale quando la legge si limita a disciplinare soltanto alcuni aspetti della materia, demandando all’autorità amministrativa il compito di scegliere la migliore soluzione da adottare, tra quelle possibili secondo la legge, al fine di realizzare l’interesse pubblico specifico che la legge medesima ha affidato alla sua cura. A connotare la discrezionalità, dunque, è proprio questa – per così dire – ‘libertà vincolata ad uno scopo’, l’interesse pubblico. 2.1. La individuazione in astratto e la determinazione in concreto dell’interesse pubblico È noto che, sul piano giuridico, per interesse pubblico non si intende semplicemente quello proprio della generalità dei consociati, o della collettività. Giuridicamente è pubblico l’interesse che la legge, e più precisamente il sistema delle fonti nel suo complesso, qualifica come tale: a prescindere dalla sua connotazione sostanziale. È altrettanto noto, inoltre, che la individuazione in astratto non esaurisce il ‘percorso definitorio’ dell’interesse pubblico, richiedendosi ancora la sua determinazione in concreto. La identificazione in astratto dell’interesse pubblico specifico (IPS), o primario, qualunque sia il livello normativo in cui si esprime, è comunque oggetto di esercizio della funzione politica (gli atti fonte sono atti politici per antonomasia). 3 La determinazione in concreto dell’IPS passa, invece, attraverso la decisione della P.A., alla quale compete di valutare tutti gli interessi in gioco – pubblici e privati – senza arbitrariamente pretermetterne alcuno (imparzialità), e di scegliere, sulla base della ponderazione comparativa fra questi, la soluzione di contemperamento capace di coniugare la massimizzazione dell’IPS con il minor pregiudizio possibile da arrecare agli interessi secondari interagenti con esso (buon andamento). Sotto il profilo oggettivo, anche l’amministrare implica il compiere una (o almeno una quota di) scelta a contenuto politico. Se, infatti, amministrare è curare interessi, piuttosto che mera esecuzione della legge, fare amministrazione significa, nella sua intima essenza, fare politica, e dunque la relativa attività non può essere, almeno non del tutto, sottratta alle sedi ove la politica legittimamente si esplica. La legge può rimettere alla P.A. la scelta della soluzione di mediazione fra tutti gli interessi in gioco, in buona sostanza riservandole uno spazio, coprendo il quale essa dovrà spiegare le ragioni in base alle quali ha scelto gli interessi secondari da pregiudicare e da soddisfare (in tutto o in parte); oppure può rimettere alla P.A. soltanto la verifica della sussistenza dei presupposti, acclarata la quale essa dovrà assumere un dato provvedimento. La legge, dunque, quando assegna un potere alla P.A., nel disciplinarlo deve sempre individuare almeno l’IPS cui detto potere resta funzionalizzato: questo, insomma, rappresenta l’àncora del potere amministrativo, o, se si preferisce, la sua stella polare. 2.2. La discrezionalità amministrativa (anche a contenuto tecnico) e la discrezionalità tecnica Possiamo perciò affermare che per attività discrezionale si intende quella attività che non è libera, dovendo comunque essere orientata dalla stella polare dell’IPS; ma non è nemmeno vincolata, potendo e dovendo spaziare tra le soluzioni possibili, con lo scopo ineludibile di tradurre il potere in provvedimento in modo che sia realizzato in concreto quell’IPS (solo astrattamente) individuato dalla legge, senza arbitrariamente sacrificare alcuno degli altri interessi che, nella fattispecie, interagiscono con quello. Con altre parole, la ‘discrezionalità amministrativa’ è un’attività, un potere, di scelta, che si colloca nel momento finale dell’ideale percorso logico che si deve compiere per conseguire la concretizzazione dell’IPS, sulla linea del traguardo, per 4 così dire, del procedimento amministrativo, non influendo (se non in minima parte) sui momenti precedenti, identificabili, descrittivamente, nella conoscenza e nella valutazione dei presupposti dell’azione amministrativa. In definitiva, la discrezionalità amministrativa si identifica con l’ambito di manovra nell’an, nel quando e nel quomodo dell’azione (se, quando e come agire), che la norma assegna alla P.A. per la realizzazione concreta di un IPS, nel contemperamento (di mediazione e sintesi) degli interessi secondari. Diversa dalla discrezionalità amministrativa è la discrezionalità tecnica. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare al primo impatto, la discrezionalità tecnica non consiste semplicemente nel disporre di una sfera di scelta caratterizzata dalla presenza della scienza e della tecnica. Scienza e tecnica, nelle attività della P.A. compaiono spesso, quasi sempre; ma non sempre allo stesso modo, e soprattutto non sempre con le stesse conseguenze giuridiche. Ed invero, la discrezionalità tecnica deve essere tenuta distinta dalla discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico, giacché le due ipotesi vanno ricondotte a differenti modelli strutturali della previsione normativa che regola la fattispecie. A) Il primo modello, quello della discrezionalità tecnica, si può schematicamente così sintetizzare: al verificarsi della sussistenza di un dato presupposto, che si caratterizza per i suoi connotati tecnico-scientifici, ma che in punto di fatto è di controversa accertabilità, l’autorità deve emanare il provvedimento nel modo in cui ha stabilito la legge. In altre parole, l’area discrezionale lasciata alla P.A. dalla legge concerne soltanto la verifica della effettiva sussistenza di un presupposto tecnico-scientifico che è di opinabile rilevabilità, allo scopo di assumere poi il provvedimento sul cui contenuto la legge ha disposto in maniera esauriente. Non omogenea a questa, almeno sotto il profilo teorico, è la fattispecie normativa che vede la P.A. vincolata nell’accertamento della sussistenza di presupposti tecnico-scientifici posti dalla legge a fondamento inderogabile della sua azione. In tale ipotesi, quando cioè l’esito della operazione volta ad acclarare la sussistenza del detto presupposto è certo ed inopinabile (ad es., verificare la composizione chimica di una sostanza), siamo di fronte ad un mero ‘accertamento tecnico’, e cioè ad una attività amministrativa vincolata: deve esser chiaro che, in questo caso, non è la struttura normativa ad azzerare gli spazi valutativi della P.A., ma la scienza di riferimento richiamata dalla norma, scienza che offre sul punto risposte indiscutibili. 5 Laddove la norma assegna alla P.A. il compito di acclarare la sussistenza di un presupposto di incerta ed opinabile rilevabilità, essa apre lo spazio ad un’attività di scelta discrezionale, la quale, però, ha un oggetto specifico: non gli interessi, bensì i criteri tecnico-scientifici per l’accertamento dei presupposti. Il diritto, in buona sostanza, c’entra poco o niente: si limita a riconoscere alla scienza un ruolo decisivo in un certo momento della fattispecie giuridica. D’altra parte, va sottolineato che, sebbene discrezionalità tecnica e discrezionalità amministrativa si possano (e perciò si debbano) tenere concettualmente distinte, spesso, sul piano pratico, finiscono per intrecciarsi, restando differenziabili su tale piano soltanto per gli effetti giurisdizionali, giacché la sindacabilità ad opera del giudice amministrativo, nel caso della ‘tecnica’, pur restando qualitativamente identica, si amplia in maniera direttamente proporzionale alla maggior quantità di limiti che gravano sull’esercizio concreto della discrezionalità. B) Il secondo modello strutturale della previsione normativa regolativa della fattispecie in cui gioca un ruolo la componente tecnico-scientifica è quello della discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico: acclarata la sussistenza dei presupposti (a prescindere dal fatto che la relativa operazione conduca o meno ad una loro sicura rilevabilità), l’autorità, in sede di definizione del contenuto concreto del provvedimento, deve scegliere, fra le diverse soluzioni tecnico-scientifiche, quella che reputa più idonea alla migliore realizzazione dell’IPS. La differenza dal primo modello deriva dalla mera constatazione della morfologia della norma che disciplina il procedere dell’azione amministrativa, la quale in nulla si differenzia da quella che regola l’agire tipicamente discrezionale. Ed infatti, sempre che, in una data fattispecie concreta, sia stata chiarita la equivalenza, sotto il profilo scientifico, delle soluzioni tecniche possibili (ciò, peraltro, non significa che sarebbero necessariamente equivalenti le conseguenze che ciascuna di esse, una volta sussunta nella decisione, sarebbe in grado di produrre nella vicenda di amministrazione), la valutazione che dovrà orientare la scelta di una di queste non potrà che tener conto degli interessi secondari sui quali in concreto il provvedimento finirà per incidere, o comunque influire. Naturalmente, tanto per il primo che per il secondo modello (e cioè, tanto che si tratti di accertare la ricorrenza di un presupposto tecnico-scientifico dell’azione, tanto che si tratti di scegliere la migliore soluzione tecnico-scientifica per la realizzazione dell’IPS), la P.A. dovrà motivare il suo provvedimento più at- 6 tentamente, potendo discostarsi da una soluzione per abbracciarne un’altra solo avendone adeguatamente e razionalmente dimostrato il perché. In conclusione, possiamo dire che la tecnica influisce sull’azione amministrativa in tre modi diversi, questa potendo esprimersi come: a) mero accertamento tecnico, b) discrezionalità tecnica, c) discrezionalità amministrativa a contenuto tecnico. Nei primi due la tecnica entra in gioco nella fase preparatoria del procedimento; nel terzo, invece, in quella decisoria (e quindi nel momento della decisione ‘politica’). Le due discrezionalità hanno in comune la capacità di scelta della P.A. (la scelta, però, ha ad oggetto, nel primo caso, l’accertamento dei presupposti, e, nel secondo, la composizione degli interessi): una scelta, quindi, c’è sempre; e la scelta in quanto tale – come vedremo – è, secondo la giurisprudenza, parte del merito amministrativo. 2.3. Il merito amministrativo come comprensivo delle due specie di discrezionalità Dobbiamo ora capire se il concetto di merito amministrativo coincida con quello di discrezionalità amministrativa, ovvero includa anche quello di discrezionalità tecnica. Per rispondere occorre anzitutto tener distinto il merito inteso come fatto (il merito di una questione) dal merito inteso come diritto (la questione di merito). Nel diritto amministrativo, quando si usa la locuzione nella prima delle due accezioni ci si riferisce – alla stessa stregua che nelle altre branche del diritto – agli elementi fattuali, e non giuridici, di una data fattispecie. Per intendersi, ci si riferisce a quello che, nelle loro sentenze, i giudici illustrano come il ‘fatto’, e cioè la vicenda concreta dedotta in giudizio (il ‘merito’, appunto, della causa), prima di trattare dei profili di ‘diritto’, e cioè prima di affrontare la questione giuridica che in ragione di quel fatto si propone, o, meglio ancora, prima di richiamare ed interpretare la disciplina giuridica in base alla quale quella questione deve essere risolta. Insomma, in questa accezione si distingue la questione di merito dalla questione giuridica, ad indicare, cioè, la ‘contrapposizione’ fra il fatto ed il diritto. Quando si usa la locuzione nella seconda accezione, invece, ci si riferisce, non al fatto sul quale si controverte, ma alla convenienza ed opportunità della scelta di contenuto che, con riguardo a quel fatto, la P.A. è dalla legge chiamata ad effettuare (per realizzare in concreto l’interesse pubblico affidato alla sua cura), in 7 modo da poter distinguere questo profilo da quello della legittimità della scelta medesima. Sul piano tecnicamente più rigoroso parliamo di merito amministrativo nella seconda accezione. In questa accezione – è evidente – il merito si ‘contrappone’ alla legittimità: mentre il merito attiene alla opportunità e convenienza della scelta, la legittimità concerne la conformità della scelta al paradigma normativo di riferimento. Al merito amministrativo si può attribuire un significato più o meno ampio. È possibile, cioè, che il merito amministrativo venga circoscritto al campo della discrezionalità amministrativa, ovvero includa anche quello della discrezionalità tecnica. In questa seconda ipotesi, naturalmente, l’ambito del merito amministrativo si presenta più ampio, giacché copre tutta l’area che, in un certo senso, rimane estranea alla legittimità dell’atto: questa consiste nella conformità dell’atto alle norme che disciplinano il potere del quale dispone l’autorità che lo emana, e cioè nella corrispondenza tra fattispecie legale astratta e fattispecie concreta; tutto il resto è merito amministrativo. La semplicità di questa conclusione non deve trarre in inganno: essa infatti è solo apparente, giacché il parametro di legittimità rappresentato dall’IPS fissato dalla legge deve essere integrato, in una valutazione di opportunità che l’ordinamento riserva alla P.A., con quello costituito dagli interessi secondari, pubblici e privati. Del resto, il potere che l’ordinamento assegna alla P.A. – lo abbiamo già ricordato – va correttamente qualificato come ‘amministrativo’, e non semplicemente come ‘esecutivo’. Laddove la norma attributiva del potere così dispone, quindi, spetta alla P.A. di decidere se e come realizzare l’IPS in concreto. In ciò consiste il merito delle sue scelte, il quale investe la sfera che dovrebbe considerarsi ulteriore rispetto a quella della corrispondenza tra fattispecie legale fissata in astratto dalla legge e fattispecie concreta ‘curata’ dalla P.A. Il condizionale è d’obbligo, giacché, se non il merito in sé, ma il modo in cui esso viene esercitato diventa possibile occasione per realizzare una illegittimità. In altre parole, è vero che la soluzione di sintesi tra tutte le diverse situazioni giuridiche soggettive coinvolte dall’azione amministrativa, pubbliche e/o private 8 che siano, è dalla legge attribuita alla scelta della P.A., e che in questa scelta sta il merito amministrativo. Ed è vero che dentro l’area del merito dobbiamo includere, oltre alla discrezionalità amministrativa, anche la discrezionalità tecnica, il sindacato su entrambe essendo precluso al giudice amministrativo. Ma è altrettanto vero che l’esercizio delle discrezionalità può risultare illegittimo, l’atto relativo integrando il vizio di legittimità dell’eccesso di potere. Dentro i confini della legittimità, e cioè della conformità alla legge, dunque, c’è tutto uno campo lasciato all’azione amministrativa. Anche questo campo, però, è regolato, tant’è che le regole per l’agire discrezionale stabilite dall’art. 97 Cost. sono talmente pregnanti che addirittura possono fondatamente qualificarsi come ‘definitorie’ della discrezionalità. Il merito amministrativo è tutto ciò che, nel rispetto di tali regole, spetta all’autonoma scelta della P.A.: esso si risolve, tanto nella valutazione dei presupposti scientificamente opinabili che la fattispecie normativa prevede siano acclarati in funzione della decisione, tanto nella scelta che esita alla composizione mediativa degli interessi, dalla quale deriva la definizione dell’interesse pubblico concreto. In definitiva, il merito amministrativo costituisce lo spazio di discrezionalità (a prescindere dall’oggetto e dalla fase procedimentale che caratterizzano i due tipi di questa) l’‘ampiezza’ del quale è comunque stabilita dalla legge; è bene perciò sottolineare che non si può parlare di merito amministrativo con riguardo agli atti integralmente vincolati, e cioè del tutto privi di un margine, anche minimo, di discrezionalità (amministrativa o tecnica). 3. La sottrazione del merito al sindacato giurisdizionale Da quanto abbiamo illustrato sin qui deriva che l’esercizio del merito amministrativo è insindacabile da parte del giudice (anche amministrativo), se non per i profili di ‘eccesso di potere’ che i contenuti della scelta provvedimentale potrebbero presentare. L’unico ‘bene comune’ affidato alla cura dei giudici – bene, peraltro, prezioso, e decisivo per il corretto funzionamento del sistema dello Stato di diritto – è la verifica della conformità di atti e comportamenti rispetto alle prescrizioni normative. 9 Queste possono essere interpretate, ma mai discusse in sede giurisdizionale. Alla stessa stregua, al giudice è precluso di discutere la qualità – la convenienza, la opportunità, la bontà – della scelta compiuta con un atto amministrativo. Questa scelta può – e anzi deve – essere sindacata, ma soltanto nei limiti della sua eventuale difformità dal paradigma normativo di riferimento. Tranne che nelle circoscritte ipotesi di giurisdizione di merito, definite tassativamente dalla legge, il giudice amministrativo non può mai entrare nel merito della scelta effettuata dalla P.A. con il provvedimento. Egli vanta, però, il sindacato di legittimità sull’atto, che è invece precluso al giudice ordinario, il quale può soltanto disapplicare il provvedimento che ha giudicato illegittimo, ma al solo scopo di poter giudicare sulla controversia come se il rapporto fra la P.A. ed il suo frontista non fosse stato intermediato dall’atto amministrativo, e dunque come se l’atto non esistesse, tamquam non esset. La insindacabilità del merito è un naturale corollario del principio di separazione dei poteri. Del resto, la complessità della realtà implica, di regola, che le soluzioni siano, addirittura ontologicamente, molteplici: perché, allora, ci si dovrebbe fidare più del giudice che della P.A.? Il giudice, pertanto, non può mai entrare nel merito della scelta amministrativa, perché ciò è precluso dal principio di separazione dei poteri: l’ordinamento ha evidentemente assegnato questa scelta al potere amministrativo. Se avesse voluto fare diversamente, avrebbe consentito al giudice di sindacarne la convenienza ed opportunità; gli ha invece assegnato soltanto il compito di controllare che la scelta sia o meno legittima, e cioè conforme o no al paradigma normativo di riferimento. Il merito amministrativo, dunque, tranne che nelle rarissime ipotesi previste dalla legge, è sottratto alla giurisdizione del giudice amministrativo. Quando la legge sceglie di regolare la fattispecie secondo lo ‘schema’ che prevede l’assegnazione alla P.A. di un margine, più o meno ampio, di discrezionalità, attribuisce alla scelta di questa uno spazio, più o meno significativo, dentro il quale, secondo l’ordinamento, nessuno può entrare, nemmeno il giudice. Questo, però, non significa che la P.A. possa fare liberamente quel che crede: deve comunque agire in conformità con i parametri che la legge stabilisce anche per quel che concerne le modalità di esercizio del suo potere di scelta; le scelte di merito, perciò, pur essendo dall’ordinamento riservate alla P.A., non possono essere illegittime. 10 In definitiva, il merito amministrativo, che consiste nell’ambito di scelta riservato alla P.A., è in quanto tale sottratto – tranne che nelle rare ipotesi previste dalla legge – al sindacato del giudice amministrativo, ed evidentemente, men che meno è sottoposto a quello del giudice ordinario, penale o civile che sia. Il giudice amministrativo, tuttavia, può indagare sul merito, allo scopo di rilevare una eventuale illegittimità nel suo esercizio. Epperò, può indagare, appunto, sul merito, ma mai entrare nel merito. È questo un limite che appare invalicabile, a meno di non voler stravolgere fin nel suo intimo l’impianto dell’intero sistema istituzionale. Naturalmente, l’indagine sul merito non può effettuarsi se non attraverso le evidenze formali dell’esercizio del potere, e cioè non solo sul provvedimento che ne costituisce la manifestazione finale, ma anche sul procedimento che segna il percorso giuridicamente rilevante per pervenire ad esso. Ora, un provvedimento è legittimo se risulta conforme alle norme che disciplinano il potere esercitato dall’autorità che lo emana, stabilendo il paradigma che l’atto deve rispettare. Resta allora da spiegare come il giudice è in grado di capire se, ed in che misura, l’atto integri una deviazione dal fine per il quale il potere è stato dalla legge assegnato alla P.A., se ed in che misura, cioè, ricorra il vizio di eccesso di potere. Lo faremo fra breve. Oltre il sindacato sull’eccesso di potere, però, da parte del G.A. (e a maggior ragione da parte del G.O.) non pare proprio possibile andare: la sua verifica può, sì, spingersi fino a scandagliare l’area del merito, ma soltanto per eventualmente rilevarvi una illegittimità, e mai per discutere la scelta della P.A., ciò essendogli radicalmente precluso. La conclusione trova conferma anche nella giurisprudenza del G.O. Di recente le Sezioni Unite della Cassazione civile (17/2/2012, n. 2312) – dopo aver ricordato che nella potestà giurisdizionale del Consiglio di Stato deve ritenersi compresa, «nell’ottica del sindacato sull’eccesso di potere, la valutazione incidentale dei fatti emergenti dal pregresso rapporto da porre a raffronto con le ragioni addotte a fondamento della decisione di non proseguirlo o di non rinnovarlo»; e che «è approdo indiscutibile nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite (S.U. 137 del 1999, 19604 del 2003, 28263 del 2005, 9443 del 2011 e 23302 del 2011)» l’assunto per cui «la eventuale sostituzione da parte del giudice amministrativo della propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità della amministrazione» costituisce «ipotesi di “sconfinamento” vietato della giurisdizione di legittimità nella sfera riservata alla P.A., quand’anche l’eccesso in questione sia compiuto da una pronunzia il cui contenuto dispositivo si mantenga nell’area dell’annullamento dell’atto» – hanno affermato che «il parametro di inattendibilità – adottato per individuare, sulla base delle risultanze della CTU, valutazioni tecniche inaccettabili (perché affette da pretesi errori 11 madornali secondo l’espressione utilizzata dal Consiglio di Stato nella nota sentenza 601 del 1999), parametro da queste Sezioni Unite (S.U. 14893 del 2010) ritenuto certamente rispettoso dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa nel sindacato delle valutazioni concorsuali delle commissioni esaminatrici – appare non poco inappropriato ove utilizzato nello scrutinio di legittimità di scelte ad alto tasso di “soggettività”». I supremi giudici hanno chiarito, in particolare, che «La evidenza dell’errore è un criterio certamente suggestivo per la sua astratta attitudine selettiva ma, altrettanto certamente, è criterio aperto ad una lettura soggettiva che ne sconsiglia la utilizzabilità come sintomo del censurabile eccesso di potere le volte in cui l’ambito valutativo riservato alla P.A. non sia segnato da regole tecniche delle quali sia possibile controllare la coerenza e la adeguatezza, ma sia qualificato da evidenti riserve di soggettività della scelta (come nel caso del più volte citato deficit di fiducia delineato del D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 38, comma 1, lett. F), riserve il cui rispetto è limite anche all’esercizio della giurisdizione», precisando che «Il sindacato sulla motivazione del rifiuto deve, pertanto e specularmente, essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto esibiti dall’appaltante come ragioni del rifiuto e non può avvalersi, onde ritenere avverato il vizio di eccesso di potere, di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa (ove si recepiscano, come ha fatto il giudice amministrativo, le considerazioni esposte dal consulente). L’adozione di siffatti criteri di non condivisione, infatti, nella parte in cui comporta una sostituzione nel momento valutativo riservato all’appaltante, determina non già un mero errore di giudizio (insindacabile in questa sede) ma uno sconfinamento nell’area ex lege riservata all’appaltante stesso e quindi vizia, per ciò, solo, la decisione, tale sconfinamento essendo ravvisabile secondo la più qualificata dottrina e la giurisprudenza delle Sezioni Unite, anche assai lontana nel tempo, anche quando il giudice formuli direttamente e con efficacia immediata e vincolante gli apprezzamenti e gli accertamenti demandati all’amministrazione (S.U. n. 2525 del 1964)». Per concludere che «è indiscutibile […] la piena inclusione – nella potestà di esercitare il sindacato dell’eccesso di potere – della scelta di accertare pienamente i fatti, anche avvalendosi di un consulente», e tuttavia, «poiché il quadro normativo sul quale doveva esercitarsi il doveroso controllo di non pretestuosità assegna alla stazione appaltante la facoltà di determinare essa stessa il punto di rottura dell’affidamento nel contraente, una decisione che […] non accerti l’inesistenza di alcuna ragione giustificante o la esistenza indiscutibile di ragioni dissimulate ma valuti solamente la insufficienza dei dati addotti a sostenere come plausibile il superamento di quel punto di rottura, incorre, all’evidenza, nel denunziato vizio di eccesso di potere cognitivo ai danni dell’amministrazione» (i corsivi sono di chi scrive). PARTE SECONDA 4. La illegittimità amministrativa nelle attività discrezionali della P.A.: l’eccesso di potere La illegittimità di un atto amministrativo, e cioè la sua difformità dal paradigma normativo, può concernere uno qualunque degli elementi costitutivi dell’atto. Solo per due di questi – il soggetto e la finalità – l’ordinamento configura un vizio ad hoc: la ‘incompetenza’ (che indica la violazione della competenza, ap- 12 punto, e perciò attiene all’elemento soggettivo dell’atto, all’organo che lo emana), e l’‘eccesso di potere’ (che indica la violazione della finalità, e perciò attiene all’elemento funzionale dell’atto, alla realizzazione illegittima dell’IPS). Qualunque altro tipo di vizio viene configurato in via residuale sotto la denominazione di (verrebbe di dire: mera) ‘violazione di legge’. È evidente che anche i primi due integrino violazioni di legge. È la legge che stabilisce il soggetto competente ad emanare l’atto e la finalità che l’atto deve realizzare in concreto. Appare chiaro che l’unico vizio che interessa nel ragionamento che stiamo svolgendo è l’eccesso di potere, il tipico vizio dell’atto discrezionale. Ebbene, delle due forme in cui questo vizio si presenta – il vero e proprio ‘sviamento di potere’ e l’‘eccesso di potere rilevabile per figure sintomatiche’ – solo il secondo merita di essere oggetto di riflessione. Invero, quando ricorre un vero e proprio sviamento, l’esercizio del potere amministrativo si rivela illegittimo senza alcuna particolare attività di indagine: l’atto è stato esplicitamente emanato per un fine diverso da quello prescritto dalla norma; la sua illegittimità è palese e facilmente rilevabile, alla stessa stregua di una incompetenza o di una mera violazione di legge. Il problema si pone quando si tratta di sindacare la legittimità di un atto che, almeno apparentemente, ha realizzato il fine per il quale l’ordinamento ha assegnato il relativo potere. Tuttavia, ad una verifica che va oltre le apparenze, è possibile che, sulla base di una serie di comprovati elementi sintomatici, il giudice si convinca che l’atto abbia comunque ‘tradito’ la sua funzione, non abbia effettivamente raggiunto la sua finalità, non abbia legittimamente perseguito l’interesse pubblico specifico assegnato dalla norma alla cura di quella autorità amministrativa: in una, sia illegittimo per una violazione della legge consistente nel mancato perseguimento della finalità. Insomma, l’atto è illegittimo quando realizza in concreto un fine diverso da quello per il perseguimento del quale il potere è stato dalla norma attribuito alla P.A. Il fine, però, per definizione, può essere realizzato in diversi modi: in ciò sta la complessità di rilevazione in concreto del vizio in esame: allorché si tratti di verificare se un atto abbia o no in concreto realizzato il fine per il quale l’autorità è attributaria del relativo potere, occorre necessariamente ragionare sul merito; ma senza poter entrare nel merito. 13 Il giudice, pertanto, se non può sostituire la sua scelta a quella della P.A., può, però, indagare su tale scelta allo scopo di scoprire se il merito di essa sia affetto da un vizio di legittimità. Per ciò si dice che l’eccesso di potere cammina sul sottilissimo confine che segna la distinzione tra legittimità e merito: è indiscutibilmente un vizio di legittimità che, però, si manifesta nell’area del merito amministrativo. L’eccesso di potere – l’abbiamo appena ricordato – si può manifestare in due forme: il vero e proprio sviamento di potere, ovvero l’eccesso di potere che si rileva mediante le ccdd. ‘figure sintomatiche’. L’eccesso di potere come sviamento. La prima ipotesi ricorre quando la P.A. esercita il potere che le è stato assegnato per raggiungere, in maniera palese, un fine diverso da quello previsto dalla legge. Si pensi, ad esempio, al caso (oggi, peraltro, meno frequente) del provvedimento di trasferimento del dipendente negligente o infedele giustificato per esigenze organizzative, laddove, invece, si sarebbe dovuta legittimamente intraprendere la strada del procedimento disciplinare, utilizzando così un potere diverso da quello organizzatorio: l’uso di quest’ultimo per realizzare un fine disciplinare, infatti, è illegittimo, l’atto relativo risultando affetto dal vizio di sviamento di potere. L’eccesso di potere rilevato attraverso le figure sintomatiche. È molto più frequente che il fine istituzionale non venga ‘tradito’ dall’atto in maniera palese. L’atto, cioè, apparentemente consegue l’obiettivo prefissato dalla legge, ma lo fa ugualmente in maniera illegittima, perché in realtà comunque realizza un fine diverso da quello. Si tratta, però, di dimostrarlo, e non è affatto semplice. La P.A., invero, deve giustificare nella motivazione dell’atto (ex art.3, L. 241/1990) il percorso logico-concettuale che ha seguito per raggiungere il fine: tanto più deve farlo, quanto più tale percorso sia complesso ed articolato. Il giudice amministrativo, non potendo – come abbiamo detto – entrare nel merito, così esprimendosi sulla convenienza ed opportunità della scelta effettuata dalla P.A., può, però, valutare se gli argomenti da questa posti a fondamento della scelta (formalmente espressi nella motivazione dell’atto) siano convincenti quanto a logicità, congruità, ragionevolezza. Si rende, perciò, necessaria una indagine assai più sofisticata, volta a ricavare la eventuale sussistenza del vizio di eccesso di potere dai ‘sintomi’ rivelatori della ‘malattia’ dell’atto. La strada per delineare le modalità di siffatta indagine è 14 stata tracciata, attraverso un secolo di elaborazione, dalla giurisprudenza amministrativa, che ha enucleato, appunto, una serie di figure sintomatiche dell’eccesso di potere. Dobbiamo, però, fare molta attenzione. Quando parliamo di sintomi non stiamo automaticamente parlando del vizio. In altre parole, se il vizio c’è sicuramente nel caso dello sviamento di potere, non altrettanto si può dire nel caso dell’eccesso di potere rilevabile attraverso le figure sintomatiche. Sebbene la giurisprudenza amministrativa spesso si limiti, forse un po’ pigramente, a sentenziare la sussistenza del vizio per il solo fatto di aver accertato la sussistenza del sintomo, la logica che è propria del sintomo esclude un siffatto automatismo. Il diagnosta inferisce, sì, la sussistenza della malattia dalla accertata presenza di sintomi; ma non può ricavare le sue conclusioni meccanicamente, perché, per definizione, un sintomo rappresenta solo un elemento indiziario. Non è affatto detto, insomma, che, pur sussistendo un sintomo, debba necessariamente esserci la ‘malattia’, la deviazione dell’atto dall’alveo del fisiologico esercizio del potere che in esso si manifesta. Il giudice, pertanto, una volta verificata la sussistenza di una figura sintomatica, può tanto convincersi della effettiva deviazione che ne consegue, e in questo caso annullerà l’atto perché illegittimo; quanto considerare quei sintomi insufficienti a determinare la illegittimità dell’atto, e perciò il suo annullamento. Si pensi, ad esempio, al caso del provvedimento che sia in contrasto con una norma interna, ovvero con una prassi amministrativa consolidata: la P.A. ben può dimostrare in giudizio che la scelta di provvedere derogando al disposto dalla norma interna, o discostandosi dalla prassi consolidata, sia legittima, perché, sebbene la motivazione difetti di una esplicita dichiarazione in tal senso, è comunque giustificata dalle esigenze di pubblico interesse in essa manifestate. Naturalmente, il caso dell’esempio va tenuto distinto da quello della cd. ‘integrazione postuma’ della motivazione in sede giurisdizionale, che la giurisprudenza amministrativa pacificamente considera illegittima, sebbene di recente il Consiglio di Stato abbia ‘temperato’ l’affermazione con riguardo al caso specifico della comunicazione di avvio del procedimento (art. 21-octies, L. 241/90), per il quale la integrazione postuma della motivazione è ammessa dalla legge, affermando che «il principio postulante la inammissibilità della integrazione postuma della motivazione in giudizio, ha sofferto di qualche temperamento nella giurisprudenza più recente di questo Consiglio di Stato, anche in relazione al sopravvenuto disposto del comma 2 dell’art. 21 octies legge 15/2005». Ed infatti, benchè l’obbligo di motivazione costituisca «presidio essenziale del diritto di difesa», ad avviso del Collegio il relativo vizio viene correttamente dequotato «tutte le volte in cui la omissione di motivazione successivamente esternata non abbia leso il diritto di difesa dell’interessato, e comunque in fase infraprocedimentale fossero state percepibili le ragioni sottese all’emissione del provvedimento gravato» (Sez. IV, 7/6/2012, n. 3376). 15 In definitiva, il giudice amministrativo – e a maggior ragione il giudice ordinario, civile o penale che sia – non può mai entrare nel merito, ma può rilevare un vizio di legittimità che attiene al merito, ponendo sotto osservazione il campo di esercizio di questo; e può concludere per la illegittimità concernente il merito di un atto soltanto se, dalla accertata sussistenza di una o più figure sintomatiche, si convince della deviazione del corso naturale del potere. 5. L’illecito penale nelle attività discrezionali della P.A. L’ultimo profilo che dobbiamo affrontare è quello relativo alle fattispecie normative che configurano la illegittimità dell’atto come un reato, evidentemente laddove detta illegittimità, non si risolve in una ‘mera’ violazione di legge, o in una incompetenza, e nemmeno in uno sviamento di potere – che sono tutti vizi rilevabili senza significative incertezze –, ma consiste in un eccesso di potere rilevabile tramite le figure sintomatiche. 5.1. Fattispecie escluse dal tema Restano pertanto escluse dal tema che stiamo trattando le fattispecie in cui l’illecito penale prescinde dalla illegittimità dell’atto amministrativo e quindi dalla accertata sussistenza di questa. Si pensi a quei casi in cui il procedimento ed il conseguente provvedimento siano pienamente legittimi, e tuttavia il funzionario ‘concuta’ uno o più soggetti interessati, ovvero si faccia corrompere da questi, lasciandogli intendere che ‘manipolerà’ l’esercizio del potere per favorirli, sebbene ciò non sia necessario perché l’esito del procedimento risulterebbe comunque loro favorevole. Va tuttavia considerato che il rapporto che lega la illegittimità dell’atto e la illiceità del comportamento non è il medesimo che lega l’altra forma di invalidità dell’atto amministrativo, la nullità, e la illiceità del comportamento: al riguardo è interessante ricordare una non molto risalente sentenza del Consiglio di Stato, il quale ha dichiarato la nullità delle concessioni edilizie rilasciate da un Sindaco condannato per abuso di ufficio proprio per il loro rilascio. Ad avviso del Collegio, il fatto che «la formazione della volontà dell’allora sindaco era avvenuta in modo non libero e spontaneo ma in ambiente collusivo penalmente rilevante», reca come conseguenza la «non riferibilità delle relative concessioni all’Amministrazione comunale per interruzione del relativo rapporto organico», configurandosi così la nullità delle concessioni per mancanza di uno degli elementi essenziali ex art. 21-septies, L. 241/1990 (Sez. V, 4/3/2008, n. 890). In secondo luogo, restano fuori dal tema le fattispecie in cui l’illecito penale dipende dalla illegittimità di un atto amministrativo vincolato, o comunque quelle 16 per le quali la illegittimità si presenta rilevabile senza doversi effettuare alcuna particolare indagine. Si pensi alle fattispecie previste dal Codice Penale all’art. 235 («Espulsione od allontanamento dello straniero dallo Stato», il cd. ‘Foglio di via obbligatorio’), o all’art. 650 («Inosservanza dei provvedimenti dell’autorità»), ovvero a quelle dei ccdd. ‘reati edilizi’ (D.P.R. 380/2001): tutte queste, per le ragioni appena espresse, sono fuori dal tema, giacché si tratta di casi in cui il potere amministrativo viene esercitato, in buona sostanza, nelle forme dell’attività vincolata, e/o comunque la rilevazione della illegittimità del suo esercizio non richiede indagini particolarmente ‘sofisticate’. 5.2. Fattispecie in cui l’illecito penale presuppone o addirittura coincide con la illegittimità dell’atto amministrativo L’unica vera ipotesi da prendere in considerazione è quella dell’art. 323 C.P., secondo cui «Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico sevizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità». Gli spunti di riflessione offerti dall’art. 323 C.P. sono davvero tanti. Al riguardo la giurisprudenza della Cassazione penale non esibisce un orientamento pacifico. Schematizzando, possiamo riassumerla individuando tre filoni di sentenze: quelle che ammettono il sindacato sullo sviamento di potere; quelle che lo estendono all’eccesso di potere tout court, fino a sindacare il rispetto del principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost.; e quelle che escludono una tale estensione. Prima di esaminare i detti tre filoni, però, e pur senza poterci soffermare sul punto, è opportuno sottolineare, per un verso, che ai fini della configurazione concreta del reato è necessario il dolo (elemento soggettivo del reato), che deve essere intenzionale (inteso, cioè, come volontà diretta a quel determinato fine vietato dalla norma). Ciò che, insomma, il giudice penale deve sempre, in ogni caso, provare è la «intenzionalità» del «vantaggio procurato» e/o del «danno procurato». Ed infatti, come è stato del tutto condivisibilmente sostenuto, «la vicenda amministrativa singolarmente considerata, anche se manifestamente viziata, non può essere sufficiente a confi- 17 gurare un abuso penalmente rilevante, richiedendosi qualcosa di più, per l’appunto il dolo specifico, la volontà di arrecare un vantaggio o un danno ingiusto […] sarebbe errato pretendere che l’intenzionalità caratterizzata da favoritismo o da prevaricazione emerga oggettivamente ed esclusivamente dal provvedimento amministrativo e dal suo iter […]. In realtà l’orientamento soggettivo illecito non sempre si riverbera sul provvedimento amministrativo. È allora necessario ricostruire l’intero percorso e il giudice penale non deve soffermare la sua attenzione esclusivamente sugli atti e provvedimenti, ma anche sui comportamenti materiali, le omissioni, gli atti interni del procedimento, gli atti di diritto privato e in genere tutti gli elementi rilevanti indicativi di quella intenzionalità criminosa, prescindendo dai loro caratteri formali. Soltanto un’esplorazione profonda dell’attività amministrativa […] porterà a far emergere in modo attendibile quella diversa e dominante finalità privata che contrassegna la fattispecie di cui all’art. 323 c.p.» (così F. NAPOLEONE, L’abuso d’ufficio tra legittimità ed illegittimità dell’attività amministrativa, in Dir. Pub., 1997, pp. 107 ss., 111-112). In proposito non è inutile ricordare una sentenza del 2008 della sesta Sezione della Cassazione penale, nella quale si afferma che «l’abuso d’ufficio, con la novella del 1997, ha assunto le caratteristiche di “reato di evento” e si configura – nella formulazione della fattispecie incriminatrice con l’avverbio “intenzionalmente” – là dove l’evento sia la conseguenza immediatamente voluta dall’agente. Ne discende, pertanto che il reato – nonostante la violazione di legge che, peraltro, potrebbe costituire un indice rivelatore della rappresentazione e volontà della condotta – non si configura allorché risulti che la condotta sia espressione di una volontà volta a realizzare altro e diverso interesse collettivo e risulti così smentita l’esclusiva e diretta “intenzione” del soggetto agente, investito del pubblico servizio, di arrecare un danno ingiusto ai destinatari dell’atto. In altri termini, nel delitto di abuso d’ufficio, per la configurabilità dell’elemento soggettivo è richiesto che l’evento – costituito dall’ingiusto vantaggio patrimoniale o dal danno ingiusto – sia voluto dall’agente e non semplicemente previsto e accettato come possibile conseguenza della propria condotta, per cui deve escludersi la sussistenza del dolo, sotto il profilo dell’intenzionalità, qualora risulti, con ragionevole certezza, che l’agente si sia proposto il raggiungimento di altro fine pur apprezzabile sotto il profilo collettivo» (Sez. VI, 27/6/2008, n. 33844). Per altro verso, va sottolineato, quanto alla condotta (elemento oggettivo del reato), che la legge richiede come necessaria la «violazione di norme di legge o di regolamento», così sembrando ancorare il reato ad una attività illegittima della P.A. (sia giuridica che materiale). E veniamo all’esame dei tre filoni rinvenibili nella giurisprudenza della Cassazione penale. 18 A) Mette conto di riferire anzitutto quello – che appare del tutto condivisibile – in base al quale la Corte ritiene rilevabile ad opera del giudice penale la illegittimità dell’atto amministrativo per ‘sviamento di potere’ ai fini dell’accertamento della «violazione di norme di legge o di regolamento». In una sentenza del 2001, ad esempio, si fa riferimento ai «lavori preparatori», dai quali la Corte esplicitamente dichiara di ricavare che «l’art. 323 c.p., nel prevedere che la condotta del pubblico ufficiale si caratterizzi per la violazione di norme di legge o di regolamento, ha voluto evitare, quanto al controllo del giudice penale, che questi, ispirandosi ad esigenze di giustizia espresse da principi quali l’eguaglianza, l’imparzialità, il buon andamento, possa sindacare i comportamenti che rientrano nell’ambito di discrezionalità del pubblico ufficiale, o sovrapponendo alle scelte dell’amministratore proprie scelte che ritiene più rispettose di canoni fondamentali, o apprezzando in via sintomatica la violazione di legge, valendosi dei tradizionali strumenti del sindacato di eccesso di potere, quali l’irragionevolezza della motivazione addotta, l’inadeguatezza dell’istruttoria, la disparità di trattamento e via dicendo». Nel proseguire il ragionamento la Corte precisa, tuttavia, che ciò «non esclude che il medesimo giudice si valga, per accertare una violazione di norme di legge, di tutti gli strumenti ermeneutici coessenziali alla sua funzione. La dizione “violazione di norma di legge”, insomma, se, nell’alludere alla tripartizione classica dei vizi dell’atto amministrativo, pare impedire la rilevanza penale del merito amministrativo nonché del vizio di eccesso di potere, non circoscrive però al solo tenore letterale, logico o sistematico della disposizione di riferimento il contrasto tra quanto posto in essere e la legge». Se ne deriva che «tale dizione implica che la violazione possa riguardare anche l’elemento teleologico della norma e possa valutarsi anche sotto il profilo finalistico», per cui, «se l’infedeltà allo specifico fine indicato dal legislatore si realizza con “svolgimenti della funzione o del servizio” che trasmodano da ogni possibile opzione che è stata commessa al pubblico ufficiale per realizzare tale fine, è del tutto corretto da parte del giudice penale concludere che nella specie la norma di legge è stata violata» (Sez. VI, 10/12/2001, n. 1229). L’orientamento è confermato da numerose altre sentenze della stessa sesta Sezione. Nel 2005, infatti, si afferma che «Il reato di abuso di ufficio connotato da violazione di legge è configurabile anche in caso di sviamento di potere, cioè quando il comportamento dell’agente, pur formalmente corrispondente alla norma 19 che regola l’esercizio dei suoi poteri, è tenuto in assenza delle ragioni d’ufficio che lo legittimerebbero e produce intenzionalmente un danno alla persona offesa» (Sez. VI, 11/3/2005, n. 12196 – Fattispecie relativa a procedure di identificazione, ispezione e fotosegnalazione condotte da agenti di polizia senza reale necessità ed a ritenuti fini di vessazione). Quest’ultima affermazione viene più volte ribadita successivamente. Nel 2006: «Il reato di abuso di ufficio, connotato da violazione di norme di legge o di regolamento, è configurabile non solo quando la condotta tenuta dall’agente sia in contrasto con il significato letterale, logico o sistematico della disposizione di riferimento, ma anche quando la stessa contraddica lo specifico fine perseguito dalla norma, concretandosi in uno “svolgimento della funzione o del servizio” che oltrepassa ogni possibile opzione attribuita al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio per realizzare tale fine» (Sez. VI, 18/10/2006, n. 38965 – In applicazione di tale principio, la Corte ha ritenuto configurabile il suddetto reato in capo ai pubblici amministratori addetti al controllo di una fondazione ex art. 25 cod. civ., allorquando il potere loro affidato per assicurare l’aderenza dell’operato dell’ente alle finalità previste dall’atto costitutivo sia esercitato in modo da ignorare tali obiettivi e al solo fine di procacciare vantaggi patrimoniali agli amministratori). Nel 2009: «Il delitto di abuso d’ufficio è configurabile non solo quando la condotta si ponga in contrasto con il significato letterale, o logico-sistematico di una norma di legge o di regolamento, ma anche quando la stessa contraddica lo specifico fine perseguito dalla norma, concretandosi in uno “svolgimento della funzione o del servizio” che oltrepassa ogni possibile scelta discrezionale attribuita al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio per realizzare tale fine» (Sez. VI, 25/9/2009, n. 41402 – In applicazione di tale principio, la S.C. ha ravvisato il predetto reato in relazione alla illegittima composizione numerica delle commissioni permanenti di lavoro formate dal presidente e dai consiglieri di una circoscrizione comunale in violazione dell’art. 39, comma quarto, del regolamento comunale sul decentramento amministrativo, in modo da ottenere la liquidazione di un maggior numero di gettoni di presenza alle sedute delle relative commissioni). Nel 2011: «Il delitto di abuso d’ufficio è configurabile non solo quando la condotta si ponga in contrasto con il significato letterale, o logico-sistematico di una norma di legge o di regolamento, ma anche quando la stessa contraddica lo 20 specifico fine perseguito dalla norma attributiva del potere esercitato, per realizzare uno scopo personale od egoistico, o comunque estraneo alla P.A., concretandosi in uno “sviamento” produttivo di una lesione dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice» (Sez. VI, 5/7/2011, n. 35597 – Fattispecie in cui un carabiniere aveva imposto a delle cittadine extracomunitarie l’obbligo di esibizione dei documenti di soggiorno, ingiungendo loro di attendere l’arrivo di una pattuglia dei carabinieri esclusivamente per finalità ritorsive e vessatorie). Nel corso dello stesso anno, poi, l’orientamento trova definitiva affermazione in una sentenza delle Sezioni Unite: «Ai fini della configurabilità del reato di abuso d’ufficio, sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l’attribuzione». La Corte spiega che «Per qualsivoglia pubblica funzione autoritativa, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo pubblico in funzione del quale è attribuita la potestà, che del potere costituisce la condizione intrinseca di legalità», ricordando che «Secondo la giurisprudenza nettamente prevalente di questa Corte, si ha pertanto violazione di legge, rilevante a norma dell’art. 323 c.p., non solo quando la condotta di un qualsivoglia pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che legittimano lo stesso esercizio del potere (profilo dell’attribuzione), ciò avendosi quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito», e concludendo che «Anche in questa ipotesi si realizza un vizio della funzione legale, che è denominato sviamento di potere e che integra violazione di legge perché sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l’attribuzione (in termini analoghi, tra le tante, Sez. 6, n. 5820 del 09/02/1998, Mannucci, Rv. 211110; Sez. 6, n. 28389 del 19/05/2004, Vetrella, Rv. 229594; Sez. 6, n. 12196 dell’11/03/2005, Delle Monache, Rv. 231194; Sez. 6, n. 38965 del 18/10/2006, Fiori, Rv. 235277; Sez. 6, n. 41402 del 25/09/2009, D’Agostino, Rv. 245287; Sez. 5, n. 35501 del 16/06/2010, De Luca, 21 Rv. 248496; Sez. 6, n. 35597 del 05/07/2011, Barbera)» (Sez. Un., 29/9/2011, n. 155 – Fattispecie relativa alla omessa riunione di trentacinque procedure esecutive complessivamente identiche quanto ai soggetti ed all’oggetto, in ciascuna delle quali partecipavano in forma di intervento le medesime trentacinque associazioni pignoranti, con conseguente abnorme lievitazione delle spese processuali liquidate dal Giudice dell’esecuzione in favore delle associazioni creditrici facenti capo al coimputato, che agiva in proprio, quale difensore, e a nome delle predette associazioni di cui era rappresentante e titolare). Come è ovvio, l’orientamento viene confermato anche successivamente. Nel 2012: «Ai fini della configurabilità del reato di abuso d’ufficio, sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, configurandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l’attribuzione» (Sez. VI, 16/10/2012, n. 42182 – Fattispecie relativa alla condanna di quattro agenti di polizia per quanto accaduto in seguito ad un controllo eseguito con modalità violente). B) Il secondo filone rinvenibile nella giurisprudenza della Cassazione si caratterizza per affermare che il giudice penale, ai fini dell’accertamento della «violazione di norme di legge o di regolamento», possa rilevare la illegittimità dell’atto amministrativo ricavandola anche dal vizio di eccesso di potere per figure sintomatiche, e segnatamente dalla violazione del principio di imparzialità ex art. 97 Cost.. La stessa sesta Sezione, infatti, nel 2011 sostiene che «In tema di abuso d’ufficio, il requisito della violazione di norme di legge può essere integrato anche solo dall’inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della P.A., per la parte in cui esprime il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi che impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione» (Sez. VI, 17/2/2011, n. 27453). Poi, ancor più chiaramente, in due sentenze del giugno 2012, secondo la prima delle quali «il legislatore della novella non ha inteso limitare la portata applicativa dell’art. 323 c.p. ai casi di violazione di legge in senso stretto, avendo voluto far rientrare anche le altre situazioni che integrano un vizio dell’atto ammini- 22 strativo: dunque, anche le ipotesi di eccesso di potere, configurabili laddove vi sia stata oggettiva distorsione dell’atto dal fine di interesse pubblico che avrebbe dovuto soddisfare; e quelle di sviamento di potere, riconoscibili se il potere pubblico è stato esercitato al di fuori dello schema che ne legittima l’attribuzione». Nella stessa pronuncia significativamente si afferma che «il requisito della violazione di norme di legge ben può essere integrato anche solo dall’inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della Pubblica Amministrazione, per la parte in cui esprime il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi ed impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione. Anche nell’art. 97 Cost. “che pur detta principi di natura programmatica”, è individuabile un residuale significato precettivo relativo all’imparzialità dell’azione amministrativa e, quindi, un parametro di riferimento per il reato di abuso d’ufficio». Fino ad affermarsi espressamente (ma – va evidenziato – non senza una qualche imprecisione tecnica, giacché si mostra di confondere il principio di imparzialità con quello di uguaglianza formale di cui all’art. 3, co. 2, Cost.) che «L’imparzialità a cui fa riferimento l’art. 97 Cost. consiste, infatti, nel divieto di favoritismi, nell’obbligo cioè per la Pubblica Amministrazione di trattare tutti i soggetti portatori di interessi tutelati alla stessa maniera, conformando logicamente i criteri oggettivi di valutazione alle differenziate posizioni soggettive. In sostanza, il principio d’imparzialità, se riferito all’aspetto organizzativo della Pubblica Amministrazione, ha certamente una portata programmatica e non rileva ai fini della configurabilità del reato di abuso d’ufficio, in quanto detto principio generale deve necessariamente essere mediato dalla legge di attuazione; lo stesso principio, invece, se riferito all’attività concreta della Pubblica Amministrazione, che ha l’obbligo di non porre in essere favoritismi e di non privilegiare situazioni personali che confliggono con l’interesse generale della collettività, assume i caratteri e i contenuti precettivi richiesti dall’art. 323 c.p., in quanto impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione” (così Sez. 6, n. 27453 del 17/02/2011, Acquistucci, Rv. 250422; conf. Sez. 2, n. 35048 del 10/06/2008, Masucci, Rv. 243183; Sez. 6, n. 25162 del 12/2/2008, Sassara, Rv. 239892)» (Sez. VI, 12/6/2012, n. 25180). A distanza di un paio di giorni, la medesima Sezione afferma nuovamente che «In tema di abuso di ufficio, il requisito della violazione di legge può consiste- 23 re anche nella inosservanza dell’art. 97 della Costituzione, nella parte immediatamente precettiva che impone ad ogni pubblico funzionario, nell’esercizio delle sue funzioni, di non usare il potere che la legge gli conferisce per compiere deliberati favoritismi e procurare ingiusti vantaggi ovvero per realizzare intenzionali vessazioni o discriminazioni e procurare ingiusti danni» (Sez. VI, 14/6/2012, n. 41215). Fino alla più recente pronuncia del 2013, con la quale, dopo aver ripetuto che «il legislatore della novella non ha inteso limitare la portata applicativa dell’art. 323 c.p. ai casi di violazione di legge in senso stretto, avendo voluto far rientrare anche le altre situazioni che integrano un vizio dell’atto amministrativo: dunque, anche le ipotesi di eccesso di potere, configurabili laddove vi sia stata oggettiva distorsione dell’atto dal fine di interesse pubblico che avrebbe dovuto soddisfare; e quelle di sviamento di potere, riconoscibili se il potere pubblico è stato esercitato al di fuori dello schema che ne legittima l’attribuzione (in questo senso Sez. U, n. 155 del 29/09/2011, Rossi, Rv. 251498)», la Sezione ribadisce a chiare lettere che «il requisito della violazione di norme di legge ben può essere integrato anche solo dall’inosservanza del principio costituzionale di imparzialità della Pubblica Amministrazione, per la parte in cui esprime il divieto di ingiustificate preferenze o di favoritismi ed impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione. Anche nell’art. 97 Cost., “che pur detta principi di natura programmatica, è individuabile un residuale significato precettivo relativo all’imparzialità dell’azione amministrativa e, quindi, un parametro di riferimento per il reato di abuso d’ufficio». Confermando di accogliere un’accezione della imparzialità che non appare condivisibile: «L’imparzialità a cui fa riferimento l’art. 97 Cost. consiste, infatti, nel divieto di favoritismi, nell’obbligo cioè per la Pubblica Amministrazione di trattare tutti i soggetti portatori di interessi tutelati alla stessa maniera, conformando logicamente i criteri oggettivi di valutazione alle differenziate posizioni soggettive. In sostanza, il principio d’imparzialità, se riferito all’aspetto organizzativo della Pubblica Amministrazione, ha certamente una portata programmatica e non rileva ai fini della configurabilità del reato di abuso d’ufficio, in quanto detto principio generale deve necessariamente essere mediato dalla legge di attuazione; lo stesso principio, invece, se riferito all’attività concreta della Pubblica Amministrazione, che ha l’obbligo di non porre in essere favoritismi e di non privilegiare situazioni 24 personali che confliggono con l’interesse generale della collettività, assume i caratteri e i contenuti precettivi richiesti dall’art. 323 c.p., in quanto impone al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio una precisa regola di comportamento di immediata applicazione” (così, tra le molte, Sez. 6, n. 25180 del 12/06/2012, D’Emma, Rv. 253118; Sez. 6, n. 27453 del 17/02/2011, Acquistucci, Rv. 250422; Sez. 2, n. 35048 de. 10/06/2008, Masucci, Rv. 243183; Sez. 6, n. 25162 del 12/2/2008, Sassara, Rv. 239892)» (Sez. VI, 26/6/2013, n. 34086). C) Il terzo filone sembra in qualche modo contraddire il secondo: con queste sentenze, invero, la Cassazione pare proprio escludere che il giudice penale, ai fini dell’accertamento della «violazione di norme di legge o di regolamento», necessario perché sia sussistente il reato di cui all’art. 323 C.P., possa rilevare la illegittimità dell’atto amministrativo anche mediante il sindacato sull’eccesso di potere attraverso le figure sintomatiche, ovvero sulla violazione del principio di imparzialità ex art. 97 Cost. In una più risalente sentenza della terza Sezione, la Corte aveva affermato addirittura che «In tema di abuso d’ufficio, l’art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234, che ha sostituito l’art. 323 cod. pen., ha ancorato la configurabilità della condotta materiale alla violazione di leggi o di regolamenti, così da circoscrivere univocamente in ambiti definiti i presupposti del comportamento punibile. Ne consegue che, mentre nel sistema previgente, nel silenzio della legge assumevano rilievo, ove la condotta si fosse estrinsecata nell’adozione di provvedimenti amministrativi illegittimi, sia l’incompetenza, sia l’eccesso di potere, sia la violazione di legge, nell’attuale sistema ai fini della condotta di abuso rilevano soltanto la violazione di norme di legge o di regolamento e l’inosservanza del dovere di astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti (quindi, al di là della violazione di leggi o di regolamenti ora vigenti)» (Sez. III, 1/9/1999, n. 11831). Successivamente la sesta Sezione ha chiarito, meno drasticamente, che «Non è configurabile il reato di abuso di ufficio in presenza di un mero addebito di “eccesso di potere”» (Sez. VI, 16/12/2002, n. 1761 – In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto insussistente l’ipotesi delittuosa a carico del capo di un ente pubblico economico il quale, non potendo stipulare contratti di lavoro a tempo indeterminato, si era avvalso dei rinnovi di contratti di lavoro a tempo determinato, 25 condotta sintomatica, sotto il profilo amministrativistico, del vizio di “eccesso di potere”). E poi che «Non è idonea a rendere configurabile la violazione di legge rilevante ai fini dell’integrazione del delitto di abuso d’ufficio la sola inosservanza di norme di principio o di quelle genericamente strumentali alla regolarità dell’azione amministrativa» (Sez. VI, 11/10/2005, n. 12769 – Nella specie, in applicazione di tale principio, la Corte, in un caso in cui all’imputato erano stati contestati i reati di falso e di abuso d’ufficio per avere alterato la copia di una circolare al fine di danneggiare un dipendente, ha escluso che, una volta ritenuta l’insussistenza del primo di detti reati, potesse affermarsi la sussistenza del secondo, con riferimento alla dedotta violazione, in particolare, dell’art. 97 Cost.). E ancora, richiamando un arresto della seconda Sezione, che «“A seguito della nuova formulazione della fattispecie di abuso di ufficio ad opera della L. 16 luglio 1997, n. 234, che ha novellato l’art. 323 c.p., il reato in questione non può configurarsi se non in presenza di una ‘violazione di norma di legge o di regolamento’ (ovvero di una omissione del dovere di astenersi ricorrendo un interesse proprio dell’agente o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti). Ne consegue che è stata espunta dall’area della rilevanza penale ogni ipotesi di abuso di poteri o di funzioni non concretantesi nella formale violazione di norme legislative o regolamentari o del dovere di astensione, negandosi al giudice penale la possibilità di invadere l’ambito della discrezionalità amministrativa che il legislatore ha ritenuto, anche per esigenze di certezza del precetto penale, di sottrarre a tale sindacato” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 37515 del 29/04/2004 Ud. (dep. 23/09/2004) Rv. 229715; Corsi)» (Sez. VI, 30/5/2007, n. 26633). Nello stesso anno, poco dopo, la terza Sezione della Corte così si esprime: «la giurisprudenza prevalente ha ritenuto che gli atti amministrativi che rimuovono un ostacolo al libero esercizio dei diritti (nulla osta, autorizzazioni) o che costituiscono diritti in capo a soggetti privati (concessioni), se illegittimi, non possono essere disapplicati dal giudice penale a meno che la disapplicazione non trovi fondamento in una esplicita previsione legislativa ovvero nel generale potere del giudice di interpretare la norma penale nei casi in cui l’illegittimità dell’atto amministrativo si configuri essa stessa come elemento essenziale della fattispecie penale (Sez. Un., 31 gennaio 1987, n. 3, Giordano, n. 176304 e 175115), ovvero quando l’atto amministrativo, per essere frutto di collusione tra amministratori e soggetti 26 interessati, non possa essere oggettivamente riferito alla sfera del lecito giuridico (Sez. 3, 18 novembre 1987, n. 673/88, Forlani, m. 177439), o quando sia privo di uno dei suoi requisiti essenziali (forma, volontà, contenuto), oppure provenga da organo assolutamente privo del potere di adottarlo, o sia frutto di attività criminosa del titolare del potere, mentre per tali atti la disapplicazione non è consentita quando sia viziato il procedimento amministrativo che ha preceduto il provvedimento, e cioè il modo in cui il potere è stato esercitato, giacché in tal caso il difetto non attiene all’esistenza dell’atto finale, ma alla legittimità del complessivo comportamento tenuto dall’autorità (Sez. 6, 31 agosto 1995, n. 2378, Barillaro, n. 202581)». E, dopo aver ricordato che «Alcune decisioni, poi, hanno sostenuto in genere che l’illegittimità dell’atto amministrativo può essere sindacata in via incidentale dal giudice penale solo se sia “macroscopica” (ex plurimis Sez. 3, 24 gennaio 1996, n. 4421, Oberto, n. 204885) o “eclatante” (Sez. 3, 23 dicembre 1997, n. 11988, Controzzi, n. 209194). In ogni caso, anche quelle pronunce che sostengono la sindacabilità della illegittimità (oltre che della illiceità) degli atti amministrativi escludono, in modo espresso o tacito, che il giudice penale possa sindacare il merito amministrativo del provvedimento», conclude che «stante la mancata indicazione dello specifico vizio che renderebbe l’atto illegittimo, effettivamente sorge il sospetto che in realtà i giudici del merito abbiano sindacato la correttezza e completezza del procedimento seguito o abbiano ritenuto un vizio più attinente al merito, ossia ai profili discrezionali e valutativi della opportunità, della completezza istruttoria e della ponderazione degli interessi coinvolti, che non ad aspetti di mera legittimità del provvedimento» (Sez. III, 6/6/2007, n. 34899). Da ultimo si deve menzionare una pronuncia del 2009 nella quale, risolutamente, si afferma che «In tema di abuso d’ufficio, il requisito della violazione di norme di legge non può essere integrato dall’inosservanza delle norme di principio poste dall’art. 97 Cost.» (Sez. VI, 18/2/2009, n. 13097 – Fattispecie relativa a favoritismi nell’assunzione di dipendenti di una società di natura privata): con il che la Corte – com’è di tutta evidenza – manifesta una certa qual contraddittorietà rispetto alle conclusioni cui perviene in altre circostanze (ne abbiamo riferito) con riguardo alla verifica del rispetto del principio di imparzialità. 6. Conclusioni 27 Sembra doversi concludere, allora, che se, da un canto, appare pienamente condivisibile ricomprendere sotto la dizione «in violazione di norme di legge o di regolamento» di cui all’art. 323 tutte le ipotesi in cui l’atto amministrativo sia illegittimo, e cioè non conforme alla legge, e dunque, non solo quelle in cui si realizza una ‘mera’ violazione di legge, ma anche quelle in cui si realizza una incompetenza ed uno sviamento di potere. D’altro canto, resta fortemente dubbioso che si possa dire altrettanto per le ipotesi in cui la illegittimità derivi da un eccesso di potere rilevabile dalla sussistenza di figure sintomatiche, e segnatamente dalla violazione dell’art. 97 Cost. Ed invero – lo abbiamo chiarito – in tali ipotesi, pur senza entrare nel merito, si tratta pur sempre di sindacare sul merito della scelta amministrativa, sebbene soltanto allo scopo di rilevare una eventuale illegittimità del suo esercizio (qual è, nella massima estensione possibile del sindacato del G.A., la manifesta irragionevolezza dello svolgimento procedimentale e/o del contenuto provvedimentale). Questo significherebbe rimettere al G.P. uno spazio di ‘manovra’ su un oggetto – la procedura di valutazione e composizione degli interessi in gioco al fine di realizzare l’interesse pubblico – la competenza a giudicare sul quale richiede una peculiare cultura giuridica che non sembra essere nel suo tradizionale patrimonio di conoscenze; un oggetto che, per la sua estrema rilevanza nei delicati equilibri fra i poteri (controlli e bilanciamenti reciproci), sembra preferibile restargli sottratto. La conclusione del ragionamento volto a delineare il confine fra illegittimità amministrativa ed illecito penale nell’esercizio delle attività discrezionali della P.A., pertanto, può rassegnarsi con le parole di una, non recentissima ma assai pertinente, decisione del Consiglio di Stato (Sez. IV,16/10/1998, n. 1306), secondo cui «in relazione agli atti amministrativi può parlarsi di illegittimità, ma non di illiceità: quest’ultima attiene ai comportamenti umani, e ove in esecuzione di una attività illecita vengano posti in essere atti amministrativi, questi sono pur sempre illegittimi, sotto il profilo dell’eccesso di potere per sviamento, vale a dire del cattivo uso del potere pubblico». Ciò che sembra sovvertire la logica: mentre, ove risulti provato l’abuso, si può inferire la sussistenza di un eccesso di potere; viceversa, ove pure sia rinvenibile un eccesso di potere, non è affatto detto che sussista anche un abuso, e anzi, in via fisiologica, e ‘virtuosamente’, dovrebbe ritenersi che non sussista. 28